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Streghe e cospiratori
Paolo Galloni
Streghe
e cospiratori
Storia a ritroso
di una teoria del complotto
La narrazione storica è un modo di spiegare e di mettere in relazione fatti e
dati culturali accompagnando i lettori verso il passato. Per rendere ancora
più esplicito ed evidente questo percorso l’autore ha scelto di organizzare a
ritroso il materiale raccolto. Lo scopo è di esplorare – e di rappresentare attraverso il racconto a ritroso – l’ipotesi che il processo chiusosi nel 2007 a
Tripoli contro le infermiere bulgare accusate di aver deliberatamente contagiato dei bambini con il virus dell’AIDS, i processi staliniani, le vicende
giudiziarie della «caccia alle streghe» di epoca moderna e aspetti di altre
persecuzioni più antiche, siano uniti non solo da somiglianze morfologiche, ma da un filo sottile storicamente ricostruibile, costituito da anelli di
congiunzione per i quali è possibile risalire controcorrente il fiume della
storia almeno fino al caso dei Baccanali nella Roma del 186 a.C.
Paolo Galloni è nato nel 1964 a Langhirano (PR) e si è laureato in Storia
all’università di Bologna nel 1988. In ambito saggistico ha pubblicato Il
cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel medioevo (Roma-Bari, Laterza, 1993), Il sacro artefice. Mitologie degli artigiani medievali (RomaBari, Laterza, 1998), Storia e cultura della caccia (Roma-Bari, Laterza,
2000), Parole, cose, guarigioni. Cura del corpo e dell’anima tra mitologia
ed esperienza (Milano, Lampi di stampa, 2005), Le ombre della Preistoria. Metamorfosi storiche dei signori degli animali (Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2007). Ha inoltre pubblicato la raccolta di prose brevi Le affinità
casuali (Rimini, Fara, 2004) e i romanzi Donal d’Irlanda (Rimini, Fara,
2000, Romanzo), Il cuore della colomba (Rimini, Fara, 2002), Nostra Signora Crudele (Milano, Lampi di Stampa, 2003) e Il segreto del poeta
(Rimini, Fara, 2008, con lo pseudonimo di P.G. Kien).
Paolo Galloni
Streghe e cospiratori
Storia a ritroso di una teoria del complotto
Cenacolo Medievale / Medieval Worskshop
Cenacolo Medievale / Medieval Workshop
Prima edizione ebook: 2010
© Paolo Galloni 2010
http://www.paologalloni.it/cenacolo-medievale.htm
http://www.paologalloni.it/workshop-libreria.htm
[email protected]
Questo testo è divulgato in quanto parte del progetto
Cenacolo Medievale di Torrechiara.
La sua riproduzione è libera, purché se ne citi la fonte.
Indice
Premessa
7
À rebours
9
Parte I. Complotti e congiure nel XX secolo
17
Cerniera. I secoli XVIII e XIX
51
Parte II. Eretici, streghe e vampiri
61
Conclusione. L’affare dei Baccanali
119
(Ri)Epilogo
123
Bibliografia
127
Premessa
La scrittura di questo testo è cominciata e proseguita in parallelo con
quella di alcuni interventi, presentati in diverse sedi, che propongono una
più stretta collaborazione tra ricerca storica e scienze cognitive. Tale incrocio di riflessioni mi ha convinto, tra le altre cose, che noi storici dobbiamo
essere maggiormente consapevoli delle implicazioni cognitive delle proprie scelte stilistiche – per noi e per il lettore –, e che non dobbiamo negarci
a priori l’opportunità di sperimentare forme narrative diverse e non convenzionali. Nel caso del libro che avete appena iniziato a leggere la forma
scelta è quella della narrazione a ritroso: il resoconto inizierà dalla tappa
più recente, un lungo processo penale chiusosi a Tripoli nel 2007, e terminerà nel 186 a.C, là dove, di fatto, ha cronologicamente inizio il percorso
che ho delineato nella mia ricostruzione.
Riassumendo brevemente, lo scopo che mi sono prefisso è di esplorare
– e di rappresentare spero efficacemente attraverso il racconto a ritroso –
l’ipotesi che il processo di Tripoli, i processi staliniani, le vicende giudiziarie della «caccia alle streghe» di epoca moderna e aspetti di altre persecuzioni più antiche, siano uniti non solo da somiglianze morfologiche, ma da
un filo sottile storicamente ricostruibile, costituito da anelli di congiunzione per i quali è forse possibile risalire controcorrente il fiume della storia
almeno fino all’antichità romana.
Come anticipavo, la scelta di organizzare a ritroso la cronologia
del saggio, che potrebbe apparire azzardata o imprudente, o magari
semplicemente bizzarra, rappresenta il frutto di una lunga riflessione. Il fatto
è che una comparazione tra i processi staliniani, i processi per stregoneria
e altre situazioni morfologicamente affini rischia di essere insieme banale
e incauta. La possibilità di un accostamento sul piano formale si propone
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Streghe e cospiratori
infatti con una certa nitidezza, il che costituisce di per sé un richiamo, un
invito quasi irresistibile a pensare insieme i due momenti; parallelamente,
qualora si muova un passo oltre e si cerchi di rendere conto della
sorprendente continuità dello schema persecutorio associato all’ossessione
del complotto, ci si viene a trovare in un terreno ben più insicuro. Ecco
allora che il percorso a ritroso, dal 2007 all’età antica, diventa una soluzione
praticabile, mi auguro anzi efficace, in grado di rendere meglio visibile al
lettore, soprattutto a quello non specializzato, l’esistenza non solo delle
somiglianze formali, in qualche modo autoevidenti, ma anche di forme di
continuità culturale e testuale.
La narrazione storica a ritroso è in fondo solo un modo diverso di spiegare e di mettere in relazione dei fatti o dei dati culturali accompagnando
i lettori verso il passato. Si tratterà pertanto di organizzare l’esposizione
come una sequenza di casi in flash-back fino a un punto d’arrivo che cronologicamente è invece un ipotetico punto di partenza, insieme pertinente e
in qualche misura arbitrario. Su alcuni momenti di questo percorso mi soffermerò con maggiore dettaglio, altri saranno trattati con taglio più riassuntivo, ma non per questo vanno considerati trascurabili o secondari quanto a
rilevanza. Le tappe principali del viaggio sono senza dubbio i processi che
semplificando definirò «staliniani» e «inquisitoriali».
Non aggiungo altro, per ora, i chiarimenti, se ce ne fosse bisogno arriveranno nel corso della lettura, che mi auguro risulti piacevole e, perché
no, coinvolgente.
À rebours
Per entrare subito nel vivo: Tripoli, inizio secolo XXI
Il 25 luglio 2007, a Tripoli, è stata concessa la grazia a cinque infermiere bulgare e a un medico palestinese che erano stati condannati a morte
in via definitiva dopo essere stati riconosciuti colpevoli di aver inoculato
il virus dell’AIDS a centinaia di bambini libici. Si è così posta fine a una
fosca vicenda giudiziaria iniziata sette anni prima e che vale la pena riassumere nelle sue linee generali.
Kristiana Vulcheva, Nasya Nenova, Valentina Siropulo, Valya Chervenyashka, Snezhana Dimitrova e Ashraf al-Haiui erano in carcere dal ‘99
con l’accusa di aver volontariamente contagiato con il virus dell’Aids ben
426 bambini dell’ospedale di Bengasi, 52 dei quali sono morti. La stampa
libica era stata fin dall’inizio unanime nel sollecitare la condanna a morte
per gli imputati – condanna effettivamente emessa il 19 dicembre 2006 dal
Tribunale del popolo libico dopo che un primo processo, anch’esso conclusosi con una condanna alla pena capitale, era stato annullato alla fine del
2005. Alla lettura del verdetto gli accusati sono scoppiati in lacrime, poi
sono stati condotti all’esterno del tribunale, dove le famiglie dei bambini,
morti o malati, hanno festeggiato la sentenza con danze e canti.
Da ogni parte del mondo erano invece arrivate a Tripoli pressioni
per una sentenza più mite, mentre la comunità scientifica si era mostrata
compatta nel sostenere l’innocenza degli imputati e l’infondatezza delle
accuse. Tra le prese di posizione spicca quella del Parlamento Europeo
di Strasburgo espressa in una risoluzione del 18 gennaio 2007 che bolla
severamente l’inconsistenza dell’accusa, «l’uso della tortura nei confronti
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Streghe e cospiratori
degli imputati in carcere, al fine di estorcere false confessioni» e «altre
flagranti violazioni dei diritti degli imputati».
L’avvocato della difesa aveva in effetti prodotto solidi documenti che
provavano che nel 1997, vale a dire prima dell’arrivo delle infermiere in
Libia, a Bengasi si erano già verificati 207 casi di contaminazione da virus
dell’Aids, vicenda che fu messa a tacere. Le affermazioni degli imputati di
aver confessato colpe mai commesse solo perché sottoposti a tortura sono
cadute nel nulla, soprattutto dopo che i poliziotti da loro indicati come torturatori sono stati assolti dalla giustizia libica.
Ancora più sconcertante risulta il presunto contesto in cui sarebbe
maturato il crimine. Un rappresentante del Comitato dei parenti delle vittime ha esplicitamente sostenuto la tesi di un complotto internazionale che
associa ebrei e industrie farmaceutiche. «I nostri sospetti ricadono sul Mossad israeliano o su ditte farmaceutiche internazionali interessate a vendere
i propri medicinali».1
Se la teoria della grande cospirazione ha risucchiato il caso delle infermiere bulgare è perché, a Tripoli come al Cairo o a Damasco, il terreno
era stato reso fertile da una propaganda condotta in modo meticoloso. Lo
stesso colonnello Gheddafi se ne è fatto portavoce dichiarando alla televisione nazionale: «Loro [le infermiere] hanno confessato: è venuto un tipo
chiamato John o qualcosa di simile. Ci ha detto di iniettare una sostanza ai
bambini, ci ha pagato e se ne è andato. Quale intelligence lo ha mandato
non lo sappiamo».2 Sembrano invece saperlo benissimo nelle strade delle
città arabe, e non da oggi: gli untori dell’AIDS sono gli israeliani. Il complotto ebraico agirebbe anche in altri ambiti. Perfino quotidiani apparentemente autorevoli hanno divulgato una diceria secondo la quale gli ebrei
distribuiscono alle ragazze palestinesi gomme da masticare imbevute di
afrodisiaco al fine di corrompere la società e incoraggiare il dilagare della
promiscuità. È almeno dal 1994 che i bagnini e il personale degli alberghi
di Sharm El Sheik ripetono la favola agli ospiti stranieri. Durante l’intifada
nei villaggi palestinesi hanno ripreso a circolare storie che si credevano dimenticate da secoli, storie di avvelenamenti, pozioni, malanni oscuri e cibo
contaminato. Ancora, il quotidiano ufficiale siriano Al Thawra ha pubblicato la notizia che i virus dell’AIDS e dell’influenza aviaria sono sono stati
sintetizzati in misteriosi laboratori israeliani con la complicità della CIA.
1. Corriere della Sera del 19 dicembre 2006.
2. Corriere della Sera del 20 dicembre 2006
À rebours
11
L’ossessione del complotto
Alla lettura di queste notizie, insieme allo sdegno per un processo
palesemente manipolato, è difficile non provare un senso di fortissimo malessere. Il complotto degli ebrei che diffondono l’epidemia è un motivo
ormai tristemente famigliare, che il lettore incontrerà spesso nelle prossime pagine. Dopo averlo ricevuto dall’Europa, il mondo islamico lo ha
rilanciato con estrema forza ed efficacia proprio quando esso pareva essere
entrato in una crisi definitiva nelle regioni che ne avevano visto l’origine
e il divampare. Nel febbraio 2007 il medico pakistano Abdul Ghani Khan
è stato assassinato a causa del suo impegno nella lotta alla poliomielite; la
sua colpa era quella di incoraggiare la vaccinazione antipolio che, secondo
alcuni gruppi integralisti, nasconde un complotto sionista e cristiano volto
a diffondere la sterilità.
L’estorsione per mezzo della tortura di confessioni ben poco verosimili vanta ormai una storia lunga e variegata; il ricorso alle privazioni,
alle pressioni psicologiche e alla violenza fisica come strumento di persuasione, come è del resto ben noto, ha conosciuto picchi significativi in corrispondenza di iniziative repressive mosse proprio da quella che potremmo
definire «ossessione del complotto». I fatti libici hanno reso visibile la
tragica attualità di questa ossessione e delle sue conseguenze, e, insieme,
l’utilità e l’interesse di analizzarla e ricostruirne le tappe salienti.
Uno sguardo superficiale è sufficiente a suggerire un nesso almeno
formale tra il processo libico e due celebri tipologie di processi del passato:
quelli condotti in epoca staliniana contro presunti cospiratori e quelli messi
in piedi nell’Europa moderna allo scopo di estirpare la stregoneria, e con
essa sconfiggere il complotto diabolico di cui streghe e stregoni erano
ritenuti emissari e affiliati. Tale ipotesi di comparazione ci pone di fronte
a un problema storiografico intrigante e, a mio avviso, di non secondaria
importanza. I fatti di Bengasi, infatti, non si limitano a palesare al cospetto
dell’opinione pubblica internazionale una difficoltà che incontra gran parte
della cultura arabo-islamica nel padroneggiare la complessità del presente;
essi consentono anche di osservare una singolare, e peculiare, caratteristica
delle risposte che vengono elaborate come reazione alla suddetta difficoltà:
la forma assunta da tali reazioni – è appunto il caso della teoria del complotto
ebraico – è infatti di origine europea. Come il lettore paziente avrà modo
di verificare, il processo alle infermiere bulgare e al medico palestinese
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Streghe e cospiratori
rielabora uno schema processuale che appartiene alla tradizione politica e
giuridica europea – quello che potremmo definire il suo lato oscuro.
Tanto la teoria del complotto ebraico e cristiano, per una volta campi
alleati, quanto la forma giuridica assunta dalla persecuzione attivata contro
il suo presunto smascheramento sono schegge culturali giunte dalla sponda
opposta del Mediterraneo, un «contagio» europeo che si è ambientato in
un nuovo terreno di coltura e si è trasformato nella paradossale arma che
dovrebbe servire a respingere proprio un contagio europeo – sia culturale
che virale, è il caso di sottolinearlo. Come vedremo, molti degli argomenti
messi in campo dagli accusatori nel processo libico non fanno che ripetere
un modello che ha conosciuto numerose e tragiche riapparizioni e variazioni nel corso della storia europea. Abbozzando un sommario schema riassuntivo, nel tribunale libico vediamo all’opera gli elementi che caratterizzarono, ad esempio, i processi staliniani e quelli per stregoneria: 1) l’idea
di «patto con il nemico» come motore dell’indagine o dell’interpretazione
dei fatti; 2) la fabbricazione della prova per mezzo di privazioni e torture;
3) il ruolo decisivo, se non unico, della confessione degli imputati nella
conferma dell’impianto accusatorio altrimenti privo di riscontri probatori
concreti e coerenti.
Tra Stalin e gli inquisitori
In un breve saggio del 1983 l’antropologo francese Emmanuel Terray
individua alcuni aspetti chiave che accomunano i processi per stregoneria
ed eresia di epoca moderna ai processi staliniani. In entrambi i casi il Male
era interpretato come il risultato di un tradimento/caduta mentre la sua
repressione svolgeva la funzione di legittimare la capacità dell’autorità di
restaurare l’ordine e di opporsi al nemico. In tal senso era strategico che
alle sentenze e alle sue motivazioni venisse data la massima pubblicità.
L’inquisitore Nicolau Eymeric nel suo Manuale degli Inquisitori affermò
con cinica chiarezza che «la finalità primaria del processo e della condanna
a morte non è salvare l’anima del colpevole, ma procurare il bene pubblico
e terrorizzare il popolo»3. Una finalità pedagogica della medesima natura
3. Citato in Emmanuel Terray, Stalin e le streghe, «Prometeo», Anno 1, 2, 1983, pp.
2-19, p. 15.
À rebours
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è evidente anche nei processi staliniani. I cittadini delle nazioni socialiste
dovevano convincersi che il mondo era diviso in due campi, quello socialista
e quello capitalista, che si identificano rispettivamente con il Bene e con
il Male – e che solo nel partito comunista, come in passato nella Chiesa,
risiedeva la salvezza.
Dal punto di vista delle tensioni psicologiche in atto nei processi, la
comparazione con i processi staliniani, vicini a noi nel tempo, può risultare
utile per indagare più concretamente i meccanismi psicologici all’opera
negli interrogatori delle presunte streghe. Perfino il bestiario metaforico
utilizzato dagli inquirenti sembra mutuato da quello degli inquisitori e dei
giudici laici di epoca moderna: per il grande inquisitore sovietico Višinskij
gli imputati erano rettili, topi, rospi, cani rabbiosi. Non troppo dissimile era
l’arsenale retorico utilizzato secoli prima nei confronti degli eretici.
Ancora più importanti e significative sono le somiglianze, la quasi
sovrapponibilità, delle sequenze morfologiche e ideologiche dei processi
alle streghe e ai traditori del popolo. «Spesso era nel corso del primo interrogatorio, quando l’accusato riassumeva la propria autobiografia politica,
che gli inquirenti decidevano di quale legame accusarlo».4 Questa considerazione di Marcello Flores riferita al Terrore staliniano è in effetti applicabile anche ai processi per stregoneria. Allo stesso modo, ritroviamo nel
corso di interrogatori di innocenti divisi da centinaia di anni una sequenza
parallela e sinistra: iniziale affermazione di innocenza, invito reiterato alla
confessione e alla denuncia dei complici, ricorso a privazioni, torture fisiche e psichiche, confessione e denuncia dei complici, dichiarazione di
pentimento e sottoscrizione finale della giustezza delle accuse da parte degli imputati.
Sia pure a livello puramente introduttivo, non si può evitare di porre
l’accento su alcune coincidenze di ordine ideologico. Il paragone tra il
Partito Comunista sovietico – e i partiti satelliti – e le Chiesa è perfino
abusato: a ogni buon conto, oltre alla disciplina dei membri della gerarchia, a imparentare ideologicamente le istituzioni ecclesiastiche cattoliche
e protestanti di epoca moderna con quelle rivoluzionarie del secolo XX è
la volontà programmatica di imporre una visione unificante alla società
sottoposta al loro controllo.
Gli anni dello stalinismo realizzarono un progetto che, in conformità
4. Marcello Flores, L’età del sospetto. I processi politici della guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 90.
14
Streghe e cospiratori
alla visione del leader ispiratore, implicava il «venir meno della tradizionale distinzione tra Stato e società civile» grazie a un «potere politico
onnipresente completamente assimilato alla società».5 Il partito doveva essere l’espressione unica e suprema della società e tramutarsi da movimento
politico a pilastro portante dello Stato. «Lo Stato onnicomprensivo doveva
avere anche una propria ideologia ufficiale, stabilita secondo i canoni di
una dottrina che non consentiva eresie o deviazioni».6
In questa prospettiva acquista un particolare significato la centralità
della denuncia dei sospetti di eresia (poco importa se religiosa o politica)
da parte dei buoni cittadini; la denuncia era l’azione che garantiva il successo del progetto di onnipresenza della Chiesa o dello Stato. In tal senso,
i processi inquisitoriali rappresentano una sorta di precoce esperimento, un
momento di affilamento delle armi da parte di un pensiero totalitario non
ancora elaborato – si tenga a mente che il concetto di governo totalitario
apparve per la prima volta in Italia negli anni Venti del Novecento e il fascismo fu il primo movimento a riconoscervisi –, una prova generale ancora
incompiuta ma che a suo modo si configura come un momento fondativo
della modernità.
La nozione di patto con il Nemico, accordo ritenuto irreversibile, è
concettualmente accostabile al concetto cristiano di caduta. Per il presunto
colpevole di aver sottoscritto il patto scellerato non c’è più scampo perché la via che si presume abbia intrapreso non contempla la possibilità
del ritorno o del recupero. Si tratta di una colpa definitiva. L’idea di patto
con l’Avversario è una leva ideologica e giuridica di tremenda efficacia;
essa consente agli accusatori di distorcere e stravolgere a piacimento la
concezione delle azioni e della biografia che gli imputati hanno maturato
nella propria coscienza. Agli occhi dell’opinione pubblica arabo-islamica
il medico palestinese che si sarebbe venduto a Isreaele e alla CIA è in tutti
i sensi possibili (con)dannato, esattamente come lo era il funzionario del
partito comunista che confessava di aver complottato per minare il socialismo e favorire il capitalismo e come lo erano quei cristiani che ammettevano di aver rinnegato la fede ed essersi dati anima e corpo al demonio.
L’interpretazione pubblica, anche se non da parte di tutto il pubblico,
di una fase storica in termini di contrapposizione contribuisce grandemente
5. Simona Forti, Totalitarismo, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, VIII, Roma,
Istituto dell’Encliclopedia Italiana, 1998, pp. 636-649, p. 644.
6. Ibidem.
À rebours
15
a far sì che una o entrambe le parti i causa sviluppino sindromi persecutorie
e percepiscano la propria vita e la propria cultura come minacciate da un
attacco esterno, palese o subdolo che sia. Lo si verificherà subito rievocando una serie di processi celebrati nei primi anni della Guerra Fredda e che a
mio avviso costituiscono un diretto antecedente delle condanne a morte del
2006 a Tripoli – non perché a quelli i giudici libici si debbano essere direttamente ispirati, ma nel senso che essi rappresentano un antecedente nella
catena di elaborazione e trasmissione del modello di procedura giudiziaria
che a Tripoli riappare nuovamente operativo.
Parte I.
Complotti e congiure nel XX secolo
L’ossessione del complotto negli USA
Il clima politico internazionale dell’immediato secondo dopoguerra,
che favoriva l’identificazione del Nemico con l’altra parte del blocco militare, politico e ideologico, fece sentire i suoi effetti anche oltreoceano. In
entrambi i blocchi era diffusa la percezione di una minaccia che incombeva.
Da ambo le parti, e a livelli diversi, vi erano persone che avevano interesse
a manipolare la situazione o che parallelamente la subivano in termini di
ossessione paranoica. Il contesto internazionale era obiettivamente carico
di tensione e l’opinione pubblica statunitense era eccitabile e vulnerabile.
Tra coloro che con maggiore energia cercarono di trarre profitto dalla situazione ci fu il senatore del Wisconsin Joseph MacCarthy. C’erano già stati
in USA alcuni processi inseribili a pieno titolo nel quadro dell’ossessione
per il complotto comunista, tuttavia la sua dirompente entrata in scena determinò un cambio di marcia.
Seppure a un grado diverso di intensità, alcune caratteristiche accomunano nella forma i fatti est-europei e il maccartismo statunitense: l’accusa
di tradimento e spionaggio nella convinzione dell’esistenza di un complotto; la centralità delle confessioni per avviare la macchina processuale;
l’esistenza di legami di conoscenza tra alcuni degli imputati da una parte
e dall’altra dell’Atlantico. Nei fatti, il complotto che l’FBI andava disperatamente cercando non esisteva. Vi era certamente una rete di spie sovietiche, probabilmente nemmeno troppo estesa, ma nulla più. Fu proprio
l’impossibilità di scoprire l’inesistente complotto ad accentuare il clima di
paura e incertezza.
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Streghe e cospiratori
La stella di MacCarthy iniziò a brillare nel 1950. L’atomica sovietica
e la vittoria di Mao avevano certamente generato apprensione nel paese
e rafforzato la dottrina del contenimento dell’avanzata comunista, che
avrebbe visto di lì a poco la sua prima applicazione in Corea. Il senatore
del Wisconsin, dunque, non inventò il complotto comunista: c’erano
già stati processi, alcuni dei quali almeno in parte fondati su reali casi
di spionaggio, convocazioni, interrogatori con redazione di autentiche
liste di proscrizione dal carattere decisamente persecutorio nei confronti
di semplici simpatizzanti di idee di sinistra. MacCarthy, tuttavia, sfruttò
meglio di tutti la disponibilità dell’opinione pubblica all’esasperazione e
alla semplificazione. Le sue accuse facevano volentieri a meno delle prove
ed erano spesso un misto di insinuazioni e retorica. Il suo stile arrogante e
insolente, i suoi attacchi violenti contro chi permetteva che «i comunisti e
le checche» corrompessero la nazione facevano presa sull’elettorato.
Il pugno di MacCarthy si accanì con particolare asprezza e determinazione sull’industria cinematografica. A suo parere Hollywood era un
covo di traditori rossi. Era noto che tra gli iscritti al sindacato degli sceneggiatori (Screen Writers Guild) erano molti a essere stati iscritti al partito
comunista o ad aver manifestato simpatie per l’URSS negli anni Trenta e
Quaranta – si tendeva però a dimenticare che durante la guerra al nazifascismo USA e URSS erano state nazioni alleate. In generale, un numero
considerevole di registi, scrittori e attori erano liberals di orientamento
democratico. Inizialmente l’industria cinematografica tentò di opporsi a iniziative che, prevedibilmente, avrebbe limitato la libertà di cui i produttori
avevano sempre beneficiato. Gran parte dei produttori non avevano alcuna
intenzione di emarginare registi e sceneggiatori che avevano contribuito al
successo di molti film di cassetta solo perché le loro convinzioni politiche
risultavano sospette a certi fanatici anticomunisti di Washington.
Il cordone sanitario cedette presto. Già nel 1947 un’associazione conservatrice, la Motion Picture Alliance for the Preservation of American
Ideals, aveva iniziato a produrre una serie di denunce contro presunti agenti comunisti impiantati a Hollywood, accusandoli di essere veri e propri
infiltrati in grado, dalla loro posizione privilegiata, di contagiare il grande
pubblico che in buona fede frequentava le sale di proiezione. Era ormai
chiaro che i produttori avrebbero dovuto prendere posizione apertamente.
Il portavoce dell’associazione produttori, Eric Johnson, assicurò che Hollywood aveva respinto il tentativo di infiltrazione comunista.
La mossa non fu purtroppo ritenuta sufficiente. Nel mese di maggio
Complotti e congiure nel XX secolo
19
del 1947 43 personaggi di spicco del mondo del cinema furono invitati a
comparire davanti al delegato dalla Commissione per le Attività Antimericane. Robert Taylor promise di non lavorare più con colleghi sospetti di
comunismo. Gary Cooper affermò di aver già respinto offerte di interpretare film che gli erano parsi simpatizzare per idee comuniste. Robert Montgomery e il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan raccontarono
di aver messo sull’avviso molti colleghi sulla presenza di sovversivi tra le
loro fila. Parallelamente, tuttavia, molti registi e attori affermati aderirono
al Comitato per il Primo Emendamento, fondato da John Houston e William Wyler a sostegno del diritto a non essere perseguiti per le proprie
opinioni e a non denunciare le opinioni dei conoscenti. Tra i nomi illustri
presenti figuravano quelli di divi al culmine della popolarità, come Humphrey Bogart, Gregory Peck, Burt Lancaster, Frank Sinatra, Henry Fonda,
Paulette Goddard, Katherine Hepburn, Ava Gardner, Lauren Bacall, Kirk
Douglas, William Holden, Orson Welles, Groucho Marx e Judy Garland.
Quando gli investigatori cominciarono a interrogare alcuni professionisti dalla cattiva reputazione, ovvero notoriamente di sinistra, il tono
cambiò drasticamente. Lo sceneggiatore John Howard Lawson contestò la
legittimità di domande riguardanti le convinzioni politiche dei testimoni e
venne allontanato dal banco dei testimoni. Lawson fu incriminato per oltraggio al Congresso insieme ad altri nove colleghi, tra i quali Lester Cole e
Dalton Trumbo, i due sceneggiatori più pagati di Hollywood – che vennero
subito licenziati dalla MGM. Tutti furono condannati.
Il 29 giugno 1948 il grand jury incriminò i dodici membri della direzione del Partito Comunista Americano. L’accusa di propugnare il rovesciamento del governo era stata resa possibile da un’interpretazione particolarmente severa dello Smith Act, una legge del 1940 che risentiva dell’entrata
in guerra degli USA e «prevedeva l’incriminazione di chiunque avesse
incitato o propagandato il rovesciamento violento delle istituzioni democratiche e l’istigazione a disobbedire alle forze armate».1
Nel 1951 John Wayne fu eletto presidente della già citata Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, cui aderirono anche
Gary Cooper, Clark Gable e John Ford. L’associazione si accanì contro
i colleghi ritenuti insinceri, ad esempio José Ferrer, Larry Parks e Gene
Kelly, e contro pellicole dal retrogusto, secondo loro, comunista: era il
caso di Morte di un commesso viaggiatore, tratto dal testo di Arthur Miller,
1. Flores, L’età del sospetto, pp. 172-173.
20
Streghe e cospiratori
prodotto da Stanley Kramer e interpretato da Frederic March. Molti attori
e registi interrogati opposero iniziali resistenze, ma alla fine cedettero alle
pressioni (nel caso di Sterling Hayden provenienti, pare, addirittura del
suo psicoanalista). Molti ammisero di essere stati fuorviati dalla capacità
persuasiva degli agenti comunisti e fecero quello che ci si aspettava da
loro: chiesero perdono e fecero dei nomi. I registi Elia Kazan, Edward
Dmytryk e Robert Rossen denunciarono rispettivamente 11, 18 e 57 colleghi sospetti. L’attore Edward G. Robinson, che aveva difeso il suo diritto
a mantenere l’amicizia con Dalton Trumbo, non capitolò fino in fondo:
nell’aprile del 1952 ammise di essere stato usato dai militanti di sinistra,
ma evitò di fare nomi.
Negli anni successivi, gli Stati Uniti superarono la fase più acuta del
panico e si avviarono verso un nuovo periodo della propria storia – non
certo priva di conflitti interni e contraddizioni, ma anche caratterizzata da
una maggiore apertura alle istanze libertarie che esplosero negli anni ’60
del secolo. Gli effetti della Guerra Fredda furono viceversa ben più concreti e duraturi in Europa.
Budapest 1949
L’11 maggio 1949 il cittadino statunitense Noel Field scomparve dal
Palace Hotel di Praga, uno dei migliori della città, camere con vista sulla
Moldava. Field aveva lavorato per il Dipartimento di Stato e alla sezione
disarmo della Società delle Nazioni. Si era poi occupato dell’assistenza agli
ex combattenti della guerra di Spagna e aveva diretto dal 1940 al 1947 la
sezione marsigliese dell’Unitarian Service Committee, un’organizzazione
statunitense che si occupava soprattutto delle vittime del fascismo. Negli
ultimi tempi Field scriveva per vari giornali articoli dedicati all’Europa
centrale e orientale.
Alcuni mesi prima il «New York Herald Tribune» aveva pubblicato il
testo delle confessioni rese davanti al Comitato per le Attività Antiamericane da Whittaker Chambers, un giornalista che aveva militato nel partito
comunista. Chambers accusava, tra gli altri, Field di essere un agente al
soldo dei sovietici. Quest’ultimo, nel tentativo di uscire dal vespaio che
si stava sollevando intorno a lui, andò involontariamente a ficcarsi in uno
peggiore. Contattò il vice-ministro degli Esteri cecoslovacco Artur London ottenendo l’invito a recarsi a Praga in vista di un possibile incarico
Complotti e congiure nel XX secolo
21
all’università. Field e London si erano conosciuti in Spagna negli anni
della guerra civile; lì avevano avuto modo di incontrare László Rajk, futuro ministro del governo ungherese, lui pure arruolatosi per combattere il
fronte franchista. Vedremo presto come questo sia un dettaglio essenziale.
Si scoprì presto che Field era stato prelevato dalla polizia ceca, che lo
aveva consegnato ai colleghi ungheresi. L’entrata in scena dell’Ungheria
nella vicenda aveva seguito un percorso complesso che è necessario riassumere. Nell’estate del 1948 l’ambasciatore ungherese in Svizzera aveva
ricevuto le confidenze riservate di un connazionale emigrato che accusava
nientemeno Tibor Szőny, potente capo dell’Ufficio centrale quadri, di essere al soldo della CIA. Ora, secondo il delatore, l’intermediario tra Szőny
e i servizi segreti americani era stato proprio Noel Field. La macchina inquisitoriale, evidentemente predisposta in anticipo, si mise subito in moto:
una settimana dopo l’arresto di Field a Praga, a Budapest Tibor Szőny si
ritrovò in manette. Nel breve volgere di un paio di settimane gli interrogatori portarono alla luce l’esistenza di una cellula di traditori all’interno
del partito comunista ungherese. Centinaia di iscritti e dirigenti vennero
arrestati. Gli sviluppi della clamorosa inchiesta portarono a individuare
come vertice della cospirazione il ministro degli Esteri ed ex ministro
dell’Interno László Rajk.
Rajk aveva combattuto in Spagna alla guida di un battaglione di volontari magiari. L’atto d’accusa redatto in occasione del processo afferma
che egli era già allora un infiltrato agli ordini della polizia segreta magiara.
Nonostante l’Ungheria fosse retta al tempo da un governo di destra, l’attività
spionistica e sobillatrice di Rajk vi era qualificata come trotzkista. Si alludeva implicitamente alla convinzione che il trotzkismo, lungi dall’essere
solo una distorsione della corretta prassi marxista, era in realtà fin dalle
origini una sorta di quinta colonna occulta del fascismo e del capitalismo.
Rajk aveva poi passato tre anni in un campo di internamento francese.
Rientrato in patria era diventato uno dei capi della resistenza – secondo
l’accusa dissimulando il suo passato e recitando come in Spagna la parte
del buon comunista. Nel 1944 era stato arrestato dalle Croci Uncinate, i
nazisti locali che agivano d’intesa con la Gestapo. L’accusa non mancò
di notare che egli beneficiò dell’intervento del fratello Endre, un notabile
collaborazionista, e di dedurne che Rajk non poteva non aver praticato la
delazione a favore dei tedeschi. Dopo la liberazione era entrato nel Politburo ed era stato nominato prima ministro dell’Interno – in tale veste aveva
organizzato, tra l’altro, il processo al cardinale Mindzenty – e poi degli
22
Streghe e cospiratori
Esteri. Secondo gli inquirenti, però, Rajk agiva ora come spia degli americani e degli jugoslavi e soprattutto come coordinatore di un complotto che
mirava a rovesciare il legittimo governo democratico e socialista.
Il quadro che emerse era il seguente: siccome si stava concretizzando la temuta possibilità che una parte dell’Europa venisse liberata e
condizionata dai sovietici, la CIA, con la collaborazione tra gli altri del
doppiogiochista Field, avrebbe ricevuto l’incarico di mettere in piedi una
rete spionistica mirata a gestire la nuova situazione ingaggiando rifugiati
politici provenienti dall’Europa centrale e orientale. Il racconto di Szőny
è di notevole interesse per inquadrare le caratteristiche del complotto, così
come era stato ricostruito durante gli interrogatori a porte chiuse.
Io ero allora il capo di un gruppo di rifugiati politici ungheresi che si era costituito alla fine del 1942 o all’inizio del 1943 e che si chiamava Fronte Ungherese
per l’Indipendenza. Questo gruppo si componeva di studenti, di intellettuali, di
elementi politicamente indecisi che io indottrinai nel 1944, sotto l’influenza e
l’organizzazione di Micha Lompar, in una prospettiva sciovinista e filoamericana. […] Sotto l’influenza politica di Lompar – fortemente ispirata alle teorie di Browder, vecchio dirigente del Partito Comunista Americano, teorie che
Lompar e Field a quei tempi diffondevano in Svizzera e in Francia per ordine
dei servizi segreti americani e per mezzo di un gran numero di volantini stampati in francese e in tedesco – il mio gruppo si era persuaso a infiltrarsi, dopo la
guerra, all’interno del Partito Comunista e di indirizzarne la linea all’amicizia
con gli USA.2
A Budapest si andava dunque fabbricando un modello di complotto i
cui fili sarebbero stati manovrati insieme dagli USA e dal leader jugoslavo
Tito, che nell’immediato dopoguerra aveva rotto con Stalin scegliendo una
via di indipendenza che per il leader sovietico equivaleva al tradimento.
