...

Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri

by user

on
Category: Documents
28

views

Report

Comments

Transcript

Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri
Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri, misure di
prevenzione, confisca) ed i processi esecutivi individuali/concorsuali: esigenze di
tutela dei terzi
Sommario: 1. Premessa – 2. Verifica – 2.1 Generalità del procedimento di verifica e rapporti
tra fallimento e procedimento di prevenzione – 2.2 Crediti a termine, condizionati, con
documentazione insufficiente o risultanti da sentenza non passata in giudicato – 2.3 Credito
risultante da sentenza - 2.4 Credito erariale e credito di natura extracontrattuale - 2.5 Titolari di
diritti reali o personali - 2.6 Buona fede - 2.7 Data certa - 3. Amministrazione, gestione e
destinazione dei beni sequestrati e confiscati - 3.1 Premessa - 3.2 Stima dei beni e contestazioni
di parte - 3.3 Assistenza legale alla procedura - 3.4 Potere di direzione del giudice delegato - 4.
Cenni sulla liquidazione dei beni sequestrati o confiscati preordinata al soddisfacimento dei
crediti anteriori alla misura di prevenzione - 5. Profili ordinamentali
1. Premessa
Il codice delle leggi antimafia (D.Lgs. 6 settembre 2011 n. 159, in G.U. 28.09.11, n. 226 e in
vigore dal 13 ottobre 2011) si propone di conferire organicità ad una legislazione che, specie
negli ultimi anni, è stata interessata da innumerevoli interventi normativi, spesso sollecitati da
un fecondo dialogo tra politica, giurisdizione e società civile.
Nel corso degli ultimi anni, si è avvertita in modo sempre più diffuso la consapevolezza della
pericolosità delle organizzazioni criminali e della necessità di contrastarle, anche e soprattutto,
sotto il profilo della ricchezza illecitamente accumulata: è eloquente la decisione quadro
2006/783/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 6 ottobre 2006, in cui si rinviene
l’affermazione che “un’efficace azione di prevenzione e lotta contro la criminalità organizzata
deve concentrarsi sul rintracciamento, il congelamento, il sequestro e la confisca dei proventi
di reato”.
Il legislatore ha gradualmente accolto l’esperienza degli ordinamenti di common law. In
particolare, negli Stati Uniti d’America la confisca in rem è l’esito di un procedimento
giurisdizionale ma è diretto contro la “tainted property” (cioè la proprietà contaminata); il
ricorso alla fictio iuris della “colpevolezza del bene” consente di attenuare l’evidenza probatoria,
essendo bastevole la “probable cause” 1.
In Italia, tra i molteplici interventi diretti ad utilizzare in modo sempre più efficace la leva del
contrasto alla proprietà illecita o illecitamente conseguita si possono annoverare l’abbandono
della pregiudizialità soggettiva (per cui la misura di prevenzione patrimoniale poteva essere
applicata solo subordinatamente e in via accessoria a quella personale) e la possibilità di far
ricorso alla misura di prevenzione patrimoniale anche in caso di morte del proposto 2.
Lasciando gli aspetti penalistici agli esperti del settore, ciò che va osservato è che l’intervento
sempre più deciso del legislatore nel campo dei diritti patrimoniali non poteva non comportare
una serie di sovrapposizioni o interferenze con la branca dell’ordinamento giuridico che di
questi si occupa, e cioè il diritto civile in tutte le sue articolazioni (diritti reali, diritto dei
contratti, diritto societario, diritto fallimentare).
* L’elaborato costituisce lo sviluppo della relazione tenuta all’incontro di studi del 23 gennaio 2012 organizzato
dall’Ufficio Referenti per la formazione decentrata dei magistrati del distretto di Milano – settore penale
1
Maugeri A.M., I modelli di sanzione patrimoniale nel diritto comparato, in http://appinter.csm.it/incontri/relaz/17300.pdf,
131
2
Mazzarese S. e Aiello A., Interdisciplinarietà e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, Giuffrè, 2010, p.
10
Il legislatore si è proposto di risolvere definitivamente le innumerevoli questioni sorte in
giurisprudenza, riguardanti in particolare la tutela dei diritti dei terzi, e cioè dei titolari di diritti
di godimento o di comproprietà sui beni oggetto di confisca, o di coloro che su questi beni
vantano la pretesa di soddisfare i propri crediti, (siano essi chirografari o assistiti da cause di
prelazione). Nel tentativo di apprestare una compiuta regolamentazione il Codice non poteva
non affrontare temi (quali l’amministrazione, la gestione, la liquidazione dei beni sottoposti a
misure di prevenzione) che hanno indubbie affinità con le problematiche da decenni studiate dai
fallimentaristi e, più di recente, dai giudici dell’esecuzione immobiliare.
Col presente scritto (che costituisce lo sviluppo di quello contenuto in una recente opera
collettanea 3) ci si propone di comparare le norme di diritto positivo contenute nel Codice delle
leggi antimafia a quelle, omologhe, presenti nel libro III del codice di rito e nella legge
fallimentare, al fine di verificare le dimensioni della “fallimentarizzazione del giudice della
prevenzione antimafia” 4.
Conviene però sin da subito richiamare l’attenzione del lettore su alcune considerazioni, la cui
portata verrà ripresa nell’analisi delle singole norme.
In primo luogo, è indubbia l’ambizione del Codice antimafia a fornire all’amministratore
giudiziario dei beni oggetto del sequestro o confisca di prevenzione uno statuto autonomo,
cioè un corpus di regole proprie, che tengano conto delle specificità dell’amministrazione,
della gestione e della liquidazione dei beni colpiti dalla sanzione. L’obiettivo si può ritenere
realizzato con una certa organicità e compiutezza, per quanto riguarda gli aspetti più prossimi
alla procedura fallimentare (nomina, poteri di gestione, integrazione da parte dell’autorità
giudiziaria dei poteri gestori, rendiconto, rimedi impugnatori avverso i provvedimenti di
amministrazione, compenso, riparto, ecc.); in tutti questi casi, la linea è chiara e consiste non in
un mero richiamo dell’attuale legge fallimentare, ma in una serie di norme che in più punti
riecheggiano le disposizioni precedenti alla riforma di cui al D. Lgs. 5/06. Ovviamente, non
mancano le lacune (che verranno esaminate di seguito) che sollevano problemi interpretativi e
porranno ricorrenti dubbi sull’ammissibilità del ricorso all’analogia, ma l’obiettivo di un sistema
compiuto può dirsi conseguito, perché i vuoti normativi (ove esistenti) riguardano solo aspetti
specifici.
Invece, in altri casi la lacunosità della disciplina è solo il meno grave dei difetti; il legislatore,
infatti, ha scelto di non tener conto di norme che in settori affini hanno dimostrato da tempo la
loro razionalità ed efficacia; il pensiero corre alla disposizioni in tema di liquidazione di beni
immobili nell’esecuzione forzata, al regime fiscale dell’amministrazione giudiziaria, ai diritti
esercitabili dall’amministratore quando il sequestro ha ad oggetto partecipazioni societarie.
In tutti questi casi, l’impressione è che sarebbe stata molto più utile una norma di richiamo,
rispettivamente, alle disposizioni in tema di espropriazione immobiliare, alle norme fiscali che
disciplinano la posizione del curatore e alle disposizioni in tema di diritti del socio
(indipendentemente dalla sedes materiae, che può essere costituita non solo dal codice civile,
ma anche dalla legge Draghi di cui al d. lgs. 24 febbraio 1998 n. 58).
Va inoltre osservato che il Codice antimafia conferma un atteggiamento ondivago del
legislatore degli ultimi anni; infatti, tra il 2005 e il 2011 da un lato è stato notevolmente
depotenziato il ruolo del giudice delegato, e dall’altro si è però rafforzata la posizione del
giudice dell’esecuzione immobiliare (a cui sono stati conferiti penetranti poteri di gestione attiva
del compendio pignorato). Per le misure di prevenzione, si è scelto di affidare al tribunale
penale poteri e centralità che erano tipici del tribunale fallimentare e del giudice delegato,
nell’assetto dei rapporti tra gli organi del fallimento esistente prima della riforma del 2006.
D’altra parte, una volta imboccata la strada della “fallimentarizzazione”, era necessario
ripudiare la scelta quasi ideologica della privatizzazione del diritto concorsuale (che ha
caratterizzato la riforma introdotta con il più volte menzionato D. Lgs. 5/06). Infatti, nel settore
3
4
Minutoli G., a cura di, Crisi di impresa ed economia criminale, Ipsoa, 2011, 129-174
Minutoli G., Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, Fall., 2011, 11, p. 1271
delle misure di prevenzione non sono in alcun modo invocabili le ragioni che hanno indotto il
legislatore a ribaltare l’assetto dei poteri e dei rapporti tra i vari organi della procedura
fallimentare, valorizzando la posizione del curatore e del comitato dei creditori, in ossequio ad
una concezione privatistica della procedura fallimentare 5, impostazione che – come è noto - ha
comportato la più o meno marcata marginalizzazione del giudice delegato (secondo alcuni,
addirittura, relegandolo ad un ruolo di mero controllore della legalità del procedimento 6).
Inoltre, la scelta verso la fallimentarizzazione delle misure di prevenzione sembra scontare in
alcuni punti (che verranno esaminati in seguito) alcune differenze ineliminabili tra le due
procedure.
Infatti, mentre il fallimento è caratterizzato indubbiamente dalla universalità e dalla qualità di
imprenditore del soggetto che vi è sottoposto, la misura di prevenzione invece – di norma –
non coinvolge necessariamente tutti i beni del soggetto né richiede che questi svolga un’attività
economica organizzata.
Ancora va osservato che la sentenza di fallimento ha un contenuto elastico 7, perché capace di
assorbire beni non individuati al momento dell’apertura della procedura nonché beni che
entrano nel patrimonio del fallito in un momento successivo, secondo la teoria dell’acquisizione
automatica; invece, la misura di prevenzione è, sotto questo aspetto, molto più simile ad un
pignoramento, perché entrambi i vincoli hanno ad oggetto solo beni specificamente individuati.
Un ulteriore e fondamentale elemento differenziale è rappresentato dal fatto che il fallimento
paralizza l’attività dell’impresa, assoggettando al vincolo dell’indisponibilità tutto il patrimonio
dell’imprenditore, nel quale ovviamente si ricomprendono non solo beni (e cioè,secondo la
definizione contenuta nell’art. 810 c.c., cose che possono formare oggetto di diritti) ma anche
rapporti giuridici, ancorchè aventi ad oggetto beni.
Un fondamentale punto di contatto è invece configurabile nella cristallizzazione del patrimonio
a favore dei creditori anteriori: l’art. 52 del Codice, infatti, stabilisce il principio che “la
confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa
anteriore al sequestro”, ponendo quindi una regola di destinazione dei beni all’esclusivo
soddisfacimento dei creditori anteriori al sequestro, che nel campo del diritto civile è tipica della
procedura fallimentare (artt. 42-44-52 LF) ma non della procedura esecutiva individuale, in cui
può spiegare intervento anche colui che è titolare di un credito sorto dopo il pignoramento.
Un altro elemento comune è certamente lo “spossessamento”, che in materia fallimentare si
desume generalmente dall’art. 42 LF, che priva il fallito dei poteri di amministrazione e
disponibilità dei beni acquisiti all’attivo. Il termine ha ricevuto varie critiche da parte di coloro
che hanno voluto evidenziare che il riferimento al possesso è idoneo a contraddistinguere non
gli effetti prettamente giuridici del fallimento sul fallito, ma il successivo momento della
materiale apprensione dei beni da parte degli organi fallimentari 8. Nel procedimento di
prevenzione l’attribuzione all’amministratore giudiziario dei compiti di amministrazione è
contemplata dall’art. 35 comma 5 del Codice. Per quanto riguarda, poi, la disponibilità materiale
dei beni sequestrati, il legislatore ha disciplinato in maniera molto più efficace (rispetto alle
scarne previsioni contenute negli artt. 87 e 88 LF) le modalità di esecuzione del sequestro. L’art.
21 del Codice, infatti, richiama le formalità prescritte dall’art. 104 disp. att. cpp che, in tema di
sequestro preventivo penale, prevede procedimenti differenziati per ciascuna categoria di beni,
ma sostanzialmente replicando le previsioni già contenute nel codice di procedura civile.
Aggiunge, però, il legislatore delle misure di prevenzione alcune previsioni dirette ad assicurare
5
Pasi F., Il giudice delegato, in Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia G. e Panzani L., Utet,
2009, 1, p. 286.
6
G. Schiavon, Il nuovo diritto fallimentare, Zanichelli, 2009
7
De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1986, p. 3
8
Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, cap. X, p. 2
l’effettiva apprensione materiale dei beni sequestrati, prevedendo che l’ufficiale giudiziario sia
obbligatoriamente assistito dalla polizia giudiziaria; l’immissione dell’amministratore nel
possesso dei beni, anche se gravati da diritti reali o personali di godimento; l’ordine di
sgombero degli immobili, se occupati senza titolo o sulla scorta di titolo privo di data certa
anteriore al sequestro.
In definitiva, i punti di contatto e le molteplici divergenze tra processo fallimentare e
procedimento di prevenzione daranno linfa a vivaci dibattiti, specie sui limiti del ricorso
all’applicazione analogica.
Ma, oltre all’individuazione delle norme da utilizzare per colmare le lacune, ai penalisti sarà
richiesto uno sforzo culturale di non poco momento perché dovranno applicare concetti ed
istituti del tutto estranei alla cultura penalistica (buona fede, data certa, opposizione allo stato
passivo, ecc.). Questo processo di osmosi sarà certamente reso problematico dalle intrinseche
differenze tra i due procedimenti, che perseguono obiettivi a volte antitetici (tutela dei creditori,
per quanto riguarda il fallimento; contrasto alla criminalità organizzata e finalità politico-sociali,
per la misura di prevenzione).
In prosieguo, si vedrà in quale misura queste osservazioni corrispondono al vero, cercando di
evidenziare le questioni più problematiche di alcuni settori in cui maggiormente si evidenziano i
punti di contatto o interferenza tra le due discipline, e cioè:
- verifica del passivo
- amministrazione dell’attivo
- liquidazione dell’attivo.
1. Verifica:
1.1 Generalità del procedimento di verifica e rapporti tra fallimento e procedimento di
prevenzione:
Il sistema che il Codice ha delineato con riguardo al tema della verifica dei crediti può essere
così riassunto.
Al fine di evitare la precostituzione di creditori di comodo (ratio che ha sempre influito, in
maniera determinante, sulle decisioni in materia di tutela dei terzi coinvolti dalle misure di
prevenzione), il legislatore ha introdotto l’obbligo per tutti i creditori di proporre la domanda di
ammissione del proprio credito.
I requisiti per l’ammissione, previsti dettagliatamente dall’art. 52, saranno esaminati di seguito.
In questa sede, va osservato che è prevista una riserva a favore del giudice delegato del
procedimento della misura di prevenzione. Si tratta di una sorta di replica del principio di
esclusività del giudizio di verificazione del passivo, che in materia fallimentare è previsto
dall’art. 52 LF; il principio della concorsualità dell’esecuzione richiede infatti che anche
l’accertamento dei diritti di credito avvenga in un unico contesto 9. Il concorso fallimentare
richiede la organizzazione di una procedura che rende possibile attuare la regola civilistica della
par condicio creditorum, prevista dall’art. 2741 c.c.
Nel diritto fallimentare, l’esclusività della verifica del passivo è anche denominata concorso
formale; costituisce il completamento del principio del concorso sostanziale, previsto dall’art.
