Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri
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Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri
Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri, misure di prevenzione, confisca) ed i processi esecutivi individuali/concorsuali: esigenze di tutela dei terzi Sommario: 1. Premessa – 2. Verifica – 2.1 Generalità del procedimento di verifica e rapporti tra fallimento e procedimento di prevenzione – 2.2 Crediti a termine, condizionati, con documentazione insufficiente o risultanti da sentenza non passata in giudicato – 2.3 Credito risultante da sentenza - 2.4 Credito erariale e credito di natura extracontrattuale - 2.5 Titolari di diritti reali o personali - 2.6 Buona fede - 2.7 Data certa - 3. Amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati - 3.1 Premessa - 3.2 Stima dei beni e contestazioni di parte - 3.3 Assistenza legale alla procedura - 3.4 Potere di direzione del giudice delegato - 4. Cenni sulla liquidazione dei beni sequestrati o confiscati preordinata al soddisfacimento dei crediti anteriori alla misura di prevenzione - 5. Profili ordinamentali 1. Premessa Il codice delle leggi antimafia (D.Lgs. 6 settembre 2011 n. 159, in G.U. 28.09.11, n. 226 e in vigore dal 13 ottobre 2011) si propone di conferire organicità ad una legislazione che, specie negli ultimi anni, è stata interessata da innumerevoli interventi normativi, spesso sollecitati da un fecondo dialogo tra politica, giurisdizione e società civile. Nel corso degli ultimi anni, si è avvertita in modo sempre più diffuso la consapevolezza della pericolosità delle organizzazioni criminali e della necessità di contrastarle, anche e soprattutto, sotto il profilo della ricchezza illecitamente accumulata: è eloquente la decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 6 ottobre 2006, in cui si rinviene l’affermazione che “un’efficace azione di prevenzione e lotta contro la criminalità organizzata deve concentrarsi sul rintracciamento, il congelamento, il sequestro e la confisca dei proventi di reato”. Il legislatore ha gradualmente accolto l’esperienza degli ordinamenti di common law. In particolare, negli Stati Uniti d’America la confisca in rem è l’esito di un procedimento giurisdizionale ma è diretto contro la “tainted property” (cioè la proprietà contaminata); il ricorso alla fictio iuris della “colpevolezza del bene” consente di attenuare l’evidenza probatoria, essendo bastevole la “probable cause” 1. In Italia, tra i molteplici interventi diretti ad utilizzare in modo sempre più efficace la leva del contrasto alla proprietà illecita o illecitamente conseguita si possono annoverare l’abbandono della pregiudizialità soggettiva (per cui la misura di prevenzione patrimoniale poteva essere applicata solo subordinatamente e in via accessoria a quella personale) e la possibilità di far ricorso alla misura di prevenzione patrimoniale anche in caso di morte del proposto 2. Lasciando gli aspetti penalistici agli esperti del settore, ciò che va osservato è che l’intervento sempre più deciso del legislatore nel campo dei diritti patrimoniali non poteva non comportare una serie di sovrapposizioni o interferenze con la branca dell’ordinamento giuridico che di questi si occupa, e cioè il diritto civile in tutte le sue articolazioni (diritti reali, diritto dei contratti, diritto societario, diritto fallimentare). * L’elaborato costituisce lo sviluppo della relazione tenuta all’incontro di studi del 23 gennaio 2012 organizzato dall’Ufficio Referenti per la formazione decentrata dei magistrati del distretto di Milano – settore penale 1 Maugeri A.M., I modelli di sanzione patrimoniale nel diritto comparato, in http://appinter.csm.it/incontri/relaz/17300.pdf, 131 2 Mazzarese S. e Aiello A., Interdisciplinarietà e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, Giuffrè, 2010, p. 10 Il legislatore si è proposto di risolvere definitivamente le innumerevoli questioni sorte in giurisprudenza, riguardanti in particolare la tutela dei diritti dei terzi, e cioè dei titolari di diritti di godimento o di comproprietà sui beni oggetto di confisca, o di coloro che su questi beni vantano la pretesa di soddisfare i propri crediti, (siano essi chirografari o assistiti da cause di prelazione). Nel tentativo di apprestare una compiuta regolamentazione il Codice non poteva non affrontare temi (quali l’amministrazione, la gestione, la liquidazione dei beni sottoposti a misure di prevenzione) che hanno indubbie affinità con le problematiche da decenni studiate dai fallimentaristi e, più di recente, dai giudici dell’esecuzione immobiliare. Col presente scritto (che costituisce lo sviluppo di quello contenuto in una recente opera collettanea 3) ci si propone di comparare le norme di diritto positivo contenute nel Codice delle leggi antimafia a quelle, omologhe, presenti nel libro III del codice di rito e nella legge fallimentare, al fine di verificare le dimensioni della “fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia” 4. Conviene però sin da subito richiamare l’attenzione del lettore su alcune considerazioni, la cui portata verrà ripresa nell’analisi delle singole norme. In primo luogo, è indubbia l’ambizione del Codice antimafia a fornire all’amministratore giudiziario dei beni oggetto del sequestro o confisca di prevenzione uno statuto autonomo, cioè un corpus di regole proprie, che tengano conto delle specificità dell’amministrazione, della gestione e della liquidazione dei beni colpiti dalla sanzione. L’obiettivo si può ritenere realizzato con una certa organicità e compiutezza, per quanto riguarda gli aspetti più prossimi alla procedura fallimentare (nomina, poteri di gestione, integrazione da parte dell’autorità giudiziaria dei poteri gestori, rendiconto, rimedi impugnatori avverso i provvedimenti di amministrazione, compenso, riparto, ecc.); in tutti questi casi, la linea è chiara e consiste non in un mero richiamo dell’attuale legge fallimentare, ma in una serie di norme che in più punti riecheggiano le disposizioni precedenti alla riforma di cui al D. Lgs. 5/06. Ovviamente, non mancano le lacune (che verranno esaminate di seguito) che sollevano problemi interpretativi e porranno ricorrenti dubbi sull’ammissibilità del ricorso all’analogia, ma l’obiettivo di un sistema compiuto può dirsi conseguito, perché i vuoti normativi (ove esistenti) riguardano solo aspetti specifici. Invece, in altri casi la lacunosità della disciplina è solo il meno grave dei difetti; il legislatore, infatti, ha scelto di non tener conto di norme che in settori affini hanno dimostrato da tempo la loro razionalità ed efficacia; il pensiero corre alla disposizioni in tema di liquidazione di beni immobili nell’esecuzione forzata, al regime fiscale dell’amministrazione giudiziaria, ai diritti esercitabili dall’amministratore quando il sequestro ha ad oggetto partecipazioni societarie. In tutti questi casi, l’impressione è che sarebbe stata molto più utile una norma di richiamo, rispettivamente, alle disposizioni in tema di espropriazione immobiliare, alle norme fiscali che disciplinano la posizione del curatore e alle disposizioni in tema di diritti del socio (indipendentemente dalla sedes materiae, che può essere costituita non solo dal codice civile, ma anche dalla legge Draghi di cui al d. lgs. 24 febbraio 1998 n. 58). Va inoltre osservato che il Codice antimafia conferma un atteggiamento ondivago del legislatore degli ultimi anni; infatti, tra il 2005 e il 2011 da un lato è stato notevolmente depotenziato il ruolo del giudice delegato, e dall’altro si è però rafforzata la posizione del giudice dell’esecuzione immobiliare (a cui sono stati conferiti penetranti poteri di gestione attiva del compendio pignorato). Per le misure di prevenzione, si è scelto di affidare al tribunale penale poteri e centralità che erano tipici del tribunale fallimentare e del giudice delegato, nell’assetto dei rapporti tra gli organi del fallimento esistente prima della riforma del 2006. D’altra parte, una volta imboccata la strada della “fallimentarizzazione”, era necessario ripudiare la scelta quasi ideologica della privatizzazione del diritto concorsuale (che ha caratterizzato la riforma introdotta con il più volte menzionato D. Lgs. 5/06). Infatti, nel settore 3 4 Minutoli G., a cura di, Crisi di impresa ed economia criminale, Ipsoa, 2011, 129-174 Minutoli G., Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, Fall., 2011, 11, p. 1271 delle misure di prevenzione non sono in alcun modo invocabili le ragioni che hanno indotto il legislatore a ribaltare l’assetto dei poteri e dei rapporti tra i vari organi della procedura fallimentare, valorizzando la posizione del curatore e del comitato dei creditori, in ossequio ad una concezione privatistica della procedura fallimentare 5, impostazione che – come è noto - ha comportato la più o meno marcata marginalizzazione del giudice delegato (secondo alcuni, addirittura, relegandolo ad un ruolo di mero controllore della legalità del procedimento 6). Inoltre, la scelta verso la fallimentarizzazione delle misure di prevenzione sembra scontare in alcuni punti (che verranno esaminati in seguito) alcune differenze ineliminabili tra le due procedure. Infatti, mentre il fallimento è caratterizzato indubbiamente dalla universalità e dalla qualità di imprenditore del soggetto che vi è sottoposto, la misura di prevenzione invece – di norma – non coinvolge necessariamente tutti i beni del soggetto né richiede che questi svolga un’attività economica organizzata. Ancora va osservato che la sentenza di fallimento ha un contenuto elastico 7, perché capace di assorbire beni non individuati al momento dell’apertura della procedura nonché beni che entrano nel patrimonio del fallito in un momento successivo, secondo la teoria dell’acquisizione automatica; invece, la misura di prevenzione è, sotto questo aspetto, molto più simile ad un pignoramento, perché entrambi i vincoli hanno ad oggetto solo beni specificamente individuati. Un ulteriore e fondamentale elemento differenziale è rappresentato dal fatto che il fallimento paralizza l’attività dell’impresa, assoggettando al vincolo dell’indisponibilità tutto il patrimonio dell’imprenditore, nel quale ovviamente si ricomprendono non solo beni (e cioè,secondo la definizione contenuta nell’art. 810 c.c., cose che possono formare oggetto di diritti) ma anche rapporti giuridici, ancorchè aventi ad oggetto beni. Un fondamentale punto di contatto è invece configurabile nella cristallizzazione del patrimonio a favore dei creditori anteriori: l’art. 52 del Codice, infatti, stabilisce il principio che “la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro”, ponendo quindi una regola di destinazione dei beni all’esclusivo soddisfacimento dei creditori anteriori al sequestro, che nel campo del diritto civile è tipica della procedura fallimentare (artt. 42-44-52 LF) ma non della procedura esecutiva individuale, in cui può spiegare intervento anche colui che è titolare di un credito sorto dopo il pignoramento. Un altro elemento comune è certamente lo “spossessamento”, che in materia fallimentare si desume generalmente dall’art. 42 LF, che priva il fallito dei poteri di amministrazione e disponibilità dei beni acquisiti all’attivo. Il termine ha ricevuto varie critiche da parte di coloro che hanno voluto evidenziare che il riferimento al possesso è idoneo a contraddistinguere non gli effetti prettamente giuridici del fallimento sul fallito, ma il successivo momento della materiale apprensione dei beni da parte degli organi fallimentari 8. Nel procedimento di prevenzione l’attribuzione all’amministratore giudiziario dei compiti di amministrazione è contemplata dall’art. 35 comma 5 del Codice. Per quanto riguarda, poi, la disponibilità materiale dei beni sequestrati, il legislatore ha disciplinato in maniera molto più efficace (rispetto alle scarne previsioni contenute negli artt. 87 e 88 LF) le modalità di esecuzione del sequestro. L’art. 21 del Codice, infatti, richiama le formalità prescritte dall’art. 104 disp. att. cpp che, in tema di sequestro preventivo penale, prevede procedimenti differenziati per ciascuna categoria di beni, ma sostanzialmente replicando le previsioni già contenute nel codice di procedura civile. Aggiunge, però, il legislatore delle misure di prevenzione alcune previsioni dirette ad assicurare 5 Pasi F., Il giudice delegato, in Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia G. e Panzani L., Utet, 2009, 1, p. 286. 6 G. Schiavon, Il nuovo diritto fallimentare, Zanichelli, 2009 7 De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1986, p. 3 8 Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, cap. X, p. 2 l’effettiva apprensione materiale dei beni sequestrati, prevedendo che l’ufficiale giudiziario sia obbligatoriamente assistito dalla polizia giudiziaria; l’immissione dell’amministratore nel possesso dei beni, anche se gravati da diritti reali o personali di godimento; l’ordine di sgombero degli immobili, se occupati senza titolo o sulla scorta di titolo privo di data certa anteriore al sequestro. In definitiva, i punti di contatto e le molteplici divergenze tra processo fallimentare e procedimento di prevenzione daranno linfa a vivaci dibattiti, specie sui limiti del ricorso all’applicazione analogica. Ma, oltre all’individuazione delle norme da utilizzare per colmare le lacune, ai penalisti sarà richiesto uno sforzo culturale di non poco momento perché dovranno applicare concetti ed istituti del tutto estranei alla cultura penalistica (buona fede, data certa, opposizione allo stato passivo, ecc.). Questo processo di osmosi sarà certamente reso problematico dalle intrinseche differenze tra i due procedimenti, che perseguono obiettivi a volte antitetici (tutela dei creditori, per quanto riguarda il fallimento; contrasto alla criminalità organizzata e finalità politico-sociali, per la misura di prevenzione). In prosieguo, si vedrà in quale misura queste osservazioni corrispondono al vero, cercando di evidenziare le questioni più problematiche di alcuni settori in cui maggiormente si evidenziano i punti di contatto o interferenza tra le due discipline, e cioè: - verifica del passivo - amministrazione dell’attivo - liquidazione dell’attivo. 1. Verifica: 1.1 Generalità del procedimento di verifica e rapporti tra fallimento e procedimento di prevenzione: Il sistema che il Codice ha delineato con riguardo al tema della verifica dei crediti può essere così riassunto. Al fine di evitare la precostituzione di creditori di comodo (ratio che ha sempre influito, in maniera determinante, sulle decisioni in materia di tutela dei terzi coinvolti dalle misure di prevenzione), il legislatore ha introdotto l’obbligo per tutti i creditori di proporre la domanda di ammissione del proprio credito. I requisiti per l’ammissione, previsti dettagliatamente dall’art. 52, saranno esaminati di seguito. In questa sede, va osservato che è prevista una riserva a favore del giudice delegato del procedimento della misura di prevenzione. Si tratta di una sorta di replica del principio di esclusività del giudizio di verificazione del passivo, che in materia fallimentare è previsto dall’art. 52 LF; il principio della concorsualità dell’esecuzione richiede infatti che anche l’accertamento dei diritti di credito avvenga in un unico contesto 9. Il concorso fallimentare richiede la organizzazione di una procedura che rende possibile attuare la regola civilistica della par condicio creditorum, prevista dall’art. 2741 c.c. Nel diritto fallimentare, l’esclusività della verifica del passivo è anche denominata concorso formale; costituisce il completamento del principio del concorso sostanziale, previsto dall’art. 51 LF e che a sua volta si risolve nel divieto di proseguire o promuovere le esecuzioni individuali (art. 51 LF) 10. E a tal proposito non va trascurato che anche il Codice antimafia prevede una norma analoga a quella contenuta nell’art. 51 LF, perché all’art. 55 vieta al creditore particolare di iniziare o proseguire l’esecuzione (senza, peraltro, ammettere alcuna eccezione, neanche per il creditore di mutuo fondiario). 