Il patto con il maresciallo Tito
Il processo Rajk non si limitò semplicemente a evocare il piano del
Nemico, ma lo ricostruì – di fatto lo fabbricò – con estrema e maniacale
2. L’affaire Rajk. Compte rendu sténographiqie complet du procés, Paris, Editeurs
Français Réunis, 1949, p. 215.
Complotti e congiure nel XX secolo
23
precisione. Le confessioni degli imputati svelarono l’esistenza di un piano
destabilizzante elaborato da Tito e dagli americani.
Tito ha indicato tre tappe verso il conseguimento dell’obiettivo finale. In primo
luogo è necessario mobilitare i popoli della Jugoslavia contro l’Unione Sovietica. In un secondo momento si dovranno accrescere e riunire le forze antisovietiche all’interno delle democrazie popolari. Il terzo momento consisterà
nello sfruttare le divergenze tra URSS e anglo-americani nelle questioni internazionali, nei riguardi delle quali ci si schiererà con gli anglo-americani contro
l’Unione Sovietica. […] Nel prossimo futuro Tito lancerà una campagna energica contro il governo e i dirigenti ungheresi. Rákosi sarà accusato di revisionismo. Si sosterrà che l’Ungheria si prepara a strappare alla Jugoslavia i territori
abitati da ungheresi […] Seguiranno incidenti di frontiera la cui responsabilità
sarà addossata all’Ungheria.3
Per comprendere quale fosse la posta politica in gioco è necessaria
una breve digressione sulla crisi che si aprì tra l’URSS e la Jugoslavia
subito dopo la seconda guerra mondiale. Il primo segnale che qualcosa
non andava per il verso giusto fu, in vero, precoce: il 27 maggio 1945,
in un discorso pronunciato a Lubiana, Tito affermò che la Jugoslavia non
avrebbe accettato di fare da pedina di scambio nel gioco delle grandi potenze e non voleva sentire parlare di sfere di interesse. I sovietici non gradirono e pretesero un chiarimento. A Stalin, va detto, era soprattutto sgradita
la popolarità e l’alta reputazione di cui il leader jugoslavo godeva nelle
democrazie popolari in costruzione. Ovunque si recasse in visita ufficiale,
l’accoglienza da parte delle folle era festosa e il suo indubbio carisma ne
usciva ogni volta rafforzato.
Il metodo sovietico, che aveva fino a quel momento funzionato,
consisteva nel ricondurre gli stati vicini alla propria sfera d’influenza
attraverso pressioni personali esercitate sui dirigenti. Con Tito non funzionò.
La risposta fu la redazione di un dossier accusatorio che imputava agli
jugoslavi l’ignoranza dei presupposti del marxismo, il vizio dell’ottusità
nazionalistica e soprattutto il rifiuto del ruolo dell’URSS come forza
guida nella lotta per l’affermazione del socialismo. Infine, avvicinandosi
la rottura, alla riottosità jugoslava venne attribuito un genitore illustre:
Trotzkij, l’arcinemico di Stalin. Nel dossier si applicava la logica che
3. Ivi, pp. 19-20.
24
Streghe e cospiratori
avrebbe sovrinteso ai processi che si stavano preparando: un’inquietante
distorsione del passato al fine di dimostrare che chi non condivideva oggi
le scelte politiche del Cremlino era stato da sempre un nemico.
Come era già avvenuto negli interrogatori delle presunte streghe, lo
smascheramento del Patto con l’Avversario andava di pari passo con la sua
costante ridefinizione. Il fatto che tale patto in termini schiettamente realistici non esistesse non ne impedì l’articolazione minuziosa, e maliziosa, da
parte di coloro che erano incaricati di combatterlo con ogni mezzo.
L’udienza pubblica del processo a Rajk e ai suoi «complici» si aprì
con la presentazione dell’imputato e la sua dichiarazione di colpevolezza
relativamente a tutti i punti indicati nel capo d’accusa letto in precedenza.
La prima parte dell’interrogatorio che seguì fu dedicata alla scrupolosa
ricostruzione della sua biografia politica. Come si avrà modo di verificare,
anche nelle memorie dei cecoslovacchi Loebl e London l’analisi della biografia coincide con la ricerca delle tracce del patto con il Nemico, sia
in termini di predisposizione personale sia, più esplicitamente, di contatti
diretti con i rappresentanti dell’avversario. È questo un tratto comune con
molti processi per eresia e stregoneria, nei quali i segni del patto erano ricercati sul corpo – se ne riparlerà – e nella biografia degli imputati.
Rajk dettagliò minuziosamente la sua storia e le sue attività di traditore professionista. L’impressione che se ne ricava è che durante i lunghissimi interrogatori a porte chiuse che avevano preceduto le sedute pubbliche
debba essere accaduto qualcosa di simile a quello che si verificava nelle
prigioni in cui venivano gettati e torchiati gli sciagurati accusati di stregoneria e combutta con il Maligno. All’iniziale verità dell’imputato se ne
opponeva un’altra, precostituita, alla quale gli accusati erano forzati a conformarsi; ed era la natura stessa dell’indagine, alla ricerca di qualcosa di
misterioso e sfuggente alla vista, che spingeva gli accusatori a pretendere
descrizioni estremamente circostanziate di fatti che in realtà non avevano
mai avuto luogo. A poco a poco prendeva allora forma una realtà alternativa che si precisava e acquistava coerenza giorno dopo giorno, domanda
dopo domanda.
Non bastò che Rajk confessasse di essere stato al servizio della CIA e
di Tito; egli dovette anche spiegare nei particolari che Tito era in costanti e
regolari rapporti con i servizi americani, al punto che la CIA usava la Jugoslavia come via di transito per le sue spie dirette nelle democrazie popolari.
In caso di bisogno c’erano perfino scambi di agenti. Uno di questi agenti
era appunto Tibor Szőny, in busta paga per gli americani e da loro più volte
Complotti e congiure nel XX secolo
25
«prestato» a Tito e ai suoi disegni.
La verità da dimostrare era che Tito non era per nulla intenzionato a
costruire il socialismo in Jugoslavia; al contrario il suo scopo era scalzare
l’URSS dal ruolo di nazione riferimento per i paesi dell’Europa centrale e
orientale creando un asse privilegiato con gli USA. Il prestigio internazionale acquistato dagli jugoslavi grazie alla loro eroica lotta contro il nazismo
sarebbe stato utilizzato come leva per formare delle alleanze dirette tra
la Jugoslavia e le diverse democrazie popolari separando queste ultime
dall’Unione Sovietica e, in ultima analisi, minando alle radici il processo
di costruzione del socialismo. Szőny aveva dichiarato che Rajk gli aveva
confidato l’esistenza di un piano per un colpo di stato e ordinato di preparare un congresso del partito da tenersi immediatamente dopo il golpe con
il fine di legittimarlo formalmente.
[…] il complotto volto a rovesciare il governo democratico popolare
dell’Ungheria serviva naturalmente gli interessi di coloro che lo avevano elaborato e che ne erano stati gli istigatori. Questo piano era parte dei progetti comuni di USA e Jugoslavia. Il complotto e il colpo di stato militare rientravano nel
piano che ho già avuto occasione di menzionare e di cui avevo sentito parlare
da Rajk nell’estate del 1948 e poi all’inizio del 1949: il piano della Federazione
Balcanica.4
Del grande complotto era parte costitutiva e strutturale anche il Piano
Marshall. Secondo la deposizione di Rajk, esso era stato progettato per
indebolire le economie delle democrazie popolari, accelerarne la crisi e favorire il passaggio al campo avverso. L’intreccio del complotto ricostruito
raggiunge la vertigine quando Rajk afferma che uno degli uomini sul cui
impegno Tito più contava era il cardinale Mindszenty, arrestato e condannato proprio per ordine di Rajk mentre era ministro dell’Interno.
Il pentimento
Le ultime dichiarazioni rese dagli imputati prima della lettura del verdetto sono di particolare rilevanza in quanto a esse si attribuiva un valore politico e pedagogico esemplare di cui era destinataria non soltanto
4. Ivi, p. 227.
26
Streghe e cospiratori
l’opinione pubblica interna, ma anche, forse in misura perfino maggiore,
quella straniera. Al processo Rajk presenziava una delegazione di giornalisti stranieri autorizzati, tra i quali gli italiani Ottavio Pastore e Luca Trevisani del quotidiano del Partito Comunista L’Unità, che si fecero portavoce della correttezza del processo e della veridicità delle sue conclusioni.
La confessione di Rajk contiene numerosi passaggi che sembrano
voler riassumere e confermare le teorie ufficiali:
[…] è indiscutibile che in una certa misura io sono stato lo strumento di Tito,
di quel Tito che ha seguito le orme di Hitler, che ha continuato la politica di
Hitler nell’Europa orientale e nei Balcani e dietro il quale si nascondevano, in
qualità di capi e registi, gli imperialisti americani. […] per questo dichiaro che
qualunque sia il verdetto del Tribunale del Popolo io lo riterrò giusto.5
Un altro imputato dichiarò contrito di aver servito gli interessi del nemico del popolo ungherese:
Io mi pento sinceramente e profondamente di tutte le mie azioni criminali, i
miei complotti, i miei comportamenti da traditore. È vero che le mie convinzioni fasciste, la mia origine di classe, la mia educazione e il mio passato non
potevano che spingermi per ipocrisia verso il partito comunista, da nemico, per
dissimulare le mie vere intenzioni. Dopo il mio arresto, però, ho avuto modo
di valutare su basi nuove la mia vita. E oggi sono in grado di giudicare ciò che
ho fatto, vedo chiaramente quali conseguenze avrebbe comportato il successo
dei complotti di cui ero parte: al posto di una costruzione pacifica ci sarebbe
una sanguinosa guerra civile; al posto del miglioramento del livello di vita ci
sarebbe la miseria che regna nei paesi “marshalizzati”; al posto della libertà dei
lavoratori ci sarebbe il dominio oppressivo e disumano della borghesia tornata
al potere; al posto dell’indipendenza lo sfruttamento economico e il controllo
politico da parte degli Stati Uniti […]. Infine, al posto della pace e dell’avvenire
socialista il popolo ungherese avrebbe fatto da carne da macello in una guerra
antisovietica condotta dagli americani in vista dell’egemonia mondiale.6
Un profondo pentimento è al cuore della confessione finale di Tibor
Szőny:
5. Ivi, p. 426.
6. Confessione di Giörgy Pálffy, in Ivi, p. 427.
Complotti e congiure nel XX secolo
27
Se sono stato sincero è perché mi sono pentito delle mie azioni criminose e ho
riconosciuto la gravità della mia responsabilità. Ho potuto rivelare tutto onestamente non solo perché mi sono allontanato dal mio passato criminale, ma
anche perché sono tornato con disprezzo sui miei atti infami, contro i miei
complici, i miei mandanti e coloro di cui servivo gli interessi, contro gli imperialisti americani e i loro satelliti, l’abietta banda di Tito. Eccomi ora pieno
di sincero pentimento e di profonda vergogna davanti al popolo ungherese,
circondato da spie, traditori, provocatori e avventurieri, alla cricca dei quali ero
appartenuto.7
L’incarceramento e gli interrogatori non erano serviti, pertanto, solo
allo smascheramento del complotto, ma anche a ricondurre al Bene gli
imputati che si erano venduti al Male. La confessione e il pentimento hanno riportato la pace nelle coscienze. Gli esiti processuali, di nuovo, sono
straordinariamente simili a quelli dei processi contro coloro che nei secoli
passati dovevano rispondere dell’accusa di essersi associati al Maligno, sia
volontariamente, stringendo un patto con lui, sia propugnando magari in
buona fede dottrine sospette di eresia. Uno dei più celebri è il caso di Galileo Galielei: dopo la lettura della condanna che colpiva alcune sue teorie,
si inginocchiò e lesse un testo di abiura redatto in precedenza dagli inquisitori «in cui gli veniva dato modo di confessare di aver sempre creduto a
quanto la Chiesa considerava vero».8
L’arringa dell’accusa ha così riassunto le caratteristiche del complotto
di Tito:
Questo processo ha un’importanza internazionale. Accusati in questo banco
degli imputati non sono solo Rajk e i suoi complici, ma i loro padroni stranieri,
gli istigatori imperialisti di Belgrado e Washington […]. Il complotto in Ungheria, preparato da Tito e dalla sua banda per essere attuato dalla rete spionistica
di Rajk, non può essere compreso fuori dal contesto dei piani internazionali
dell’imperialismo americano.9
Il 24 settembre 1949 il tribunale del popolo condannò Rajk e Szőny alla
pena capitale. Uno dei torturatori di Rajk, il colonnello László Angyal, si
7. Ivi, pp. 431-432.
8. Hans-Werner Schütt, Il processo a Galileo, in Processare il nemico, a cura di Alexander Demandt, Torino, Einaudi, 1996, pp. 61-80, p. 75.
9. Citato in Flores, L’età del sospetto, p. 98.
28
Streghe e cospiratori
suicidò mentre l’indagine era in corso. Non aveva sopportato l’accanimento
contro un imputato della cui innocenza si era ormai persuaso. Il colonnello
Szücs, responsabile e coordinatore dell’arresto di Noel Field, fu a sua volta
incarcerato e impiccato come spia nel 1952.
I processi di Praga
A Praga pochi avrebbero previsto che la consegna di Noel Field agli
ungheresi si sarebbe rivelata non un positivo atto di collaborazione con un
paese amico, ma il punto di avvio di un processo ancor più lungo e crudele
di quello di Budapest.
Colpiti da quello che stava succedendo a poche centinaia di chilometri, i due massimi leader della nuova Cecoslovacchia, il presidente della
repubblica Gottwald e il segretario del partito comunista Slánsky, avevano
deciso di istituire una commissione mista del partito e della polizia. Il fatto
che più aveva inquietato la dirigenza praghese era stato l’interrogatorio a
Budapest di Gejza Pavlík, un intellettuale slovacco di sicura fede comunista e che aveva addirittura militato nelle fila dell’Armata Rossa. Tibor
Szőny lo aveva indicato come un membro della banda trozkista organizzata da Field. Pavlík aveva fatto i nomi di alcuni trotzkisti cecoslovacchi,
tra i quali figuravano due diretti collaboratori di Gottwald, precisamente
il direttore dell’organo di partito Rudé Pravo e il viceministro del Commercio Estero Evzen Loebl. Rientrato in patria Pavlík aveva ritrattato le
sue accuse dichiarando che erano state estorte con la tortura, ma Gottwald
e Slánsky non si fidavano e ordinarono nuovi interrogatori.
Tre mesi di pressioni e privazioni convinsero infine Pavlík a rimangiarsi la ritrattazione. Stava per cominciare un’ecatombe, ma nemmeno gli
osservatori più fantasiosi immaginavano che in un clamoroso crescendo
epidemico essa sarebbe arrivata a travolgere lo stesso Slánsky. Come si
vedrà meglio fra poco, mentre la catena di processi, confessioni e intrighi
si prolungava più del previsto, su indicazioni di Mosca un nuovo scenario
andava prendendo forma: un complotto sionista ordito dall’ebreo Rudolf
Slánsky di concerto con l’Avversario capitalista. Il 4 dicembre 1952 Slánsky e dieci complici furono impiccati. Altri imputati salvarono la pelle, ma
subirono pesanti condanne. Due di loro, London e Loebl, hanno successivamente lasciato importanti testimonianze scritte della loro esperienza.
Complotti e congiure nel XX secolo
29
Le memorie di London e Loebl
Nato nel 1915, Artur London aderì precocemente al movimento socialista. Nel 1936 si arruolò nelle Brigate internazionali e partì per la Spagna
per combattere al fianco dei repubblicani. In seguito alla vittoria delle truppe di Franco riparò in Francia e militò nella Resistenza come membro del
partito comunista francese. Nel 1942 venne arrestato dai nazisti e deportato
a Mathausen, dove riuscì a sopravvivere nascondendo le sue origini ebraiche. Rientrato in patria raggiunse presto i vertici del partito. Coinvolto nel
processo Slánsky, fu incarcerato il 28 gennaio 1951 mentre ricopriva la
carica di viceministro degli Esteri.
Prima dell’arresto, reso inquieto da pedinamenti e controlli, e dalla
sensazione che stessero per arrivare guai seri, London confidò il proprio
turbamento alla moglie Lise.
La sua fede nell’ideale è pura, e totale la sua fiducia nel partito e nell’Unione
Sovietica. Per lei, i grandi principi della vita militante si enunciano semplicemente: «chi comincia a dubitare del partito cessa di essere comunista»; «la
verità finisce sempre con il trionfare». Ha la ferrea convinzione che i nostri
guai finiranno presto. Mi dice spesso: «che dobbiamo temere dal momento che
abbiamo la coscienza pulita?».10
Si percepisce in queste parole l’ingenuità dei militanti fedeli. L’illusione
era destinata a finire nel giro di pochi giorni. Nel corso del primo interrogatorio si palesò ai suoi occhi la portata di ciò che stava avvenendo, la
dimensione del gioco in cui si era trovato invischiato – e, del tutto inaspettatamente, dalla parte sbagliata.
Una voce con un forte accento ucraino, o russo, dice: «Lei non è il solo arrestato. Con lei altre persone autorevoli sono implicate in questo affare. Non
deve contare sull’aiuto di nessuno. Da molto tempo lei milita nel partito, e io
le chiedo di collaborare con l’Unione Sovietica e con il nostro partito. […]. Da
quando e dove lei si è messo in contatto con i servizi segreti americani diretti
da Allen Dulles, da chi e dove è stato arruolato? E con quali persone ha collaborato?». Sono come folgorato. Non mi hanno portato qui per fare luce su
qualcosa. Non solo mi accusano, mi considerano già colpevole!11
10. Artur London,
��������La confessione, Milano, Garzanti, 1969, p. 17.
11. ���������������
Ivi, pp. 28-29.
30
Streghe e cospiratori
Da quel momento London cominciò a essere vittima di vessazioni e
privazioni, comprese aggressioni verbali antisemite: «[...] il partito vi ripudia come bestie velenose!».12 Nella ricostruzione fittizia degli inquirenti un
incontro tra vecchi amici veterani delle Brigate internazionali di Spagna
venne trasformato in una riunione segreta di cospiratori trotzkisti. Si
riconosce un’impostazione comune con quanto era da poco avvenuto in
Ungheria. Al processo Rajk, il principale accusato, a sua volta volontario
nelle Brigate internazionali, aveva ammesso che la maggior parte dei volontari aveva subito l’influenza trotzkista dei militanti jugoslavi. Che London avesse conosciuto Rajk in Spagna era cosa nota e fu spietatamente
usata contro di lui. Le conclusioni del processo Rajk gli cadevano sul capo
come colpi di accetta.
Gli inquirenti lo accusarono di essere stato iniziato al trotzkismo addirittura durante il soggiorno a Mosca nel 1934. Affermarono che la direzione del PC francese era infiltrata di cospiratori, di nemici del socialismo.
E lui, Artur London, comunista di provata fede, che per il partito aveva in
molte occasione rischiato la vita e che per il partito avrebbe dato la vita,
era ora trasformato in una specie di burattinaio della congiura capitalista.
Non ci poteva essere incubo peggiore. Negli stessi mesi, altri dirigenti del
partito vivevano il medesimo dramma. Uno di loro era Evzen Loebl.
Come viceministro del Commercio Estero Loebl aveva visitato gli
USA nel 1949. Si trattava per lui di un onore e di un onere, certo era
lontano dal sospettare che il viaggio sarebbe stato interpretato come una
sorta di contagio maligno. La missione doveva verificare la possibilità di
migliorare le relazioni tra gli USA e la Cecoslovacchia comunista. Loebl
aveva già trattato con gli anglo-americani ai tempi della resistenza. La
sua famigliarità diplomatica incoraggiò un contatto di tipo commerciale:
un consorzio intenzionato ad avviare attività di import-export con
l’Europa centro-orientale gli offrì perfino un posto importante all’interno
dell’organizzazione. Questo accadeva perché la missione diplomatica
cecoslovacca era vista come l’occasione di un miglioramento delle relazioni
bilaterali, il che per i nordamericani significa sempre opportunità di affari.
Pur onorato, Loebl rifiutò la proposta: «[…] accettare un’offerta che non
fosse venuta dal mio governo e dal partito avrebbe significato vendermi
per denaro e abbandonare gli ideali socialisti che erano la mia ragione di
12. �����������
Ivi, p. 49.
Complotti e congiure nel XX secolo
31
vita».13
Il suo idealismo e la sua fedeltà al partito, purtroppo, non lo avrebbero
messo al riparo dalle inchieste che si stavano preparando; anzi, il nudo
fatto di aver gestito i contatti commerciali con gli americani sarebbe diventato il pretesto per accusarlo di aver stretto il patto diabolico con il nemico
capitalista. Appena rientrato a Praga, Loebl fu convocato da Gottwald. In
realtà, a voler conferire con lui non era il presidente, ma Bedrich Geminder, l’eminenza grigia della politica cecoslovacca (la definizione è di Loebl
medesimo) e più di ogni altro portavoce delle direttive moscovite – e che
sarebbe stato lui stesso travolto dal processo, nella sua seconda fase. Stalin,
ancora scottato dalla rottura con Tito, non apprezzava per nulla il miglioramento delle relazioni con gli USA, che rappresentavano ai suoi occhi un
preoccupante segnale di autonomia da parte della dirigenza cecoslovacca.
Nella sua ricostruzione, di venticinque anni posteriore agli eventi narrati – e che quindi potrebbe risentire di una ridondanza di difesa del proprio
operato e della propria figura in generale –, Loebl afferma di aver intuito
che l’atteggiamento di Geminder stava aprendo scenari pericolosi. L’uomo
di Mosca cambiava la propria linea adeguandosi alle modifiche della linea
ufficiale sovietica, mentre Gottwald e Loebl difendevano il diritto della nazione a perseguire una sua politica e ribadivano che l’amicizia con Mosca
non significava delegare in toto le decisioni politiche. In particolare, Gottwald avrebbe proferito parole dure verso il leader sovietico e affermato
ad alta voce, visibilmente innervosito, che il capo dello stato cecoslovacco era ancora lui e non Stalin. In ogni caso, che si tratti di un racconto
fedele o di una ricostruzione a posteriori (un dilemma presente in molte
fonti storiche), è un dato di fatto che a Mosca erano cominciate le grandi
manovre che miravano a esportare nei paesi amici lo stile di gestione del
potere sperimentato in URSS già negli anni Trenta. Il metodo consisteva,
appunto, nella periodica messa sotto accusa di dirigenti del partito che venivano trasformati dagli zelanti servitori del comunismo che erano in infidi
congiurati che indossavano una maschera benevola per meglio perseguire
i propri infami disegni. Si tratta, vale la pena ricordarlo, di un’immagine
simile a quella che alcuni secoli prima i predicatori usavano costruire intorno agli eretici e ai presunti affiliati del Maligno.
Non era trascorso molto tempo dall’arresto quando Karel Svab, il responsabile della Sicurezza, fece in modo di incontrare Loebl. Gli si rivolse
13. �������������
Eugen Loebl, Le procés de l’aveu, Paris, France Empire, 1977, p. 21.
32
Streghe e cospiratori
in tono amichevole e si dilungò sulle minacce portate dall’imperialismo
americano e sui pericoli di infiltrazioni nel partito di agenti prezzolati
mascherati da bravi compagni. Il discorso rimase vago e generale, ma era
chiaro a entrambi che Svab alludeva alle notizie inquietanti che giungevano
dall’Ungheria, dove dei membri del Politburo avevano appena confessato
di essere stati prima informatori della Gestapo e poi agenti della CIA.
Dopo il tentativo di Tito di dividere il movimento socialista mondiale, continuò
Svab, bisognava comprendere che ogni membro del partito doveva essere vigile e rivelare tutto ciò che veniva a sapere alle autorità appropriate […]. La
mia prima impressione fu di dedurne che il partito richiedeva il mio aiuto per
smascherare le spie anglo-americane. Ma due o tre allusioni mi fecero pensare
che c’era dell’altro […]. Voleva che redigessi una storia della mia vita e questa
autobiografia doveva essere assolutamente sincera. Dovevo rendermi conto
che tutto dipendeva dalla franchezza delle mie dichiarazioni […]. Compresi
allora quello che non era stato detto: ero sospettato, forse addirittura in stato
d’arresto, senza dubbio in seguito a una denuncia.14
La situazione stava precipitando. Loebl si trovava improvvisamente e
imprevedibilmente nella condizione schizofrenica, comune a molti indagati
nella prima fase dell’inchiesta: da un lato manteneva il suo lavoro al ministero
come se nulla fosse accaduto, dall’altro era stato privato del passaporto e gli
era stato vietato di allontanarsi da Praga senza autorizzazione. L’accusa si
precisò presto, vale a dire quando il viceministro del Commercio Estero fu
formalmente dichiarato in stato d’arresto e divenne il detenuto 1473. Fino
a quel momento Loebl pare essere stato all’oscuro non soltanto dell’accusa
di essere un trotzkista occulto, ma anche del fatto che Slánsky, sulla scia
del processo di Budapest, aveva deciso di avviare un’inchiesta volta a
verificare l’esistenza in Cecoslovacchia di infiltrazioni all’interno del
partito. Ciò suona strano, ma non inverosimile: in effetti una caratteristica
della fase pre-processuale di questo genere di inchieste è proprio il non
riuscire a discernere con chiarezza chi sa, chi non sa e cosa sa chi sa. La
ragione di tanta nebulosità è che le accuse erano quasi sempre precostituite
solo a livello di bozza e si andavano precisando strada facendo sulla base
sia dei contenuti delle dichiarazioni rese in interrogatorio sia degli indirizzi
provenienti dal Cremlino, anch’essi in evoluzione. Lo sconcerto di Loebl
14. ���������������
Ivi, pp. 42-43.
Complotti e congiure nel XX secolo
33
di fronte all’aleatorietà sia della sua condizione che delle accuse mossegli è
palpabile: «I miei crimini cambiavano di natura settimana dopo settimana.
All’inizio li avevo commessi come agente di Tito, poi come sionista,
poi come borghese nazionalista slovacco, infine come spia al servizio
dell’imperialismo anglo-americano».15
Il primo interrogatorio, condotto dal referent Vladimir Kohutek, non
si aprì con una domanda, ma con un’affermazione diretta e sferzante come
una frustata: «Loebl, lei è un traditore. Loebl la smetta di mentire».16 Se
avesse confessato e denunciato i complici il partito sarebbe stato clemente.
Loebl chiese allora di conoscere le imputazioni a suo carico. «Non creda
che ci beviamo le sue astuzie da ebreo» ribatté il referente. «Lei vorrebbe
sapere quello che noi già sappiamo per essere in grado di tenerci nascosto
quello che ignoriamo. Le nostre istruzioni prevedono che non le sia fornita
alcuna informazione. Tocca a lei rivelarci i suoi crimini».17
Loebl protestò la propria innocenza e dichiarò di non voler collaborare
se non dopo essere stato messo a conoscenza delle prove raccolte contro di
lui. Kohutek, pacatamente e freddamente, ribadì l’agghiacciante evidenza
che l’imputato si rifiutava di accettare: «Tutti qui dentro sono colpevoli.
Noi non arrestiamo gli innocenti. Noi sappiamo che lei è un traditore, una
spia e un sabotatore. Se non avessimo le prove lei sarebbe ancora viceministro […]. Lasci che le dia un consiglio da amico: confessi. Confessi tutto».
Poiché Loebl perseverava nel mutismo Kohutek affermò un concetto fondamentale: «le prove in possesso dell’accusa sono scritte nella sua vita;
tutta la sua vita è un atto di accusa. […] posso dimostrare che tutta la sua
vita l’ha plasmata, ha fatto di lei un traditore del partito e della patria».18
Eccoci giunti a un punto nodale che ritroveremo spesso, anche discutendo dei processi per stregoneria ed eresia. La biografia dell’imputato
implica il patto con il Nemico. L’imputato ha avuto ripetuti contatti con
agenti di paesi capitalisti – poco importa se a suo tempo autorizzati dal
partito; proviene da una famiglia ebrea e borghese, dove fin dall’infanzia
ha imparato a sfruttare la classe operaia – si era perfino iscritto all’istituto
tecnico per acquisire una competenza professionale qualificata a dirigere
gli operai; ha un fratello rifugiato in Israele – e se appartiene a una famiglia
15. ������������
Ivi, p. 176.
16. �����������
Ivi, p. 61.
17. �����������
Ivi, p. 62.
18. �����������
Ivi, p. 64.
34
Streghe e cospiratori
sionista non può che essere lui stesso un imperialista sionista («La verità,
Loebl, è che lei appartiene a una famiglia sionista ed è lei stesso un imperialista sionista!»19); l’imputato ha studiato a Vienna («In altre parole, il vero
scopo della sua vita era restare un capitalista improduttivo legato all’alta
finanza e mantenuto dal lavoro altrui»20); si recava spesso in Austria con il
pretesto che vi vivevano i suoceri; durante la guerra, mentre i connazionali
soffrivano l’occupazione nazista, aveva viaggiato da Varsavia a Londra
a spese del comitato britannico per i rifugiati. Lo scambio di battute tra
Loebl e il referente riguardo quest’ultima accusa illustra bene le frustrante
tecnica di conduzione dell’interrogatorio.
«Lei ha lasciato la sua terra natale e lasciato gli altri a soffrire e a combattere
i nazisti mentre lei viveva in modo confortevole con i soldi pagati dal governo
britannico».
«Il mio viaggio da Varsavia a Londra è stato pagato dal Comitato britannico
per i Rifugiati. Al mio arrivo ho ricevuto un aiuto da una Cassa di credito per i
rifugiati cecoslovacchi fino a che non ho trovato un lavoro».
«In altri termini, lei ammette di aver ricevuto denaro dagli inglesi. Dunque lei
è un agente degli inglesi».
Io feci notare che il Comitato britannico aiutava tutti i rifugiati che fuggivano
i nazisti a condizione che fossero in grado di provare di essere degli anti-fascisti.
«Questo Comitato e la Cassa di credito erano solo coperture per il reclutamento
delle spie».21
I segni che svelavano il tradimento erano fin troppo abbondanti. Non
c’era che una soluzione: ammettere di essersi infiltrato nel partito comunista per fare gli interessi del capitalismo sionista. È solo a questo punto
che Kohutek fa per la prima volta riferimento a una testimonianza precisa
contro Loebl: Field aveva confessato che Loebl era uno degli agenti da lui
reclutati.
Nel corso di un successivo interrogatorio Loebl scrive di aver reagito
all’incalzare delle domande proclamando che il ricorso alle privazioni e
alla tortura era indegno di chi lottava per costruire il socialismo. In risposta
si sentì dire le sue obiezioni non dimostravano altro che la sua appartenenza
19. �����������
Ivi, p. 65.
20. Ibidem.
21. �����������
Ivi, p. 70.
Complotti e congiure nel XX secolo
35
alla piccola borghesia liberale. Non poteva né doveva esserci pietà alcuna
per i sabotatori, i traditori e le spie: l’importante era che rivelassero i nomi
dei complici e dei loro capi. Non c’era spazio per il sentimentalismo: tra
socialismo e capitalismo era in atto una guerra all’ultimo sangue. Le parole del referente sembrano quasi riecheggiare il manuale dell’inquisitore
Nicolau Eymeric.
Rievocando la figura di Kohutek, Loebl riconosce che costui «era sinceramente convinto di servire il partito scoprendone i nemici. Se forse non
era del tutto convinto della realtà dei crimini che mi chiedeva di confessare, nondimeno non dubitava della mia qualità di nemico politico». Egli
credeva veramente all’esistenza di una gigantesca cospirazione imperialista e capitalista ordita dagli anglo-americani sostenuti dai sionisti, ed era il
suo preciso dovere fare del suo meglio per proteggere il socialismo dalla
minaccia che incombeva su di esso.
Biografie stravolte
La lettura degli atti dell’interrogatorio di una presunta strega condannata a morte nel 1697, Caterina Ross di Poschiavo, colpisce per la reiterazione una seduta dopo l’altra di una serie di domande riguardanti la
biografia dell’imputata. Gli inquirenti erano chiaramente alla ricerca di una
conferma del fatto che la donna era in qualche modo segnata dalla nascita
e portatrice di una pericolosa tara ereditaria che la predisponeva al male.
Tale procedura si incontra spesso nei processi inquisitoriali e, di nuovo,
riappare negli interrogatori a porte chiuse condotti nelle fasi preliminari
dei processi staliniani. In entrambi i casi l’ossessiva ricerca della verità
nasconde il bisogno di una ricostruzione quanto più precisa possibile dei
crimini oggetto del dibattimento e, soprattutto, delle loro radici nelle biografie degli imputati. Il complotto degli agenti del Male era per definizione ramificato, inafferrabile, la posta in gioco altissima.
Riguardo alle biografie reali degli imputati, le affinità tra i due tipi
di processi non impediscono di osservare un’importante differenza. Nei
processi staliniani l’accusato era un fedele assoluto del partito, mentre la
«strega» si professava buona cristiana, ma non era certo una militante. In
entrambe le situazioni, tuttavia, gli inquirenti si dimostrarono abili nel giocare su oscuri sensi di colpa. Nel caso della presunta strega essi si fondavano sulla sua appartenenza alla comunità cristiana e sulla sua soggezione
36
Streghe e cospiratori
psicologica e culturale nei confronti dei giudici; il senso di colpa del militante era sollecitato da tutte le mancanze che inficiavano la rappresentazione interiore del Militante Ideale – per esempio, origine di classe tenuta
nascosta, infedeltà coniugali, deviazioni giovanili rispetto alla linea attuale
del partito. L’imputato era da parte sua abituato alla pratica dell’autocritica,
che assomigliava più alla confessione di un peccato che all’analisi di un
errore. La revisione critica, infine, non poteva riguardare un singolo errore, ma l’intera vita dell’imputato. Artur London lo scoprì ben presto a
sue spese.
Dopo due ore di interrogatorio, tutt’a un tratto, il referent mi dice: «Mi parli
del suo passato, del suo lavoro di un tempo nell’organizzazione giovanile.
Insomma mi racconti la sua biografia». Sulle prime rimango sorpreso […].
Scoprirò che si tratta di una nuova tattica, una specie di travestimento e di
caricatura del metodo di controllo usato dai responsabili dei quadri di partito;
consiste nel provocare la ripetizione del racconto di un periodo contestato per
scoprire, tramite confronti, le eventuali alterazioni della verità.22
Nella sua posizione di inquisito, London colse solo una componente dell’insistenza sulla biografia da parte del referent. Il confronto con
analoghe indicazioni provenienti da altri processi, compresi in un arco
cronologico vastissimo che va dal 1450 al 1950, ci aiuta a capire che la
ricostruzione biografica serviva anche e soprattutto a individuare nel passato dell’accusato le premesse genetiche, sociali ed esistenziali del tradimento. Si trattava, quindi, di portare alla luce una predisposizione originaria al male, un’attitudine spesso, e forse preferibilmente, interpretata
come irrisolvibile e inevitabile. In tal modo la comunità o, in questo caso, il
partito potevano continuare a specchiarsi in una superficie lucida e pura. Se
infatti il traditore era sempre stato tale ed era entrato nell’organizzazione
tramando fin dal principio il sabotaggio, il partito non era chiamato a mettere in discussione la propria natura politica e morale, ma solo chiamato a
vigilare contro i subdoli agenti del Nemico.
