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PILLOLE DI DANTE
PILLOLE DI DANTE Autore VIRIO GUIDO STIPA Ascoli Piceno 2013 1 (AN)ESTETICI E ANTIDEPRESSIVI PER LO SPIRITO PILLOLE DI DANTE 222 mg. DI INDIMENTICABILI MOMENTI, PROBLEMATICHE, STORIE, MITI E PERSONAGGI DELLA DIVINA COMMEDIA Leggere attentamente le avvertenze, può causare assuefazione e dipendenza; non esporre alla portata del mentecatto insipiens italicus. 2 Redatto e ideato da: Virio Guido Stipa Ascoli Piceno, 2013 © Tutti i diritti riservati 3 INDICE: PREFAZIONE 1. LA POTENTISSIMA MAGA ERITTO 2. Il TORO DI PERILLO 3. MELISENDA DI GERUSALEMME 4. IL BESTEMMIATORE CAPANEO 5. LA MORTE DI MANFREDI DI SICILIA 6. GLI OCCHI E IN PARTICOLARE QUELLI DI BEATRICE 7. BONCONTE DA MONTEFELTRO 8. UN PAGANO TRA I BEATI: RIFEO 9. I “DANTI” DELLA COMMEDIA 10. COME GENERARE UN MOSTRO 11. UN BORIOSO E MANESCO CIALTRONE DI PARTE AVVERSA 12. GLAUCO 13. MELEAGRO 14. UN ROMANO SEVERO E VENERANDO 15. GODE PIÚ L’UOMO O LA DONNA NELL’ATTO? 16. UN BASTARDO SENZA GLORIA 17. DUE AMATISSIMI PERSONAGGI VIRGILIANI 18. UN POETA NELL’IMBUTO INFERNALE 19. UN INCIPIT SINISTRO 20. GIGANTI 21. UN CONTROVERSO GUARDIANO INFERNALE 22. ANONIMO SUICIDA FIORENTINO 23. IL FATO NON SI CAMBIA 24. ORIGINI INFERNALI 25. UNA ALLEGRA BRIGATA 26. UNA PRESA IN GIRO FINITA MALE 27. LA GROTTESCA VICENDA DELL’ANIMA D’UN SINGOLARE STRATEGA 28. BIZZARRE TEORIE “GENETICHE” MEDIEVALI 29. UN ANTENATO DI CUI ESSER FIERI 30. UNO PIÚ SAPIENTE DI DANTE STESSO! 31. UN TRUCULENTO INTRECCIO FAMILIARE 32. ORDINAMENTO ETICO-GIURIDICO INFERNALE 33. PIÚ CHE UN ERETICO 34. SPREGEVOLI SFRUTTATORI 35. DA SINISTRA A DESTRA 36. LE NOZZE DI PIRITOO E IPPODAMIA 4 37. UN SANTO O UN CRIMINALE? 38. INVIDIE DI CORTE 39. ODIO INCOMMENSURABILE PER I PROPRI CONCITTADINI 40. LA MOGLIE CEDUTA 41. PAN PER FOCACCIA, O PEGGIO: “DATTERO PER FIGO” 42. L’IMPERATORE ROMANO E L’UMILE VEDOVA 43. IL RICCHISSIMO CRASSO 44. UN MENESTRELLO DALLA LINGUA TAGLIENTE 45. I TRADITORI MUOIONO DUE VOLTE 46. IL MITO DEL SATIRO MUSICISTA E ALTRE SFIDE 47. VIA LATTEA 48. VILE MEZZANO DELLA SUA STESSA SORELLA 49. UN FORMIDABILE ASTROLOGO 50. INFLUSSI STELLARI 51. RETICENZE TRA POETI CHE SVEGLIANO CURIOSITÀ NEI LETTORI 52. LA SECONDA MORTE 53. VERITÀ INDIGESTE 54. CLERO AVIDO E DANNATO 55. UN GIOVANE MAGNIFICO 56. MIRRA E SEMIRAMIDE 57. UNA SANTA AMATISSIMA E BUONISSIMA 58. STRAGE PER GELOSIA 59. NON VENDICARSI DEGLI DEI! 60. IL DIAVOLO ALICHINO 61. LE NINFE SALMACE E SIRINGA 62. L’INNOMINATO DELLA COMMEDIA 63. GUIDO CAVALCANTI 64. IL DESTINO DELL’IMPERO 65. LA LANCIA DI ACHILLE 66. DUE MORTI INVEROSIMILI 67. ANTICHE BATTAGLIE IL LORO VALORE E IL VALORE IN ESSE 68. L’USO DEL “TU” 69. UNA NUOVA PROSPETTIVA SUL DESTINO DELL’UOMO 70. UNA BEFFA 71. UN’ETIMOLOGIA ERRATA MA SUGGESTIVA 72. UNA BIZZARRA EFFERATEZZA 73. UN GRAN MANGIATORE 74. CAIFAS, IL SACERDOTE DEI TEMPI DI PILATO 75. UN “PROTOCONTESTATORE”: SIGERI 76. INFAME DI CASA DONATI 77. FRATI GAUDENTI 78. NEPOTISMO 5 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. UNA TRAGEDIA D’AMORE EROINA DELL’ENEIDE VENDETTA DI UNA MADRE MORDRET UN CORTESE GIULLARE DANNATO DIECI ANNI SENZA BEATRICE VENDETTA FEMMINILE L’UNICA PUTTANA DELL’INFERNO DANTESCO UNA MAGNIFICA CANZONE PROVENZALE UN AMICO RITROVATO