...

Vocazione alla santità

by user

on
Category: Documents
20

views

Report

Comments

Transcript

Vocazione alla santità
COMMISSIONE MISTA
PADRI ROSMINIANI
SUORE DELLA PROVVIDENZA ROSMINIANE
ASCRITTI
La via rosminiana per la
Vocazione alla santità
STRESA 2014
COMMISSIONE MISTA
PADRI ROSMINIANI
SUORE DELLA PROVVIDENZA ROSMINIANE
ASCRITTI
La via rosminiana per la
Vocazione alla santità
STRESA 2014
Indice
1.
Perché questo titolo. .................................................................
5
2.
«Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» ........
6
3.
La santità soltanto, importa ......................................................
9
4.
La vocazione alla santità del laico .............................................
10
La vocazione alla santità del religioso.......................................
15
6.
La vocazione alla santità del sacerdote......................................
19
5.
La vocazione alla santità del vescovo........................................
24
5.
Vocazione alla santità nel matrimonio ..........................................................
Vocazione alla santità per gli ascritti rosminiani ...........................................
Per il religioso rosminiano ............................................................................
Per la religiosa rosminiana ............................................................................
12
13
16
17
1.
Perché questo titolo.
Proprio duecento anni fa, il 22 settembre 1814, il beato Antonio Rosmini, scrivendo all’arciprete di Cavedine, don Bartolomeo Menotti, gli
comunica la sua ferma intenzione di farsi sacerdote1. È la naturale conseguenza di quanto aveva meditato l’anno precedente, culminato nell'intensa giornata di ritiro spirituale che visse in un isolato casale di proprietà
della famiglia il 24 marzo 1813, e di cui così scrive nel Diario personale:
«1813 […] Quest’anno fu per me un anno di grazia: Iddio m’aperse gli
occhi su molte cose, e conobbi che non vi era altra sapienza che in Dio»2.
Il giovane Antonio intese che questa illuminazione era una chiamata,
ossia “vocazione”, di Dio a cui doveva dare una risposta. L’anno successivo decise quale risposta dare; una risposta integrale e totale: «ho fermato
di farmi prete», con l’impegno di testimoniare e trasmettere ad altri la
bellezza e la gioia del rispondere alla chiamata di Dio: «Tutto quel poco
di dottrina che […] avrò, io intendo usarlo nell’ammaestrare altri (e che
più bella cosa del giovare!».
Il Padre Generale, don Vito Nardin, all’inizio di quest’anno, così
commentava sul bollettino rosminiano Charitas: «Nessuna cosa è più bella
del giovare! Il giovare, l’agire per il bene del prossimo, costituisce “cosa
bella”, e la bellezza suscita l’ammirazione, il plauso, il punto esclamativo.
[…] La bellezza della vocazione rosminiana non è esteriore, da vetrina,
da campioni in un tipo di specialità, nemmeno da campioni, più da allenatori che da campioni. È la bellezza di una cosa che permette ad altre di
essere campioni nel proprio campo. È come la stoffa, con la quale si può
confezionare l'abito, come la farina che potrà dare tante forme di pane,
come uno strumento con il quale si può suonare qualunque melodia, come la voce con la quale si possono esprimere parole, preghiere, canti. Ciò
non significa che non si tende alla perfezione; si tende, ma a quella
1.
Vedi più avanti a p. 18-19 il testo completo della lettera.
2.
A. ROSMINI, Scritti autobiografici inediti, Edizione Nazionale delle Opere di Antonio
Rosmini 1, Roma 1934, p. 419.
5
dell’anima, non di un singolo aspetto; alla perfezione della carità, che comprende tutto»3.
In età matura, non solo già sacerdote ma anche fondatore di una congregazione religiosa, scrisse un aureo libretto di spiritualità, che pubblicò
a Roma nel 1830, intitolato: Massime di perfezione cristiana adattate ad ogni
condizione di persone, che così inizia: «1. Tutti i cristiani, cioè i discepoli di
Gesù Cristo, in qualunque stato e condizione si trovino, sono chiamati
alla perfezione, perché sono chiamati al Vangelo, che è legge di perfezione. A tutti ugualmente il divino Maestro disse: Siate perfetti come è perfetto
il Padre vostro celeste (Mt 5,48)».
Questa “perfezione cristiana” è stata chiamata dal Concilio Vaticano
II: «Universale vocazione alla santità nella Chiesa»4. Ciò che qui vogliamo
proporre, sono alcuni aspetti di una Via rosminiana per la vocazione alla
santità, attraverso una breve selezione di testi raccolti dalle lettere dell'Epistolario ascetico di Rosmini e da qualche altra opera rosminiana.
È un tema già proposto quest’anno nei sei foglietti formativi per le varie comunità rosminiane: 1° Chiamati alla santità, 2° Chiamati alla comunione e all’unione, 3° Chiamati ad una vocazione d’amore, 4° Chiamati ad
una vita apostolica, 5° Chiamati ad un’intensa caritatevole attività, 6° Chiamati ad una completa fiducia nella Provvidenza.
Questo sussidio intende mettersi nella loro continuità.
2.
«Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» 5
Compilando nel 1828 le Costituzioni dell’Istituto della Carità, spiegando quale fosse il suo fine, cosi lo presentava al n. 5:
Perciò, fine di questa Società è procurare diligentemente la
santificazione dei membri di cui si compone; e tramite la loro san-
3.
Charitas. Bollettino rosminiano, anno LXXXVIII, n. 1-2 gennaio-febbraio 2014, p. 2.
4.
CONCILIO VATICANO II, Cost. dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, cap. V.
5.
1Tes 4,3.
6
tificazione, spendere ogni suo affetto ed energia nelle opere tutte di
carità e specialmente nella salvezza eterna di tutto il prossimo (D.).
(D.) La santificazione propria dev’essere, allo stesso modo, fine
e mezzo della santificazione altrui. Infatti le opere di carità si assumono in quanto sappiamo di certo che ciò piace a Dio; e ciò che
piace a Dio è la nostra santificazione, poiché si legge: «questa è la
volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3). E dunque, quanto più saremo santi, tanto maggiori forze avremo per giovare al
prossimo.
Fin dall’agosto 1830 tre suoi amici, sacerdoti della diocesi di Trento,
don Giulio Todeschi, don Pietro Rigler, rettore del seminario, e don Andrea Giacomuzzi, gli proposero di formare insieme una «società ecclesiastica». Rosmini spiegò loro l’esistenza dell’Istituto della Carità a cui essi
chiesero di appartenere, e dal 27 giugno 1831 cominciò ad esistere nel
seminario di Trento questa seconda comunità rosminiana6.
In una lettera al Rigler del febbraio 1831 così spiegava come il fine
dell’Istituto non fosse altro che la propria santificazione:
… Per Iddio non conta il far molto esteriormente, ma l’avere
un cuore umile, ubbidiente e retto con lui: «Ecco, obbedire è meglio
del sacrificio, essere docili è meglio del grasso degli arieti» (1Sam 15,22).
… Se mai la nostra piccola unione potrà fare qualche cosa, sarà
coll'ubbidienza. Con questa sola santificheremo noi stessi, che è il
grande ed unico scopo della nostra piccola unione, perché più della
nostra santificazione non possiamo desiderare. Circa il numero dei
soggetti non pensateci affatto: voi tre siete abbastanza, tutto sta a
formarsi; non dubitate, Dio ci aiuterà e ci condurrà soavemente
ovunque voglia. Abbandoniamoci solo a lui, e non poniamoci altro
fine fuorché il piacergli e il riposare tranquilli in lui, sempre contenti dello stato presente senza voler di più, e considerando sempre
lo stato presente come opera finita. Ciò in cui dobbiamo essere incontentabili - e ogni giorno dobbiamo vederci progredire - è
nell’amare Dio e nel camminare nella sua giustizia. Non è dunque
neppure il predicare, né il fare grandi cose per gli altri ciò che ve6.