Risulta evidente che in ogni biografia personale si sarebbero potuti
estrapolare dettagli che fungevano da omologhi del marchio di Satana, indizi
che smascheravano l’irriducibilità dell’imputato al bene rappresentato dal
partito. London non faceva eccezione. Suo padre, figlio di un impiegato
22. ��������
London, La confessione, p.189.
Complotti e congiure nel XX secolo
37
delle ferrovie della Moravia, era emigrato prima in Svizzera e poi negli
Stati Uniti d’America – luoghi di esposizione al contagio capitalista. Nella
confederazione Elvetica aveva frequentato gli ambienti anarchici pur non
condividendo, si sforzò di precisare London, l’ideologia fondamentale
dell’anarchismo.
Tra anarchici e marxisti non correva notoriamente buon sangue. Le
radici ideologiche famigliari di London non andavano nella direzione
giusta. Malgrado il padre, rientrato in Europa per arruolarsi e combattere
per il paese d’origine, avesse sul fronte russo simpatizzato con prigionieri
bolscevichi e fosse poi stato fra i primi iscritti alla sede del partito comunista
di Ostrava, nella sua storia personale permaneva un vizio d’origine che, nel
1951, finì per pesare sulle sorti del figlio. Su London gravavano comunque
ben altre premesse negative, ovvero i suoi lunghi soggiorni all’estero, che
ormai significavano una sola cosa: opportunità di venire a contatto con il
germe corrotto del complotto capitalista. Come è tristemente noto, non
vanno infine trascurate le origini ebraiche sue e di molti altri imputati: a
Mosca nel frattempo era stata infatti stabilita un’equivalenza tra ebraismo
tout court e sionismo – e i sionisti militavano ormai nel campo avverso.
Fino alla fine la qualifica di sionista rimarrà appioppata a uomini e donne che
non hanno mai avuto niente in comune con il sionismo […]. In seguito la cosa
degenererà in una specie di caccia alle streghe. Si moltiplicheranno i provvedimenti di discriminazione contro gli ebrei con il pretesto che sono estranei alla
nazione cecoslovacca, in quanto cosmopoliti e sionisti, e dunque compromessi
con loschi traffici o con lo spionaggio. Nei primi tempi i referenti facevano a
gara nel mostrarsi l’uno più antisemita dell’altro. Un giorno replico a uno di
loro che, anche se vogliono giudicare me da questo punto di vista, non vedo
come possano fare altrettanto con il gruppo dei vecchi volontari fra i quali, a
parte Valeš e me, non ci sono ebrei. Mi risponde con la più grande serietà: «Lei
dimentica le loro mogli. Sono tutte ebree e il risultato è lo stesso».23
Di fronte all’assurdo
London aveva naturalmente ragione nel sottolineare la componente
vessatoria insita nelle reiterate richieste da parte dei referenti di tornare
23. ������������
Ivi, p. 211.
38
Streghe e cospiratori
sulle sue esperienze passate. Un diverso e più profondo obiettivo viene
però intuito in un secondo momento: è lo smarrimento del senso della propria vita. «Finisco per detestarmi, per detestare il mio passato e tutto ciò
che fa parte della mia vita; perché, rievocandola senza tregua, qui, di fronte
a questi individui ottusi […] mi sento vilipeso come se mi sputassero in
faccia».24
Il referente assegnato a ogni inquisito era un membro del partito incaricato di consigliare l’accusato in modo da persuaderlo a rendere una
confessione piena e completa. Il referente, insomma, svolgeva una funzione non troppo dissimile da quella del vicario vescovile che esortava il
presunto eretico ad ammettere le proprie colpe al fine di essere riammesso
in seno alla Chiesa.
Gli inquirenti ricorrevano al binomio fede-senso di colpa come leva
per indurre gli accusati alla confessione. Le pressioni indebolivano la resistenza psicologica, ma il crollo era determinato da altro, in primo luogo
dal trovarsi in contraddizione con il partito, vale a dire lo scopo della vita
della persona accusata. Loebl testimonia come il suo cedimento psicologico sia cominciato proprio con l’insinuarsi del senso di colpa all’interno
della sua, giuridicamente fondata, persuasione d’innocenza.
Più ci pensavo più ero pronto a riconoscere le mie debolezze, soprattutto i miei
precedenti sospetti in materia di classe sociale. Nato in una famiglia borghese,
io non appartenevo alla classe operaia. I miei rapporti con la classe operaia,
dunque, non erano quelli di un operaio. Come viceministro del Commercio
estero conducevo una vita relativamente agiata. Avevo una macchina e abitavo
in un appartamento spazioso; vivevo così bene che avvertivo quasi un senso
di colpa. La concezione che avevo dei miei legami con la causa della classe
operaia non era spontanea, bensì intellettuale. […] io simpatizzavo con essa,
avevo votato la mia vita alla sua causa, ma appartenevo all’intelligentsia, alla
classe media istruita. […] Come molti altri intellettuali della classe media mi
sentivo colpevole per il mio passato. Mi sembrava di dover espiare per la mia
vita privilegiata, per non essere nato operaio.25
In tali condizioni l’imputato cadeva in una stato di avvilimento e
prostrazione che lo annientava psicologicamente. L’esito ultimo è la totale
perdita del senso della propria esistenza passata e presente. Sia Loebl che
24. ������������
Ivi, p. 204.
25. �������
Loebl, Le procés de l’aveu, pp. 76-77.
Complotti e congiure nel XX secolo
39
Slánsky, e non furono i soli, tentarono il suicidio in cella.
«Tutto diventa improvvisamente meschinità, corruzione, vigliaccheria»
scrive London «Tutto è capovolto. Tutto il bene è ascritto al male».26 È il
momento, per gli inquirenti di assestare il colpo finale all’imputato smarrito:
«Crede che se fosse davvero tutto falso come lei dice, il partito avrebbe
ordinato il suo arresto?».27 London era distrutto. La sua intenzione era aiutare
il partito, si è trovato invece rinchiuso, concretamente e psicologicamente,
in una gabbia. Ogni sua parola era interpretata in modo tendenzioso per
potere essere ricondotta all’impianto accusatorio prefabbricato. Gli amici lo
avevano denunciato, avevano confessato il falso. Com’era stato possibile?
Ecco come descrive la condizione dell’imputato nelle mani della polizia
politica:
La ragione vi sfugge. Voi siete ormai un oggetto impotente, alla loro mercé. Vi
sentite disperatamente soli, abbandonati da tutti: dal partito, dagli amici, dai
compagni. Sapete di non poter sperare aiuto da nessuno; tutti, fuori, – perfino
la vostra stessa famiglia – sospettano che siate colpevole, poiché è stato il partito a decidere il vostro arresto. Lo so per esperienza. Anch’io ho reagito allo
stesso modo quando si sono tenuti i processi di Mosca, quelli di Budapest e di
Sofia.28
Loebl descrive il medesimo stato di prostrazione e scoramento.
Mi sentivo diventare schizofrenico, con due personalità in conflitto. Una diceva
che questa lotta, questa resistenza, non aveva senso. […] L’altro personaggio
parlava di principi. Non dovevo abbandonare i miei ideali. Per molto tempo il
marxismo era stato il mio sostegno nelle prove più difficili. Confessare di aver
tradito i miei ideali marxisti era troppo aberrante.29
Inevitabile, infine, arrivava il crollo: il prigioniero confessava. Non si
trattava tanto di evitare la condanna a morte, quanto di farla finita con il
tormento dell’incertezza, della lacerazione interiore – e certamente anche
delle privazioni. Un giorno un funzionario entrò nella cella di London e gli
presentò la sua confessione, già predisposta, in cui ammetteva di essere
26. ��������
London, La confessione, p. 54.
27. �����������
Ivi, p. 55.
28. �����������
Ivi, p. 57.
29. �������
Loebl, Le procés de l’aveu, pp. 157-158.
40
Streghe e cospiratori
stato corrotto dagli americani e una serie di altre attività cospiratorie. La
firmò.
La diffusione del contagio
Come era avvenuto anche nei processi per stregoneria, le prime
confessioni servirono da leva per rilanciare la necessità di ulteriori
approfondimenti. Come nei processi per stregoneria, durante gli
interrogatori a membri devianti del partito comunista il teorema accusatorio
non era fisso, ma flessibile, soggetto a modifiche in corso d’opera. London
si confessò colpevole delle prime imputazioni illudendosi di alleviare i
propri tormenti; ben presto fu costretto a rendersi conto che le sue speranze
erano mal riposte.
Come ho potuto essere così ingenuo da credere per un solo istante che i referenti si sarebbero accontentati della mia confessione di colpevolezza riguardante il
gruppo trotzkista dei vecchi volontari e i miei contatti con Field? Credevo che
questa confessione sarebbe stata sufficiente per farmi un processo. Adesso so
che è servita solo da trampolino per proiettarmi ancora più lontano!30
Quanto lontano stesse arrivando l’inchiesta, London non lo immaginava. Il vertice del complotto era stato nel frattempo identificato addirittura nel segretario del partito in persona, Rudolf Slánsky – le cui origini
ebraiche lo rendevano un bersaglio nel contesto della campagna staliniana
contro il sionismo. Il contagio aveva raggiunto i vertici del partito, ora la
terapia chirurgica doveva fare lo stesso.
Tratto agli arresti, questi aveva ovviamente opposto strenue resistenze
alle accuse sempre più enormi che gli venivano mosse. La situazione si
sbloccò solo quando fu paradossalmente invitato a dare un’estrema prova
di fedeltà al partito che si presumeva avesse vilmente tradito. L’ex segretario generale comprese che tutto era deciso e accettò, proprio per il bene
del partito, di confermare tutte le accuse preconfezionate che gli venivano
mosse.
Nella sua deposizione si legge:
30. ��������
London, La confessione, pp. 206-207.
Complotti e congiure nel XX secolo
41
«Abbiamo ostacolato lo sviluppo del commercio estero con l’Unione Sovietica,
importando, per esempio, macchinari e attrezzature dagli stati capitalisti,
benché le stesse macchine e attrezzature venissero fabbricate anche nell’Unione
Sovietica, dove potevano essere acquistate a prezzi più convenienti. Abbiamo
rifiutato un gran numero di commesse sovietiche col pretesto che l’industria
cecoslovacca non fabbricava i prodotti richiesti, mentre in realtà essa li
fabbricava. In altri casi, abbiamo frenato il commercio con l’Unione Sovietica
imponendo alti prezzi fiscali intenzionalmente, oppure accettando gli ordinativi
sovietici solo in parte col falso pretesto che la capacità degli stabilimenti
interessati non era sufficiente; inoltre non abbiamo rispettato le scadenze di
consegna».31
Nell’atto d’accusa letto dal pubblico ministero ritornano ossessivamente sul complotto segreto dei falsi comunisti:
«La perfidia del pericoloso attacco alla libertà, alla sovranità e all’indipendenza
della patria, tramato da questi criminali, è tanto più condannabile in quanto
essi hanno abusato della loro appartenenza al partito comunista cecoslovacco
e della fiducia di questo partito caro ai lavoratori […]. Perfino quando i primi
membri del centro di cospirazione diretta contro lo stato erano già stati smascherati e incarcerati, Rudolf Slánsky, astuto Giano bifronte, tentava ancora
di sviare l’attenzione da sé, quale capo del complotto, e fingeva di essere egli
stesso vittima delle attività sovversive».32
La richiesta all’imputato di confermare la correttezza delle accuse
mossegli e la recita di formule di abiura dell’eresia e del patto con il diavolo risultano già presenti nei processi per stregoneria più antichi, come
quelli di Vevey, di cui si riparlerà più avanti. Essi diventeranno una presenza costante negli atti processuali relativi a questo genere di crimine. Le
conclusioni in cui l’imputato conferma la veridicità delle confessioni rese,
trascritte di norma in una forma standardizzata in cui convivono procedura
giuridica e contenuti ideologici (o, prima, teologici), rappresentano un momento fondamentale della rappresentazione pubblica del processo.
Tutti i condannati a morte, con l’eccezione di Slánsky, prima
dell’esecuzione indirizzarono una lettera alle famiglie «in cui si
proclamarono colpevoli, si mostrarono convinti del tradimento del loro
31. ��������������������������������
Documento citato in Ivi, p. 271.
32. ��������������������������������
Documento citato in Ivi, p. 272.
42
Streghe e cospiratori
segretario generale, espressero fiducia in un futuro radioso per il regime».33
Era stata soddisfatta la funzione pedagogica attribuita al processo e alla
divulgazione dei verbali addomesticati.
Gli ebrei, sempre loro
Come i colleghi di qualche secolo prima, anche i pubblici ministeri che
hanno condotto i processi dell’era staliniana presupponevano una serie di
tare ereditarie o di ascendenze sociali per inchiodare gli imputati: il passato
piccolo-borghese, l’adesione temporanea in gioventù alla socialdemocrazia, i soggiorni all’estero. Ben presto una nuova, e insieme antica, tara fece
la sua comparsa sulla scena: le ascendenze ebraiche che predisponevano
naturalmente al sionismo,
Un giorno Loebl si sentì rivolgere questa domanda: «Allora, Loebl, ci
parli della sua collaborazione con la spia degli americani in combutta con
Tito, quel maiale sionista di Rudolf Slánsky».34 Loebl, prostrato, era ormai
disposto a confessare qualsiasi cosa gli venisse suggerita. Fu quello che
fece qualche tempo dopo, nel corso di un confronto diretto con Slánsky.
«Slánsky, conosce questo prigioniero?».
«Sì, è Evzen Loebl».
«Loebl, conosce questo prigioniero?».
«Sì, è Rudolf Slánsky».
«Lei, Loebl, ha confessato di aver fatto parte di una cospirazione criminale
ordita da Slánsky. Vuole ripetere la sua confessione?».
Dissi di sì. […]
«Ho commesso un certo numero di crimini come membro di una cospirazione
diretta da Rudolf Slánsky».35
Il contesto interno che fece da cornice al processo Slánsky possedeva
elementi di singolarità, uno dei quali erano appunto i rapporti con Israele.
La Cecoslovacchia era stato, tra le democrazie popolari, quella che più
si era mostrata disponibile a partecipare al Piano Marshall; come se non
33. ��������
Flores, L’età del sospetto, p. 154.
34. �������
Loebl, Le procés de l’aveu, p. 184.
35. ������������
Ivi, p. 206.
Complotti e congiure nel XX secolo
43
bastasse, la sua politica era parsa troppo filoisraeliana rispetto alle posizioni
sovietiche. La Cecoslovacchia aveva venduto armi all’organizzazione
Haganah e collaborato all’addestramento di una brigata. È significativo
che alcuni importatori ebrei americani avessero manifestato a Loebl il
loro apprezzamento per gli aiuti cecoslovacchi a Israele nell’ambito della
fornitura e dell’addestramento militare. Ciò avveniva mentre il governo di
Mosca aveva perso la speranza di attrarre nella propria sfera di influenza
Israele, la cui dirigenza andava orientandosi verso una politica sempre più
filoamericana. In precedenza Stalin aveva coltivato la possibilità di allargare
la propria influenza al nuovo stato ebraico: all’interno del movimento
sionista, infatti, non mancavano le correnti socialiste, quelle, per intenderci,
che stavano dando vita all’originale esperimento comunitario dei kibbutz.
Un russo non meglio identificato, che partecipava all’interrogatorio,
accusò Loebl di non essere né un vero comunista né un vero cecoslovacco: «Lei non è altro che uno sporco ebreo. La sua sola patria è Israele
e lei ha venduto il socialismo ai suoi capi, i dirigenti dell’imperialismo
sionista».36
Per capire questa decisa virata antisionista bisogna tener conto anche di quanto parallelamente avveniva in URSS, dove, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale si andò (ri)costruendo
l’immagine negativa degli ebrei come potenziale vettore di «contagio politico». Un clima antisemita prese a serpeggiare in articoli su riviste quotidiani già nel 1946 che prendevano di mira i «cosmopoliti senza radici»,
tra i quali spiccavano, immancabilmente, gli ebrei. La diffidenza verso
gli ebrei esplose nell’ottobre 1948, in occasione dell’arrivo a Mosca di
Golda Meir in visita ufficiale, accolta da una manifestazione festosa di
cinquantamila ebrei. A posteriori, il minimo che si può dire è che si trattò
di un’imprudenza collettiva. Ai vertici del Cremlino, infatti, gli onori informali tributati alla Meir destarono non poche preoccupazioni. Il passaggio ai fatti non tardò a venire. Un mese dopo venne sciolto d’autorità il
Comitato Antifascista Ebraico e furono distrutti i piombi di un libro curato
da Il’ja Erenburg e Vasilij Grossman che raccoglieva documenti sulla persecuzione nazista degli ebrei russi.
Come sempre accade nelle epidemie, dopo i primi casi distanziati tra
loro, che agiscono da avvisaglia, il contagio prese a diffondersi rapidamente.
Molti dei membri più in vista del disciolto Comitato furono arrestati. Venne
36. �����������
Ivi, p. 82.
44
Streghe e cospiratori
poi il turno di un gruppo di ingegneri ebrei che occupavano posizioni di
responsabilità nella fabbrica di automobili intitolata a Stalin, che si vider
piovere addosso l’accusa di sabotaggio. La campagna proseguì per i due
anni successivi. Il 12 agosto 1952, venne eseguita la condanna a morte per
fucilazione contro tredici membri del Comitato antifascista ebraico e dieci
ingegneri della fabbrica Stalin, presunti cospiratori e sabotatori.
Proprio mentre sembrava che, con la condanna dei cospiratori sionisti
voluta personalmente da Stalin, la virulenza del contagio iniziasse a declinare, si aprì invece un secondo fronte: il celebre «complotto dei camici bianchi», che fu probabilmente l’ultimo grande caso politico della vita di
Stalin. L’affare cominciò quando l’uomo che da venticinque anni guidava
l’URSS manifestò alcune preoccupazione per la propria salute. Un giorno
d’estate del 1951 Stalin aveva chiesto al ministro della Sanità Smirnov
quali medici avessero curato Ždanov e Dimitrov, deu dirigenti da poco
scomparsi. Ebbene, si trattava della stessa persona, Boris Kogan, cugino
del medico del Cremlino Michail Kogan. Malgrado le rassicurazioni di
Smirnov, che aveva personalmente verificato l’assoluta irreprensibilità del
medico, Stalin reagì con inquietudine. I suoi timori aumentarono quando apprese che Kogan era stato assistito nientemeno che dal suo medico
curante, il cardiologo Vladimir Vinogradov. Si mise allora in moto la macchina poliziesca volta a smascherare l’ennesimo complotto. Gran parte degli accusati erano medici ebrei e il processo che li condannò coincise con
la fase più virulenta della campagna antisionista che falcidiò i membri del
Comitato Antifascista Ebraico. Gli interrogatori rivelarono non solo che la
morte di Ždanov era stata in realtà un’eliminazione, ma portarono alla luce
la più terribile delle congiure: un piano per avvelenare Stalin.
Bisogna sapere che l’ossessione del leader per gli avvelenamenti
rasentava la paranoia. Ogni suo pasto era cucinato dalla sua vecchia cuoca
di fiducia ed esaminato da agenti speciali e da un medico prima di arrivare
alla tavola del leader. Il risalto dato dalla stampa al complotto generò un
clima di isteria collettiva: i pazienti rifiutavano di farsi visitare da medici
ebrei e di comprare medicine in farmacie gestite da ebrei. Era in fondo
una vecchissima storia: gli ebrei erano di nuovo un agente patogeno. I
discendenti di coloro che avvelenavano i pozzi dei cristiani, volevano
ora avvelenare, politicamente e fisicamente, il corpo della guida del
socialismo.
Complotti e congiure nel XX secolo
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Il Grande Terrore Russo degli anni Trenta
È noto il peso determinante delle decisioni e degli orientamenti personali di Stalin nel determinare l’avvio e la direzione delle catene di arresti e processi che si sono succedute durante gli anni segnati dalla sua
egemonia. Le prove generali di quanto avvenne nell’Europa centrale e
orientale nell’immediato secondo dopoguerra erano già andate in scena a
Mosca negli anni Trenta. Il consolidamento del socialismo in URSS si era
progressivamente saldato al consolidamento non solo del potere operativo
del leader, ma anche del suo prestigio personale, che doveva essere fuori
discussione come la sua abilità strategica. Se qualcosa non funzionava – e
inevitabilmente i problemi erano molti – la soluzione per Stalin era quella
di imporsi come colui che agiva prontamente per rimediare ai guasti delle
incompetenze, e sventava, duramente, i complotti e i sabotaggi che ritardavano i frutti della politica del regime.
Necessariamente i singoli mali provenivano dall’esterno, dal campo
del Male. Esso, però, per riuscire a infiltrarsi, aveva bisogno della collaborazione di traditori, cospiratori, sabotatori venduti al nemico che si
nascondevano tra i dirigenti che occupavano influenti posizioni di potere
all’interno della gerarchia o delle istituzioni. In questo senso, i processi
servivano a smascherare pubblicamente il complotto e a rendere visibile al
popolo la causa delle imperfezioni che ancora assillavano il socialismo.
Stalin, da parte sua, tendeva a concepire i rapporti politici in termini
gerarchici, sia che si trattasse di lealtà personale sia che fossero in gioco
relazioni diplomatiche tra nazioni. Egli aveva l’abitudine mettere alla prova
e mantenere in stato di perenne tensione i membri del Politburo colpendo
con accuse anche gravi i loro più stretti collaboratori. «Senza risparmiare
nessuno, Stalin mirava a infettare la cerchia di governo con i sospetti e le
insicurezze che caratterizzavano il suo mondo mentale».37 A farne le spese
furono principalmente funzionari di secondo livello, la cui caduta in disgrazia serviva però a mantenere la cerchia primaria in una condizione di
tensione, diffidenza reciproca e sudditanza nei confronti di Stalin.
Le grandi purghe della fine degli anni Trenta nascevano dall’evoluzione
del potere sovietico e della teoria politica che fondava il ruolo chiave
della nuova classe dirigente bolscevica. La rapidità della conquista del
37. ���������������������������������
Oleg Chlevniuk, Yoram Gorlitzky, Cold Peace. Stalin
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and the Soviet ruling Circle, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 3-5.
46
Streghe e cospiratori
potere e dell’organizzazione dello Stato secondo i principi del comunismo
avevano reso necessaria la definizione di un’ortodossia di riferimento.
Parallelamente, e quasi spontaneamente, i conflitti tra i successori di Lenin
e i dissidi più o meno latenti tra i membri del comitato centrale del partito
avevano assunto la forma della disputa dottrinaria. Fu insomma brevissimo
e pressoché automatico il passaggio dalle tensioni tra correnti di pensiero
a una situazione più simile alla contrapposizione tra sette: la capacità di
definire l’ortodossia coincideva con l’accesso al vertice del potere o con il
suo consolidamento.
Il periodo del Grande Terrore cumulò diversi obiettivi e diversi bersagli. Era per esempio urgente giustificare i fallimenti della politica economica sovietica. In particolare si andò proprio allora delineando con crescente
nitidezza la teoria del complotto antisovietico da parte di nuclei trotzkisti.
Parallelamente si fece in modo che si diffondesse una sorta di presunzione
di colpevolezza a priori per gli strati sociali ritenuti non affidabili – in
primo luogo i piccoli proprietari terrieri, i kulaki – e per le minoranze etniche meno sensibili alla costruzione del socialismo – è il caso dei tartari
e dei coreani. Di nuovo, quindi, contestualmente all’elaborazione di una
teoria del complotto, si osserva il ritorno in voga del concetto di ereditarieà
della colpa. Tutti costoro furono di fatto individuati come capri espiatori
sui quali far ricadere la colpa dei clamorosi insuccessi del regime, che si
era trovato a fronteggiare raccolti inadeguati, crisi economiche e perfino
carestie come conseguenze della politica della collettivizzazione forzata.
Un telegramma di Stalin diramato ai comitati centrali dei partiti comunisti
regionali asseriva che era stato ormai
accertato che la maggior parte degli ex kulaki e criminali, deportati a suo tempo
nelle zone del nord e della Siberia, e poi ritornati nelle loro regioni di origine
allo scadere dei termini di deportazione, sono i principali promotori di ogni
sorta di crimini antisovietici e atti di sabotaggio, sia nei kolchoz e nei sovchoz,
sia nei trasporti e in alcuni settori industriali.38
Le stime delle vittime del Grande Terrore sovietico degli anni ‘30
parlano di almeno tre milioni di persone condannate al carcere o ai campi
di lavoro e di mezzo milione di esecuzioni. Sono cifre paragonabili a
38. ����������������
Oleg Chlevniuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore,
Torino, Einaudi, 2006, p. 163.
Complotti e congiure nel XX secolo
47
quelle delle grandi pandemie e che sono state raggiunte certo in seguito a
iniziative partite dai vertici del sistema politico, ma che hanno ricevuto il
supporto di migliaia di zelanti delatori pronti a denunciare i «nemici del
popolo». Come ai tempi della Rivoluzione francese, alla quale si accennerà
più avanti, è stato fondamentale il risalto offerto dalla stampa alle lettere di
denuncia. In queste circostanze si osserva una doppia tipologia di contagio.
Il primo tipo è il panico del complotto che colpisce la popolazione civile
e la rende disponibile a individuare con estrema facilità agenti sovversivi
e sabotatori; il secondo è rappresentato dall’immediata definizione delle
categorie a rischio, potremmo dire portatori sani di caratteristiche negative
latenti che all’improvviso vengono percepite come attivate e pronte a
colpire la società.
In URSS i cosiddetti “alieni sociali”, erano innanzitutto i discendenti
della vecchia nobiltà, i membri del clero, i piccoli proprietari terrieri, ma
anche chiunque avesse origini borghesi o più o meno vagamente straniere,
come ebrei e zingari. Ad esempio, dei contadini che denunciarono il presidente del loro kolkhoz sottolinearono che era figlio di un procacciatore di
braccianti che aveva sfruttato i lavoratori agricoli. Vi erano poi le denunce
inoltrate non per intima convinzione, ma per la paure delle conseguenze
del non denunciare, ovvero finire per essere considerati, per qualcuna delle
molte ragioni possibili, una parte malata del corpo sociale bolscevico. Era
un timore fondato: in un contesto sociale permeato dall’ossessione del
complotto chi non manifestava sufficiente ostilità al nemico rischiava di
venirvi automaticamente associato.
I processi di Mosca
Il Grande Terrore sovietico prese concretamente l’avvio a Leningrado
con l’uccisione di Sergej Kirov, segretario del partito comunista della città.
Sia in quanto primo segretario della seconda città del paese sia in virtù del
suo indubbio carisma, Kirov era da molti considerato un rivale naturale
di Stalin. Il suo cadavere venne scoperto il primo dicembre 1934 nel suo
ufficio. L’attentatore, Leonid Nikolaev, fu immediatamente arrestato,
processato a porte chiuse e condannato a morte al termine di una rapida
inchiesta presieduta da un uomo di fiducia di Stalin, Andrej Ždanov, che
avrebbe preso di lì a poco il posto di Kirov al vertice del partito cittadino.
Secondo l’accusa Nikolaev sarebbe stato un sicario al soldo del «Centro
48
Streghe e cospiratori
Unito», un gruppo di cospiratori che faceva riferimento al grande nemico
Trotzkij.
Il proseguimento delle indagini rivelò che nelle alte sfere del partito
si annidava un covo di deviazionisti di destra che praticavano il sabotaggio e lo spionaggio a favore dei capitalisti. La scoperta della cospirazione
contribuì a diffondere l’idea paranoica di una moltitudine di organizzazioni controrivoluzionarie infiltrate a ogni livello della società sovietica e
provocò un’ondata di epurazioni fra i dirigenti dell’apparato del partito e
dello Stato. La purga colpì pesantemente anche l’Armata Rossa: almeno
un quarto dei suoi circa 80.000 ufficiali venne epurato nel biennio 19371938.
Secondo il tristemente famoso pubblico ministero Vyšinskij,
il Blocco delle destre e dei trotzkisti non è altro che una banda di spie […], un
fatto di grandissima importanza non solo per la nostra rivoluzione socialista,
ma anche per tutto il proletariato internazionale, per la causa della pace nel
mondo, per l’intera cultura umana, per la lotta per la vera democrazia e la libertà dei popoli, per la lotta contro tutti i guerrafondai e contro tutte le provocazioni e i provocatori internazionali.39
I toni sono quelli di una perorazione mistica, apocalittica. Dall’altra
parte della sbarra, le dichiarazioni degli imputati non lasciano dubbi
riguardo alla natura sostanzialmente religiosa dell’investimento emotivo
che i condannati ponevano nella confessione di crimini mai commessi. Al
di là dei fini pedagogici della confessione pubblica, si ha l’impressione che
per gli stessi presunti cospiratori il perdono da parte del partito restituisse
un senso estremo alla loro vita.
«Cittadini giudici, rinuncio al discorso di difesa in quanto la pubblica accusa,
per quanto concerne la constatazione dei fatti, era giusta, come pure esatta
per ciò che si riferisce alla qualificazione dei miei crimini. Tuttavia non
posso dichiararmi d’accordo né rassegnarmi di fronte a un’affermazione del
Pubblico Ministero: l’affermazione che io sia ancora oggi trotzkista. Sì, sono
stato trotzkista per molti anni. Con i trotzkisti ho proceduto fianco a fianco,
ma l’unico motivo, l’unico che mi ha spinto alle affermazioni che ho fatto,
era il desiderio di liberarmi almeno ora, anche se troppo tardi, dal mio atroce
297.
39. �������������������������������
Citato in Pier Luigi Contessi, I processi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1970, p.
Complotti e congiure nel XX secolo
49
passato trotzkista […]. Infatti la cosa più dura per me, compagni giudici, non
è quella giusta sentenza che voi pronuncerete. La cosa peggiore è soprattutto
il riconoscermi davanti a me stesso. Il riconoscere durante l’istruttoria, il
riconoscere davanti a voi e davanti a tutto il paese che io, in conseguenza di tutta
la mia precedente lotta illegale e delittuosa sono finito in una palude, nel centro
stesso della controrivoluzione, della più disgustosa e bassa controrivoluzione di
tipo fascista, della controrivoluzione trotzkista».40
L’implorazione finale di Bucharin, uno dei principali imputati, è del
medesimo tenore:
«Ora parlerò di me stesso e delle cause del mio pentimento. Naturalmente occorre dire che anche le prove materiali hanno grande importanza. Io ho mentito
per circa tre mesi, poi ho cominciato a fare ammissioni. La causa di ciò sta
nel fatto che in prigione ho riconsiderato tutto il mio passato. Infatti, se ci si
domanda: dovendo morire, per cosa vuoi morire? Allora ci si vede davanti con
sconvolgente chiarezza un vuoto assolutamente buio. Non c’è nulla per cui si
debba morire, se si vuol morire senza essersi pentiti. Al contrario, tutto ciò che
è positivo e che splende nell’Unione Sovietica assume nella consapevolezza
dell’uomo un’altra dimensione. Questo mi ha completamente disarmato, in definitiva, e spinto a piegar le ginocchia davanti al partito e al paese. E si ci si
pone la domanda: se non muori, se per miracolo resti in vita, allora, di nuovo,
a che scopo? Isolato da tutti, nemico del popolo, in una condizione disumana,
completamente distaccato da tutto ciò che costituisce l’essenza della vita. La
risposta è immediata».41
La presenza di una componente religiosa nel discorso del rivoluzionario pentito balza agli occhi con evidente chiarezza. Si deve qui probabilmente scorgere un filo di continuità interno alla cultura russa, in cui
l’intreccio tra messianismo religioso e politico ha una lunga storia.
40. �����������������������������������������������������������������
Dichiarazione dell’imputato Pjatakov, citata in Ivi, pp. 240-241.
41. ��������������������������
Citato in Ivi, p. 394-395.
Cerniera.
I secoli XIX e XVIII
Altri complotti: ebrei e massoni
Nella Russia pre-rivoluzionaria l’idea del complotto era all’ordine del
giorno. Essa era condivisa tanto dai gruppi rivoluzionari e nichilisti che
agitavano la vita politica della nazione – ossessionati dalla paura che tra
gli affiliati si celassero infiltrati della polizia zarista – quanto dalle autorità
che si appoggiavano, spesso con il sostegno della Chiesa, a una rete di delatori ben distribuita sul territorio. Gli stessi bolscevichi ne avevano fatto
le spese prima di prendere il potere e sfruttare a proprio vantaggio la radicata abitudine alla delazione. L’ossessione del complotto stimolò anche la
fabbricazione di trame oscure mai esistite; ne è un esempio clamoroso la
colossale congiura ebraica internazionale descritta in uno dei più celebri
falsi della storia, forse il più famoso insieme alla medievale Donazione di
Costantino: i Protocolli dei Savi di Sion, opera attribuibile nella sua versione definitiva alla polizia zarista – e che, al contrario della Donazione,
ha evidentemente ancora i suoi sostenitori, visto che le tipografie di mezzo
mondo non cessano di stamparlo.
Prima dei Protocolli dei Savi di Sion altri falsi avevano contribuito a
diffondere l’idea della presenza occulta di un complotto giudaico su vasta
scala, al quale talvolta si affiancava la massoneria. Un esempio è l’opera di
un improbabile ex rabbino moldavo probabilmente apparsa in Romania a
inizio XIX secolo e inizialmente valutata con estremo scetticismo a causa
delle grossolane imprecisioni che conteneva. Negli anni Ottanta del secolo,
tuttavia, «La Civiltà Cattolica» ne pubblicò ampi stralci e nel 1883 uscì
a Prato, con l’imprimatur della diocesi, un’edizione integrale intitolata Il
sangue ebraico nei riti ebraici della moderna sinagoga. Il pubblico italiano
52
Streghe e cospiratori
ebbe così finalmente la possibilità di leggere un testo che rilanciava la
leggenda dell’omicidio rituale in una chiave rinnovata che si saldava alle
paure suscitate dai movimenti modernisti in ambito sia cattolico che russoortodosso, da cui il falso verosimilmente proveniva.
Le streghe appartenevano al passato, ma il complotto diabolico continuava grazie a una nuova alleanza tra il Maligno e i sovversivi di ogni
risma – tra i quali, inevitabilmente, non potevano che abbondare gli ebrei
– che minacciavano di scardinare l’ordine sociale.
Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, era un cattolico conservatore che per un certo periodo ricoprì l’incarico di ministro della polizia
del Regno di Napoli. A suo giudizio i nemici giurati della fede e del regno
erano carbonari e massoni. Ne era tanto convinto che nell’esercizio del suo
mandato concesse sedicimila licenze di porto d’armi alla setta anti-massonica dei «Calderari» incoraggiandoli a svolgere al meglio la loro missione.
Nel 1820, costretto all’esilio perché accusato di fomentare la guerra civile,
scrisse I piffari della montagna, un pamphlet «nel quale denunciava l’esistenza di una rete internazionale di rivoluzionari al cui interno militavano riformatori inglesi, giacobini, carbonari».1 Nella sua ricostruzione dei
complotti del presente gli ebrei non compaiono apertamente, ma diventano
il modello del vituperato moderno rivoluzionario: la condanna di Cristo,
infatti, fu segretamente progettata da «quelli che si univano in Gerusalemme clandestinamente, […] i carbonari di quel tempo».2
Nel 1850 i primi numeri de «La Civiltà Cattolica» pubblicarono
L’ebreo di Verona, un romanzo a puntate scritto dal gesuita Antonio Bresciani. La stesura del testo era stata seguita di persona da papa Pio IX, che
evidentemente ne condivideva la visione di una Chiesa perseguitata da una
rete settaria che includeva l’ebraismo internazionale, la massoneria e i circoli intellettuali liberali. Le pagine conclusive del romanzo riecheggiano
la memoria del sabba satanico: durante le riunioni segrete dei cospiratori
anti-cattolici si adorava il diavolo e si profanava l’ostia.