51 LF e che a sua volta si risolve nel divieto di proseguire o promuovere le esecuzioni
individuali (art. 51 LF) 10. E a tal proposito non va trascurato che anche il Codice antimafia
prevede una norma analoga a quella contenuta nell’art. 51 LF, perché all’art. 55 vieta al
creditore particolare di iniziare o proseguire l’esecuzione (senza, peraltro, ammettere alcuna
eccezione, neanche per il creditore di mutuo fondiario).
9
Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, Artt. 51-63, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1988, p. 48
10
Ferro M., Le insinuazioni al passivo, Tomo III, Voci, Cedam, 2010, p. 501
E’ stato acutamente osservato che il Codice antimafia ha “calato un procedimento proprio di
una procedura concorsuale in un contesto che concorsuale non è, con tutte le conseguenti
criticità” 11. Si cercherà in seguito di evidenziare qualche questione aperta.
Va però osservato sin d’ora che nel fallimento il principio di esclusività del giudizio di
verificazione del passivo ha carattere assoluto ed inderogabile 12.
Invece, nella materia delle misure di prevenzione è prevista una significativa eccezione. Infatti,
se il proposto è stato dichiarato fallito, la verifica va effettuata (non dal giudice delegato della
misura, bensì) dal giudice delegato del fallimento.
Questa sorta di “delega” ex lege dall’autorità giudiziaria penale a quella civile è prevista in
entrambi i casi ipotizzabili.
Se, infatti, il fallimento viene dichiarato dopo l’esecuzione del sequestro, l’art. 63 comma 5
dispone che “il giudice delegato al fallimento provvede all’accertamento del passivo e dei diritti
dei terzi”.
L’ipotesi in cui, invece, il fallimento precede il sequestro è disciplinata dall’art. 64 (commi 2 e
3), che ha riguardo al caso in cui la verifica sia già stata effettuata dal giudice delegato del
fallimento e dispone la rinnovazione dell’attività.
Il giudice delegato del procedimento di prevenzione deve quindi svolgere l’attività di verifica
dei crediti vantati nei confronti del proposto, in tutti i casi in cui questi non è stato assoggettato
ad una procedura fallimentare.
1.2 Crediti a termine, condizionati, con documentazione insufficiente o risultanti da
sentenza non passata in giudicato:
L’amministratore giudiziario, ai sensi dell’art. 57, deve depositare “un elenco nominativo dei
creditori con l’indicazione dei crediti e delle rispettive scadenze e l’elenco nominativo di coloro
che vantano diritti reali o personali sui beni, con l’indicazione delle cose stesse e del titolo da
cui sorge il diritto”.
La necessità di indicare la scadenza del credito è una considerevole novità del Codice antimafia
e si giustifica con l’assenza di una norma analoga a quella contenuta nell’art. 55 comma 2 LF,
che prevede l’automatica scadenza dei debiti pecuniari alla data del fallimento.
Questa mancata previsione è certamente ragionevole, posto che la norma fallimentare costitusce
una specifica applicazione del principio generale contenuto nell’art. 1186 c.c., relativa alla
decadenza dal beneficio del termine, consentita se il debitore “è divenuto insolvente” 13.
L’immediata esigibilità dei debiti verso il fallito è quindi conseguenza diretta della
dichiarazione di fallimento, che ha accertato – con effetti erga omnes – lo stato di decozione del
debitore.
Invece, per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale del sequestro, il presupposto
è costituito non già dall’insolvenza, bensì da un rapporto di sproporzione tra il valore dei beni e
il reddito dichiarato dai soggetti nei cui confronti è possibile promuovere il procedimento
(previsti dagli artt. 14 e 16 del Codice) o da un collegamento con pregresse attività illecite da
costoro compiute.
L’art. 96 comma 3 LF disciplina l’ammissione con riserva, con riferimento ad ipotesi
(ovviamente diverse dalla presenza di un credito a termine, evenienza inconcepibile nel sistema
concorsuale) relative ai crediti sottoposti a condizione (art. 96 comma 3 n. 1 LF). Si tratta cioè
di crediti che possono farsi valere solo dopo l’escussione di un obbligato principale (art. 55
comma 3 LF), crediti per i quali manchi il documento giustificativo (art. 96 comma 3 n. 2 LF) e
crediti risultanti da sentenza non passata in giudicato.
11
Minutoli G., Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, Fall., 2011, 11, p. 1280
Cass. 18 novembre 2010 n. 23353, in Resp. Civ. e Prev., 2011, 10, 2082; Cass. 19 aprile 2002 n. 5725, in Giust. Civ.,
2002, I, 1814
13
Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, Artt. 51-63, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1988, p. 137
12
In tema di ammissione con riserva, costituisce insegnamento tradizionale quello secondo cui la
norma che la prevede ha natura eccezionale 14 (principio, in verità,
espresso dalla
giurisprudenza prima della riforma della legge fallimentare, che taceva sul punto, mentre
l’attuale art. 96 comma 3 LF afferma in maniera molto più esplicita il principio di tassatività
delle riserve 15).
L’assoluto silenzio del Codice antimafia in ordine all’ammissione con riserva sembra che non
escluda ma legittimi il ricorso a questo tipo di dispositivo.
Pertanto, possono essere ammessi con l’indicazione nello stato passivo delle peculiarità che li
riguardano:
- i crediti sottoposti a termine o condizione risolutiva
- i crediti il cui soddisfacimento è subordinato alla preventiva escussione di un coobligato
principale (ad esempio, del fideiussore, subordinatamente al pagamento da parte sua del
debito del proposto nei confronti del creditore garantito).
Per quanto riguarda la domanda che avesse ad oggetto un credito sottoposto a condizione
sospensiva, invece, si potrebbe ritenere che non debba essere accolta, fino a quando non si
verifica l’evento sub condicione. Questa soluzione, però, potrebbe porre un problema di
legittimità costituzionale della norma che, all’art. 58 comma 5 del Codice, pone un limite
massimo ed invalicabile di un anno dalla definitività del provvedimento di confisca per la
proposizione delle domande di ammissione, senza eccezione alcuna. Sembra quindi preferibile
anche in questo caso la soluzione dell’accoglimento della domanda, con l’indicazione della
necessità che si verifichi la condizione.
Se, invece, la domanda è affetta da carenza documentale, si può porre l’interrogativo se si possa
applicare in via analogica l’art. 96 comma 3 n. 2 LF, ammettendo quindi il credito con riserva,
con la fissazione di un termine per la produzione del titolo giustificativo e quindi per il
successivo scioglimento della riserva senza alcuna formalità.
Sembra buona regola, quando manca un documento essenziale ai fini probatori, che il giudice
delegato della misura di prevenzione applichi la prassi vigente prima della riforma della legge
fallimentare; all’epoca, non essendo previsto il procedimento di scioglimento de plano (su
istanza del curatore o del creditore, come invece adesso ammette espressamente ed
opportunamente l’art. 113-bis LF), era necessario proporre opposizione allo stato passivo e in
quella sede si doveva depositare il documento mancante 16. Generalmente, però, per evitare la
proliferazione di opposizioni allo stato passivo, il giudice delegato non respingeva la domanda
di ammissione, né ammetteva il credito con riserva, ma si riservava di dichiarare esecutivo lo
stato passivo, fissando un termine per il deposito del documento omesso.
Il Codice non prevede espressamente la possibilità per il giudice delegato di riservarsi la
pronuncia del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, ma il riferimento, contenuto nel
comma 3 dell’art. 59, al “decreto depositato in cancelleria” rende evidente che non vi è alcun
obbligo di pronunciarlo in udienza. Sembra, quindi, ammessa la possibilità di fissare un termine
per l’integrazione documentale riservandosi di decidere (dopo la scadenza del termine) se
ammettere o meno il credito; va a tal proposito osservato che la possibilità di riservarsi la
formazione dello stato passivo era espressamente prevista dalla legge fallimentare nel testo
originario (art. 96 u.c. LF) mentre ora si ritiene che non sia più consentito, perché la norma non
è stata riprodotta 17. Ecco, quindi, un punto di contatto tra il procedimento di verifica previsto dal
Codice e quello disciplinato dalla legge fallimentare del 1942.
14
Cass. 8 agosto 2003 n. 11953, Fall., 2004, 1091; Cass. 19 novembre 2003 n. 17526, Giust. Civ. Mass., 2003, 11;
Cass.9 ottobre 1996, n. 8835, Fall., 1997, 604
15
Aprile F., Ammissione con riserva, Le insinuazioni al passivo, Tomo III, Voci, Cedam, 2010, p. 56
16
Cass. 19 giugno 2008 n. 16657, Giust. Civ. Mass., 2008, 6, 986; Cass. 21 dicembre 1990 n. 12147, Fall., 1991, 676
17
Fichera G., Accertamento del passivo, Trattato delle procedure concorsuali, vol. 3, Utet 2010, p. 564
In alternativa all’assunzione della riserva, il giudice delegato potrà anche rinviare la decisione
ad una successiva udienza, fissando un termine per consentire al creditore di produrre i
documenti giustificativi del credito.
1.3 Credito risultante da sentenza:
Nel sistema fallimentare, vi è un trattamento giuridico sensibilmente e sostanzialmente
differente per l’ammissione al passivo dei crediti risultanti da sentenza, rispetto a quelli che non
hanno costituito oggetto di un giudizio ante fallimento.
In termini riassuntivi: il credito che è stato accertato con pronuncia non passata in giudicato ed
emessa prima della dichiarazione di fallimento, va ammesso con riserva con onere del curatore
di proporre l’impugnazione (art. 96 comma 3 n. 3 LF; prima della riforma, art. 95 u.c. LF
previgente); se, invece, la sentenza era passata in giudicato prima dell’apertura della procedura,
il giudice delegato è senz’altro vincolato e deve quindi ammettere il credito al passivo.
La ratio di questa norma era stata individuata, prima della riforma del 2006, nella necessità di
evitare un contrasto tra l’accertamento contenuto nella sentenza pronunciata prima del
fallimento (o perché già passata in giudicato o perché non impugnata dal curatore) e il
provvedimento negativo pronunciato dal giudice delegato 18.
La norma è stata ribadita (con una formulazione peraltro infelicissima, come da più parti
evidenziato, perché sembra non più prevedere l’obbligatorietà dell’impugnazione 19) anche dal
legislatore della riforma (art. 96 comma 3 n. 3 LF). Ma, rispetto al sistema previgente, occorre
tener conto, sul piano sistematico, di una novità rilevantissima e cioè che l’ultimo comma della
stessa norma prevede l’efficacia esclusivamente endofallimentare (non solo del decreto che
dichiara esecutivo lo stato passivo, ma anche) dei provvedimenti che definiscono le cause di
opposizione allo stato passivo e di impugnazione dei crediti ammessi.
Ciò significa che la ratio della norma che pone un “limite alla libertà del giudice delegato di
decidere secondo il suo convincimento” 20, quando il credito è stato oggetto di accertamento di
una sentenza non passata in giudicato (e sempre che il giudice non intenda respingere la
domanda di ammissione “per ragioni diverse dalla contestazione della sussistenza del rapporto
sostanziale di credito affermato esistente dal creditore” 21), non può più essere posta in
indissolubile connessione con l’intento di evitare un contrasto di giudicati, per la decisiva
ragione che è venuta meno l’efficacia ultrattiva dei provvedimenti di ammissione al passivo,
anche se conseguenti alla fase contenziosa dell’opposizione.
Ciò posto, va osservato che anche per i procedimenti di prevenzione è sancita l’efficacia
esclusivamente endoprocedimentale, posto che l’art. 59 comma 4 dispone che “i provvedimenti
di ammissione e di esclusione dei crediti producono effetti solo nei confronti dell’Erario”.
Manca, però, una norma analoga a quella introdotta con la legge di riforma del diritto
fallimentare, che ora – come già rilevato - la prevede anche per i crediti ammessi all’esito del
giudizio di opposizione; infatti, l’art. 59 commi 6-7-8-9 del Codice pur disciplinando
l’opposizione e l’impugnazione dei crediti ammessi, nulla prevede in tema di efficacia
(ultrattiva o limitata al procedimento) del decreto che le definisce.
Il fondamento della efficacia meramente preclusiva ed endofallimentare (dovuta ad una
elaborazione esclusivamente giurisprudenziale, mancando fino al 2006 qualsiasi dato
normativo) era stato individuato dalla giurisprudenza nella natura non contenziosa, pur se
giurisdizionale, della correlata attività di verifica del passivo svolta dal giudice delegato e dalla
sommarietà degli accertamenti a lui demandati nella materia 22. Per questa ragione l’efficacia di
18
De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1986, p. 36; Cavalaglio A., L’art. 95, 3° comma, legge fallimentare e la verifica dei crediti, in Riv. Dir.
Proc., 2002, 3, 1007 e ss.
19
Bozza G., Formazione ed esecutività dello stato passivo, in Il Nuovo diritto fallimentare, vol. I, Zanichelli, 2006, p.
1468
20
Cavalaglio A., L’art. 95, 3° comma, legge fallimentare e la verifica dei crediti, in Riv. Dir. Proc., 2002, 3, 1007 e ss.
21
Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 50
22
Cass. 28 marzo 1990 n. 2545, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1990, II, 683.
giudicato, anche fuori dal concorso, era limitata alla sola sentenza che – decidendo
l’opposizione allo stato passivo - definiva un vero e proprio processo contenzioso, che esplicava
i propri effetti anche nei confronti del fallito, una volta chiusa la procedura concorsuale.
La marcata giurisdizionalizzazione che caratterizza il procedimento di verifica del passivo
delineato dalla riforma del 2006 avrebbe dovuto indurre il legislatore ad estendere il principio
dell’ultrattività anche al decreto di ammissione al passivo. Invece, la scelta operata è andata in
senso diametralmente opposto, avendo la legge stabilito che tutti i provvedimenti relativi alla
verifica del passivo esplicano i lori effetti esclusivamente all’interno della procedura
fallimentare, e valgono esclusivamente ad individuare i soggetti titolari del “diritto al concorso”.
Ciò significa che è venuto meno il nesso tra sommarietà del procedimento di verifica ed
efficacia meramente interna del provvedimento decisorio e che il legislatore fallimentare si è
ritenuto libero di scindere il nesso tradizionalmente individuato tra questi due principii.
Orbene, va ora osservato che nel procedimento di prevenzione l’attività di verifica del passivo
ha gli stessi connotati inquisitori ed officiosi che erano propri del processo fallimentare
previgente (ante riforma 2006), in cui il curatore partecipava “in posizione ancillare” 23.
In effetti, l’amministratore giudiziario non ha (come non aveva il curatore nella legge
fallimentare previgente) il potere di proporre l’opposizione avverso il decreto che dichiara
esecutivo lo stato passivo (riservato ai soli creditori: art. 59 comma 6 del Codice), né il potere di
impugnare i crediti ammessi; è noto, invece, che la legge fallimentare attualmente in vigore
riconosce al curatore questi poteri processuali.
Il compito del curatore, prima della riforma della legge fallimentare, era di mera “assistenza”
(art. 95 comma 2 LF vecchio testo) e questa è esattamente l’espressione che utilizza l’art. 59
comma 1 del Codice, riferendosi alla posizione dell’amministratore giudiziario.
Inoltre, l’amministratore giudiziario non ha l’onere di assumere per ciascun creditore le proprie
“motivate conclusioni” (art. 95 comma 1 LF in vigore) e quindi la decisione del giudice delegato
(del procedimento di prevenzione) è del tutto svincolata dalle eccezioni di parte.
