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Tesina - Comune di Civitanova Marche

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Tesina - Comune di Civitanova Marche
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Conoscere uguale Seguire.
“Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò la tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno...”.
(Inf. 112-114)
(Parafrasi: “per questa ragione, io per il tuo meglio penso e giudico che tu mi segua nel viaggio che
ti propongo, e io sarò tua guida e ti trarrò in salvo da questa selva attraverso l'Inferno..”).
Pensiamo che il primo passo verso un' “assoluta” conoscenza sia innanzitutto seguire le orme di chi,
in virtù della sua competenza, risulta all'altezza di trasmettere ad altri la propria formazione
culturale. Il buon maestro è colui che, non solo è dotato di profonde conoscenze e di una notevole
esperienza in campo pratico, ma è prima di tutto portavoce di virtù etiche e morali: esso è guida e
“autore”(1), nel significato etimologico del termine di “promotore e potenziatore, ma anche guida e
garanzia autorevole di vita morale”(2).
Ecco come Dante definisce Virgilio, colui che lo accompagnerà nel suo viaggio immaginario
attraverso l'Inferno e il Purgatorio, per poi affidarlo alla guida dell'angelica Beatrice.
Avendo ormai perso nel buio della coscienza ogni certezza e il senso ultimo della vita, non si può
far altro che chiedere aiuto e affidarsi a chi, avendo accolto volontariamente la nostra richiesta di
soccorso, risulta capace di guidarci verso il rimedio più adeguato.
Lo stesso Dante, smarritosi ormai nella “selva oscura” della sua vita, chiede aiuto a quella fioca
immagine che gli appare dinanzi: “Miserere di me”(3).
Virgilio è l'unico che, seguendo le preghiere di chi meglio di lui conosce la strada verso la salvezza
(La Vergine, Santa Lucia, Beatrice), può muovere Dante verso il suo bene e la sua ultima felicità.
Il viaggio di Dante è quindi il percorso verso una completa conoscenza, raggiungibile solo
attraverso la strada tracciata dagli insegnamenti di Virgilio.
Conoscere equivale a Seguire: l'impossibilità di affrontare i propri limiti spinge l'uomo ad affidarsi
a qualcuno che indichi un percorso in virtù sia di un affetto personale che di una precedente
esperienza. L'amicizia quindi non diviene una semplice relazione sentimentale, ma un'obbedienza a
cui ci si sottopone in virtù di una fiducia nelle capacità di colui che ci muoverà verso il nostro bene.
Alla proposta di Virgilio di affrontare le difficoltà presenti nei tre regni dell'oltretomba, Dante
sceglie di tener dietro alla sua guida.
Virgilio non è comunque l'infallibile: il suo essere maestro gli fa ben capire che anche lui ha
bisogno di aiuto; infatti, essere guida significa anche avere l'umiltà di accettare i propri limiti e
riconoscere la necessità di farsi indirizzare: è quello che accade nell'incontro con Sordello (VI canto
del Purgatorio) a cui Virgilio si rivolge per conoscere la strada più agevole per raggiungere la vetta
della montagna del secondo Regno.
Dante è perfettamente cosciente della finitezza delle possibilità del suo maestro e degli ostacoli
presenti nel cammino, ma nonostante ciò non esita ad affidarvisi e a seguirlo in ogni sua decisione,
anche quando Virgilio lo spinge ad affrontare incontri-scontri che Dante pensa di non poter
superare.
Nel caso esposto nel X canto dell'Inferno, l'acceso diverbio nato tra il Dante personaggio e Farinata
degli Uberti, pur sembrando un vero e proprio scontro verbale, diventerà poi un'occasione capace di
far maturare il Dante autore circa la reale situazione fiorentina. Infatti, se non fosse stato Virgilio a
muovere Dante al colloquio con il ghibellino (“ed el mi disse: <volgiti! Che fai? Vedi là Farinata
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che s'è dritto: dalla cintola in su tutto 'l vedrai.”(4)) l'autore non avrebbe avuto la possibilità di
affrontare con maggiore chiarezza il tema politico accennato in precedenza.
Virgilio viene, quindi, ad essere quel motore attorno a cui si muovono tutte le esperienze dantesche,
colui che sa guidare ma che sa anche farsi seguire.
Crediamo fortemente che, così come Dante fu mosso dal suo maestro, non è possibile immaginare
una letteratura posteriore che non sia collegata proprio all'autore fiorentino: è stato per molti versi
una fonte per autori successivi che hanno visto in lui una sorgente inestinguibile di valori culturali e
morali.
Il sovrumano ha cambiato l'uomo: Dante non si limita a descrivere i tre regni ultraterreni, ma
trasferisce l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso all'interno della sua anima. In questo senso il viaggio
di Dante diventa il percorso esistenziale di chi, perso ogni punto di riferimento, tenta non solo di
riscoprire Dio, ma prima di tutto se stesso.
La Divina Commedia è un'opera vera quanto sincera; Dante non censura nulla dell'umano: vizi,
virtù, passioni e dolori sono descritti con estrema veridicità e con “la lingua in cui si esprimono
anche le donnette”(5), in un' originale combinazione di musicalità e poesia.
Da “l'amor che al cor gentil ratto s'apprende”(6) di Paolo e Francesca, al “folle volo”(7) di Ulisse,
arrivando al “disperato dolor” del Conte Ugolino, l'autore trasmette con forza e chiarezza la reale
condizione umana.
È proprio questo uno dei motivi che ha attirato e affascina ancora oggi i lettori e i letterati di varie
generazioni, e rende l'opera perfettamente attualizzabile e immortale nei valori espressi.
Le immagini in cui Dante cristallizza le passioni terrene diventano specchi in cui riflettere la propria
vita e la realtà quotidiana, toccando non solo l'intelligenza dell'uomo, ma anche i singoli cuori.
La Divina Commedia è così un'opera carburante, attraverso cui il poeta fa camminare il lettore sulla
strada da lui precedentemente tracciata.
Come un buon maestro segna il cammino all'allievo per il suo bene, l'autore fiorentino diventa una
guida essenziale per i suoi “futuri colleghi” letterati.