Un decennio dopo il cappuccino Stefano San Pol Gandolfo scriveva
che «gli Ebrei in pena del commesso deicidio non hanno patria […]. E chi
più erranti e zingari dei rivoluzionari? Ecco perché, o Sire, i rivoluzionari
1. Tommaso Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antiebraico da medioevo a oggi, Roma, Viella, 2007, pp. 156-157.
2. Ivi, pp. 157
I secoli XIX e XVIII
53
sono tutti ebrei e tutti gli Ebrei sono rivoluzionari».3 Si consolidava allora
quel nesso tra ebraismo internazionale e cospirazioni rivoluzionarie che
diventerà un luogo comune dell’antisemitismo moderno – un topos duro a
morire in cui ancora oggi capita di imbattersi.
Gli ebrei, dunque, continuavano a ossessionare. La loro presenza nei
complotti è una tragica costante. Cambiano invece i complici: gli ebrei
sono stati di volta in volta considerati alleati dei capitalisti contro il socialismo, dei rivoluzionari socialisti e giacobini contro la società borghese, dei
massoni contro la Chiesa. Prima ancora gli ebrei erano stati complici del
Demonio e dei suoi accoliti, streghe e stregoni. Se nell’Ottocento la dimensione più schiettamente religiosa del complotto tendeva a sfumare in quella
politica – anche nelle riletture delle trame ebraiche da parte della Chiesa
cattolica l’attacco sembra essersi spostato principalmente sul piano della
destabilizzazione sociale – il secolo XVIII rappresentò invece un’epoca di
passaggio in cui i due aspetti convissero.
Mentre il paradigma della congiura stregonesca, come vederemo, entrava in crisi già prima dell’impatto del pensiero illumista sull’opinione
pubblica, la teoria del complotto assumeva rapidamente nuove e molteplici forme. Il contagio del complotto aveva ritrovato vitalità nel corso
dei magmatici anni della rivoluzione francese. In Francia assunse l’aspetto
della minaccia portata dai nemici interni ed esterni del nuovo ordine, nel
resto d’Europa, con un rovesciamento speculare, prevaleva l’allerta per la
possibile infiltrazione dei sovversivi filo-giacobini.
Giacobini e anti-giacobini in Europa.
Tra i contributi dell’Illuminismo alla cultura politica europea ce n’è
uno dagli effetti ambivalenti: il trasferimento dell’utopia nella storia con
il tramite del concetto di progresso. L’affermarsi dell’idea di progresso si
intreccia strettamente con il processo di secolarizzazione che nel secolo
XVIII coinvolse l’Europa e, con caratteristiche originali, l’America del
nord. Ciò avvenne anche mediante la ricollocazione di concetti religiosi.
Le energie e le speranze che abitavano la sfera della fede cominciarono a
tornare sulla terra. L’affermazione del rivoluzionario francese Saint-Just
secondo il quale la felicità era un’idea nuova in Europa suggerisce che
3. Ivi, pp. 160.
54
Streghe e cospiratori
altrove non lo fosse più. Il riferimento è probabilmente alle prime righe
della Dichiarazione d’Indipendenza americana, che riconoscono nella
felicità uno dei diritti inalienabili dell’uomo. Si tratta di un’affermazione
ispirata più o meno direttamente al pensiero di John Locke, ma che si
sovrapponeva al provvidenzialismo puritano dei coloni.
La storia divenne il luogo in cui l’utopia era destinata a realizzarsi,
con esiti fin dall’inizio complessi e contraddittori, non di rado tragici e
paradossali. Le vicende del matematico, scienziato e filosofo Condorcet
ne sono la drammatica testimonianza. Il suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, pubblicato postumo nel 1795, è
«una testimonianza sconvolgente di un’incrollabile fede nel progresso che
fa tutt’uno con l’utopia. Condorcet redige il suo testo in pieno Terrore, di
nascosto; braccato, viene messo fuori legge, appena terminato l’Esquisse
viene arrestato».4 Condorcet si avvelenò in prigione per sfuggire al disonore della pubblica ghigliottina.
Il Terrore rivoluzionario, peraltro, si appoggiava precisamente sulla
volontà di trasferire il discorso utopico nella prassi politica. Sul medesimo
terreno – con la mediazione del socialismo di Fourier, Sain Simon e Owen
– s’innestò in seguito anche il marxismo rivoluzionario per il quale la realizzazione dell’utopia costituiva l’esito della storia.
Il giacobinismo era nato da un circolo fondato da quarantaquattro
deputati bretoni progressisti che si ritrovavano per discutere le proposte
dell’Assemblea Generale. Il club accolse in un secondo momento membri esterni, patrioti e intellettuali come Mirabeau, Lafayette e Robespierre.
Con la fuga del re e il suo arresto a Varennes il giacobinismo originario finì
e si mutò in qualcosa di profondamente diverso. Dopo la presa del potere
da parte dei rivoluzionari i militanti giacobini divennero il braccio armato
del partito di Robespierre, incaricati di «denunciare gli individui sospetti,
di braccare i nobili e preti refrattari: sono lo strumento della dittatura parigina e il braccio del Terrore, al tempo stesso tribunale ed esercito».5
Il ricorso sistematico alla denuncia era motivato dalla precarietà della
Rivoluzione e dal pericolo costante che la minaccia. Era fortissima la percezione dei rivoluzionari di essere circondati da potenze ostili e minacciati
4. Bronisław Baczko, Utopia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, VIII, Roma, Istituto dell’Encliclopedia Italiana, 1998, pp. 733-73, p. 736.
5. Mona Ouzuf, Massimo Salvadori, Giacobinismo, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, IV, Roma, Istituto dell’Encliclopedia Italiana, 1994, pp. 291-298, p. 393.
I secoli XIX e XVIII
55
da nemici interni visibili e invisibili. Moderati e radicali finirono per considerarsi reciprocamente come capisaldi «della corruzione e dell’attività
controrivoluzionaria […]. In tal senso, il trionfo del Giacobinismo con il
Terrore (e l’emergere della denuncia come fattore di governo elevato a
sistema) non ha alterato il carattere essenziale del discorso rivoluzionario
sul nemico»6 e prefigura quello della Guerra Fredda. L’intervento di Basire
all’Assemblea Legislativa nel novembre 1791 verte sul complotto: «Noi
siamo circondati da cospiratori; ovunque si preparano complotti e voi ricevete di continuo denunce di singoli fatti che sono tutti collegati alla cospirazione maggiore, sulla cui esistenza nessuno può avere dubbi. Questi fatti
sono separati e, se li mettiamo insieme, essi compongono un unico grande
crimine che fa luce sulle intenzioni dei nostri nemici».7
L’Appello alla nazione di Jena-Paul Marat del 15 febbraio 1790 evoca la memoria dei censores dell’antica Roma proponendone una versione
rinnovata, e decisamente alterata rispetto al modello antico, in cui dei rappresentanti del nuovo governo in ogni città avrebbero avuto il compito di
denunciare i traditori ai tribunali rivoluzionari – luogo di azione giuridica
e politica che nel Novecento godrà di una rinnovata e macabra fortuna.
Quella di traditore è una nozione estremamente manipolabile che finisce
per trasformarsi in un contenitore in cui far convergere tutte le difficoltà
incontrate dal nuovo regime.
La denuncia alla Madrepatria dei traditori e delle attività
controrivoluzionarie si costituisce dunque come un dovere civico,
espressione della loro vigilanza sul buon esito della Rivoluzione, ma
anche, lo afferma esplicitamente Marat, a pieno titolo come un diritto del
cittadino. La delazione rendeva il nuovo cittadino protagonista diretto
dell’azione rivoluzionaria e superava la delega della difesa dello Stato
alle forze di polizia. Che la denuncia fosse interpretata come un atto di
cittadinanza lo conferma un discorso di Etienne Berry del 25 luglio 1793:
le denunce rivoluzionarie andavano incoraggiate in quanto strumento di
radicamento del nuovo regime in tutto il territorio nazionale. Esse – proprio
come le denunce all’Inquisizione – non avrebbero mai dovuto comportare
6. Colin Lucas, The Theory and Practice of Denunciation in the French Revolution,
in Accusatory Practices. Denunciation in Modern European History, 1789-1989, a cura
di Sheila Fitzpatrick, Robert Gellately, Chicago, University of Chicago Press, 1997 (già
pubblicato come numero monografico del Journal of Modern History, Vol. 68, No. 4, December 1996), pp.22-39, p. 24.
7. Citato in Ibidem.
56
Streghe e cospiratori
conseguenze per il denunciante. Meno di due mesi dopo l’intervento di
Berry, precisamente il 17 settembre 1793, venne promulgata la Legge dei
Sospetti, che consentiva l’arresto immediato sulla base di semplici sospetti
anche in assenza di prove.
L’arresto di Danton, il leader rivoluzionario messo a tacere in un crescendo di ossessione complottista, sorta di Trotzkji ante litteram, fu eseguito in seguito alla denuncia sporta da Saint-Just l’11 Germinale dell’anno
2, ovvero il 31 marzo 1794. Con un linguaggio quasi sovietico, l’accusa
identificava Danton come un agente del passato regime, regista di un complotto mirante alla restaurazione della tirannia: «Danton, tu eri complice
di Mirabeau, d’Orléans, Dumouriez, Brissot»; «Cattivo cittadino, tu sei
un cospiratore».8 Quando Jacques-Alexis Thuriot, reagendo ad accuse
analoghe a quelle piovute su Danton, sostenne la sua credibilità di rivoluzionario appoggiandosi alle tante azioni compiute a favore della Rivoluzione, delle quali non mancavano i testimoni, Jean-René Hébert ribatté
esprimendo concetti che sarebbero risuonati assai simili in bocca al terribile procuratore sovietico Višinskji: «Cosa dimostrano i servizi resi alla
Rivoluzione? I cospiratori adottano sempre questo metodo. Per ingannare
il popolo lo si deve servire; si deve conquistare la sua fiducia per meglio
tradirlo».9
Nel frattempo, nel resto d’Europa serpeggiava un panico di segno opposto. Il timore di possibili infiltrazioni giacobine stimolò capillari attività di repressione poliziesca. Le opinioni sospette, soprattutto se diffuse a
mezzo stampa, bastavano a giustificare indagini e arresti. In Inghilterra la
paura destata dalla rivoluzione francese produsse una cultura del sospetto e
del controllo che condizionò la politica e la vita sociale. Perfino i tagli dei
capelli alla moda erano condizionati dal timore di venire percepiti come
simpatizzati filo-giacobini, ovvero nemici della patria.
Con la sconfitta di Napoleone anche in Francia la repressione colpì
l’espressione aperta di opinioni sospettabili di una parentela con il giacobinismo più estremo e sovversivo. La diffusione di dicerie complottiste
divenne un modo di manifestare opinioni anticlericali e anti-nobiliari.
Ad esempio, nel 1849 tra i contadini della regione di Lalinde circolò la
voce che il marchese di Gourgues, candidato all’Assemblea legislativa,
nascondesse nel suo castello un centinaio di gioghi ai aveva pianificato
8. Citato in Ivi, p. 34.
9. Citato in Ivi, p. 38.
I secoli XIX e XVIII
57
di appendere i contadini. La borghesia rurale non di rado sfruttò a proprio
vantaggio la paura contadina di un ritorno degli antichi privilegi e si adoperò «ad avvalorare con dicerie il convincimento di un complotto mitico che
non cesserà di ossessionare la massa contadina fin verso la conclusione del
secolo».10
La fine della stregoneria: dalla congiura alla truffa
Durante il secolo dei Lumi si verificò uno spostamento di campo
che avrebbe condotto a una sorta di laicizzazione del complotto. Fu in
quest’epoca che la congiura diabolica, oggetto centrale della seconda parte
di questo libro, perse progressivamente sostanza giuridica e passò a essere
rubricata dalla voce «congiure» a quella «truffe».
In gran parte dell’Europa nella seconda metà del secolo XVIII
l’orizzonte della scienza e della giurisprudenza è ormai decisamente cambiato rispetto al secolo precedente. Un cambiamento di paradigma giuridico non significa però che la catena di trasmissione si spezzi del tutto.
Mi spiegherò meglio facendo riferimento a un esempio parigino del 1702.
Nel corso di quell’anno venne alla luce un giro di loschi personaggi dediti
a pratiche scopertamente sataniche. Solo cinquanta anni prima (altrove
anche meno) il quadro sarebbe stato drammaticamente inquietante; i fatti
accertati sarebbero stati ritenuti di estrema gravità avrebbero messo prontamente in moto la macchina giudiziaria e inquisitoriale, che vi avrebbe
ravvisato un elaborato e avanzato complotto satanico – e si badi bene che
questa volta si trattava di autentici tentativi di evocazioni del demonio, non
di interpretazioni distorte di credenze folkloriche da parte delle autorità
ecclesiastiche e civili. Invece non accade nulla del genere. Il luogotenente
di polizia René Voyer, conte di Argenson, intitola il suo rapporto Memoria
sui falsi stregoni che abusano della credulità pubblica; ne sono l’oggetto
«i falsi indovini, i sedicenti stregoni, coloro che promettono la scoperta
di tesori o la comunicazione con gli spiriti; infine tutte le persone che distribuiscono polveri, talismani o pentacoli».11
10. ��������������
Alain Corbin, Un villaggio di cannibali nella Francia dell’Ottocento, Roma-Bari,
Laterza, 1991, p. 6 (corsivo mio).
11. ����������������
Robert Mandrou, Possessione et sorcellerie au XVII siècle, Paris, Fayard, 1979,
p. 279.
58
Streghe e cospiratori
Tutto finì pertanto classificato a un livello di criminosità di gran lunga
inferiore, gli imputati furono giudicati e condannati come semplici imbroglioni fantasiosi. I tempi dell’inquisizione e dei roghi sembrano lontanissimi (ma Caterina Ross di Poschiavo era stata bruciata solo cinque anni
prima), le valutazioni degli inquirenti assomigliano a quelle che ai nostri
giorni accompagnano le denunce che periodicamente colpiscono le truffe
di maghi e imbonitori televisivi. Eppure, come anticipavo, malgrado il
cambio radicale di paradigma interpretativo, la memoria del conte di Argenson ci racconta anche la vitalità dell’immagine della setta dei congiurati che stringono un patto con il demonio in cambio di vantaggi personali.
Leggiamo il profilo di alcuni di questi «congiurati».
Jemme pretende di aver stretto dei patti con il Diavolo, vende libri e manoscritti
di magia, distribuisce pentacoli consacrati [ponendoli] sull’altare sotto la santa
ostia […]. La Dassigny […] che ha fatto un accordo con il Diavolo […]. La
Toussaint, figlia di un droghiere, che ha fatto un patto con il Diavolo per ottenere delle ricchezze.12
L’abate Le Fevre, era uomo «di un’empietà dichiarata; non solo cerca
dei tesori e conclude degli accordi con gli Spiriti [maligni], ma si dedica ai
rituali più criminali e nessun genere di sacrilegio sfugge alla sua curiosità
sacrilega».13 C’era poi Chevalier che «volendo stringere un patto solenne
con il demonio si era munito di alcune ostie consacrate che portava sempre
in una busta di cuoio rosso».14
La paura dei complotti rimaneva, anche se la vittima era sempre
meno la Chiesa e sempre più lo Stato. In generale, va osservato che la
ristrutturazione dello Stato in senso moderno ha comportato anche la
riorganizzazione del sistema repressivo e, in tale ambito, la valorizzazione
della pratica della denuncia. A Venezia le fauci spalancate del Leone di
San Marco accoglievano le denunce dei cittadini, in Russia il dovere
della denuncia fu promosso a più riprese; nella Francia pre-rivoluzionaria
la polizia ricorreva a spie odiatissime dalla popolazione, tanto che il
rivoluzionario Pierre-Jean Agier, in un intervento del 30 novembre 1789
all’Assemblea dei rappresentanti della Comune, aveva sentito il bisogno
12. �����������������
Ivi, pp. 285-288.
13. ������������
Ivi, p. 298.
14. �����������������
Ivi, pp. 302-303.
I secoli XIX e XVIII
59
di precisare che «per quanto riguarda la delazione, il silenzio è una virtù
sotto il dispotismo, ma è un vero e proprio crimine sotto il governo della
Libertà».15
La Rivoluzione Francese si stava avvicinando. Lontano dalla Francia, nell’Europa orientale la filosofia dei Lumi faticava a uscire dalle corti,
nelle campagne si celebravano gli ultimi processi per stregoneria, ma i
tempi erano ormai cambiati: il patto con il diavolo stava definitivamente
uscendo dall’orizzonte culturale europeo.
Per altri tipi di oscuri complotti, però, di spazio ce ne sarebbe stato
ancora.
15. �����������������
Citato in Lucas, The Theory and Practice of Denunciation in the French Revolution, p. 27.
Parte II.
Eretici, streghe e vampiri
Dalle streghe ai vampiri
Il folklore dell’Europa centrale e orientale, si sa, è ricco di manifestazioni ferali che, ispirando i romanzieri e più recentemente i cineasti, da
ormai due secoli hanno superato i confini originali e sono entrate a far parte
di un immaginario più vasto. Per questo può risultare interessante per il
lettore riferire della curiosa coincidenza osservata dallo storico Gabor Klaniczay: la riduzione e poi la fine dei processi per stregoneria nell’Europa
orientale ha coinciso con l’apparizione di crescenti scandali legati al vampirismo. In Ungheria i processi per stregoneria subirono se non un arresto
almeno un drastico calo a partire dal 1756, quando l’imperatrice ordinò che
gli atti dei processi per stregoneria in corso fossero sottoposti alla verifica
di esperti giuristi prima dell’esecuzione delle sentenze da parte delle corti
locali. Ebbene, gli esperti delle corti d’appello imperiali «ribaltarono quasi
tutte le sentenze per stregoneria, ricorrendo ai più moderni strumenti giuridici e scientifici per sanzionare le accuse infondate».1
Parallelamente alla messa in discussione ufficiale del paradigma diabolico-stregonesco, tuttavia, si verificò un fenomeno inatteso: il manifestarsi di epidemie di vampirismo. Dopo poche e oscure testimonianze
medievali, nel secolo XVII i racconti relativi alle mostruose creature che
succhiavano il sangue dei viventi presero a moltiplicarsi. I primi casi chiari
di vampirismo sono documentati in Slesia nel 1591, in Boemia nel 1618
e nei dintorni di Cracovia nel 1624. Le origini delle credenza nei vampiri
1. Gabor Klaniczay, The Uses of Supernatural Power, Princeton, Princeton University Press, 1990, p. 171.
62
Sttreghe e cospiratori
puntano decisamente verso il mondo slavo, ma a partire dal secolo XVIII
l’opinione pubblica europea cominciò ad associare i vampiri soprattutto
con l’Ungheria. La ragione del trasferimento si fonda sull’evidenza che le
più eclatanti (e meglio coperte dalla stampa dell’epoca) epidemie di vampirismo esplosero effettivamente in territori magiari.
Nel 1718 il panico scoppiò a Lubló, posta sul confine polacco-ungherese, e nel 1720 esplose ancor più acuto a Késmárk, nell’Ungheria settentrionale, e a Brassó e Déva, in Transilvania. Uno dei casi più celebri, tuttavia, si verificò non in un Ungheria, ma in Serbia. Nel 1730 molti giornali
europei riferirono il caso dello hajdú (sorta di soldato contadino) Arnold
Paul. La sua storia ci è giunta in resoconti decisamente favolistici: pare che
egli avesse confidato di essere tormentato da un vampiro turco e che avesse
invano tentato di liberarsene – ad esempio mangiando terra proveniente
da tombe di presunti vampiri; poco tempo dopo morì e divenne lui stesso
un vampiro. La stampa diede ampio risalto agli aspetti più raccapriccianti,
come la riesumazione del cadavere quaranta giorni dopo il decesso al fine
di neutralizzarlo mediante il rituale del palo conficcato nel cuore: quando
venne trafitto il vampiro lanciò un grido agghiacciante e dalle sue vene
schizzò fuori sangue come se fosse stato vivo.
La discussione non era destinata a spegnersi tanto presto; al contrario,
nel corso degli anni ’40 del secolo le denunce di casi di manifestazioni di
vampiri aumentarono in Serbia, Moravia e nella oggi proverbiale Transilvania. Questi eventi avviarono un intenso dibattito sui vampiri che si concretizzò nella pubblicazione di diversi lavori più o meno scientifici dedicati
all’argomento. Tra le opere più interessanti va certamente annoverata la
Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati. Era questi un sacerdote pugliese – fu arcivescovo di Trani, dove morì nel 1755 – di ottima
cultura e poco incline ad accettare la realtà del soprannaturale. La Dissertazione venne data alle stampe per la prima volta a Napoli nel 1774, ma
la sua redazione manoscritta – e l’immediata circolazione negli ambienti
dotti internazionali – risale in realtà al 1739. Come egli stesso annotò nella
prefazione all’opera, la curiosità per l’argomento era sorta in lui dopo aver
sovente conversato a Roma con il cardinale Schrattembach, vescovo di
Olmutz, il quale, una sera gli
fece con molta riserva sapere di avere nella posta ricevuto una distinta relazione
dal suo concistoro di Olmutz, nella quale que’ signori officiali gli davano notizia,
come il morbo o la strage de’ Vampiri era molto dilatata nella provincia della
Eretici, streghe e vampiri
63
Moravia sua diocesi; e che quantunque avessero adoperato i soliti espedienti
per frenare il malore, tuttavia con molto loro dispiacimento vieppiù si dilatava
con morte ed esterminio di quella povera gente.2
Il carattere della relazione è schiettamente epidemiologico:
i suddetti Vampiri succhiandosi tutto il sangue, atteso ch’erano molto ingordi
ed avidi di sangue umano, riducevano i poveri pazienti in pochi giorni esangui,
squallidi ed emaciati fin a tanto che brevemente […] se ne morivano miseramente. Coloro che in tal guisa morivano divenivano similmente […] Vampiri,
ed apparendo agli altri, come i primi, cagionavano colla loro comparsa finalmente a quelli la morte; di modo tale che questa disgrazia, diffondendosi a
guisa di un morbo pestifero, fra la gente, erano ormai ripieni i sepolcri, i cimiteri di Vampiri.3
A quanto pare, nelle reazioni delle autorità convivevano rigore formale
– con l’apertura di un caso presso il tribunale – e credenze folkloriche: i
tribunali, infatti, spesso incaricavano un boia di aprire il sepolcro del Vampiro, mozzargli la testa e trafiggergli il cuore con la spada.
Nella prima metà del secolo XVIII la stampa diede spesso notizia di
queste epidemie di vampirismo. Davanzati riprende alcuni episodi, tra i
quali il citato caso del serbo Arnold Paul, e li compara con una serie di
evenienze di ritorno dei defunti attestate nella letteratura classica; espone
poi una serie di elaborate teorie volte a spiegare il vampirismo, ma solo per
smontarle una dopo l’altra e giungere alla conclusione che la sola interpretazione plausibile risiede nella credulità e all’ignoranza:
Vorrei per mia curiosità domandare a cotesti signori Vampiristi perché
queste sì strepitose apparenze, o siano di diavoli o siano di uomini già morti,
accadono solamente in coteste parti, cioè in qualche villaggio della Moravia e
dell’Ungheria, come anche perché si faccino quelli solamente vedere da uomini
e da donne semplici, dozzinali e di bassa lega. E non accadono in altre parti
principali di Europa, ed appresso persone nobili e di qualità, oppure scienziati,
e di qualche dignità? […]. Diciamolo pure apertamente. Essendo cotesta
gente dove si dice accadere queste apparizioni gente idiota ed ignorante e
2. Giuseppe Davanzati, Dissertazione sopra i vampiri, a cura di Giacomo Annibaldis,
Nardò (Le), BESA, 1997 (prima edizione a stampa 1774), p. 21.
3. Ivi, pp. 21-22.
64
Sttreghe e cospiratori
semplice, dedita molto al vino […] mantenuta in parimenti in simile credenza e
superstizione da’ loro piovani parimenti creduli ed ignoranti facilmente avviene
che […] quella gente, la quale si crede, peraltro senza mentire, di vedere cogli
occhi propri quegli uomini morti comparire […].4
Il manoscritto del Davanzati conobbe un buon successo ed ebbe tra
i sostenitori papa Benedetto XIV, che lo lesse e ne apprezzò le argomentazioni e le tesi. Si conoscono occasioni in cui il pontefice, sollecitato ad
esprimere un parere sui vampiri, si espresse in termini non troppo dissimili
da quelli del prelato di Trani. Ad esempio, rispondendo a una richiesta
specifica dell’arcivescovo di Leopoli, egli inviò una pungente lettera pastorale in cui dichiarava ironicamente che in Polonia si godeva di grande
libertà se era consentito andarsene a spasso anche da morti.
Come spiegare l’insorgenza del vampirismo? Semplificando, si
potrebbe partire dalla constatazione che al pari dei santi, i vampiri sono
morti diversi dagli altri, e ancor più delle streghe si prestavano a rappresentare l’inversione maligna del modello cristiano del santo. L’associazione,
pur rovesciata, era stata correttamente percepita, visto che lo stesso Papa
Benedetto XIV avvertì la necessità di menzionare la «vana credenza nei
vampiri» in un suo trattato del 1752 dedicato alla canonizzazione dei santi.5
L’emergere del vampirismo potrebbe pertanto essere letto insieme
come sfida all’ortodossia e come conferma. La conferma riguarda la rinnovata funzionalità del nuovo panico ai fini di ribadire i concetti chiave del
messaggio cristiano presso le comunità di villaggio bisognose di acculturazione. La sfida attiene in misura maggiore alle componenti vernacolari presenti nella stregoneria, che funzionava come sistema sbrigativo, ancorché
rischioso, per la risoluzione di conflitti latenti e stagnanti, apparentemente
bloccati. La sua scomparsa ha significato la sottrazione alla comunità di un
potenziale utensile culturale, che il vampirismo ha in parte compensato, attuando contemporaneamente uno spostamento di attenzione degno di nota:
il nemico da accusare non era più un vicino o un conoscente, ma un morto.
Una soluzione decisamente meno pericolosa per la stabilità del tessuto sociale – ma altrettanto disturbante per la psicologia individuale.
Come spesso accade, tuttavia, alle motivazioni legate ai contesti
4. Ivi, pp. 119-120.
5. Klaniczay, The Uses of Supernatural Power, p. 182.
Eretici, streghe e vampiri
65
particolari in cui un determinato fenomeno si manifesta e si evolve, se ne
aggiungono altre più profonde che ne costituiscono le basi, la componente
latente. I vampiri, in effetti, sono figli della loro epoca, ma vengono anche
da molto lontano: dalle credenze nella possibilità del ritorno dei morti e
nelle procedure tradizionali per scongiurare il ripetersi dell’evento. Le
apparizioni settecentesche appartengono al mondo slavo e magiaro, ma è
dalle vicine terre germaniche che provengono le testimonianze medievali
relative a credenze affini a quelle registrate dalla pubblicistica del secolo
XVIII. Intorno al Mille Burcardo di Worms, vescovo della città, redasse
un manuale per confessori, oggi noto come Corrector, che metteva a
disposizione dei sacerdoti della diocesi una lunga lista di domande da porre
ai fedeli al momento della confessione dei peccati. Molte delle domande
sono tratte da opere precedenti e appartengono alla tradizione dei libri
penitenziali; altre, però, in numero non trascurabile, fanno riferimento a
credenze e pratiche popolari che, non in linea con l’insegnamento della
Chiesa, dovevano essere corrette per mezzo dell’assegnazione di penitenze.
Quella che qui ci interessa è l’usanza di trafiggere con un cuneo di legno
un bambino morto senza battesimo per allontanare il rischio che questi
ritornasse a tormentare i vivi. Si tratta di un notevole caso di interferenza
tra una credenza cristiana e una tradizionale. La prassi denunciata è infatti
attestata anche nelle saghe scandinave, dove il rimedio è esplicitamente
volto ad impedire la manifestazione del draugr, il morto che ritorna per
terrorizzare e minacciare i vivi, soprattutto coloro con i quali il defunto
aveva lasciato dei conti in sospeso. Nelle Gesta Danorum di Sassone
Grammatico, autore colto del secolo XIII che recepisce una gran mole di
materiale tradizionale, del macabro rimedio dell’infissione di un palo nel
cuore è vittima il cadavere di un certo Mithotin, mago e usurpatore:
Le sue malefatte si manifestarono anche dopo la sua uccisione poiché chi si
avvicinava al suo sepolcro moriva improvvisamente, e anche dopo la morte
il suo corpo produsse un gran numero di pestilenze che sembrava quasi avere
lasciato ricordi più ripugnanti da morto che da vivo, come se intendesse esigere
vendetta dai colpevoli. Dopo essere stati colpiti da queste calamità gli abitanti
del luogo riesumarono il cadavere, lo decapitarono e gli trafissero il petto con
un bastone acuminato: così la gente risolse il problema.
6
6. Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, a cura di Ludovica Koch,
Torino, Einaudi, 1993, p. 49 (I, VII, 2).
66
Sttreghe e cospiratori
Ancora in Sassone, un draugr si manifesta come uno spettro le cui
sembianze umane appaiono deformate da tratti mostruosi. Il mostro dalle
lunghe unghie affilate divora «con denti feroci» un cavallo e sbrana un
cane «con bocca mostruosa», e si avventerebbe anche su un uomo se costui, pronto nella reazione quasi se l’aspettasse e si fosse preparato in anticipo, non riuscisse a tagliargli la testa e a conficcargli immediatamente
un paletto nel petto.
Manca in queste testimonianze una sola delle caratteristiche che
contraddistinguono i vampiri slavi e ungheresi: la sete di sangue umano (mentre, si noti per inciso, nelle fonti settecentesche non compare
l’elemento notturno che diventerà un luogo comune prima nella narrativa
e poi nel cinema: i vampiri agivano ancora anche alla luce del sole); per il
resto è chiaro che le epidemie di vampirismo attingevano a credenze folkloriche le cui più antiche attestazioni provengono dall’area germanica.
L’Ungheria, in cui il picco delle persecuzioni contro la stregoneria si
raggiunse in una fase assai tardiva, tra 1700 e 1750, è una regione in cui gli
atti dei processi documentano la presenza di elementi peculiari; ad esempio compaiono persone che, accusate di aver partecipato al sabba, dichiararono di esserci andati perché rapite con la forza e contro la loro volontà.
Le specificità delle testimonianze magiare deriva spesso dall’emergenza di
particolari tradizioni locali, come la credenza che streghe e stregoni potessero assumere le sembianze di altri individui per commettere dei crimini.
Le testimonianze dei processi parlano di streghe che assumono sembianze
maschili e addirittura molestano altre donne con atti lascivi. Una donna
accusata di aver succhiato il sangue di un certo István Kosma attraverso l’ombelico dichiarò – si badi, però, sotto tortura – che a succhiargli
il sangue era stata la moglie di lui, ma sotto le sembianze dell’imputata.
Gli inquisitori, senza saperlo, furono davvero gli involontari predecessori
dei moderni etnologi. Il materiale da loro raccolto ci informa della tenace
vitalità nell’Europa orientale e nelle regioni baltiche di credenze di tipo
sciamanico, come la possibilità di trasferire temporaneamente l’anima di
un uomo a un suo doppio animale o le metamorfosi in lupo mannaro in
specifiche occasioni calendariali (ma non ancora, attenzione, in corrispondenza dei pleniluni).
Eretici, streghe e vampiri
67
I marchi del demonio
Era il 1697, quando il podestà di Poschiavo, nel cantone svizzero dei
Grigioni, presso l’attuale confine italiano, interrogò in carcere una donna di
nome Caterina Ross. La data tardiva del processo si spiega probabilmente
con la tenacia con la quale la cultura folklorica ha resistito nel relativo isolamento delle più riposte valli alpine. Il dialogo tra il podestà e l’imputata
svela che in passato anche la nonna dell’imputata era stata condannata – e
giustiziata – come strega. Dalle risposte di Caterina emerge inoltre che in
paese le «cattive lingue [...] sospettavano che havessi imparà qualche catif
arte […] da mia ava».7
Dunque, prima la nonna era stata giustiziata come stria, poi la madre.
Alla terza generazione, di nuovo l’accusa si ripresenta, e sono i vicini,
prima ancora dei giudici, a ritenere che la tara della mala arte stregonesca
si trasmettesse necessariamente di madre in figlia o di nonna in nipote. Era
questo che avveniva, d’altronde, per le conoscenze tradizionali delle levatrici e delle guaritrici. Il sapere tradizionale di queste ultime correva lungo
una linea di confine che facilmente le trasformava in potenziali fattucchiere maligne. L’eventualità che tale cambiamento di segno si concretizzasse
divenne più probabile nel momento in cui, grazie ai sermoni e soprattutto
ai processi, il punto di vista degli inquisitori tendeva a sedimentarsi e a
trasformarsi in opinione diffusa.
Caterina respinse le accuse, definendole calunnie, ingiurie prive di
fondamento. Quasi un mese dopo l’arresto il giudice valutò che gli indizi contro la sospettata, che non aveva ancora ammesso nulla, fossero
tali da giustificare un’ispezione corporea alla ricerca dei segni visibili del
patto con il diavolo. Dunque il tribunale dispose un’ispezione corporale, la
quale, prevedibilmente, rivelò la presenza dei marchi diabolici:
il Maistro di Giustizia riferisce haver fatto la visita del corpo di detta Caterina
tenor comando a lui imposto e di haver ritrovato 2 segni uni sopra il braz drit
[braccio destro] e l’altro sopra la gamba sinistra quali ambiduoi dice sijno segni tenor le streghe solano avere cioè li bolli fattoli dal Diavolo.8
20.
7. Citato in Luisa Muraro, La signora del gioco, Milano, La Tartaruga, 2006, pp. 198. Citato in Ivi, p. 30.
68
Sttreghe e cospiratori
A quel punto Caterina non ebbe più scampo. Sottoposta a tortura,
fece le prime ammissioni: quello che molti vicini insinuavano, ovvero che
aveva appreso l’arte del maleficio dalla nonna, era vero. Le deposizioni
proseguirono in modo discontinuo tra ammissioni e ritrattazioni, ma ormai
la via imboccata era senza ritorno. Ogni tentativo di fare retromarcia si
scontrava con la minaccia o l’attuazione della tortura. Sua nonna, strega
e procuratrice del demonio, le fece «renegare Iddio e la Santissima Trinità», la bollò nella gamba sinistra e la condusse in una località chiamata
Cavresci, un’altura fuori mano dove donne mascherate ballavano in compagnia di un giovane vestito di turchino, Satana in uno dei suoi accattivanti
travestimenti.
Dopo aver confermato formalmente la confessione resa, Caterina Ross
venne affidata al boia. Prima del supplizio capitale, nella pubblica piazza,
ritrattò e gridò di «non saper arte di strega e di non haver fatto tali cose».9
Era troppo tardi.
La ricerca del marchio del demonio, tatuaggio a suggello del patto, era
una pratica da tempo in uso nei tribunali ed era riconducibile all’idea che
l’appartenenza alla setta demoniaca prevedesse l’apposizione da parte del
demonio di un marchio segreto o, in alternativa, la desensibilizzazione di
una piccola area cutanea. Il lettore potrebbe restare sconcertato scoprendo
che pochi secoli prima una santa, Douceline di Hyères, durante i suoi rapimenti estatici perdeva la sensibilità in alcune parti del corpo, esperienza
«accertata personalmente da altri membri della congregazione conficcando
degli aghi nella pelle di Douceline».10
Ventisei anni prima del processo di Poschiavo, una memoria del presidente del parlamento di Rouen, Claude Pellot, aveva messo in discussione
i punti fermi intorno ai quali si organizzava il processo per stregoneria.