9 Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, Artt. 51-63, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1988, p. 48 10 Ferro M., Le insinuazioni al passivo, Tomo III, Voci, Cedam, 2010, p. 501 E’ stato acutamente osservato che il Codice antimafia ha “calato un procedimento proprio di una procedura concorsuale in un contesto che concorsuale non è, con tutte le conseguenti criticità” 11. Si cercherà in seguito di evidenziare qualche questione aperta. Va però osservato sin d’ora che nel fallimento il principio di esclusività del giudizio di verificazione del passivo ha carattere assoluto ed inderogabile 12. Invece, nella materia delle misure di prevenzione è prevista una significativa eccezione. Infatti, se il proposto è stato dichiarato fallito, la verifica va effettuata (non dal giudice delegato della misura, bensì) dal giudice delegato del fallimento. Questa sorta di “delega” ex lege dall’autorità giudiziaria penale a quella civile è prevista in entrambi i casi ipotizzabili. Se, infatti, il fallimento viene dichiarato dopo l’esecuzione del sequestro, l’art. 63 comma 5 dispone che “il giudice delegato al fallimento provvede all’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi”. L’ipotesi in cui, invece, il fallimento precede il sequestro è disciplinata dall’art. 64 (commi 2 e 3), che ha riguardo al caso in cui la verifica sia già stata effettuata dal giudice delegato del fallimento e dispone la rinnovazione dell’attività. Il giudice delegato del procedimento di prevenzione deve quindi svolgere l’attività di verifica dei crediti vantati nei confronti del proposto, in tutti i casi in cui questi non è stato assoggettato ad una procedura fallimentare. 1.2 Crediti a termine, condizionati, con documentazione insufficiente o risultanti da sentenza non passata in giudicato: L’amministratore giudiziario, ai sensi dell’art. 57, deve depositare “un elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei crediti e delle rispettive scadenze e l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali o personali sui beni, con l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto”. La necessità di indicare la scadenza del credito è una considerevole novità del Codice antimafia e si giustifica con l’assenza di una norma analoga a quella contenuta nell’art. 55 comma 2 LF, che prevede l’automatica scadenza dei debiti pecuniari alla data del fallimento. Questa mancata previsione è certamente ragionevole, posto che la norma fallimentare costitusce una specifica applicazione del principio generale contenuto nell’art. 1186 c.c., relativa alla decadenza dal beneficio del termine, consentita se il debitore “è divenuto insolvente” 13. L’immediata esigibilità dei debiti verso il fallito è quindi conseguenza diretta della dichiarazione di fallimento, che ha accertato – con effetti erga omnes – lo stato di decozione del debitore. Invece, per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale del sequestro, il presupposto è costituito non già dall’insolvenza, bensì da un rapporto di sproporzione tra il valore dei beni e il reddito dichiarato dai soggetti nei cui confronti è possibile promuovere il procedimento (previsti dagli artt. 14 e 16 del Codice) o da un collegamento con pregresse attività illecite da costoro compiute. L’art. 96 comma 3 LF disciplina l’ammissione con riserva, con riferimento ad ipotesi (ovviamente diverse dalla presenza di un credito a termine, evenienza inconcepibile nel sistema concorsuale) relative ai crediti sottoposti a condizione (art. 96 comma 3 n. 1 LF). Si tratta cioè di crediti che possono farsi valere solo dopo l’escussione di un obbligato principale (art. 55 comma 3 LF), crediti per i quali manchi il documento giustificativo (art. 96 comma 3 n. 2 LF) e crediti risultanti da sentenza non passata in giudicato. 11 Minutoli G., Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, Fall., 2011, 11, p. 1280 Cass. 18 novembre 2010 n. 23353, in Resp. Civ. e Prev., 2011, 10, 2082; Cass. 19 aprile 2002 n. 5725, in Giust. Civ., 2002, I, 1814 13 Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, Artt. 51-63, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1988, p. 137 12 In tema di ammissione con riserva, costituisce insegnamento tradizionale quello secondo cui la norma che la prevede ha natura eccezionale 14 (principio, in verità, espresso dalla giurisprudenza prima della riforma della legge fallimentare, che taceva sul punto, mentre l’attuale art. 96 comma 3 LF afferma in maniera molto più esplicita il principio di tassatività delle riserve 15). L’assoluto silenzio del Codice antimafia in ordine all’ammissione con riserva sembra che non escluda ma legittimi il ricorso a questo tipo di dispositivo. Pertanto, possono essere ammessi con l’indicazione nello stato passivo delle peculiarità che li riguardano: - i crediti sottoposti a termine o condizione risolutiva - i crediti il cui soddisfacimento è subordinato alla preventiva escussione di un coobligato principale (ad esempio, del fideiussore, subordinatamente al pagamento da parte sua del debito del proposto nei confronti del creditore garantito). Per quanto riguarda la domanda che avesse ad oggetto un credito sottoposto a condizione sospensiva, invece, si potrebbe ritenere che non debba essere accolta, fino a quando non si verifica l’evento sub condicione. Questa soluzione, però, potrebbe porre un problema di legittimità costituzionale della norma che, all’art. 58 comma 5 del Codice, pone un limite massimo ed invalicabile di un anno dalla definitività del provvedimento di confisca per la proposizione delle domande di ammissione, senza eccezione alcuna. Sembra quindi preferibile anche in questo caso la soluzione dell’accoglimento della domanda, con l’indicazione della necessità che si verifichi la condizione. Se, invece, la domanda è affetta da carenza documentale, si può porre l’interrogativo se si possa applicare in via analogica l’art. 96 comma 3 n. 2 LF, ammettendo quindi il credito con riserva, con la fissazione di un termine per la produzione del titolo giustificativo e quindi per il successivo scioglimento della riserva senza alcuna formalità. Sembra buona regola, quando manca un documento essenziale ai fini probatori, che il giudice delegato della misura di prevenzione applichi la prassi vigente prima della riforma della legge fallimentare; all’epoca, non essendo previsto il procedimento di scioglimento de plano (su istanza del curatore o del creditore, come invece adesso ammette espressamente ed opportunamente l’art. 113-bis LF), era necessario proporre opposizione allo stato passivo e in quella sede si doveva depositare il documento mancante 16. Generalmente, però, per evitare la proliferazione di opposizioni allo stato passivo, il giudice delegato non respingeva la domanda di ammissione, né ammetteva il credito con riserva, ma si riservava di dichiarare esecutivo lo stato passivo, fissando un termine per il deposito del documento omesso. Il Codice non prevede espressamente la possibilità per il giudice delegato di riservarsi la pronuncia del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, ma il riferimento, contenuto nel comma 3 dell’art. 59, al “decreto depositato in cancelleria” rende evidente che non vi è alcun obbligo di pronunciarlo in udienza. Sembra, quindi, ammessa la possibilità di fissare un termine per l’integrazione documentale riservandosi di decidere (dopo la scadenza del termine) se ammettere o meno il credito; va a tal proposito osservato che la possibilità di riservarsi la formazione dello stato passivo era espressamente prevista dalla legge fallimentare nel testo originario (art. 96 u.c. LF) mentre ora si ritiene che non sia più consentito, perché la norma non è stata riprodotta 17. Ecco, quindi, un punto di contatto tra il procedimento di verifica previsto dal Codice e quello disciplinato dalla legge fallimentare del 1942. 14 Cass. 8 agosto 2003 n. 11953, Fall., 2004, 1091; Cass. 19 novembre 2003 n. 17526, Giust. Civ. Mass., 2003, 11; Cass.9 ottobre 1996, n. 8835, Fall., 1997, 604 15 Aprile F., Ammissione con riserva, Le insinuazioni al passivo, Tomo III, Voci, Cedam, 2010, p. 56 16 Cass. 19 giugno 2008 n. 16657, Giust. Civ. Mass., 2008, 6, 986; Cass. 21 dicembre 1990 n. 12147, Fall., 1991, 676 17 Fichera G., Accertamento del passivo, Trattato delle procedure concorsuali, vol. 3, Utet 2010, p. 564 In alternativa all’assunzione della riserva, il giudice delegato potrà anche rinviare la decisione ad una successiva udienza, fissando un termine per consentire al creditore di produrre i documenti giustificativi del credito. 1.3 Credito risultante da sentenza: Nel sistema fallimentare, vi è un trattamento giuridico sensibilmente e sostanzialmente differente per l’ammissione al passivo dei crediti risultanti da sentenza, rispetto a quelli che non hanno costituito oggetto di un giudizio ante fallimento. In termini riassuntivi: il credito che è stato accertato con pronuncia non passata in giudicato ed emessa prima della dichiarazione di fallimento, va ammesso con riserva con onere del curatore di proporre l’impugnazione (art. 96 comma 3 n. 3 LF; prima della riforma, art. 95 u.c. LF previgente); se, invece, la sentenza era passata in giudicato prima dell’apertura della procedura, il giudice delegato è senz’altro vincolato e deve quindi ammettere il credito al passivo. La ratio di questa norma era stata individuata, prima della riforma del 2006, nella necessità di evitare un contrasto tra l’accertamento contenuto nella sentenza pronunciata prima del fallimento (o perché già passata in giudicato o perché non impugnata dal curatore) e il provvedimento negativo pronunciato dal giudice delegato 18. La norma è stata ribadita (con una formulazione peraltro infelicissima, come da più parti evidenziato, perché sembra non più prevedere l’obbligatorietà dell’impugnazione 19) anche dal legislatore della riforma (art. 96 comma 3 n. 3 LF). Ma, rispetto al sistema previgente, occorre tener conto, sul piano sistematico, di una novità rilevantissima e cioè che l’ultimo comma della stessa norma prevede l’efficacia esclusivamente endofallimentare (non solo del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, ma anche) dei provvedimenti che definiscono le cause di opposizione allo stato passivo e di impugnazione dei crediti ammessi. Ciò significa che la ratio della norma che pone un “limite alla libertà del giudice delegato di decidere secondo il suo convincimento” 20, quando il credito è stato oggetto di accertamento di una sentenza non passata in giudicato (e sempre che il giudice non intenda respingere la domanda di ammissione “per ragioni diverse dalla contestazione della sussistenza del rapporto sostanziale di credito affermato esistente dal creditore” 21), non può più essere posta in indissolubile connessione con l’intento di evitare un contrasto di giudicati, per la decisiva ragione che è venuta meno l’efficacia ultrattiva dei provvedimenti di ammissione al passivo, anche se conseguenti alla fase contenziosa dell’opposizione. Ciò posto, va osservato che anche per i procedimenti di prevenzione è sancita l’efficacia esclusivamente endoprocedimentale, posto che l’art. 59 comma 4 dispone che “i provvedimenti di ammissione e di esclusione dei crediti producono effetti solo nei confronti dell’Erario”. Manca, però, una norma analoga a quella introdotta con la legge di riforma del diritto fallimentare, che ora – come già rilevato - la prevede anche per i crediti ammessi all’esito del giudizio di opposizione; infatti, l’art. 59 commi 6-7-8-9 del Codice pur disciplinando l’opposizione e l’impugnazione dei crediti ammessi, nulla prevede in tema di efficacia (ultrattiva o limitata al procedimento) del decreto che le definisce. Il fondamento della efficacia meramente preclusiva ed endofallimentare (dovuta ad una elaborazione esclusivamente giurisprudenziale, mancando fino al 2006 qualsiasi dato normativo) era stato individuato dalla giurisprudenza nella natura non contenziosa, pur se giurisdizionale, della correlata attività di verifica del passivo svolta dal giudice delegato e dalla sommarietà degli accertamenti a lui demandati nella materia 22. Per questa ragione l’efficacia di 18 De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1986, p. 36; Cavalaglio A., L’art. 95, 3° comma, legge fallimentare e la verifica dei crediti, in Riv. Dir. Proc., 2002, 3, 1007 e ss. 19 Bozza G., Formazione ed esecutività dello stato passivo, in Il Nuovo diritto fallimentare, vol. I, Zanichelli, 2006, p. 1468 20 Cavalaglio A., L’art. 95, 3° comma, legge fallimentare e la verifica dei crediti, in Riv. Dir. Proc., 2002, 3, 1007 e ss. 21 Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 50 22 Cass. 28 marzo 1990 n. 2545, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1990, II, 683. giudicato, anche fuori dal concorso, era limitata alla sola sentenza che – decidendo l’opposizione allo stato passivo - definiva un vero e proprio processo contenzioso, che esplicava i propri effetti anche nei confronti del fallito, una volta chiusa la procedura concorsuale. La marcata giurisdizionalizzazione che caratterizza il procedimento di verifica del passivo delineato dalla riforma del 2006 avrebbe dovuto indurre il legislatore ad estendere il principio dell’ultrattività anche al decreto di ammissione al passivo. Invece, la scelta operata è andata in senso diametralmente opposto, avendo la legge stabilito che tutti i provvedimenti relativi alla verifica del passivo esplicano i lori effetti esclusivamente all’interno della procedura fallimentare, e valgono esclusivamente ad individuare i soggetti titolari del “diritto al concorso”. Ciò significa che è venuto meno il nesso tra sommarietà del procedimento di verifica ed efficacia meramente interna del provvedimento decisorio e che il legislatore fallimentare si è ritenuto libero di scindere il nesso tradizionalmente individuato tra questi due principii. Orbene, va ora osservato che nel procedimento di prevenzione l’attività di verifica del passivo ha gli stessi connotati inquisitori ed officiosi che erano propri del processo fallimentare previgente (ante riforma 2006), in cui il curatore partecipava “in posizione ancillare” 23. In effetti, l’amministratore giudiziario non ha (come non aveva il curatore nella legge fallimentare previgente) il potere di proporre l’opposizione avverso il decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo (riservato ai soli creditori: art. 59 comma 6 del Codice), né il potere di impugnare i crediti ammessi; è noto, invece, che la legge fallimentare attualmente in vigore riconosce al curatore questi poteri processuali. Il compito del curatore, prima della riforma della legge fallimentare, era di mera “assistenza” (art. 95 comma 2 LF vecchio testo) e questa è esattamente l’espressione che utilizza l’art. 59 comma 1 del Codice, riferendosi alla posizione dell’amministratore giudiziario. Inoltre, l’amministratore giudiziario non ha l’onere di assumere per ciascun creditore le proprie “motivate conclusioni” (art. 95 comma 1 LF in vigore) e quindi la decisione del giudice delegato (del procedimento di prevenzione) è del tutto svincolata dalle eccezioni di parte. In ultima analisi, il Codice delle leggi antimafia ha attribuito al giudice delegato il ruolo di assoluta preminenza che caratterizzava il “vecchio” giudice della procedura fallimentare. Il procedimento di verifica non è, quindi, un