In ultima analisi, il Codice delle leggi antimafia ha attribuito al giudice delegato il ruolo di
assoluta preminenza che caratterizzava il “vecchio” giudice della procedura fallimentare. Il
procedimento di verifica non è, quindi, un processo di parti (come è invece stato costruito dalla
legge fallimentare ora in vigore); non è pertanto configurabile il potere monopolistico delle parti
nel determinare la materia del decidere (salvo il principio che vieta di andare ultra petita,
rispetto alla domanda del creditore). Il giudice delegato delle misure di prevenzione, quindi, può
porre a fondamento della propria decisione anche una causa estintiva, modificativa o impeditiva
della pretesa fatta valere, che nell’ordinario processo di cognizione (e anche nella verifica del
passivo fallimentare così come attualmente strutturata) sono rimesse all’eccezione di parte.
Questa scelta è del tutto coerente con gli interessi pubblicistici connaturati al procedimento di
prevenzione.
Ritornando all’interrogativo se il decreto che decide l’opposizione allo stato passivo o
l’impugnazione dei crediti ammessi ha efficacia vincolante anche fuori dal concorso, si potrebbe
ritenere tuttora valido il ragionamento che, prima della riforma del 2006, aveva indotto la
giurisprudenza di legittimità a riconoscerla. Infatti, anche nel procedimento di prevenzione – a
fronte di una fase di verifica sommaria – vi è una fase successiva, eventuale, che ha natura di
vero e proprio giudizio contenzioso.
Tuttavia, sebbene il comma 4 dell’art. 59 del Codice limita l’efficacia endoprocedimentale ai
soli “provvedimenti di ammissione e di esclusione dei crediti”, sembra che alla stessa
conclusione debba pervenirsi anche per i decreti che definiscono la fase dell’opposizione.
Mentre, infatti, nella procedura fallimentare il curatore si sostituisce al fallito (art. 43 LF), che
viene così ad essere privato (anche) della capacità processuale, ciò non avviene nel
procedimento di prevenzione, che si occupa solo dell’esame dei crediti che possono essere
23
Cariolo G., Procedimento di verifica dei crediti e dei diritti reali, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di
Ghia, Piccininni, Severini, vol. III; Utet, p. 513
riconosciuti non fraudolenti (dovendosi accertare il requisito della buona fede, ex art. 52, su cui
infra). Il rapporto tra il curatore e il fallito è unanimemente indicato con l’espressione
“amministrazione sostitutiva”: alla perdita del potere di amministrare e disporre si verifica il
simultaneo fenomeno dell’acquisizione dei medesimi poteri da parte degli organi fallimentari.
Dal già evidenziato carattere elastico della sentenza di fallimento deriva la sua attitudine ad
investire non solo i beni corporali (cioè le “cose che possono formare oggetto di diritti”, ex art.
810 c.c.), ma anche i beni c.d. strumentali, vale a dire “i poteri, azioni, facoltà, rapporti
giuridici che costituiscono il mezzo per l’acquisto e la conservazione di altri beni” 24. La perdita
della capacità processuale, sancita per il curatore dall’art. 43 LF, è un corollario dello
spossessamento, posto che “l’amministrazione dell’impresa nella sua nuova direzione a fini
liquidatori si svolge anche sul piano processuale” 25.
L’assenza, nel campo delle misure di prevenzione patrimoniale, di una norma analoga a quella
dell’art. 42 LF (che ha consentito di estendere l’espressione “beni del debitore” all’intero
patrimonio del fallito come fascio di rapporti giuridici) e di una parallela disposizione in tema di
capacità processuale, fanno ritenere che sia privo di qualsiasi effetto vincolante un
provvedimento giurisdizionale, seppur definitivo, che sia stato pronunciato (anche prima del
sequestro) tra il creditore ed il proposto. Inoltre, va osservato che il principio dell’opponibilità
del giudicato formatosi, anteriormente al fallimento, tra creditore e debitore, trova il suo
fondamento anche nella norma contenuta nell’art. 95 comma 3 LF. 26 che (nel testo previgente)
disponeva l’obbligo per il curatore di impugnare la sentenza non definitiva, se il giudice
delegato non intendeva ammettere il credito (cfr. § 2.2 che precede). La norma è stata trasposta,
come è noto, nell’art. 96 comma 3 n. 3 LF. Orbene, proprio l’assenza nel Codice delle misure di
prevenzione di una disposizione analoga a quella dell’ammissione con riserva del credito
risultante da sentenza non passata in giudicato, fa ritenere che il giudice delegato della misura
patrimoniale non sia vincolato dalla irrevocabilità del dictum giurisprudenziale a cui è stato
estraneo l’amministratore giudiziario.
In definitiva, il provvedimento di ammissione al passivo del giudice delegato del procedimento
di prevenzione ha natura esclusivamente interna alla procedura e, specificamente, solo con
riguardo all’Erario, indipendentemente dal fatto che sia stato ammesso de plano o a seguito di
un giudizio contenzioso di opposizione al passivo. Da ciò consegue che anche il credito
derivante da una sentenza emessa tra le parti (creditore e proposto) prima dell’apertura
del procedimento di prevenzione, e anche se passata in giudicato, deve essere valutato ai
fini dell’accertamento della buona fede, ex art. 52.
Vi è però una differenza tra sussistenza del credito e stato soggettivo del creditore. In presenza
di una sentenza definitiva emessa prima dell’apertura del procedimento di prevenzione, il
giudice delegato può certamente escludere il creditore dal passivo, se l’amministratore
giudiziario fornisce elementi idonei a dimostrare che il credito sia strumentale all’attività illecita
o ad altra che costituisca il frutto o il reimpiego della prima e, a sua volta, il creditore non
dimostra di aver ignorato questo collegamento. Si può però ipotizzare che il credito stesso sia
inesistente, anche se accertato con sentenza: è la ricorrente problematica dei creditori di
comodo, che ha ispirato gran parte delle pronunce giurisprudenziali che si sono occupate del
controverso rapporto tra misure di prevenzione e diritti dei terzi. Orbene, in assenza di alcun
dato testuale che consente di sciogliere il quesito se, con riferimento a fatti ed elementi
costitutivi già accertati con sentenza passata in giudicato tra le parti, il giudice delegato (del
procedimento di prevenzione) sia vincolato a questo dictum, sembra che non possa che
valorizzarsi l’unica norma che abbia una qualche attinenza, e cioè l’art. 59 comma 4 del Codice.
In termini più espliciti, prevedere che “i provvedimenti di ammissione e di esclusione dei crediti
24
Satta S., Diritto fallimentare, Cedam, 1996, p. 143
Satta S., ibidem, p. 166
26
Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 67; negli stessi termini, Montanari M., Le procedure
concorsuali, Il fallimento, in Le Leggi commentate, artt. 92-159 LF, a cura di Guido Uberto Tedeschi, 1996, p. 760
25
producono effetti solo nei confronti dell’Erario” serve non tanto a stabilire la loro efficacia
endoprocedimentale (perché era una conclusione a cui si sarebbe potuti pervenire in via
interpretativa, utilizzando le conoscenze dei fallimentaristi) ma – soprattutto - a porre il
principio dell’assoluta insensibilità nei confronti della procedura di prevenzione di tutte le
vicende pregresse. Va infatti considerato che il provvedimento giudiziale è reso in un
procedimento in cui l’amministratore giudiziario è rimasto estraneo.
2.4 Credito erariale e credito di natura extracontrattuale
E’ noto che l’art. 88 dpr 602/73 impone al giudice delegato del fallimento di ammettere con
riserva il credito tributario che ritenga non possa essere ammesso al fallimento; da ciò deriva,
conseguentemente, l’onere del curatore di promuovere o proseguire il giudizio tributario.
La norma è una eccezione al principio di esclusività del giudizio di verificazione del passivo
(per il quale un tempo si usava il “termine efficace e pittoresco, ma tecnicamente inesatto, di
potere di assorbimento” 27), che è però razionalmente giustificata (non con l’intento di riservare
un trattamento di favore al Fisco, bensì) con la considerazione che per i crediti fiscali è prevista
la speciale giurisdizione tributaria. Si tratta, quindi, di una disposizione diretta a preservare la
coerenza del sistema, evitando al giudice delegato di occuparsi di diritti e rapporti di natura
tributaria, che in generale sono sottratti alla cognizione del giudice ordinario.
Ne costituisce conferma il fatto che l’art. 31 del d. lgs. 46/99 prevede espressamente che l’art.
88 cit. “non si applica se le contestazioni relative alle somme iscritte a ruolo sono devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario”.
Ci si chiede, quindi, se il giudice delegato del procedimento di prevenzione che intenda
respingere la domanda di ammissione al passivo del concessionario per la riscossione, per
crediti tributari devoluti (ex art. 2 D. Lgs. 546/92 alla giurisdizione tributaria, possa farlo o se,
invece, debba ammettere il credito con riserva e porre a carico dell’amministratore giudiziario
l’onere di proporre ricorso innanzi alla commissione tributaria competente.
Nel procedimento di prevenzione, l’assenza di un qualsiasi riferimento normativo e l’efficacia
meramente interna del provvedimento di ammissione fa ritenere che non sia configurabile né
l’ammissione con riserva, né la prevalenza della giurisdizione tributaria. Ne consegue che il
concessionario per la riscossione, che si è visto respingere la domanda, dovrà proporre
l’opposizione allo stato passivo, ai sensi dell’art. 59 comma 6 del Codice; la decisione avrà
effetti esclusivamente endoprocedimentali.
Si potrà porre la questione relativa alla possibilità di escludere il credito tributario per
insussistenza della buona fede (art. 52 lett. b, del Codice).
E’ noto che uno dei punti di forza dell’impresa mafiosa o collaterale alla criminalità organizzata
consiste nella sistematica violazione delle norme tributarie, da cui deriva ovviamente una
pretesa creditoria in capo all’Agenzia delle Entrate.
Dal punto di vista soggettivo, l’imprenditore che versa in simili condizioni può rientrare
nell’area di operatività dell’art. 1 lett. a (e cioè quando è “abitualmente dedito a traffici
delittuosi”), o dell’art. 1 lett. b (quando “vive abitualmente con i proventi di attività delittuose”),
o nell’art. 4 comma 1 lett. a (quando è indiziato di appartenere ad una associazione di tipo
mafioso). In particolare, si può ipotizzare che in un prossimo futuro si faccia ricorso alle misure
di prevenzione patrimoniale per soggetti abitualmente dediti a delitti di bancarotta o tributari (d.
lgs. 10 marzo 2000 n. 74).
Tuttavia, la natura illecita della condotta da cui deriva il credito dell’Agenzia delle Entrate
induce a ritenere che non si possa in questi casi escludere l’ammissione del credito: invero, il
requisito della “buona fede” lascia intendere che il legislatore abbia inteso riferirsi alle
obbligazioni volontariamente contratte dal terzo, a cui carico l’ordinamento pone l’onere di
astenersi da rapporti giuridico-economici con un soggetto che egli sa appartenere ad
27
Celoria C.-Pajardi P., Commentario della legge fallimentare, Giuffrè, vol. I, 1963, p. 408
un’associazione criminale o che è dedito a “traffici delittuosi” o che si avvale di “proventi di
attività delittuose”.
Diversamente opinando, qualora cioè si ritenesse applicabile il requisito della buona fede anche
alle obbligazioni di natura extracontrattuale, si dovrebbe escludere la possibilità di ammissione
al passivo del credito risarcitorio delle vittime del reato. Ma in proposito va osservato che la
legge ammette espressamente la possibilità di risarcire “le vittime dei reati di tipo mafioso”, con
le somme di denaro confiscate, con i proventi della vendita di beni mobili (anche registrati) e
con quanto ricavato dalla vendita o liquidazione di complessi aziendali (rispettivamente, art. 48
commi 1, lett. a-b e comma 8, lett. c, del Codice).
E’ vero che questa norma è contenuta nel capo III (artt. 45-51 del Codice), relativo alla
“destinazione dei beni confiscati”, che presuppone la definitività della confisca. Ma non sembra
che il Codice contenga alcuna preclusione alla possibilità di proporre la domanda di ammissione
al passivo anche da parte dei soggetti che sono rimasti vittime dei delitti commessi dal proposto
(o di cui questi è indiziato). L’unico dato testuale in senso contrario è costituito dal fatto che
l’art. 52 al comma 1 dispone che il credito risulti da “atti aventi data certa anteriore al
sequestro”. Questa espressione riecheggia indubbiamente un’attività negoziale da cui è scaturito
il diritto di credito. Questa interpretazione restrittiva, però, attribuirebbe al Codice una finalità
certamente estranea, e cioè quella di penalizzare i soggetti che sono entrati, loro malgrado, in
contatto con il proposto, ricavandone una lesione patrimoniale. Inoltre, se si dovesse ritenere
preclusa la domanda di ammissione al passivo per il soggetto passivo degli illeciti o dei delitti
del proposto, alla stessa conclusione dovrebbe pervenirsi per tutte le vittime, e quindi anche per
quelle che sono state colpite da reati di tipo mafioso. Ma questo percorso argomentativo si
risolverebbe, alla fine, in una interpretatio abrogans delle disposizioni che prevedono
espressamente la destinazione a fini risarcitori delle somme confiscate o ricavate dalla vendita
di beni mobili o aziendali (art. 48 commi 1, lett. a-b e comma 8, lett. c, del Codice).
Ed è noto che costituisce un principio generale del nostro ordinamento, riconosciuto
espressamente anche dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., da ultimo, Corte cost., sent. n.
226/2010), che nella lettura della norma va evitata, per quanto possibile, la cd. interpretatio
abrogans: evidenti ragioni di logica e di tenuta complessiva dell’ordinamento giuridico
inducono ad attribuire alle espressioni linguistiche impiegate dal legislatore un significato utile
piuttosto che un significato inutile, salvo il caso che l’attribuzione di senso alle formule adottate
sia obiettivamente impossibile.
In definitiva, si ritiene che il diritto al risarcimento del danno provocato da un atto illecito del
proposto possa essere ammesso al passivo e non sia possibile escluderlo per la consapevolezza
in capo al danneggiato del contesto criminale (in senso lato) in cui operava il danneggiante,
perché questo requisito soggettivo è richiesto solo per le obbligazioni volontariamente contratte.
2.5 Titolari di diritti reali o personali:
Il Codice prescrive, all’art. 57 comma 1, il deposito di un elenco nominativo, contenente
l’indicazione di “coloro che vantano diritti reali o personali sui beni, con l’indicazione delle
cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto”.
Si tratta di un elenco che è certamente diverso da quello – anch’esso nominativo – dei creditori.
Non è chiara la ragione di questa prescrizione. Il suo immediato antecedente storico è costituito
senz’altro dall’art. 89 della legge fallimentare, che richiede anch’esso due distinti elenchi: uno
per i creditori e l’altro per coloro che “vantano diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari,
su cose in possesso o nella disponibilità del fallito”.
Va sin d’ora rammentato che la riforma del 2006 della legge fallimentare ha ampliato l’area di
applicabilità della norma, estendendola anche ai diritti personali (prima era limitata ai diritti
reali) e, dal punto di visto oggettivo, anche ai beni immobili.
Sempre in ambito fallimentare, il legislatore ha coerentemente tratto le conseguenze della
modifica dell’art. 89, consentendo anche ai titolari di diritti reali o personali di proporre
domanda di ammissione al passivo (art. 92 LF), disponendo che il curatore assuma “le sue
motivate conclusioni” anche su queste domande (art. 95 LF), consentendo al creditore di
proporre l’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione dell’accoglimento di una domanda
altrui e la revocazione del provvedimento di accoglimento (art. 98 commi 2, 3 e 4 LF) e, infine,
prevedendo la possibilità per costoro di proporre anche la domanda tardiva (art. 101 LF).