Pellot non era un precursore dell’illuminismo laico; al contrario, per redigere il testo era ricorso alla consulenza di un sacerdote. La confutazione
della realtà del volo magico e del sabba si appoggiava a un ritorno alle più
scettiche fonti tardoantiche e altomedievali, in primo luogo il De spiritu et
anima di Agostino e l’altomedievale Canon Episcopi. Riguardo al marchio
Claude Pellot scrisse che «questo marchio insensibile che a volte si trova
non è un crimine. Ci sono medici che ritengono che esso possa verificarsi
103.
9. Citato in Ivi, p. 52.
10. ���������������
André Vauchez, Esperienze religiose nel medioevo, Roma, Viella, 2003, pp. 102-
Eretici, streghe e vampiri
69
naturalmente; e quand’anche ne fosse autore il diavolo, non sono da punire
i posseduti, nei quali fa delle cose ben più sorprendenti» (se il percorso
giuridico e teologico dell’insensibilità cutanea volgeva al termine, non così
era per quello clinico: un paio di secoli dopo la memoria di Claude Pellot, a
fine Ottocento, la presenza di zone insensibili nella cute sarebbe riapparsa
tra i sintomi tipici dell’isteria).11
L’idea che Satana marchiasse personalmente i suoi, originatasi nella
demonologia colta, era da tempo sedimentata anche nella cultura popolare.
Nel 1606, per esempio, una ragazzina di quattordici anni, Magdeleine des
Aymards, di Riom in Alvernia, si autodenunciò confessando la partecipazione al sabba e il patto col diavolo; contestualmente, si dichiarò pentita e
chiese il perdono della Chiesa, che le fu accordato. Negli stessi anni un
sedicente licantropo dei dintorni di Bordeaux, affermò di trasformarsi in
lupo e di divorare in tal forma vittime anche umane in seguito a un patto
diabolico sancito da un marchio sulla coscia.
Robert Mandrou, lo storico che ha pubblicato i manoscritti di entrambe le confessione, ha notato incuriosito che la loquace Magdeleine non si
faceva mai cogliere in fallo dalle domande che le ponevano adulti preparatissimi e professionisti. Mandrou formula l’ipotesi, a mio parere credibile,
che la ragazzina avesse in numerose occasioni ascoltato genitori, parenti
e vicini raccontare storie di sabba e incontri con il Maligno; la famigliarità con queste storie, alle quali non erano certo estranei i resoconti, più o
meno fedeli, dei processi per stregoneria ed eresia, ha probabilmente fatto
sì che la fanciulla se ne lasciasse suggestionare e se ne appropriasse. Un
momento chiave del suo racconto è l’incontro con il Maligno: il diavolo
le dichiarò l’intenzione di marchiarla all’occhio destro; lei gli chiese il
perché, e «il diavolo le rispose che era perché lei ormai era dei suoi, ma
che non le avrebbe fatto male».12 Al patto seguì la distribuzione di polveri
venefiche.
Accusatori alla sbarra
È significativo che tanto nei processi inquisitoriali quanto in quelli
staliniani si sia verificata, e non solo occasionalmente, l’eventualità che
11. ���������
Mandrou, Possession et sorcellerie au XVII siècle, p. 226.
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Ivi, p. 22.
70
Sttreghe e cospiratori
alcuni dei condannati fossero stati persecutori prima di essere a loro volta
accusati e venire travolti dal meccanismo perverso del processo epidemico
della denuncia.
Intorno al 1670 la regione pirenaica del Béarn conobbe una modalità
di diffusione del contagio davvero singolare. Un giovane di nome Jacques
Bacqué si spacciava per cacciatore di streghe e applicava uno sconcertante metodo d’identificazione con l’altrettanto sconcertante beneplacito
del parlamento di Pau. La procedura di Bacqué era talmente assurda che,
venutone a conoscenza, il primo ministro Colbert intervenne di persona
facendo tradurre il giovane alla Bastiglia e sanzionando severamente il
comportamento delle autorità regionali.
Ecco cosa avveniva nei Pirenei secondo il verbale di arresto vergato il
9 ottobre 1671: Jacques Bacqué, semplicemente, passava in rassegna una
fila anche lunghissima di persone e «indicava quelli che riconosceva essere
streghe sulla base di segni che lui individuava sui loro visi e che il detto
Parlamento non arrestava nessuno se non chi ordinava lui».13 Egli aveva
visitato – sia in senso topografico che medico, è il caso di dirlo! – una
trentina di comunità pirenaiche e individuato qualcosa come 6210 streghe
e stregoni, tutti prontamente arrestati dalle autorità succubi di questo bizzarro impostore. Eppure la truffa era così grossolana che il giovane lestofante identificava al mattino come frequentatrici del sabba persone che poi
non riconosceva come tali al pomeriggio. Il rapporto riferisce, con palpabili perplessità e imbarazzo, che «ci sono state persone indicate da Bacqué
e che risulta abbiano riconosciuto il loro crimine, e che dei bambini sono
stati indotti a testimoniare contro le loro madri».14
Al di là dei risvolti che ormai ci appaiono quasi comici, questa vicenda
è la spia di una divaricazione in atto, e non solo in Francia, tra centro
e periferia, con il primo destinato a prendere il sopravvento. Dopo aver
contribuito in misura determinante ad imporre l’immagine del sabba e
le modalità della sua persecuzione, i poteri politico e culturale (che non
necessariamente sono perfettamente sovrapponibili) le mettevano ora in
discussione e si preparavano a rinnegarle.
Prima di concludere con i casi pirenaici, vorrei per l’ultima volta sottolineare che i fatti di Pau invitano a riflettere su quanto sia importante
e operativa la sedimentazione nella coscienza collettiva di una memoria
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Ivi, p. 236.
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Ivi, p. 242.
Eretici, streghe e vampiri
71
popolare della caccia alle streghe. Negli anni 1609-1611 diversi processi
erano stati celebrati sul versante spagnolo dei Pirenei e anche allora il ruolo
dei bambini era stato determinante. Vi è inoltre un’altra coincidenza che
induce a pensare che Bacqué fosse sì un mitomane, ma anche che il suo
repertorio fosse debitore alla memoria locale della caccia alle streghe. Il
cacciatore di streghe francese, infatti, affermava di scorgere un misterioso
segno diabolico nelle pupille di coloro che avevano stretto il patto con il
Maligno. Ebbene, sessant’anni prima nelle valli dell’alta Navarra si erano
proposti all’attenzione degli inquisitori altri cacciatori di streghe che pretendevano di riconoscere i partecipanti al sabba da un marchio che essi
erano capaci di scorgere guardando gli imputati negli occhi: «Arrivammo
nel quarto villaggio [Aranaz], e qui trovammo […] un ragazzo che sosteneva di saper riconoscere le streghe a vista».15
Il giovane basco di Aranaz ammetterà rapidamente di essere un impostore. Questi precursori di Bacqué non divennero cacciatori di streghe
seriali, ma forse solo perché non trovarono funzionari disposti a prenderli
sul serio e a servirsi delle loro prestazioni. Bacqué, invece, fu punito per
il suo zelo e si andò ad aggiungere alla lista dei persecutori perseguitati,
ovvero coloro che finirono per essere travolti dalla situazione che avevano
contribuito a creare.
Contagio e cura nei Paesi Baschi
L’uso frettoloso della denuncia, insomma, rischiava di trasformare la
cura del male in contagio. Uno dei primi a rendersene conto fu l’inquisitore
spagnolo Don Alonso Salazar y Frias (1564-1636). È lui il protagonista del
prossimo episodio.
Il caso nel quale Salazar si trovò coinvolto è emblematico della natura
epidemica della diffusione del panico stregonesco. Dai Pirenei francesi
questa forma di contagio culturale raggiunse il lato opposto delle montagne
e si diffuse come una malattia altamente contagiosa. Al di là dell’esito
finale, in cui la mortalità venne tenuta sotto controllo, l’esplosione
di denunce e confessioni ricorda da vicino altre situazioni i cui bilanci
furono ben più devastanti. Su scala assai minore, il panico da complotto
15. �����������������������������
Citato in Gustav
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Henningsen, The Salazar Documents, Leiden, Brill, 2004, pp.
157-159.
72
Sttreghe e cospiratori
ricorda anche alcuni aspetti del Grande Terrore sovietico degli anni Trenta
del Novecento, con la significativa differenza che esso fu scatenato per
iniziativa dei vertici del partito comunista.
La smania incontrollata di denunciare e assistere alla condanna dei
presunti colpevoli dei mali della comunità venne ben descritta dal gesuita
Friedrich von Spee, autore di una delle prime fondamentali critiche alla
criminalizzazione del presunto patto tra Satana e le streghe:
È ormai abitudine del volgo, se i giudici non imprigionano, torturano e mandano al rogo immediatamente, in seguito a una qualunque loro futile richiesta,
protestare subito senza ritegno che questi giudici temono per se stessi, per le
loro mogli e per i loro amici; che i giudici si sono fatti corrompere da chi ha
più soldi; che tutte le famiglie più nobili sono coinvolte nella stregoneria; che
le streghe si potrebbero quasi segnare a dito e che manca il coraggio di procedere.16
Parallelamente, quello della persecuzione della stregoneria nei Paesi
Baschi è un esempio eloquente di quanto potesse risultare determinante
l’impatto sul contagio delle ossessioni di un singolo individuo. Il re di
Francia Enrico IV aveva affidato al giudice Pierre de Lancre (1553-1631),
membro del parlamento di Bordeaux, l’incarico di investigare sui casi di
stregoneria che giungevano dai Paesi Baschi francesi. Lungi dal limitarsi
allo svolgere il proprio mandato, una volta sul posto de Lancre si trasformò
nel principale ispiratore della caccia alle streghe che raggiunse l’apice sotto
la sua supervisione. A suo parere poche famiglie erano immuni dal contagio.
Paradossalmente, mentre l’umanista de Lancre scatenava il putiferio, sul
versante spagnolo, dove l’epidemia era letteralmente tracimata, l’inquisitore
Salazar conduceva un’ineccepibile analisi sociologica del fenomeno,
giungendo alla conclusione che le accuse, comprese le confessioni rese di
spontanea volontà, erano o inaffidabili o totali invenzioni.
A parte la peculiarità dell’esito, le vicende del panico basco meritano
di essere raccontate. Benché nella specifica occasione il contagio fosse
giunto dal versante opposto delle montagne, la regione aveva conosciuto
in precedenza crisi simili, anche se meno violente. In una nota informativa
inviata il 7 novembre 1610 alla sede episcopale di Logroño da Zugarramurdi,
16. ��������������������
Friedrich von Spee, I processi contro le streghe (Cautio criminalis), Roma, Salerno Editrice, 2004, p. 91.
Eretici, streghe e vampiri
73
cuore del panico stregonesco basco, gli inquisitori ricostruirono per sommi
capi le precedenti manifestazioni della stregoneria nel territorio montano
della Navarra.
L’abominevole setta degli stregoni è molto antica e radicata da molte parti, e
con maggiore frequenza in quelle che sono toccate dall’eresia. È stato centoquattro anni fa che si è cominciato a scoprirla nelle valli dei monti Pirenei di
pertinenza del regno di Navarra […] e ora, a partire dall’anno 1608, il Santo
Uffizio del regno di Navarra e distretto di Logroño ha scoperto come nel villaggio di Zugarramurdi, e in molti altri di quelle montagne, ci siano parecchi
aquelarres di streghe. In questo luogo di Zugarramurdi, valle di Baztán, che
sta dall’altra parte dei monti Pirenei che guarda verso la Francia, distante poco
più di mezza lega dal monastero di San Salvador di Urdax, che appartiene ai
frati premostratensi, fondato vicino ai confini tra la Navarra e la Francia […].
Questo nome aquelarre non si trova che in basco, che è la lingua che si parla
in quelle montagne, ed è il nome con cui comunemente gli stregoni chiamano i
loro raduni e i luoghi dove hanno luogo, e riguardo all’etimologia che la parola
può avere in basco, sembra trattarsi di un nome composto che suona come
‘prato del caprone’».17
Alla presentazione del problema segue l’illustrazione dei fatti recenti
che riprendono i classici luoghi comuni del rinnegamento della fede cristiana e del battesimo, l’affiliazione alla schiera del demonio, il sabba, i
banchetti smodati, le orge. Agli elementi ormai attesi si aggiungono certi
dettagli peculiari, ad esempio l’esistenza di una sorta di scuola elementare
dell’aquelarre, in cui una maestra impartiva ai bambini il catechismo del
sabba. La consueta orgia finale si distingue per un’inedita doppia metamorfosi operata dal Maligno, che prima assume forma di uomo e copula con le
donne presenti, e poi si trasforma in donna e si unisce ai maschi.
Quello del 1609-1611 fu un panico singolare anche per come si era
manifestato. Tutto iniziò, infatti, con una serie sconcertante di incubi stereotipati le cui vittime erano in massima parte bambini e adolescenti. Si
tratta di un elemento di forte originalità che ha un solo parallelo distante
nello spazio e nel tempo – la regione del lago Siljan, nella Svezia settentrionale intorno al 1670. L’incubo consisteva nel sognare di essere trasportati allo spaventoso aquelarre. Per alcuni mesi i bambini sognarono senza
che gli adulti ne traessero conseguenze radicali. Il panico vero e proprio
17. ������������
Henningsen, The Salazar Documents, pp. 105-107.
74
Sttreghe e cospiratori
scoppiò quando il padre di uno di essi accusò un bovaro di nome Iricia di
aver stregato suo figlio. Il giorno dopo, come ubbidendo a un segnale a
lungo atteso, trenta bambini dichiararono di essere stati condotti da Iricia
all’aquelarre. Le accuse si moltiplicarono e la sede episcopale di Logroño
inviò degli inquisitori per combattere quella pestilenza (la definizione è
loro). I frati, tra i quali non c’era ancora Salazar, si misero al lavoro e in
breve delinearono nei minimi dettagli l’immagine consolidata del sabba:
molti accusati vennero incarcerati, piovvero le confessioni che permisero
di accertare l’esistenza del complotto satanico e vennero eseguite alcune
condanne a morte. Quando Salazar raggiunse i colleghi e si unì agli interrogatori ebbe presto la percezione di qualcosa che non tornava. Le denunce
e le confessioni gli apparivano incoerenti e piene di assurdità, e non reggevano alle verifiche più elementari.
Salazar, inviato a dar man forte ai colleghi che investigavano sul
panico nei villaggi baschi, si persuase che le confessioni ottenute dai suoi
colleghi erano riconducibili alla paura, al condizionamento e, ciò che era
peggio, al fatto che erano state estorte con la forza e con le privazioni del
carcere. L’inquisitore si era posto un problema ancora attualissimo: separati dal proprio ambiente consueto e sottoposti a violenze fisiche e pressioni
psicologiche durante la detenzione, molti accusati di stregoneria finivano
per dubitare della loro identità, le loro convinzioni si sgretolavano e la
loro mente si disponeva ad ammettere per veri fatti che non lo erano. La
conseguenza, correttamente individuata, era che a quel punto i testimoni
rischiavano di diventare del tutto inaffidabili. Salazar, insomma, osservava
che il ricorso alla tortura toglieva attendibilità alla confessione. Esisteva
quindi il concreto rischio, gravissimo per un inquisitore, di registrare delle
false confessioni o addirittura delle assurdità. Come la seguente:
alcune persone che essendo perfettamente sveglie a mezzogiorno e trovandosi
a conversare o a mangiare con altra gente in pubblico, hanno confessato di essere state trasportate all’aquelarre senza essersi allontanate un solo istante da
quelle persone con le quali parlavano.18
A partire dal momento in cui Salazar cambiò i termini del rapporto tra
inquisitore e inquisiti, cessando di indirizzare le risposte degli interrogati
verso l’ammissione di colpa e suggerendo invece che l’ipotesi opposta
18. ������������
Ivi, p. 277.
Eretici, streghe e vampiri
75
sarebbe stata finalmente accettata, le ritrattazioni si moltiplicarono. Alcune
donne sospettate, tra cui l’ottuagenaria Catalina Fernández, ammisero di
aver confessato di essere streghe solo perché provate e terrorizzate e perché
nel villaggio di Zugarramurdi non si parlava di altro. Un’altra anziana
aveva dichiarato nella sua confessione di aver offerto al demonio tre dita del
piede sinistro al momento di entrare nella congregazione delle streghe; tuttavia,
altri testimoni e membri della sua famiglia hanno invece detto che quelle dita le
sono sempre mancate, fin dall’infanzia, cosa che lei stessa ha poi riconosciuto
ritrattando la sua confessione.19
La posizione di Salazar y Frías, peraltro, riprendeva e approfondiva
un vecchio parere espresso dal Consiglio della Suprema Inquisizione nel
1526. Il Consiglio si era riunito su richiesta di inquisitori periferici che
necessitavano di chiarimenti in merito a dubbi emersi nel corso di processi
per malefici diabolici tenutisi proprio in Navarra. Gli inquisitori avevano
bisogno di direttive precise poiché la collocazione giuridica della stregoneria risultava tutt’altro che limpida. Tra i problemi in discussione vi
era anche quello dell’autosufficienza della confessione. In merito, emerse
l’indicazione che la sola auto-incriminazione non poteva ritenersi sufficiente a una sentenza di condanna e che fosse comunque necessario reperire altre prove.
Salazar contestò, prove alla mano, l’idea dell’autonomia e
dell’autosufficienza giudiziaria della confessione. Si tratta di un problema
giuridico ancora attualissimo. Come ha osservato Carlo Ginzburg in un
piccolo e denso libro pubblicato nel 1991, Il giudice e lo storico, nei
tribunali si manifesta ancora, e nemmeno troppo di rado, la tendenza a
ritenere la confessione come risolutiva anche in assenza di ulteriori prove,
oppure a risolvere a favore della confessione le eventuali discrepanze tra
essa e altri riscontri.
L’avvocato delle streghe, come lo ha definito Gustav Hennigsen, che
ha riscoperto e pubblicato la documentazione relativa alla sua attività, si
rivolse ai superiori esprimendo la sua certezza che le condanne già eseguite
di streghe e stregoni di Zugarramurdi e dintorni erano state un tragico errore giudiziario. In breve tempo l’epidemia cessò.
Nel suo Informe alla Suprema Salazar scrive parole significative e
19. ������������
Ivi, p. 301.
76
Sttreghe e cospiratori
ancora attuali:
considerando i fatti con tutta l’attenzione cristiana, non ho trovato nessuna
prova dalla quale dedurre che un solo atto di stregoneria aveva effettivamente
avuto luogo, che fosse l’aver assistito agli aquelarres o aver preso parte a essi
direttamente [...]. Ne ricavo l’importanza del silenzio e della cautela sulla base
dell’esperienza che non ci sono state né streghe né vittime della stregoneria fino
a che non si è cominciato a parlarne e a scriverne.20
Sul versante opposto dei Pirenei
Nell’autunno del 1643 una caccia alle streghe terrorizzò le pendici
pirenaiche del sud della Linguadoca. Due uomini del villaggio di Montgaillard denunciarono come strega una compaesana. Immediatamente
l’Inquisizione entrò in azione e mise all’opera uno schema ormai tipico:
sottoposta a un interrogatorio serrato e circostanziato, la donna, detta Nane,
che all’epoca aveva 65 anni, negò di essere una strega, di aver mai preso
parte al sabba, di essersi mai venduta al Maligno e di aver ucciso bambini
nottetempo per mezzo di malefici. La donna negò anche una serie di altre
accuse abnormi: di aver somministrato a una vicina formaggio avvelenato,
di aver gettato oggetti magici in una fontana allo scopo di provocare tempeste capaci di distruggere i raccolti, di avere misteriosi marchi sulla pelle
e di aver avvelenato i propri marito e figlio.
In seguito all’arresto di Nane, l’arcidiacono del vescovo di Pamiers
approvò la lettura in tutte le chiese di un testo che invitava a vigilare contro
le streghe che agivano in combutta con il diavolo. Nel breve volgere di
pochi giorni le denunce cominciarono a piovere sulle autorità e gli arresti
si moltiplicarono. I sospetti si concentrarono su altre quattro donne che
vennero arrestate e torchiate a dovere dagli inquirenti. Tutte, all’inizio,
rifiutarono di confessare. Ammisero di conoscere Nane, ma non di aver
compiuto il male insieme a lei. La prima a cedere fu proprio Nane. La sua
confessione trascinò con sé le altre imputate.
Il fatto che la regione pirenaica avesse conosciuto in precedenza le
persecuzioni dei catari e poi altre cacce alle streghe organizzate prima di
20. �������������������������������
Citato in Maria Sofia Messana, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782), Palermo, Sellerio, 2007, p. 184.
Eretici, streghe e vampiri
77
questa ha avuto a mio avviso un peso decisivo. È la prova che nei territori
in cui la coscienza e la cultura degli abitanti erano maggiormente impregnate dalla memoria dei processi per stregoneria si conservava, insieme al
ricordo e alla sua elaborazione, anche il germe culturale che rendeva più
probabili successive epidemie.
Le regioni d’Europa più colpite sono spesso quelle di montagna. Nelle
Alpi e nei Pirenei, diremmo in gergo medico, il contagio stregonesco è
stato in una certa misura endemico per oltre un paio di secoli. In esse si registrano singolari ritorni periodici di virulenza del panico da stregoneria. Se
le Alpi sono l’area in cui si è probabilmente cristallizzato per la prima volta
il paradigma del sabba, i Pirenei sono la regione in cui l’Inquisizione ha inaugurato e sperimentato come raramente altrove il dispiegamento di forze
volto a perseguire le sacche di resistenza dell’eresia catara. Il giustamente
celebre studio di Emmanuel Le Roy Ladurie sul villaggio di Montaillou,
nella pirenaica valle dell’Ariège, è stato reso possibile dalla ricchezza della
documentazione prodotta in seguito all’inchiesta dettagliata ordinata nel
1320 dal vescovo di Pamiers – la medesima diocesi dove tre secoli dopo
un altro vescovo zelante avrebbe scatenato la caccia alle streghe di cui si
è appena fatto cenno. I risultati dell’indagine dimostrarono che le preoccupazioni del vescovo Jacques Fournier erano, dal suo punto di vista, assolutamente fondate: le credenze dei montanari, nobili compresi, erano un
coacervo di eresia e tradizioni locali molto distanti dall’ortodossia.
La precocità e la continuità in area pirenaica dei processi su larga
scala per eresia e maleficio – i grandi complotti orditi dal nemico per
eccellenza, Satana, e dalle sue mai esauste coorti – colpiscono la nostra
attenzione. La sedimentazione della memoria storica locale dei processi e
delle motivazioni non può che aver giocato un ruolo, per quanto difficile
da misurare, nel perverso effetto di ritorno del contagio. È insomma
verosimile che l’esperienza dei processi del passato abbia funzionato da
griglia selettiva plasmando una sorta di disponibilità collettiva a interpretare
in senso stregonesco problemi che avrebbero potuto essere letti anche in
prospettive alternative.
Il processo contro Vittore Soranzo
Il principale motore delle persecuzioni contro le streghe e gli adepti
del demonio fu la lotta senza esclusione di colpi condotta all’eresia, sia
78
Sttreghe e cospiratori
che maleficio e stregoneria vi fossero implicate sia che la devianza da
perseguire fosse schiettamente dottrinaria. Se si osserva il fenomeno in
termini generali si nota che lungi dal colpire solo, o soprattutto, donne
e marginali, la persecuzione non ha mai risparmiato gli uomini, neppure
quelli posti ai vertici della gerarchia. Quest’ultimo aspetto è un altro dei
tratti condivisi da processi staliniani e inquisitoriali, soprattutto se si considerano le istruttorie condotte contro i sospetti simpatizzanti del luteranesimo all’interno del mondo cattolico.
Il processo istituito nel 1550 contro il vescovo di Bergamo Vittore
Soranzo, pur non evocando direttamente complotti o congiure, esemplifica
meglio di altri certe dinamiche che tendevano a restare dietro le quinte. Sul
banco degli imputati venne infatti a trovarsi non un outsider, ma una figura
di spicco della Chiesa del Cinquecento, un personaggio, quindi, meglio
avvicinabile ai dirigenti di partito rispetto, per esempio, a una guaritrice di
villaggio o a un mugnaio. Inoltre, l’atteggiamento di imputato e inquirenti
mostra significative affinità con quanto si sarebbe verificato quattro secoli
dopo. Mi riferisco in particolare allo sforzo costante da parte dell’accusa di
ancorare la colpevolezza di Soranzo da un lato alla sua biografia e dall’altro
a una confessione dettagliata che in sostanza andava a confermare capi
d’accusa preconfezionati.
Il processo a Soranzo si inserisce in un contesto di lotta all’eresia
luterana al quale non è però estraneo un regolamento di conti interno alla
Chiesa cattolica che vede il Sant’Uffizio e i suoi inquisitori «impegnati in
una serie di inchieste contro gli spirituali con l’intento primario di colpire,
all’insaputa dello stesso pontefice, il Pole e il Morone, legati al Soranzo
sin dai primi anni quaranta».21 Il cardinali Pole e Morone, con il primo
che a un certo punto fu anche serio candidato alla carica papale, erano i
capofila di una corrente riformista disposta a recepire alcune delle istanze
sollevate dai luterani. Erano, insomma, un esempio di oppositori tiepidi
dell’Avversario che agli occhi della corrente più severamente rigorista si
distinguevano a fatica dai complici. Erano essi stessi dei potenziali eretici,
se non addirittura degli infiltrati che stavano indebolendo le fondamenta
della Chiesa per favorire la vittoria dei suoi nemici.
Le accuse al Soranzo vertevano sulla divulgazione di materiale eretico
di stampo luterano, sulla protezione accordata a eretici e sulla sospetta
21. ���������������
Massimo Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico, Roma-Bari, Laterza, 2006,
p. 423.
Eretici, streghe e vampiri
79
tolleranza nei confronti di comportamenti in odore di eresia. Nelle vicende
del vescovo bergamasco si riconosceranno momenti che paiono anticipare
aspetti cruciali dei processi novecenteschi, a partire dall’invito preliminare
rivolto all’imputato di redigere una confessio, vale a dire una ricostruzione
biografica del suo operato. La minima famigliarità acquisita con i processi
di Praga e Budapest è sufficiente a farci prevedere il seguito. Al pari dei
referenti affiancati agli imputati dei processi staliniani, gli inquisitori
torneranno a più riprese sulla necessità di ripetere, aggiornare, riscrivere
la confessio. Come altri accusati mezzo millennio dopo di lui, Soranzo
esordì ribadendo la sua fedeltà alla Chiesa e al papa e manifestando la
certezza che tutto si sarebbe risolto e chiarito quanto prima. E come molti
altri prima e dopo di lui, si sbagliava. Incalzato da sempre nuove accuse
e testimonianze a carico, il vescovo fu costretto a riconoscere un numero
progressivamente maggiore di colpe, fino all’ammissione di aver ceduto
alle seduzioni dell’eresia.
Il caso Soranzo avrebbe potuto essere l’inizio di una sconvolgente
«purga» in grado di raggiungere il collegio cardinalizio – chiari bersagli
i riformatori come Pole e Morone, amici del vescovo di Bergamo – e fare
piazza pulita della corrente riformatrice. Era una tattica che avrebbe riscosso l’approvazione di Stalin, che per screditare alti dirigenti del partito e
lanciare loro degli avvertimenti usava colpire dei loro collaboratori diretti
o funzionari appartenenti alla loro cerchia. Nel caso specifico, però, Papa
Giulio III, che spesso aveva subito l’iniziativa degli inquisitori, riuscì a
tenere sotto controllo l’estensione del contagio evitando il coinvolgimento
diretto dei cardinali Pole e Morone.
Da parte sua Soranzo aveva impostato la sua attività pastorale
adottando un approccio morbido nei confronti delle deviazioni, anche
gravi, dall’ortodossia che incontrava nel corso delle visite pastorali. Il
suo atteggiamento mostra quanto fosse decisiva l’inclinazione dei singoli
nell’avvio, o nel mancato avvio, di processi per stregoneria e maleficio.
Soranzo si imbatté spesso in situazioni e comportamenti sospetti o
palesemente deviati che altri al suo posto avrebbero immediatamente
interpretato come il segno inequivocabile della presenza del complotto
demoniaco. I verbali delle visite pastorali registrano la sistematica presenza
sul territorio di incantatores seu incantatrices, di donne che pretendono di
predire il futuro, di guaritori con la fama di saper scacciare i demoni. Tutti
se la cavarono con poco, ma si vede bene che le potenziali accuse che
avrebbero potuto colpirli erano di natura tale da costituire, se interpretate
80
Sttreghe e cospiratori
nella direzione del contagio satanico, la potenziale miccia di una catena
processuale devastante.
Il caso più clamoroso si verificò all’interno del monastero femminile
di San Fermo extra moenia, sul conto del quale circolavano voci preoccupanti. Nella stanza di una delle suore, di nome Dorotea, il vescovo di Bergamo scoprì un intero armamentario magico, fatto di rane essiccate, cuori
di uccello e semi di giusquiamo; come se non bastasse, l’ispezione di uno
scrigno rivelò che la suora corrispondeva con uno spasimante che l’aveva
istruita su come usare il giusquiamo per addormentare la badessa e «quella
rana e quel cuore, per trarne una polvere capace di farla impazzire».22 Il
vescovo aprì un’inchiesta e scoprì che il maestro di sortilegi, nonché amante, di suor Dorotea era un monaco celestino. Soranzo, tuttavia, evitò di
mettere in mezzo il diavolo e l’Inquisizione; il caso venne trattato come un
fatto isolato senza che si paventasse – e, di riflesso, si innescasse – il patto
con il diavolo e il contagio stregonesco.
Le premesse per un’azione di segno ben diverso c’erano tutte, il maleficio, in primo luogo: erano addirittura stati cuciti dei sacchi da morto
da porre sotto il letto della badessa così che ella passasse direttamente dal
sonno ristoratore a quello eterno. I germi dell’epidemia erano latenti, aspettavano solo un intervento che facesse da detonatore, che non arrivò. E
l’epidemia non scoppiò.
La scoperta del folklore: i convegni notturni delle Valli alpine
Negli anni successivi alla oltremodo traumatica frattura luterana, la
necessità di verificare e migliorare il grado di evangelizzazione dei fedeli
stimolò una più capillare presenza sul campo dei sacerdoti e la verifica
della qualità delle conoscenze religiose dei fedeli. L’accresciuto impegno
pastorale e la preoccupazione di accertare l’eventuale presenza di credenze
eretiche o eterodosse comportò come conseguenza, in entrambi i campi,
la scoperta della cultura folklorica con tutto il suo complesso e vario armamentario di credenze e superstizioni. Una scoperta, tuttavia, e lo dimostrano negli stessi anni le reazioni di fronte alle sconcertanti culture del
Nuovo Mondo, genera immediatamente interpretazioni, che in questo caso
significarono l’apertura di un conflitto. Di fatto, le tradizioni trasmesse
oralmente e conservatesi soprattutto in zone isolate come le aree montuose furono interpretate come segni evidenti e sconcertanti di resistenza
all’evangelizzazione, o addirittura come indizi di un subdolo attacco del
22. �����������������
Ivi, pp. 150-151.
Eretici, streghe e vampiri
81
Maligno volto a guadagnarsi adepti e a sottrarre fedeli alla Chiesa – o alla
cristianità, includendo così anche i territori di recente passati alla Riforma,
nei quali le cose non andavano troppo diversamente. A confondere le idee,
e dunque a spaventare, era l’evidente autonomia con la quale si esprimeva
il cristianesimo popolare rispetto alle linee ufficiali. La risposta più spesso
fornita fu che si trattava di deviazioni ispirate direttamente dall’iniziativa
perversa del demonio e dall’attiva adesione di alcuni.
Inquisitori e giudici restavano di certo particolarmente colpiti dalle
testimonianze, provenienti soprattutto dall’area alpina, che riferivano di
misteriosi raduni notturni, spesso di sole donne, ma non necessariamente,
in cui si celebravano balli e libagioni aventi come officiante una figura
femminile variamente denominata – Perchta, Holda, Diana, Erodiana,
Signora del Gioco, per non citare che alcuni dei nomi attribuitegli. La danza
– che già nel pieno medioevo un canonista aveva definito “un cerchio con
il demonio al centro” – venne interpretata come l’occasione rituale, vero
cerimoniale iniziatico, per la stipula di un patto. Allo schema tradizionale,
ben ricostruibile in ambito alpino e che prevedeva un abbondante pasto e
la prodigiosa resurrezione degli animali arrostiti da parte della Signora,
si aggiunse, non senza resistenze da parte delle interrogate, un momento
successivo e culminante: un ballo impudico nel corso del quale i partecipanti
baciavano il diavolo e si sanciva una scelta di campo. Dalle Alpi alla Scozia,
lo strumento prediletto dal malvagio seduttore era la cornamusa, forse per
l’asprezza del suono che produceva. Non a caso la cornamusa è tuttora da
molte parti soprannominata «sacca del diavolo».
Il caso più celebre di raduni notturni emerso da atti processuali inquisitoriali è forse quello dei benandanti, scoperti quasi per caso in Friuli
nel 1575 e riscoperti, di nuovo quasi per caso, a metà degli anni ‘60 del
Novecento da Carlo Ginzburg. Costoro, nelle notti delle Quattro Tempora,
rispondendo a una misteriosa chiamata, volavano in diversi luoghi armati
di mazze di finocchio e combattevano gli stregoni malvagi. Con pazienza
venne compilata una lista di benandanti che furono sottoposti a interrogatorio. Tutti proclamarono di essere buoni cristiani che andavano alla messa
e proclamarono di combattere contro gli stregoni malvagi essendo schierati
dalla parte del Bene, di Cristo.
Le esperienze estatiche dei benandanti ricordano alcune delle credenze stigmatizzate all’inizio del secolo XI nel Corrector di Burcardo di
Worms:
82
Sttreghe e cospiratori
Anche tu, come alcune donne, hai creduto di avere il potere, insieme ad altre
adepte di Satana e nel silenzio di una notte tutta particolare, e malgrado le
porte chiuse, di sollevarti fino alle nubi e lì combattere contro altre donne con
reciproche ferite?.23
Al contrario del vescovo di Worms, che la riteneva una semplice
credenza, gli inquisitori davano per scontata la realtà del volo magico. Le
dichiarazioni dei benandanti risultavano quindi estremamente sospette ai
loro occhi. Quale Cristo era mai il loro? Di certo non quello della Chiesa.
Il dubbio che dietro ai benandanti si celasse uno dei subdoli inganni del
Maligno era fortissimo. Il contenuto delle testimonianze era impregnato
di tradizioni estranee alle conoscenze degli ecclesiastici, nelle menti dei
quali, incapaci di decodificare voli e battaglie notturne, si profilava invece
l’immagine inquietante e spaventosa del sabba celebrato dagli adepti di
Satana. Va notato, comunque, che rispetto a quello che gli inquirenti si
aspettavano, i racconti relativi ai benandanti contenevano elementi di
novità e anomalie tali da generare perplessità destinate a condizionare gli
interrogatori e la severità delle sentenze, che furono decisamente blande
fino a quando – e ci sarebbero voluti alcuni decenni – il paradigma diabolico
non prevalse definitivamente sulla tenuta delle tradizioni folkloriche.