processo di parti (come è invece stato costruito dalla legge fallimentare ora in vigore); non è pertanto configurabile il potere monopolistico delle parti nel determinare la materia del decidere (salvo il principio che vieta di andare ultra petita, rispetto alla domanda del creditore). Il giudice delegato delle misure di prevenzione, quindi, può porre a fondamento della propria decisione anche una causa estintiva, modificativa o impeditiva della pretesa fatta valere, che nell’ordinario processo di cognizione (e anche nella verifica del passivo fallimentare così come attualmente strutturata) sono rimesse all’eccezione di parte. Questa scelta è del tutto coerente con gli interessi pubblicistici connaturati al procedimento di prevenzione. Ritornando all’interrogativo se il decreto che decide l’opposizione allo stato passivo o l’impugnazione dei crediti ammessi ha efficacia vincolante anche fuori dal concorso, si potrebbe ritenere tuttora valido il ragionamento che, prima della riforma del 2006, aveva indotto la giurisprudenza di legittimità a riconoscerla. Infatti, anche nel procedimento di prevenzione – a fronte di una fase di verifica sommaria – vi è una fase successiva, eventuale, che ha natura di vero e proprio giudizio contenzioso. Tuttavia, sebbene il comma 4 dell’art. 59 del Codice limita l’efficacia endoprocedimentale ai soli “provvedimenti di ammissione e di esclusione dei crediti”, sembra che alla stessa conclusione debba pervenirsi anche per i decreti che definiscono la fase dell’opposizione. Mentre, infatti, nella procedura fallimentare il curatore si sostituisce al fallito (art. 43 LF), che viene così ad essere privato (anche) della capacità processuale, ciò non avviene nel procedimento di prevenzione, che si occupa solo dell’esame dei crediti che possono essere 23 Cariolo G., Procedimento di verifica dei crediti e dei diritti reali, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Ghia, Piccininni, Severini, vol. III; Utet, p. 513 riconosciuti non fraudolenti (dovendosi accertare il requisito della buona fede, ex art. 52, su cui infra). Il rapporto tra il curatore e il fallito è unanimemente indicato con l’espressione “amministrazione sostitutiva”: alla perdita del potere di amministrare e disporre si verifica il simultaneo fenomeno dell’acquisizione dei medesimi poteri da parte degli organi fallimentari. Dal già evidenziato carattere elastico della sentenza di fallimento deriva la sua attitudine ad investire non solo i beni corporali (cioè le “cose che possono formare oggetto di diritti”, ex art. 810 c.c.), ma anche i beni c.d. strumentali, vale a dire “i poteri, azioni, facoltà, rapporti giuridici che costituiscono il mezzo per l’acquisto e la conservazione di altri beni” 24. La perdita della capacità processuale, sancita per il curatore dall’art. 43 LF, è un corollario dello spossessamento, posto che “l’amministrazione dell’impresa nella sua nuova direzione a fini liquidatori si svolge anche sul piano processuale” 25. L’assenza, nel campo delle misure di prevenzione patrimoniale, di una norma analoga a quella dell’art. 42 LF (che ha consentito di estendere l’espressione “beni del debitore” all’intero patrimonio del fallito come fascio di rapporti giuridici) e di una parallela disposizione in tema di capacità processuale, fanno ritenere che sia privo di qualsiasi effetto vincolante un provvedimento giurisdizionale, seppur definitivo, che sia stato pronunciato (anche prima del sequestro) tra il creditore ed il proposto. Inoltre, va osservato che il principio dell’opponibilità del giudicato formatosi, anteriormente al fallimento, tra creditore e debitore, trova il suo fondamento anche nella norma contenuta nell’art. 95 comma 3 LF. 26 che (nel testo previgente) disponeva l’obbligo per il curatore di impugnare la sentenza non definitiva, se il giudice delegato non intendeva ammettere il credito (cfr. § 2.2 che precede). La norma è stata trasposta, come è noto, nell’art. 96 comma 3 n. 3 LF. Orbene, proprio l’assenza nel Codice delle misure di prevenzione di una disposizione analoga a quella dell’ammissione con riserva del credito risultante da sentenza non passata in giudicato, fa ritenere che il giudice delegato della misura patrimoniale non sia vincolato dalla irrevocabilità del dictum giurisprudenziale a cui è stato estraneo l’amministratore giudiziario. In definitiva, il provvedimento di ammissione al passivo del giudice delegato del procedimento di prevenzione ha natura esclusivamente interna alla procedura e, specificamente, solo con riguardo all’Erario, indipendentemente dal fatto che sia stato ammesso de plano o a seguito di un giudizio contenzioso di opposizione al passivo. Da ciò consegue che anche il credito derivante da una sentenza emessa tra le parti (creditore e proposto) prima dell’apertura del procedimento di prevenzione, e anche se passata in giudicato, deve essere valutato ai fini dell’accertamento della buona fede, ex art. 52. Vi è però una differenza tra sussistenza del credito e stato soggettivo del creditore. In presenza di una sentenza definitiva emessa prima dell’apertura del procedimento di prevenzione, il giudice delegato può certamente escludere il creditore dal passivo, se l’amministratore giudiziario fornisce elementi idonei a dimostrare che il credito sia strumentale all’attività illecita o ad altra che costituisca il frutto o il reimpiego della prima e, a sua volta, il creditore non dimostra di aver ignorato questo collegamento. Si può però ipotizzare che il credito stesso sia inesistente, anche se accertato con sentenza: è la ricorrente problematica dei creditori di comodo, che ha ispirato gran parte delle pronunce giurisprudenziali che si sono occupate del controverso rapporto tra misure di prevenzione e diritti dei terzi. Orbene, in assenza di alcun dato testuale che consente di sciogliere il quesito se, con riferimento a fatti ed elementi costitutivi già accertati con sentenza passata in giudicato tra le parti, il giudice delegato (del procedimento di prevenzione) sia vincolato a questo dictum, sembra che non possa che valorizzarsi l’unica norma che abbia una qualche attinenza, e cioè l’art. 59 comma 4 del Codice. In termini più espliciti, prevedere che “i provvedimenti di ammissione e di esclusione dei crediti 24 Satta S., Diritto fallimentare, Cedam, 1996, p. 143 Satta S., ibidem, p. 166 26 Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 67; negli stessi termini, Montanari M., Le procedure concorsuali, Il fallimento, in Le Leggi commentate, artt. 92-159 LF, a cura di Guido Uberto Tedeschi, 1996, p. 760 25 producono effetti solo nei confronti dell’Erario” serve non tanto a stabilire la loro efficacia endoprocedimentale (perché era una conclusione a cui si sarebbe potuti pervenire in via interpretativa, utilizzando le conoscenze dei fallimentaristi) ma – soprattutto - a porre il principio dell’assoluta insensibilità nei confronti della procedura di prevenzione di tutte le vicende pregresse. Va infatti considerato che il provvedimento giudiziale è reso in un procedimento in cui l’amministratore giudiziario è rimasto estraneo. 2.4 Credito erariale e credito di natura extracontrattuale E’ noto che l’art. 88 dpr 602/73 impone al giudice delegato del fallimento di ammettere con riserva il credito tributario che ritenga non possa essere ammesso al fallimento; da ciò deriva, conseguentemente, l’onere del curatore di promuovere o proseguire il giudizio tributario. La norma è una eccezione al principio di esclusività del giudizio di verificazione del passivo (per il quale un tempo si usava il “termine efficace e pittoresco, ma tecnicamente inesatto, di potere di assorbimento” 27), che è però razionalmente giustificata (non con l’intento di riservare un trattamento di favore al Fisco, bensì) con la considerazione che per i crediti fiscali è prevista la speciale giurisdizione tributaria. Si tratta, quindi, di una disposizione diretta a preservare la coerenza del sistema, evitando al giudice delegato di occuparsi di diritti e rapporti di natura tributaria, che in generale sono sottratti alla cognizione del giudice ordinario. Ne costituisce conferma il fatto che l’art. 31 del d. lgs. 46/99 prevede espressamente che l’art. 88 cit. “non si applica se le contestazioni relative alle somme iscritte a ruolo sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario”. Ci si chiede, quindi, se il giudice delegato del procedimento di prevenzione che intenda respingere la domanda di ammissione al passivo del concessionario per la riscossione, per crediti tributari devoluti (ex art. 2 D. Lgs. 546/92 alla giurisdizione tributaria, possa farlo o se, invece, debba ammettere il credito con riserva e porre a carico dell’amministratore giudiziario l’onere di proporre ricorso innanzi alla commissione tributaria competente. Nel procedimento di prevenzione, l’assenza di un qualsiasi riferimento normativo e l’efficacia meramente interna del provvedimento di ammissione fa ritenere che non sia configurabile né l’ammissione con riserva, né la prevalenza della giurisdizione tributaria. Ne consegue che il concessionario per la riscossione, che si è visto respingere la domanda, dovrà proporre l’opposizione allo stato passivo, ai sensi dell’art. 59 comma 6 del Codice; la decisione avrà effetti esclusivamente endoprocedimentali. Si potrà porre la questione relativa alla possibilità di escludere il credito tributario per insussistenza della buona fede (art. 52 lett. b, del Codice). E’ noto che uno dei punti di forza dell’impresa mafiosa o collaterale alla criminalità organizzata consiste nella sistematica violazione delle norme tributarie, da cui deriva ovviamente una pretesa creditoria in capo all’Agenzia delle Entrate. Dal punto di vista soggettivo, l’imprenditore che versa in simili condizioni può rientrare nell’area di operatività dell’art. 1 lett. a (e cioè quando è “abitualmente dedito a traffici delittuosi”), o dell’art. 1 lett. b (quando “vive abitualmente con i proventi di attività delittuose”), o nell’art. 4 comma 1 lett. a (quando è indiziato di appartenere ad una associazione di tipo mafioso). In particolare, si può ipotizzare che in un prossimo futuro si faccia ricorso alle misure di prevenzione patrimoniale per soggetti abitualmente dediti a delitti di bancarotta o tributari (d. lgs. 10 marzo 2000 n. 74). Tuttavia, la natura illecita della condotta da cui deriva il credito dell’Agenzia delle Entrate induce a ritenere che non si possa in questi casi escludere l’ammissione del credito: invero, il requisito della “buona fede” lascia intendere che il legislatore abbia inteso riferirsi alle obbligazioni volontariamente contratte dal terzo, a cui carico l’ordinamento pone l’onere di astenersi da rapporti giuridico-economici con un soggetto che egli sa appartenere ad 27 Celoria C.-Pajardi P., Commentario della legge fallimentare, Giuffrè, vol. I, 1963, p. 408 un’associazione criminale o che è dedito a “traffici delittuosi” o che si avvale di “proventi di attività delittuose”. Diversamente opinando, qualora cioè si ritenesse applicabile il requisito della buona fede anche alle obbligazioni di natura extracontrattuale, si dovrebbe escludere la possibilità di ammissione al passivo del credito risarcitorio delle vittime del reato. Ma in proposito va osservato che la legge ammette espressamente la possibilità di risarcire “le vittime dei reati di tipo mafioso”, con le somme di denaro confiscate, con i proventi della vendita di beni mobili (anche registrati) e con quanto ricavato dalla vendita o liquidazione di complessi aziendali (rispettivamente, art. 48 commi 1, lett. a-b e comma 8, lett. c, del Codice). E’ vero che questa norma è contenuta nel capo III (artt. 45-51 del Codice), relativo alla “destinazione dei beni confiscati”, che presuppone la definitività della confisca. Ma non sembra che il Codice contenga alcuna preclusione alla possibilità di proporre la domanda di ammissione al passivo anche da parte dei soggetti che sono rimasti vittime dei delitti commessi dal proposto (o di cui questi è indiziato). L’unico dato testuale in senso contrario è costituito dal fatto che l’art. 52 al comma 1 dispone che il credito risulti da “atti aventi data certa anteriore al sequestro”. Questa espressione riecheggia indubbiamente un’attività negoziale da cui è scaturito il diritto di credito. Questa interpretazione restrittiva, però, attribuirebbe al Codice una finalità certamente estranea, e cioè quella di penalizzare i soggetti che sono entrati, loro malgrado, in contatto con il proposto, ricavandone una lesione patrimoniale. Inoltre, se si dovesse ritenere preclusa la domanda di ammissione al passivo per il soggetto passivo degli illeciti o dei delitti del proposto, alla stessa conclusione dovrebbe pervenirsi per tutte le vittime, e quindi anche per quelle che sono state colpite da reati di tipo mafioso. Ma questo percorso argomentativo si risolverebbe, alla fine, in una interpretatio abrogans delle disposizioni che prevedono espressamente la destinazione a fini risarcitori delle somme confiscate o ricavate dalla vendita di beni mobili o aziendali (art. 48 commi 1, lett. a-b e comma 8, lett. c, del Codice). Ed è noto che costituisce un principio generale del nostro ordinamento, riconosciuto espressamente anche dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., da ultimo, Corte cost., sent. n. 226/2010), che nella lettura della norma va evitata, per quanto possibile, la cd. interpretatio abrogans: evidenti ragioni di logica e di tenuta complessiva dell’ordinamento giuridico inducono ad attribuire alle espressioni linguistiche impiegate dal legislatore un significato utile piuttosto che un significato inutile, salvo il caso che l’attribuzione di senso alle formule adottate sia obiettivamente impossibile. In definitiva, si ritiene che il diritto al risarcimento del danno provocato da un atto illecito del proposto possa essere ammesso al passivo e non sia possibile escluderlo per la consapevolezza in capo al danneggiato del contesto criminale (in senso lato) in cui operava il danneggiante, perché questo requisito soggettivo è richiesto solo per le obbligazioni volontariamente contratte. 