Inoltre, all’art. 103 la legge fallimentare positivizza un risultato ermeneutico a cui era già giunta
la giurisprudenza, stabilendo l’applicabilità del regime probatorio dell’art. 621 cpc “ai
procedimenti che hanno ad oggetto domande di restituzione o rivendicazione”.
Va infine rammentato che, prima della riforma della legge fallimentare, l’art. 103 LF consentiva
solo la proposizione di domande di rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili, e
limitatamente ai diritti reali mobiliari. Non erano quindi consentite azioni di natura personale (in
relazione ai diritti di godimento) e, in ogni caso, era escluso che potessero avere ad oggetto
diritti reali su beni immobili.
La riforma ha quindi “sancito un principio generale di attrazione alla procedura concorsuale di
tutte le pretese dei terzi sul patrimonio fallimentare” 28
Sebbene l’azienda sia, a rigore, una universitas juris (da cui deriva la non autonoma
pignorabilità, occorrendo invece procedere al pignoramento dei singoli beni che la
compongono), la giurisprudenza ha ritenuto che essa possa costituire oggetto di rivendica o
restituzione 29; secondo una dottrina l’ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 103 LF
consente ora di sostenere questa tesi con minori perplessità, perché la nuova disposizione “si
riferisce a tutte le possibili pretese dei terzi sulle cose in possesso o di proprietà del fallito, a
prescindere dalla loro natura” 30.
Hanno ad oggetto diritti reali le azioni di rivendica connesse all’esercizio di un’azione reale,
l’accertamento negativo del diritto di proprietà esclusiva esperita da chi assume di essere
comproprietario e l’azione di usucapione. In particolare, l’azione di rivendicazione è
disciplinata in linea generale dall’art. 948 c.c., che consente al proprietario di ottenere la
restituzione della cosa (è stato osservato infatti che “nella domanda di rivendica è sempre insita
una finalità di restituzione” 31). La casistica delle azioni reali è ampia; prendendo spunto dai
precedenti verificatisi in materia fallimentare, si può ipotizzare che anche nel procedimento di
prevenzione la proprietà possa essere rivendicata dal venditore con patto di riservato dominio32,
dal mandante che (nel mandato senza rappresentanza o commissione) conserva la proprietà delle
cose che ha consegnato al mandatario per l’espletamento dell’incarico ed acquisisce
automaticamente la proprietà delle cose che questi ha acquistato su suo incarico 33.
Riguardano sempre diritti reali le azioni dirette ad ottenere la dichiarazione di nullità,
l’annullamento, la risoluzione, la simulazione, la rescissione, di un contratto avente ad oggetto il
trasferimento del diritto stesso; in questi casi, però, l’azione ha carattere non reale, ma
personale, avendo ad oggetto la validità ed efficacia inter partes di un rapporto negoziale 34.
I diritti reali di godimento possono essere la proprietà, il diritto di superficie, l’usufrutto, l’uso,
l’abitazione, la servitù.
Per diritti personali si devono intendere, invece, non solo quelli che derivano da un contratto di
locazione, affitto, comodato, le cui norme fanno espresso riferimento al concetto di godimento
(artt. 1571, 1615, 1803 c.c.), ma anche quelli derivanti dal leasing (sia traslativo che di
28
Ferraro P. P., Procedimenti relativi a domande di rivendica e restituzione (art. 103), in La legge fallimentare dopo la
riforma, tomo II, artt. 84-159, in Giappichelli, 2010, p. 1320.
29
Trib. Roma 31 ottobre 1983, Fall., 1984, p. 523; Cass. 3 novembre 1994 n. 9046, Mass. Giust. Civ., 1994, fasc. 11
30
Ferraro P. P., Procedimenti relativi a domande di rivendica e restituzione (art. 103), in La legge fallimentare dopo la
riforma, tomo II, artt. 84-159, in Giappichelli, 2010, p. 1322.
31
Pajardi P., Codice del fallimento, Giuffrè, 2009, p. 1113
32
Cass. 6 febbraio 1986 n. 723, in Fall., 1986, 1183
33
Satta S., Diritto fallimentare, Cedam, 1996, p. 356
34
Cass. 10 agosto 1988 n. 4909, in Mass. Giust. Civ., 1988, fasc. 8-9
godimento, perchè in entrambi i casi il concedente non trasferisce la proprietà del bene, ma solo
il diritto di utilizzarlo35).
Tradizionalmente, la differenza tra diritti reali e diritti personali di godimento si è incentrata
sull’oggetto del diritto, nel senso che nel primo caso si tratta di diritti sulle cose e, nel secondo,
di diritti nei confronti di una persona, aventi ad oggetto una prestazione personale 36; in pratica,
la differenza è costituita dal fatto che il titolare di un diritto personale di godimento abbisogna
della collaborazione di un altro soggetto. Un secondo criterio di distinzione si incentra sulla
natura assoluta o relativa dei diritti, perché quelli di natura reale possono essere fatti valere erga
omnes, al contrario dei diritti di obbligazione che spettano ad un soggetto nei confronti di uno o
più soggetti determinati o determinabili. Da questa osservazione ne deriva un’altra, sul piano
processuale, perché si è osservato che solo i diritti reali fruiscono di una tutela assoluta, mentre i
diritti personali possono farsi valere esclusivamente nei confronti dell’obbligato (anche se non
vanno sottovalutati i risultati giurisprudenziali in tema di tutela aquiliana del diritto di credito).
Orbene, tornando al procedimento di prevenzione, la sede in cui i terzi titolari di diritti reali o
personali possono far valere i propri diritti non è la verifica, perché il dato testuale della norma
(che limita questa attività ai soli creditori) appare insuperabile.
Ciò non deriva da distrazione o mancanza di coordinamento, ma da una scelta obbligata. Il
legislatore delegante, infatti, ha limitato la verifica ai soli “titolari di diritti di credito aventi
data certa anteriore al sequestro (che) debbano, a pena di decadenza, insinuare il proprio
credito nel procedimento entro un termine da stabilire, comunque non inferiore a sessanta
giorni dalla data in cui la confisca e' divenuta definitiva, salva la possibilità di insinuazioni
tardive in caso di ritardo incolpevole” (art. 1, comma 3, lett. f, nr. 3.2 della legge delega 13
agosto 2010 n. 136).
Per contro, il precedente punto 3.1 della legge delega ha stabilito che “i titolari di diritti di
proprietà e di diritti reali o personali di godimento sui beni oggetto di sequestro di prevenzione
siano chiamati nel procedimento di prevenzione entro trenta giorni dalla data di esecuzione del
sequestro per svolgere le proprie deduzioni e che dopo la confisca, salvo il caso in cui
dall’estinzione derivi un pregiudizio irreparabile, i diritti reali o personali di godimento sui
beni confiscati si estinguano e che all’estinzione consegua il diritto alla corresponsione di un
equo indennizzo”.
Il legislatore delegante ha quindi scelto di mantenere ferma la previsione contenuta nell’art. 2ter
della legge 575/65 che al comma 5 (introdotto dal D.L. 4 febbraio 2010 n. 4) aveva previsto la
partecipazione al procedimento di prevenzione dei comproprietari e dei titolari di diritti reali di
godimento o di garanzia e la salvaguardia dei loro diritti se dimostravano la “buona fede e
l’inconsapevole affidamento nella loro acquisizione”.
Le conseguenze della scelta legislativa di non estendere il procedimento di verifica ai
comproprietari e ai titolari di diritti reali parziari o personali consistono nella perpetuazione del
meccanismo di tutela già previsto.
Infatti, gli artt. 23 e 28 del Codice prevedono l’intervento dei terzi nel procedimento di
prevenzione, annoverandosi in questa categoria i comproprietari e i titolari di diritti reali o
personali di godimento, con la precisazione che vi rientra anche colui che assuma di essere
proprietario esclusivo del bene sequestrato in danno del proposto.
Inoltre, suscita perplessità la previsione secondo cui l’intervento dei terzi deve seguire
l’esecuzione del sequestro (art. 23 comma 2); questa forma di tutela differita appare
completamente irrazionale e - con ogni probabilità - incostituzionale, per disparità di
trattamento rispetto al proposto. Va infatti osservato che nei riguardi del destinatario principale
della misura di prevenzione la regola è che il provvedimento di sequestro si assume in udienza
(artt. 23 e 7) e solo in caso di “concreto pericolo” di dispersione, sottrazione o alienazione, si
35
Cass. 7 febbraio 2001 n. 1715, in Foro Pad., 2001, I, 282
Galgano F.-Visintini G, Degli effetti del contratto, della rappresentanza, del contratto per persona da nominare, in
Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Zanichelli, 1993, p. 146
36
può provvedere “anticipatamente” e quindi “inaudita altera parte”, ma - ricorrendo questa
ipotesi - la convalida deve intervenire entro 30 giorni (art. 22).
Quando l’esistenza di un diritto reale o di godimento in capo ad un terzo risulti già per tabulas,
non è dato intendere la ragione per cui il tribunale per le misure di prevenzione non possa
disporne l’intervento, prima di procedere al sequestro. A titolo esemplificativo, l’esistenza di un
diritto reale può risultare dalla trascrizione nei registri immobiliari (art. 2673 c.c.), o nel
pubblico registro automobilistico (art. 2683 c.c. e R.D.L. 15 marzo 1927 n. 436, convertito nella
Legge 15 febbraio 1928 n. 510 e R.D. 29 luglio 1927 n. 1814), o nei registri di navi ed
aeromobili (disciplinati dal codice della navigazione) o, ancora, dal Registro delle Imprese (per
le azioni e quote di partecipazione di società di capitali) o, anche, dal Registro tenuto
dall’Ufficio italiano brevetti e marchi (disciplinato dall’art. 138 D. Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30)
per i diritti di proprietà industriale (marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche,
denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei
prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali). Ma, anche
in assenza di un regime di pubblicità istituzionalizzato, vi sono altre fonti di conoscenza; ad
esempio, i contratti di locazione risultano dalla banca dati dell’Agenzia delle Entrate (c.d.
SIATEL).
Lo stesso profilo di ingiustificata disparità di trattamento (rispetto alla tutela accordata al
proposto) caratterizza l’art. 55 comma 3 del Codice, che parimenti impone al tribunale di
chiamare ad intervenire – ma solo dopo l’esecuzione della misura di prevenzione - il terzo che
abbia trascritto una domanda giudiziale prima del sequestro.
In tutti questi casi, appare priva di alcuna giustificazione la scelta legislativa di non imporre la
chiamata nel procedimento di prevenzione, prima dell’adozione della misura del sequestro, dei
titolari di diritti reali o personali di godimento o di colui che ha una legittima aspettativa
tutelata dalla priorità della trascrizione; vi è inoltre anche una dispersione di energie intellettuali,
perché con riferimento allo stesso bene occorrerà rinnovare (almeno in parte) attività e
valutazioni.
Sotto il profilo sostanziale, va osservato che il Codice ha comportato un sensibile arretramento
dell’efficacia della misura patrimoniale di prevenzione, con riferimento all’ipotesi dei titolari di
diritti reali o di godimento.
Prima dell’emanazione del Codice, infatti, la tutela per i terzi era stata apprestata dalla
giurisprudenza, in mancanza di qualsiasi disposizione normativa, consentendo l’intervento nel
procedimento di prevenzione ai titolari formali del diritto di proprietà o di altri diritti reali di
godimento sui beni attinti dalla misura interinale del sequestro, purchè dimostrassero la buona
fede e il loro incolpevole affidamento 37. Con la legge istitutiva dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (legge 31 marzo 2010 n.
50), è stato recepito questo orientamento giurisprudenziale, ma si è aggiunta la possibilità per il
tribunale di “determinare la somma spettante per la liberazione degli immobili dai gravami ai
soggetti per i quali siano state accertate le predette condizioni” 38.
Il Codice delle leggi antimafia, invece, ha sottratto ogni decisione discrezionale al tribunale e
ha previsto l’automatica estinzione ope legis dei diritti reali di godimento e lo scioglimento dei
contratti da cui derivano i diritti personali di godimento, prevedendo a favore dei titolari un
“equo indennizzo” (art. 52 commi 4 e 5). A norma dell’art. 23 comma 4, il diritto all’indennizzo
sorge solo se non risulta che i beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi. Inoltre,
l’art. 26 dispone che si presumono fittizi:
- gli atti con cui si dispone del bene poi sequestrato, nei due anni antecedenti la proposta, ma
solo se stipulati con stretti congiunti (ascendente, discendente, coniuge o convivente) e
parenti entro il sesto grado ed affini entro il quarto grado)
37
Cass. 5988/97, Cass. pen. 21.1.92 n. 250 Sanseverino, S.U. pen. 18.5.94 COMIT Leasing, 11.1.94 Andricciolo
Forte C., Misure di prevenzione patrimoniali e procedure concorsuali, in Le procedure concorsuali, a cura di A.
Caiafa, Cedam, 2010, tomo II, p. 1700.
38
-
gli atti a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della
misura di prevenzione.
Questo regime probatorio, certamente agevolato, limita però in maniera consistente la
possibilità di colpire gli atti di trasferimento o di costituzione di diritti reali parziari o di diritti
personali di godimento. In particolare, rimangono ora fuori dalla sfera di applicabilità del
Codice gli atti a favore di terzi estranei e che non siano meramente apparenti: prima del Codice,
qualora si fosse dimostrata l’assenza della buona fede e/o dell’incolpevole affidamento, il
sequestro era idoneo a travolgerli.
La buona fede, invece, continua ad essere richiesta (non per tutti i titolari di diritti reali o
personali, ma solo) per i comproprietari. Costoro, infatti, hanno l’onere di dimostrare di aver
ignorato l’attività illecita del proposto, se intendono esercitare il diritto di prelazione per
l’acquisto della quota confiscata al valore di mercato (art. 52 comma 7).
La dettagliata disciplina delle verifiche richieste per stabilire la sussistenza della buona fede (art.
52 comma 3) fa ritenere che questa sia richiesta solo per gli atti di natura negoziale; non
avrebbe altrimenti alcuna giustificazione il riferimento agli “obblighi di diligenza nella fase
precontrattuale” (cfr. § 2.6). Ne consegue che il coerede o il coniuge, acquisendo la contitolarità
ex lege, non incontrano alcun limite nell’esercizio del diritto di prelazione. Varrà per loro, ad
ogni modo, la previsione generale (contenuta nell’art. 52 comma 7, ultimo alinea) diretta ad
impedire che il bene ritorni nella disponibilità del proposto o di una associazione di tipo
mafioso.
La vendita della quota indivisa è stata criticata da una dottrina che ha osservato che essa si pone
“in evidente violazione delle finalità della legge 109/96 che ha introdotto il fondamentale
principio di riutilizzo del bene per fini sociali: prevedere la vendita delle quote del bene non
divisibile costituisce un recupero del principio dell’ammissibilità della vendita dei beni
confiscati, fortemente contrastato e ridimensionato nell’attuale disciplina” 39.
2.6 Buona fede
Tra i requisiti richiesti per l’ammissione al passivo del credito, l’art. 52 comma 1 lett. b) indica
la condizione che “il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce
il frutto o il reimpiego”; qualora, poi, ricorra questa connotazione negativa sul piano oggettivo,
l’ammissione può comunque avvenire, a condizione che sia il creditore a dimostrare il suo stato
psicologico di buona fede, e cioè di aver ignorato l’esistenza di questo nesso di strumentalità.
La norma costituisce la traslitterazione di quella che, contenuta nell’art. 20 del Codice, stabilisce
i requisiti per sottoporre i beni a sequestro di prevenzione, che è consentito se essi sono di
valore sproporzionato rispetto al reddito del proposto oppure “il frutto di attività illecite o ne
costituiscono il reimpiego”.