Dunque la Commedia è innanzi tutto un elemento che in noi si muove e ci mette in moto, e non
semplicemente una serie di incontri, rime e trovate poetiche.
Ciò non elimina il fatto che, l'opera prima di attuare la sua funzione motrice, possa avere incontrato
ostacoli nella sua diffusione e accettazione.
La Commedia nei secoli successivi.
La letteratura successiva a Dante può essere suddivisa come segue:
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Quattrocento: la stesura dell'opera in volgare e non in latino, come era in uso per i testi
ufficiali e per le opere letterarie di materia scientifica, politica e teologica, porta a diversi
pareri in merito alla Commedia: Petrarca, in vista di un pregiudizio umanistico nei confronti
del capolavoro dantesco, si schiera con coloro che lo stile non sufficientemente adeguato
all'argomento elevato esposto nei versi; Boccaccio, invece, recitava le terzine Dantesche in
Piazza Santa Croce a Firenze, riscoprendo la dignità della lingua del popolo che altri
avevano negato.
Cinquecento: con la pubblicazione delle “Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo, Dante
viene definito come un “magnifico poeta”, il cui unico neo era quello di aver utilizzato un
linguaggio privo di eleganza formale e ricco di mescolanze di latinismi e neologismi.
Proprio per questo fu privilegiata la lingua petrarchesca, che risultava avere una
connotazione di raffinatezza ed eleganza.
Seicento: la fortuna di Dante raggiunge il suo punto più basso. L'anti barocco promuoveva il
ritorno ad una tradizione puntato più sulla ripresa della norma classicista del Petrarca
anziché di quella Dantesca.
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Settecento: con Vico abbiamo la definizione di Dante come un “Genio” per l'umanità, che
ha saputo esprimere sentimenti e verità con la forza della lingua parlata. Viene
esplicitamente ricordato dallo stesso storico come “l'Omero fiorentino”. Alla fine del secolo
lo stesso Alfieri tesserà le lodi del poeta, sottolineando la capacità dell'Alighieri di
“altamente pensare e di robustissimamente scrivere”, come farà il Monti.
Illuminismo: se da una parte, in vista della Rivoluzione Francese, la Divina Commedia è
vista come un esempio di missione nazionale e civile (non dimentichiamo che il Dante attivo
in campo politico, nella Firenze del suo tempo, fu colpito dall'esilio), e di promulgazione di
idee su larga scala, per la semplicità e immediatezza della lingua usata (non a caso nel
Settecento viene pubblicata l'Enciclopedia), dall'altra viene denigrata la concezione dantesca
di una ragione limitata e volta ad una conoscenza spirituale di stampo Cristiano. Al contrario
l'Illuminismo esalta un tipo di ragione assoluta e indipendente che si risolve in se stessa.
Ottocento: Foscolo, in “Notizie intorno a Didimo Chierico” sviluppa un parallelismo tra
Dante e Petrarca , avendo questi tratti fortemente preromantici. Il “Ghibellin fuggiasco” è
uno degli uomini la cui eco ricca di una componente storica e portatrice di virtù civili e
morali risuonerà acuta nell'excursus di Santa Croce presente nei Sepolcri. Foscolo, nella
definizione del poeta fiorentino immagina che Dante abbia trovato conforto e sollievo
all'amarezza e allo sdegno per la corruzione della sua città e dell'Italia nell'esilio.
Un po' di Storia.
Il Novecento si apre con la crisi del Positivismo,una corrente filosofica che aveva preso largo nella
seconda metà dell’Ottocento. Il Positivismo,infatti, celebrava i trionfi nel campo della scienza e
nell’industria, ma agli inizi del secolo scorso entra in una fase di rapida involuzione, così facendo
mostra i suoi limiti e entra sempre più in contrasto con le nuove richieste culturali. Nel XX secolo
nascono nuove esigenze intellettuali e spirituali portando la crisi del Positivismo il quale aveva una
visione della realtà limitata agli aspetti fenomenici e superficiali.
All' interno dell’Europa in questo periodo si sviluppano delle tensioni che saranno la causa dello
scoppio della Grande Guerra. Queste tensioni sono dovute ai nuovi nazionalismi presenti in ogni
paese europeo, ma in particolar modo in quelle etnie che ancora non avevano raggiunto
l’indipendenza, ad esempio i popoli della penisola dei Balcani. La prima guerra mondiale scoppia
nel 1914 dopo l’uccisione da parte di un anarchico serbo di Francesco Ferdinado, imperatore
austriaco. La crudezza della guerra e i suoi orrori mettono ulteriormente in crisi la fiducia verso la
scienza nata nell’Ottocento, per dar vita alle varie filosofie di pensiero negativo, una su tutti,
Friedrich Nietzsche, il quale influenzerà molto il pensiero italiano. Gli intellettuali raccontano la
guerra e i loro sentimenti vengono proiettati nella poesie che parlano così del dramma esistenziale
nel quale era inciampato l’uomo. In questo clima di insoddisfazione, di smarrimento prendono il
largo le ideologie totalitaristiche, che proponevano solo in apparenza benessere. In Italia vi è
l’avvento del Fascismo con la persona di Benito Mussolini. Egli venne appoggiato dagli
imprenditori del nord Italia che speravano dopo l’età giolittiana in un governo puramente borghese.
Nel giro di dieci anni il Duce , come si faceva chiamare Mussolini, assunse tutto il potere nella sua
persona mantenendo però la monarchia e il re. Durante il Fascismo tutte le voci che si opponevano
ad esso vennero messe a tacere. Nello stesso periodo in Germania vi fu l’ascesa di Adolf Hitler che
nel 1938 diede vita al terzo Reich. Con Hitler le teorie di Darwin divennero fatti, egli considerava la
razza tedesca un razza superiore alle altre tanto che vi fu una propaganda antisemita che ebbe
l'apice nella leggi di Norimberga del 1935. Culmine di questa iperbole sono i campi di
concentramento dove vennero uccisi milioni di ebrei, ma anche zingari, omosessuali e handicappati.