2.5 Titolari di diritti reali o personali: Il Codice prescrive, all’art. 57 comma 1, il deposito di un elenco nominativo, contenente l’indicazione di “coloro che vantano diritti reali o personali sui beni, con l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto”. Si tratta di un elenco che è certamente diverso da quello – anch’esso nominativo – dei creditori. Non è chiara la ragione di questa prescrizione. Il suo immediato antecedente storico è costituito senz’altro dall’art. 89 della legge fallimentare, che richiede anch’esso due distinti elenchi: uno per i creditori e l’altro per coloro che “vantano diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari, su cose in possesso o nella disponibilità del fallito”. Va sin d’ora rammentato che la riforma del 2006 della legge fallimentare ha ampliato l’area di applicabilità della norma, estendendola anche ai diritti personali (prima era limitata ai diritti reali) e, dal punto di visto oggettivo, anche ai beni immobili. Sempre in ambito fallimentare, il legislatore ha coerentemente tratto le conseguenze della modifica dell’art. 89, consentendo anche ai titolari di diritti reali o personali di proporre domanda di ammissione al passivo (art. 92 LF), disponendo che il curatore assuma “le sue motivate conclusioni” anche su queste domande (art. 95 LF), consentendo al creditore di proporre l’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione dell’accoglimento di una domanda altrui e la revocazione del provvedimento di accoglimento (art. 98 commi 2, 3 e 4 LF) e, infine, prevedendo la possibilità per costoro di proporre anche la domanda tardiva (art. 101 LF). Inoltre, all’art. 103 la legge fallimentare positivizza un risultato ermeneutico a cui era già giunta la giurisprudenza, stabilendo l’applicabilità del regime probatorio dell’art. 621 cpc “ai procedimenti che hanno ad oggetto domande di restituzione o rivendicazione”. Va infine rammentato che, prima della riforma della legge fallimentare, l’art. 103 LF consentiva solo la proposizione di domande di rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili, e limitatamente ai diritti reali mobiliari. Non erano quindi consentite azioni di natura personale (in relazione ai diritti di godimento) e, in ogni caso, era escluso che potessero avere ad oggetto diritti reali su beni immobili. La riforma ha quindi “sancito un principio generale di attrazione alla procedura concorsuale di tutte le pretese dei terzi sul patrimonio fallimentare” 28 Sebbene l’azienda sia, a rigore, una universitas juris (da cui deriva la non autonoma pignorabilità, occorrendo invece procedere al pignoramento dei singoli beni che la compongono), la giurisprudenza ha ritenuto che essa possa costituire oggetto di rivendica o restituzione 29; secondo una dottrina l’ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 103 LF consente ora di sostenere questa tesi con minori perplessità, perché la nuova disposizione “si riferisce a tutte le possibili pretese dei terzi sulle cose in possesso o di proprietà del fallito, a prescindere dalla loro natura” 30. Hanno ad oggetto diritti reali le azioni di rivendica connesse all’esercizio di un’azione reale, l’accertamento negativo del diritto di proprietà esclusiva esperita da chi assume di essere comproprietario e l’azione di usucapione. In particolare, l’azione di rivendicazione è disciplinata in linea generale dall’art. 948 c.c., che consente al proprietario di ottenere la restituzione della cosa (è stato osservato infatti che “nella domanda di rivendica è sempre insita una finalità di restituzione” 31). La casistica delle azioni reali è ampia; prendendo spunto dai precedenti verificatisi in materia fallimentare, si può ipotizzare che anche nel procedimento di prevenzione la proprietà possa essere rivendicata dal venditore con patto di riservato dominio32, dal mandante che (nel mandato senza rappresentanza o commissione) conserva la proprietà delle cose che ha consegnato al mandatario per l’espletamento dell’incarico ed acquisisce automaticamente la proprietà delle cose che questi ha acquistato su suo incarico 33. Riguardano sempre diritti reali le azioni dirette ad ottenere la dichiarazione di nullità, l’annullamento, la risoluzione, la simulazione, la rescissione, di un contratto avente ad oggetto il trasferimento del diritto stesso; in questi casi, però, l’azione ha carattere non reale, ma personale, avendo ad oggetto la validità ed efficacia inter partes di un rapporto negoziale 34. I diritti reali di godimento possono essere la proprietà, il diritto di superficie, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la servitù. Per diritti personali si devono intendere, invece, non solo quelli che derivano da un contratto di locazione, affitto, comodato, le cui norme fanno espresso riferimento al concetto di godimento (artt. 1571, 1615, 1803 c.c.), ma anche quelli derivanti dal leasing (sia traslativo che di 28 Ferraro P. P., Procedimenti relativi a domande di rivendica e restituzione (art. 103), in La legge fallimentare dopo la riforma, tomo II, artt. 84-159, in Giappichelli, 2010, p. 1320. 29 Trib. Roma 31 ottobre 1983, Fall., 1984, p. 523; Cass. 3 novembre 1994 n. 9046, Mass. Giust. Civ., 1994, fasc. 11 30 Ferraro P. P., Procedimenti relativi a domande di rivendica e restituzione (art. 103), in La legge fallimentare dopo la riforma, tomo II, artt. 84-159, in Giappichelli, 2010, p. 1322. 31 Pajardi P., Codice del fallimento, Giuffrè, 2009, p. 1113 32 Cass. 6 febbraio 1986 n. 723, in Fall., 1986, 1183 33 Satta S., Diritto fallimentare, Cedam, 1996, p. 356 34 Cass. 10 agosto 1988 n. 4909, in Mass. Giust. Civ., 1988, fasc. 8-9 godimento, perchè in entrambi i casi il concedente non trasferisce la proprietà del bene, ma solo il diritto di utilizzarlo35). Tradizionalmente, la differenza tra diritti reali e diritti personali di godimento si è incentrata sull’oggetto del diritto, nel senso che nel primo caso si tratta di diritti sulle cose e, nel secondo, di diritti nei confronti di una persona, aventi ad oggetto una prestazione personale 36; in pratica, la differenza è costituita dal fatto che il titolare di un diritto personale di godimento abbisogna della collaborazione di un altro soggetto. Un secondo criterio di distinzione si incentra sulla natura assoluta o relativa dei diritti, perché quelli di natura reale possono essere fatti valere erga omnes, al contrario dei diritti di obbligazione che spettano ad un soggetto nei confronti di uno o più soggetti determinati o determinabili. Da questa osservazione ne deriva un’altra, sul piano processuale, perché si è osservato che solo i diritti reali fruiscono di una tutela assoluta, mentre i diritti personali possono farsi valere esclusivamente nei confronti dell’obbligato (anche se non vanno sottovalutati i risultati giurisprudenziali in tema di tutela aquiliana del diritto di credito). Orbene, tornando al procedimento di prevenzione, la sede in cui i terzi titolari di diritti reali o personali possono far valere i propri diritti non è la verifica, perché il dato testuale della norma (che limita questa attività ai soli creditori) appare insuperabile. Ciò non deriva da distrazione o mancanza di coordinamento, ma da una scelta obbligata. Il legislatore delegante, infatti, ha limitato la verifica ai soli “titolari di diritti di credito aventi data certa anteriore al sequestro (che) debbano, a pena di decadenza, insinuare il proprio credito nel procedimento entro un termine da stabilire, comunque non inferiore a sessanta giorni dalla data in cui la confisca e' divenuta definitiva, salva la possibilità di insinuazioni tardive in caso di ritardo incolpevole” (art. 1, comma 3, lett. f, nr. 3.2 della legge delega 13 agosto 2010 n. 136). Per contro, il precedente punto 3.1 della legge delega ha stabilito che “i titolari di diritti di proprietà e di diritti reali o personali di godimento sui beni oggetto di sequestro di prevenzione siano chiamati nel procedimento di prevenzione entro trenta giorni dalla data di esecuzione del sequestro per svolgere le proprie deduzioni e che dopo la confisca, salvo il caso in cui dall’estinzione derivi un pregiudizio irreparabile, i diritti reali o personali di godimento sui beni confiscati si estinguano e che all’estinzione consegua il diritto alla corresponsione di un equo indennizzo”. Il legislatore delegante ha quindi scelto di mantenere ferma la previsione contenuta nell’art. 2ter della legge 575/65 che al comma 5 (introdotto dal D.L. 4 febbraio 2010 n. 4) aveva previsto la partecipazione al procedimento di prevenzione dei comproprietari e dei titolari di diritti reali di godimento o di garanzia e la salvaguardia dei loro diritti se dimostravano la “buona fede e l’inconsapevole affidamento nella loro acquisizione”. Le conseguenze della scelta legislativa di non estendere il procedimento di verifica ai comproprietari e ai titolari di diritti reali parziari o personali consistono nella perpetuazione del meccanismo di tutela già previsto. Infatti, gli artt. 23 e 28 del Codice prevedono l’intervento dei terzi nel procedimento di prevenzione, annoverandosi in questa categoria i comproprietari e i titolari di diritti reali o personali di godimento, con la precisazione che vi rientra anche colui che assuma di essere proprietario esclusivo del bene sequestrato in danno del proposto. Inoltre, suscita perplessità la previsione secondo cui l’intervento dei terzi deve seguire l’esecuzione del sequestro (art. 23 comma 2); questa forma di tutela differita appare completamente irrazionale e - con ogni probabilità - incostituzionale, per disparità di trattamento rispetto al proposto. Va infatti osservato che nei riguardi del destinatario principale della misura di prevenzione la regola è che il provvedimento di sequestro si assume in udienza (artt. 23 e 7) e solo in caso di “concreto pericolo” di dispersione, sottrazione o alienazione, si 35 Cass. 7 febbraio 2001 n. 1715, in Foro Pad., 2001, I, 282 Galgano F.-Visintini G, Degli effetti del contratto, della rappresentanza, del contratto per persona da nominare, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Zanichelli, 1993, p. 146 36 può provvedere “anticipatamente” e quindi “inaudita altera parte”, ma - ricorrendo questa ipotesi - la convalida deve intervenire entro 30 giorni (art. 22). Quando l’esistenza di un diritto reale o di godimento in capo ad un terzo risulti già per tabulas, non è dato intendere la ragione per cui il tribunale per le misure di prevenzione non possa disporne l’intervento, prima di procedere al sequestro. A titolo esemplificativo, l’esistenza di un diritto reale può risultare dalla trascrizione nei registri immobiliari (art. 2673 c.c.), o nel pubblico registro automobilistico (art. 2683 c.c. e R.D.L. 15 marzo 1927 n. 436, convertito nella Legge 15 febbraio 1928 n. 510 e R.D. 29 luglio 1927 n. 1814), o nei registri di navi ed aeromobili (disciplinati dal codice della navigazione) o, ancora, dal Registro delle Imprese (per le azioni e quote di partecipazione di società di capitali) o, anche, dal Registro tenuto dall’Ufficio italiano brevetti e marchi (disciplinato dall’art. 138 D. Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30) per i diritti di proprietà industriale (marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali). Ma, anche in assenza di un regime di pubblicità istituzionalizzato, vi sono altre fonti di conoscenza; ad esempio, i contratti di locazione risultano dalla banca dati dell’Agenzia delle Entrate (c.d. SIATEL). Lo stesso profilo di ingiustificata disparità di trattamento (rispetto alla tutela accordata al proposto) caratterizza l’art. 55 comma 3 del Codice, che parimenti impone al tribunale di chiamare ad intervenire – ma solo dopo l’esecuzione della misura di prevenzione - il terzo che abbia trascritto una domanda giudiziale prima del sequestro. In tutti questi casi, appare priva di alcuna giustificazione la scelta legislativa di non imporre la chiamata nel procedimento di prevenzione, prima dell’adozione della misura del sequestro, dei titolari di diritti reali o personali di godimento o di colui che ha una legittima aspettativa tutelata dalla priorità della trascrizione; vi è inoltre anche una dispersione di energie intellettuali, perché con riferimento allo stesso bene occorrerà rinnovare (almeno in parte) attività e valutazioni. Sotto il profilo sostanziale, va osservato che il Codice ha comportato un sensibile arretramento dell’efficacia della misura patrimoniale di prevenzione, con riferimento all’ipotesi dei titolari di diritti reali o di godimento. Prima dell’emanazione del Codice, infatti, la tutela per i terzi era stata apprestata dalla giurisprudenza, in mancanza di qualsiasi disposizione normativa, consentendo l’intervento nel procedimento di prevenzione ai titolari formali del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento sui beni attinti dalla misura interinale del sequestro, purchè dimostrassero la buona fede e il loro incolpevole affidamento 37. Con la legge istitutiva dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (legge 31 marzo 2010 n. 50), è stato recepito questo orientamento giurisprudenziale, ma si è aggiunta la possibilità per il tribunale di “determinare la somma spettante per la liberazione degli immobili dai gravami ai soggetti per i quali siano state accertate le predette condizioni” 38. Il Codice delle leggi antimafia, invece, ha sottratto ogni decisione discrezionale al tribunale e ha previsto l’automatica estinzione ope legis dei diritti reali di godimento e lo scioglimento dei contratti da cui derivano i diritti personali di godimento, prevedendo a favore dei titolari un “equo indennizzo” (art. 52 commi 4 e 5). A norma dell’art. 23 comma 4, il diritto all’indennizzo sorge solo se non risulta che i beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi. Inoltre, l’art. 26 dispone che si presumono fittizi: - gli atti con cui si dispone del bene poi sequestrato, nei due anni antecedenti la proposta, ma solo se stipulati con stretti congiunti (ascendente, discendente, coniuge o convivente) e parenti entro il sesto grado ed affini entro il quarto grado) 37 Cass. 5988/97, Cass. pen. 21.1.92 n. 250 Sanseverino, S.U. pen. 18.5.94 COMIT Leasing, 11.1.94 Andricciolo Forte C., Misure di prevenzione patrimoniali e procedure concorsuali, in Le procedure concorsuali, a cura di A. Caiafa, Cedam, 2010, tomo II, p. 1700. 38 - gli atti a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione. Questo regime probatorio, certamente agevolato, limita però in maniera consistente la possibilità di colpire gli atti di trasferimento o di costituzione di diritti reali parziari o di diritti personali di godimento. In particolare, rimangono ora fuori dalla sfera di applicabilità del Codice gli atti a favore di terzi estranei e che non siano meramente apparenti: prima del Codice, qualora si fosse dimostrata l’assenza della buona fede e/o dell’incolpevole affidamento, il sequestro era idoneo a travolgerli. La buona fede, invece, continua ad essere richiesta (non per tutti i titolari di diritti reali o personali, ma solo) per i comproprietari. Costoro, infatti, hanno l’onere di dimostrare di aver ignorato l’attività illecita del proposto, se intendono esercitare il diritto di prelazione per l’acquisto della quota confiscata al valore di mercato (art. 52 comma 7). La dettagliata disciplina delle verifiche richieste per stabilire la sussistenza della buona fede (art. 52 comma 3) fa ritenere che questa sia richiesta solo per gli atti di natura negoziale; non avrebbe altrimenti alcuna giustificazione il riferimento agli “obblighi di diligenza nella fase precontrattuale” (cfr. § 2.6). Ne consegue che il coerede o il coniuge, acquisendo la contitolarità ex lege, non incontrano alcun limite nell’esercizio del diritto di prelazione. Varrà per loro, ad ogni modo, la previsione generale (contenuta nell’art. 52 comma 7, ultimo alinea) diretta ad impedire che il bene ritorni nella disponibilità del proposto o di una associazione di tipo mafioso. La vendita della quota indivisa è stata criticata da una dottrina che ha osservato che essa si pone “in evidente violazione delle finalità della legge 109/96 che ha introdotto il fondamentale principio di riutilizzo del bene per fini sociali: prevedere la vendita delle quote del bene non divisibile costituisce un recupero del principio dell’ammissibilità della vendita dei beni confiscati, fortemente contrastato e ridimensionato nell’attuale disciplina” 39. 