Ovviamente, occupandosi della posizione del creditore, il legislatore non poteva avere riguardo
alla “tainted property”, cioè alla contaminazione del bene, ma al contesto (in senso lato)
criminale, cioè alla complessiva attività il cui esercizio ha comportato l’insorgere di un
credito del terzo estraneo nei confronti dell’indiziato.
La nozione di frutto, applicata ai beni, è stata individuata in dottrina con il riferimento alle cose
che vengono create, trasformate o acquistate mediante il reato; per reimpiego, invece, si
intendono i beni che “presentano una correlazione indiretta con la condotta criminosa” 40.
Già con riferimento ai beni si è evidenziato che questi concetti consentono di colpire con la
confisca dei beni cronologicamente distanti dall’illecito, tanto da paventare il rischio di “una
pressochè assoluta libertà d’azione nella cernita dei beni di provenienza illecita” 41.
E’ indubbio che la loro trasposizione dai beni all’attività da cui origina il credito di cui si deve
decidere l’ammissione al passivo incrementa ancor più la rarefazione del collegamento tra
39
Maltese C., Il Codice antimafia, Giuffrè, 2011, p. 66
Furgiuele A., La disciplina della prova nel procedimento applicativo delle misure patrimoniali di prevenzione, in La
giustizia patrimoniale penale, a cura di A. Bargi e A. Cisterna, Utet. 2011, tomo I, p. 428
41
Mangione, Le misure di prevenzione patrimoniale – Profili dogmatici e di politica criminale, Cedam, 2001, p. 67
40
l’attività illecita e il rapporto obbligatorio di cui è parte il creditore. Questa disposizione rischia
di creare intorno ai soggetti passivi delle misure di prevenzione una pericolosa “fascia di
rispetto” o un “cordone sanitario”: è infatti sufficiente che il terzo abbia la consapevolezza che
un soggetto sia “abitualmente dedito a delitti” (art. 1 lett. a), o viva “con il provento di attività
delittuose” (art.1 lett. b), o sia indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa (art. 4
comma 1 lett. a), per inibirgli ogni rapporto economico. Si può ipotizzare che un imprenditore
ottenga un subappalto dall’impresa aggiudicataria, avvalendosi della forza di intimidazione del
vincolo associativo. La semplice notizia di stampa relativa al fatto che questi è sottoposto ad
indagini (anche se, magari, non è stato attinto da una misura cautelare) potrebbe comportare la
immediata cessazione di ogni rapporto (di fornitura, di somministrazione, di finanziamento,
ecc.) di cui qualsiasi impresa necessita per svolgere la propria attività.
La norma merita di essere condivisa nella parte in cui afferma chiaramente che l’onere di
dimostrare la buona fede spetta al creditore; in precedenza, infatti, si sosteneva da parte della
dottrina l’applicabilità del principio generale civilistico secondo cui la buona fede si presume
(art. 1147 c.c.) 42, anche se per il vero la giurisprudenza ha sempre affermato che l’onere
probatorio incombeva sul terzo 43.
Anche il terzo comma dell’art. 52 del Codice fornisce utili parametri di valutazione della
condotta del creditore, stabilendo che “nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene
conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di
attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di
particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle
dimensioni degli stessi”.
Prima dell’introduzione di questa norma di diritto positivo, si discuteva se la buona fede
dovesse essere intesa in senso oggettivo (come obbligo etico di comportamento onesto e quindi
come fonte di integrazione negoziale e criterio di valutazione dell’agire sotto il profilo di un
obbligo da osservare) o, invece, in senso soggettivo (e cioè come situazione psicologica di
ignoranza della lesione dell’altrui diritto) 44.
La norma contenuta nel Codice costituisce il punto di arrivo di un tormentato percorso
giurisprudenziale, rappresentato da una pronuncia della Corte costituzionale 45 e da una sentenza
della Corte di Cassazione 46, che hanno stabilito il principio per cui deve riconoscersi la
sussistenza di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato,
quando il terzo ha tratto un qualsiasi vantaggio dall’altrui attività criminosa.
Questo ambiguo riferimento alla utilitas appare superato dalla necessità che risulti la
consapevolezza in capo al terzo di un nesso strumentale tra il suo credito e l’attività illecita de
proposto; sembra che questa previsione consenta un razionale contemperamento di contrapposti
interessi (dello Stato e dei creditori), con una marcata preferenza per i primi, conseguita
attraverso una distribuzione dell’onere probatorio interamente a carico del creditore.
E’ importante anche tener conto che secondo la giurisprudenza per buona fede non si deve
intendere il dolo, ma al contrario un “affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di
apparenza che rende scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza” e quindi come “assenza di
condizioni che rendano profilabile …… un qualsivoglia addebito di negligenza” 47. La buona
fede, quindi, manca quando l’ignoranza del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività
illecita sia dovuta a colpa. A tal proposito, è illuminante la fattispecie esaminata dalla
42
Furgiuele A., La disciplina della prova nel procedimento applicativo delle misure patrimoniali di prevenzione, in La
giustizia patrimoniale penale, a cura di A. Bargi e A. Cisterna, Utet. 2011, tomo I, p. 545
43
Cass. sez. I, 9 marzo 2005, Servizi Immobiliari Banche; Cass. sez. I, 11 febbraio 2005, Fuoco; Cass. sez. I, 21
gennaio 2007, n. 45572; Cass. sez. I, 2 aprile 2008 m. 16743
44
Cassano F., La tutela dei diritti dei terzi nel sistema della prevenzione, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo
il “pacchetto sicurezza”, Nel Diritto Editore, 2009, p. 380
45
Corte cost., 20 novembre 1995 n. 487, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1946
46
Cass. pen., Sez. Un., 8 giugno 1999, Bacherotti
47
Cass., Sez. 1, 13 giugno 2001 n. 34019
giurisprudenza, che ha escluso la buona fede in capo ad una banca, titolare di credito assistito da
garanzia ipotecaria, avendo concesso un finanziamento di svariati miliardi ad una società
sottocapitalizzata e “la percezione dell'influenza di vicende "extracaratteristiche" non
sufficientemente specificate e che, pertanto, il terzo creditore di fatto disponeva di tutti gli
strumenti utili alla formulazione di un giudizio di inaffidabilità e di "non illibatezza"
dell'operatore commerciale” 48.
Sebbene il procedimento di verifica nel procedimento di prevenzione non sia strutturato come
un processo di parti (essendo invece caratterizzato dalla natura inquisitoria che caratterizzava la
legge fallimentare del 1942) sembra che l’amministratore giudiziario (nei suoi compiti di
assistenza) debba evidenziare al giudice delegato tutti gli elementi idonei a far ritenere che il
credito oggetto di valutazione abbia un nesso con l’attività illecita del proposto, o con quella che
ne costituisce il frutto o il reimpiego. E’ tale un’obbligazione contratta per acquistare merci o
servizi necessari per porre in essere l’attività. A sua volta, si può trattare di un’attività
imprenditoriale o professionale, ma il contratto può anche avere ad oggetto la mera
amministrazione o custodia di un bene non destinato a fini produttivi (abitazione, natante,
autoveicolo, ecc.). Invero, è ben possibile che il sequestro colpisca alcuni beni del proposto e
che la domanda di ammissione al passivo riguardi un credito sorto nello svolgimento di
un’attività completamente diversa. Si ipotizzi un sequestro che riguardi l’attività di imprenditore
edile (perché, in ipotesi, svolta grazie all’ottenimento di appalti pubblici ottenuti tramite
l’interessamento dell’organizzazione mafiosa) e quindi tutti i beni che ne costituiscono “il frutto
o il reimpiego” (art. 24 comma 1); orbene, nulla esclude che il proposto svolga anche un’attività
collaterale, in un settore del tutto diverso (ad esempio, nel campo turistico) e che nell’esercizio
di questa diversa impresa siano sorti rapporti obbligatori. Orbene, l’esclusione dal passivo del
credito relativo all’attività turistica (lecita) non può prescindere dall’accertamento di un nesso di
strumentalità con l’attività edile di natura illecita, o in alternativa dalla dimostrazione che il
proposto ha potuto avviare e sviluppare l’impresa nel settore turistico grazie al flusso di denaro
derivante dalla prima. Come è agevole intuire, non sarà semplice ricostruire le origini delle
disponibilità finanziarie o patrimoniali che hanno consentito al proposto di espandersi in
ulteriori settori imprenditoriali. Ne consegue che certamente l’amministratore giudiziario dovrà
sollecitare al Pubblico Ministero (che, ai sensi dell’art. 59, ha facoltà di intervenire nel subprocedimento di verifica) l’espletamento delle attività investigative che appaiono utili. Si può
ipotizzare che per avviare o potenziare l’attività imprenditoriale “pulita”, l’imprenditore
indiziato abbia potuto fare affidamento su finanziamenti bancari garantiti da ipoteche concesse
da terzi. Orbene, per escludere in questo caso il credito della banca (ma anche di tutti gli altri
che hanno contratto obbligazioni col proposto che esercitava l’attività imprenditoriale del tutto
lecita), sarà certamente opportuna l’acquisizione della documentazione bancaria, relativa anche
ai soggetti estranei al procedimento (terzi datori di ipoteca), per verificare la provenienza del
denaro impiegato per acquistare i beni ipotecati. Ovviamente, più si allontana cronologicamente
il rapporto negoziale da cui deriva il credito dal campo di azione dell’attività illecita, più sarà
difficile per l’amministratore giudiziario dimostrare il nesso di strumentalità e, comunque, sarà
più agevole dimostrare la buona fede da parte del terzo creditore.
Passando ad esaminare il requisito della buona fede, va ribadito che la necessità della prova
della inscientia è a carico del creditore che ha proposto domanda di ammissione al passivo e
sorge solo se negli atti vi è già la prova del nesso di strumentalità del rapporto obbligatorio al
fine di realizzare l’attività illecita o quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego.
La norma, ponendo a carico del terzo l’onere di dimostrare la sua buona fede, per ciò stesso
pone una presunzione relativa. Lo schema è analogo a quello previsto dall’art. 67 comma 1 LF
per gli atti anomali. Il superamento di questa presunzione richiede la dimostrazione di fatti
idonei a far ritenere che l’imprenditore fallito versasse in una situazione di normalità
48
Cass. Pen., sez. V, 18 marzo 2009 n. 15328
dell’impresa. Ciò posto, si può sin d’ora ipotizzare un’applicazione elastica della disposizione.
Se il creditore è una banca, si potrà certamente fare ricorso – mutatis mutandis – al tradizionale
insegnamento della giurisprudenza che valorizza le maggiori fonti informative di cui può
disporre l’azienda di credito 49. Ma si può prevedere un notevole rigore anche per coloro che
hanno rapporti continuativi con l’impresa, come i dipendenti e coloro che effettuano forniture
con una certa sistematicità. Invece, per chi si trova a stipulare un unico atto negoziale, è
ragionevole un approccio più prudente, a meno che l’illiceità dell’attività non possa ritenersi
fatto notorio, nell’ambiente in cui è avvenuta la negoziazione.
Abbastanza ambiguo appare il riferimento, per valutare la buona fede, alla dimensione degli
enti, cioè delle persone giuridiche o anche delle società di persone o degli enti pubblici. Non
sembra però che la disposizione possa essere intesa come una deroga al principio generale
previsto dall’art. 1391 c.c., che dispone che “nei casi in cui è rilevante lo stato di buona o mala
fede, di scienza o d’ignoranza di determinate circostanze, si ha riguardo alla persona del
rappresentante”. Infatti, anche quando la persona giuridica è caratterizzata da
un’organizzazione complessa, si ha sempre in considerazione l’atteggiamento psicologico del
soggetto che ha il potere di contrarre l’obbligazione, anche se non riveste la qualità di legale
rappresentante 50. La disposizione appare quindi del tutto inutile e fonte di possibili equivoci,
qualora se ne volesse dedurre la sua inapplicabilità a contraenti che hanno la sede legale in una
località distante da quella in cui il proposto esercita l’attività e in cui è stato stipulato il
contratto, per il tramite di un ausiliario munito del potere di impegnare l’azienda creditrice.
2.7 Data certa
La nozione di data certa nel procedimento di prevenzione dovrà essere trattata con ogni cautela.
L’art. 52 del Codice dispone: “la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che
risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro”.
Non sembra eccessivo affermare che la norma, se interpretata in senso strettamente letterale,
comporterebbe il rigetto della maggior parte delle domande di ammissione al passivo. La
disposizione infatti richiede che il credito risulti solo da atti a contenuto negoziale, muniti di
data certa. Si è già visto al § 2.4 che possono invece essere oggetto di ammissione al passivo
anche crediti che scaturiscono da condotte illecite: già questo, quindi, costituisce un punto di
frizione tra la norma in commento e la multiforme realtà che intenderebbe disciplinare.
Ma, soprattutto, è auspicabile che il giudice delegato del procedimento di prevenzione non
ritenga ammissibili solo i crediti risultanti da una prova documentale. Invero, il riferimento alla
“data certa” contenuto nell’art. 52 del Codice richiama indubbiamente la norma sancita dall’art.
2704 c.c., che disciplina i requisiti necessari per rendere opponibile a terzi la data del
documento; si tratta di una disposizione che è inserita nel capo II del titolo II, relativo alla prova
documentale.
In materia fallimentare, e più specificamente in tema di verifica del passivo, la necessità della
data certa deriva da una interpretazione sistematica della legge e in particolare dall’art. 44 LF,
che istituzionalizza il conflitto tra creditori anteriori (che partecipano al concorso ex art. 52 LF e
al conseguente diritto di distribuzione del ricavato dell’attivo cristallizzato alla data del
fallimento) e creditori successivi, che ne restano esclusi.
Non è possibile in questa sede accennare all’orientamento giurisprudenziale che ritiene che il
curatore, nell’attività di verifica dei crediti, non si sostituisce al fallito ma assume la posizione
di terzo, in virtù del ruolo istituzionale di ricostruzione del passivo secondo criteri di legalità.
E’ però importante sottolineare un aspetto, non particolarmente approfondito né in dottrina né in
giurisprudenza: per l’ammissione del credito non è giuridicamente indispensabile la produzione
di un documento con data certa secondo i rigorosi requisiti richiesti dall’art. 2704 c.c. Ben può
ammettersi un credito (e di fatto ciò avviene in tutte le aule di tribunale) sulla base di fatture,
49
50
Cass. 13 ottobre 2005 n. 19894, Giust. Civ., 2006, 12, I, 2783
Cass. 28 maggio 2003 n. 8553, Giust. Civ. Mass., 2003, 5
ordini, fax, le cui sottoscrizioni non sono certo autenticate, o registrate. Il requisito della data
certa è essenziale solo per la prova di negozi per i quali è prescritta la forma scritta ad
substantiam o ad probationem oppure (secondo un condivisibile orientamento della
giurisprudenza di merito) quando si tratta di “un contratto che, in relazione al suo valore, alla
sua natura e alla qualità delle parti, risulta abitualmente redatto per iscritto” (Trib. Milano 10
giugno 1985, Fall., 1985, 190).
In altri termini: anche nel fallimento è richiesto che il credito sia di data anteriore rispetto
all’apertura della procedura concorsuale, come è desumibile dall’art. 42 comma 1 LF (da cui
deriva il principio della cristallizzazione del patrimonio del fallito e la sua destinazione al
soddisfacimento dei creditori), dall’art. 44 LF (che prevede il principio dell’insensibilità del
patrimonio agli atti compiuti dal fallito successivamente all’apertura della procedura) e, infine,
dall’art. 52 LF, che pone la regola del concorso dei creditori. A sua volta, l’art. 45, come
evidenziato dalla dottrina più autorevole, “deve essere valutato in stretta connessione con gli
artt. 42 e 44… perché ha la funzione di completare il sistema di difesa dell’integrità del
patrimonio fallimentare” 51.