Altro regine totalitario è quello socialista in Russia dapprima con Lenin, poi con Stalin. La loro era
una dittatura di stampo socialista, seguirono alla lettera la teoria marxista portando anche sviluppo
dal punto di vista culturale, ma essendo una dittatura i cittadini non potevano esprimere la propria
opinione né potevano ribellarsi al potere del dittatore. Con lo scoppio della Seconda Guerra
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Mondiale l’Europa si trovò di nuovo divisa sostanzialmente in due blocchi, ma questa volta
giocheranno un ruolo fondamentale gli Stati Uniti d’America. Solo con la sconfitta della Germania
il mondo scopre il genocidio subito dagli ebrei. Tutto il mondo è sconvolto da questo fatto:
l’olocausto e la guerra toccano l’animo dei poeti che nelle loro poesie denunciano ancora una volta
l’orrore e la crudeltà del genere umano e, come già successo nella prima guerra mondiale,l’uomo è
smarrito. Durante la divisione del territorio URSS e U.S.A hanno il predominio sul mondo. Esse
dividono il vecchio continente in due aree di influenza. Nella divisione la città di Berlino è divisa in
due parti da un muro, lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale è sempre imminente,ma grazie alla
diplomazia verrà sempre riportata la pace. Questo periodo viene chiamato Guerra fredda che
terminerà nell’ottobre del 1989 con la caduta del muro di Berlino e la disgregazione dell’ URSS.
Dante e il Novecento.
Ogni uomo nasce, cresce e muore. Per quanto ogni esistenza sia caratterizzata da esperienze
personali e caratteristiche per ciascuno, in realtà l'essenza stessa dell'essere umano accomuna tutti
gli individui. Per questo è possibile generalizzare la vita di ogni singolo e trasferirla sul piano
universale: l'umanità nasce, cresce e muore. È impossibile pensare un uomo escludendone il
sentimento: oltre ad essere fatto di materia e bisogni, la vita è dominata anche da passioni capaci,
nel bene o nel male, di “far tremare le vene e i polsi”(9). Infatti rivedendo la storia, essa non è
semplicemente un cumulo di errori (come era per l'Illuminismo), ma è l'agire, lo sperare, il piangere
e il sognare di tutta l'umanità. Andando nel particolare, possiamo definire il Novecento come la crisi
delle certezze del genere umano.
Parlando in allegorie è come se il mondo fosse caduto nella
“selva oscura”: esso non riesce a salire quel monte che sembra
essere l'unica salvezza possibile. Anche in questo caso l'ascesa
è ostacolata e impedita dalle tre fiere, prima fra tutte la lupa,
che rappresenta l'avidità, ovvero quella brama e cupidigia di
potere tipica dei sistemi totalitari del Novecento. Essa viene
descritta da Dante “grassa di ogni brama” e disposta a qualsiasi
azione per affermare la propria ferocia. La lupa sposandosi a
qualsiasi altro peccato diventa l'incarnazione dei regimi
totalitari tipici del XX secolo, i quali come la fiera dantesca
erano capaci di annientare l'anima altrui, facendo perdere la
“speranza dell'altezza”(10). Emblema di tale fatto viene ad
essere l'Olocausto: culmine della parabola dell'ideologia
totalitarista, esso annulla l'essenza stessa dell'essere umano, sia che esso sia la vittima o il carnefice;
l'uno perde la sua fisicità e dignità, l'altro il senso stesso della propria vita.
L'umano per definizione è sintesi del particolare e dell'universale: la seconda metà del secolo assiste
alla distruzione di entrambe le parti. Nello sterminio non esiste più distinzione tra carnefice e
vittima: lo stesso oppressore viene oppresso da se stesso e dalle proprie azioni.
L’uomo non può più quindi risorgere,non riesce ad alzare il capo e affrontare la belva: egli non ha
più la forza di credere in se.
“Miserere di me”: chiedere aiuto diventa quindi inevitabile. L’unica forza che ancora sopravvive è
quella di chi accetta di essere impotente: alla consapevolezza della propria difficoltà, Dante si
arrende e chiede aiuto ad un' ombra, l’unica che sembra adatta e capace di tendergli la mano:
Virgilio.
Dante descrive il poeta latino come un amico: questi agisce per il bene del fiorentino e si muove in
direzione della giustizia e della virtù senza curarsi di passioni e dolori. Esso sembra conoscere
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perfettamente l’animo di Dante, tanto che a volte ne legge persino i dubbi e le preoccupazioni
arrivando a dissolverglieli.
Nella contemporaneità nessuna guida sembra più adatta del Dante che “mentre si legge, ci
legge” (R. Benigni,prefazione a”The Divine Comedy”,ed. Valdonega), ovvero di quell’autore che
scrivendo di sé ha saputo scrivere ciò che di peculiare e caratteristico c’è nell’anima di ciascuno.
Il fiorentino è riuscito ad andare nel profondo della propria interiorità, ha saputo leggere dietro le
righe della propria vita analizzandone i dubbi, le perplessità e gli errori. Nel periodo più duro della
sua vita, quello in cui ormai ci si perde in se stessi (l'esilio), questi ha saputo alzare il capo e
guardare al suo passato e al suo presente comprendendo ogni piccola sfaccettatura del suo
incredibile puzzle. Ha saputo rialzarsi anche se non da solo: il suo maestro gli è stato guida e autore.
Il Virgilio di Dante diventa reale in quanto umano; capisce le perplessità, le insicurezze e le
indecisioni del suo amico-allievo. Ma ciò che di Dante è stato decisivo è il riuscire a lanciare il suo
sguardo anche al futuro: descrivendo sé ha descritto gli uomini. Quindi: chi meglio di lui avrebbe
potuto essere il “Virgilio” del XX secolo? Dante ha saputo leggere l'umanità e ha voluto regalare ai
posteri le sue scoperte: egli ha mosso, muove e muoverà ancora.
Tra I più illustri poeti del Novecento italiano e anglo-americano la lezione dantesca trova maggiore
accoglienza in Eugenio Montale e Thomas Stearns Eliot.
Eugenio Montale.