2.6 Buona fede Tra i requisiti richiesti per l’ammissione al passivo del credito, l’art. 52 comma 1 lett. b) indica la condizione che “il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego”; qualora, poi, ricorra questa connotazione negativa sul piano oggettivo, l’ammissione può comunque avvenire, a condizione che sia il creditore a dimostrare il suo stato psicologico di buona fede, e cioè di aver ignorato l’esistenza di questo nesso di strumentalità. La norma costituisce la traslitterazione di quella che, contenuta nell’art. 20 del Codice, stabilisce i requisiti per sottoporre i beni a sequestro di prevenzione, che è consentito se essi sono di valore sproporzionato rispetto al reddito del proposto oppure “il frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego”. Ovviamente, occupandosi della posizione del creditore, il legislatore non poteva avere riguardo alla “tainted property”, cioè alla contaminazione del bene, ma al contesto (in senso lato) criminale, cioè alla complessiva attività il cui esercizio ha comportato l’insorgere di un credito del terzo estraneo nei confronti dell’indiziato. La nozione di frutto, applicata ai beni, è stata individuata in dottrina con il riferimento alle cose che vengono create, trasformate o acquistate mediante il reato; per reimpiego, invece, si intendono i beni che “presentano una correlazione indiretta con la condotta criminosa” 40. Già con riferimento ai beni si è evidenziato che questi concetti consentono di colpire con la confisca dei beni cronologicamente distanti dall’illecito, tanto da paventare il rischio di “una pressochè assoluta libertà d’azione nella cernita dei beni di provenienza illecita” 41. E’ indubbio che la loro trasposizione dai beni all’attività da cui origina il credito di cui si deve decidere l’ammissione al passivo incrementa ancor più la rarefazione del collegamento tra 39 Maltese C., Il Codice antimafia, Giuffrè, 2011, p. 66 Furgiuele A., La disciplina della prova nel procedimento applicativo delle misure patrimoniali di prevenzione, in La giustizia patrimoniale penale, a cura di A. Bargi e A. Cisterna, Utet. 2011, tomo I, p. 428 41 Mangione, Le misure di prevenzione patrimoniale – Profili dogmatici e di politica criminale, Cedam, 2001, p. 67 40 l’attività illecita e il rapporto obbligatorio di cui è parte il creditore. Questa disposizione rischia di creare intorno ai soggetti passivi delle misure di prevenzione una pericolosa “fascia di rispetto” o un “cordone sanitario”: è infatti sufficiente che il terzo abbia la consapevolezza che un soggetto sia “abitualmente dedito a delitti” (art. 1 lett. a), o viva “con il provento di attività delittuose” (art.1 lett. b), o sia indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa (art. 4 comma 1 lett. a), per inibirgli ogni rapporto economico. Si può ipotizzare che un imprenditore ottenga un subappalto dall’impresa aggiudicataria, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo. La semplice notizia di stampa relativa al fatto che questi è sottoposto ad indagini (anche se, magari, non è stato attinto da una misura cautelare) potrebbe comportare la immediata cessazione di ogni rapporto (di fornitura, di somministrazione, di finanziamento, ecc.) di cui qualsiasi impresa necessita per svolgere la propria attività. La norma merita di essere condivisa nella parte in cui afferma chiaramente che l’onere di dimostrare la buona fede spetta al creditore; in precedenza, infatti, si sosteneva da parte della dottrina l’applicabilità del principio generale civilistico secondo cui la buona fede si presume (art. 1147 c.c.) 42, anche se per il vero la giurisprudenza ha sempre affermato che l’onere probatorio incombeva sul terzo 43. Anche il terzo comma dell’art. 52 del Codice fornisce utili parametri di valutazione della condotta del creditore, stabilendo che “nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi”. Prima dell’introduzione di questa norma di diritto positivo, si discuteva se la buona fede dovesse essere intesa in senso oggettivo (come obbligo etico di comportamento onesto e quindi come fonte di integrazione negoziale e criterio di valutazione dell’agire sotto il profilo di un obbligo da osservare) o, invece, in senso soggettivo (e cioè come situazione psicologica di ignoranza della lesione dell’altrui diritto) 44. La norma contenuta nel Codice costituisce il punto di arrivo di un tormentato percorso giurisprudenziale, rappresentato da una pronuncia della Corte costituzionale 45 e da una sentenza della Corte di Cassazione 46, che hanno stabilito il principio per cui deve riconoscersi la sussistenza di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato, quando il terzo ha tratto un qualsiasi vantaggio dall’altrui attività criminosa. Questo ambiguo riferimento alla utilitas appare superato dalla necessità che risulti la consapevolezza in capo al terzo di un nesso strumentale tra il suo credito e l’attività illecita de proposto; sembra che questa previsione consenta un razionale contemperamento di contrapposti interessi (dello Stato e dei creditori), con una marcata preferenza per i primi, conseguita attraverso una distribuzione dell’onere probatorio interamente a carico del creditore. E’ importante anche tener conto che secondo la giurisprudenza per buona fede non si deve intendere il dolo, ma al contrario un “affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rende scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza” e quindi come “assenza di condizioni che rendano profilabile …… un qualsivoglia addebito di negligenza” 47. La buona fede, quindi, manca quando l’ignoranza del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita sia dovuta a colpa. A tal proposito, è illuminante la fattispecie esaminata dalla 42 Furgiuele A., La disciplina della prova nel procedimento applicativo delle misure patrimoniali di prevenzione, in La giustizia patrimoniale penale, a cura di A. Bargi e A. Cisterna, Utet. 2011, tomo I, p. 545 43 Cass. sez. I, 9 marzo 2005, Servizi Immobiliari Banche; Cass. sez. I, 11 febbraio 2005, Fuoco; Cass. sez. I, 21 gennaio 2007, n. 45572; Cass. sez. I, 2 aprile 2008 m. 16743 44 Cassano F., La tutela dei diritti dei terzi nel sistema della prevenzione, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, Nel Diritto Editore, 2009, p. 380 45 Corte cost., 20 novembre 1995 n. 487, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1946 46 Cass. pen., Sez. Un., 8 giugno 1999, Bacherotti 47 Cass., Sez. 1, 13 giugno 2001 n. 34019 giurisprudenza, che ha escluso la buona fede in capo ad una banca, titolare di credito assistito da garanzia ipotecaria, avendo concesso un finanziamento di svariati miliardi ad una società sottocapitalizzata e “la percezione dell'influenza di vicende "extracaratteristiche" non sufficientemente specificate e che, pertanto, il terzo creditore di fatto disponeva di tutti gli strumenti utili alla formulazione di un giudizio di inaffidabilità e di "non illibatezza" dell'operatore commerciale” 48. Sebbene il procedimento di verifica nel procedimento di prevenzione non sia strutturato come un processo di parti (essendo invece caratterizzato dalla natura inquisitoria che caratterizzava la legge fallimentare del 1942) sembra che l’amministratore giudiziario (nei suoi compiti di assistenza) debba evidenziare al giudice delegato tutti gli elementi idonei a far ritenere che il credito oggetto di valutazione abbia un nesso con l’attività illecita del proposto, o con quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego. E’ tale un’obbligazione contratta per acquistare merci o servizi necessari per porre in essere l’attività. A sua volta, si può trattare di un’attività imprenditoriale o professionale, ma il contratto può anche avere ad oggetto la mera amministrazione o custodia di un bene non destinato a fini produttivi (abitazione, natante, autoveicolo, ecc.). Invero, è ben possibile che il sequestro colpisca alcuni beni del proposto e che la domanda di ammissione al passivo riguardi un credito sorto nello svolgimento di un’attività completamente diversa. Si ipotizzi un sequestro che riguardi l’attività di imprenditore edile (perché, in ipotesi, svolta grazie all’ottenimento di appalti pubblici ottenuti tramite l’interessamento dell’organizzazione mafiosa) e quindi tutti i beni che ne costituiscono “il frutto o il reimpiego” (art. 24 comma 1); orbene, nulla esclude che il proposto svolga anche un’attività collaterale, in un settore del tutto diverso (ad esempio, nel campo turistico) e che nell’esercizio di questa diversa impresa siano sorti rapporti obbligatori. Orbene, l’esclusione dal passivo del credito relativo all’attività turistica (lecita) non può prescindere dall’accertamento di un nesso di strumentalità con l’attività edile di natura illecita, o in alternativa dalla dimostrazione che il proposto ha potuto avviare e sviluppare l’impresa nel settore turistico grazie al flusso di denaro derivante dalla prima. Come è agevole intuire, non sarà semplice ricostruire le origini delle disponibilità finanziarie o patrimoniali che hanno consentito al proposto di espandersi in ulteriori settori imprenditoriali. Ne consegue che certamente l’amministratore giudiziario dovrà sollecitare al Pubblico Ministero (che, ai sensi dell’art. 59, ha facoltà di intervenire nel subprocedimento di verifica) l’espletamento delle attività investigative che appaiono utili. Si può ipotizzare che per avviare o potenziare l’attività imprenditoriale “pulita”, l’imprenditore indiziato abbia potuto fare affidamento su finanziamenti bancari garantiti da ipoteche concesse da terzi. Orbene, per escludere in questo caso il credito della banca (ma anche di tutti gli altri che hanno contratto obbligazioni col proposto che esercitava l’attività imprenditoriale del tutto lecita), sarà certamente opportuna l’acquisizione della documentazione bancaria, relativa anche ai soggetti estranei al procedimento (terzi datori di ipoteca), per verificare la provenienza del denaro impiegato per acquistare i beni ipotecati. Ovviamente, più si allontana cronologicamente il rapporto negoziale da cui deriva il credito dal campo di azione dell’attività illecita, più sarà difficile per l’amministratore giudiziario dimostrare il nesso di strumentalità e, comunque, sarà più agevole dimostrare la buona fede da parte del terzo creditore. Passando ad esaminare il requisito della buona fede, va ribadito che la necessità della prova della inscientia è a carico del creditore che ha proposto domanda di ammissione al passivo e sorge solo se negli atti vi è già la prova del nesso di strumentalità del rapporto obbligatorio al fine di realizzare l’attività illecita o quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego. La norma, ponendo a carico del terzo l’onere di dimostrare la sua buona fede, per ciò stesso pone una presunzione relativa. Lo schema è analogo a quello previsto dall’art. 67 comma 1 LF per gli atti anomali. Il superamento di questa presunzione richiede la dimostrazione di fatti idonei a far ritenere che l’imprenditore fallito versasse in una situazione di normalità 48 Cass. Pen., sez. V, 18 marzo 2009 n. 15328 dell’impresa. Ciò posto, si può sin d’ora ipotizzare un’applicazione elastica della disposizione. Se il creditore è una banca, si potrà certamente fare ricorso – mutatis mutandis – al tradizionale insegnamento della giurisprudenza che valorizza le maggiori fonti informative di cui può disporre l’azienda di credito 49. Ma si può prevedere un notevole rigore anche per coloro che hanno rapporti continuativi con l’impresa, come i dipendenti e coloro che effettuano forniture con una certa sistematicità. Invece, per chi si trova a stipulare un unico atto negoziale, è ragionevole un approccio più prudente, a meno che l’illiceità dell’attività non possa ritenersi fatto notorio, nell’ambiente in cui è avvenuta la negoziazione. Abbastanza ambiguo appare il riferimento, per valutare la buona fede, alla dimensione degli enti, cioè delle persone giuridiche o anche delle società di persone o degli enti pubblici. Non sembra però che la disposizione possa essere intesa come una deroga al principio generale previsto dall’art. 1391 c.c., che dispone che “nei casi in cui è rilevante lo stato di buona o mala fede, di scienza o d’ignoranza di determinate circostanze, si ha riguardo alla persona del rappresentante”. Infatti, anche quando la persona giuridica è caratterizzata da un’organizzazione complessa, si ha sempre in considerazione l’atteggiamento psicologico del soggetto che ha il potere di contrarre l’obbligazione, anche se non riveste la qualità di legale rappresentante 50. La disposizione appare quindi del tutto inutile e fonte di possibili equivoci, qualora se ne volesse dedurre la sua inapplicabilità a contraenti che hanno la sede legale in una località distante da quella in cui il proposto esercita l’attività e in cui è stato stipulato il contratto, per il tramite di un ausiliario munito del potere di impegnare l’azienda creditrice. 2.7 Data certa La nozione di data certa nel procedimento di prevenzione dovrà essere trattata con ogni cautela. L’art. 52 del Codice dispone: “la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro”. Non sembra eccessivo affermare che la norma, se interpretata in senso strettamente letterale, comporterebbe il rigetto della maggior parte delle domande di ammissione al passivo. La disposizione infatti richiede che il credito risulti solo da atti a contenuto negoziale, muniti di data certa. Si è già visto al § 2.4 che possono invece essere oggetto di ammissione al passivo anche crediti che scaturiscono da condotte illecite: già questo, quindi, costituisce un punto di frizione tra la norma in commento e la multiforme realtà che intenderebbe disciplinare. Ma, soprattutto, è auspicabile che il giudice delegato del procedimento di prevenzione non ritenga ammissibili solo i crediti risultanti da una prova documentale. Invero, il riferimento alla “data certa” contenuto nell’art. 52 del Codice richiama indubbiamente la norma sancita dall’art. 2704 c.c., che disciplina i requisiti necessari per rendere opponibile a terzi la data del documento; si tratta di una disposizione che è inserita nel capo II del titolo II, relativo alla prova documentale. In materia fallimentare, e più specificamente in tema di verifica del passivo, la necessità della data certa deriva da una interpretazione sistematica della legge e in particolare dall’art. 44 LF, che istituzionalizza il conflitto tra creditori anteriori (che partecipano al concorso ex art. 52 LF e al conseguente diritto di distribuzione del ricavato dell’attivo cristallizzato alla data del fallimento) e creditori successivi, che ne restano esclusi. Non è possibile in questa sede accennare all’orientamento giurisprudenziale che ritiene che il curatore, nell’attività di verifica dei crediti, non si sostituisce al fallito ma assume la posizione di terzo, in virtù del ruolo istituzionale di ricostruzione del passivo secondo criteri di legalità. E’ però importante sottolineare un aspetto, non particolarmente approfondito né in dottrina né in giurisprudenza: per l’ammissione del credito non è giuridicamente indispensabile la produzione di un documento con data certa secondo i rigorosi requisiti richiesti dall’art. 2704 c.c. Ben può ammettersi un credito (e di fatto ciò avviene in tutte le aule di tribunale) sulla base di fatture, 49 50 Cass. 13 ottobre 2005 n. 19894, Giust. Civ., 2006, 12, I, 2783 Cass. 28 maggio 2003 n. 8553, Giust. Civ. Mass., 2003, 5 ordini, fax, le cui sottoscrizioni non sono certo autenticate, o registrate. Il requisito della data certa è essenziale solo per la prova di negozi per i quali è prescritta la forma scritta ad substantiam o ad probationem oppure (secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza di merito) quando si tratta di “un contratto che, in relazione al suo valore, alla sua natura e alla qualità delle parti, risulta abitualmente redatto per iscritto” (Trib. Milano 10 giugno 1985, Fall., 1985, 190). In altri termini: anche nel fallimento è richiesto che il credito sia di data anteriore rispetto all’apertura della procedura concorsuale, come è desumibile dall’art. 42 comma 1 LF (da cui deriva il principio della cristallizzazione del patrimonio del fallito e la sua destinazione al soddisfacimento dei creditori), dall’art. 44 LF (che prevede il principio dell’insensibilità del patrimonio agli atti compiuti dal fallito successivamente all’apertura della procedura) e, infine, dall’art. 52 LF, che pone la regola del concorso dei creditori. A sua volta, l’art. 45, come evidenziato dalla dottrina più autorevole, “deve essere valutato in stretta connessione con gli artt. 42 e 44… perché ha la funzione di