E’ evidente che se un credito deve essere sorto in epoca anteriore ad una certa data (sentenza di
fallimento o sequestro, nelle misure di prevenzione), questa anteriorità deve essere certa, alla
stregua di qualsiasi fatto processuale che può essere ritenuto sussistente solo se adeguatamente
provato.
Ciò però non può indurre a limitare le fonti di prova esclusivamente a quelle documentali, come
invece sarebbe se, per concretizzare il riferimento alla data certa contenuto nell’art. 52 del
Codice, si applicasse l’art. 2704 c.c.
Né può servire a questo scopo la costante preoccupazione del giudice della misura di
prevenzione di evitare la precostituzione di creditori di comodo, perché non solo nel
procedimento di prevenzione, ma anche nel fallimento la verificazione del passivo è un’attività
giurisdizionale diretta ad evitare “possibili manovre fraudolente di appesantimento del
passivo” 52.
In definitiva, nella materia fallimentare può dirsi abbastanza pacifico che l’art. 2704 c.c.,
riguardando solo una regola di “puro diritto probatorio” 53, viene in rilievo esclusivamente
quando occorre fare applicazione dell’art. 45 LF (che trova la sua ratio nella equiparazione del
fallimento al pignoramento) e quindi nei casi in cui la legge subordina la opponibilità di un atto
al compimento di una specifica formalità; ad esempio, in tema di cessione o liberazione di
pigioni non scadute (art. 2812 comma 4 e 2918 c.c.), o di locazione (art. 2923 c.c.), o per le
alienazioni di universalità di mobili (art. 2914 n. 3 c.c.), le alienazioni di beni mobili (art. 2914
n. 4 c.c.), o nel caso di conflitto tra più cessionari dello stesso credito, con prevalenza della
cessione che è stata accettata per prima dal debitore (art. 1265 c.c.).
Ne consegue che l’esigenza (sostanziale e normativamente prevista) dell’anteriorità della fonte
da cui deriva il credito rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento non va confusa con le
modalità processuali con cui questa prova può essere fornita. Quando il negozio è sottoposto al
principio generale della libertà delle forme, non possono richiedersi (per la sola ammissione al
passivo) requisiti formali del tutto estranei al regime normativo. Diversamente opinando, il
fallimento diverrebbe “un monstrum del tutto avulso dal sistema, costringendo il contraente
dell’imprenditore ad inventare formalità che la legge non prevede al fine dell’opponibilità
dell’atto all’eventuale, successivo fallimento” 54.
51
De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1986, p. 66
52
G. Bozza G. Schiavon, L'accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Giuffrè, 1992, p. 23
53
Di Marcello T., Problemi di data certa nel fallimento, in Banca borsa tit. cred., 2005, 2, 199
54
De Ferra C., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge Fallimentare,
Zanichelli, 1986, p. 68; negli stessi termini, anche Ragusa Maggiore G.-Costa C., Il fallimento; Utet, 1997, p. 255, che
afferma chiaramente che “è tuttavia consentita la dimostrazione della costituzione del rapporto giuridico dedotto dal
creditore (se ciò non è impedito da requisiti di forma che caratterizzino la disciplina positiva del singolo negozio)
Queste considerazioni valgono anche per il procedimento di prevenzione.
In conclusione, sembra possa dirsi che l’art. 52 del Codice è norma certamente necessaria, nella
parte in cui pone il principio della cristallizzazione del passivo, individuando nel sequestro il
termine finale entro il quale deve sorgere il diritto di credito e quindi vincolando i beni
sequestrati al soddisfacimento dei soli creditori anteriori. Se non vi fosse questa disposizione,
infatti, dovrebbe applicarsi il principio generale (valevole per il pignoramento individuale) per
cui nessuna limitazione all’intervento nel processo esecutivo incontrano i creditori successivi.
Svolge inoltre una funzione essenziale perché consente di tutelare anche i creditori chirografari,
che fino ad oggi invece erano ritenuti sempre soccombenti 55 quando il loro debitore veniva
sottoposto ad una misura di prevenzione patrimoniale.
La norma, invece, va interpretata con la massima cautela quando richiama la nozione di data
certa, perché non può farsi ricorso ai rigidi criteri previsti dall’art. 2704 c.c., che è applicabile
solo quando si intenda far valere l’anteriorità del credito (rispetto al sequestro) tramite una
prova documentale. Il dato testuale appare senz’altro superabile, se si tiene conto della genesi
della disposizione, che ha recepito un principio di origine giurisprudenziale e sempre affermato
con riferimento a diritti reali di garanzia (pegno, Cass. Pen. 28 aprile 1999 n. 9; ipoteca, Cass.
Pen. 19 gennaio 2009 n. 2501). E’ vero che la natura sommaria del procedimento di verifica del
passivo, con le sue caratteristiche di snellezza istruttoria e di sommarietà della motivazione, fa sì
che la prova utilizzabile dal creditore istante sia esclusivamente quella documentale e, quindi,
l’anteriorità della data di insorgenza del credito rispetto al sequestro dovrebbe essere dimostrata
con un documento conforme ai dettami dell’art. 2704 c.c.; ma applicare rigorosamente questo
principio nella valutazione della prova documentale della verifica comporterebbe il rigetto di
pressoché tutte le domande, con la conseguenza che, nei giudizi di opposizione allo stato
passivo, i creditori non avrebbero alcuna preclusione probatoria e ben potrebbero ottenere
l’ammissione di prove testimoniali per dimostrare che il loro credito è precedente al sequestro.
Infine, queste considerazioni valgono non solo nel caso in cui la verifica viene svolta dal giudice
delegato del procedimento di prevenzione, ma anche se è espletata dal giudice della procedura
fallimentare. Infatti, con riguardo alla verifica dei crediti, quando il proposto è anche dichiarato
fallito, il Codice la affida al giudice delegato della procedura concorsuale, sia quando il
fallimento viene dichiarato in epoca successiva al sequestro (art. 63 comma 5), sia quando
invece lo precede (art. 64 comma 2).
3. Amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati
3.1 Premessa
Negli artt. 35-51 il Codice si occupa dell’amministrazione, della gestione e della destinazione
dei beni sequestrati e confiscati.
I primi due tipi di attività riguardano precipuamente la fase del sequestro e della confisca non
definitiva. Riproponendo lo schema già introdotto dal legislatore nel 2009, il Codice attribuisce
i compiti lato sensu gestori all’amministratore giudiziario, fino alla pronuncia del decreto di
confisca di primo grado, assegnando all’Agenzia un compito non solo di ausilio (come
sembrerebbe affermare l’art. 38 comma 1), ma anche di vero e proprio controllore dell’operato
non solo dell’amministratore, ma anche dello stesso giudice delegato, tant’è che è munita del
potere di impugnare i provvedimenti di quest’ultimo. Dopo la pronuncia del decreto di confisca
di primo grado, tutte le attività dirette a gestire i beni confiscati sono espletate dall’Agenzia.
anche con mezzi probatori diversi dalla scrittura: e quando da tale dimostrazione sia ricavabile anche la data (rectius,
l’anteriorità rispetto ala sentenza di fallimento) di costituzione del titolo, ciò è quanto basta per considerare opponibile
la pretesa relativa, ai fini della partecipazione al concorso fallimentare”.
55
Vincenti C., La confisca e la tutela dei terzi, in Le misure patrimoniali antimafia, a cura di S. Mazzarese e A. Aiello,
Giuffrè, 2010, . 323
Sul piano sistematico, è scarsamente comprensibile la tripartizione contenuta nel titolo II del
Codice (tra amministrazione, gestione e destinazione).
E’ certamente ragionevole distinguere tra gestione del bene affidata all’autorità giudiziaria,
durante la pendenza del procedimento, e individuazione delle modalità di impiego del cespite
dopo la definitività della confisca. La differenza è infatti ovvia, perché nel primo caso si tratta di
stabilire i compiti dell’amministratore giudiziario, nell’interesse anche del proposto, per il caso
di revoca del sequestro o del decreto di confisca di primo grado (a meno che il tribunale non
stabilisca di dare corso alla restituzione per equivalente, ex art. 46 del Codice). Invece,
l’irrevocabilità del provvedimento di confisca fa venir meno ogni ansia di tutela delle ragioni
del soggetto passivo della misura di prevenzione ed impone, invece, di stabilire come impiegare
i beni e in concreto a quale amministrazione assegnarli nell’ambito delle finalità istituzionali
contemplate dall’art. 48 del Codice.
Ciò che desta perplessità, invece, è la distinzione tra amministrazione e gestione, contenuta
rispettivamente nel capo I e nel capo II del Codice.
Questa contrapposizione è di assoluta novità, perché finora i due termini erano stati sempre
considerati come sinonimi.
A tal proposito, va osservato che l’art. 65 cpc, in tema di compiti del custode, li distingue tra
attività di conservazione e funzione di amministrazione del bene pignorato (o sequestrato).
Questa suddivisione non è condivisa da un’autorevole dottrina, secondo cui si tratta di una
endiadi, perché “la conservazione è il fine dell’amministrazione del custode” 56; in particolare,
l’Autore ritiene che l’amministrazione ha carattere statico, perché si propone di mantenere la
cosa nello stato in cui si trova. L’opinione più diffusa, però, ritiene che si tratti di due nozioni
radicalmente differenti, in quanto la conservazione comporta attività necessarie per garantire
l’integrità, l’efficienza materiale e l’utilità economica; l’amministrazione, al contrario, attiene
alla gestione economica e produttiva del bene 57.
La definizione di amministrazione contenuta nel comma 5 dell’art. 35 del Codice ha un ambito
amplissimo, perché il legislatore vi fa rientrare la “custodia, la conservazione e
l’amministrazione”; a sua volta, invece, il capo II, relativo alla gestione, non ne offre alcuna
definizione.
A ben vedere, le norme che riguardano l’amministrazione (artt. 35-39 del Codice) si occupano
non delle attività che l’amministratore deve eseguire per custodire o gestire i beni sequestrati,
ma dei requisiti di cui deve essere in possesso il professionista nominato, dei limiti in cui può
avvalersi di coadiutori esterni e, soprattutto, dei compiti dell’amministratore giudiziario per così
dire “serventi”, relativi cioè agli adempimenti previsti dal legislatore per consentire un controllo
della sua attività; infatti, gli artt. 35-39 stabiliscono tra l’altro l’obbligo di redigere la relazione
iniziale, di tenuta del registro su cui annotare le operazioni compiute, di contabilità separata. Il
Codice utilizza quindi il termine “amministrazione” per indicare l’apparato organizzativo
costituito dall’organo gestorio dell’amministratore giudiziario (e le relative regole che lo
disciplinano).
3.2 Stima dei beni e contestazioni di parte
Non essendo ovviamente possibile un esame analitico di tutte le disposizioni del Codice, ci si
soffermerà sugli aspetti di più immediato interesse applicativo.
Tra questi, campeggia certamente la relazione iniziale prevista dall’art. 36 che alla lett. b) pone
a carico dell’amministratore l’obbligo di indicare “il presumibile valore di mercato dei beni
stimato dall’amministratore”.
56
Satta S., Commentario al codice di procedura civile, libro I, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, 1966, p. 226
Orlando M., La custodia dei beni mobili pignorati, in La nuova esecuzione forzata, a cura di P. G. Demarchi,
Zanichelli, 2009, p. 379
57
Come già osservato in altra occasione 58, è facile prevedere che l’amministratore si avvarrà in
questi casi della facoltà di chiedere l’autorizzazione a farsi “coadiuvare, sotto la sua
responsabilità, da tecnici o da altri soggetti qualificati” (art. 35, co. 4, del Codice).
Questa opportunità, però, va contemperata con la disposizione contenuta nell’art. 36 comma 4
del Codice, che attribuisce al giudice il potere di nominare un perito che risolva le
“contestazioni sulla stima dei beni”.
Considerato che non è previsto alcun termine per la proposizione delle contestazioni, il rischio,
concreto, è di una inutile duplicazione di costi, sostenuti dalla procedura prima per la
remunerazione del coadiutore (nominato dall’amministratore 59) e poi per quella del perito
(nominato dal giudice).
Non vi è alcuna indicazione normativa sui soggetti legittimati a sollevare le contestazioni ma si
ritiene, per il principio generale dell’interesse ad agire, che lo siano tutti coloro che potrebbero
essere lesi da un’attività di valutazione condotta dall’amministratore (o dai suoi coadiutori)in
splendida solitudine, senza alcun contraddittorio.
Tra questi, vi rientra certamente il proposto il quale, ai sensi dell’art. 46, in caso di rigetto della
richiesta di misura patrimoniale (e quindi di revoca del sequestro), può vedersi costretto ad
accettare una somma in luogo del bene (c.d. “restituzione per equivalente”). Orbene, l’importo
va commisurato al valore del bene “risultante dal rendiconto di gestione”, previsto dall’art. 43
del Codice, che al comma 2 prescrive “l’indicazione analitica dei cespiti e il saldo finale”.
Sembra quindi necessario desumere che nel rendiconto devono essere indicati anche i valori di
stima dei beni, contenuti nella relazione iniziale (art. 36 lett. b). Sarebbe quindi quantomeno
imprudente per l’amministratore farsi autorizzare a nominare un coadiutore, incaricarlo di
stimare i beni e, successivamente, esporsi alle contestazioni del proposto, che – in caso di
revoca del sequestro o di mancata conferma del decreto di confisca di primo grado – potrebbe
essere costretto ad accettare una somma per equivalente, ma potrebbe anche non condividere il
valore attribuito al bene dall’amministratore.
E’ certamente legittimato a contestare il valore attribuito ai beni sequestrati anche il titolare di
un diritto reale o personale di godimento, il quale in caso di definitività della confisca deve
subire l’estinzione del proprio diritto (art. 52, co. 4 del Codice) e la sostituzione con un equo
indennizzo in prededuzione. Se è indubbio che l’indennizzo va commisurato alla “durata
residua del contratto o del diritto reale” (comma 5), è però anche evidente che il fattore tempo
costituisce solo uno dei criteri di valutazione e che non si può prescindere dal valore di mercato
del bene oggetto di locazione, comodato, usufrutto, servitù, ecc.
Per ragioni analoghe va riconosciuto il diritto di contestare la stima anche al comproprietario, al
quale l’art. 52 comma 7 accorda un diritto di prelazione, diritto che ovviamente può essere in
concreto esercitato solo se il comunista condivide la valutazione attribuita al bene e
conseguentemente alla quota indivisa.
Non sono invece abilitati a contestare la valutazione dei beni i soggetti titolari di contratti
relativi al bene o all’azienda oggetto della misura di prevenzione, perché – in caso di
scioglimento da parte dell’amministratore giudiziario - ai sensi dell’art. 56, co. 1 cod. antimafia
possono solo far valere il credito nel passivo, ma non hanno diritto ad alcun indennizzo in
qualche modo parametrato al valore del bene.
Analogamente, il promissario acquirente ha diritto solo alla restituzione della caparra
eventualmente versata, senza alcun indennizzo, e quindi non ha alcun interesse che lo legittimi
ad interloquire sulla stima dei beni.
Infine, è molto più problematica la questione della legittimazione a contestare la valutazione in
capo ai creditori aventi un diritto di prelazione. Costoro, ai sensi dell’art. 61, co. 2, cod.
