1. Chi sono oggi i bambini abbandonati? Fenomenologia dell
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1. Chi sono oggi i bambini abbandonati? Fenomenologia dell
1. Chi sono oggi i bambini abbandonati? Fenomenologia dell’abbandono 2. Le reazioni dei bambini all’abbandono. Il vissuto psicologico dell’abbandono e i bisogni irrinunciabili dei bambini 3. I compiti dei servizi educativi per l’infanzia Chi sono oggi i bambini abbandonati? Fenomenologia dell’abbandono • Bambini “senza famiglia”. • Bambini “allontanati” dalla famiglia. • Bambini che vivono in famiglia e che hanno sperimentato una separazione. • Bambini “dimenticati”. Bambini “allontanati” dalla famiglia. • circa 10.200 minori in affido (rilevazione del 30 giugno 1999) • , • 15.000 ospitati in strutture educativo-assistenziali (rilevazione 1998) in tutto circa 35.000 bambini fuori dalla famiglia di origine Tab. 1. Motivi di inserimento (risposte multiple) Motivi Problemi economici della famiglia di origine Problemi relazionali con la famiglia di origine Problemi abitativi della famiglia di origine Problemi lavorativi di uno o dei genitori Maltrattamento e incuria del minore Problemi sanitari di uno o dei genitori Problemi scolastici del minore Problemi comportamentali del minore Problemi giudiziari di uno o dei genitori Decesso di uno o dei genitori Violenza sessuale sul minore Problemi sanitari del minore Inadeguatezza genitoriale Abbandono Affidamento familiare fallito Separazione dei genitori Inadeguatezza dell’ambiente socio-familiare Conflittualità genitoriale Altro % 43,6 32,2 23,6 19,4 17,6 17,2 14,7 13,0 9,7 4,9 4,4 4,4 3,4 2,6 1,2 1,0 0,9 0,9 8,9 Fonte: Centro Nazionale di Documentazione sull’Infanzia e l’Adolescenza (Istituto degli Innocenti), 1999 • • • povertà della famiglia di origine incapacità della famiglia di assolvere il proprio compito nei confronti dei figli (difficoltà relazionali problemi del minore stesso (problemi comportamentali, sanitari e scolastici). 2. Le reazioni dei bambini all’abbandono. Il vissuto psicologico dell’abbandono e i bisogni irrinunciabili dei bambini Le reazioni dei bambini all’abbandono sono state studiate in contesti e condizioni diversi: • bambini provenienti dai campi di concentramento (A. Freud, 1951), • ospitati in istituti (A. Freud, D. Burlingham, 1943; Spitz, 1958), • ospedalizzati senza il conforto delle figure famigliari (Robertson e Roberston, 1989), • lasciati per periodi di tempo limitati con un estraneo (Ainsworth). Principali risultati: • effetti traumatici della separazione dalle figure affettive di riferimento • vissuto di sperdimento e di rancore che ne consegue, • comportamenti “difensivi” messi in atto • bisogni irrinunciabili dei bambini Da Bambini senza famiglia (A. Freud, D. Burlingham, 1942) Al momento della separazione la mamma aveva ingiunto a Patrick di “fare il bravo” e di non piangere. “Patrick cercava di mantenere la promessa e non lo si vedeva piangere. Però annuiva non appena qualcuno lo guardava e rassicurava se stesso e chiunque gli prestasse ascolto sostenendo che sua madre sarebbe tornata da lui, gli avrebbe messo il cappotto e se lo sarebbe riportato a casa con sé. Se l’ascoltatore sembrava credergli, era soddisfatto; se qualcuno lo contraddiceva, scoppiava violentemente in lacrime. Questo comportamento continuò per due o tre giorni con l’aggiunta di altri particolari; l’annuire assunse un carattere maggiormente compulsivo e automatico: mia madre mi metterà il cappotto e mi riporterà a casa. Successivamente fu aggiunta una lista crescente di indumenti che si supponeva sua madre gli avrebbe messo: mi metterà il cappotto e i gambali, mi tirerà su la cerniera lampo, mi metterà il berretto. Quando le ripetizioni di questa formula divennero monotone e interminabili, gli fu chiesto se poteva smettere di ripetere in continuazione quelle cose. Ancora una volta Patrick cercò di comportarsi da bravo bambino quale la madre voleva che fosse. Smise di ripetere la formula ad alta voce, ma i movimenti delle sue