E UNA TENZONE POETICA TRACOTANZA DIABOLICA AMORE ADDII UN CONGEDO IN PROVENZALE DUE VIOLENTI DESPOTI DI CITTÀ UN NOBILE GESTO AMORE LA SCIENZA DELLE MACCHIE LUNARI SOGNARE IL FUOCO IL CERBERO DANTESCO UN LADRO DIVENUTO CENTAURO ALL’INFERNO UN RAPIMENTO D’AMORE IL MALAUGURIO INNOCUO DELL’ENEIDE UNA SPOSA INFEDELE UN NUMERO INCOMMENSURABILE QUESTIONI ANGELICHE QUESTIONI ANGELICHE II QUESTIONI ANGELICHE III UN VERO MIRACOLO UNO SDEGNOSO EPICUREO FIORENTINO UN CRUDELE E INFAME POLITICANTE UNA AMANTE FOCOSA IL CARDINALE ATEO UN ANTICO POLITICO SENZA PARI POLITICO FIORENTINO SODOMITA IL SIMBOLO DEL TIMONE UN VERO NOBILUOMO DELL’EPOCA UN AMORE DISPERATO COME LA SIBILLA LEGGENDE SU ORIGINI ETNICHE GLI “AVELLI” DEGLI ERETICI UNA VENDETTA ALQUANTO ESAGERATA GEOMANTI 6 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138. 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147. 148. 149. 150. 151. 152. 153. 154. 155. 156. 157. 158. 159. 160. 161. 162. 163. 164. GERIONE UN INCONTRO TRA GRANDI UOMINI IL SENSO DI AVERE UNA GUIDA UNA VENDETTA PIETOSA ED EMPIA UCCISO DA UN MORTO METEOROLOGIA MEDIEVALE UN COLORE PARTICOLARE IL FUOCO INVOCAZIONI DI DEE PAGANE UN ERUDITO BEATO MALCOSTUME ECCLESIASTICO ASTRONOMIA DI ORIGINE ARABA DECREPITEZZA PERPETUA IL PIANETA VENERE UNA FRASE FORZATA MA SAGGIA ECUBA: UNA REGINA DEL MEDIOEVO VIAGGIATORI ULTRAMONDANI TRE FACCE QUANDO I SOGNI DICONO IL VERO VICENDE PRE EROICHE IMPUDICHE SELVAGGE LE DIMENSIONI CONTANO DISTRAZIONI GIOVANILI DAL VERO AMORE L’ONORE DEL PRIMO SCONTRO MARESCALCO LE OPERE LEGGIADRE ANTIGONE LA STREGA DI MANTOVA UN FILOSOFO INARRIVABILE IL TRICOLORE ARROGANZA SUPREMA UN PROBLEMA SENZA SOLUZIONE: DIO L’ANIMA È UNA CAPRICCI DELLA FORTUNA VEGLIO DI CRETA I DUE FIUMI DEI MORTI GIOVE SI SALVA L’ULTIMO RITROVATO DELLA TECNICA UN “KAPÒ” DI MALEBOLGE IL COPPIERE DEGLI DEI (OMOSESSUALI) UN OMICIDIO CHE FECE SCALPORE L’ISTITUTO GERMANICO DELLA VENDETTA PAURA 7 165. 166. 167. 168. 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198. 199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. UN SANT’UOMO E CATTIVO COMMERCIANTE ELOGI INCROCIATI MATELDA L’UNICA FONTE DI CONOSCENZA (DEL MEDIOEVO) MAL AMORE ANIME UMANE IL SIMBOLO DEL SOLE IL PRIMO UOMO VENDITE E COMMERCI SIMONIACI GLI EPICICLI LA SELVA DI CECCO UN “BECCAIO” DI PARIGI LA TEORIA DEL MAL MINORE IL GIUDICE NINO LA FIGURA POETICA DELLE API PAN DEGLI ANGELI E ACQUA VIVA ANTICHI IDEALI RIMPIANTI “SEGUITI” FORMA DI RISPETTO ESEMPI DI CORRUZIONE POLITICA FIORENTINA GUGLIELMO VII SPADALUNGA MONTAGNA DEI PARCITADI UN INGANNO COMICO UN TERREMOTO IN PURGATORIO ROBERTO L’ASTUTO INTELLETTUALI SODOMITI UN DIO INCOMPRENSIBILE PRESCRIZIONI E SIMBOLI BIBLICI UN RE FALSARIO RACCONTI CANNIBALI RACCONTI CANNIBALI II RACCONTI CANNIBALI III UNA FRASE BIBLICA MOLTO ATTUALE I CAMPIONI ZOOLOGIA MEDIEVALE PREGIUDIZI NON POLITICAMENTE CORRETTI NOMEN EST OMEN AVVELENAMENTI L’ABITO DI DANTE “M” ONCIALE GIUOCO DELLA ZARA LE TRE PARCHE MALARIA E OSPEDALI 8 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. VIRGILIO IL MAGO UN TRADITORE CORROTTO DAI FRANCESI LA CITTÀ INFERNALE DI DITE RIBALDO BARATTIERE LA FEDE ORLANDO MORTE PER DIARREA DIVINA UN FIUME INESISTENTE L’ELIOTROPIO “MALEBRANCHE”, “MALEBOLGE”, “MALACODA” AMORE LA FORZA