“L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé
considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò
non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo;
significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare
l'essenziale con il transitorio. Avendo sentito fin dalla
nascita una totale disarmonia con la realtà che mi
circondava, la materia della mia aspirazione non poteva
essere che quella disarmonia.” (E. Montale).
Dalle poche parole dell'autore genovese è già possibile rilevare alcune caratteristiche particolari,
che rendono la produzione montaliana affine a quella dantesca.
La stessa attività poetica nasce, per il Montale, dalla percezione di una disarmonia con il mondo
esterno, disagio che porta il poeta in questione a ricercare nella poesia un metodo di indagine della
realtà, attraverso cui decifrare il senso ultimo dell'esistenza. Facendo uso di una poesia
“metafisica”, l'autore, pur descrivendo oggettivamente la realtà, analizzandone gli aspetti più
comuni e quotidiani, oltrepassa l'aspetto concreto e fisico del reale, al fine di svelarne il significato
più intimo. È possibile parlare per Montale della tecnica del “correlativo oggettivo”, ovvero di un
metodo con il quale anche I concetti e I sentimenti più astratti trovano la loro definizione in oggetti
definiti e reali. L'opera si trasforma quindi in una “poesia delle cose” , alla quale l'autore affida il
compito di scandagliare la condizione esistenziale dell'uomo del Novecento, racchiusa all'interno di
termini aventi una pluralità di significati di difficile decifrazione a livello razionale. Si tratta, quindi,
di un altro modo, assai più moderno, di costruire delle allegorie, in cui elementi naturali
rappresentano in ultima istanza condizioni spirituali e morali. È evidente, pertanto, come il poeta in
questione riprenda e rielabori la concezione dell' allegorismo medievale, che trova nella Divina
Commedia la sua massima espressione. Il rapporto di Montale con Dante risulta evidente non solo
nella presenza nelle sue opere di citazioni di derivazione dantesca, ma anche e soprattutto nella
scelta dell'allegoria quale metodo di fare poesia. Analizzando la produzione letteraria del genovese,
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appaiono, tuttavia, con estrema evidenza delle sostanziali differenze riguardanti soprattutto l'aspetto
contenutistico espresso da tale simbologia: mentre Dante ritrova nei suoi emblemi le certezze della
fede, Montale rimane radicato in quel “male di vivere” che costituisce il motivo determinante per la
sua attività poetica, e il suo esito finale.
La difficoltà esistenziali incontrate da Montale nel corso della sua esistenza si scontrano con le
difficoltà proprie del periodo storico a lui contemporaneo: di fronte alle realtà della guerra, degli
stermini di massa e delle delusioni del dopoguerra, l'autore riconosce una radicata impossibilità di
sciogliere il mistero della vita e della storia. L'unica forma possibile di conoscenza diventa quindi la
poesia, che assume il compito esclusivo di indagare la condizione dell'uomo novecentesco,
assumendo le sembianze di una “testimonianza negativa” e di un preciso significato morale.
Volendo cogliere delle analogie con l'opera dantesca, occorre sottolineare come la poesia di
Montale spesso si rivolga a un “tu” femminile in cui l'autore tenta di ricercare un'alternativa
profonda alla storia, concepita come un inferno su cui incombe il “messo
infernale”(Hitler_Primavera Hitleriana), e alla “prigione” priva di senso dell'esistenza quotidiana.
Riprendendo il modello stilnovistico e dantesco della donna-angelo, la sua Clizia diviene portatrice
di salvezza, intesa come fuga dal mondo e dalla storia. La figura femminile, con la quale risulta
impossibile un rapporto reale, non viene mai descritta fisicamente, ma solo attraverso alcuni dettagli
simbolici, che, come per la Beatrice di Dante, ne caratterizzano il passo, lo sguardo e i capelli.
La sublimazione a cui è soggetta, trasforma la donna in una creatura inafferrabile, che appare e
scompare in bagliori di luce, annunciando il nuovo valore e la nuova religione delle lettere, capace
di garantire la salvezza.
Nella Primavera Hitleriana, la missione salvifica di Clizia raggiunge il suo massimo sviluppo:
andando a costituire un'occasione di esperienza del divino, la donna si trasforma nella “cristofora”,
portatrice del messaggio cristiano. Va comunque ricordato che la concezione laica di Montale non
verrà comunque intaccata da tale immagine, che, al contrario, andrà a costituire, per l'immediatezza
e l'istintività con cui è capace di aderire all'esperienza umana, l'ultima possibilità di riscatto non solo
per il poeta o per pochi eletti, ma per l'intera umanità.
La primavera hitleriana.
Testo
Parafrasi
Né quella ch’a veder lo sol si gira
DANTE (?) a Giovanni Quirini
La densa nuvola bianca delle farfalle agitate
vola attorno alle deboli luci dei lampioni e nei
pressi dei muri tra le finestre,
stende sul terreno una coperta bianca sulla quale
i passi producono uno scricchiolio simile a
quello dello zucchero;l'estate ormai vicina
talvolta sprigiona i suoi ultimi freddi notturni
che erano nascosti nei segreti meandri
dell'inverno, e negli orti che da Maiano arrivano
fino alle rive del fiume Arno.
Da poco tempo è passato sul corso di Firenze,
quasi come in volo, Hitler, accolto
dall'entusiasmo dei fascisti; un palco e
un'orchestra vivace totalmente decorati da
svastiche lo hanno ricevuto, i negozi, sebbene
poveri e inoffensivi nonostante i giocattoli da
guerra esposti nelle loro vetrine, hanno chiuso le
loro porte; il macellaio che riempiva gli agnelli
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle
spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente
sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi
renai.
Da poco sul corso è passato a volo un messo
infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico
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acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e
inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano
il sangue
S’è tramutata in un sozzo trescone d’ali
schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a san Giovanni, che sbiancavano
lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud….
uccisi con bacche e spezie,ha chiuso la sua
bottega; la festa degli assassini miti che ancora
ignorano gli esiti della guerra, si è trasformata in
una danza lurida di ali di farfalla spezzate, di
larve sull'alveo del fiume,e le acque continuano
a corrodere le rive e ormai nessuno è più
innocente.