labbra indicavano che continuava a ripeterla fra sé e sé di continuo. Sostituì contemporaneamente alle parole dette gesti che indicavano la posizione del suo berretto, l’infilarsi un immaginario cappotto, il tirarsi su la cerniera lampo, ecc. Ciò che un giorno era un movimento espressivo, il giorno dopo era ridotto a un accenno di movimento delle dita. Mentre gli altri bambini erano tutti presi dal giocare, divertirsi, suonare, ecc., Patrick se ne stava in qualche angolo muovendo le mani e le labbra con un’espressione tragica sul volto” Da Bambini senza famiglia (A. Freud, D. Burlingham, 1942) “Bert a quattrodici mesi picchiava la testa contro la sbarra superiore del letto ogni volta che era di cattivo umore. A quindici mesi, in un periodo di malattia e convalescenza, lo faceva continuamente, con ferocia, sicché la bambinaia cui era affidato era costantemente preoccupata che potesse farsi male più gravemente” (ivi, p. 336). “Ivy a dieci mesi si dondolava con tale continuità nel suo lettino nella camera dei piccoli, che venne trasferita al reparto dei bambini ai primi passi, molto tempo prima del solito, sperando che la maggiore libertà dei movimenti e le occupazioni più svariate avrebbero diminuito il bisogno di soddisfacimento autoerotico. Per un certo tempo le cose andarono bene, ma a un anno di distanza il dondolamento automatico, associato alla masturbazione, riprese in pieno, in un periodo di lunga malattia e conseguente limitazione dei movimenti”. “Derrick (3 anni e nove mesi), sulla via del ritorno a casa dopo una passeggiata, disse: ‘Quando la mia Sara è via, è mia Martha, e quando la mia Martha è via, è mia Sara’. Arrivato a casa non trovò Sara e subito disse: ‘La mia Sara è andata tutta via; adesso è mia Martha’. Derrick era un bambino molto difficile, che quasi non si lasciava toccare da altri che dalla ‘sua Sara’ e, al secondo posto, dalla ‘sua Martha’” Da Bambini senza famiglia (A. Freud, D. Burlingham, 1942) “Tony (3 anni e mezzo) al principio della sua relazione con sister Mary. La sera quando lei si offriva di restare con lui, la mandva via, e appena se n’era andata, la richiamava disperato. L’accusava di avergli fatto male in qualche modo, o di aver trascurato le sue piccole ferite o indisposizioni. Si svegliava nel mezzo della notte e si lamentava con la bambinaia di turno che sister Mary non gli aveva dato la buonanotte, benché lei l’avesse fatto, si fosse presa cura di lui e avesse soddisfatto i suoi desideri quanto meglio poteva. A quattro anni e mezzo, in un difficile periodo che attraversò in seguito alle seconde nozze del padre, smetteva improvvisamente di giocare, andava a cercarla e diceva insistentemente: ‘Ti voglio dire una cosa, ti voglio dire una cosa’. Quando gli si domandava che cosa voleva dire, non lo sapeva. Qualche volta diceva: ‘ti voglio dare un bacio’, ma era cchiaro che questa non era la sua vera intenzione e che lui stesso non conosceva la vera natura della sua richiesta” “Reggie, che era venuto nel nostro asilo a cinque mesi, tornò dalla madre quando aveva venti mesi; rientrò all’asilo due mesi e da allora è sempre rimasto con noi. Presso di noi egli strinse due appassionate relazioni con due giovani infermiere che si presero cura di lui in periodi diversi. Il secondo legame fu improvvisamente rotto a due anni e otto mesi quando la “sua” infermiera si sposò. Il bambino fu colto dallo smarrimento e dalla disperazione per la sua partenza e si rifiutò di guardarla quando tornò a fargli visita due settimane più tardi. Voltava la testa dall’altra parte quando essa gli parlava, ma fissò a lungo la porta che, uscendo dalla stanza, la donna aveva chiuso dietro di sé. La sera, quando era già a letto, Reggie balzò a sedere ed esclamò: “La mia Mary Ann! Ma io non le voglio bene” . Reazioni all’abbandono (Robertson e Robertson, 1989) Protesta: il bimbo invoca il ritorno della madre con pianti e manifestazioni di collera e sembra fiducioso di riuscirvi. Disperazione: dopo alcuni giorni il bimbo apparentemente si calma