Il cammino dalla credenza folklorica al sabba si compì in maniera
definitiva e completa nei processi celebrati a Cividale nel 1634 – dunque
piuttosto tardi, se ci pensiamo, rispetto a quanto era successo altrove. Le
esperienze dei benandanti vi appaiono pienamente inserite nel contesto del
patto con Maligno e corredate dal consueto apparato di banchetti, balli,
orge e, inevitabilmente, denunce a catena dei complici. Soprattutto, tali
esperienze, nelle confessioni, non avvenivano più in spirito, ma in carne
e ossa, come da tempo pretendevano teologi e demonologi. Alla fine del
Cinquecento il gesuita Martino del Rio aveva sentenziato che coloro che
sostenevano essere solo sogni e illusioni i raduni notturni delle streghe erano da ritenersi fuori dalla Chiesa, ma già nel 1453 il teologo e predicatore
Guillaume Adeline era stato condannato al carcere perché nei suoi sermoni
negava la realtà dell’esistenza dei raduni satanici.
23. ���
Il Corrector sive medicus è edito nel volume CXL della Patrologia Latina. Una
traduzione italiana è contenuta in A pane e acqua. Peccati e penitenze nel medioevo, a cura
di G. Picasso, G. Motta, G. Piana, Europia, Novara, 1986; la citazione qui riportata è alle
pp. 100-101.
Eretici, streghe e vampiri
83
Lo sciamano della Baviera
Negli stessi anni che vedevano inaugurarsi i processi ai benandanti,
a Oberstdorf, nelle alpi bavaresi, si svolgeva una vicenda che ha molto in
comune con quelle friulane – e che, in sovrappiù, di nuovo narra la drammatica parabola dell’accusatore travolto dalle proprie denunce. Il tragico
protagonista è uomo di nome Chonrad Stoeckhlin. Nello stesso tempo, la
vicenda di questo montanaro che viveva conducendo i cavalli al pascolo
contiene aspetti peculiari che illuminano di una luce diversa, e triste, i meccanismi psicologici, sociali e giudiziari capaci di innescare da una scintilla
apparentemente trascurabile un autentico incendio – e non in senso metaforico.
Tutto cominciò con una conversazione tra due amici, al principio del
febbraio del 1578. Era sera, fuori faceva freddo, il camino era acceso: Chonrad Stoeckhlin e Jacob Walch bevevano un bicchiere di vino e discutevano
non di argomenti frivoli, ma della vita dopo la morte, di come fosse l’aldilà
e cosa ci fosse. I due si fecero una promessa: il primo che fosse morto
sarebbe apparso all’altro e gli avrebbe riferito quello che c’era da sapere.
Si tratta di una forma di obbligazione che ricorre in fonti anche molto più
antiche e che è sopravvissuta nel folklore alpino fino al secolo XX. Benché
la vita in quei tempi e in quei luoghi fosse certamente precaria, entrambi
godevano di buona salute e non immaginavano che il momento di onorare
l’accordo fosse tanto prossimo.
Solo otto giorni dopo Jacob morì all’improvviso. E si dimostrò di parola. Un pomeriggio Chonrad uscì per fare legna e
[…] a circa un tiro di pistola di distanza vide qualcosa immobile, in piedi. Realizzò che si trattava del suddetto Walch. Allora salì verso di lui e gli si avvicinò
fino a trovarsi a un paio di metri; non provava paura né orrore e gli rivolse la
parola chiedendogli: «Jacob, sei tu?».24
Chonrad avrebbe riferito poi ai magistrati la risposta del fantasma attribuendo all’apparizione queste parole:
Chonrad, abbiamo portato insieme le bestie al pascolo e a volte ci siamo
24. ������������������������������
Citato in Wolfgang
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Behringer, Shaman of Oberstodorf. Chonrad Stoecklin and the
Phantoms of the Night, Charlottsville, University of Virginia Press, 1998, p. 12.
84
Sttreghe e cospiratori
ubriacati in compagnia. Abbandona questo stile di vita! Comportati bene verso
di Dio, verso il mondo e verso la giustizia. Perché chi vive nell’ubriachezza,
nell’adulterio, nella blasfemia, nell’avarizia, nell’orgoglio, nell’invidia, nell’ira
e nell’odio, e non insegna ai propri figli a temere Dio, non entrerà nel regno
dei cieli.25
È possibile, anzi probabile, che nel 1586, al momento della sua comparsa in tribunale, Stoeckhlin abbia adattato questo edificante ammonimento per impressionare favorevolmente i magistrati; ma è ancor più certo,
purtroppo per lui, che il suo racconto conteneva degli elementi, in primo
luogo l’obbligazione che lega un vivo e un morto, che al contrario stridevano con la dottrina ufficiale della Chiesa.
In seguito all’incontro con l’amico defunto nella vita di Chonrad
si verificarono due cambiamenti decisivi. Da un lato egli intraprese un
percorso di penitenza e purificazione insieme alla sua famiglia, dall’altro
i suoi contatti con l’altro mondo diventarono frequenti e abituali. Jacob
tornò spesso a visitare il vecchio amico e lo preparò a un incontro più
importante, quello con un angelo. Il guaio, per Chonrad, fu che il suo
angelo aveva davvero poco in comune con l’insegnamento della Chiesa. Il
celeste messaggero invitò il mortale a seguirlo. «Allora egli [Stoeckhlin]
cadde privo di sensi. E così, rapito, andò con l’angelo in un luogo in cui
vide pena e gioia, che egli ritenne essere il purgatori e il paradiso».26
Il percorso di Stoeckhlin è anomalo e curioso. L’apparizione di un
defunto che indirizza un amico a una vita pia sembra tratto dagli exempla medievali, racconti esemplari ed edificanti – e non possiamo escludere che il protagonista della vicenda ne avesse ascoltati dalla voce di un
parroco o di un predicatore; eppure, dopo un preludio quasi da manuale
del cristianesimo popolare, assistiamo a una deriva verso il folklore. Se i
contenuti della sua visione sono cristiani, le modalità del viaggio appartengono all’ambito delle manifestazioni estatiche di tipo sciamanico. Da allora il coinvolgimento penitenziale e devozionale di Chonrad e della sua
famiglia si rafforzò, ma, parallelamente, a ogni apparizione dell’angelo, si
incrementarono anche le esperienze di trance. Il suo corpo rimaneva immobile mentre l’anima viaggiava per lunghissime distanze. Lui e l’angelo,
però, non erano più soli, con loro volavano altri uomini e altre donne, che
25. �����������
Ivi, p. 13.
26. �����������
Ivi, p. 19.
Eretici, streghe e vampiri
85
Chonrad chiama Nachtschar, i fantasmi della notte. Nei racconti di Chonrad Stoeckhlin l’ortodossia cristiana aveva ceduto il passo a oscure credenze tradizionali che, come sappiamo, risultavano facilmente fraintendibili e
reinterpretabili da parte delle autorità laiche ed ecclesiastiche in un senso
assai diverso rispetto alle intenzioni del narratore.
Di fatto, l’angelo che si manifestava a Oberstdorf assomigliava molto
alla guida che radunava i benandanti e li guidava alle loro aeree e notturne
battaglie. Se al quadro che si va delineando aggiungiamo che Stoeckhlin si
era nel frattempo guadagnato una buona reputazione come guaritore, comprendiamo come la sua posizione fosse divenuta socialmente e ancor di più
giuridicamente rischiosa. Malgrado lui riconducesse al Dio cristiano i doni
di cui beneficiava, le autorità locali si insospettirono e lo convocarono.
Paradossalmente, ma non troppo, a indurre i giudici a prendere l’iniziativa
contro Chonrad Stoeckhlin fu proprio la sua proclamata pretesa di saper
riconoscere le streghe in virtù dei suoi poteri di veggente e guaritore.
Secondo un procedimento e una sequenza di fatti molto simili a quelli
che l’etnografia ha riscontrato presso gli sciamani siberiani e nordamericani, l’esperienza della visione e dell’estasi aveva avuto per il mandriano
alpino il valore di svolta iniziatica dopo la quale la sua vita e la sua percezione di sé risultarono definitivamente cambiate. Nella comunità in cui egli
viveva e agiva, tuttavia convivevano direttrici culturali che erano ormai
entrate in uno stato di tensione reciproca, per non dire in rotta di collisione.
L’ortodossia cristiana non accettava più una cultura vernacolare che pretendeva di sposare la fede in Cristo con credenze fokloriche estranee a essa.
Al povero Chonrad Stoeckhlin accadde quello che tre secoli e mezzo dopo,
su scala maggiore, sarebbe accaduto a diversi dirigenti di partiti comunisti
dell’Europa centrale e orientale, ad esempio Rudolf Slánsky, ovvero di venire risucchiato dalla catena di denunce che aveva contribuito ad avviare.
Nell’ambito della sua attività di guaritore egli visitò una cliente malata
e maturò la convinzione che la causa del disturbo non fosse naturale, bensì
ascrivibile ai malefici di una donna di nome Anna Enzensbergerin. Gli atti
dell’interrogatorio riportano la dichiarazione resa da Stoeckhlin a questo
proposito.
Egli sapeva che la Enzensbergerin era una strega e che era responsabile della
malattia della moglie dell’oste: quando l’ostessa si era ammalata aveva chiesto
l’aiuto suo e dei suoi parenti. Così, durante uno dei suoi viaggi [al seguito dei
Nachtschar], lui aveva chiesto della donna alla sua guida, che lui riteneva essere
86
Sttreghe e cospiratori
un angelo, al che la sua guida aveva risposto che era stata la Enzensbergerin.
Per curarla, egli sarebbe dovuto andare da lei, Anna, e chiederle aiuto per tre
volte nel nome di Dio e del Giudizio Finale, e lei sarebbe stata costretta a
concederglielo. Il che avvenne, proprio come previsto.27
Alle esperienze estatiche vissute da guaritori tradizionali accennano
autori dell’epoca, per esempio Girolamo Cardano, ma nel caso di
Stoeckhlin abbiamo la possibilità di ascoltare, per quanto filtrata dal notaio
del tribunale, la voce di un protagonista. Mi piacerebbe divagare su questo
peculiare aspetto della vicenda, che trovo appassionante, ma credo e temo
che mi porterebbe troppo lontano dal tema del libro. Mi limito pertanto a
riportare alcune pertinenti considerazioni di Wolfgang Behringer, lo storico
che meglio ha studiato venture e sventure del veggente bavarese.
Per Stoeckhlin i fantasmi della notte finirono per occupare una posizione
centrale nella sua percezione di sé stesso come guaritore e profeta. È stata la
partecipazione a questo mito che gli ha permesso di assumere un ruolo carismatico all’interno della comunità. In quanto membro dei fantasmi della notte,
Stoeckhlin ha guadagnato rispetto nel suo villaggio e probabilmente anche al
di fuori, ed ha acquisito clienti in fasce sociali che altrimenti non si sarebbero
mai rivolte a un mandriano.28
Nell’estate del 1586, otto anni dopo la prima apparizione di Jacob
Welch, la regione subì due diverse devastazioni: la distruzione dei raccolti
da parte degli agenti atmosferici e la perdita di molte vite per il diffondersi
di un’epidemia. Tra le prime reazioni delle autorità al panico ci fu l’arresto
di Anna Enzensbergerin. Le autorità episcopali, una volta informate
dell’iniziativa confermarono che l’arrestata doveva restare in prigione, ma
aggiunsero la richiesta che anche Chonrad Stoeckhlin venisse interrogato
in modo più puntuale da parte degli inquisitori del vescovo di Augsburg.
Costoro, prevedibilmente, diffidavano di un angelo che guidava i voli notturni e paventavano che la sua reale natura fosse diabolica. Ai loro occhi
la possibilità che il guaritore e scopritore di streghe di Oberstdorf fosse in
realtà uno stregone era più che concreta.
Nel corso del primo interrogatorio, il 29 luglio 1586, Stoeckhlin si
27. �����������
Ivi, p. 85.
28. ���������������
Ivi, pp. 86-87.
Eretici, streghe e vampiri
87
premurò di distinguere fra tre tipi di viaggio. Il suo intento era fugare i
sospetti e i dubbi degli inquisitori.
Egli spiegò che esistono tre tipi di viaggio e che quelli che volano con lui sono
detti fantasmi della notte (Nachtschar), mentre il secondo tipo è detto «giusto
viaggio» (die Rechte Fahrt), che è quello in cui i morti sono condotti alle loro
nuove dimore. Il terzo di tipo di viaggio è il volo delle streghe. Loro viaggiano
nell’aria, ma riguardo al loro volo egli afferma di non sapere nulla. Sostiene di
non essere mai stato con loro.29
Il meccanismo che da questo momento si mette in moto è ben
conosciuto. Gli inquisitori si erano formati su testi che interpretavano in
senso demonologico le dichiarazioni di colui che fino a poco tempo prima
era il principale accusatore di una strega. Non credendo alla versione di
Stoeckhlin, lo incalzarono affinché confessasse l’origine diabolica del suo
angelo. Il veggente negò con fermezza, ma a suo carico pesava già un
nuovo e imprevedibile elemento: Anna Enzensbergerin aveva sì ammesso
di essere una strega, ma aveva aggiunto di aver imparato la stregoneria
dalla defunta madre di Stoeckhlin. Gli inquirenti, inoltre, appresero che
alcuni figli di Stoeckhlin erano morti in tenera età; in loro si faceva largo
l’agghiacciante ipotesi che «forse egli li aveva sacrificati al diavolo o aveva
utilizzato i loro cadaveri per fabbricare unguenti malefici».30
Ormai il mandriano guaritore era al centro dell’attenzione degli
inquisitori, che presero a interrogare altri sospetti indirizzando le domande
sul ruolo di Stoeckhlin. Da quel momento le testimonianze contro di lui
si moltiplicarono. Numerosi testimoni affermarono di averlo visto ai
sabba che si celebravano sul monte Heuberg. Una donna, Anna Weberin,
lo confermò addirittura in un confronto diretto con Chonrad organizzato
dagli inquisitori per fiaccare le resistenze di lui. Ci vorranno però alcune
sedute di tortura perché lo sciamano di Oberstdorf confessasse infine di
essere stato sedotto dal demonio e di aver agito su sua istigazione. Ammise
inoltre di essere stato in precedenza iniziato alla stregoneria da sua madre:
«Circa ventisette anni prima sua madre lo aveva condotto per la prima
volta allo Heuberg e lo aveva presentato al malvagio Nemico. E gli aveva
detto che avrebbe dovuto rinnegare Dio e i santi. Poi lui aveva dato la mano
29. ���������������
Ivi, pp. 92-93.
30. �����������
Ivi, p. 95.
88
Sttreghe e cospiratori
al diavolo e concluso il patto».31 Sempre sua madre gli aveva consigliato,
nel caso in cui fosse stato arrestato, di inventarsi la storia dei fantasmi
della notte. Strana confessione la sua, che tra le righe nega la realtà proprio
delle esperienze che hanno condotto al suo arresto e rovescia la cronologia
acquisita riducendo i Nachtschar a un espediente escogitato a posteriori.
Siamo all’epilogo. Il 23 gennaio 1587 Chonrad Stoeckhlin salì i gradini del rogo che aspettava i condannati a morte per il crimine di eresia
diabolica. Sette donne, tra cui Anna Enzensbergerin, erano già morte in
carcere, verosimilmente a causa delle torture. Essendo state riconosciute
colpevoli, i loro corpi erano stati bruciati pubblicamente. Nel corso del
1587 diverse altre donne coinvolte nel caso Stoeckhlin furono consegnate
al boia.
L’assimilazione di stregoneria ed eresia
La coincidenza cronologica tra apice della caccia alle streghe e Rinascimento non cessa di sollevare interrogativi. La persecuzione contro la
stregoneria appare quasi il lato oscuro del fervore culturale rinascimentale.
In tal senso si potrebbe periodizzare una sorta di lungo Anti-Rinascimento
parallelo il cui inizio sarebbe collocabile intorno al 1450. La prima metà
del secolo XV è a buon diritto classificabile come il tempo della preparazione, quello in cui il paradigma del complotto che unisce Satana e le streghe
prese lentamente forma.
Il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa dell’esistenza di un
pericolo rappresentato dalla pratica del patto con il diavolo avvenne con la
bolla papale Summis desiderantes effectibus emanata da Innocenzo VIII il
5 dicembre 1484. La bolla ufficializzò, tra l’altro, una lettura delle tradizioni folkloriche che oggi riconosciamo come distorta. La compiuta assimilazione tra eretici, maghi e streghe, riuniti sotto la comune etichetta di
congrega di adoratori del demonio, si attuò invece circa nella prima metà
del Quattrocento. La sua formulazione appare definita in alcune opere pubblicate tra il 1435 e 1442 e di cui ritengo utile fornire una breve rassegna.
Il domenicano tedesco Johannes Nider nel Formicarius, scritto tra il
1435 e il 1437, sostenne che l’efferata congiura era relativamente recente.
Il complotto stregonesco contro la cristianità appare nella sua opera ben
31. �����������������
Ivi, pp. 103-104.
Eretici, streghe e vampiri
89
delineato e includeva il raduno segreto, il rinnegamento della fede e del
battesimo, l’adesione alla congrega del demonio, l’infanticidio e il cannibalismo. Le carni dei bambini uccisi erano cotte e servivano da base
per preparati magici. Sulla base delle informazioni ricevute dal giudice
bernese Peter von Greyenz, Nider affermò che le attività della setta dei
diabolici congiurati erano attestate a partire, circa, dal 1375.
L’anonimo Errores Gazariorum, redatto tra 1436 e 1437 espone le
caratteristiche (volo notturno, patto col diavolo, cannibalismo, orge, rinnegamento delle fede e dei sacramenti) di una «nuova eresia» organizzata
come una vera e propria anti-Chiesa.
Nel trattato Ut magorum et maleficiorume errores, anch’esso datato
tra 1436 e 1437, il giudice Claude Tholosan riferisce di essersi personalmente attivato contro streghe e stregoni delle valli della provincia di Briançon; il suo lavoro rimane legato alla visione in via di superamento che non
riconosce la realtà del volo magico e dei raduni notturni.
La Cronaca di Hans Fründ (datata tra 1437 e 1442), in cui, relativamente all’anno 1428, viene ricordata la scoperta nel Vaud di un’eresia
stregonesca e demoniaca, collocata in un quadro dottrinale preciso e ben
organizzato, con oltre 700 adepti pronti a rovesciare l’ordine cristiano. Anche secondo Fründ la setta era nata non più di mezzo secolo prima, ma di
tutti questi processi non è rimasta traccia documentaria.
Le Champion des Dames di Martin Le Franc mette in scena un dialogo
immaginario piuttosto originale che oppone un Campione delle donne, che
nega la realtà concreta del sabba, e un Avversario, che invece elenca tutte
le malefatte delle streghe e ne afferma la realtà.
In tutte queste opere la credenza in un complotto contro la cristianità
appare come un dato consolidato. Errores Gazariorum illustra minuziosamente l’organizzazione interna della setta, tipica delle società segrete di
congiurati. Ogni iniziato per prima cosa
giura che sarà fedele al maestro che comanda l’intera società. Secondo, che si
riunisca con la società. Terzo, che non rivelerà i segreti della detta setta. Quarto
che ucciderà tutti quei bambini che sarà in grado di ferire o uccidere e li porterà
alla sinagoga [sabba], e per questo debba intendersi bambini al di sotto dei tre
anni di età. Quinto, che si affretterà ad andare alla sinagoga tutte le volte che
viene richiesto di farlo. Sesto, che impedirà rapporti sessuali in ogni matrimonio in cui gli riesce, usando sortilegi e malefici. Settimo, che vendicherà tutte le
90
Sttreghe e cospiratori
offese fatte alla setta od ogni altro atto che possa ostacolarla o dividerla.32
Diverse fonti concorrono a indicare che in quegli anni cresceva la
percezione che una guerra contro le forze del demonio fosse sul punto di
scoppiare. Il più famoso e influente testo sull’argomento, il Malleus Maleficarum dei frati Predicatori Kremer e Sprenger, è del 1486; il Malleus
esprimeva una visione che non era ancora maggioritaria, ma stava per affermarsi – non senza resistenze, se si pensa che nel 1485 la popolazione
di Innsbruck si ribellò contro la durezza dei processi istituiti proprio da
Heinrich Kremer. Il conflitto contro il Male, inevitabilmente, andava condotto senza risparmio di mezzi. La delazione era incoraggiata, ad esempio
collocando nelle chiese delle cassette ove depositare denunce anonime. Un
infervorato sostenitore di questo espediente era lo storico Jean Bodin:
[…] è necessario di mettere in uso nell’inquisizione di questo così detestabile
delitto il lodevole costume di Scotia praticato a Milano, che si chiama judicio,
cioè che v’è una cassetta nella chiesa dentro la quale sarà lecito a ciascuno di
mettere un bolettino di carta col nome del sortilego, col caso commesso da lui,
il luogo, il tempo, i testimoni.33
Per tutti i cinque testi appena menzionati colpisce la vicinanza geografica e cronologica con il Concilio di Basilea. Durante questo lungo concilio,
iniziato a Basilea nel 1431 e conclusosi nel 1449 a Losanna, si verificò un
incidente diplomatico assai serio: era il 1440 quando i partecipanti reagirono all’ordine di papa Eugenio IV di spostarne la sede a Ferrara eleggendo l’antipapa Felice V, ovvero Amedeo VIII di Savoia, il cui segretario
era Martin le Franc, l’autore del Champion des Dames. Sotto il governo
dello stesso duca Amedeo, nel 1428, in seguito al successo dei sermoni
antisemiti di alcuni predicatori gli ebrei erano stati cacciati da Friburgo.
Nella medesima area geografica erano stati celebrati, a inizio secolo XV,
diversi processi contro il contagio ereticale valdese – processi in cui anche
le accuse di maleficio avevano giocato un ruolo.34 L’area di elaborazione
32. ������������������������������
Citato in Oscar Di Simplicio, Autunno della stregoneria. Maleficio e magia
nell’Italia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 306.
33. ���������������������������
Citato in Giuseppe Bonomo, Caccia alle streghe, Palermo, Palumbo, 1985 (I ed.
1959), p. 280 (da Jean Bodin, Demonomania degli stregoni, IV, 1, traduzione italiana di E.
Cato, Venezia presso Aldo, 1592).
34. ������������������
Martine Ostorero, The Concept of the Witches’ Sabbath in the Alpine Region, in
Eretici, streghe e vampiri
91
del paradigma del sabba sembra quindi essere stata quella compresa tra la
Savoia e la Svizzera occidentale. Non stupisce, pertanto, che proprio da
queste zone provenga la più antica documentazione di processi per stregoneria.
I primi processi alpini: Dommartin, 1498
Nel 1498 si scoprì una congiura satanica nel borgo di Dommartin,
nella regione elvetica del Vaud, poco lontano da Vevey. Gli inquisitori che
condussero i processi si preoccuparono di verificare preliminarmente le
opinioni degli interrogati riguardo a cosa fosse l’eresia. Le risposte che ci
sono giunte sono istruttive. Durante il primo interrogatorio François Marguet dichiarò di non essere eretico e di sapere che gli eretici erano coloro
che venivano arrestati per ragioni di fede. Risposta corretta, si direbbe.
«Interrogato sulle opere degli eretici, risponde che non le conosce». Risposta non convincente, a giudicare dal seguito. Nel terzo interrogatorio
gli venne rivolta la medesima domanda e la risposta fu diversa: gli eretici
«commettono il male e si spostano tra le nuvole con la tempesta e fanno
morire persone e animali con le arti diaboliche».35 È evidente che nell’ottica
dei giudici le credenze folkloriche relative al volo magico erano entrate
nell’orizzonte dell’eresia. L’interrogato, probabilmente indirizzato in tal
senso, lo aveva capito e si era adeguato.
Un’altra imputata, Marguerite Diserens dichiarò, in un primo momento,
di non credere all’esistenza degli eretici, ma successivamente cambiò
opinione. «Interrogata sulle azioni degli eretici, lei risponde che fanno
tutto il male possibile. Interrogata sul genere di male che commettono,
risponde che fabbricano la grandine, provocano la tempesta […]; il diavolo
è con loro, per quello che ha sentito dire».36 Lo schema si ripete molto
simile con Pierre Menetrey. «Gli si domanda chi è arrestato per la fede,
risponde che sono quelli che negano Dio e la Trinità. Gli si domanda
cosa fanno gli eretici e quelli che negano Dio, lui risponde di ignorarlo».
Witchcraft, Mithologies and Persecutions, a cura di Gábor Klaniczay, Éva Pócs, Budapest,
CEU Press, 2008, pp. 15-29, pp. 23-24.
35. ����������������������������
Citato in ������������������
Laurence Pfister, L’enfer sur terre. Sorcellerie a Dommartin (1498), Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, Lausanne, 1997, p. 201.
36. ����������������������
Citato in Ivi, p. 235.
92
Sttreghe e cospiratori
Questo, ovviamente, al primo interrogatorio. E anche al secondo. Al terzo,
«interrogato sul male che fanno gli eretici, dice di non saperlo, a parte aver
sentito dire che uccidono le persone e gli animali. […] dice di aver sentito
raccontare che vanno alla sinagoga in un luogo deserto».37
Gli eretici, dunque, erano coloro che negavano Dio e la Trinità – una
comprensibile semplificazione delle deviazioni teologiche dell’eresia – ma
soprattutto quelli che volavano, provocavano le tempeste e facevano morire
bestie e cristiani. Tutti gli interrogati attribuirono le proprie conoscenze in
materia, piuttosto vaghe a dire il vero, non all’esperienza diretta, ma alle voci
che circolavano: «Ho sentito dire», «ho udito raccontare». Non conosciamo
le fonti dell’informazione, o meglio della particolare interpretazione, ma
una risposta data da François Marguet a un precedente quesito ci indirizza
in una direzione precisa: «Interrogato se creda che i diavoli possano parlare
agli uomini, risponde di sì, come ha sentito dire da parecchie persone che
erano state arrestate a Mouton circa quarant’anni prima».38
A quanto pare nel territorio del Pays de Vaud si andava sedimentando
una memoria storica locale dei processi che implicava la diffusione anche
presso gli strati sociali non alfabetizzati dell’interpretazione che i giudici
avevano in passato imposto agli imputati e che le sentenze avevano divulgato. La cultura locale, sotto la spinta di precedenti processi, stava cominciando a guardare se stessa con occhi diversi, con gli occhi dei giudici e
degli inquisitori.
L’organizzazione delle sette che il Maligno aveva messo in piedi nel
Vaud appare piuttosto semplice, a bassissimo profilo gerarchico e decisamente non sessista, poiché uomini e donne vi compaiono rappresentati in
ugual misura. I rituali di adesione prevedevano il rinnegamento di Dio,
della Vergine e del battesimo, la profanazione dell’ostia e il calpestamento
di una croce tracciata sul terreno. Ci si recava ai raduni volando grazie a un
bastone magico che il diavolo consegnava all’adepto dopo l’ingresso nella
setta. Durante gli incontri si banchettava, si omaggiava il signore del male
e ci si abbandonava all’orgia sfrenata. Il demonio, che si manifestava sempre in sembianze umane e maschili, si accoppiava con le donne, ma evitava
i rapporti omosessuali. Poi si passava alle cose serie: i convenuti riferivano
sul male compiuto e i più efficienti ricevevano dei premi.
Da diverse testimonianze si apprende che durante i presunti sabba di
37. ����������������������
Citato in Ivi, p. 257.
38. ����������������������
Citato in Ivi, p. 197.
Eretici, streghe e vampiri
93
Dommartin la Vergine era sbeffeggiata con il soprannome di «Rossa». Si
deve qui vedere una traccia della cattiva reputazione che accompagnava
le persone con i capelli rossi. Rossi erano i capelli di Giuda, e rosse
erano le chiome degli ebrei raffigurate nell’iconografia denigratoria. Non
di rado, infine, i capelli rossi erano un attributo estetico dei diavoli. Nel
1518 Benvegnuda la Pincinella, una guaritrice di Nava, nel bresciano, così
descrisse il diavolo che la accompagnava al bon zogo e la intratteneva
anche carnalmente: «El me apareva in forma de un bel zoven, così de
mezo tempo, con la barba rossa».39 Dell’argomento mi sono occupato
in un saggio di alcuni anni fa, per cui spero sarò perdonato se prendo la
scorciatoia dell’auto-citazione.
Il rosso dei capelli porta in dote dei connotati di asocialità ancor più che di
animalità. Si ritiene che si accompagni ad un desiderio sessuale eccessivo e
sregolato ed è spesso interpretato come uno dei segni smascheranti un concepimento contro natura o macchiato dalla degenerazione morale. Tra le risposte
fornite al perché gli ebrei abbiano la barba rossa c’è un intreccio di credenze
relative alle turpitudini sessuali e agli eccessi di sangue. Secondo leggende diffuse un tempo in molte parti d’Europa, i giudei soffrirebbero di una troppo
abbondante circolazione sanguigna, presunta causa di uno smodato e indifferenziato desiderio sessuale e perfino di periodiche perdite di sangue – sorta di
corrispettivo maschile del ciclo mestruale. Per secoli di pregiudizi simili sono
vittima anche i lebbrosi, misera incarnazione dei mali e delle angosce della
società. Lebbrosi e rossi di capelli hanno una caratteristica comune: entrambi
sono ritenuti l’immondo frutto di illeciti coiti perpetuati durante le mestruazioni. […] L’affinità più eclatante è costituita dall’opinione diffusa nel folklore
europeo e accolta anche dai più misogini tra i canonisti dei secoli XII-XIV, che
si rifanno in parte al solito Plinio, secondo la quale lo sguardo e il cattivo alito
delle ragazze mestruate farebbe seccare le piante ed arrugginire il ferro. Isidoro
e Bartolomeo Anglico, invece, attribuiscono questo potere mortifero soltanto al
sangue mestruale stesso.40
39. ������������������
Citato in Muraro, La signora del gioco, p. 227.
40. ���������������
Paolo Galloni, Il sacro artefice, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 133-134.
94
Sttreghe e cospiratori
I primi processi alpini: Vevey, 1448
Benché in forme meno strutturate di quelle dei teologi, alla metà del
Quattrocento l’assimilazione tra stregoneria ed eresia sembra essere stata
precocemente recepita anche a livello popolare in alcune aree toccate
precocemente dai processi, in particolare proprio nelle terre sottoposte alla
giurisdizione del ducato di Savoia. L’area di sperimentazione precoce fu
quella che abbraccia il sud della Francia e le Alpi occidentali, in particolare
la regione del Vaud. Qualche lettore potrebbe sorprendersi di fronte alla
constatazione che anche dopo il passaggio alla Riforma protestante il
Pays de Vaud rimase la regione elvetica con il più alto tasso di condanne
per stregoneria; in realtà, ciò non fa che confermare la forza della
sedimentazione in loco dei germi culturali che rendevano le autorità e la
popolazione a vario titolo estremamente ricettive verso la percezione di un
rischio epidemico di stregoneria e complotto demoniaco.
Tra i primi processi documentati a delineare l’immagine del sabba in
forma compiuta, con tutte le sue componenti principali al loro posto, ci
sono quelli celebrati nel 1448 a Vevey, piccolo dentro del Vaud. La struttura del processo che si aprì il 3 marzo 1448 era tipicamente inquisitoriale:
l’inquisitore, assistito dal vicario del vescovo, si avvaleva della facoltà di
avviare un’inchiesta preliminare, inquisitio, sulla base di voci, fama, o denunce; e nella quale la confessione costituiva la prova per eccellenza.
Una figura fondamentale, per lo svolgersi del dibattimento, ma ancor di più per noi, è quella del notaio, vale a dire la persona incaricata di
trascrivere il verbale degli interrogatori. La presenza dei testimoni non è di
per sé indispensabile, ma a Vevey ne compaiono sempre, in numero variabile, con l’eccezione di una sola seduta. A loro viene richiesto di tenere
il segreto riguardo alle persone denunciate, questo per evitare che esse,
informate dell’interesse degli inquirenti, potessero fuggire.
Il primo accusato a comparire fu Jacques Durier, detto Jacquet, un
uomo avanti con gli anni che probabilmente esercitava la professione di
guaritore (un testimone si riferisce lui chiamandolo medico). Jacquet doveva rispondere dell’accusa di aver avvelenato un uomo che odiava, Jean de
Mossel, per mezzo di una polvere che gli sarebbe stata fornita nientemeno
che da Satana in persona. L’imputato confessò subito l’omicidio. Gli inquisitori decisero di non proseguire l’interrogatorio di Jacquet poiché era
tardi. Lo rimandarono in cella invitandolo a riflettere sui suoi errori e a
confessare tutti i suoi misfatti commessi durante il suo crimine di eresia.
Eretici, streghe e vampiri
95
L’assassinio di Jean de Mossel non interessava più, l’attenzione si sarebbe
spostata sul patto con il demonio. Ben più importante era sapere che undici
anni prima, mentre Jacquet, assillato da problemi economici di cui riteneva
responsabile Mossel,
camminava malinconico nel suo campo, un certo Pierre Ruvinat di Brent, nella
parrocchia di Montreux, che poi è stato bruciato per eresia, gli venne incontro
in compagnia di un tale che indossava un mantello viola scuro e che Jacquet
non conosceva. […] Pierre Ruvinat gli disse che era un buon amico e che si
chiamava Satana, e aggiunse: «se gli vorrai credere, ti farà ricco, ma bisogna
che tu gli dia un pezzetto del tuo dito mignolo». Jacquet rispose: «lo farò per
ricevere ricchezze». Diede allora a Satana un pezzetto del mignolo della mano
destra, dicendo che poi, istigato da Pierre Ruvinat aveva rinnegato Dio con le
parole, ma non nel profondo del cuore, e aveva accettato Satana come signore.41
Negli atti dell’interrogatorio di Jean de Mossel compare un interessante questionario che in quindici punti si prefiggeva di riassumere il percorso cristiano e la deviazione eretica dell’imputato. Le caratteristiche perverse del sabba e della congiura demoniaca sono evocate nelle domande
VIII-XV:
Il procuratore della fede richiede che l’accusato […] riconosca oralmente la verità di questi articoli rispondendo sì o no:
[…] VIII. Parimenti, se è vero che […] come un lupo ha mangiato carne umana
e ha strangolato e ucciso bambini innocenti.
IX. Parimenti, se è vero che Jacquet, in questa sinagoga eretica, ha abusato del
peccato carnale in presenza del diavolo e di altri eretici.
X. Parimenti, se è vero che Jacquet, per ordine del suo signore, ha introdotto
molti fedeli dei due sessi in questa sinagoga di eretici e che ha giurato al diavolo, con un patto speciale, di non denunciare mai i suoi compari e complici.
[…]
XIII. Parimenti, se è vero che Jacquet, per opera con aiuto del diavolo, dal
quale ha ricevuto un unguento in boccetti, ha causato e diffuso con esso delle
malattie.
41. ����������������������������
Citato in Martine Ostorero, “Folâtrer avec les démons”. Sabbat et chasses aux
sorciers à Vevey (1448), Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, Lausanne, 1995, pp.
200-202.
96
Sttreghe e cospiratori
XIV. Parimenti, se è vero che Jacquet, per opera e con l’aiuto del demonio, si è
spostato nell’aria per recarsi fisicamente al luogo della sinagoga e per causare
delle tempeste nel cielo.42
Jacquet irritò gli inquisitori contraddicendosi e negando la maggior
parte dei particolari che ci si aspettava confermasse. In ragione della sua
ostinazione fu sottoposto a tortura; dopodiché confermò tutto e denunciò i
complici. I congiurati «si riconoscevano per mezzo di un marchio a forma
di rospo che avevano sotto l’occhio sinistro e che nessuno poteva vedere a
parte gli eretici».43 Si tratta di una delle prime occasioni che vede indicata
la base dell’occhio come luogo fisico del marchio del Nemico, sovente
documentata in seguito.