A che cosa sono serviti i valori dell'umanesimo,
allora? A che cosa sono serviti i momenti
d'amore? - e i fuochi d'artificio nel giorno di San
Giovanni, che illuminavano lentamente il cielo,
e le nostre promesse, e i nostri addii
interminabili, forti come l'efficacia di un
pentimento durante l'attesa straziante
dell'esercito sterminatore (ma una stella cadente
fendette l'aria, brillando sull'ultimo gelo e sulle
rive del tuo luogo di nascita, e i sette angeli
biblici di Tobia preannunciarono l'avvento di un
riscatto) e i girasoli nati dalle tue mani- è tutto
bruciato e divorato da quelle farfalle che ora
stridono come il fuoco vivo e porta con se il
vento freddo del Nord...?
La primavera segnata dal dolore diventa una
festa se pone fine a questa pena! Clizia, guarda
ancora verso il cielo, lì è il tuo destino, tu che
conservi intatto l'amore immutabile, fino a
quando quella luce racchiusa in te penetri
nell'Altro e si sacrifichi in Lui, salvando così
tutta l'umanità. Probabilmente le sirene e i
rintocchi delle campane che hanno accolto
Hitler e Mussolini in questa sera della loro
riunione demoniaca, si stanno già confondendo
con quell'annuncio che inviato dal cielo, scende
e vince, portando con sè la speranza di una
ripresa per tutti simile a un'alba miracolosa,
bianca nel suo candore, ma priva di quelle ali
cariche di orrore, su i nostri luoghi arsi dal sole..
La lirica fu portata a termine da Montale tra il 1939 e il 1947. I versi traggono ispirazione dall'
incontro avvenuto a Firenze, nella primavera del 1938, tra Adolf Hitler e Benito Mussolini. Nel
testo l'analisi e il riferimento storico-politico rimandano al tema della tragica condizione
esistenziale dell'uomo moderno, la cui salvezza è resa possibile solo dalla luce racchiusa negli occhi
di Clizia. Gli stessi segni apparentemente avversi della natura, come la pioggia di falene bianche,
segnano il primo passo verso la ribellione della storia stessa e una prima forma di vittoria dell'uomo
sulla morte e sulla bestialità.
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Per la modalità con cui Montale affronta il tema della rinascita dell'umanità, per l'utilizzo
dell'allegoria e per la concezione della donna quale portatrice di salvezza e dei valori dell'umano, è
possibile riscontrare alcune affinità con la produzione dell'Alighieri.
Già nell' avantesto il poeta, riprendendo il verso di un sonetto attribuito a Dante, preannuncia il
ruolo fondamentale che la donna avrà nella vicenda narrata.
Nel 1933 era infatti comparsa nella vita di Montale Irma Branderis, una giovane studiosa americana
di origine ebrea, che nelle sue opere assumerà il nome mitologico di Clizia.
Dalle Metamorfosi di Ovidio, il poeta genovese attinge il riferimento al mito di Clizia trasformata in
girasole dopo che il suo amore per Apollo venne ripudiato. Nonostante l'offesa, la fanciulla restò
sempre fedele al Sole, rivolgendosi sempre verso la luce e conservando dentro di sé un amore
immutato.
La prima strofa descrive le caratteristiche paesaggistiche della città, attraverso un linguaggio
“scabro ed essenziale” e per mezzo di immagini vivide e reali con una forte carica realistica, di
derivazione dantesca.
Il disordine paesaggistico delineato nella prima strofa, trova nella seconda una nuova ambientazione
di tipo infernale: il personaggio di Hitler viene definito “messo infernale”, trasformando così
l'evento storico in un insopportabile momento dell'esperienza umana portatore di sterminio e
crudeltà immani. Bene e male, orrore e salvezza si alternano nelle immagini del bianco candore
delle falene e dei “mostri” preannunziatori di morte e di tenebre.
La presentazione del “messo infernale”, introduce in una rappresentazione tragica, che richiama il
Lucifero dell'ultimo canto dell'Inferno dantesco, e in un'atmosfera demoniaca sottolineata
dall'utilizzo di termini riguardanti le cerimonie tipiche delle streghe “miti carnefici”, “ trescone”, “
tregenda”.
Montale costruisce, come il poeta fiorentino, la sua poesia per immagini, per ossimori e per suoni,
ricorrendo a funzioni onomatopeiche che riproducono il clima di dannazione e di lugubre oscurità
dei gironi infernali.
Allo scenario della “sagra dei miti carnefici” di coloro che acclamano la visita del capo di stato
tedesco, Montale propone nella terza strofa il vigore dei ricordi del suo amore che culminerà
nell'epifania della sua donna Clizia.
La rievocazione della partenza della donna amata e dei momenti felici trascorsi insieme,
trasformano il linguaggio, prima essenziale e arido, in parole cariche di fede e di speranza. Al
sangue ancora ignorato dai soldati e alla pioggia di falene, subentrano immagini cariche di luci,
come i fuochi d'artificio e la stella cadente che brilla sulle acque ancora gelide dell'Arno.
Seguendo l'esempio dantesco, in questa parte della lirica, Montale ripropone temi biblici,
adattandoli alla situazione storica da lui analizzata: i sette angeli di Tobia (Antico Testamento)
preannunciano assieme alla luce della stella cadente che riga l'aria, la speranza di un riscatto futuro.
Nella quarta e ultima strofa, l'epifania di Clizia conclude la lirica e annuncia l'avvento di una
rinascita per l'intera umanità. La donna, dotata di forza redentrice sacrifica la luce racchiusa nel suo
petto per salvare tutti gli uomini: da vittima sacrificale, Clizia si trasforma totalmente nella
“cristofora” in cui il suo amore terreno e quello divino si confondono fino a giungere al completo
riscatto del mondo. In questi ultimi versi il poeta, attraverso la tecnica stilistica delle coppie degli
opposti (luce/sangue, alba/greti arsi, ecc.) rievoca, seguendo il modello dantesco, la concezione
stilnovista della donna-angelo: Clizia viene così ad incarnare i valori dell'umano, riassunti in quel
Cristianesimo di cui è portavoce, inteso dal poeta non come religione, ma come insieme di valori e
di speranze valide per tutta l'umanità.