ma, ad uno sguardo più attento, appare chiaro che resta preoccupato per l’assenza della madre e che si strugge dal desiderio che torni. Distacco: alla fine si opera un cambiamento radicale. Sembra che il bimbo si sia dimenticato della madre. Al suo ritorno dà segni di non riconoscerla. I “non amati”, reazioni alle distorsioni del legame emotivo Le esperienze considerate più rischiose: • Uno o entrambi i genitori sono persistentemente insensibili al comportamento di richiesta di cure del bambino e/o lo disprezzano e lo rifiutano; • Una discontinuità di cure da parte dei genitori, che può verificarsi più o meno frequentemente, comprendendo periodi di permanenza in ospedali o istituti; • Persistenti minacce da parte de genitori di non amare il bambino, usate come mezzo di controllo; • Minacce dei genitori di abbandonare la famiglia, usate sia come metodo disciplinare nei confronti del figlio, sia come mezzo di coercizione nei confronti del coniuge; • Minacce di un genitore di abbandonare o addirittura di uccidere l’altro o di sucidarsi; • Indurre un figlio a sentirsi in colpa dichiarando che il suo comportamento è o sarà causa di malattie o morte dei genitori • Esercitare una pressione sui figli affinché agiscano loro stessi come figure di attaccamento, invertendo così la relazione normale (incoraggiamento di un prematura senso di responsabilità, deliberato uso di minacce, induzione di sensi di colpa). • Quella precedente + insistenza nel fornire cure anche quando non sia necessario (affetto soffocante) • Genitore che vede nel figlio una riproduzione di se stesso, e in particolare quegli aspetti di sé che ha tentato di soffocare, e che si sforza di soffocare anche nel figlio. Conclusioni: • Per crescere il bimbo ha bisogno di una figura materna “sufficientemente buona” (Winnicott, Bowlby, Malher, Ainsworth). Una madre sensibile sembra essere sulla stessa “lunghezza d’onda” dei segnali del figlio, li interpreta correttamente e reagisce ad essi prontamente e in maniera appropriata, mentre una madre insensibile spesso non nota i segnali del bambino, quando li nota li fraintende, e reagisce ad essi in ritardo, in modo inappropriato o non vi reagisce affatto. • La madre “sufficientemente buona” si costituisce dunque come figura di attaccamento1 che fornisce un “base sicura” e incoraggia ad esplorare a partire da questa base. Afferma Winnicott, richiamandosi agli studi d Bowlby, che “le due conclusioni importanti cui si è giunti sono che allevare i bambini in modo impersonale tenda a produrre personalità insoddisfatte e persino caratteri antisociali attivi e, in secondo luogo, che quando ci sa un buon rapporto tra (…) il bambino e il genitore, la continuità di questo rapporto deve essere rispettata e non deve mai essere interrotta senza una ragione valida” (Winnicott, 1984, p. 216). Disamore, perdite e discontinuità costituiscono carenze per la salute psichica alla stessa stregua della vitamina D per quella fisica. 1 “Anche se normalmente la madre è la principale figura di attaccamento per un bambino, il ruolo può essere assunto con efficacia anche da altre persone”. Due variabili sembrano essere correlate alla scelta, da parte del bambino, della figura di attaccamento: “la prontezza con cui la madre rispondeva al pianto del bambino e la misura in cui era ella stessa a promuovere l’interazione sociale col piccolo” (Bowlby, 1969, p. 378). Diagnosi e recupero dell’abbandono La rottura della continuità può implicare una “privazione” o una “deprivazione”. La “privazione” è il fallimento delle prime “provvidenze fondamentali dell’ambiente”. La conseguenza è l’annientamento dell’individuo, l’interruzione della continuità dell’esistenza, una delle cause della psicosi. La “deprivazione” ha luogo quando le “provvidenze ambientali sono dapprima buone e poi vengono meno” in un momento nel quale l’individuo non è ancora diventato indipendente. La deprivazione conduce allo sviluppo di una tendenza antisociale. Compiti del genitore affidatario e vissuti del bambino