58
Orlando M., Misure di prevenzione e tutela dei creditori nel fallimento, in Crisi di impresa ed economia criminale,
Ipsoa, 2011, p. 140
59
Sulla competenza dell’amministratore a nominare il coadiutore, cfr., si vis, Orlando M., Misure di prevenzione e
tutela dei creditori nel fallimento, in Crisi di impresa ed economia criminale, Ipsoa, 2011, p. 142
antimafia, hanno diritto di soddisfarsi sul ricavato dalla vendita, senza soggiacere alla
limitazione del beneficium excussionis previsto dall’art. 52, co. 1, lett. a). In senso contrario alla
configurabilità del potere di contestazione della stima fatta dall’amministratore, può osservarsi
che i beni gravati da diritti di prelazione sono destinati alla vendita con “procedure competitive”
(art. 60, co. 2) e, quindi, il meccanismo di mercato è di per sé idoneo a realizzare il miglior
prezzo possibile. Tuttavia, sembra che si debba propendere per la soluzione più garantista,
favorevole alla interlocuzione anche dei creditori ipotecari o privilegiati, perché lo stesso
comma 2 prevede la possibilità per l’amministratore di utilizzare per la vendita non solo la
relazione di cui all’art. 46, ma anche “stime effettuate da parte di esperti”, le cui risultanze
potranno quindi essere assunte come prezzo base. Non è chiaro perchè in questo caso il
legislatore abbia utilizzato il termine “esperti”, diverso rispetto a quello impiegato nell’ultimo
comma dell’art. 36 (“perito”). La differenza terminologica potrebbe essere valorizzata per
argomentare che solo in quest’ultimo caso è necessario il contraddittorio tra le parti, mentre
invece la stima propedeutica alla vendita potrebbe essere disposta ed eseguita con la completa
pretermissione dei creditori. Non può tuttavia sottovalutarsi l’assonanza con l’art. 568 cpc che
denomina “esperto” il tecnico a cui il giudice dell’esecuzione immobiliare può affidare
l’incarico di stimare il bene. Ciò dovrebbe indurre a ritenere applicabili in via analogica le
disposizioni in tema di vendita forzata, e quindi l’art. 173bis disp. att. cpc, che al comma 3
prescrive che lo stimatore trasmetta copia della relazione ai creditori e al debitore, per dar loro
modo di interloquire trasmettendogli osservazioni scritte. Ma, soprattutto, la necessità di un
adeguato contraddittorio col creditore sembra imposto dall’art. 53 del Codice Antimafia, che
dispone: “i crediti per titolo anteriore al sequestro. Verificati ai sensi delle disposizioni di cui al
capo II, sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 70 per cento del valore dei beni sequestrati o
confiscati, risultante dalla stima redatta dall’amministratore o dalla minor somma
eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi”. La portata precettiva della norma è
imperscrutabile. Dal suo tenore sembra infatti che l’amministratore giudiziario abbia la facoltà
di decidere se vendere o meno i beni. In realtà, l’art. 60 del Codice non sembra lasciare alcun
margine di discrezionalità, perché stabilisce in modo inequivoco che l’amministratore avvia la
liquidazione dei beni (“mobili, aziende o rami d’azienda e immobili”) per soddisfare i creditori
utilmente collocati al passivo: l’unico presupposto da verificare è che “le somme apprese,
riscosse o comunque ricevute non siano sufficienti a soddisfare i creditori utilmente collocati al
passivo”. Pertanto, posto che la vendita dei beni sequestrati è sempre necessaria per estinguere i
debiti ammessi al passivo, sembra che non vi sia alcun margine per applicare la disposizione
dell’art. 53 (precedentemente citata) che sembra stabilire una sorta di espropriazione del credito
per pubblica utilità, imponendo al titolare l’obbligo di sostenere una decurtazione del 30%, a
fronte del pagamento con risorse erariali e non col ricavato della vendita dei beni del debitore
indiziato. Pur tuttavia, il solo fatto che in astratto al creditore si possa chiedere un sacrificio
patrimoniale dovrebbe indurre a prevenire eventuali contestazioni, dando corso ad una perizia in
contraddittorio.
In definitiva, prima di mettere il bene sul mercato, è certamente opportuno che l’amministratore
provochi un contraddittorio tra il proposto e i suoi creditori e chieda al giudice delegato
l’autorizzazione a nominare un esperto stimatore. Questo, ovviamente, se a disposizione
dell’amministratore giudiziario vi sia solo la valutazione da lui autonomamente redatta nella
relazione ex art. 36 cod. antimafia, o anche se si è avvalso della possibilità di farsi coadiuvare da
tecnici, ai sensi dell’art. 45 comma 4.
Pertanto, accedendo a questa soluzione, la duplicazione di spese non sembra ineluttabile. E’ da
ritenere, infatti, che l’amministratore giudiziario ben possa prospettare al giudice delegato (ex
ante, e cioè prima di depositare la sua relazione particolareggiata) la necessità di ricorrere a
professionalità diverse, per la specificità delle competenze richieste per una adeguata
valutazione dei beni (ingegnere per gli immobili, esperto in marchi e brevetti, tecnico per
macchinari e attrezzature, legale per una puntuale prognosi sull’utilità concretamente ricavabile
da ciascun giudizio pendente o da instaurare, ecc.). In questi casi (che, dal punto di vista
statistico, saranno certamente la maggior parte) il giudice delegato potrà nominare un perito,
coinvolgendo tutti i terzi interessati, ed acquisire quindi una stima che sarà loro opponibile, nel
corso del procedimento, e cioè:
- sia nei confronti del proposto (per l’eventuale restituzione in danaro del controvalore del
bene ormai destinato a finalità pubbliche)
- che dei comproprietari estranei al procedimento (e che facciano valere il diritto di
prelazione)
- che dei titolari di diritti reali o personali di godimento (a cui favore è previsto il diritto a
percepire un indennizzo in prededuzione)
- e, infine, anche nei confronti dei creditori ipotecari o privilegiati.
3.3 Assistenza legale alla procedura
L’art. 39 del Codice dispone: “Nelle controversie, anche in corso, concernenti rapporti relativi
ai beni sequestrati o confiscati, l’amministratore giudiziario può avvalersi dell’Avvocatura
dello Stato per l’assistenza legale”.
E’ indubbio che il patrocinio erariale è facoltativo e non obbligatorio.
La ratio della norma è certamente da individuare nell’intento di realizzare “una proficua
concentrazione delle diverse azioni e una notevole riduzione delle spese” 60.
Ma non va trascurata anche una forte valenza simbolica della norma, che è chiaramente diretta a
sottolineare il ruolo istituzionale dell’amministratore giudiziario a presidio di preminenti
interessi pubblici.
La possibilità concorrente dell’amministratore di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato o ad un
avvocato del libero foro pone l’interrogativo circa la competenza ad assumere la relativa
decisione. Ritengo che la nomina dell’avvocato spetti non al giudice delegato ma
all’amministratore, per la natura fiduciaria del mandato, per l’assenza di un qualsiasi
disposizione che attribuisca questo potere al giudice (come era, invece, per l’art. 25 n. 6 LF
prima della riforma del 2006) e, infine, perché in tema di esecuzione forzata immobiliare la
Corte (con sentenza 12556/99) lo ha implicitamente affermato.
Le ragioni che possono orientare la scelta dell’amministratore giudiziario in un senso o
nell’altro sono molteplici, tra cui certamente anche la particolare competenza richiesta dal tipo
di controversia. Di certo, l’amministratore non potrà avvalersi del patrocinio erariale quando si
trova in una posizione processualmente contrapposta a quella dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati. Trattandosi di una Amministrazione
dello Stato, questa deve obbligatoriamente avvalersi dell’Avvocatura (art. 1 R.D. 30 ottobre
1933 n. 1611) e l’art. 43 comma 3 RD 1611/33 prevede espressamente che in caso di conflitto di
interessi con lo Stato o con le Regioni, l’Avvocatura erariale deve declinare la difesa facoltativa.
Può farsi il caso delle istanze (proposte dall’Agenzia ai sensi dell’art. 38 comma del Codice) di
revoca o modifica di un provvedimento gestorio adottato dal giudice delegato. Qualora
l’amministratore intendesse resistervi, dovrebbe certamente farsi difendere da un avvocato
libero professionista.
Non può tacersi che l’espressione “assistenza” adoperata dall’art. 39 è del tutto atecnica.
Ai sensi dell’art. 87 cpc, infatti, le funzioni di assistenza sono ben distinte da quelle di
rappresentanza; la prima spettava al solo avvocato e comportava l’attribuzione del ruolo di
ausiliario della parte, incaricato di stare in giudizio affiancandola per sostenerne le ragioni,
oralmente o per iscritto. Essendo privo del potere di rappresentanza, non è necessario il rilascio
della procura ad litem coni requisiti formali prescritti dall’art. 83 cpc (Cass. 12 maggio 1999 n.
4718).
Se l’art. 39 si intendesse in senso strettamente letterale, l’amministratore giudiziario dovrebbe
munirsi comunque del ministero di un difensore del libero foro, a cui potrebbe cumulare le
60
Maltese C., Il Codice antimafia, in Il Penalista, Giuffrè, 2011, p. 60
prestazioni di assistenza dell’Avvocatura erariale. Ma questa conclusione comporterebbe
certamente la frustrazione dell’intento del legislatore, sopra evidenziato.
Dalla facoltatività della difesa erariale deriva che non è necessaria una procura scritta, perché lo
jus postulandi deriva direttamente dalla legge; in particolare, l’art. 45 RD 1611/1933 richiama
per il patrocinio facoltativo il comma 2 dell’art. 1, che esclude appunto la necessità del mandato.
Ma, soprattutto, non si applica la competenza del foro erariale, prevista dall’art. 6 per il
patrocinio obbligatorio, in quanto non richiamato dall’art. 45 61.
3.4 Potere di direzione del giudice delegato
L’art. 40 dispone: “il giudice delegato impartisce le direttive generali della gestione dei beni
sequestrati, anche tenuto conto degli indirizzi e delle linee guida adottati dal Consiglio direttivo
dell’Agenzia medesima ai sensi dell’art. 112, comma 4, lettera a)”.
Già sul piano letterale è indiscutibile il richiamo al previgente art. 25 LF. che assegnava al
giudice delegato il potere di “dirigere le operazioni”.
Sembrano quindi del tutto pertinenti le acute osservazioni di un’autorevole dottrina 62, che
esclude che il giudice delegato possa impartire ordini e sostituire la propria volontà a quella del
curatore, perché il potere di amministrazione può essere suscettibile di “compressione
quantitativa” o anche di “graduazione qualitativa” ma “esiste un punto oltre il quale non si può
andare”. L’amministratore giudiziario, a cui la legge affida il compito di “provvedere alla
custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati”, non è un mero
esecutore di ordini, dovendo invece adempiere ai suoi obblighi – nella cornice delle direttive
impartite dal giudice delegato – ma con ampia autonomia.
Ed infatti egli abbisogna di un’integrazione dei poteri gestori solo quando deve porre in essere
un atto di straordinaria amministrazione, tra cui il comma 3 dell’art. 40 indica le attività di
“stare in giudizio, contrarre mutui, stipulare transazioni, compromessi, fideiussioni, concedere
ipoteche, alienare immobili”.
La violazione delle direttive può certamente configurare un motivo di revoca
dell’amministratore per “grave irregolarità”, ma le direttive sono qualcosa di meno rispetto agli
ordini, che sono assolutamente vincolanti.
Va inoltre rilevato che l’amministratore giudiziario non è legittimato a proporre reclamo
avverso i provvedimenti gestori del giudice delegato, mentre l’Agenzia può chiederne la revoca
o la modifica al tribunale (art. 38 comma 1). Questo dato, che indubbiamente evidenzia una
maggiore subordinazione dell’amministratore giudiziario al giudice delegato, non è sufficiente
però a privare l’amministratore della facoltà di autodeterminazione, ovviamente per gli atti di
ordinaria amministrazione che possono essere compiuti senza necessità di alcuna
autorizzazione.
Il potere direttivo del giudice delegato va esercitato “tenuto conto degli indirizzi e delle linee
guida adottati dal Consiglio direttivo dell’Agenzia”. Considerato che l’Agenzia è un organo del
potere esecutivo, questa norma pone delicati problemi di costituzionalità, potendo porsi in
contrasto con il principio di separazione dei poteri. In proposito, si rammenta che con sentenza
23 dicembre 2005 n. 457 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 20 comma
7 legge 23 febbraio 1999 n. 44, per la violazione dei principi costituzionali posti a presidio
dell’indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale. Va però osservato che in quel
caso la norma imponeva al giudice dell’esecuzione di sospendere il processo esecutivo sulla
base di un parere vincolante del Prefetto. Si trattava, quindi, di un provvedimento avente diretta
efficacia sul singolo procedimento. Invece, gli atti di indirizzo adottati dal Consiglio direttivo ai
sensi dell’art. 112 comma 4, lett. a) hanno carattere certamente generale e non possono esplicare
alcun effetto sul singolo procedimento di prevenzione.
61
62
Cass. 29 luglio 2008 n. 20582, in Foro Amm., 2008, 9, p. 2325
Caselli G., Organi del fallimento, in Commentario Scialoja-Branca alla Legge fallimentare, Zanichelli, 1977, p. 76
In questa ottica, va certamente evitata l’adozione di provvedimenti gestori, nel corso del
procedimento di prevenzione, che possano pregiudicare la realizzazione delle finalità di
pubblico interesse stabilite dal Codice.
Per gli immobili, l’art. 58 comma 3 prevede che essi siano mantenuti al patrimonio dello Stato
(per finalità di giustizia, ordine pubblico, protezione civile) o trasferiti al patrimonio del comune
(per finalità istituzionali o sociali) o –in ultima analisi - venduti.
Le aziende, a loro volta, sono destinate all’affitto, alla vendita o alla liquidazione.
Si possono ipotizzare, sulla base dell’esperienza in materia concorsuale (che, per quanto
riguarda i profili gestori, presenta indubbie affinità con le problematiche relative
all’amministrazione “attiva” dei beni sequestrati), divergenti valutazioni (tra GD ed Agenzia) in
ordine:
- alla opportunità di concessione in locazione (per i beni immobili) o in affitto (per i
complessi aziendali)
- o all’individuazione del conduttore o dell’affittuario (va considerato che l’art. 35, co. 3, cod.
antimafia), ha esteso il divieto – previsto dall’originario comma 4 – di nominare come
amministratore alcune categorie “sospette” – quali coniuge, parenti, affini del proposto; o
soggetti condannati o a loro volta già sottoposti a misure di prevenzione – anche al
conferimento di “funzioni di ausiliario o di collaboratore dell’amministratore giudiziario”, ma
non contempla l’ipotesi in cui a queste persone sia concesso il godimento o la gestione dei beni
sequestrati; ipotesi, peraltro, nella pratica non inusuale)
- o alla serietà delle garanzie da questi prestate
- o più in generale alle condizioni contrattuali (specie con riferimento alla durata del rapporto
di locazione)
- o, infine, alla decisione se stipulare o meno un contratto definitivo, in esecuzione di un
preliminare.
Considerato, però, che un errore gestionale può comportare seri inconvenienti non solo
all’Agenzia, ma anche ad altri soggetti (lo stesso proposto, i creditori), sarebbe stato opportuno
accordare il rimedio del reclamo a qualunque interessato (e non solo all’Agenzia) come previsto
dall’art. 26 LF.