CHE UNISCE O CHE DIVIDE? ALCHIMIA LA LINGUA DEL POETA TANTI BAMBINI PICCOLI Appendice I: Rilievi sulla questione dell'”Antivedere” (di Farinata) e la Conoscenza degli Epicurei una volta giunta la fine dei tempi. Appendice II: Incongruenze: Cenni, in Particolare su Vivi e Anime dei Morti Appendice III: Riflessioni sul Prestito del Danaro, considerando Dante e Meco del Sacco Appendice IV: Chi Bestemmia non Ragiona, chi Ragiona non Bestemmia Appendice V: La Sorte delle Anime Morte secondo Dante Appendice VI: Scozzesi e Inglesi nella Divina Commedia 9 PREFAZIONE Da una acuta osservazione formulata da Vittorio Sermonti nel commento radiofonico al canto V dell’Inferno di Dante, quello di Paolo e Francesca ovviamente, viene l’idea della redazione di questa piuttosto scherzosa e leggera opera divulgativa. Gli italiani di oggi condividono un canone irrisorio di racconti! È inevitabile che il tempo farà scomparire per sempre dalla mente di chiunque l’immane moltitudine di storie, miti, leggende, momenti, situazioni, aneddoti di cui è composto quell’universo splendido e complessissimo che è la Divina Commedia. Peccato, ma così va il mondo! Fuori dall’ingenuità moralistica e sempliciotta di voler “opporsi a una crisi” e, oltretutto, all’inevitabile (è risaputo che la miglior soluzione è sempre quella di assecondarla semmai), il fine perseguito con questi 222 momenti è piuttosto quello di lottare contro la spiacevole e indisponente situazione odierna che vede tanta bellezza sacrificata per essere sostituita da una massa di schifezze e stupidaggini banali, noiose oltre che sciatte e dozzinali e tra l’altro per nulla più “forti”, tranne che nel pregiudizio degli ignari, rispetto alle storie antiche classiche, bibliche ed i racconti medievali. E già che ci siamo, cauteliamoci e dissipiamo un possibile fraintendimento. Di bellezza si tratta e unicamente di quello, di amore, o di cultura generale forse, ma non anche di risposte. Nessuna delle idee dantesche si attaglia ormai alla percezione che di sé dovrebbe avere l’essere umano d’oggi, né alla conoscenza nel più puro 10 dei sensi. Si dovrebbe finirla con la romanticheria anche essa sempliciotta e superficiale di pensare che le risposte alle nostre questioni siano solo “state dimenticate”, e siano ancora lì, a disposizione e che recuperando Dante si troveranno le soluzioni che ci mancano, sette secoli dopo. Non è così, dovremo cavarcela da soli, prenderci le nostre responsabilità, non esistono scorciatoie! Da allora tanto la scienza quanto la filosofia sono andate avanti, hanno con sforzo raggiunto nuovi epici traguardi, ed altri se ne raggiungeranno. Sia come sia, il cemento, che fa degli abitanti dell’Italia gli italiani dovrebbe essere questo gran serbatoio di bellezza e apprendimento e non certo la prostrazione al nulla quotidiano delle reti “Merdiaset” e dei disabili mentali e morali che ci lavorano, della martellante e assillante coglioneria pubblicitaria e nemmeno del nefasto malcostume della sterile polemica perpetua, la divisione superficiale e fine a se stessa su qualunque tema, e, peggio ancora, dell’atteggiamento di tifo da stadio che tiranneggia ambiti che debordano dalla calcistica e spaziano sino alla politica. Questo catalogo di momenti tratti dalla Divina