separato dalla propria famiglia: • “chi si prende cura” di un bambino che ha subito una grave perdita affettiva e che sperimenta un acuto senso di abbandono ha il compito di accogliere offrendo una “casa”, o, meglio, un luogo in cui il bimbo possa sentirsi “a casa”. • il bambino separato dalla propria famiglia ha, dal canto suo, da: “decidere se mettere radici e accettare la nuova casa o tenersi aggrappato al pensiero della casa propria, considerando la casa ospitante come un luogo in cui alloggiare per una vacanza un po’ troppo lunga” (Winnicott,1984, p. 46). Reazioni del bambino al “ritorno a casa”, dopo un lungo periodo di assenza: • bambini che desiderano tornare a casa (importanza delle relazioni tra famiglia affidataria e famiglia naturale; importanza della gestione del ritorno da parte della famiglia naturale di fronte alla caduta della idealizzazione e ai comportamenti negativi del bambino) • bambini che si erano inseriti bene nella famiglia adottiva per cui il ritorno rappresenta uno shock (possibilità di sostegno offerto dalla società alle famiglie e al bambino) • una vasta gamma di casi intermedi (importanza di figure di intermediazione tra la famiglia naturale e quella affidataria che sappiano riconoscere qual è il momento più opportuno per fare “riaccasare” il bambino nella famiglia) Quando il bambino non si adatta alla vita di famiglia • Si tratta di bambini che hanno alle spalle una situazione familiare insoddisfacente o hanno sperimentato una disgregazione della famiglia. Bambini che non hanno bisogno di un sostituto della famiglia quanto di “vivere una soddisfacente esperienza di relazioni primarie” in un ambiente che abbia un carattere di continuità. Il valore delle comunità sta nel ridurre le carenze prodotte nel bambino dall’ambiente originario. La comunità deve poter offrire: • Un ambiente stabile che i bambini possano gradualmente conoscere, saggiare, di cui possano cominciare a fidarsi e dove possano giocare” (ibidem, p. 82). • Educatori capaci di comportarsi in modo spontaneo e coerente; che dispongono di certe capacità (nella musica, nella ceramica, nel disegno, ecc.); che amano realmente i bambini. Persone che, nel gestire la vita della comunità, non si attengano a un sistema prestabilito ma che ne creino una che rispecchi il loro modo di vivere e le loro idee. • Una formazione degli operatori legata all’esperienza pratica, alla discussione dei problemi che via via si presentano. I bambini hanno bisogno di: • stabilità ambientale • trattamento individuale • continuità di cure. La comunità deve offrire al bambino: • una casa in cui vivere, cibo, indumenti, affetto e comprensione, orari regolari, istruzione, mezzi materiali e idee che orientino verso un gioco ricco di fantasia e un lavoro costruttivo. • genitori sostitutivi e la possibilità di altri rapporti umani. • la dimostrazione che la comunità resiste alle prove cui i bambini la sottopongono. Progettazione pedagogica per la cura e la prevenzione dell’abbandono: la famiglia • Trasformazioni sociali: nuove famiglie e nuovi bisogni • Famiglie “a rischio” • La famiglia come luogo elettivo di cura e educazione infantile: le risposte sociali all’abbandono Da un’indagine del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, (Cittadini in crescita, anno 3, n. 2, 2003, pp. 52-113): • • • • • • alla data del 30 giugno 1999 gli affidamenti familiari realizzati erano 10.200, di cui 5280 a parenti (affidamenti intrafamiliari) e 4.668 a terzi (eterofamiliari). I primi appaiono poco studiati, disposti spesso dalla magistratura minorile a seguito di una sospensione o decadenza della potestà dei genitori, con un coinvolgimento limitato o nullo dei servizi territoriali nella loro gestione; l’età media dei bambini al momento dell’affidamento era pari a 6,6 anni; il 46% del totale risultava affidato nei primi cinque anni di vita e, di questi, il 22,7% tra gli 0 e i 2 anni; le motivazioni che portano all’affidamento sono gravi: nel 67,2% condotte abbandoniche e/o di grave trascuratezza