Cfr. in A. ROSMINI, Diario della carità, alle corrispondenti date.
7
ramente dobbiamo amare, ma il purificare noi stessi e l’osservare
ogni giorno sempre più fedelmente la parola di Gesù Cristo, che è
verità e vita delle anime nostre …7
Nel 1836, ad un suo religioso che operava nella comunità religiosa
rosminiana della missione inglese del collegio di Prior Park e che, dubitando della propria vocazione, si era lasciato assalire dalla tristezza e dallo
scoraggiamento, scriveva così:
Oh quanto bramerei […] che voi poteste godere della pace
del cuore, e santificarvi nella vocazione, che avete abbracciato! Ascoltatemi dunque attentamente e giudicate se le osservazioni che
vi farò vengano da Dio, come io fermamente credo.
La ragione dei vostri mali consiste: 1° nel non aver bene afferrato che fuori di voi non c’è né bene né male per voi, ma tutto il vostro vero bene sta nella vostra santificazione, e tutto il vostro male sta nel
perdere qualche grado della vostra santificazione; 2° nel non aver bene
capito che tutte le cose esteriori non dipendenti dalla vostra volontà
(siano per sé buone o cattive), nelle mani della divina Provvidenza possono essere, e sono, altrettanti mezzi per accrescere la vostra santificazione.
[…] Quando voi fate il vostro dovere, dentro la vostra sfera,
la vostra anima è santa, voi siete salvo. Che cosa volete cercare di
più? perché turbarvi per le mancanze che non commettete voi?
perché perdere la vostra tranquillità e assoggettarvi, in conseguenza
dell'irritazione che nasce in voi, alla tentazione di esser meno umile, meno mortificato, meno docile, meno ubbidiente? In tal modo
vi turbate per una cosa che non è male per voi e, turbandovi, fate
invece una cosa che è vero male per voi, perché danneggia l’anima
vostra.
[…] Adorate piuttosto in pienissima tranquillità la divina
Provvidenza, che lo permette, e pregate incessantemente Dio perché dia maggior lume a chi ne ha bisogno. Se poi volete anche
porre rimedio a questi mali, vi indicherò la via. […] Scrivetevi be-
7.
A. ROSMINI, A don Pietro Rigler rettore del Seminario di Trento, 12 febbraio 1831; in:
Epistolario ascetico, vol. I, lettera 215, p. 418.
8
ne in mente il semplicissimo fine dell’Istituto, la salvezza e la perfezione delle proprie anime8. Se dunque, senza badare agli altri, voi badate solo a voi stesso, adoperate tutte le forze e impiegate tutto il
vostro pensiero nell'umiliare voi stesso sotto di tutti, nella sottomissione e nell’ubbidienza; voi santificate e perfezionate l’anima vostra e
avete condotto l’Istituto al suo fine. Per il resto lasciate che faccia
Iddio.
[…] Che vi giova, se anche tutta l’Inghilterra si salvasse, e voi
periste?9 Che vi giova, se nella casa in cui siete andasse tutto a vostro
gusto e voi non andaste al gusto di Dio? […] dite dentro di voi:
«[…] Tu sei qui per conseguire la virtù della santità e non per far il
censore ai difetti altrui. Dio questo vuole da te: la salvezza e perfezione dell’anima mia; questa è la mia gran vocazione. Marta, Marta,
tu ti affanni e ti agiti per molte cose10». E con queste ed altre simili parole, che direte a voi stesso, abituatevi a frenare la fantasia e raccogliervi tutto in voi stesso per separare quello che spetta a voi per
dovere e quello che non spetta a voi. […] Ecco il gran bene, il solo
bene per voi!11
3.
La santità soltanto, importa
La profonda aspirazione alla santità non impediva però a Rosmini di
vedere quanto fossero grandi i propri limiti e quanto fosse necessario non
arrendersi. Scriveva nel 1816 all’amico don Luigi Sonn:
[…] È vero, noi non siamo santi, ma a me dispiace quando
alcuno mi fa questa obbiezione. In modo riservato io rispondo loro
che Dio può farci santi, che lo spero in Gesù Cristo, che tutti ne
8.
A. ROSMINI, Regole comuni dell’Istituto della Carità, regola 2.
9.
Cfr. Mt 16,26: «Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?»
10.
Lc 16,41.
11.
A. ROSMINI, A don Antonio Rey a Prior Park in Inghilterra, 7 agosto 1836; in: Epistolario ascetico, vol. II, lettera 469, p. 165-167.
9
abbiamo il diritto e tutti abbiamo aperta la strada per giungere ad
una uguale virtù e gloria. Sì, lo spero! E l'otterremo, se noi pregheremo senza intermissione e se ci raccomanderemo a Dio, a Gesù
Cristo, alla sua Madre e a tutti i Santi. Voi pregate per me ed io farò similmente per voi. Vi prego di non mostrare questa mia a nessuno di quelli i quali potrebbero essere di sentimenti differenti, perché non facciano ingiuria alla verità. […]12
All’inizio del 1851, quando infuriavano gli attacchi contro il suo
pensiero, la sua persona e il suo Istituto, confida all’amico marchese Gustavo Cavour la profonda pace interiore che gli viene da Dio, e trova
modo di spronarlo a preoccuparsi solo della propria santità:
[…] Abbiamo dunque bisogno di fede e di preghiera, e questo è quello che invoco anche dalla sua carità. Faccio anch’io voti
ardentissimi perché il Signore in quest’anno nuovo ricolmi lei delle
sue benedizioni e la conduca a quell’eminente santità a cui tutti ci
chiama, e il cui valore è tanto, che l’universo intero in paragone di
essa vale uno zero […]13
4.
La vocazione alla santità del laico
Il testo principe in cui il beato Antonio Rosmini si soffermò a meditare e descrivere l’universale vocazione alla santità di ogni cristiano è certamente quello delle Massime di perfezione cristiana adattate ad ogni condizione di persone, ma vi sono anche molte altre occasioni in cui, a diverso
titolo, trova il modo di trattare della vocazione alla santità del laico.
Ancor giovane chierico, nel 1819, animato dallo stesso fermento che
suscitò negli ambienti culturali cristiani alla fine del ‘700 ed ai primi
dell’800, tutta una serie di associazioni volte a contrastare gli effetti nocivi
12.
A. ROSMINI, A don Luigi Sonn, 29 gennaio 1816; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera
5, p. 28.
13.
A. ROSMINI, Al marchese Gustavo Benso di Cavour a Torino, 6 gennaio 1851; in: Epistolario ascetico, vol. II, lettera 1240, p. 677-678.
10
dell'illuminismo, chiamate Amicizia cristiana oppure Amicizia Cattolica,
decise di fondare insieme a due amici, Sebastiano Appollonia e Bartolomeo Stoffella, una Società degli amici, per accrescere una santa «amicizia
cristiana» una «lega dei buoni» energica e vivace nell’operare e diffondere
il bene14.
Negli Statuti indica immediatamente il fine della Società15, il fine più
semplice e più nobile, è anche il più concreto e pratico: fare dei buoni
cattolici, zelanti, pieni di spirito d’apostolato. Il fine è Dio, la Chiesa, le
anime: e perciò anche la Società ricerca «quella perfezione dei suoi membri,
che in essa ottiene l’uomo con tutti i veri, giusti, equi e prudenti mezzi che si
possono adoperare». «Lo spirito di lei - commenta Rosmini nella sua Istruzione prima a Giovan Pio Dalla Giacoma nell’ascriverlo alla Società il 4
settembre 1820 - richiederebbe perciò tutti i suoi membri perfetti, desiderando
molto più in se stessa quanto studia promuovere in altri. Il perfetto cattolico poi
è quegli che tenta ogni cosa per la perfezione propria e altrui. Questa obbligazione speciale forma il membro della società»16.