Commedia non è destinato a chi conosce già piuttosto bene l’opera, non a studenti di lettere, per intenderci, e forse nemmeno di liceo, è rivolta piuttosto a tutti quegli italiani che non saprebbero isolare nelle loro menti il ricordo di almeno dieci momenti o questioni significative dell’opera. Si vorrebbe regalargli così una palata di quel cemento che dovrebbe edificare la loro appartenenza al gruppo nazionale e renderli giustamente felici di essere nati in questo paese. Dante ha scritto per noi, teniamocelo caro! Nelle storie a seguire, le interpretazioni dell’opera dantesca sono riprese da comunissimi testi di liceo, il mio unico contributo è stato 11 quello della selezione delle scene e del taglio dato a ciascuna, l’unica difficoltà significativa quella della semplificazione e del “taglia e cuci” all’interno dell’opera e dei riferimenti esterni ad essa, realizzato per espungere aspetti che potessero colpire, attrarre e affascinare il lettore odierno e, in un certo modo, assecondare anche le inquietudini e i gusti di oggi, che indulgono particolarmente su sesso, violenza, ridicolo, economia. S’è cercato comunque di non scadere necessariamente nel banale o nel pedissequo e di lasciare una impronta delle propria estetica personale, perseguendo anche un fine specifico. Nelle vicende che seguono c’è di tutto: orrori veri o fantastici, cannibalismo, erotismo, languore, storia, miti, leggende, cosmogonie, credenze, scienza del tempo, etimi, il tutto asciugato e condensato al massimo, e anche semplificato, ma non in modo tale da non richiedere una certa “sacrale” dose di attenzione da tributarsi, come segno di rispetto, all’opera dantesca. Di certo sarà impossibile non notare come siano distanti dal nostro sentire contemporaneo tante storie, tanti miti, o usi, ma due situazioni antitetiche fanno riflettere: mentre per quanto riguarda il progresso scientifico salterà alla vista la sua immane avanzata nei successivi sette secoli, quanto a mentalità politica colpisce di avere, in Italia, problematiche e individui ancora molto simili a quelli di allora: divisi in consorterie piene di servi, ruffiani, adulatori, di potenti e potentelli dispotici, arroganti, vili, inetti, e, se serve, anche brutali; senza contare l’assillante presenza di un clero avido, pederasta e cialtrone. La selezione di certe scene è stata realizzata in modo da far risaltare questa distonia tra progresso scientifico e stagnazione sociale e politica italiana, ma senza forzare la mano al poeta. 12 S’è, infine, cercato di evitare di presentare i punti più conosciuti e celebri, o in ogni caso di soffermarsi solo su situazioni e circostanze meno note di essi, non per il gusto dell’esotismo, quanto per assolvere proprio alla prima missione di “recupero” di elementi e dati al bordo dell’oblio e meno insistiti nella divulgazione dell’opera, che oggi è, per fortuna, straordinariamente vivace. Ognuno dei duecento e rotti punti è stato redatto evitando di proposito la disputa filologica o critica e prendendo spesso, sfacciatamente, un solo cammino nell’intricata selva esegetica e storicistica, pur di ottenere l’unico scopo dichiarato di rendere familiari nomi, luoghi e vicende, nella maniera meno impegnativa per il lettore, più spedita e, si spera, più