dei familiari; il 26,9% problemi di tossicodipendenza e il 19,2% problemi psichiatrici. Il 23,6 % dei nuclei d’origine presenta gravi problemi economici e il 17,6% abitativi. Per questi motivi il 72,9% degli affidi sono giudiziari; Solo il 42% dei minori per cui si è concluso l’affidamento è rientrato nella sua famiglia e la fascia di età più interessata è quella dei più piccoli (dai 3 ai 10 anni, circa il 55%) Scarsa professionalizzazione della procedura di affido. Esiguità del numero di affidamenti rispetto al numero di minori (28.148) che risultavano ancora presenti nelle strutture residenziali al 31 dicembre 1999. Nidi e scuole dell’infanzia come luoghi per crescere. • Come tali contesti dovrebbero essere organizzati per garantire a tutti i bambini quelle opportunità di crescita che non sempre le famiglie offrono loro? • Come tali servizi possono instaurare un dialogo con le famiglie per offrire ai bambini continuità di cure e, al tempo stesso, sensibilizzare i genitori alle problematiche dell’infanzia? • Come tali servizi, attraverso le attività che propongono ai bambini, possono aiutarli ad affrontare e a elaborare il vissuto di abbandono connesso ad esperienze, più o meno traumatiche, di separazione e di incrinatura dei legami affettivi? La qualità dei contesti extradomestici di cura infantile • • • • Inserimento come transizione ecologica Presenza di figure di riferimento stabili e creazione di nuovi legami Promozione di relazioni affettive tra pari Rapporti personalizzati Il dialogo con le famiglie. • La responsabilità degli operatori nella gestione delle separazioni e dei ricongiungimenti quotidiani dalle figure di riferimento affettivo • La sinergia tra gli ambienti che il soggetto in età evolutiva attraversa • La sensibilizzazione dei genitori e degli operatori ad alcune esigenze infantili che richiedono di essere prontamente accolte: bisogno di regolarità nei tempi quotidiani, di accompagnamento da parte di figure di riferimento nei diversi contesti in cui il bimbo passa la giornata, di gioco con i coetanei, di sostegno alla crescita evitando rigide imposizioni o forzando il ritmo di apprendimento e socializzazione. Elaborare le esperienze: il gioco e la narrazione Elaborare le esperienze. “Dà voce alla sofferenza. Il dolore che non parla imprigiona il cuore agitato e lo fa schiantare” (Shakespeare). • Le paure dei bambini “Phineas (3,11) stamani non ha voluto togliersi il cappello, il cappotto e i guanti. E’ rimasto seduto, vestito com’era sull’orlo del sedile, zitto e con aria mite, e per molto tempo non si è unito ad alcuna delle occupazioni degli altri bambini, né ha mostrato alcuno dei suoi abituali interessi. Si è comportato così per circa una settimana. Parecchie volte nella mattinata chiedeva: ‘E’ già ora di andare a casa?’, sebbene, abitualmente, egli sia riluttante ad andare, e troppo preso dalle sue occupazioni per pensare alla fine della mattinata. Durante questa settimana egli si è anche lasciato molto più facilmente distrarre dagli altri da qualsiasi lavoro in cui era impegnato, interrompendolo ogni pochi minuti per occuparsi del loro con svogliatezza, e tornare poi al proprio. Dopo circa una settimana, tornò ad essere quello di prima. Questo suo comportamento ha coinciso con la nascita di un fratellino (il terzo bambino della famiglia)”(Isaacs, 1944, p. 132). • Il gioco • La narrazione • Il ruolo dell’adulto Alcuni spunti di riflessione e domande aperte • Quali bisogni ineludibili dei bambini rischiano attualmente di essere disattesi nelle abituali condizioni di vita? Quali garanzie dovrebbero offrire le agenzie educative – famiglie e servizi per l’infanzia – collaborando tra loro per assicurare tali bisogni? • E’ possibile, e in che modo, fare un’opera di prevenzione rispetto al “disagio in età evolutiva”? • Quali risposte sociali appaiono le più adeguate, alla luce delle esperienze fin qui fatte, per prendersi cura dei bambini abbandonati? Il problema del tempo. Il problema dei luoghi. Il problema della qualità.