Nel 1853, scrivendo a Ruggero Bonghi, allora giovane molto promettente per il mondo culturale italiano, spesso suo ospite a Stresa, ma di debolissima fede cristiana, lo esorta a fare una scelta cristiana risoluta:
[…] Per carità, non siete più fanciullo, è tempo di guardare
avanti, per non aversi poi a pentire. Ma queste sono ciance in confronto della parola che mi avete dato in quell’affare, che vale per
tutti e che spero e prego caldamente Dio perché me lo manteniate.
Mio caro Bonghi, mettete avanti a tutte le cose l’anima vostra: per
carità non siate scioperato in questo, scuotete l’accidia, riscaldatevi,
rompetela colle massime del mondo; essendo voi creato per cose
tanto più grandi, fate una risoluzione generosa, efficace, assoluta,
14.
Cfr. A ROSMINI, Al marchese Tapparelli D’Azeglio a Torino, 7 luglio 1821; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 18, p. 48-49.
15.
L’intero Statuto è stato pubblicato in: U. PELLEGRINO, Sebastiano Appollonia e Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1973, vol. II, p. 120-147; porta la data: 27 settembre
1819; è firmato da Rosmini, Appollonia e Stoffella; ha come motto: «Vis unita fortior».
16.
Cfr. G. PUSINERI, La società degli Amici, in: Charitas. Bollettino rosminiano mensile,
febbraio 1931, p. 42-47.
11
irrevocabile. Quale consolazione non sarebbe per me l’udire da voi
stesso che l’avete proprio fatta, e senza esitazione, senza restrizione,
irrevocabilmente con tutto voi stesso! Io spero che me la darete
questa consolazione; spero ancor di più che la darete a voi stesso.
Intanto ricevo, quasi a pegno e caparra di quanto aspetto, la promessa di mandarmi un salmo tradotto per ogni vostra lettera: io lo
reciterò a Dio per voi con tutta l’anima mia […].
Un’altra lettera che scrisse alla Baronessa Maria Koenneritz17, fu l'occasione per ribadire fortemente che il miglior mezzo per mantenere e
progredire nella vocazione alla santità è la vita di preghiera:
[…] Questo mi fa conoscere che Dio l’assiste e la conduce per
una strada per la quale, sempre più progredendo con coscienza e
magnanimità, perverrà a quella perfezione cristiana che desidera e
che è veramente il sommo, anzi l’unico vero bene che possa appagare il nostro cuore, non fatto per altro che per Dio. Tenga in
grandissimo conto l’esercizio della preghiera, che è quel potentissimo mezzo insegnatoci da Gesù Cristo, non solo con le parole ma
anche con gli esempi, con cui possiamo ottenere tutto quello che
noi bramiamo. Costa certamente non poco il mettersi in una vita di
preghiera, ma quest'esercizio più lo si pratica, più diventa facile e
dolce, specialmente perché di mano in mano aumenta in noi la
grazia […]18.
Vocazione alla santità nel matrimonio
Preziosa per questo genere di vocazione è una lettera del 1854 che egli
scrisse per una sua parente Maria o Marietta Rosmini19:
17.
Maria Koenneritz di Noenneritz era una baronessa protestante di Dresda, convertitasi al cattolicesimo alla sola vista di Pio IX da cui ricevette la cresima e la prima
comunione. Affidata da mons. Stella, Cameriere Segreto di Pio IX, a Rosmini per la
direzione spirituale, ebbe un’ammirazione sempre più crescente per la sua grandezza
e santità. Oltre a frequenti e profondi colloqui ebbe con lui una costante e frequente
corrispondenza.
18.
A. ROSMINI, Alla baronessa Maria Koenneritz a Milano, 9 dicembre 1854 in: Epistolario ascetico, vol. IV, lettera 1492, p. 264-265.
19.
Era figlia di Leonardo fratello del più noto cav. Carlo Rosmini, cugino di Antonio,
ed autore tra l’altro di una Storia di Milano.
12
[…] La sposa cristiana deve ricordarsi sempre che il suo stato
è sacro e che non deve operare mai nulla, che non sia degno d’un
tale stato. […] Dopo vostro marito e vostro signore - col qual nome Sara chiamava sempre Abramo - voi dovete essere lo specchio
di tutta la vostra famiglia. Se tutte le vostre azioni saranno prudenti
e virtuose, esse eserciteranno una salutare influenza su tutti i membri della famiglia. Questa dell’esempio è la prima vostra missione.
La seconda sarà quella che eserciterete colle parole. Il pensiero preceda la lingua. Colla dolcezza del vostro parlare guadagnerete i
cuori, colla riservatezza vi procurerete autorità, collo spirito di pietà
e di santità edificherete la vostra casa. […] Le vostre occupazioni
domestiche, ecco i vostri divertimenti. Ricordatevi che non siete
sposa per divertirvi, ma per adempiere gravi doveri e per santificare
voi stessa e gli altri. I figli sono un dono di Dio; se egli ve ne darà,
riceveteli con gratitudine, offriteli a lui ed educateli come suoi veri
servi. Grandi sono i doveri di madre e qualora questi vi si aggiungano, meditateli giorno e notte. Siate caritatevole con tutti, non
solo in famiglia, ma anche con quei di fuori. […] La preghiera accompagni tutti i vostri passi, siate fedele ai vostri impegni religiosi,
ma senza che essi v’impediscano i doveri e la subordinazione al marito20.
Vocazione alla santità per gli ascritti rosminiani
Quando nel febbraio del 1828 diede inizio alla congregazione religiosa dell’Istituto della Carità, nel suo grande progetto considerò anche la
possibilità che altre persone desiderassero condividerne gli stessi fini. Delineò quindi una serie di direttive per coloro che, o laici, o religiosi, o ecclesiastici, pur non legandosi strettamente all’Istituto con la professione
dei voti religiosi, volessero liberamente, fin quando lo desiderassero e a
diverso titolo condividere lo spirito e il fine della Società, senza nessun
altra obbligazione al di là di quelle previste nelle Costituzioni. Nel mano-
20.
A. ROSMINI, A Marietta Rosmini di Rovereto che si sposa col nobiluomo signor Angelo
Giacomelli di Treviso, 11 giugno 1854 in: Epistolario ascetico, vol. IV, lettera 1458, p.
227-229.
13
scritto che contiene queste direttive21, datate 1833 ed intitolate Regole
comuni degli Ascritti all’Istituto della Carità sotto la invocazione di Gesù paziente e di Maria Addolorata, fin dall’esergo troviamo indicato il fine:
«Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Tes 4,3). e nel
contesto troviamo queste indicazioni:
[…] Poiché a questa perfezione dell’Amore sono chiamati
tutti i Cristiani ai quali fu detto: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste», l’Ascritto della Carità non ha un fine diverso da quello che hanno tutti gli altri fedeli di Cristo fratelli suoi;
ma coll'ascrizione, oltre i mezzi comuni, acquista certi mezzi speciali, dai quali viene aiutato a conseguire quel gran fine della carità
perfetta22.
[…] Ogni Ascritto cercherà di appurare e santificare in se
stesso i vincoli e le affezioni naturali, informandole alla carità universale, per la quale si amano gli uomini per Iddio in Gesù Cristo
suo figlio; perciò subordinerà sempre le sue affezioni al maggior
piacere e gloria del Padre Celeste, come pure subordinerà tutti i
beni e vantaggi terreni alla salvezza dell’anima e ai beni e vantaggi
spirituali.
E in particolare l’Ascritto sarà solerte, nel modo però adattato
21.