9
Thomas Stearns Eliot.
L’influenza di Dante su Eliot è tanto radicata nell’opera letteraria dello
scrittore americano che è impossibile riferirsi a lui senza richiami,
parallelismi e scorci sull’universo dantesco.
Non è possibile determinare se siano stati gli ideali estetici, etici e
teologici di Eliot ad accostarlo all’autore fiorentino, o se sia stato proprio
quest’ultimo ad indirizzarlo verso tali convinzioni, ma è certo che nel
leggere le poesie dell’autore novecentesco è inevitabile cogliere l’ombra
di influenza del massimo esponente del trecento italiano. L'ombra
dell'Alighieri si allunga sulla maggior parte delle opere di Eliot anche
dove non ci sono riferimenti espliciti, suggerendo una
funzione simile a quella che Virgilio ha avuto per Dante: “tu sei lo mio maestro e 'l mio autore”, in
quanto lo studio del fiorentino accompagnò ogni fase della sua maturazione artistica. Dante
rappresenta per Eliot, in primo luogo, il modello più alto per chiunque voglia scrivere, in qualsiasi
lingua. Riferimento più esplicito a Dante è lo strumento allegorico che Eliot definisce “la più
esauriente, la più ordinata presentazione dei sentimenti che sia mai stata fatta” (11). L'immagine
non è così mera ornamento ma diviene essa stessa veicolo di comunicazione, rendendo la poesia
libero evasione dai sentimenti stessi e rendendo il poeta “catalizzatore”, cioè in grado di tradurre le
proprie esperienze in espressioni di valori universali.
In tal modo Dante arricchì l'esperienza umana “nell'estendere le frontiere del mondo umano” (12).
Eliot in Dante riconobbe che “il metodo allegorico era un procedimento ben preciso e non limitato
alla sola Italia” (13) ma influente e radicato in tutta Europa.
Lo stile e la lingua proposta dalla poesia toscana ed, in particolare, dal poeta fiorentino, divennero
modelli da contrapporre alle astrazioni romantiche, proponendo attraverso l'allegoria una realtà più
chiara ed evidente, quasi tangibile, che permetteva un'immediatezza al contenuto anche se spesso
difficile, e che riusciva a dipingere una realtà, com'è quella di Eliot, aspra e alienante.
Da qui è facilmente deducibile l'interpretazione del metodo dantesco data da Eliot, spiegata dalla
sua teoria letteraria dell'impersonalità e quella del correlativo oggettivo. Tale influenza può essere
riscontrata in primo luogo in una delle poesie più importanti di Eliot: “La terra desolata”. Con
lucido e freddo realismo egli traduce con grande efficacia, attraverso la simbologia del deserto e
della desolazione, la crisi del mondo moderno, ormai privo di valori morali ed etici. Attraverso uno
scenario che richiama il mondo purgatoriale ed infernale, presentato sullo sfondo di una Londra
irreale e cupa, Eliot presenta l’aridità sola che il Novecento è in grado di fornire.
Il riferimento alla Commedia si fa esplicito quando riprende dal III canto dell’Inferno: “si lunga
tratta / di gente, ch’io non avrei mai creduto / che morte tanta n’avesse disfatta” (vv. 55-57),
volendo rappresentare in modo forte quella “gran folla” (14) di ombre di uomini senza anima e
senza valori, abitanti di un “inferno” cittadino.
A ridosso della città si erge la grande montagna, che richiama la dimensione di una bolgia infernale,
dove creature dai “volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano” sono sospinti da un’incessante
forza superiore.
L’efficacia di tale simbolismo si traduce in immagini forti ed estremamente concreta, che ci
presenta uomini alienati dal mondo, espropriati della propria identità, che vagano senza media in
un’inevitabile ciclo di solitudine.
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Non è possibile parlare della ripresa di Dante da parte di Eliot senza citare “Mercoledì delle ceneri”
che è stata una delle più influenzate dalle tematiche e dalle scelte stilistiche del fiorentino.
Attraverso sei strofe, in questa poesia viene descritto l’arduo e lento cammino dell’anima attraverso
il suo percorso di espiazione del peccato, reso possibile dalla consapevolezza del peccato stesso e
dal conseguente pentimento.
Come il viaggio di Dante, anche quello del poeta americano è universale e soprattutto sacro; la
coscienza di tale importanza è sottolineato dal linguaggio quasi liturgico che scandisce le strofe, e
dalla ripresa di passi propri della tradizione cristiana e della Bibbia.
L’invocazione alla “Signora dei Silenzi” richiama indubbiamente la preghiera alla Vergine nel
XXXIII canto del Paradiso, le due figure femminili coincidono sia nella descrizione, in quanto sono
delineate entrambe attraverso antitesi che esprimono la “concordatio oppositorum” che si riassume
nell’eterno e nell’infinito, sia nel ruolo che ad Esse viene attribuito.
Le due Donne sono ambedue mediatrici tra l’amore umano e quello divino, di guida dal peccato alla
redenzione, dalla terra al cielo.
Grazie a Dante, Eliot si avvicina non solo ad una alta forma stilistica e a tematiche profonde e
nuove per lui, ma soprattutto a quella più profonda conversione dell’animo, che lo condurrà ad
abbracciare la religiosità cristiana.
Alla luce di tale radicata influenza dantesca nelle opere di Eliot, si può dunque affermare che Eliot
avrebbe potuto dire a Dante, ciò che Stasio disse a Virgilio: “Per te poeta fui, per te cristiano” (15).
Il Novecento senza Dante.
Se non ci fosse stato Dante il nostro secolo sarebbe stato lo stesso?