completare il sistema di difesa dell’integrità del patrimonio fallimentare” 51. E’ evidente che se un credito deve essere sorto in epoca anteriore ad una certa data (sentenza di fallimento o sequestro, nelle misure di prevenzione), questa anteriorità deve essere certa, alla stregua di qualsiasi fatto processuale che può essere ritenuto sussistente solo se adeguatamente provato. Ciò però non può indurre a limitare le fonti di prova esclusivamente a quelle documentali, come invece sarebbe se, per concretizzare il riferimento alla data certa contenuto nell’art. 52 del Codice, si applicasse l’art. 2704 c.c. Né può servire a questo scopo la costante preoccupazione del giudice della misura di prevenzione di evitare la precostituzione di creditori di comodo, perché non solo nel procedimento di prevenzione, ma anche nel fallimento la verificazione del passivo è un’attività giurisdizionale diretta ad evitare “possibili manovre fraudolente di appesantimento del passivo” 52. In definitiva, nella materia fallimentare può dirsi abbastanza pacifico che l’art. 2704 c.c., riguardando solo una regola di “puro diritto probatorio” 53, viene in rilievo esclusivamente quando occorre fare applicazione dell’art. 45 LF (che trova la sua ratio nella equiparazione del fallimento al pignoramento) e quindi nei casi in cui la legge subordina la opponibilità di un atto al compimento di una specifica formalità; ad esempio, in tema di cessione o liberazione di pigioni non scadute (art. 2812 comma 4 e 2918 c.c.), o di locazione (art. 2923 c.c.), o per le alienazioni di universalità di mobili (art. 2914 n. 3 c.c.), le alienazioni di beni mobili (art. 2914 n. 4 c.c.), o nel caso di conflitto tra più cessionari dello stesso credito, con prevalenza della cessione che è stata accettata per prima dal debitore (art. 1265 c.c.). Ne consegue che l’esigenza (sostanziale e normativamente prevista) dell’anteriorità della fonte da cui deriva il credito rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento non va confusa con le modalità processuali con cui questa prova può essere fornita. Quando il negozio è sottoposto al principio generale della libertà delle forme, non possono richiedersi (per la sola ammissione al passivo) requisiti formali del tutto estranei al regime normativo. Diversamente opinando, il fallimento diverrebbe “un monstrum del tutto avulso dal sistema, costringendo il contraente dell’imprenditore ad inventare formalità che la legge non prevede al fine dell’opponibilità dell’atto all’eventuale, successivo fallimento” 54. 51 De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1986, p. 66 52 G. Bozza G. Schiavon, L'accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Giuffrè, 1992, p. 23 53 Di Marcello T., Problemi di data certa nel fallimento, in Banca borsa tit. cred., 2005, 2, 199 54 De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare, Zanichelli, 1986, p. 68; negli stessi termini, anche Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 255, che afferma chiaramente che “è tuttavia consentita la dimostrazione della costituzione del rapporto giuridico dedotto dal creditore (se ciò non è impedito da requisiti di forma che caratterizzino la disciplina positiva del singolo negozio) Queste considerazioni valgono anche per il procedimento di prevenzione. In conclusione, sembra possa dirsi che l’art. 52 del Codice è norma certamente necessaria, nella parte in cui pone il principio della cristallizzazione del passivo, individuando nel sequestro il termine finale entro il quale deve sorgere il diritto di credito e quindi vincolando i beni sequestrati al soddisfacimento dei soli creditori anteriori. Se non vi fosse questa disposizione, infatti, dovrebbe applicarsi il principio generale (valevole per il pignoramento individuale) per cui nessuna limitazione all’intervento nel processo esecutivo incontrano i creditori successivi. Svolge inoltre una funzione essenziale perché consente di tutelare anche i creditori chirografari, che fino ad oggi invece erano ritenuti sempre soccombenti 55 quando il loro debitore veniva sottoposto ad una misura di prevenzione patrimoniale. La norma, invece, va interpretata con la massima cautela quando richiama la nozione di data certa, perché non può farsi ricorso ai rigidi criteri previsti dall’art. 2704 c.c., che è applicabile solo quando si intenda far valere l’anteriorità del credito (rispetto al sequestro) tramite una prova documentale. Il dato testuale appare senz’altro superabile, se si tiene conto della genesi della disposizione, che ha recepito un principio di origine giurisprudenziale e sempre affermato con riferimento a diritti reali di garanzia (pegno, Cass. Pen. 28 aprile 1999 n. 9; ipoteca, Cass. Pen. 19 gennaio 2009 n. 2501). E’ vero che la natura sommaria del procedimento di verifica del passivo, con le sue caratteristiche di snellezza istruttoria e di sommarietà della motivazione, fa sì che la prova utilizzabile dal creditore istante sia esclusivamente quella documentale e, quindi, l’anteriorità della data di insorgenza del credito rispetto al sequestro dovrebbe essere dimostrata con un documento conforme ai dettami dell’art. 2704 c.c.; ma applicare rigorosamente questo principio nella valutazione della prova documentale della verifica comporterebbe il rigetto di pressoché tutte le domande, con la conseguenza che, nei giudizi di opposizione allo stato passivo, i creditori non avrebbero alcuna preclusione probatoria e ben potrebbero ottenere l’ammissione di prove testimoniali per dimostrare che il loro credito è precedente al sequestro. Infine, queste considerazioni valgono non solo nel caso in cui la verifica viene svolta dal giudice delegato del procedimento di prevenzione, ma anche se è espletata dal giudice della procedura fallimentare. Infatti, con riguardo alla verifica dei crediti, quando il proposto è anche dichiarato fallito, il Codice la affida al giudice delegato della procedura concorsuale, sia quando il fallimento viene dichiarato in epoca successiva al sequestro (art. 63 comma 5), sia quando invece lo precede (art. 64 comma 2). 3. Amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati 3.1 Premessa Negli artt. 35-51 il Codice si occupa dell’amministrazione, della gestione e della destinazione dei beni sequestrati e confiscati. I primi due tipi di attività riguardano precipuamente la fase del sequestro e della confisca non definitiva. Riproponendo lo schema già introdotto dal legislatore nel 2009, il Codice attribuisce i compiti lato sensu gestori all’amministratore giudiziario, fino alla pronuncia del decreto di confisca di primo grado, assegnando all’Agenzia un compito non solo di ausilio (come sembrerebbe affermare l’art. 38 comma 1), ma anche di vero e proprio controllore dell’operato non solo dell’amministratore, ma anche dello stesso giudice delegato, tant’è che è munita del potere di impugnare i provvedimenti di quest’ultimo. Dopo la pronuncia del decreto di confisca di primo grado, tutte le attività dirette a gestire i beni confiscati sono espletate dall’Agenzia. anche con mezzi probatori diversi dalla scrittura: e quando da tale dimostrazione sia ricavabile anche la data (rectius, l’anteriorità rispetto ala sentenza di fallimento) di costituzione del titolo, ciò è quanto basta per considerare opponibile la pretesa relativa, ai fini della partecipazione al concorso fallimentare”. 55 Vincenti C., La confisca e la tutela dei terzi, in Le misure patrimoniali antimafia, a cura di S. Mazzarese e A. Aiello, Giuffrè, 2010, . 323 Sul piano sistematico, è scarsamente comprensibile la tripartizione contenuta nel titolo II del Codice (tra amministrazione, gestione e destinazione). E’ certamente ragionevole distinguere tra gestione del bene affidata all’autorità giudiziaria, durante la pendenza del procedimento, e individuazione delle modalità di impiego del cespite dopo la definitività della confisca. La differenza è infatti ovvia, perché nel primo caso si tratta di stabilire i compiti dell’amministratore giudiziario, nell’interesse anche del proposto, per il caso di revoca del sequestro o del decreto di confisca di primo grado (a meno che il tribunale non stabilisca di dare corso alla restituzione per equivalente, ex art. 46 del Codice). Invece, l’irrevocabilità del provvedimento di confisca fa venir meno ogni ansia di tutela delle ragioni del soggetto passivo della misura di prevenzione ed impone, invece, di stabilire come impiegare i beni e in concreto a quale amministrazione assegnarli nell’ambito delle finalità istituzionali contemplate dall’art. 48 del Codice. Ciò che desta perplessità, invece, è la distinzione tra amministrazione e gestione, contenuta rispettivamente nel capo I e nel capo II del Codice. Questa contrapposizione è di assoluta novità, perché finora i due termini erano stati sempre considerati come sinonimi. A tal proposito, va osservato che l’art. 65 cpc, in tema di compiti del custode, li distingue tra attività di conservazione e funzione di amministrazione del bene pignorato (o sequestrato). Questa suddivisione non è condivisa da un’autorevole dottrina, secondo cui si tratta di una endiadi, perché “la conservazione è il fine dell’amministrazione del custode” 56; in particolare, l’Autore ritiene che l’amministrazione ha carattere statico, perché si propone di mantenere la cosa nello stato in cui si trova. L’opinione più diffusa, però, ritiene che si tratti di due nozioni radicalmente differenti, in quanto la conservazione comporta attività necessarie per garantire l’integrità, l’efficienza materiale e l’utilità economica; l’amministrazione, al contrario, attiene alla gestione economica e produttiva del bene 57. La definizione di amministrazione contenuta nel comma 5 dell’art. 35 del Codice ha un ambito amplissimo, perché il legislatore vi fa rientrare la “custodia, la conservazione e l’amministrazione”; a sua volta, invece, il capo II, relativo alla gestione, non ne offre alcuna definizione. A ben vedere, le norme che riguardano l’amministrazione (artt. 35-39 del Codice) si occupano non delle attività che l’amministratore deve eseguire per custodire o gestire i beni sequestrati, ma dei requisiti di cui deve essere in possesso il professionista nominato, dei limiti in cui può avvalersi di coadiutori esterni e, soprattutto, dei compiti dell’amministratore giudiziario per così dire “serventi”, relativi cioè agli adempimenti previsti dal legislatore per consentire un controllo della sua attività; infatti, gli artt. 35-39 stabiliscono tra l’altro l’obbligo di redigere la relazione iniziale, di tenuta del registro su cui annotare le operazioni compiute, di contabilità separata. Il Codice utilizza quindi il termine “amministrazione” per indicare l’apparato organizzativo costituito dall’organo gestorio dell’amministratore giudiziario (e le relative regole che lo disciplinano). 3.2 Stima dei beni e contestazioni di parte Non essendo ovviamente possibile un esame analitico di tutte le disposizioni del Codice, ci si soffermerà sugli aspetti di più immediato interesse applicativo. Tra questi, campeggia certamente la relazione iniziale prevista dall’art. 36 che alla lett. b) pone a carico dell’amministratore l’obbligo di indicare “il presumibile valore di mercato dei beni stimato dall’amministratore”. 56 Satta S., Commentario al codice di procedura civile, libro I, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, 1966, p. 226 Orlando M., La custodia dei beni mobili pignorati, in La nuova esecuzione forzata, a cura di P. G. Demarchi, Zanichelli, 2009, p. 379 57 Come già osservato in altra occasione 58, è facile prevedere che l’amministratore si avvarrà in questi casi della facoltà di chiedere l’autorizzazione a farsi “coadiuvare, sotto la sua responsabilità, da tecnici o da altri soggetti qualificati” (art. 35, co. 4, del Codice). Questa opportunità, però, va contemperata con la disposizione contenuta nell’art. 36 comma 4 del Codice, che attribuisce al giudice il potere di nominare un perito che risolva le “contestazioni sulla stima dei beni”. Considerato che non è previsto alcun termine per la proposizione delle contestazioni, il rischio, concreto, è di una inutile duplicazione di costi, sostenuti dalla procedura prima per la remunerazione del coadiutore (nominato dall’amministratore 59) e poi per quella del perito (nominato dal giudice). Non vi è alcuna indicazione normativa sui soggetti legittimati a sollevare le contestazioni ma si ritiene, per il principio generale dell’interesse ad agire, che lo siano tutti coloro che potrebbero essere lesi da un’attività di valutazione condotta dall’amministratore (o dai suoi coadiutori)in splendida solitudine, senza alcun contraddittorio. Tra questi, vi rientra certamente il proposto il quale, ai sensi dell’art. 46, in caso di rigetto della richiesta di misura patrimoniale (e quindi di revoca del sequestro), può vedersi costretto ad accettare una somma in luogo del bene (c.d. “restituzione per equivalente”). Orbene, l’importo va commisurato al valore del bene “risultante dal rendiconto di gestione”, previsto dall’art. 43 del Codice, che al comma 2 prescrive “l’indicazione analitica dei cespiti e il saldo finale”. Sembra quindi necessario desumere che nel rendiconto devono essere indicati anche i valori di stima dei beni, contenuti nella relazione iniziale (art. 36 lett. b). Sarebbe quindi quantomeno imprudente per l’amministratore farsi autorizzare a nominare un coadiutore, incaricarlo di stimare i beni e, successivamente, esporsi alle contestazioni del proposto, che – in caso di revoca del sequestro o di mancata conferma del decreto di confisca di primo grado – potrebbe essere costretto ad accettare una somma per equivalente, ma potrebbe anche non condividere il valore attribuito al bene dall’amministratore. E’ certamente legittimato a contestare il valore attribuito ai beni sequestrati anche il titolare di un diritto reale o personale di godimento, il quale in caso di definitività della confisca deve subire l’estinzione del proprio diritto (art. 52, co. 4 del Codice) e la sostituzione con un equo indennizzo in prededuzione. Se è indubbio che l’indennizzo va commisurato alla “durata residua del contratto o del diritto reale” (comma 5), è però anche evidente che il fattore tempo costituisce solo uno dei criteri di valutazione e che non si può prescindere dal valore di mercato del bene oggetto di locazione, comodato, usufrutto, servitù, ecc. Per ragioni analoghe va riconosciuto il diritto di contestare la stima anche al comproprietario, al quale l’art. 52 comma 7 accorda un diritto di prelazione, diritto che ovviamente può essere in concreto esercitato solo se il comunista condivide la valutazione attribuita al bene e conseguentemente alla quota indivisa. Non sono invece abilitati a contestare la valutazione dei beni i soggetti titolari di contratti relativi al bene o all’azienda oggetto della misura di prevenzione, perché – in caso di scioglimento da parte dell’amministratore giudiziario - ai sensi dell’art. 56, co. 1 cod. antimafia possono solo far valere il credito nel passivo, ma non hanno diritto ad alcun indennizzo in qualche modo parametrato al valore del bene. Analogamente, il promissario acquirente ha diritto solo alla restituzione della caparra eventualmente versata, senza alcun indennizzo, e quindi non ha alcun interesse che lo legittimi ad interloquire sulla stima dei beni. Infine, è molto più problematica la questione della legittimazione a contestare la valutazione in capo ai creditori aventi un diritto di prelazione. Costoro, ai sensi dell’art. 61, co. 2, cod. 58 Orlando M., Misure di prevenzione e tutela dei creditori nel fallimento, in Crisi di impresa ed economia criminale, Ipsoa, 2011, p. 140 59 Sulla competenza dell’amministratore a nominare il coadiutore, cfr., si vis, Orlando M., Misure di