Si tratta del manoscritto Codex regularum, conservato nell’Archivio Storico dell'Istituto della Carità (AG 5, fgll. 678v-687v), usato da Rosmini per riportarvi istruzioni
a fratelli inviati in qualche missione, oppure regole particolari da applicarsi in qualche casa dell’Istituto o in tutto l’Istituto da persone addette a particolari incarichi e
così via. Tali regole venivano poi riportate in bella copia e consegnate ai diretti destinatari. In altri casi Rosmini inviava ai Superiori delle varie case alcune di tali regole, con l’imposizione di ricopiarle, a cura dei medesimi Superiori, nel “Codex
Regularum” che ciascuna casa doveva possedere. Ma questo “Codex Regularum” contiene anche molte delle regole poi pubblicate nel libretto delle Regole Comuni (Torino 1837). Il Codice contiene inoltre altre regole altrove pubblicate, quali le “Regole
comuni degli Ascritti all’Istituto della Carità” (pagg. 47-53) e la maggior parte degli
scritti pubblicati per cura di p. Lanzoni sotto il titolo di Avvisi spirituali (Torino
1890), poi ristampati, senza variazioni di rilievo, da p. A. Valle alle pagg. 245-274
del vol. 48 delle opere di Antonio Rosmini (Operette spirituali, Roma 1985).
22.
Regole comuni degli Ascritti …, cap. I: “Del fine dell’Ascrizione e dei mezzi per ottenerlo”, n. 4.
14
al posto che occupa nella famiglia, nel cooperare al bene spirituale
degli altri. Ed i genitori siano un modello di diligenza nell’educare
santamente la prole, conducendola alle catechesi parrocchiali e
ammaestrandola non solo per mezzo di altri, ma per quanto possono anche da se stessi, trattandola sempre con giustizia e con dolcezza, e proponendole dei fini di operare retti e nobili23.
[…] L’Ascritto non vorrà solamente fare il bene; ma vorrà altresì farlo bene; perciò nell’esercizio delle buone opere egli seguirà
l'ordine della carità e opererà secondo la scienza. L’ordine della carità esige che si preferiscano con semplicità quelle azioni caritatevoli, che si presentano per prime da esercitare, qualunque siano,
purché proporzionate alle forze, giacché si cerca in tutte la sola carità24.
5.
La vocazione alla santità del religioso
Una prima importante osservazione sulla natura di questa vocazione
la troviamo in una lettera che Rosmini scrive a don Luigi Gentili in Inghilterra: non bisogna mai dimenticare che questa è una chiamata di Dio
ad ogni singola persona e conserva sempre in sé un alcunché di misterioso:
Quanto alla dottrina circa la vocazione religiosa, è vero: considerata la cosa in generale, non si tratta che di seguire consigli e
non precetti, perciò non c’è peccato per colui che non li segue,
giacché il peccato consiste sempre nella violazione di qualche precetto. Confesso poi, che la dottrina contraria a questa è falsa, mette
in angustia le anime, e spesso se ne fece abuso. Perciò guardatevi
dall’essere troppo rigido in questa materia. Certamente colui che
non segue la vocazione religiosa quando potrebbe seguirla, si priva
di un bene infinito; l’essere privo di un aumento di bene spirituale,
a dire il vero, per chi ha lume di fede e grande amor di Dio, è un
23.
Regole comuni degli Ascritti …, cap. III: “Della carità verso la propria famiglia”, n. 34.
24.
Regole comuni degli Ascritti …, cap. IV: “Della carità verso tutti”, n. 2.
15
danno insopportabile. Oltre a tutto ciò, noi non possiamo conoscere quegli obblighi che nascono nel cuore altrui dalle comunicazioni
interne della grazia, essendo certo che Dio vuole in particolare da
certi uomini quello che non vuole dal comune degli uomini, e che
può diventare per essi precetto quello che non è, comunemente parlando, precetto. Ma noi nella direzione delle anime non dobbiamo
mai parlare con troppa sicurezza su questo punto; poiché questo è
un segreto di Dio; dobbiamo solamente esortare le anime, affinché
esaminino bene se stesse e, o per amor proprio o per attacco ai beni
terreni, non vogliano villanamente rifiutare gli inviti interni dello
Spirito Santo25.
Per il religioso rosminiano
Numerosissime sono nell’Epistolario ascetico le lettere con cui Rosmini spiega, conforta, sostiene, rimprovera, rianima chi vive la vocazione
religiosa rosminiana, così pure quelle con cui sollecita il coraggio di farne
la scelta o dimette chi non ha le adeguate disposizioni. Tra di esse ne scegliamo una sola che scrisse ad un anonimo chierico del seminario di Bra
nel 1839:
[…] È difficile il dare in una lettera un’idea chiara dell’Istituto
della Carità, ma le basterà sapere, che questo ha per oggetto la più
grande perfezione possibile insegnata nel Vangelo da nostro Signor
Gesù Cristo, e che domanda a coloro che vi aspirano la più grande
carità e desiderio di fare del bene, un’ubbidienza perfetta e un'indifferenza ad ogni ufficio che i superiori gli vogliano assegnare per
la maggior gloria di Dio. La disposizione dunque che si richiede
negli aspiranti è quella di un’intenzione purissima ed altissima, e una
persona che pensasse di unirsi all’Istituto costretta dalla necessità al
fine di riuscire a farsi ordinare prete, non sarebbe chiamata all'Istituto. L’unico fine deve esser quello di sacrificare se stesso alla maggior gloria di Dio secondo la direzione dell’ubbidienza. Se lei è veramente animato da intenzioni così pure e così elevate, dopo invocato il Signore, venga al Calvario di Domodossola, ed ivi potrà
25.
A. ROSMINI, A don Luigi Gentili a Prior Park, 11 marzo 1837; in: Epistolario ascetico,
vol. II, lettera 506, p. 210.
16
avere tutte le informazioni che desidererà. L’avverto però di portare
con sé i certificati di battesimo e di cresima, gli attestati di tutti i
suoi studi in buona regola, il permesso del suo vescovo di entrare
nell'Istituto, un attestato del rettore del seminario di buona condotta, il certificato del suo stato di salute del medico, e un attestato del
sindaco del comune o di altra autorità politica superiore. Quando
tutto ciò sia in buona regola potrebbe benissimo essere accettato
nell’Istituto, quantunque privo di beni temporali […]26.
Per la religiosa rosminiana
Anche per la guida delle suore, l’Epistolario ascetico è ricchissimo di
lettere scritte da Rosmini sia a singole suore, sia alle varie comunità. Tra
tutte riproponiamo quella che volle scrivere alle novizie rosminiane per il
Natale del 1841, chiedendo che fosse incorniciata in un quadro ed appesa
nel loro laboratorio, perché la avessero sempre sott’occhio, la leggessero e
meditassero, e fosse loro spiegata nelle conferenze:
[…] Sappiate apprezzare la vostra sublime vocazione, con la
quale siete chiamate a giovare al mondo, rammentando quanto Gesù stesso, divino maestro, disse ai suoi discepoli: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato
voi» (Gv 15,12).
Abbiate desiderio e grande attenzione della perfezione, ma
non però ansietà che vi renda inquiete o turbate, ricordando quanto Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace.
Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro
cuore e non abbia timore» (Gv 14,27).
Odiate il peccato più della morte, ma chi avesse la disgrazia di
cadervi, se ne penta e risorga senz’avvilirsi, memore dell'insegnamento del discepolo diletto di Gesù: «Figlioli miei, vi scrivo queste
cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un
Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto, È lui la vittima di
espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche
per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,1).
26.
A. ROSMINI, Al Chierico N. N: a Bra, 1 ottobre 1839; in: Epistolario ascetico, vol.
II, lettera 610, p. 364-365.
17
Non crediate di ottenere il perdono col molto parlare in confessione, o col molto cavillare sulla gravità o leggerezza delle colpe,
o con il confessarvi ad un confessore piuttosto che ad un altro; bensì con il pentimento e con la viva fede in quell’autorità di rimettere
i peccati che Cristo conferì ai suoi ministri, memori di quanto disse
lo stesso Signore Gesù alla donna: «Coraggio figlia, la tua fede ti ha
salvata» (Mt 9,22); perciò siate egualmente contente di qualsiasi
confessore vi venga assegnato dai superiori.
Amate grandemente la correzione e ricevetela con cuore grato e volto sereno, avendo sempre presente quanto disse il divino
maestro Gesù: «Chi è di Dio, ascolta le parole di Dio» (Gv 8,47).