Sicuramente ci sarebbe stato un uomo in meno. La forza della lingua nasce prima di tutto dalla forza
del contenuto e dell'animo dello scrittore: il XXVI canto dell'Inferno, altrimenti detto “Canto di
Ulisse”, è sicuramente uno di quegli “intoccabili”, famosi, mitici, indimenticabili componimenti
poetici danteschi. Il vigore della dignità umana affiora in ogni verso, in ogni terzina, in ogni
enjambement. La corsa frenetica verso quell' inevitabile “folle volo”(7), è la classica espressione del
titanismo romantico: l'Ulisse dantesco ha creduto nelle proprie forze e nelle proprie virtù, grazie a
quell'inesauribile sete di conoscenza “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e
canoscenza”(16). Difficile è rimanere impassibili di fronte alle terzine in questione; infatti, la
fiducia nel poter superare ciò che di per sé è insuperabile, contagia lo stesso lettore e fa crescere
quella consapevolezza di essere ancora uomo, anche dove ormai non vi è nulla di umano.
L'uomo che sarebbe mancato all'appello cantava il mito di Ulisse in camerata. Si sentiva ancora
vivo e soprattutto ancora uomo. Quella stessa “picciola orazion”, che aveva condotto i compagni del
re di Itaca tra le braccia di un'illusione conclusasi con l'inesorabile fallimento, diventa la più grande
speranza di salvezza per chi, come Primo Levi, crede di essere abbandonato da Dio e dagli uomini,
nella sua permanenza nei lager.
Cento versi hanno salvato un uomo. Ciò non fu importante solo perché si trattava di uno dei
massimi esponenti della letteratura italiana, ma perché era un uomo. In questo è racchiusa l'attività
per eccellenza del maestro: Dante, infondendo con i suoi versi la speranza di uno sconvolgente
ritorno alla vita, si muove in direzione del bene dell'intera umanità.
Ciò ci lascia intendere come un'azione compiuta più di settecento anni fa possa essere importante e
indispensabile ancora oggi. È impossibile non fermarsi a riflettere su ogni azione da noi compiuta:
11
essa può essere insignificante e non considerata da nessuno, ma può essere anche il più nobile atto
mai compiuto. Ogni uomo è capace di tanto sia nel positivo che nel negativo. Qui è la differenza: il
Nazismo ha ucciso milioni di individui, Dante ne ha salvato uno. Quale tra questi due è incredibile?
Entrambi, ogni gesto umano a prescindere dal suo contenuto etico conserva la sua eccezionalità.
Ciò è stato proprio ciò che secondo noi Dante trasmette: ogni azione, per quanto possa sembrare
insignificante è invece importantissima e a distanza di tempo può essere utile o forse fondamentale
per qualcun altro. Esempio viene, quindi, ad essere la vita di ogni personaggio della Divina
Commedia: infatti, Dante non prende a caso le figure in ogni girone, cornice e cielo. Da Francesca
da Rimini a Pia dei Tolomei, da Marco Lombardo a Cacciaguida, ognuno di loro viene a
rappresentare quella caratteristica che tanto lo distingue e che lo rende esemplare, proprio perché
congelati nel momento più significativo della loro vita. Essendo queste così chiare e veritiere
vivono fino ad oggi e sono indimenticabili, tanto da far specchiare in esse ognuno di noi. Esse sono
chiaro esempio di come si possa imparare dagli altri e come ognuno sia portatore di un messaggio
unico. Lo stesso Virgilio è colui che trasmette valori eterni, primo fra tutti quello del “buon
maestro”. Nella Divina Commedia possiamo, quindi, notare come l'azione stessa possa superare
l'ostacolo degli anni, e giungere intatta fino a noi.
L'aiuto virgiliano nasce da due fondamentali constatazioni: dal suo essere capace di aiutare e dalla
richiesta d'aiuto di Dante. Il fiorentino è ormai consapevole di non farcela da solo: nel momento
peggiore della sua vita, quando ormai ha perso la forza di alzarsi, l'unica scelta possibile per uscire
dalla disperazione è sicuramente invocare soccorso.
Fondamentale viene ad essere, però, anche chi accoglie questa preghiera. Gli unici adatti a
rispondere a questa chiamata sono le figure di Virgilio e di Beatrice. L'uno rappresenta la ragione e
l'esperienza di uomo che, in virtù della sua vita passata, ha le potenzialità per guidare il suo allievo.
L'altra rappresenta la fede: Beatrice sostiene ciò che l'uomo da sé, con le sue capacità non può
spiegarsi. Si può quindi comprendere quali siano per Dante le principali fonti da cui attingere aiuto:
innanzi tutto l'esperienza, ciò che il passato ha segnato e ha trasmesso; poi l'infinito, ciò che è per
sua natura incomprensibile all'uomo in quanto misterioso e irraggiungibile dalla razionalità.
Dante, dunque, ha trasmesso al secolo appena trascorso l'importanza del chiedere aiuto, mettendo
da parte l'orgoglio personale e riconoscendo la propria debolezza. Non solo, ma ha anche indicato
quali siano le migliori fonti da cui trarre insegnamenti e da cui essere mossi: l'esperienza passata e il
trascendente.
Ma sicuramente la figura di Beatrice viene ad avere un vero e
proprio ruolo di “salvatrice” per l'autore fiorentino. Già nella
tradizione letteraria la donna veniva ad essere la protagonista
della produzione poetica, ma sicuramente Dante ha
l'esclusiva di quella concezione angelica di una figura che
possa salvare l'umanità. Uno dei motivi per cui il poeta si
perde è proprio dopo la morte dell'amata: viene a mancare
nella sua vita il simbolo dell'amore e lo sguardo di quella
donna che suscitava in lui il sentimento di gioia e serenità.
Per questo ricerca eternamente quegli occhi, gli unici che a
suo parere possono salvarlo. Solo sapere che il viaggio che
dovrà fare è stato voluto da Beatrice appositamente per lui, lo
riempie di fiducia nelle proprie capacità e per questo riscopre
la forza per affrontarlo.
Possiamo quindi pensare che, senza la donna-angelo dantesca (Beatrice), non avremmo avuto
nemmeno la “cristofora” (Clizia) di Montale.
12
Crediamo inoltre che si debba a Dante il merito di aver saputo convertire le parole in codice visivo,
contribuendo indirettamente a migliorare e a superare ciò che sarebbe nato solo dopo sette secoli: il
cinema.