prevenzione e tutela dei creditori nel fallimento, in Crisi di impresa ed economia criminale, Ipsoa, 2011, p. 142 antimafia, hanno diritto di soddisfarsi sul ricavato dalla vendita, senza soggiacere alla limitazione del beneficium excussionis previsto dall’art. 52, co. 1, lett. a). In senso contrario alla configurabilità del potere di contestazione della stima fatta dall’amministratore, può osservarsi che i beni gravati da diritti di prelazione sono destinati alla vendita con “procedure competitive” (art. 60, co. 2) e, quindi, il meccanismo di mercato è di per sé idoneo a realizzare il miglior prezzo possibile. Tuttavia, sembra che si debba propendere per la soluzione più garantista, favorevole alla interlocuzione anche dei creditori ipotecari o privilegiati, perché lo stesso comma 2 prevede la possibilità per l’amministratore di utilizzare per la vendita non solo la relazione di cui all’art. 46, ma anche “stime effettuate da parte di esperti”, le cui risultanze potranno quindi essere assunte come prezzo base. Non è chiaro perchè in questo caso il legislatore abbia utilizzato il termine “esperti”, diverso rispetto a quello impiegato nell’ultimo comma dell’art. 36 (“perito”). La differenza terminologica potrebbe essere valorizzata per argomentare che solo in quest’ultimo caso è necessario il contraddittorio tra le parti, mentre invece la stima propedeutica alla vendita potrebbe essere disposta ed eseguita con la completa pretermissione dei creditori. Non può tuttavia sottovalutarsi l’assonanza con l’art. 568 cpc che denomina “esperto” il tecnico a cui il giudice dell’esecuzione immobiliare può affidare l’incarico di stimare il bene. Ciò dovrebbe indurre a ritenere applicabili in via analogica le disposizioni in tema di vendita forzata, e quindi l’art. 173bis disp. att. cpc, che al comma 3 prescrive che lo stimatore trasmetta copia della relazione ai creditori e al debitore, per dar loro modo di interloquire trasmettendogli osservazioni scritte. Ma, soprattutto, la necessità di un adeguato contraddittorio col creditore sembra imposto dall’art. 53 del Codice Antimafia, che dispone: “i crediti per titolo anteriore al sequestro. Verificati ai sensi delle disposizioni di cui al capo II, sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 70 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati, risultante dalla stima redatta dall’amministratore o dalla minor somma eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi”. La portata precettiva della norma è imperscrutabile. Dal suo tenore sembra infatti che l’amministratore giudiziario abbia la facoltà di decidere se vendere o meno i beni. In realtà, l’art. 60 del Codice non sembra lasciare alcun margine di discrezionalità, perché stabilisce in modo inequivoco che l’amministratore avvia la liquidazione dei beni (“mobili, aziende o rami d’azienda e immobili”) per soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo: l’unico presupposto da verificare è che “le somme apprese, riscosse o comunque ricevute non siano sufficienti a soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo”. Pertanto, posto che la vendita dei beni sequestrati è sempre necessaria per estinguere i debiti ammessi al passivo, sembra che non vi sia alcun margine per applicare la disposizione dell’art. 53 (precedentemente citata) che sembra stabilire una sorta di espropriazione del credito per pubblica utilità, imponendo al titolare l’obbligo di sostenere una decurtazione del 30%, a fronte del pagamento con risorse erariali e non col ricavato della vendita dei beni del debitore indiziato. Pur tuttavia, il solo fatto che in astratto al creditore si possa chiedere un sacrificio patrimoniale dovrebbe indurre a prevenire eventuali contestazioni, dando corso ad una perizia in contraddittorio. In definitiva, prima di mettere il bene sul mercato, è certamente opportuno che l’amministratore provochi un contraddittorio tra il proposto e i suoi creditori e chieda al giudice delegato l’autorizzazione a nominare un esperto stimatore. Questo, ovviamente, se a disposizione dell’amministratore giudiziario vi sia solo la valutazione da lui autonomamente redatta nella relazione ex art. 36 cod. antimafia, o anche se si è avvalso della possibilità di farsi coadiuvare da tecnici, ai sensi dell’art. 45 comma 4. Pertanto, accedendo a questa soluzione, la duplicazione di spese non sembra ineluttabile. E’ da ritenere, infatti, che l’amministratore giudiziario ben possa prospettare al giudice delegato (ex ante, e cioè prima di depositare la sua relazione particolareggiata) la necessità di ricorrere a professionalità diverse, per la specificità delle competenze richieste per una adeguata valutazione dei beni (ingegnere per gli immobili, esperto in marchi e brevetti, tecnico per macchinari e attrezzature, legale per una puntuale prognosi sull’utilità concretamente ricavabile da ciascun giudizio pendente o da instaurare, ecc.). In questi casi (che, dal punto di vista statistico, saranno certamente la maggior parte) il giudice delegato potrà nominare un perito, coinvolgendo tutti i terzi interessati, ed acquisire quindi una stima che sarà loro opponibile, nel corso del procedimento, e cioè: - sia nei confronti del proposto (per l’eventuale restituzione in danaro del controvalore del bene ormai destinato a finalità pubbliche) - che dei comproprietari estranei al procedimento (e che facciano valere il diritto di prelazione) - che dei titolari di diritti reali o personali di godimento (a cui favore è previsto il diritto a percepire un indennizzo in prededuzione) - e, infine, anche nei confronti dei creditori ipotecari o privilegiati. 3.3 Assistenza legale alla procedura L’art. 39 del Codice dispone: “Nelle controversie, anche in corso, concernenti rapporti relativi ai beni sequestrati o confiscati, l’amministratore giudiziario può avvalersi dell’Avvocatura dello Stato per l’assistenza legale”. E’ indubbio che il patrocinio erariale è facoltativo e non obbligatorio. La ratio della norma è certamente da individuare nell’intento di realizzare “una proficua concentrazione delle diverse azioni e una notevole riduzione delle spese” 60. Ma non va trascurata anche una forte valenza simbolica della norma, che è chiaramente diretta a sottolineare il ruolo istituzionale dell’amministratore giudiziario a presidio di preminenti interessi pubblici. La possibilità concorrente dell’amministratore di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato o ad un avvocato del libero foro pone l’interrogativo circa la competenza ad assumere la relativa decisione. Ritengo che la nomina dell’avvocato spetti non al giudice delegato ma all’amministratore, per la natura fiduciaria del mandato, per l’assenza di un qualsiasi disposizione che attribuisca questo potere al giudice (come era, invece, per l’art. 25 n. 6 LF prima della riforma del 2006) e, infine, perché in tema di esecuzione forzata immobiliare la Corte (con sentenza 12556/99) lo ha implicitamente affermato. Le ragioni che possono orientare la scelta dell’amministratore giudiziario in un senso o nell’altro sono molteplici, tra cui certamente anche la particolare competenza richiesta dal tipo di controversia. Di certo, l’amministratore non potrà avvalersi del patrocinio erariale quando si trova in una posizione processualmente contrapposta a quella dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati. Trattandosi di una Amministrazione dello Stato, questa deve obbligatoriamente avvalersi dell’Avvocatura (art. 1 R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611) e l’art. 43 comma 3 RD 1611/33 prevede espressamente che in caso di conflitto di interessi con lo Stato o con le Regioni, l’Avvocatura erariale deve declinare la difesa facoltativa. Può farsi il caso delle istanze (proposte dall’Agenzia ai sensi dell’art. 38 comma del Codice) di revoca o modifica di un provvedimento gestorio adottato dal giudice delegato. Qualora l’amministratore intendesse resistervi, dovrebbe certamente farsi difendere da un avvocato libero professionista. Non può tacersi che l’espressione “assistenza” adoperata dall’art. 39 è del tutto atecnica. Ai sensi dell’art. 87 cpc, infatti, le funzioni di assistenza sono ben distinte da quelle di rappresentanza; la prima spettava al solo avvocato e comportava l’attribuzione del ruolo di ausiliario della parte, incaricato di stare in giudizio affiancandola per sostenerne le ragioni, oralmente o per iscritto. Essendo privo del potere di rappresentanza, non è necessario il rilascio della procura ad litem coni requisiti formali prescritti dall’art. 83 cpc (Cass. 12 maggio 1999 n. 4718). Se l’art. 39 si intendesse in senso strettamente letterale, l’amministratore giudiziario dovrebbe munirsi comunque del ministero di un difensore del libero foro, a cui potrebbe cumulare le 60 Maltese C., Il Codice antimafia, in Il Penalista, Giuffrè, 2011, p. 60 prestazioni di assistenza dell’Avvocatura erariale. Ma questa conclusione comporterebbe certamente la frustrazione dell’intento del legislatore, sopra evidenziato. Dalla facoltatività della difesa erariale deriva che non è necessaria una procura scritta, perché lo jus postulandi deriva direttamente dalla legge; in particolare, l’art. 45 RD 1611/1933 richiama per il patrocinio facoltativo il comma 2 dell’art. 1, che esclude appunto la necessità del mandato. Ma, soprattutto, non si applica la competenza del foro erariale, prevista dall’art. 6 per il patrocinio obbligatorio, in quanto non richiamato dall’art. 45 61. 3.4 Potere di direzione del giudice delegato L’art. 40 dispone: “il giudice delegato impartisce le direttive generali della gestione dei beni sequestrati, anche tenuto conto degli indirizzi e delle linee guida adottati dal Consiglio direttivo dell’Agenzia medesima ai sensi dell’art. 112, comma 4, lettera a)”. Già sul piano letterale è indiscutibile il richiamo al previgente art. 25 LF. che assegnava al giudice delegato il potere di “dirigere le operazioni”. Sembrano quindi del tutto pertinenti le acute osservazioni di un’autorevole dottrina 62, che esclude che il giudice delegato possa impartire ordini e sostituire la propria volontà a quella del curatore, perché il potere di amministrazione può essere suscettibile di “compressione quantitativa” o anche di “graduazione qualitativa” ma “esiste un punto oltre il quale non si può andare”. L’amministratore giudiziario, a cui la legge affida il compito di “provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati”, non è un mero esecutore di ordini, dovendo invece adempiere ai suoi obblighi – nella cornice delle direttive impartite dal giudice delegato – ma con ampia autonomia. Ed infatti egli abbisogna di un’integrazione dei poteri gestori solo quando deve porre in essere un atto di straordinaria amministrazione, tra cui il comma 3 dell’art. 40 indica le attività di “stare in giudizio, contrarre mutui, stipulare transazioni, compromessi, fideiussioni, concedere ipoteche, alienare immobili”. La violazione delle direttive può certamente configurare un motivo di revoca dell’amministratore per “grave irregolarità”, ma le direttive sono qualcosa di meno rispetto agli ordini, che sono assolutamente vincolanti. Va inoltre rilevato che l’amministratore giudiziario non è legittimato a proporre reclamo avverso i provvedimenti gestori del giudice delegato, mentre l’Agenzia può chiederne la revoca o la modifica al tribunale (art. 38 comma 1). Questo dato, che indubbiamente evidenzia una maggiore subordinazione dell’amministratore giudiziario al giudice delegato, non è sufficiente però a privare l’amministratore della facoltà di autodeterminazione, ovviamente per gli atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti senza necessità di alcuna autorizzazione. Il potere direttivo del giudice delegato va esercitato “tenuto conto degli indirizzi e delle linee guida adottati dal Consiglio direttivo dell’Agenzia”. Considerato che l’Agenzia è un organo del potere esecutivo, questa norma pone delicati problemi di costituzionalità, potendo porsi in contrasto con il principio di separazione dei poteri. In proposito, si rammenta che con sentenza 23 dicembre 2005 n. 457 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 20 comma 7 legge 23 febbraio 1999 n. 44, per la violazione dei principi costituzionali posti a presidio dell’indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale. Va però osservato che in quel caso la norma imponeva al giudice dell’esecuzione di sospendere il processo esecutivo sulla base di un parere vincolante del Prefetto. Si trattava, quindi, di un provvedimento avente diretta efficacia sul singolo procedimento. Invece, gli atti di indirizzo adottati dal Consiglio direttivo ai sensi dell’art. 112 comma 4, lett. a) hanno carattere certamente generale e non possono esplicare alcun effetto sul singolo procedimento di prevenzione. 61 62 Cass. 29 luglio 2008 n. 20582, in Foro Amm., 2008, 9, p. 2325 Caselli G., Organi del fallimento, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge fallimentare, Zanichelli, 1977, p. 76 In questa ottica, va certamente evitata l’adozione di provvedimenti gestori, nel corso del procedimento di prevenzione, che possano pregiudicare la realizzazione delle finalità di pubblico interesse stabilite dal Codice. Per gli immobili, l’art. 58 comma 3 prevede che essi siano mantenuti al patrimonio dello Stato (per finalità di giustizia, ordine pubblico, protezione civile) o trasferiti al patrimonio del comune (per finalità istituzionali o sociali) o –in ultima analisi - venduti. Le aziende, a loro volta, sono destinate all’affitto, alla vendita o alla liquidazione. Si possono ipotizzare, sulla base dell’esperienza in materia concorsuale (che, per quanto riguarda i profili gestori, presenta indubbie affinità con le problematiche relative all’amministrazione “attiva” dei beni sequestrati), divergenti valutazioni (tra GD ed Agenzia) in ordine: - alla opportunità di concessione in locazione (per i beni immobili) o in affitto (per i complessi aziendali) - o all’individuazione del conduttore o dell’affittuario (va considerato che l’art. 35, co. 3, cod. antimafia), ha esteso il divieto – previsto dall’originario comma 4 – di nominare come amministratore alcune categorie “sospette” – quali coniuge, parenti, affini del proposto; o soggetti condannati o a loro volta già sottoposti a misure di prevenzione – anche al conferimento di “funzioni di ausiliario o di collaboratore dell’amministratore giudiziario”, ma non contempla l’ipotesi in cui a queste persone sia concesso il godimento o la gestione dei beni sequestrati; ipotesi, peraltro, nella pratica non inusuale) - o alla serietà delle garanzie da questi prestate - o più in generale alle condizioni contrattuali (specie con riferimento alla durata del rapporto di locazione) - o, infine, alla decisione se stipulare o meno un contratto definitivo, in esecuzione di un preliminare. Considerato, però, che un errore gestionale può comportare seri inconvenienti non solo all’Agenzia, ma anche ad altri soggetti (lo stesso proposto, i creditori), sarebbe stato opportuno accordare il rimedio del reclamo a qualunque interessato (e non solo all’Agenzia) come previsto dall’art. 26 LF. La durata del contratto di locazione o dell’affitto può ostacolare il reimpiego dei beni, una volta divenuta definitiva la confisca, a fini istituzionali o sociali. E’ noto che, in tema di procedure esecutive individuali e concorsuali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato la incompatibilità delle norme vincolistiche (legge 392/78) con la finalità liquidatoria della procedura (Cass. 28 settembre 2010 n. 20341; Cass., S.U. 20 gennaio 1994 n. 459; Cass. 15 marzo 1990 n. 2119). In particolare, la Corte ha ritenuto che l’art. 560 cpc, prescrivendo la necessità dell’autorizzazione al custode dell’immobile