Sforzatevi di divenire eccellenti in tutto ciò che vi si insegna,
ma se taluna, facendo quello che può, non riesce come vorrebbe, vi
si rassegni senza inquietarsi e vada avanti meglio che può, non omettendo però nulla da parte sua di diligenza, fatica e costanza per
imparare; ricordando quanto disse il divin Padrone al servo che nascose l’unico talento sottoterra: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi
che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso,
avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando,
avrei ritirato il mio con l’interesse» (Mt 25,26-27).
Non amate più una cosa che l’altra di quelle che vi sono comandate, ma collocate tutto il vostro piacere nel vostro dovere,
perché così vi occuperete con eguale sollecitudine ed impegno in
tutto ciò che Dio vuole da voi, e non avverrà che, non andandovi a
genio una cosa, la trascuriate, imitando anche in questo il divino
maestro Gesù, che disse: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia
volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38).
Temete la fantasia e non date retta ai suoi vani ed inquieti
giudizi; camminate invece in tutto con intelligenza, avendo detto il
divino maestro Gesù: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46).
Non turbatevi per nulla di ciò che possa avvenire contro il
vostro volere; se non vi turberete, sarà segno che amate Dio e che
siete soggette alla sua Provvidenza, che tutto dispone e veglia continuamente sopra di voi, ricordando quanto disse Gesù: «Perfino i
capelli del vostro capo sono tutti contati» (Mt 10,30).
A tutti i vostri pensieri e giudizi anteponete sempre quanto
l'ubbidienza prescrive, perché la volontà di Dio consiste nell'ubbi-
18
dienza, secondo quelle parole di Gesù: «Chi ascolta voi, ascolta me,
chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10,16) […]27.
6.
La vocazione alla santità del sacerdote
Quale prima lettera proponiamo integralmente quella citata all’inizio,
in cui Rosmini da notizia a don Menotti della sua decisione di farsi sacerdote:
Carissimo Signore, ho ricevuto la sua lettera, di cui la ringrazio grandemente.
Al bell’avviso che Ella mi dà di non dimenticarmi mai della
repubblica cristiana, oh quanto le sono grato! Perché é veramente
bello e grande e giusto; né può esservi quaggiù sapienza, se non
viene dal Padre dei lumi. Perciò stia certo che, quanto agli studi
letterari, per me non sono che gioco.
Io ho fermamente deciso di farmi prete e di porre tutto quello
che ho per procurarmi un tesoro, cui né ruggine, né tignola possano consumare o guastare, né i ladri dissotterrare e portar via. Tutto
quel poco di dottrina che (se Dio benedetto m’aiuta) avrò, io intendo usarlo nell’ammaestrare altri (e che più bella cosa del giovare!), nel non lasciare impigrire il corpo ma faticare, e nell’impiegare
i miei averi per rinvigorire le scienze e nel dar sollievo ai poveri.
Questi sono i sentimenti che mi detta, non solo l’intelletto, ma anche il cuore.
Ella mi voglia bene, e mi raccomandi al Signore Iddio; che io
sono e sarò sempre il suo ANTONIO ROSMINI - Rovereto. 22 settembre 181428.
Tra le qualità primarie che il sacerdote deve avere, Rosmini indica
l’importanza fondamentale di essere un uomo di preghiera, di saper riso-
27.
A. ROSMINI, Alle novizie delle Suore della Provvidenza a Domodossola, 25 dicembre
1841; in: Epistolario ascetico, vol. II, lettera 717, p. 500-502.
28.
A. ROSMINI, Al Signor Bartolomeo Menotti, 22 settembre 1814; in: Epistolario ascetico,
vol. I, lettera 1, p. 23.
19
lutamente scegliere le cose di Dio senza lasciare che la mentalità mondana
contagi e corrompa lo stile della propria vita sacerdotale. Ne scrive in una
lettera al conte Giambattista Giuliari a Roma, nel 1831, in occasione della
sua decisione di intraprendere la via del sacerdozio:
[…] Felici gli uomini di preghiera! E tale è la professione che
assume il sacerdote, il quale viene costituito per il bene degli uomini
nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati29.
Ecco la vera e propria professione sacerdotale; ecco tutta la vita del
sacerdote. Lei beato, perché, indossando questa sacra divisa, che
tanto indegnamente io pure porto, entra in un ufficio così consolante, così sicuro, così nobile e sublime, come è quello di vivere in
terra conversando con Dio, e trattando con lui delle nostre miserie
e di quelle dei nostri fratelli, gli altri uomini! La nostra cittadinanza
[conversatio] infatti è nei cieli30. Non ci deve essere certamente cosa
di mezzo e guai a quel sacerdote che vuol scendere a compromessi
col mondo, coll’amor proprio e con gli irrequieti e indefinibili capricci della propria volontà! Il Signore è mia parte di eredità31: queste
grandi parole, che pronunzierà solennemente, quando sul suo capo
passerà la forbice del Vescovo e ne taglierà tutte le superfluità, saranno la legge, e la legge accettata, scelta, per tutta intera la sua vita. Guai a coloro che le pronunziano colle labbra, e col cuore intanto trattengono un’altra eredità! mentono non agli uomini ma a
Dio32. Guai poi a tutti quelli che si lasciano scandalizzare dalla cattiva consuetudine di quei primi e si lasciano trascinare dal loro esempio! Grande pericolo, mio caro, è questo dell’esempio, giacché purtroppo è frequente nel mondo, Ma chi si concentra a meditare la
verità, chi ha il vantaggio di respirare l’aria pura d’una solitudine
sacra a Dio, o chi sceglie per sua compagnia non altri che pochissimi sacerdoti santi ed esemplari, solo costui potrà difendersi e fortificarsi contro quella mortale indifferenza, freddezza e spensieratezza, di cui si vedono affetti molti di coloro che ricevono l'imposi-
29.
Eb 5,1.
30.
Fil 3,20.
31.
Sal 15,5.
32.
Cfr. At 5,29.
20
zione delle mani e, dopo ricevuta, vivono nei propri comodi, come
se non l’avessero ricevuta, o peggio ancora.
Io sono entrato in questo discorso quasi senza avvedermene,
ma noto che lei nella sua lettera ha l’umiltà di domandarmi un parere su questa situazione e sul suo effetto futuro; perciò non me ne
pento. E giacché così vuole, in virtù della più vera amicizia che le
professo, in tutta libertà la scongiuro di non fare a Dio il sacrificio
di se stesso dimezzato, ma intero, intero; e quindi di mantenersi in
una perfetta indifferenza circa qualunque ufficio di carità che la divina Provvidenza le presentasse di fare, perché questa bella indifferenza la credo la migliore disposizione per servire Iddio con sicurezza, secondo la sua santa volontà e per mettersi al sicuro dagli artifici della nostra volontà, che cerca sempre di tradirci, proponendoci di seguire perpetuamente le nostre inclinazioni per piacere a
noi stessi, come pure dai vani consigli del nostro amor proprio, di
questo grande imbroglione che guasta e perturba tutto il bene. Oh se i
sacerdoti, pensando di non servire a se stessi, ma a Dio solo e per
Dio al bene del prossimo, fossero indifferenti a tutto il resto come
dovrebbero! Comincerebbero allora ad essere veri sacerdoti di Cristo. E queste legioni sacerdotali che vittorie non apporterebbero
contro i nemici del genere umano! Che benefici immortali non farebbero alla umanità! Che unione, che forza, che trionfi procurerebbero alla Chiesa! Che meriti, che grandezza di premi celesti a se
stessi! […]33
Un’altra preziosa lettera è quella che scrive a don Pietro (Pierluigi)
Bertetti, quando divenne rettore del seminario di Tortona, dandogli indicazioni sul modo di educare i giovani aspiranti al sacerdozio. A distanza
di un anno da questa lettera don Bertetti chiese ed ottenne di diventare
ascritto rosminiano e l’anno successivo, esattamente l’8 agosto 1847, entrò nell'Istituto della Carità. A lui Rosmini affidò nel 1851 il compito di
suo procuratore a Roma durante la causa dell’esame di tutte le sue opere.