La Divina Commedia offre al lettore un mondo di sensazioni visive che sono in grado di imprimere
nella mente uno scenario in cui reale e irreale, mondo terreno e mondo divino, mito e verità
acquistano concretezza, in una dimensione artistica che oggi solo il grande-schermo è capace di
realizzare. Le tecniche cinematografiche forse non sarebbero state le stesse: infatti, l'opera è stata la
prima a creare effetti speciali, primi piani, dissolvenze, zoomate e flashback col solo ausilio delle
parole. È riuscito a catturare la mobilità delle cose e la loro essenza, per trasformarle in immagini,
suoni, odori e persino colori. Senza l'aiuto del “primo grande regista”, Dante, il patrimonio
specifico dell'arte cinematografica, forse, non avrebbe avuto quel dinamismo visivo e quella
flessibilità tecnica con i quali oggi si riesce a catturare l'evanescente.
Se i fotogrammi acquistano sentimento passando dal proiettore allo schermo, per poi arrivare prima
alla retina e poi al cuore dello spettatore, i versi danteschi sono mezzi di comunicazione molto
simili, se immaginati come singoli fotogrammi: la grandiosità della Commedia sta nel fatto che essa
ci offre immagini così vivide che sembrano poter attraversare la nostra retina.
Il sommo poeta dovette elaborare, dunque, una lingua che fosse in grado di convertire la parola in
un codice meramente visivo: Dante ha “costruito la più grande cattedrale della parola”(17); si è
trovato a dover inventare nuovi termini “esatti” che potessero descrivere uno specifico concetto.
Ma, soprattutto gli si deve il merito di aver inventato moltissimi nuovi significati, ha arricchito la
lingua italiana di un lessico senza il quale sarebbe difficile interpretare il mondo di oggi. Le parole
costituiscono una manifestazione del pensiero, e “se il lessico è sbagliato, ciò significa che il
pensiero che esso esprime è sbagliato e non contiene verità bensì un errore”(18).
E noi...?
Lavorando sulla Divina Commedia ci siamo resi conto di essere molto legati ad essa, soprattutto
all’Inferno. La cantica, infatti, propone un gran numero di esempi chiaramente riconducibili alla
vita quotidiana: è facilissimo entrare nella vita di Dante ed uscirne con la propria. Le risposte del
Dante-uomo sono quelle di chi affronta i peggiori momenti della vita con fierezza, di chi ha toccato
il fondo con le dita e ha trovato il vigore di alzarsi, di chi ha ormai perso tutto e ha scoperto la forza
di superare le difficoltà.
Crediamo che il merito più grande di Dante risieda nell'aver preso coscienza e nell'aver trasmesso
che la forza più potente del mondo, forse anche più forte di quella divina, è quella racchiusa
all'interno dell'uomo: egli deve trovarla in sé, lottare per conquistarla nell'estremo tentativo di
superare ciò che per sua natura è insuperabile. Il dolore, la solitudine e lo smarrimento sono i fattori
che ci fanno essere “grandi”: solo attraverso questi è possibile misurare i propri limiti e capacità
fino a prendere coscienza di ciò che in realtà siamo e di quanto valiamo.
L’attualità dantesca nasce da questo slancio: Dante ha compreso e tramandato “ La forza della vita”,
quella racchiusa in ognuno di noi, sebbene non sempre chiaramente visibile, ma che quando viene
liberata ci rende capaci di trovare una “via di scampo”, lungo la quale è necessario camminare con
qualcuno a fianco.
Se un uomo tanto eminente, come è stato Dante, ha realizzato che è indispensabile trovare accanto a
noi, nel voltarsi, una figura amica e di conforto, dovremmo pensare al fatto che a volte è meglio
mettere da parte l'orgoglio e la superbia, per afferrare la mano tesa verso di noi.
Forse nessun' altra opera insegna meglio della Divina Commedia come, a volte, in momenti di seria
difficoltà e solitudine, la miglior risposta venga davvero nel tendere ad alti valori, rappresentati per
Dante da Dio, che prospetta uno spiraglio di speranza per chi si vede solo nel patibolo della vita.
Non possiamo esprimerci sul Dio che Dante propone, come simbolo cristiano, ma siamo convinti
che sia ammirevole come il poeta fiorentino abbia così egregiamente trovato una risposta ed un
13
percorso da seguire nel superare quel momento di perdita d'identità personale che caratterizzava
quel particolare momento delle sua vita.
Nella società di oggi, specialmente per i giovani, è segno di debolezza e di vergogna credere ed
attuare valori importanti, come quello della vita, dell'istruzione, della famiglia o di un qualsiasi
essere superiore. A nostro parere, però, attraverso questi, si può scoprire quella sensazione di non
essere così soli in questo mondo.
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Note sul testo.
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Inf. I, vv. 85.
“La Divina Commedia” commento di Tommaso di Salvo, Zanichelli pag. 23.
Inf. I, vv. 65.
Inf X, vv. 31-33.
Lettera a Cangrande.
Inf. V, vv. 100.
Inf. XXVI, vv. 125.
Inf. XXXIII, vv. 5.
Inf. I, vv. 90.
Inf I, vv. 54.
Dante (I) 1920, in Opere, vol. 1 pag. 423.
Eliot, Clark Lectures III.
Dante (II) in Opere, vol. 1 pag. 831.
La Terra Desolata, Eliot, vv. 3.
Dante, Divina Commedia, Purg. XXII vv. 73.
Inf. XXVI, vv. 119-120.
Citazione di Opis Mandel’ Stam.
Citazione di Eugenio Scalfaro.
Bibliografia.
•
Dante Alighieri /
Tommaso Di Salvo (1993),
la Divina Commedia,
Bologna, Zanichelli.
•
Guido Baldi, Silvia Giusto, Mario Razettti, Giuseppe Zaccaria (2007),
dal testo alla storia dalla storia al testo,
vol. G ,
Torino, Paravia.
•
Umberto eco, (1968),
La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale,
Bologna, Bompiani.
Sitografia.
•
www.ildomanionline.it
•
www.santalex.it
•
www.novecentopoesia.it
•
www.biblio-net.com/
•
http://xoomer.alice.it
15
•
siba2.unile.it/ese/issues/273/646/Segnicomprn48-03p39.pdf
16
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