pignorato per la sua concessione in locazione, ha natura meramente processuale avendo funzione strumentale alla gestione del bene nel processo esecutivo. La locazione è quindi una “modalità di esercizio della custodia e conseguentemente postula effetti corrispondenti alla naturale limitatezza temporale di tale funzione” (Cass. 459/94). Lo stesso principio può quindi applicarsi anche ai contratti stipulati dall’amministratore giudiziario, che quindi può validamente pattuire con la controparte una scadenza correlata alla irrevocabilità del provvedimento di ablazione; è vero, infatti, che secondo la Corte il contratto di locazione “è naturaliter limitato entro l’orizzonte temporale della custodia”, ma intuitive ragioni di prudenza consigliano l’inserimento di una clausola espressa. Questo iter argomentativo può essere senz’altro trasposto al procedimento di prevenzione, quando riguarda beni già sottoposti a pignoramento, perché la improcedibilità dell’esecuzione (prevista dall’art. 55 del Codice) e la previsione che essa va riassunta (comma 2) comporta certamente la persistenza del vincolo di indisponibilità derivante dal pignoramento e quindi l’applicabilità (quantomeno in via analogica) dell’art. 560 cpc. Ma ad identiche conclusioni deve pervenirsi anche nel caso opposto, quando cioè il sequestro colpisce beni non previamente sottoposti a pignoramento, perché anche l’amministratore giudiziario ha compiti di custodia ed amministrazione (art. 35 comma 5) e indubbiamente la locazione o l’affitto sono modalità di esercizio del potere di gestione; a tal proposito, un aggancio normativo si rinviene nell’art. 42 comma 2 del Codice, che prevede la possibilità che dalla gestione dei beni sequestrati o confiscati si possa ricavare liquidità. Un ulteriore punto di inconciliabilità tra i due protagonisti del procedimento di prevenzione (amministratore giudiziario e giudice delegato, da un lato; Agenzia, dall’altro) può riguardare l’individuazione del soggetto a cui concedere i beni in locazione o affitto. Con specifico riguardo ai complessi aziendali, l’art. 48 comma 8 prevede la possibilità di darli in affitto a titolo oneroso o a titolo gratuito, rispettivamente a società o imprese pubbliche o private oppure a cooperative di lavoratori. L’Agenzia, nell’esercizio della sua discrezionalità amministrativa, ben può stabilire in via generale (ai sensi dell’art. 112 cit.) di dare prevalenza all’affitto senza alcun canone, a favore della cooperativa di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata (per favorire l’occupazione, per testimoniare l’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata, ecc.). Il giudice delegato (che, secondo l’art. 40, deve tener conto “degli indirizzi e delle linee guida del Consiglio direttivo dell’Agenzia”) è il custode anche e soprattutto degli interessi del proposto e dei suoi creditori. Si può ad esempio verificare che il passivo non sia di entità tale da richiedere la vendita dell’azienda (ciò che è consentito, peraltro, dall’art. 60 del Codice), potendo essere soddisfatto coi proventi derivanti dall’affitto dietro corresponsione di un canone di mercato. Questo è solo uno delle tante circostanze che possono creare divergenze di vedute tra giudice delegato ed amministratore ed Agenzia, con la conseguente possibilità che quest’ultima ricorra al Tribunale al fine di ottenere la revoca o modifica dei provvedimenti ritenuti in contrasto con le linee guida. 4. Cenni sulla liquidazione dei beni sequestrati o confiscati preordinata al soddisfacimento dei crediti anteriori alla misura di prevenzione L’art. 60 del Codice dispone: “Conclusa l’udienza di verifica, l’amministratore giudiziario effettua la liquidazione dei beni mobili, delle aziende o rami d’azienda e degli immobili ove le somme apprese, riscosse o comunque ricevute non siano sufficienti a soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo”. La norma riporta alla mente il testo dell’art. 104 della legge fallimentare, vigente prima della riforma del 2006, nella parte in cui fissava l’inizio della liquidazione in un momento successivo all’esecutività dello stato passivo. Invece l’attuale art. 104ter àncora l’avvio delle vendite alla predisposizione di un programma di liquidazione, che deve essere depositato entro sessanta giorni dall’inventario, e quindi dalla conclusione delle operazioni di acquisizione giuridica e di apprensione materiale dei beni all’attivo del fallimento. Anche sui tempi di liquidazione vi è pertanto un indubbio collegamento tra le disposizioni del Codice antimafia e la legge fallimentare del 1942 (rapporto già segnalato con riferimento alla verifica del passivo). In particolare, la scelta del legislatore di collegare l’inizio della liquidazione alla ultimazione dell’attività di verifica dei crediti è chiaramente preordinata al fine di individuare l’entità dei debiti meritevoli di tutela (cioè di soddisfacimento coattivo all’interno del procedimento di prevenzione) e conseguentemente di limitare la vendita dei beni sequestrati nella misura a questo scopo strettamente necessaria. Si noti che questa ratio è stata evidenziata anche sotto l’impero della legge fallimentare del 1942 63. La scelta del Codice antimafia di dare avvio all’attività di liquidazione solo dopo aver accertato (sia pure con efficacia meramente 63 A. Bonsignori, Liquidazione dell’attivo, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli, 1976, p. 4 endoprocedimentale) l’esistenza di crediti è ancor più condivisibile, se si considera che il procedimento di prevenzione è istituzionalmente diretto a realizzare interessi pubblici ben diversi rispetto a quelli, di carattere eminentemente privatistico, dei creditori del proposto. Si può dire che la liquidazione coattiva dei beni sequestrati è un incidente satisfattivo, con connotazioni di tipo eminentemente civilistico, potenzialmente idoneo a frustrare o ridurre l’efficacia della misura di prevenzione. Così inquadrato il rapporto tra la fase liquidatoria ed il più ampio procedimento in cui essa si inserisce, appare inevitabile la relazione di stretta sussidiarietà. Per quanto riguarda le modalità di vendita, l’art. 60 del Codice si limita a prevedere “procedure competitive” (comma 2), “adeguate forme di pubblicità” (comma 3), l’acquisizione del parere prefettizio previsto dall’art. 48 comma 5 (diretto ad evitare che i beni ritornino “anche per interposta persona” nel patrimonio “del soggetto al quale furono confiscati”). Non è comprensibile il motivo che ha indotto il legislatore a prevedere, per la vendita satisfattiva (diretta cioè a soddisfare i crediti ammessi al passivo), delle modalità di liquidazione del tutto sganciate dal potere di direzione del giudice delegato. In altri termini, l’art. 60 del Codice – disponendo soltanto che la vendita sia effettuata dall’amministratore giudiziario mediante procedure competitive – si allontana decisamente dallo schema pubblicistico che caratterizzava la liquidazione fallimentare prima della riforma del 2006. Infatti, in armonia col ruolo di assoluta preminenza affidato al giudice delegato, l’art. 105 previgente conteneva un rinvio integrale (sia pure con la clausola di salvaguardia della compatibilità) alle norme del codice di rito relative all’esecuzione forzata. Il legislatore della riforma, sull’onda dell’ideologia della privatizzazione della procedura concorsuale, aveva rafforzato notevolmente i poteri del curatore, conferendogli la massima autonomia, introducendo una disposizione analoga a quella contenuta nel Codice antimafia. L’art. 107 infatti disponeva che “le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore, tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati”. Successivamente, il D. Lgs. 169/07 (c.d. “decreto correttivo”) ha temperato l’impostazione eccessivamente “manageriale”, consentendo al curatore di prevedere nel programma di liquidazione che le vendite siano effettuate dal giudice delegato. Il Codice antimafia invece ha deliberatamente recepito il testo dell’art. 107 LF, introdotto col D. Lgs. 5/06: si verifica quindi uno scarto tra la posizione di generale subordinazione dell’amministratore giudiziario rispetto al giudice delegato (soprattutto nella verifica dei crediti, ma anche e più in generale nel potere di quest’ultimo di impartire direttive) e, invece, la maggiore autonomia concessa al professionista, quando dà inizio alle vendite. Ma ancor più grave è la scelta di non consentire il ricorso alla vendita coattiva secondo lo schema del processo di esecuzione. A tal proposito, una riprova dell’atteggiamento schizofrenico del legislatore si desume dal fatto che questo rinvio è invece contenuto (peraltro, prevedendo norme inderogabili che escludono qualsiasi valutazione discrezionale) nell’art. 48 comma 5 del Codice, che impone all’Agenzia di procedere alla vendita degli immobili (quando non è possibile destinarli alle finalità istituzionali o sociali previste nei commi precedenti) “osservate, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura civile”. E’ evidente che sarebbe stato quasi naturale inserire un analogo richiamo per le vendite effettuate dal tribunale di prevenzione per soddisfare i crediti ammessi al passivo, sia per la natura giurisdizionale dell’autorità preposta, sia per la finalità satisfattiva a cui questo compito è preordinato. Il sistema delineato dal Codice antimafia è invece alquanto bizzarro, perché assegna poteri tipicamente giurisdizionali ad un organo della pubblica amministrazione; e, per contro, non li prevede in favore dell’autorità giudiziaria preposta al procedimento di prevenzione, sebbene persegua – in questa particolare fase - finalità che sono del tutto coincidenti con quelle di una ordinaria procedura esecutiva. Ad ogni modo, sembra inevitabile desumere che l’amministratore giudiziario debba fare ricorso agli strumenti di tipo civilistico, e quindi negoziali, per la cessione dei crediti, dei beni mobili, del complesso aziendale, degli immobili. Ciò comporta alcune problematiche. Per la cancellazione delle ipoteche, si potrebbe ritenere che l’assenza di un provvedimento autoritativo con cui si verifica l’effetto traslativo della proprietà (dal proposto all’acquirente) renda necessaria la comparizione dei creditori assistiti dalla causa di prelazione innanzi al notaio per il rilascio dell’assenso alla cancellazione (art. 2882 c.c.) e, per le trascrizioni dei pignoramenti o dei sequestri conservativi, che sia indispensabile la rinuncia agli atti esecutivi da parte del creditore procedente o sequestrante e dei creditori intervenuti. Una diversa soluzione può però essere rinvenuta nel ricorso in via analogica all’art. 108 comma 2 della legge fallimentare, che consente al giudice delegato di ordinare la cancellazione delle trascrizioni e delle iscrizioni, “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo”. Ragioni di speditezza ed economicità rendono preferibile questa opzione, che peraltro sul piano giuridico è sorretta dall’indubbia affinità tra la procedura esecutiva concorsuale e la fase liquidativa del procedimento di prevenzione. L’altra questione che si porrà è la possibilità di vendere il bene libero e non occupato. Non potendosi procedere con le forme della vendita forzata, non è ipotizzabile l’ordine di liberazione nei confronti di colui che occupa l’immobile senza titolo opponibile. Il problema è stato risolto dal Codice con l’art. 21 che al comma 2 prevede l’ordine di sgombero. Questo provvedimento può però essere adottato dal Tribunale, quando ordina il sequestro, solo nei confronti di coloro che occupano il bene “senza titolo ovvero sulla scorta di titolo privo di data certa anteriore al sequestro”. Il raffronto con l’art. 52 comma 4 denuncia però una manchevole considerazione delle esigenze di un’efficiente collocazione del bene sul mercato, con conseguente pregiudizio per le ragioni creditorie. Infatti, nel caso di titolari di diritti reali o personali di godimento opponibili perché muniti di data certa anteriore al sequestro, dalla confisca consegue l’effetto purgativo e quindi lo scioglimento dei contratti da cui derivano. Invece, nel caso in cui non si addivenga alla confisca perché è necessario vendere il bene per destinare il ricavato al soddisfacimento dei crediti verso il proposto, l’amministratore giudiziario deve rispettare i diritti di godimento opponibili; da ciò può derivare un notevole deprezzamento del bene, ad esempio per la durata dei diritti (nel caso di locazione pluriennale) o per la loro estensione (usufrutto a favore di un soggetto in giovane età). Questo assetto può comunque ritenersi equilibrato, dovendo indubbiamente privilegiarsi l’interesse pubblico ad acquisire un bene libero dai diritti di godimento, rispetto alle ragioni creditorie. Però, un’ingiustificata compressione di queste ultime avrebbe potuto essere evitata, quanto meno nel caso di locazione opponibile ma stipulata a “canone vile”, cioè inferiore di oltre un terzo rispetto al “giusto prezzo”; in questi casi, infatti, l’art. 2923 comma 3 c.c. consente di ritenere inopponibile il contratto nei confronti dell’acquirente. Nell’espropriazione forzata, è pacifico che l’ordine di liberazione possa riguardare anche il conduttore che gode dell’immobile corrispondendo un canone inferiore a quello di mercato 64. Nei casi in cui l’immobile sia venduto nel corso del procedimento di prevenzione, l’amministratore giudiziario dovrà invece proporre ricorso ex art. 700 cpc, prospettando l’irreparabilità del pregiudizio nel fatto notorio che la vendita di un immobile gravato da una locazione non adeguatamente remunerativa comporta necessariamente lo svilimento del suo valore di scambio. 64 Fanticini G., La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata, a cura di Demarchi P. G., Zanichelli, 2009, p. 677 Il sequestro di prevenzione può indubbiamente avere gli stessi effetti del pignoramento (presupposto indefettibile per l’applicazione dell’art. 2923 c.c.), sia quando un’esecuzione esista già, sia quando il bene sequestrato non è stato sottoposto ad un vincolo pignoratizio preesistente, perché l’art. 55 del Codice, disponendo che “a seguito del sequestro non possono essere iniziate o proseguite azioni esecutive”, comporta la trasformazione dell’azione di espropriazione da azione esecutiva individuale ordinaria in azione esecutiva concorsuale 65. 5. Profili ordinamentali Tra penalisti e civilisti si dovrà attivare un proficuo processo di osmosi, inteso come flusso di conoscenze da un settore all’altro della giurisdizione ordinaria. Un modo per agevolare questo scambio di conoscenze (oltre alle iniziative congiunte in tema di formazione) potrebbe consistere nell’agire sul piano tabellare, incentivando la partecipazione ai collegi che si occupano di misure di prevenzione di magistrati con esperienza in materia concorsuale o nel campo dell’esecuzione individuale. Allo stato attuale, però, questo modulo organizzativo è precluso dalla circolare per la formazione delle tabelle del triennio 2012-2014, che favorisce la massima specializzazione e ritiene inderogabile “la naturale ripartizione tra il settore civile e quello penale” (art. 21.1 della circolare). La coassegnazione ad un settore diverso è consentita (dal § 18.3) solo per esigenze di riconversione e quindi per “finalità formative”, quando cioè il magistrato addetto al civile è in procinto di passare (magari per l’approssimarsi del periodo decennale massimo di permanenza) al penale. Sembra quindi opportuna una riconsiderazione da parte del Consiglio Superiore di questo specifico aspetto della circolare, che d’altra parte è stata emanata a luglio 2011 e quindi prima del Codice antimafia. Massimo Orlando Giudice del Tribunale di Lecce 65 Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Zanichelli, 1988, p. 8.