Sempre a lui affidò, l’11 giugno 1855, sul letto di morte, la copia definiti33.
A. ROSMINI, Al conte D. Giambattista Giuliari a Roma, 13 gennaio 1831; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 210, p. 403-405.
21
va del libro delle Costituzioni dell’Istituto e lo nominò erede di tutte le
sue sostanze in Piemonte. Il 24 gennaio 1861 don Bertetti fu eletto terzo
Preposito Generale dell’Istituto34.
[…] Il clero oggi giorno, parlando in generale, è debole purtroppo, prostrato e avvilito, di fronte ad un secolo che tanto esige
da lui; si è ridotto così malamente da sé stesso, ed una delle cause
più grandi e più immediate fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l’istituzione dei seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento,
se potesse capirsi in una lettera; ma attutendo quel sentimento ch’io
provo di continuo, direi quasi di sdegno, le dirò invece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua domanda.
Il fondamento sicuro e inamovibile dell’educazione ecclesiastica è la santità. Ah quanto poco s’intende questo principio vitale e
sostanziale! quanto facilmente ci si accontenta, nei chierici, di una
bontà mediocre, di una vocazione ingombra e macchiata di fini
umani, per cui l’acquisto di un beneficio, di un posto lucroso, di
uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è
termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al
fondo per esaminare la coscienza dei chierici; per cui assai spesso
entrano nel sacerdozio schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che esso è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all’ozio, superficiali, mondani, senz’alcuna solidità nella vera
virtù! Privi della coscienza della propria dignità e senza neppure
comprendere la propria abiezione. Molti giovani sacerdoti, forse
appena usciti dai seminari, sottopongono le spalle a delicati uffici di
cura d’anime, delle quali non conoscono il prezzo e, perdendone
molte, perdono se stessi.
Da ciò deduco che la persona più di tutte importante in un
seminario è il direttore spirituale, senza il quale è impossibile fare
alcun bene. Deve essere uomo di grande pietà ed anche di molta
testa, giacché le teste piccole guastano con ottimi fini. Aggiungerò
34.
D. MARIANI, Superiori e vescovi rosminiani, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa
2003, BSR 26, p. 27-33.
22
a questa, un’altra osservazione generale: il rettore, per quanto sia un
grand'uomo, non potrà cavare gran frutto dal suo governo se gli
altri sacerdoti che cooperano con lui non siano scelti bene, ciascuno al giusto posto, e formino con lui una buona unione, perché si
possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni il
progetto che viene abbracciato.
Dopo la santità, radice e fonte d’ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale nei seminari oggi si trasmette troppo
mutilata, anzi come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di
questo tempo dovrebbe saper di tutto, non lo si forma neppure solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le questioni
più vitali, credendole inutili alla pratica, quando anzi esse sono la
vita e la forza della pratica stessa; talora si dispensano i chierici dallo
studio della dogmatica, senza per di più dar loro altra morale che
quella dei soliti trattatisti, tutti tesi a decidere ciò che è o che non è
peccato, per l’uso dei confessori, ma poveri di ciò che riguarda l’alta
idea della virtù, della vita virtuosa e della perfezione evangelica.
Per cui, mio egregio signor rettore, gli studi devono essere
molto più ampi di quanto ai nostri giorni si è soliti fare nei seminari; io credo che la sua osservazione ed intuizione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i
suoi timori. Ottimo è il pensiero che le venne di introdurre una
cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, specialmente quella che insegna a praticare il ministero pastorale, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte le altre;
giacché il pastore di anime ha il bisogno d’avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie
scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l’insegnamento di questa
scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di
gran pratica della cura d’anime, fornito di naturale prudenza e di
gran zelo, affinché possa formare i suoi uditori […]35.
35. A. ROSMINI, Al teologo don Pietro Bertetti a Tortona, 26 luglio 1845; in: Epistolario ascetico, vol. III, lettera 911, p. 229-231.
23
5.
La vocazione alla santità del vescovo
Quale ultimo aspetto della vocazione alla santità, proponiamo il testo
integrale della lettera di risposta che Rosmini scrisse nel 1843 a mons.
Claudio Samuelli vescovo di Montepulciano, un vero prezioso trattato
della vocazione del vescovo e del suo ministero. Monsignor Samuelli era
divenuto ascritto rosminiano, accettando anche di presiedere agli ascritti
rosminiani in Toscana ed ecco perché nella seconda parte di questa lettera
Rosmini si dilunga nello spiegare la natura e la struttura dell’Istituto della
Carità. Nel 1845 si impegnò per introdurre nel Granducato di Toscana
una presenza di religiosi rosminiani, che non si poté realizzare per la
mancata approvazione di quel governo36.
Ill.mo e Rev.mo Monsignore, la venerata sua lettera del 21
luglio mi ha colmato ad un tempo di consolazione e di confusione.
36.
Cfr. Lettera del Marchese Gustavo di Cavour ad Antonio Rosmini del 12 giugno 1846;
in Carteggio Rosmini - Cavour, pubblicato nel nostro sito internet www.rosmini.it:
«Già da qualche settimana ho ricevuta una lettera del Vescovo di Montepulciano in
Toscana, il quale ha per lei una singolare venerazione, e mi esterna il desiderio che
egli avrebbe di introdurre nella sua diocesi per l’istruzione elementare del popolo,
chierici dell’Istituto della Carità conte maestri elementari. Egli per ora, avendo mezzi ristretti si vorrebbe limitare a due soggetti, e m’incarica di rendere a lei noto questo suo desiderio. Debbo dare evacuazione a questo incarico; ma nello stesso tempo
le dico pure che da quanto ho sentito dire aliunde temerei qualche difficoltà dalla
parte del governo Toscano il quale è debole e si lascia spaventare dalle grida di certi
malevoli avversari alle corporazioni religiose. Mons. Samuelli mi dà un tocco di ciò
nella sua lettera, ma egli spererebbe ottenere l’approvazione governativa ed ha un
vivo desiderio di attivare questa trattativa. La prego a dirmi che cosa dovrò rispondergli ovvero a mandarmi un pezzo di lettera che possa includere nella mia e mandargli». Ed anche A. ROSMINI, Al marchese Gustavo Benso di Cavour a Torino, giugno
1846; in: Epistolario completo, lett. 5625, vol. VIII, p. 560: «[…] Mi sarebbe ben caro
che l’Istituto della Carità potesse prestare qualche servizio al Rev.mo Mons. Vescovo
di Montepulciano, ma a questo fine è indispensabile prima di tutto, che S. A. I. R. il
Granduca approvi formalmente l’Istituto, al fine di non incontrare poi difficoltà con
quel Governo. Se quell’ottimo Monsignore crede di poter ottenere una tale approvazione, cerchi di averla, ed ottenutala, tutto quanto egli desidera si concreterà fra di
noi senza difficoltà […]».
24
E come non sarei consolato, sentendovi dentro espresso il suo cuore, Monsignore, ardente di tanta carità pastorale? E come potrei
non essere confuso, vedendomi trattato con così sovrabbondante
gentilezza? Mi sembra veramente, da tutto ciò che Ella mi dice, che
il Signore l’abbia scelta e mandata in codesta diocesi per grandi fini,
perché vi faccia grandi opere per la sua gloria.
Lei già tocca tutti i punti principali, che un vescovo può porre al centro della sua preoccupazione per operare la riforma e far
fiorire la propria diocesi: seminario, istruzione ed educazione ecclesiastica, culto, confessionale, catechesi e istruzione popolare, riforma dei privati e pubblici costumi. Lei, per di più, è conscio che un
vescovo è azione, non teme, ma spera che dopo gli osanna vengano
i crucifige, sapendo che il discepolo é perfetto allorquando é simile al
maestro; il che é quanto dire, che il Signore, insieme allo spirito di
sapienza, le ha infuso anche quello, non meno necessario ad un vescovo, di fortezza per eseguire. A tutta ragione lei dà la priorità, tra
le sue cure, a quella del seminario e della formazione del suo clero;
da questo, come da primo anello, dipende ogni cosa.