In testa alla lista dei denunciati da Jacques Durier, che sarebbe stato
presto condannato a morte, c’era Catherine Quicquat. Su di lei pesavano
ombre di varia natura, in primo luogo la sua passata frequentazione con
una donna di nome Sibille, bruciata come eretica alcuni anni prima (è in
questa occasione che si apprende che c’erano stati altri processi nel recente passato), e il fatto che benché sposata non vivesse con il marito, ma
presso un sacerdote (il quale non viene toccato dall’inchiesta, segno che ha
saputo tutelare bene la sua reputazione). Catherine rifiutò di collaborare e
si lasciò convincere, per così dire, solo dopo un paio di sedute di tortura.
A questo punto si delinea il quadro ormai noto del sabba e tra i complici e
partecipanti emerge il nome del mugnaio Pierre Munier, uno degli uomini
che avrebbe avuto rapporti carnali con lei durante le orge rituali che si
scatenavano in occasione del sabba.
Le vicende di quest’ultimo meritano una digressione perché, mentre Catherine salirà sul rogo come Jacquet, il trattamento riservato dagli
inquisitori al mugnaio fu diverso, sorprendentemente blando. La prima
anomalia si riscontra già durante la seduta finale del processo Quicquat.
Secondo consuetudine all’imputata venne richiesto di confermare in via
definitiva le dichiarazioni rese in precedenza. Catherine lo fece, ma con
uno scostamento che stranamente i giudici lasciarono passare via senza
obiezioni:
Giurando sui santi Vangeli, lei ha confermato che tutto quello che gli è stato
42. ���������������������������
Citato in Ivi, pp. 216-218.
43. ����������������������
Citato in Ivi, p. 230.
Eretici, streghe e vampiri
97
letto e ripetuto era vero, pena la dannazione della sua anima, con l’eccezione
dell’accusa mossa a Pierre Munier, che, disse, non aveva mai visto alle riunioni
della setta: disse solo che Pierre l’aveva conosciuta carnalmente.44
Ora, il giorno prima, domenica 17 marzo 1448, era avvenuto un fatto
che a buon diritto possiamo definire sospetto. Pierre Munier, che in teoria
non avrebbe dovuto sapere che sabato 16 Catherine Quicquat l’aveva
denunciato, si presentò spontaneamente per confessare di essere stato
affiliato alla setta degli eretici, ma di essersi ora pentito e di implorare il
perdono della Chiesa. Strana coincidenza. O meglio, evidente indizio che
Pierre aveva avuto una soffiata e che un suggeritore aggiornato in tempo
reale, verosimilmente uno dei notabili che assistevano agli interrogatori, gli
aveva spiegato come muoversi su quello scivolosissimo terreno. A questo
punto, è forte l’impressione che Catherine Quicquat sia stata indotta in
qualche modo ad attenuare le sue accuse al mugnaio. È chiaro che Pierre
Munier, che se la sarebbe cavata con un’assoluzione subordinata a una serie
di penitenze, ha ricevuto un trattamento di favore, estremamente benevolo
rispetto agli altri imputati. Il mugnaio, forse grazie alle conoscenze derivanti
dalla sua professione, aveva, è il caso di dirlo, dei santi in paradiso.
Avvio del processo e conduzione degli interrogatori
Una sezione del Malleus Maleficarum è dedicata alla conduzione del
processo contro le streghe e gli altri agenti del demonio. Questo celebre testo
è comunemente e impropriamente associato all’attività dell’Inquisizione.
La procedura che illustra, tuttavia, è in alcuni punti diversa da quella prevista dal Sant’Uffizio e si applica meglio, a rigor di termini, alla più flessibile
prassi seguita nei tribunali secolari ed ecclesiastici ordinari che ai processi
gestiti direttamente dall’Inquisizione – che offrivano almeno formalmente
maggiori e meglio codificate garanzie agli imputati. Non è naturalmente
pensabile di fornire qui altro da uno schema semplificato delle procedure
processuali, che furono complesse e per nulla immutabili nel tempo.45
Un fascicolo processuale poteva essere aperto in seguito a denuncia,
44. ����������������������
Citato in Ivi, p. 256.
45. ������������������������������������������������������������������������������������
Per chi fosse interessato a un approfondimento mi permetto di rinviare ai lavori di
Prosperi, Del Col e Messena, citati in Bibliografia.
98
Sttreghe e cospiratori
accusa o anche d’ufficio. Gli autori consigliavano l’ultima procedura, che
prevedeva l’affissione alle porte delle chiese di una citazione generale
che ordinava a tutti coloro che fossero stati a conoscenza di fatti sospetti,
pena sanzioni ecclesiastiche e temporali, di denunciarli alle autorità. Il
processo vero e proprio cominciava con l’esame dei testimoni davanti
a un inquisitore, un notaio e due probiviri. Quando si procedeva a un
arresto la casa dell’imputata doveva essere accuratamente perquisita (gli
autori del Malleus pensavano al femminile, ma la misoginia di alcuni non
deve fuorviare al punto da identificare un fenomeno complesso come la
persecuzione della stregoneria con una campagna generalizzata contro
le donne). Se l’accusata aveva inquiline o serve, esse andavano arrestate
presumendo che fossero quantomeno a conoscenza di qualcuno dei suoi
segreti o che fossero in possesso di informazioni da fornire (si potrebbe
dire, in altri termini, che erano state pericolosamente esposte al contagio).
Quanto agli indizi, tutto faceva brodo, per così dire: un’esistenza irregolare
poteva indicare un patto con il Maligno quanto una vita irreprensibile – in
questo caso si sarebbe trattato di un astuto e subdolo mascheramento delle
reali intenzioni; se c’erano tra le sue antenate donne con fama di strega
era probabile che il contagio avesse avuto luogo in forma di trasmissione
di segreti e di investitura alla successione; strani segni cutanei erano
sempre ricercati come possibili marchi demoniaci. Non era necessario
concedere all’imputata un difensore, ma se avveniva era necessario che la
sua reputazione fosse al di sopra di ogni sospetto. L’accusata non aveva il
diritto di conoscere i nomi dei testimoni.
Se l’accusata riconosceva le proprie colpe e le confessava il processo
sarebbe stato breve con vantaggi per entrambe le parti. Se invece rifiutava
di collaborare allora la confessione andava estorta con ogni mezzo. Il ricorso alla tortura diventava addirittura consigliato. L’inquisitore, nel frattempo, avrebbe avuto cura di visitare l’imputata in carcere per ricordarle
i benefici materiali e soprattutto spirituali di una completa confessione.
I giudici che a Vevey nel 1448 conducevano l’interrogatorio di Jacques
Durier esortarono l’imputato
nel nome di Cristo a svelare senza menzogna tutto ciò che lui e i suoi complici
avevano commesso, spiegandogli che se avesse confessato subito e spontaneamente, nello stesso momento, come prevedono le sanzioni canoniche, noi
l’avremmo ammesso e l’avremmo ricevuto alla penitenza e alla misericordia
Eretici, streghe e vampiri
99
della Chiesa».46
Questi inviti alla confessione, che si accompagnano alla promessa
della concessione della penitenza e della misericordia della Chiesa, ricordano molto da vicino la sollecitudine con la quale i delegati del partito
comunista illustravano agli imputati i benefici giuridici, etici e psicologici
delle confessioni spontanee e complete. Come nei processi staliniani, la
denuncia dei complici rivestiva un ruolo essenziale nella validità della confessione. Essa rappresentava in qualche modo una doppia prova in assenza
di prove (che mancavano per la natura stessa del crimine, che era segreto e
coperto dagli inganni del Maligno): prova della veridicità e della sincerità
della confessione in corso e prova a carico nell’eventuale dibattimento che
si sarebbe aperto contro i denunciati. La tortura diventava necessaria agli
occhi degli inquisitori proprio perché senza di essa sarebbe stato difficile
scardinare il sistema di menzogne al quale necessariamente si affidava chi
aveva stretto un patto indissolubile con il Maligno.
Come ha scritto Martine Ostorero,
una ragione fondamentale del successo delle cacce alle streghe risiede nel cambiamento del sistema di procedura giudiziaria; questa era stata in precedenza
sperimentata nel quadro della lotta agli eretici prima di essere applicata contro
streghe e stregoni. In effetti, la vecchia procedura, detta “accusatoria”, opponeva
generalmente due persone (un accusatore e un accusato) divisi da un conflitto
privato. La procedura accusatoria non permetteva di incriminare che una sola
persona alla volta e se questa dimostrava la sua innocenza, era rimessa in libertà
senza altre condizioni; i casi di stregoneria o di magia tradizionale rimanevano
perciò casi isolati. Inoltre, questa procedura scoraggiava i delatori poiché essi
erano obbligati a provare le loro accuse […]. La soppressione dell’ordalia da
parte del concilio Laterano del 1215 assestò un colpo mortale a questo sistema
[…]. Con la procedura inquisitoria, promossa dal medesimo concilio, il legame
accusatore-accusato scompariva a vantaggio del binomi inquisitore-sospettato;
l’equilibrio delle forze si modifica: spetta all’inquisitore avviare l’inchiesta sulla base di denunce o di voci; ci si immagina facilmente come diventi facile per
una persona invidiosa accusare un vicino o un nemico di aver praticato i malefici, soprattutto perché ciò non comporta più conseguenze per il denunciante.
Poi, spetta al tribunale dimostrare la colpevolezza dell’accusato […]. Infine,
il ricorso alla tortura costituisce senza dubbio l’innovazione più significativa
46. ��������������������
Citato in Ostorero, “Folâtrer avec les démons”, p. 196.
100
Sttreghe e cospiratori
della procedura inquisitoriale.47
In una stimolante lettura dei processi di Arras, dei quali si dirà tra
breve, Franck Mercier ha proposto di interpretare l’impiego della tortura
nei casi di stregoneria diabolica come una forma di esorcismo. Si riteneva
infatti che il diavolo esercitasse «un’azione fisica sugli organi della parola
al fine di impedire la confessione».48 Si comprende meglio, a questo punto,
che «l’uso della tortura non era così lontano dalla pratica dell’esorcismo.
Come il sacerdote munito dei sacramenti della Chiesa poteva costringere
i demoni a pronunciare le verità della fede, parimenti il giudice, che fosse
laico o ecclesiastico, poteva, con l’aiuto della tortura, obbligare l’agente di
Satana a confessare il suo crimine».49 I tormenti erano inoltre tragicamente
necessari in quanto si trattava di spezzare il voto di silenzio che univa
i congiurati e il loro nero maestro. Come nel contesto dell’esorcismo il
corpo dell’accusato si costituiva pertanto come il luogo di un tremendo
combattimento che opponeva il potere legittimo e il diavolo.
Orge e inversioni
Nel 1448 il Malleus non era ancora stato scritto, mentre i giudici e gli
inquisitori di Dommartin nel 1498 non lo avevano probabilmente ancora
letto. Non a caso i primi processi nel Vaud non sono declinati al femminile
e gli stregoni, o congiurati, maschi vi occupano una posizione non trascurabile.
Alla lettura degli atti balza tuttavia agli occhi che nei passaggi relativi
all’orgia i giudici tendevano a chiedere un numero maggiore di dettagli
alle donne, le sole ad avere avuto rapporti sessuali con il nemico. Catherine
Quicquat, accusata nel 1448, interrogata per sapere quante volte il suo signore si era carnalmente unito a lei e in che modo, rispose e confessò spontaneamente che ciò era avvenuto una dozzina di volte, per sodomia, e che il
diavolo copulava con lei come un selvaggio.50 Curiosamente, il notaio che
47. �����������������
Ivi, pp. 144-145.
48. ����������������
Franck Mercier, La Vauderie d’Arras. Une chasse aux sorcières à l’Automne du
Moyen Âge, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006, p. 255.
49. �����������������
Ivi, pp. 255-256.
50. ����������
Ostorero, “Folâtrer avec les démons”, p. 253.
Eretici, streghe e vampiri
101
redige il verbale traducendo in latino le dichiarazioni dell’imputata mantiene il termine vernacolare sovajoz, selvaggio (erat sicut unios sovajoz).
Si può disquisire a lungo sulla curiosità talvolta morbosa degli inquisitori;
formalmente essa era giustificata dal dovere di documentare e conoscere le
abitudini dell’Avversario.
A Dommartin, mezzo secolo dopo, Isabelle Perat, giovane e avvenente
vedova detta la Jolie, la bella,
interrogata su ciò che il diavolo diceva loro laggiù, risponde che ordinava di
fare tutto il male possibile, in particolare che facessero morire uomini e animali; e che ciascuno rendeva conto al diavolo dei malefici più o meno grandi che
aveva compiuto. Interrogata su cosa facessero d’altro, risponde che gridavano
Meclet! Meclet! [“Mescolatevi!”] E subito gli uomini prendevano le donne con
sodomia; aggiunse che Pierre du Grange, del Monte, era stato con lei. Interrogata per sapere se altre persone erano state con lei nella sinagoga disse di sì,
che era stata una volta anche con il diavolo, il suo signore, in forma umana, e
che il suo seme era freddo e che lei poi si era ammalata.51
La freddezza del seme o del membro del diavolo è un luogo comune
ricorrente negli interrogatori, ne fanno cenno anche Catherine Quicquat
di Vevey e le accusate di Rifreddo. Si potrebbero portare numerosi esempi, mi limiterò ad aggiungerne un paio. La già citata Benvegnuda detta
Pincinella, di Nava, aveva confessato di aver avuto rapporti sessuali con il
Maligno. «Dimandata si avea piacer usando carnalmente con il ditto Zuliano [il nome del suo amante demoniaco], rispose de sì, ma l’era sempre
fredo, et lei li dimandò che vol dir che seti cossì fredo, et chi sete voi, alora
il dito Zuliano li disse son un diavol».52 Il dettaglio ritorna nella confessione della quattordicenne Magdeleine des Aymards, anche lei già menzionata e per la quale è stata ipotizzata l’assimilazione di dettagliati racconti
ascoltati dagli adulti della sua famiglia e del vicinato: il diavolo
prese con la mano il suo membro virile e lo infilò nella natura della suddetta
[Magdeleine] causandole un forte dolore che la obbligò a gridare, tanto che il
diavolo le disse che non si doveva urlare e la fece tacere; e la suddetta disse che
il diavolo eiaculò nella sua natura un seme che era freddo come il ghiaccio.53
51. ���������
Pfister, L’enfer sur terre, p. 223.
52. ��������
Muraro, La signora del gioco, p. 225.
53. ���������
Mandrou, Possession et sorcellerie au XVII siècle, pp. 22-23.
102
Sttreghe e cospiratori
Il particolare aveva colpito Sigmund Freud, che in una lettera indirizzata a Fliess aveva scritto: «Se arrivassi soltanto a sapere perché, nelle
loro confessioni, le streghe dicono sempre che lo sperma del diavolo è
freddo!».54 Una risposta alla domanda che tanto intrigò il fondatore della
psicoanalisi è forse possibile. Occorre cercarla non tanto in misteriose dinamiche psichiche quanto nell’incontro tra la demonologia dotta e le teorie
fisiologiche medievali. L’elaborazione delle teorie aristoteliche, nel quadro
della teoria galenica degli umori, portò a individuare come caratteristiche
peculiari dell’inferiorità fisiologica femminile l’eccesso di complessione
fredda e umida. Alcuni testi paventavano che nelle donne anziane l’assenza
di mestruazioni esasperasse il problema e determinasse in loro una sorta
di tossicità. Un passaggio del De secretis mulierum, del secolo XIII, attribuisce alla fisiologia femminile una potenzialità velenosa che contiene
alcune premesse di una successiva interpretazione in chiave stregonesca.
Si riteneva che la ritenzione del mestruo generasse nelle donne anziane
lo sviluppo di umori malsani che le rendeva potenzialmente velenose e in
grado di infettare i bambini. Alle anziane mancava ormai il calore naturale
che permetteva di consumare e dirigere questa materia. «Le vecchie povere, che non mangiano che cibi grossolani, sono le più velenose».55
Contemporaneamente, il dibattito intorno alla corporeità del diavolo
era giunto a conclusioni che avevano attinto al versante negativo della fisiologia: nel corpo del Maligno, si pensava, non scorreva sangue e la sua
complessione doveva essere ancora più fredda di quella delle donne anziane. Il diavolo era dunque per natura gelido e sterile. Questa credenza,
che ha origine nella cultura alta, è stata certamente divulgata anche presso
il popolo analfabeta o scarsamente alfabetizzato. È peraltro noto che gli
stessi interrogatori siano stati un vettore di divulgazione di aspetti della
demonologia colta; non si può dunque escludere che anche l’idea della
freddezza del membro diabolico sia giunta alle imputate attraverso la catena di trasmissione rappresentata dai processi e dalla memoria di essi che
si sedimentava in ambito locale.
54. ������������������
Citato in Muraro, La signora del gioco, p. 225.
55. �������������������������������������������������������������������
Citato in Jacquart-Thomasset, Danielle
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Jacquart, Claude Thomasset, Sexualité et
savoir médicale au Moyen Age, Paris, PUF, 1985, p. 103.
Eretici, streghe e vampiri
103
La Vauderie di Arras
Il meccanismo processuale avviato dalla minaccia di un complotto diabolico e corroborato da una catena di denunce e confessioni relative a turpitudini sessuali appare già ben organizzato anche nella cosiddetta Vauderie di Arras, che devastò la città dell’Artois tra 1459 e 1460, annunciando
situazioni sinistramente simili nei secoli successivi, fino al Ventesimo.
Alcune denunce apparentemente ben circostanziate che descrivevano
misteriosi ritrovi notturni conditi da libagioni e orge culminanti nel patto
satanico diedero l’avvio a una serie di brutali interrogatori durante i quali
imputati e imputate confessarono di essersi associati al Maligno e denunciarono molti complici:
[…] con il favore della notte a queste assemblee si radunavano uomini e donne
di ogni ceto e ordine della società; essi adoravano il diavolo, che aveva preso
forma umana, ma non vedevano mai il suo volto. Essi giuravano di rispettare la sua volontà e obbedire ai suoi comandi, poi, dopo aver approfittato del
banchetto approntato per loro, si spegnevano le luci; allora ognuno prendeva
la prima donna che gli si offriva e si univa a lei. Più tardi, grazie alla magia del
Demonio, ciascuno si ritrovava a casa propria.56
Uno dei primi accusati, Jean Tannoye, sarebbe venuto in contatto con
l’eresia in Savoia: anche le precoci vicende del relativamente lontano Artois,
dunque, lasciano intravedere un filo che rimanda alle regioni alpine come
laboratorio di elaborazione del paradigma del complotto stregonesco. Ad
Arras si osserva all’opera un secondo aspetto fondamentale di un intreccio
tra religione e politica di primaria rilevanza storica. L’assimilazione, che
si andava affermando non senza ambiguità, dell’eresia al crimine di lesa
maestà non comportò solo l’autorizzazione a leggere in chiave politica una
questione inerente alla sfera religiosa, ma incoraggiò le istituzioni politiche a pensare in termini di complotto e soprattutto a prendere in considerazione azioni d’emergenza che escludevano le normali garanzie accordate
agli accusati con il pretesto di difendere l’esistenza stessa dello Stato e del
Principe. In tal senso il Diavolo fu una pedina fondamentale nella partita
che nell’Autunno del Medioevo si giocò per definire le nuove prerogative
XVI.
56. ���������
Mercier, La Vauderie d’Arras, p. 14, che cita dagli Annales Rerum Flandricarum,
104
Sttreghe e cospiratori
da assegnare al potere politico.
Le prime deposizioni raccolte dagli inquirenti di Arras furono seguite
da una persecuzione capillare che coinvolse un numero altissimo di abitanti, comprese persone molto in vista. Secondo il cronista Monstrelet l’alto
numero degli accusati era la conseguenza della procedura seguita dai giudici.
[…] essi suggerivano agli imputati i nomi di quelle persone, e gli imputati, messi alla tortura, dicevano di averle effettivamente vedute alle riunioni notturne. […]. La situazione in città era gravissima e non pochi, per
evitare il peggio, abbandonavano la città e il suo territorio.57
L’apparente perdita di controllo sulla situazione da parte delle autorità
locali determinò l’intervento del duca di Borgogna Filippo il Buono, che
sospese gli arresti senza però sconfessare apertamente l’azione dei giudici.
La vauderie si chiuse definitivamente nel 1461 con l’arrivo ad Arras di
un delegato del Parlamento di Parigi, anche se sarebbero dovuti passare
trent’anni perché, nel 1491, il medesimo parlamento annullasse formalmente le sentenze del 1459-1469 e riabilitasse collettivamente i condannati, alcuni dei quali ormai bruciati sul rogo.
Il complotto come contagio nel ‘300
Papa Giovanni XXII era ossessionato dalla magia e dai complotti,
diabolici e umani. In una lettera datata 29 aprile 1317 diede mandato
al fedele vescovo Gaillard affinché fossero arrestati e giudicati «certi
chierici del Sacro Palazzo e il chirurgo-barbiere Jean d’Amant accusati
di attentare alla sua vita. Costoro, torturati, avevano confessato che in un
primo momento avevano pensato di servirsi del veleno per sopprimere il
Pontefice, ma non presentandosi l’occasione favorevole avevano deciso di
farlo morire mediante un maleficio per infissione. A questo scopo avevano
costruito alcune statuine invocando il diavolo».58 Abbiamo qui un esempio
ben delineato del modello che si ritroverà nei complotti costruiti nel
corso delle istruttorie dei processi celebrati nel Novecento: i congiurati,
che avevano stretto un accordo con il Nemico, si annidavano all’interno
del sistema che legittimamente esercitava il potere. Gli agenti del Male
57. ��������
Bonomo, Caccia alle streghe, p. 155.
58. �����������
Ivi, p. 53.
Eretici, streghe e vampiri
105
tramavano mascherati da servitori del Bene.
Al complotto avignonese il diavolo fu invitato a partecipare solo a
posteriori, l’accordo tra i congiurati in principio non lo includeva. Appena
quattro anni dopo, però, il Maligno fu fin dall’inizio protagonista di un
altro famoso complotto.
Nella storia europea la connessione tra pestilenza e stregoneria ed eresia
non è stata attiva semplicemente sul piano concettuale e morfologico (ma,
si badi, con enormi ricadute sociali e psicologiche). Esistono testimonianze
di epidemie le cui cause sono state effettivamente attribuite a complotti
diabolici e stregoneschi, con il coinvolgimento di categorie sociali ritenute
potenzialmente predisposte. Un caso emblematico si verificò nel 1321 ed è
stato magistralmente ricostruito da Carlo Ginzburg.
In rapporto a quell’anno diverse cronache francesi riferiscono di massacri perpetrati contro i lebbrosi accusati aver progettato l’avvelenamento
della popolazione sana. La lettura dei fatti dell’autorevole inquisitore domenicano Bernard Gui è tra le più circostanziate: i lebbrosi, «malati nel
corpo e nell’animo», avevano contaminato sorgenti, pozzi e fiumi con polveri avvelenate al fine di trasmettere la lebbra ai sani.
Sembra incredibile, scrive Gui, ma aspiravano al dominio delle città e delle
campagne; si erano già spartiti il potere e le cariche di conti e baroni. Molti
dopo essere stati imprigionati confessarono di aver partecipato a riunioni segrete o capitoli, che i loro capi avevano tenuto per due anni di seguito per
ordire il complotto. Ma Dio ebbe pietà della sua gente: in molte città e villaggi
i colpevoli vennero scoperti e bruciati. Altrove la popolazione inorridita, senza
aspettare un giudizio in piena regola, sbarrò le case dei lebbrosi e le diede alle
fiamme insieme ai loro abitanti.59
Alcuni cronisti che scrivevano pochi anni dopo i fatti aggiunsero un
dettaglio non di poco conto: del complotto avevano fatto parte anche gli
ebrei. Gli ebrei sarebbero stati anzi i burattinai che manovravano come
marionette i lebbrosi. La diceria sosteneva che gli ebrei erano stati corrotti
dal re musulmano di Granada, e avevano riunito alcuni dei capi dei lebbrosi
e con l’aiuto del diavolo li avevano persuasi ad abiurare la fede in Cristo.
A sancire il perverso accordo, al culmine della blasfemia, sarebbe stata
59. ��������������������������
Citato in Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino,
Einaudi, 1989, p. 5.
106
Sttreghe e cospiratori
perpetrata un’offesa all’ostia consacrata, triturata e mischiata alle pozioni
venefiche destinate ad avvelenare i cristiani.
Nel 1321 le cronache ci mostrano all’opera gruppi sociali variamente
marginali che stringono un patto diabolico tra loro e con il Maligno in
persona contro la cristianità intera. Il loro obiettivo era scatenare una
pestilenza, ma i loro piani furono scoperti in tempo. Nel 1347 le cose
andarono diversamente. Nel settembre di quell’anno la peste arrivò in
Europa. Lo sbarco ebbe luogo probabilmente al porto di Messina e il mezzo
di trasporto fu una flotta mercantile genovese di ritorno da Costantinopoli.
L’epidemia si mosse, spietata e implacabile, da sud verso nord. Il viaggio
non fu dei più veloci – occorsero due anni perché il flagello raggiungesse le
terre settentrionali europee – ma in compenso fu di impressionante ferocia.
Nel 1350 la popolazione europea si era ridotta di almeno un quarto.
Come è tristemente facile da immaginare, il diffondersi del contagio
fu da più parti attribuito a una criminale cospirazione ebraica – e poco
importa se gli ebrei morivano al pari degli altri. Il primo pogrom colpì il
ghetto di Tolone la domenica delle Palme del 1348; nel mese successivo
aggressioni e saccheggi contro gli ebrei si verificarono in diverse città della
Provenza. Quasi una seconda epidemia, le violenze antigiudaiche si estesero presto al resto della Francia e alla Catalogna.
Colpisce che la zona interessata sia la medesima che aveva vissuto
il panico collettivo del 1321 e, prima ancora, la sanguinosa Crociata albigese. È come se un trauma violento riaffiorasse e tornasse ad affliggere
la regione che aveva visto fiorire nel secolo XII la civiltà d’oc, con le sue
corti e i suoi poeti. La memoria aveva probabilmente sedimentato la predisposizione culturale a interpretare l’epidemia come la conseguenza di un
complotto ebraico.
Come in una reazione chimica, gli sparsi elementi che si erano manifestati in
questa prima fase – i massacri delle comunità ebraiche della Provenza compiuti
da folle inferocite, la tesi del complotto dei mendicanti lanciata dalle autorità di
Narbonne e Carcassonne e ripresa ad Avignone – s’incontrarono e deflagrarono.
Ciò avvenne ancora più a est, nel Delfinato, probabilmente nella seconda metà
di giugno. Sappiamo che al principio di luglio due giudici e un notaio, provvisti
di lettere speciali del Delfino, condussero un’inchiesta a Vizille, non lontano
da Grenoble, contro un gruppo di ebrei – sette uomini e una donna – accusati
pubblicamente (pubblice diffamati) di aver sparso polveri velenose nelle fontane,
nei pozzi e nei cibi. […] Da questo momento è possibile seguire il rapidissimo
Eretici, streghe e vampiri
107
diffondersi, quasi per contagio, della persecuzione contro i presunti avvelenatori
ebrei, che ora segue ora anticipa, verosimilmente con l’intenzione di prevenirlo
o bloccarlo, il contagio della peste».60 Una bolla emessa da papa Clemente VI,
che condannava come assurda la tesi del complotto, rimase inascoltata. Gli atti
del processo contro Guillaume Agassa e i suoi complici, tutti della cittadina
di Villeneuve, situata nei pressi del lago Lemano, raccontano una storia che
abbiamo imparato a riconoscere: tutti avevano da principio negato le accuse;
«tutti erano stati sottoposti a tortura; tutti, dopo una resistenza più o meno
lunga, avevano finito con l’ammettere la propria colpevolezza, descrivendo con
grande abbondanza di particolari la cospirazione cui avevano preso parte.61
Non lontano dal lago Lemano e dalla città di Ginevra sorgono la cittadina di Vevey e il villaggio di Dommartin, ormai note al lettore. A Vevey
il primo degli interrogatori, quello di Jacques Durier, si inaugurò con
l’imputato chiamato a rispondere dell’accusa di aver causato a un vicino
una mortale infezione con l’ausilio di una polvere di origine diabolica. In
una fase successiva dell’interrogatorio, Durier dovette confermare di aver
ricevuto da Satana un unguento mediante il quale diffondere malattie tra
i cristiani. L’idea del contagio diffuso dagli agenti del Maligno proviene
chiaramente dai giudici. Il dato suggerisce l’esistenza una qualche forma di
continuità tra i primi processi per stregoneria del secolo XV e le esperienze
di panico collettivo scatenate dalle epidemie più di cento anni prima.
Il processo ai Templari
Il processo ai Templari, voluto dal re di Francia in contrasto con
l’orientamento del papa, si aprì nel 1307, vale a dire quattordici anni prima
dello smascheramento del complotto dei lebbrosi, e per l’intera sua durata
sviluppò con arte ridondante il motivo della congiura che germinava in
seno alla cristianità. L’unico mezzo che Filippo il Bello e i suoi collaboratori potevano utilizzare per eliminare l’ordine e appropriarsi delle sue favolose ricchezze era fabbricare l’accusa di essere, dietro la pia facciata, una
setta eretica, dunque un pericolo per la cristianità annidato al suo interno.
La lista delle imputazioni si apriva con la descrizione del rituale di ingresso
60. ��������������
Ivi, pp. 39-40
61. �����������
Ivi, p. 41.
108
Sttreghe e cospiratori
nell’ordine dei novizi. Essi erano chiamati innanzitutto a rinnegare Cristo
per tre volte e per tre volte a sputare sulla croce. Ultimata questa esecrabile
iniziazione,
[…] spogliatisi delle vesti che avevano portato nella loro vita mondana, nudi
dinnanzi al visitatore o a colui che ne fa le veci, il quale li accoglie nell’ordine,
si fanno baciare da questi dapprima sul didietro, sulla spina dorsale, poi
sull’ombelico e infine in bocca, in oltraggio alla dignità umana e secondo il
rito profano del loro ordine. E dopo […] si fanno l’obbligo di non negarsi l’un
l’altro nell’orribile e tremendo vizio del giacere insieme, per il quale l’ira di
Dio si abbatte su di loro, figli dell’infedeltà.62
Si diceva poi che alle riunioni dei capitoli provinciali i maggiori ufficiali dell’ordine baciassero e adorassero la testa di un uomo barbuto. Durante gli interrogatori l’idolo venne identificato con maggiore precisione
come il simulacro di Maometto. I Templari sarebbero quindi stati dei traditori venduti al nemico che avrebbero dovuto combattere in Terrasanta.
Il processo ai Templari, benché allestito e manipolato da ufficiali laici,
con non pochi attriti tra il re di Francia e la Santa Sede, rappresenta forse
il precedente meglio strutturato dei successivi processi inquisitoriali per
eresia e stregoneria. La procedura da seguire nella cattura e negli interrogatori, allegata all’ordine di arresto, riprende e sviluppa astutamente i
modelli che gli inquisitori stavano elaborando.
[…] metteranno i frati sotto buona custodia, separandoli l’uno dall’altro,
e cominceranno l’inchiesta di persona prima di chiamare i commissari
dell’Inquisizione; e cercheranno di ottenere la verità con la tortura, se necessario, e se quelli confesseranno la verità, faranno venire dei testimoni e redigeranno per iscritto le loro deposizioni.
Questa è la maniera di condurre l’inchiesta:
Si faranno loro delle esortazioni sugli articoli della fede e si dirà loro come
il re e il papa siano stati informati da molti testimoni degni di fede, membri
dell’ordine, dell’errore e dell’eresia dei quali si erano resi colpevoli in modo
particolare in occasione delle loro cerimonie d’ingresso, e della loro professione;
si dovrà promettere loro il perdono se confesseranno la verità e torneranno alla
62. ��������������������������
Citato in Barbaara Frale, L’ultima battaglia dei Templari. Dal codice ombra d’obbedienza militare alla costruzione del processo per eresia, Roma, Viella, 2001, p. 312.
Eretici, streghe e vampiri
109
fede della santa Chiesa, o altrimenti che saranno condannati a morte.63
A dispetto dell’impostazione nitidamente inquisitoriale del testo,
l’intenzione del re di Francia era di scavalcare il tribunale ecclesiastico e
di tenere gli inviati del papa ai margini dell’inchiesta. In buona sostanza,
Filippo mirava a ottenere una condanna senza passare attraverso la lenta e
scrupolosa macchina dell’Inquisizione ufficiale.
Oltre 500 imputati confessarono le accuse prefabbricate. Da un lato
si rimane colpiti dalla profonda analogia con i processi staliniani: a partire
da mezze verità o da semplici sospetti le certezze degli imputati venivano
incrinate evocando le deposizioni già rese da altri testimoni; inoltre, anche nel processo ai templari i teoremi accusatori non appaiono costanti e
fedeli alla formulazione iniziale, ma si rivelano dinamici, in evoluzione
nel tempo – è solo in una seconda fase del dibattimento, per esempio, che
compare tutto il materiale relativo alle pratiche sataniche e all’uso perverso
del sacramento della Penitenza. Dall’altro lato, è importante osservare che
la costruzione dell’impianto accusatorio aveva bisogno di fonti a cui ispirarsi; queste non potevano che provenire dalla documentazione, scritta e
orale, della lotta all’eresia condotta nei secoli precedenti, in particolare nel
sud della Francia. Sono infatti gli inquisitori protagonisti dei processi ai
templari tenuti Linguadoca (tra i quali forse lo stesso Bernard Gui) che più
rapidamente adeguarono gli interrogatori al paradigma demoniaco-ereticale: adorazione di idoli, baci osceni a gatti neri, orgie, presenza di figure
femminili assimilabili a streghe.64
Antecedenti del Patto con il nemico
La nozione di patto con il demonio, come è noto, è ben più antica.
Essa compare, anche se in forma episodica, già in fonti altomedievali. Un
esempio è la leggenda relativa a Teofilo di Cilicia, divulgata in Europa
occidentale da Rosvita di Gandesheim. Teofilo era un vescovo che aveva
dovuto dimettersi perché vittima di basse calunnie. Deluso e abbandonato,
si lascia persuadere da un negromante ebreo a recarsi con lui a un convito
63. ������������
Ivi, p. 314.
64. Barbara Frale, I Templari e la sindone di Cristo, Bologna, Il Mulino, 2009, pp.
63-67.
110
Sttreghe e cospiratori
diabolico. Satana in persona promise a Teofilo che sarebbe stato reintegrato
nella carica episcopale se avesse rinnegato Dio, Cristo e la Vergine. Teofilo, mosso dal risentimento, acconsentì a stringere un patto con il nemico
della Chiesa, formalizzato su un documento scritto e firmato. Il vescovo recuperò posizione e onori, ma un giorno, tormentato dal rimorso, si rivolse
alla Vergine implorando il suo perdono. Maria, impietosita, intercedette
presso Gesù che a sua volta ottenne da Satana lo scioglimento del patto.
Rosvita mette in bocca al diavolo ciò che desidera ottenere da Teofilo: «Se
egli desidera essere mio rinnegherà Cristo e la vergine sua madre».65
Verso il 1250 Rutebeuf riprese la leggenda nel dramma Il miracolo
di Teofilo; il patto tra il diavolo e il protagonista è narrato in forma dialogica:
Satana: «Fa tre passi indietro e ripeti con me: io rinnego totalmente Dio!»
Teofilo: «Io rinnego totalmente Dio!»