La durata del contratto di locazione o dell’affitto può ostacolare il reimpiego dei beni, una volta
divenuta definitiva la confisca, a fini istituzionali o sociali. E’ noto che, in tema di procedure
esecutive individuali e concorsuali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato la
incompatibilità delle norme vincolistiche (legge 392/78) con la finalità liquidatoria della
procedura (Cass. 28 settembre 2010 n. 20341; Cass., S.U. 20 gennaio 1994 n. 459; Cass. 15
marzo 1990 n. 2119). In particolare, la Corte ha ritenuto che l’art. 560 cpc, prescrivendo la
necessità dell’autorizzazione al custode dell’immobile pignorato per la sua concessione in
locazione, ha natura meramente processuale avendo funzione strumentale alla gestione del bene
nel processo esecutivo. La locazione è quindi una “modalità di esercizio della custodia e
conseguentemente postula effetti corrispondenti alla naturale limitatezza temporale di tale
funzione” (Cass. 459/94). Lo stesso principio può quindi applicarsi anche ai contratti stipulati
dall’amministratore giudiziario, che quindi può validamente pattuire con la controparte una
scadenza correlata alla irrevocabilità del provvedimento di ablazione; è vero, infatti, che
secondo la Corte il contratto di locazione “è naturaliter limitato entro l’orizzonte temporale
della custodia”, ma intuitive ragioni di prudenza consigliano l’inserimento di una clausola
espressa.
Questo iter argomentativo può essere senz’altro trasposto al procedimento di prevenzione,
quando riguarda beni già sottoposti a pignoramento, perché la improcedibilità dell’esecuzione
(prevista dall’art. 55 del Codice) e la previsione che essa va riassunta (comma 2) comporta
certamente la persistenza del vincolo di indisponibilità derivante dal pignoramento e quindi
l’applicabilità (quantomeno in via analogica) dell’art. 560 cpc.
Ma ad identiche conclusioni deve pervenirsi anche nel caso opposto, quando cioè il sequestro
colpisce beni non previamente sottoposti a pignoramento, perché anche l’amministratore
giudiziario ha compiti di custodia ed amministrazione (art. 35 comma 5) e indubbiamente la
locazione o l’affitto sono modalità di esercizio del potere di gestione; a tal proposito, un
aggancio normativo si rinviene nell’art. 42 comma 2 del Codice, che prevede la possibilità che
dalla gestione dei beni sequestrati o confiscati si possa ricavare liquidità.
Un ulteriore punto di inconciliabilità tra i due protagonisti del procedimento di prevenzione
(amministratore giudiziario e giudice delegato, da un lato; Agenzia, dall’altro) può riguardare
l’individuazione del soggetto a cui concedere i beni in locazione o affitto.
Con specifico riguardo ai complessi aziendali, l’art. 48 comma 8 prevede la possibilità di darli
in affitto a titolo oneroso o a titolo gratuito, rispettivamente a società o imprese pubbliche o
private oppure a cooperative di lavoratori.
L’Agenzia, nell’esercizio della sua discrezionalità amministrativa, ben può stabilire in via
generale (ai sensi dell’art. 112 cit.) di dare prevalenza all’affitto senza alcun canone, a favore
della cooperativa di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata (per favorire l’occupazione,
per testimoniare l’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata, ecc.).
Il giudice delegato (che, secondo l’art. 40, deve tener conto “degli indirizzi e delle linee guida
del Consiglio direttivo dell’Agenzia”) è il custode anche e soprattutto degli interessi del
proposto e dei suoi creditori. Si può ad esempio verificare che il passivo non sia di entità tale da
richiedere la vendita dell’azienda (ciò che è consentito, peraltro, dall’art. 60 del Codice),
potendo essere soddisfatto coi proventi derivanti dall’affitto dietro corresponsione di un canone
di mercato.
Questo è solo uno delle tante circostanze che possono creare divergenze di vedute tra giudice
delegato ed amministratore ed Agenzia, con la conseguente possibilità che quest’ultima ricorra
al Tribunale al fine di ottenere la revoca o modifica dei provvedimenti ritenuti in contrasto con
le linee guida.
4. Cenni sulla liquidazione dei beni sequestrati o confiscati preordinata al soddisfacimento
dei crediti anteriori alla misura di prevenzione
L’art. 60 del Codice dispone:
“Conclusa l’udienza di verifica, l’amministratore giudiziario effettua la liquidazione dei beni
mobili, delle aziende o rami d’azienda e degli immobili ove le somme apprese, riscosse o
comunque ricevute non siano sufficienti a soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo”.
La norma riporta alla mente il testo dell’art. 104 della legge fallimentare, vigente prima della
riforma del 2006, nella parte in cui fissava l’inizio della liquidazione in un momento successivo
all’esecutività dello stato passivo.
Invece l’attuale art. 104ter àncora l’avvio delle vendite alla predisposizione di un programma di
liquidazione, che deve essere depositato entro sessanta giorni dall’inventario, e quindi dalla
conclusione delle operazioni di acquisizione giuridica e di apprensione materiale dei beni
all’attivo del fallimento.
Anche sui tempi di liquidazione vi è pertanto un indubbio collegamento tra le disposizioni del
Codice antimafia e la legge fallimentare del 1942 (rapporto già segnalato con riferimento alla
verifica del passivo). In particolare, la scelta del legislatore di collegare l’inizio della
liquidazione alla ultimazione dell’attività di verifica dei crediti è chiaramente preordinata al fine
di individuare l’entità dei debiti meritevoli di tutela (cioè di soddisfacimento coattivo all’interno
del procedimento di prevenzione) e conseguentemente di limitare la vendita dei beni sequestrati
nella misura a questo scopo strettamente necessaria. Si noti che questa ratio è stata evidenziata
anche sotto l’impero della legge fallimentare del 1942 63. La scelta del Codice antimafia di dare
avvio all’attività di liquidazione solo dopo aver accertato (sia pure con efficacia meramente
63
A. Bonsignori, Liquidazione dell’attivo, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli, 1976, p. 4
endoprocedimentale) l’esistenza di crediti è ancor più condivisibile, se si considera che il
procedimento di prevenzione è istituzionalmente diretto a realizzare interessi pubblici ben
diversi rispetto a quelli, di carattere eminentemente privatistico, dei creditori del proposto. Si
può dire che la liquidazione coattiva dei beni sequestrati è un incidente satisfattivo, con
connotazioni di tipo eminentemente civilistico, potenzialmente idoneo a frustrare o ridurre
l’efficacia della misura di prevenzione. Così inquadrato il rapporto tra la fase liquidatoria ed il
più ampio procedimento in cui essa si inserisce, appare inevitabile la relazione di stretta
sussidiarietà.
Per quanto riguarda le modalità di vendita, l’art. 60 del Codice si limita a prevedere “procedure
competitive” (comma 2), “adeguate forme di pubblicità” (comma 3), l’acquisizione del parere
prefettizio previsto dall’art. 48 comma 5 (diretto ad evitare che i beni ritornino “anche per
interposta persona” nel patrimonio “del soggetto al quale furono confiscati”).
Non è comprensibile il motivo che ha indotto il legislatore a prevedere, per la vendita
satisfattiva (diretta cioè a soddisfare i crediti ammessi al passivo), delle modalità di liquidazione
del tutto sganciate dal potere di direzione del giudice delegato.
In altri termini, l’art. 60 del Codice – disponendo soltanto che la vendita sia effettuata
dall’amministratore giudiziario mediante procedure competitive – si allontana decisamente dallo
schema pubblicistico che caratterizzava la liquidazione fallimentare prima della riforma del
2006. Infatti, in armonia col ruolo di assoluta preminenza affidato al giudice delegato, l’art. 105
previgente conteneva un rinvio integrale (sia pure con la clausola di salvaguardia della
compatibilità) alle norme del codice di rito relative all’esecuzione forzata.
Il legislatore della riforma, sull’onda dell’ideologia della privatizzazione della procedura
concorsuale, aveva rafforzato notevolmente i poteri del curatore, conferendogli la massima
autonomia, introducendo una disposizione analoga a quella contenuta nel Codice antimafia.
L’art. 107 infatti disponeva che “le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal
curatore, tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati”.
Successivamente, il D. Lgs. 169/07 (c.d. “decreto correttivo”) ha temperato l’impostazione
eccessivamente “manageriale”, consentendo al curatore di prevedere nel programma di
liquidazione che le vendite siano effettuate dal giudice delegato.
Il Codice antimafia invece ha deliberatamente recepito il testo dell’art. 107 LF, introdotto col D.
Lgs. 5/06: si verifica quindi uno scarto tra la posizione di generale subordinazione
dell’amministratore giudiziario rispetto al giudice delegato (soprattutto nella verifica dei crediti,
ma anche e più in generale nel potere di quest’ultimo di impartire direttive) e, invece, la
maggiore autonomia concessa al professionista, quando dà inizio alle vendite.
Ma ancor più grave è la scelta di non consentire il ricorso alla vendita coattiva secondo lo
schema del processo di esecuzione. A tal proposito, una riprova dell’atteggiamento
schizofrenico del legislatore si desume dal fatto che questo rinvio è invece contenuto (peraltro,
prevedendo norme inderogabili che escludono qualsiasi valutazione discrezionale) nell’art. 48
comma 5 del Codice, che impone all’Agenzia di procedere alla vendita degli immobili (quando
non è possibile destinarli alle finalità istituzionali o sociali previste nei commi precedenti)
“osservate, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura civile”.
E’ evidente che sarebbe stato quasi naturale inserire un analogo richiamo per le vendite
effettuate dal tribunale di prevenzione per soddisfare i crediti ammessi al passivo, sia per la
natura giurisdizionale dell’autorità preposta, sia per la finalità satisfattiva a cui questo compito è
preordinato. Il sistema delineato dal Codice antimafia è invece alquanto bizzarro, perché
assegna poteri tipicamente giurisdizionali ad un organo della pubblica amministrazione; e, per
contro, non li prevede in favore dell’autorità giudiziaria preposta al procedimento di
prevenzione, sebbene persegua – in questa particolare fase - finalità che sono del tutto
coincidenti con quelle di una ordinaria procedura esecutiva.
Ad ogni modo, sembra inevitabile desumere che l’amministratore giudiziario debba fare ricorso
agli strumenti di tipo civilistico, e quindi negoziali, per la cessione dei crediti, dei beni mobili,
del complesso aziendale, degli immobili.
Ciò comporta alcune problematiche.
Per la cancellazione delle ipoteche, si potrebbe ritenere che l’assenza di un provvedimento
autoritativo con cui si verifica l’effetto traslativo della proprietà (dal proposto all’acquirente)
renda necessaria la comparizione dei creditori assistiti dalla causa di prelazione innanzi al notaio
per il rilascio dell’assenso alla cancellazione (art. 2882 c.c.) e, per le trascrizioni dei
pignoramenti o dei sequestri conservativi, che sia indispensabile la rinuncia agli atti esecutivi da
parte del creditore procedente o sequestrante e dei creditori intervenuti.
Una diversa soluzione può però essere rinvenuta nel ricorso in via analogica all’art. 108 comma
2 della legge fallimentare, che consente al giudice delegato di ordinare la cancellazione delle
trascrizioni e delle iscrizioni, “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo”.
Ragioni di speditezza ed economicità rendono preferibile questa opzione, che peraltro sul piano
giuridico è sorretta dall’indubbia affinità tra la procedura esecutiva concorsuale e la fase
liquidativa del procedimento di prevenzione.
L’altra questione che si porrà è la possibilità di vendere il bene libero e non occupato.
Non potendosi procedere con le forme della vendita forzata, non è ipotizzabile l’ordine di
liberazione nei confronti di colui che occupa l’immobile senza titolo opponibile.
Il problema è stato risolto dal Codice con l’art. 21 che al comma 2 prevede l’ordine di
sgombero.
Questo provvedimento può però essere adottato dal Tribunale, quando ordina il sequestro, solo
nei confronti di coloro che occupano il bene “senza titolo ovvero sulla scorta di titolo privo di
data certa anteriore al sequestro”.
Il raffronto con l’art. 52 comma 4 denuncia però una manchevole considerazione delle esigenze
di un’efficiente collocazione del bene sul mercato, con conseguente pregiudizio per le ragioni
creditorie.
Infatti, nel caso di titolari di diritti reali o personali di godimento opponibili perché muniti di
data certa anteriore al sequestro, dalla confisca consegue l’effetto purgativo e quindi lo
scioglimento dei contratti da cui derivano.
Invece, nel caso in cui non si addivenga alla confisca perché è necessario vendere il bene per
destinare il ricavato al soddisfacimento dei crediti verso il proposto, l’amministratore giudiziario
deve rispettare i diritti di godimento opponibili; da ciò può derivare un notevole deprezzamento
del bene, ad esempio per la durata dei diritti (nel caso di locazione pluriennale) o per la loro
estensione (usufrutto a favore di un soggetto in giovane età).
Questo assetto può comunque ritenersi equilibrato, dovendo indubbiamente privilegiarsi
l’interesse pubblico ad acquisire un bene libero dai diritti di godimento, rispetto alle ragioni
creditorie.
Però, un’ingiustificata compressione di queste ultime avrebbe potuto essere evitata, quanto
meno nel caso di locazione opponibile ma stipulata a “canone vile”, cioè inferiore di oltre un
terzo rispetto al “giusto prezzo”; in questi casi, infatti, l’art. 2923 comma 3 c.c. consente di
ritenere inopponibile il contratto nei confronti dell’acquirente.
Nell’espropriazione forzata, è pacifico che l’ordine di liberazione possa riguardare anche il
conduttore che gode dell’immobile corrispondendo un canone inferiore a quello di mercato 64.
Nei casi in cui l’immobile sia venduto nel corso del procedimento di prevenzione,
l’amministratore giudiziario dovrà invece proporre ricorso ex art. 700 cpc, prospettando
l’irreparabilità del pregiudizio nel fatto notorio che la vendita di un immobile gravato da una
locazione non adeguatamente remunerativa comporta necessariamente lo svilimento del suo
valore di scambio.
64
Fanticini G., La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata, a cura di Demarchi P. G.,
Zanichelli, 2009, p. 677
Il sequestro di prevenzione può indubbiamente avere gli stessi effetti del pignoramento
(presupposto indefettibile per l’applicazione dell’art. 2923 c.c.), sia quando un’esecuzione esista
già, sia quando il bene sequestrato non è stato sottoposto ad un vincolo pignoratizio preesistente,
perché l’art. 55 del Codice, disponendo che “a seguito del sequestro non possono essere
iniziate o proseguite azioni esecutive”, comporta la trasformazione dell’azione di espropriazione
da azione esecutiva individuale ordinaria in azione esecutiva concorsuale 65.
5. Profili ordinamentali
Tra penalisti e civilisti si dovrà attivare un proficuo processo di osmosi, inteso come flusso di
conoscenze da un settore all’altro della giurisdizione ordinaria. Un modo per agevolare questo
scambio di conoscenze (oltre alle iniziative congiunte in tema di formazione) potrebbe
consistere nell’agire sul piano tabellare, incentivando la partecipazione ai collegi che si
occupano di misure di prevenzione di magistrati con esperienza in materia concorsuale o nel
campo dell’esecuzione individuale.
Allo stato attuale, però, questo modulo organizzativo è precluso dalla circolare per la
formazione delle tabelle del triennio 2012-2014, che favorisce la massima specializzazione e
ritiene inderogabile “la naturale ripartizione tra il settore civile e quello penale” (art. 21.1 della
circolare).
La coassegnazione ad un settore diverso è consentita (dal § 18.3) solo per esigenze di
riconversione e quindi per “finalità formative”, quando cioè il magistrato addetto al civile è in
procinto di passare (magari per l’approssimarsi del periodo decennale massimo di permanenza)
al penale.
Sembra quindi opportuna una riconsiderazione da parte del Consiglio Superiore di questo
specifico aspetto della circolare, che d’altra parte è stata emanata a luglio 2011 e quindi prima
del Codice antimafia.
Massimo Orlando
Giudice del Tribunale di Lecce
65
Inzitari B., Effetti del fallimento per i creditori, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Zanichelli,
1988, p. 8.
Fly UP