Per cui mi sembra che il punto principalissimo a cui tendere,
sia quello di formare un clero santo, poiché, ottenuta la santità, vengono da sé quali conseguenze la prudenza e la scienza. A tal fine
l’uso della meditazione giornaliera secondo un buon metodo, gli esercizi spirituali, una disciplina rigorosa, che tenda a segregare i chierici dal mondo, conservarli nel raccoglimento e innamorarli della
casa di Dio e del culto che vi si esercita, sono i mezzi adoperati dai
santi vescovi, e giustamente presi da lei di mira. La separazione dei
chierici dai convittori secolari, come ottimamente lei osserva, é indispensabile per poter dare ai primi un’educazione consentanea alla
loro sublime vocazione. Eccellenti sono i due libri ascetici a cui accenna, come mi sembrano pure eccellenti le meditazioni del Da
Ponte ridotte in compendio e stampate di recente in Lione in due
volumi, il libro Dello spirito e dei doveri degli ecclesiastici del prevosto
Riccardi, le compendiose operette del Tronson e dell’Arvisenet, il
Thesaurus Sacerdotum et clericorum, e simili.
Ma sopratutto sarà bene provvedere il seminario di un eccellente direttore spirituale, che alla santità e allo zelo congiunga una
bella mente, per mezzo del quale anche i buoni libri ascetici si pro-
25
pagano e diventano fruttuosi; dovrebbe essere uomo di autorità, la
prima persona dopo il rettore, non molto vecchio, affinché sia attivo. Con lui dovrebbero trovarsi in piena armonia il rettore e i maestri. Mi sembra che per tali posti si dovrebbero scegliere le persone
migliori, che poi il vescovo sosterrà con significative dignità e con
uno stipendio che per lui sia il più abbondante possibile, affinché i
migliori ingegni, collocati da giovani nel seminario con l’ufficio di
maestro o d’altro, vi prendano affetto, amino d’invecchiarvi, formino insieme una famiglia ecclesiastica e scientifica, come seppe fare
appunto il beato Barbarigo nel suo celebre seminario di Padova.
Non mi sembra utile, generalmente, che i sacerdoti passino dai posti del seminario alle parrocchie, ma piuttosto che dalle parrocchie i
migliori passino al seminario e che sia poi provveduto bene per la
loro vecchiaia, venendo, a ragion d'esempio, provvisti in età avanzata di buoni canonicati, o nominati consiglieri del vescovo, se c’é
la consuetudine che il vescovo si nomini dei consiglieri anche fuori
del Capitolo.
Mi sembra infatti assai utile che il vescovo si prepari e tenga
vicino a sé un consesso, piccolo o grande secondo la diocesi, di
uomini dotti da consultare; e nessun luogo é più adatto dello stesso
seminario per vivervi uniti. Tutto ciò che tende a congiungere il
clero col vescovo e fra sé, giova a dividerlo dal mondo, a renderlo
più istruito colla comunicazione scambievole delle dottrine e più
uniforme nelle opinioni morali; giova anche a conservare la disciplina e i buoni costumi, poiché i sacerdoti che trattano spesso insieme, si custodiscono e aiutano scambievolmente; specialmente se
i più esemplari e meritevoli siano onorati dal vescovo con giustizia
imparziale, e per la loro l'autorità, opportunamente favorita, divengano altrettanti centri intorno a cui si radunino gli altri.
Dove si può fare in modo che i parroci non stiano soli, ma
abbiano cooperatori e questi convivano nella casa parrocchiale, risulta sempre cosa utilissima. Le conferenze dei casi esattamente regolate e il nominare vicari foranei eccellenti, dando loro molta autorità, e ispirando al resto del clero rispetto per essi con una ben regolata subordinazione, sono altrettanti mezzi che influiscono a
rendere il clero unito, forte, istruito. All’utile unione del clero conduce certamente tutto ciò che introduce in esso un ordine, una più
26
distinta gerarchia, una stabile organizzazione insomma, la quale
non si può ottenere, senza molta subordinazione e umiltà da una
parte, e merito reale con autorità dall’altra.
I sentimenti di umiltà e di subordinazione non possono infondersi che in seminario, quando il clero é ancor giovane e si presta agevolmente a riceverli, imparando allora assai facilmente rispetto e stima per gli anziani. Benché convenga conservare nel clero questa virtù della subordinazione e dell’umiltà, coll’esercitarlo in
una continua dipendenza nelle cose giuste dal vescovo, dai vicari,
dai parroci e dai seniori; tuttavia questa dipendenza diviene facile
solo quando le persone dalle quali si deve dipendere sono scelte per
un merito reale. Perciò troverà, credo, importantissimo che il prelato usi la massima imparzialità nelle nomine delle cariche, non
scegliendo con altri principi se non quello del merito e delle prove
avute della idoneità; evitando particolarmente di nominare parroci
i giovani sacerdoti appena usciti di seminario, ma esercitandoli
prima per qualche tempo nella cura d’anime come cooperatori di
valenti parroci provetti, che li possano praticamente formare e dirigere.
In alcuni luoghi usano anche concludere gli studi teologici
del seminario con una scienza che chiamano pastorale, nella quale
s'insegnano tutti i doveri dei parroci, applicando al ministero parrocchiale le cognizioni teologiche precedentemente ricevute; il che
mi pare utilissimo quando sia fatto a dovere. Di questa scienza un
bel compendio é quello fatto dal P. Mauro Schenkl, di cui vennero
fatte diverse edizioni in Germania, e che forse a lei sarà noto.
L’arte della catechesi entra come una parte nella scienza pastorale. Ma é importante che fin da principio i chierici vi si esercitino e ne prendano amore; il che facilmente s'ottiene spiegando loro l'eccellenza di questo ministero e dando loro delle guide che in
esso li dirigano. Giova sopratutto un buon catechismo diocesano,
ed io provo con i fatti che l'esser disposto secondo l’ordine delle idee spiana incredibilmente la via ai catechizzati ed agli stessi catechisti. Stimo poi che non si possa giungere ad un buono stato
dell'insegnamento del catechismo nelle parrocchie, senza introdurvi la congregazione della dottrina cristiana, adattando alle circostanze e modificando i noti regolamenti di san Carlo Borromeo, di
27
cui vidi ottimi effetti nella mia parrocchia a più di mille fanciulli
distribuiti in varie classi, che concorrevano all'istruzione.
Nella pastorale, come s’ insegna ai chierici o ai giovani sacerdoti l’amministrazione di tutti i sacramenti, così si dà loro la pratica
del confessionale. Lodar loro l’ufficio di confessore, la sua immensa
importanza per la salvezza dell’anima, il merito di chi fedelmente
l'amministra e l’aiuto che vi trova alla propria santificazione; renderne meno spinoso l'esercizio con idee chiare di principi ed uso
frequente della risoluzione dei casi; dare a guida dei più giovani
l’esempio di confessori più provetti e zelanti; applicare lodi e premi
a quelli che mostrano più zelo in tal ministero; sono altrettanti
mezzi per metterlo in onore e farlo fiorire.