Satana: «E sua madre che l’ha generato»
Teofilo: «E sua madre che l’ha generato»
Satana: «Io divento tua proprietà»
Teofilo: «Io divento tua proprietà»
Satana: «Anima e corpo»
Teofilo: «Anima e corpo».66
L’accusa infamante di essersi dati anima e corpo al demonio era stata
periodicamente rivolta agli eretici e nel 1250 era tristemente all’ordine del
giorno. L’opera di Rutebeuf era a tutti gli effetti un dramma di attualità.
La crociata albigese
Prima della grande crisi scatenata dalla Riforma luterana – una
crisi religiosa, politica, ma che ha soprattutto coinvolto direttamente le
coscienze dei singoli fedeli – si erano verificate altre situazioni che avevano
contribuito a preparare culturalmente e giuridicamente il terreno a uno
scontro di maggiori proporzioni. In particolare, c’era stata la cosiddetta
crociata albigese, formalmente proclamata da Innocenzo III nel 1208. Si
65. �����������������������
Citato in Guy
�������������
Bechtel, La sorcière et l’Occident, Paris, Plon, 1997, p. 115.
66. ����������������������
Citato in Ivi, p. 116.
Eretici, streghe e vampiri
111
era trattato di un consapevole trasferimento in territorio aquitano di un
concetto che era stato operativo fino a quel momento solo per qualificare
le iniziative volte alla riconquista di territori in mano musulmana, vale a
dire la Terra Santa e la Spagna ancora in mano islamica. Nel caso albigese,
invece, si era ritenuto che la penetrazione capillare dell’eresia dualista
dei Catari nei territori amministrati dal conte di Tolosa e dai suoi vassalli
rendesse necessaria e urgente l’apertura di un fronte interno.
La crociata albigese è importante per molte ragioni; una, di rilevante
interesse in questa sede, è che in essa si sperimentò per la prima volta in
forma compiuta l’azione di inquirenti/inquisitori che non traevano legittimità dalle istituzioni e dalle comunità locali, ma costituivano un’élite che
rispondeva direttamente ai vertici del potere mandatario, nella fattispecie il
papato, al quale si aggiunse in una seconda fase il regno di Francia.
Da allora l’intervento di questa categoria di funzionari e specialisti
sarebbe diventata una prassi consolidata qualora ci si fosse trovati ad affrontare congiure e complotti (spesso fittizi o manipolati) riconducibili a
un patto scellerato stretto tra un potente Avversario – il diavolo, il capitalismo mondiale – e i suoi adepti confusi abilmente tra la gente comune se
non addirittura tra i servitori del Bene.
Con il concilio Laterano del 1215, celebrato in piena crisi albigese, la
crociata contro gli eretici divenne ufficialmente un dovere e un’istituzione
della cristianità. Il concilio tratteggiò le linee generali della procedura inquisitoria, ma è solo una ventina di anni dopo che Gregorio IX formalizzò
l’istituzione della Santa Inquisizione. Essa fu insieme conseguenza della
percezione di un rinnovato protagonismo diabolico nel mondo e causa
dell’intensificarsi della percezione stessa: il Male è un’entità che si finisce
sempre per trovare se lo si cerca con determinazione. Ecco allora che i
costumi irreprensibili dei perfetti Catari, che seducevano i cristiani con una
condotta di vita apparentemente ispirata alla semplicità evangelica, erano
in realtà un travestimento ben riuscito, un inganno dietro al quale si celava
un piano demoniaco. Il Male indossava i panni del Bene per raggiungere
i propri obiettivi. Nel 1233 lo stesso Gregorio IX aveva emanato la bolla
Vox in Rama, diretta in primo luogo ai vescovi renani, in cui avvisava di
vigilare contro una setta satanica che si riuniva di notte: nel corso del deplorevole rito il Maligno si manifestava in forma di rospo ai convenuti,
che lo omaggiavano e si abbandonavano a ogni sorta di eccesso sessuale,
un luogo comune polemico che conosciamo ormai fin troppo bene e che,
come vedremo, non era un’invenzione recente, ma vantava all’epoca una
112
Sttreghe e cospiratori
tradizione consolidata.
Altri eretici, altre persecuzioni
Il secolo XII ha conosciuto insieme a un eccezionale rinascimento culturale un impressionante crescendo di persecuzioni anti-ereticali, che in
una certa misura prefigura la successiva coincidenza tra Rinascimento e
caccia alle streghe. Le esecuzioni di Pietro di Bruys nel 1126 e di Arnaldo
da Brescia nel 1146 si stagliano come momenti cruciali di una revisione
delle strategie teologiche e giuridiche della Chiesa. Nel 1197 il concilio
di Gerona proclamò che tutti gli eretici meritavano la condanna al rogo,
quale corrispettivo terreno del fuoco dell’inferno. Nel 1199 la decretale Vigentis in senium di Innocenzo III dichiarò gli eretici passibili di condanna
per tradimento. Oltre a contribuire a cristallizzare l’immagine dei congiurati contro la società cristiana, la conseguenza principale della Vigentis fu
l’implicito diritto della Chiesa, in collaborazione con l’autorità secolare
che in teoria doveva essere vincolata dalla sentenza, di condannare a morte
coloro che deviavano dall’ortodossia. Mancavano pochi anni alla proclamazione della crociata Albigese da parte dello stesso Innocenzo III.
Nel corso del secolo XII si verificò la convergenza di due fenomeni
nati indipendentemente: l’elaborazione di un pensiero giuridico articolato, tanto in ambito civile che canonico, e la messa a punto di nuovi strumenti, anche giuridici, funzionali alla lotta all’eresia. La crociata albigese fu l’occasione di mettere a punto una teoria giuridica dell’estorsione
delle informazioni. Essa indicava l’obbligo di inserire nella confessione
al sacerdote la denuncia degli eretici se nel corso della stessa emergeva
una conoscenza, un legame o un semplice sospetto. Di fatto, la procedura
dei processi per eresia rientrava nelle nuove norme elaborate da Graziano.
L’indagine si poteva quindi aprire non più solo in seguito all’accusa di un
testimone, ma anche per vox populi. I sospetti dovevano essere poi confermati da almeno due testimoni e, se possibile, da prove materiali; il ricorso
all’ordalia era definitivamente rifiutato – anche per questa ragione divenne
fondamentale la confessione dell’imputato, nella doppia accezione di confessione di un peccato e di ammissione di un crimine.
La struttura delle modalità di conduzione di un processo per eresia fu
ulteriormente precisata e formalizzata alla metà del secolo XIV. I primi
testi a fissare con precisione le procedure sono stati probabilmente i due
Eretici, streghe e vampiri
113
manuali scritti dagli inquisitori Bernard Gui, tolosano, e Nicolau Eymeric,
catalano. L’opera di Gui ci informa su quali fossero le categorie di persone
soggette a indagine inquisitoriale: oltre ai prevedibili eretici conclamati
e ai sospetti di eresia incontriamo i caelatores, ovvero chi veniva meno
al dovere di denunciare gli eretici, i receptores, vale a dire chi ospitava
eretici consapevole che erano tali, e i defensores, cioè chi difendeva gli
eretici con le parole o con le azioni. Nel testo di Eymeric spicca una serie
di suggerimenti che, lo si può affermare senza timore di errore, hanno fatto
scuola nei secoli: invitava, ad esempio, di servirsi di tutte le simulazioni
utili all’ottenimento della confessione, come «le buone e paterne maniere,
il far credere all’imputato che altri abbia già rivelato tutto al giudice, l’uso
delle spie».67
Gli inquisitori disponevano di fondi per le spese che venivano talvolta
utilizzati per pagare i delatori e le spie. Si conoscono casi di eretici rei confessi obbligati a lavorare come informatori per tutta la vita, quasi schiavi
dell’inquisitore. Il frate predicatore Lanfranco da Bergamo, inquisitor haereticae pravitatis dal 1292 al 1305, ha tenuto un quaderno pergamenaceo
ricco di annotazioni di varia natura. Tra le informazioni più sorprendenti
ci sono registrazioni contabili dalle quali emerge che il frate riceveva del
denaro a sostegno del lavoro svolto. Solo in due occasione egli è stato
chiamato a render conto dell’uso che ne faceva. Ma qual’era, appunto, la
funzione di questo denaro? Serviva a pagare tante spese connesse alla sua
attività, naturalmente, in particolare i costi degli spostamenti; ma la destinazione che colpisce la nostra attenzione è un’altra: i soldi andavano anche
ad alimentare una rete di informatori, costituita in massima parte da eretici
rei confessi e riammessi in seno alla Chiesa e che l’inquisitore teneva ormai in pugno: essi erano costretti a lavorare come informatori a vita in
quanto «l’abiura di un eretico implicava la collaborazione perpetua con gli
inquisitores haereticae pravitatis».68 C’era, ad esempio, l’ex-catara Elena
che «riceve 6 soldi e mezzo per i multa servicia offerti. Dal 1294 faceva
parte della familia dell’inquisitore e lo era diventata – frate Lanfranco
lo scrive esplicitamente – propter eius paupertatem [per la sua povertà],
ricevendo così un alloggio, doni di Natale e tutto ciò che le sue necessità
67. Adriano ����������
Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari,
Torino, Einaudi, 1996, p. 205.
68. Marina �����������
Benedetti, Le parole e le opere di frate Lanfranco (1292-1305), «Quaderni
di Storia Religiosa», 2002, pp. 111-182, p. 145.
114
Sttreghe e cospiratori
richiedevano».69 E c’era Folia da Albino, un eretico che dopo la cattura
abiurò e venne arruolato come spia: «alla fine del 1299 una nota informa
che vengono dati denari a una certa spia, un tempo povero di Lione, vale a
dire Folia da Albino».70
La costruzione di una società repressiva
Nell’alto medioevo la teoria del complotto pare avere attraversato
una fase di bassa intensità. Il lettore potrebbe stupirsi nell’apprendere che
accuse di maleficio documentate nel secolo IX potenzialmente interpretabili
in tale direzione furono invece trattate con una serenità maggiore rispetto
a quanto sarebbe avvenuto in tempi più moderni. Il vescovo di Lione
Agobardo testimonia (in un breve testo dall’eloquente titolo Liber contra
insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis) un fatto avvenuto nella
sua diocesi che aveva richiesto il suo intervento: alcune persone erano state
trascinate al cospetto di un’assemblea in quanto responsabili, addirittura
rei confessi, di avere provocato tempeste e sparso per i campi una polvere
velenosa. Ebbene, Agobardo pensò, sì, all’azione del demonio, ma, a
differenza dei giudici e degli inquisitori attivi tra XIV e XVII secolo, la vide
nell’ottenebramento delle menti di quei poveracci che si autoaccusavano
di un crimine impossibile e ridicolo, soprattutto tenendo conto che anche i
loro miseri poderi erano stati danneggiati dalla violenza delle intemperie.
Nell’860 la corte di Lotario II, pronipote di Carlomagno, fu turbata da
una vicenda quantomeno spiacevole che a un certo punto prese una piega
pericolosa. Il re voleva separarsi dalla moglie Teutberga, che non gli aveva
dato figli, e sposare la sua amante di lunga data Waldrada. Non potendo
però ripudiare arbitrariamente la sposa Lotario montò contro di lei l’accusa
infamante di aver avuto rapporti incestuosi con il fratello. Nel frattempo,
i partigiani di Teutberga avanzarono forti sospetti che Waldrada avesse
sedotto il sovrano facendo ricorso alle arti magiche. L’arcivescovo Incmaro di Reims, che ci ha lasciato una cronaca degli eventi nel De Divortio
Lotharii et Tetbergae, era incline a credere nella colpevolezza di Waldrada,
ma nella sua riflessione evita di tirare in ballo il Maligno, limitandosi a
condannare chi praticava divinazione, legature e malefici in genere.
69. ������������
Ivi, p. 141.
70. ������������
Ivi, p. 143.
Eretici, streghe e vampiri
115
È difficile sottrarsi all’impressione che la rinnovata popolarità della
congiura sia paradossalmente da mettere in relazione con la ripresa culturale dei secoli XI-XII e al rinnovato slancio della speculazione teologica
e politica. Dopo il Mille l’Europa beneficiò di una ripresa economica e
culturale; da un lato la cultura del cristianesimo raggiunse territori che ne
erano stati toccati marginalmente, dall’altro perfezionò il suo radicamento
là dove era da tempo presente. Nello stesso tempo, però, fiorirono vari
movimenti destinati presto a essere classificati come eretici e pertanto in
quanto tali perseguitati, anche con estrema durezza, da parte delle autorità
laiche ed ecclesiastiche.
Il momento che inaugura la repressione su larga scala degli eretici
potrebbe forse essere individuato nella scoperta e nel massacro dei “manichei” di Orléans, nel 1022. In realtà i contenuti della loro dottrina non sono
chiari poiché le accuse non si soffermano tanto sui dettagli teologici quanto
su una tristemente famigliare lista di stereotipi. Se il cronista Ademaro di
Chabannes si appella all’indicibilità di crimini che sarebbe peccaminoso
perfino riferire, Paolo di Chartres, nel suo resoconto del sinodo tenuto a
Orléans per organizzare la reazione all’eresia, parla esplicitamente di orge,
sacrifici di bambini e fabbricazione di pozioni omicide.
Si radunavano in notti stabilite in una casa designata, tenendo ciascuno in mano
un lume e sotto forma di litanie cantavano i nomi dei diavoli fino a che non
vedevano improvvisamente discendere fra loro il demonio in forma di qualche
animale. A quella visione, subito si spegnevano tutti i lumi e ognuno afferrava
la donna che gli capitava sotto mano per abusarne senza riguardo al peccato. Se
poi si trattava della madre, della sorella o di una monaca, consideravano quel
rapporto sessuale santo. Il bimbo nato da tale atto impuro veniva presentato
l’ottavo giorno dopo la nascita: si accendeva un gran fuoco e lo si cremava
come fra gli antichi pagani. Le ceneri venivano raccolte custodite con la stessa
venerazione con cui i cristiani sono soliti custodire il corpo di Cristo, da dare
agli ammalati e ai moribondi come viatico.71
Questo passo presenta evidenti affinità con le orge notturne della
vauderie di Arras, dove però mancano riferimenti al sacrificio umano. Il
tremendo olocausto è invece presente nella descrizione dell’erudito bizantino Michele Psello di un rito dei bogomili di Tracia, definito «sacrifico
71. ��������������������������
Citato in Andrea Del Col, L’inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano,
Mondadori, 2006, p. 35.
116
Sttreghe e cospiratori
mistico»:
Dunque, dopo aver acceso le luci della sera, quando noi celebriamo la passione
del Signore, portano delle ragazze iniziate ai loro santi sacrifici nella casa scelta;
poi spengono le luci per non averle testimoni – come dicono – dell’esecrabile
infamia. Allora si rivoltano libidinosamente con qualunque ragazza capiti loro
a tiro, fosse pure loro sorella o figlia. In questo modo pensano di fare cosa grata
ai demoni violando le leggi divine in cui si fa divieto di contrarre matrimonio
con il proprio sangue. Compiuto questo sacrilegio se ne tornano a casa. Nove
mesi dopo – quando è venuto il momento della nascita per l’infame frutto di
seme infame – si riuniscono di nuovo nello stesso luogo ed il terzo giorno
dopo il parto quei figli sventurati sono strappati alle madri, vengono incise con
un rasoio le loro carni; il sangue che sgorga viene poi raccolto in ampolle.
Quindi li bruciano sul rogo mentre ancora agonizzano. Infine compongono un
abominevole farmaco mescolando le loro ceneri con il sangue delle ampolle e
con questo impregnano di nascosto i cibi e le coppe come quelli che spargono
veleno con il miele.72
Psello scrisse Le opere dei demoni intorno al 1050; le somiglianze tra
il suo testo e quello di Paolo di Chartres sono tali da far pensare che i due
passi siano riconducibili, se non a una fonte testuale comune, almeno a
una medesima filiera narrativa – alla quale rimanda probabilmente anche il
resoconto dei turpi raduni dei catari veronesi scritto da Cesario di Heisterbach verso il 1220 e incluso nel suo Dialogus miracolorum:
Spento il lume, ciascuno di loro si lanciò sulla donna a lui più vicina, non rispettando la distinzione tra quante avevano un legame legittimo e quante non lo
avevano, tra la vedova e la vergine, tra la signora e l’ancella e – ciò che è più
terribile – tra sorella e figlia.73
I sacrifici umani dei primi cristiani
L’immagine del sabba è il frutto dell’incontro, o della collisione, tra
credenze folkloriche, soprattutto dell’area alpina, e demonologia dotta; si
72. �����������������������
Citato in Norman Cohn, I demoni dentro. Le origini del sabba e la grande caccia
alle streghe, Milano, Unicopli, 1997, p. 58.
73. �������������������
Citato in Del Col, L’inquisizione in Italia, p. 69.
Eretici, streghe e vampiri
117
deve però tener conto, lo abbiamo appena verificato, anche di un altro filone polemico antiereticale. Le radici di questo terzo filone, che potremmo
definire orgiastico sacrificale, vanno cercate nell’antichità. Agostino, ad
esempio, riporta voci inquietanti sui cosiddetti montanisti della Frigia:
La gente dice che hanno sacramenti molto deplorevoli. Si racconta che prendono il sangue di un bambino di un anno cavandolo da piccoli tagli fatti su tutto
il corpo, e allo stesso tempo producono la loro eucaristia mescolando questo
pane con la farina e facendone del pane. Se il bambino muore lo considerano
un martire, ma se vive lo trattano come un grande sacerdote.74
L’accusa di sacrificare gli infanti e di abbandonarsi all’orgia, motivi
che confluiranno nello stereotipo del sabba, non fu d’altra parte una creazione del vescovo di Ippona e dei suoi contemporanei. Agostino non inventò
nulla, si limitò a trasferire a quei cristiani che deviavano dall’ortodossia
dominante – che non necessariamente era la stessa in differenti tempi e
luoghi – argomenti che erano stati parte della polemica anticristiana che
aveva investito le prime comunità di credenti in Cristo.
In effetti, l’accusa di celebrare riti omicidi e sacrifici umani era stata
spesso rivolta anche ai cristiani, come testimoniano, tra gli altri, Minucio
Felice e Tertulliano. Quest’ultimo, enfatizzando un contesto di effettiva
tensione, riferisce che durante il regno di Marco Aurelio di ogni evento
nefasto erano ritenuti responsabili cristiani: «Se il Tevere sale sulle mura,
se il Nilo non allaga la campagna, se il cielo rimane immutato e la terra
trema, se la fame e la peste dilagano, non è che un grido: i cristiani al
leone!».75 Uno degli episodi più noti si verificò nel 177 d.C. A Lione, dove
i membri della comunità cristiana locale subirono l’accusa di praticare cerimonie orgiastiche nel corso delle quali si perpetravano i crimini di magia
nera, incesto, infanticidio e cannibalismo.
Può essere utile ricordare che negli anni quaranta dell’Ottocento venne
pubblicato un libro di G. F. Daumer, Die Geheimnisse des christilichen
Altertums, che sosteneva la fondatezza di tali accuse. Karl Marx lesse il
saggio e in un intervento a un congresso dei lavoratori lo commentò con
entusiasmo, poiché confermava la sua convinzione che fosse tempo di farla
finita con le religioni. Daumer pretendeva di aver dimostrato che i primi
74. De hearesibus, XXVI, citato in Cohn, I demoni dentro, p. 56.
75. ���������������������
Citato in Ivi, p. 31.
118
Sttreghe e cospiratori
cristiani praticarono davvero l’omicidio rituale e il cannibalismo. A suo
avviso ciò spiegava sia le persecuzioni da parte dei Romani, altrimenti noti
per la loro tolleranza religiosa, sai «perché più tardi i cristiani distrussero
tutta la letteratura pagana che era diretta contro di loro».76 In seguito
Daumer rinnegò il suo lavoro e si convertì al cattolicesimo, mentre Marx
espresse scetticismo riguardo alla teoria di cui si era fatto per un giorno
megafono. In ogni caso, si tratta di un curioso indizio di come il movimento
rivoluzionario presentasse fin dai suoi inizi una sorta di disponibilità ad
accogliere l’idea di avversari riuniti in una setta, se non diabolica, crudele
e ostile – idea che, come abbiamo visto, era stata condivisa anche dai
giacobini francesi e da tanti altri prima di loro.
L’inquietante ombra dell’orgia licenziosa che, con la sua amoralità
sregolata, ha turbato le coscienze della Roma classica ha un’origine facilmente rintracciabile nei culti misterici che giunsero a Roma dall’oriente.
Essi, come il culto anatolico di Cibele e Attis, contenevano spesso elementi di promiscuità sessuale, per quanto probabilmente enfatizzati dalla
polemica avversa, e accoglievano gli iniziati senza riguardo alla classe
sociale d’appartenenza. L’ingresso di nuovi membri nella confraternita,
inoltre, presumeva un’iniziazione e il severo divieto di rivelarne i contenuti all’esterno della setta. Quest’ultima peculiarità rappresentava un ulteriore motivo di preoccupazione poiché intorno al mistero fiorivano più
agevolmente le congetture e le dicerie. Da iniziati a congiurati sovversivi,
insomma, il passo era breve. Prova ne fu quanto si verificò a Roma nel 186
a. C.
76. Ibidem.
Conclusione.
L’affare dei Baccanali
Nel 186 a. C. Roma fu scossa dalla vicenda conosciuta come l’affare
dei baccanali. La seconda guerra punica si era conclusa da quindici anni. Il
contributo determinante di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano alla
vittoria militare su Annibale aveva consolidato il potere della sua famiglia
in città, ma nel 187, un anno prima dei fatti che ci interessano, la leadership
degli Scipioni era stata messa violentemente in discussione. Un fratello di
Publio, Lucio, aveva subito un processo e una condanna per peculato, mentre la corrente rivale, capeggiata dal bilioso tradizionalista Catone, accusava l’ambiente vicino agli Scipioni di eccessive aperture verso le culture
straniere, in primo luogo, ovviamente, quella greca. Catone e i suoi seguaci
consideravano la visione dell’entourage degli Scipioni – del quale faceva
parte il commediografo Terenzio – una minaccia all’autentica tradizione
romana. Per Catone l’influsso greco sui costumi romani, i sacri costumi
degli antenati, era nefasto: l’austera virilità romana stava per essere corrotta dal lassismo morale dei greci degenerati.
È in questo contesto che esplose il caso dei seguaci di Bacco, che sembrava fatto apposto per confermare i sospetti del focoso censore. Il resoconto di Livio si apre, guarda caso, con una metafora epidemica: «Questo
flagello dall’Etruria si propagò a Roma come in un’epidemia». A introdurre il morbo sarebbe stato un misterioso greco «sacerdote di riti segreti
e notturni: misteri, quelli, a cui pochi in origine furono iniziati, e che poi
cominciarono a diffondersi senza distinzione fra uomini e donne».1 Sono i
primi passi di una pericolosa società segreta.
1. Tito Livio, Storie, XXXIX, 8, a cura di Alessandro Ronconi e Barbara Scardigli,
Torino, Utet, 1980, pp. 525-527.
120
Streghe e cospiratori
Al rito si aggiunsero le delizie del vino e dei banchetti, perché fossero di più
le menti attratte dall’errore. Quando i fumi del vino, la complicità della notte e
il trovarsi confusi maschi e femmine, fanciulli e adulti ebbero cancellato ogni
limite posto dal pudore, cominciarono a commettersi depravazioni […]. E non
ci si limitò a un solo genere di malefici, come violenze indiscriminate su uomini liberi e su donne, ma anche false testimonianze, falsificazione di suggelli
nei testamenti e delazioni uscivano da una stessa fucina, e sempre di là azioni
di magia e delitti famigliari, al punto che a volte non restavano neppure i corpi
da seppellire. Molto si osava con l’insidia, ma di più con la violenza.2
Le pratiche della setta costituivano ormai una trama che congiurava
contro l’ordine stesso della Res publica romana. Ciò che realmente avveniva, con ogni probabilità, era che il culto azzerava le differenze di ceto e
che il raggiungimento di uno stato di ebbrezza era lo strumento di comunicazione estatica con la divinità. L’immagine che del culto veniva divulgata
ne enfatizzava eccessi e degenerazioni.
Gli uomini come impazziti vaneggiavano gesticolando da invasati con tutta la
persona, le matrone in atteggiamento di baccanti, coi capelli sparsi, correvano
giù fino al Tevere con torce accese e, dopo averle immerse nell’acqua, poiché
queste contenevano zolfo vivo e calce, le estraevano con la fiamma intatta.3
Fin qui si è ancora all’interno della verosimiglianza. In città, però, le
dicerie andavano ormai ben oltre lo sconcerto di fronte a pratiche cultuali
eccessive e straniere.
Si dicevano rapite dagli dei persone che invece, legate a un ordigno, erano sottratte alla vista in spelonche nascoste; ed erano quelle che non avevano voluto
congiurare né associarsi a misfatti o subire oltraggio. Erano una folla numerosa,
ormai un secondo popolo e, fra questi, taluni cittadini e donne della nobiltà.4
La portata sovversiva era tale da giustificare il coinvolgimento diretto
dei consoli e del senato nella repressione della setta. Il console Postumio
condusse un’inchiesta accurata al termine della quale riferì gli inquietanti
risultati al cospetto dei senatori.
2. Ivi, XXXIX, 8, p. 527.
3. Ivi, XXXIX, 13, pp. 537-539.
4. Ivi, XXXIX, 13, pp. 539.
L’affare dei Baccanali
121
Il senato deliberò di ringraziare il console per aver condotto l’indagine con
particolare oculatezza evitando ogni disordine. Quindi affida ai consoli la procedura straordinaria contro i Baccanali e i riti notturni in genere; si dispone di
evitare che ai due delatori Ebuzio e Fecennia la cosa porti pregiudizio, e di attirare con premi altri delatori. Si fan ricercare non solo a Roma, ma per tutti i fori
e i «conciliaboli» i sacerdoti di quei riti, uomini o donne che fossero, per darli
in mano ai consoli; ancora si fa decretare nella città di Roma, e analoghi editti
si mandano per tutta Italia, che chi fosse già iniziato ai Baccanali si astenga dal
partecipare a riunioni a scopo cultuale e dal compiere atto alcuno di simili riti;
soprattutto si proceda contro coloro che abbiano congiurato o si siano adunati
per commettere stupro o altra infamia […]. I consoli ordinarono agli edili curuli di ricercare tutti i sacerdoti di quel culto, e, trattenendoli in libera custodia,
tenerli a disposizione per l’inchiesta.5
I consoli convocarono una pubblica assemblea e un clamoroso discorso di Postumio svelò al popolo la supposta vera natura della setta:
Qualunque cosa io dica, sappiate che sarà sempre poco per l’atrocità e la vastità
della cosa […]. Quanto al numero di questa gente, se vi dirò che sono molte
migliaia, è naturale che subito vi spaventiate prima che io aggiunga chi e di che
risma sono. In primo luogo dunque sono gran parte donne, e da qui è scaturito
un simile flagello; poi maschi che sembrano femmine, stuprati e stupratori,
forsennati, sconvolti dalle veglie, dal vino, dalle grida, dagli strepiti notturni.
La congiura non ha ancora forze, ma ha in sé grandi possibilità di sviluppo
perché costoro diventano ogni giorno più numerosi.6
La procedura straordinaria, quaestio extra ordinem, conferiva poteri
speciali di inchiesta e di arresto e la facoltà di celebrare processi che prevedevano sentenza di morte non appellabili. L’azione dei consoli fu capillare, spietata e, almeno nell’immediato, efficace. Essi annunciarono che
era stato autorizzato
un premio per chi avesse condotto loro dinanzi un colpevole o l’avesse denunciato anche assente […]. Sciolta l’adunanza, grande panico si sparse per tutta
Roma; e non si limitò alla città e al territorio latino, ma si cominciò a tremare
qua e là per tutta Italia, man mano che vi arrivavano lettere di immigrati che
5. Ivi, XXXIX, 14, pp. 541.
6. Ivi, XXXIX, 15, pp. 543-545.
122
Streghe e cospiratori
parlavano del senatoconsulto, dell’assemblea e dell’editto dei consoli. Nella
notte che seguì al giorno nel quale la scoperta era stata resa di pubblica ragione
dinanzi al popolo, quelli che tentavano di fuggire, con posti di blocco presso le
porte furono fermati e portati indietro; molti furono denunziati. Alcuni di loro,
uomini e donne, si uccisero. Si diceva che i congiurati fra uomini e donne fossero oltre settemila. Si sapeva che a capo della congiura erano M. e C. Attinio
della plebe romana e il falisco L. Opicerno, e Minio Cerrinio della Campania
[…]. Condotti davanti ai consoli, confessarono per la parte loro e non tardarono
a passare alle denunce.7
Confessarono e non tardarono a passare alle denunce. È una sceneggiatura che da allora non cessa di essere rappresentata.
7. Ivi, XXXIX, 17, pp. 549-551.
Epilogo
L’affare dei Baccanali, come bene illustra l’ultima citazione, contiene elementi che prefigurano, nell’atmosfera generale e nella conduzione
dell’inchiesta, le modalità di affioramento, diffusione, interpretazione e
repressione del panico stregonesco. Che le pagine di Livio abbiano funzionato da archetipo letterario per le posteriori retoriche del complotto elaborate in ambito colto – lentamente assorbite a ogni livello della società – è
possibile, per non dire probabile. Prima i politeisti contro i cristiani, poi
i cristiani contro gli eretici hanno trasmesso e sviluppato il motivo delle
efferatezze compiute da misteriosi congiurati con il favore delle tenebre.
Dopo il Mille, questo filone polemico conobbe un rilancio in corrispondenza di una nuova stagione, più accanita e duratura, di lotta all’eresia e, nel
corso del secolo XV, si saldò con l’interpretazione demoniaca di una serie
di credenze folkloriche. In quel momento, seconda metà del ‘400, eresia e
stregoneria divennero le facce di una stessa sulfurea medaglia. Si andò delineando il fosco quadro del complotto diabolico e si elaborarono contro il
complotto nuove armi giuridiche in cui il ricorso alla tortura e la centralità
della confessione occupavano una posizione centrale, strategica. Nel corso
dei secoli XVIII e XIX il diavolo si fece lentamente una presenza via via
più sfumata; malgrado ciò, l’idea che una società o una comunità siano
minacciate, oltre che da fattori critici visibili alla luce del sole (crisi economiche, evoluzioni dei costumi), anche da oscuri e spaventosi complotti
non ha perso affatto vigore. Essa è anzi ancora qui tra noi. E da molte parti
si è ritenuto, e si continua a ritenere, che sia ancora indispensabile ricorrere
alle tecniche processuali messe in campo contro eretici e streghe: tortura,
124
Streghe e cospiratori
privazioni, la confessione degli imputati come unica prova adeguata, sufficiente e determinante.
La ricostruzione di una filiera di trasmissione culturale – in cui si
integrano e si intrecciano credenze popolari, religione, filosofia, teologia e
diritto – non risolve però del tutto la questione. Rimane, anzi, l’interrogativo
di fondo: perché si è tanto facilmente disposti a credere in certe cose e non
in altre? In particolare, perché la disponibilità ad accettare la teoria del
complotto è così diffusa da rappresentare per molti aspetti un problema
endemico e ubiquitario?
A tal proposito, merita di essere citata l’opinione di Dan Sperber,
secondo il quale «le credenze misteriose o comprese a metà sono molto più frequenti e importanti culturalmente di quelle scientifiche. Dato
che esse non sono completamente comprese [...] sono quindi aperte a
reinterpretazione».1 Rispetto alle più rigide convinzioni razionali, insomma, le credenze misteriose sarebbero meglio plasmabili, malleabili, adattabili alla realtà e alla sua incertezza, mutevolezza e contraddittorietà. I
misteri culturali sono competitivi anche perché facili da memorizzare e da
tradurre in emozione – soprattutto i misteri culturalmente vicini a quelle
rappresentazioni della realtà per le quali manca una spiegazione definitiva
o una spiegazione emotivamente adeguata. Il sistema cognitivo umano,
infatti, risponde meglio a stimoli che coinvolgono entrambi gli emisferi,
destro e sinistro, ed entrambi i sistemi di rappresentazione della realtà,
emotivo e razionale. Accade sovente, quindi, che le risposte puramente
razionali risultino meno soddisfacenti di quelle che lasciano aperta la porta
del mistero e della paura.2
Osservata sotto questa luce, la credenza nel complotto, o la
disponibilità a credervi, appare una categoria antropologico-cognitiva
prima che culturale. Essa si configura come una pre-condizione latente la
cui apparizione effettiva, e il suo grado di intensità, dipenderà da variabili
come le dinamiche culturali e il contesto politico. Come si è avuto modo
di verificare, vi sono terreni che più di altri ne incoraggiano lo sviluppo.
Un contesto di contrapposizione bipolare è certamente favorevole alla
valorizzazione perversa del concetto di patto con il Nemico: i conflitti
che opposero la Riforma protestante alla Controriforma cattolica (che non
1. Dan Sperber, Il contagio delle idee, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 27.
2. Ivi, p. 76.
Epilogo
125
casualmente coincise con uno dei picchi d’intensità della caccia alle streghe),
oppure il Comunismo al Capitalismo ne sono l’illustrazione migliore.
Come abbiamo visto, infine, la teoria del complotto è ancora uno strumento
vitale all’inizio di questo XXI secolo che da molte parti si vorrebbe nato
all’insegna della contrapposizione tra cultura occidentale e islam radicale
– il quale, tuttavia, come si è già avuto modo di notare, ha in realtà mutuato
dal Nemico molto dell’arsenale concettuale (e anche tecnologico, nel caso
delle azioni terroristiche) che rivolge contro l’avversario.
Un altro aspetto da menzionare, infine, è il carattere epidemiologico
che sovente assume la diffusione della credenza una volta uscita dallo stato
latente. Osservando la cronologia e la progressione geografica dei processi
per stregoneria si è autorizzati ad affermare che il panico e i conseguenti
processi si diffusero sul territorio europeo come una lenta epidemia seguendo un percorso da sud ovest a nord est, grosso modo simile a quello della
peste nera del 1348. Analogamente, il modello delle persecuzioni staliniane che presero il via nell’URSS degli anni ’30 del Novecento si diffuse
nel secondo dopoguerra nelle democrazie popolari dell’Europa orientale
insieme allo stalinismo stesso, ma toccò anche gli USA, benché in forma
attenuata, nei contemporanei anni del maccartismo. In entrambi i momenti,
«caccia alle streghe» e processi staliniani, anche la progressione delle denunce interna ai singoli casi assunse il carattere di contagio epidemico.
Anche qui si è ipotizzabile la presenza di un perequisito antropologicocognitivo al quale si sovrappongono specifiche dinamiche culturali. Un
sistema culturale potrebbe essere considerato come una variante di «sistema
selettivo di riconoscimento», di cui un esempio è il sistema immunitario.
Secondo Gerald Edelman tali sistemi sono basati, appunto, su procedure
di «riconoscimento» (o mancato riconoscimento) «tra gli elementi di un
dominio fisico e le novità che si presentano tra gli elementi di un altro
dominio fisico, più o meno indipendenti dal primo».3 Se all’espressione
«dominio fisico» sostituiamo «sistema culturale» possiamo includere nella
definizione, con un linguaggio interdisciplinare e pertinente, le dinamiche
di adattamento, reazione e innovazione che si verificano costantemente
nella storia umana. Le «epidemie» di panico e di persecuzione dovute
all’affioramento e alla diffusione di credenze in complotti tessuti da
3. Gerald M. Edelman, Sulla materia della mente, Milano, Adelphi, 1993, p. 118.
126
Streghe e cospiratori
malvagi congiurati costituiscono una forma estrema, ma drammaticamente
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