Quanto alla riforma del popolo, Ella tocca il punto fondamentale del matrimonio, principio e fondamento delle famiglie;
non potrà mai esserci una cura eccessiva per ottenere che si contraggano santamente. Se tutti i parroci, avvisati appositamente dal
vescovo, insisteranno dal pulpito, dal confessionale, e nei singoli
incontri privati sulla santità di questo sacramento; se ammaestreranno il popolo circa le disposizioni necessarie a riceverlo santamente; se faranno conoscere i beni provenienti alle famiglie da un
matrimonio santo, e i mali e le sciagure di un matrimonio disonesto; se richiameranno su di ciò l'attenzione dei genitori, responsabilizzando la loro coscienza sulla libertà concessa ai loro figli di conversare con persone d’altro sesso; se prima d'ammettere al matrimonio esigeranno con rigore dai giovani che conoscano il catechismo, che ricevano per tempo il sacramento della confessione, allora
non c’è dubbio che si otterrà la riforma desiderata. Ma molto influirà sulla riforma del popolo il cominciare da missioni generali
fatte fare successivamente in tutte le parrocchie da eccellenti missionari evangelici, istruiti prima dal prelato sui punti principali, per
i quali la riforma é più necessaria e su cui dovranno insistere. Poi
sarebbe assai opportuna la visita del supremo pastore della diocesi,
che con la parola e con la grazia confermasse l’opera incominciata
dai missionari, rinfrancasse i santi proponimenti dei convertiti, azzerasse le cattive usanze invalse in quelle popolazioni e invece introducesse dappertutto le opportune consuetudini cristiane.
Ben m’accorgo, Monsignore, d’essere stato un po’ temerario,
28
dilungandomi con lei su tutte queste particolarità; tuttavia giacché
m’é corsa la penna, non voglio cancellare quanto scritto fin qui, ma
la prego di perdonarmi per tutto quanto potrebbe esserci di sconveniente in questa mia prolissità, volendo del resto accettarlo con
quello stesso spirito di carità, con cui ella mi chiese nella sua carissima lettera di esprimerle i miei sentimenti sopra i toccati argomenti. Vengo ora al punto, da cui avrei dovuto cominciare e che
mi offrì l’onore di entrare in relazione con Lei. Voglio dire della
nostra Società.
Faccia il Signore che questa Società possa prestarle qualche
aiuto alla grande opera che ella si propone per far fiorire ancor di
più nella sua diocesi, la pietà, la carità, la dottrina.
Credo che a Lei sia noto, che l’Istituto della Carità si compone di due principali sezioni di membri, la prima delle quali costituisce un ordine religioso legato con voti d’ubbidienza al Preposito
Generale; la seconda comprende alcuni pii fedeli, ecclesiastici e secolari, i quali non hanno voto d’ubbidienza, ma solo vincoli di carità e obbligo di mantenere i regolamenti fino a tanto che piace loro di rimanere nell’ascrizione. Questa seconda sezione che si chiama la Società degli Ascritti, serve a propagare il bene anche là dove
per impedimenti esterni non si può introdurre l’Istituto religioso.
L’Ordinario è solito esserne il protettore ed il presidente dell'Ascrizione. E qui debbo renderle i miei vivi ringraziamenti per essersi
degnato di far parte di essa e di incaricarsi benignamente della presidenza in queste parti; come pure della notizia che mi dà delle ottime disposizioni del suo clero ad unirsi con un cuor solo con noi,
disposizioni dovute certamente alla pietà del pastore.
È bene considerare la Società degli Ascritti nel suo principio e
nel suo progresso. Nel suo principio é una Società così larga e generale, che ogni pio cristiano vi può appartenere. Per lasciar aperta la
possibilità a tutti i buoni cristiani di unirsi in essa, fu necessario non
mettervi vincoli od obbligazioni di coscienza; é dunque un’unione
di spirito, una comunicazione di buone opere spontanee, una cristiana amicizia o fraternità. Ma questa unione generale non impedisce che i più ferventi membri di essa facciano di più, e anche si
leghino a cose di maggior perfezione ; ché anzi ciò si desidera e si
considera come il suo naturale progresso o sviluppo.
29
Quindi la Società generale e comune, buona per sé stessa, ed
utile perché unisce i fedeli in Cristo ed accresce la carità, i meriti, le
buone opere, diviene poi anche quasi terreno su cui si possono fabbricare cose maggiori, diviene il germe di altre Società più strette e
determinate, che si chiamano sodalizi. Uno di questi sodalizi é indicato e proposto dai regolamenti, ed é quello che diciamo dell'Oratorio; ma gli altri non sono predeterminati: e la ragione é che, essendo vari i bisogni dei fedeli e delle diocesi, e vari gli spiriti, si
vuole che i sodalizi vengano formandosi da sé stessi nei vari luoghi
opportunamente adatti alle circostanze ed all’istinto dello Spirito
Santo, che muove gli Ascritti piuttosto a queste che a quelle opere
pie e caritatevoli.
Tutto ciò lo potrà rilevare, Monsignore, dalle brevi Regole di
cui le trasmetto un centinaio di copie, e ch’Ella, desiderandolo, potrà in qualsiasi momento far ristampare. Così il prelato che presiede
a tutta l’opera, può dirigere meglio l’Ascrizione a quegli scopi determinati ch’egli nella sua saggezza crede più necessari. Alla formazione di un sodalizio non si esige altro, se non che quegli Ascritti
che vogliono unirsi a formarlo, stendano le loro proprie costituzioni d’accordo col prelato e, trasmesse al Preposito generale, questi
con suo decreto erige il sodalizio stabilito su quelle norme. Vedrà
da tutto ciò, Monsignore, che cosa si potrà fare in questa sua diocesi. Cominciando dal poco, si potrà con piccoli passi ma sicuri giungere al molto. Io mi offro tutto alla sua ubbidienza, e mi troverà
sempre pronto ai suoi ordini. Vorrei essere così fortunato da poterle
dare una mano nel provvedere il suo seminario di rettore, di maestri, di prefetti; ma, se non m’inganno, il governo Granducale porrebbe ostacoli nel mandar lì dei religiosi di un Istituto da tale governo non ancora riconosciuto.
Ma é ben tempo che finisca questa lunghissima lettera.
Baciandole dunque umilmente le mani e implorando genuflesso la sua benedizione, mi onoro di essere A. ROSMINI-SERBATI,
Prep. Gen. dell’Istituto della Carità. - Rovereto, 3 settembre 1843.
30
GIUBILEI 2014
PADRI ROSMINIANI
Vita Religiosa
70° Don Martino Bergamaschi
Fr Matthew Corcoran
Don Fernando Felici
Don Giuseppe Giovannini
Don Romano Giovannini
60° Don Giuseppe Bonacina
Fr Jean Marie Charles-Roux
Don Tarcisio De Tomasi
Fr Thomas Hubbart
Fr James McAteer
Fr James Pollock
50° Don Mario Adobati
Fr Robert Bellwood
25° Don Pierluigi Giroli
Don Michele Palermo
Fr Mckenna Seamus
80°
Don Narciso Bortolotti
(02/11/1934) - † 16/04/2014
Sacerdozio
60°: Don Giovanni Benvenuti
Fr John Buckner
Fr Jean Marie Charles-Roux
Don Domenico Campagna
Don Emilio Comper
50°: Don Luigi Cerana
Fr Thomas Hubbart
Fr James McAteer
Don Balduino Moscatelli
Fr Francis Quinn
25°: Fr William Stuart
SUORE ROSMINIANE
75° Suor Giorgetta Beri
Suor Ernestina Alberoni
Suor Innocentina Medina
Suor Teresina Medina
70° Suor Gilberta Mora
Suor Luigia Antonietta Bacchetta
Suor Alba Maria Grugni
Suor Pier Maria Albergati
Suor M. Celestina Valtolina
Suor M. Regina Teoldi
Suor Rosina Mornata
Suor Sandrina Saino
60° Suor Severina Oliveri
Suor M. Bonaria Arba
Sister M. Winifride Brien
Suor Edvige Lovisetto
Suor M. Rina Caddeo
Sister M. Camilla Laferla
Suor M. Eli Monico
Suor M. Lucina Toone
Suor Luisangela Bertogli
Suor Carla Mora
Suor Eletta Rubin Pedrazzo
50° Suor Floriana Franzoi
Sister M Gwynneth Dyer
Sister Shelagh Fynn
Sister Anna Patricia Pereira
Sister Teresa Martin
25° Suor Benedetta Lisci
Fly UP