divertente. È d’obbligo segnalare, però, tanto per fare delle proporzioni, come su ogni punto, anche quelli a prima vista di più limitato respiro, potrebbero assegnarsi varie e diverse tesi dottorali e potrebbero essere scritti saggi interi. Questo piccolo catalogo è redatto in “pillole” per cercare di avvicinare chi è diffidente, o spaventato dalla fama e dal prestigio, oltre che dall’imponenza, dell’opera in sé e dal rigore dei suoi numerosissimi commentatori, e vorrebbe essere solo uno stimolo ad andare ulteriormente avanti nella curiosità e l’approfondimento riprendendo magari i tomi dei licei, o, per lo meno, usando la rete, che oggi offre strumenti davvero interessanti e agili per la conoscenza. Nel frattempo si spera di riuscire a mettere nella memoria del lettore qualcosa di più di quello che oggi, in genere, condividiamo col nostro, una volta glorioso, passato letterario. 13 NOTA: al fine di rendere scorrevole l’opera e non ingolfarla di riferimenti e note, s’è scelto di indicare unicamente un canto (quello di riferimento) per ciascuna “pillola”, privo dell’indicazione esatta del verso. La scelta si deve anche al fatto che oggi ogni ricerca è estremamente semplificata da internet e può agevolmente controllarsi ogni richiamo senza alcuna perdita di tempo usando le parole chiave. L’estensione di ogni brano è variabile, da un minimo di poche righe, un accenno, a qualcuno di maggiore consistenza: pagine. In media però si tratta di un duecento parole a pezzo. In un solo caso il brano presenta idee “originali” dell’autore, e una digressione, dall’andamento normale dell’opera. E in un altro è presentata una questione meramente criticaletteraria. Quest’opera è stata completamente ideata e realizzata dal suo autore in ogni sua parte, impaginazione compresa. 14 1. La Potentissima Maga Eritto E ritòn “cruda” (Inf. IX), cioè feroce, selvaggia, la maga Erichto o Eritto della Farsaglia di Lucano, è la negromante tessala che dimorava in un sepolcreto, e che per predire a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo (tra suo padre Gneo, contro Cesare) realizza, per mezzo di un filtro magico, l’agghiacciante impresa di costringere un nolente soldato morto a rientrare, raccapricciato lui stesso, nel suo corpo ormai logoro e insepolto. Virgilio, respinto dai demoni sulle mura della città di Dite, la cita spiegando a Dante -in quel momento larvatamente dubbioso sulle effettive capacità di guida infernale di lui- di esser sceso già una volta fino al fondo della “trista conca” quando fu evocato proprio da costei per portarne fuori l'anima di un traditore: uno “spirto del cerchio di Giuda”. Il passaggio della Commedia, di gran forza e suggestione, apre un’ingentissima serie di questioni esegetiche, e ne scaturiscono implicazioni di straordinario interesse e fascino. Esso è brillante invenzione puramente dantesca, dato che, ad esempio, non risulta altrove la mansione, per le anime del limbo, di accompagnatrici di altre anime –dannate- e neppure vi sono riscontri del fatto che, nelle sue spettrali pratiche negromantiche, la potentissima maga pagana si servisse di intermediari. Lucano, nel VI libro, le dedica ampio respiro e racconta come la maga arrivi persino ad insultare le Erinni stesse, che ritardavano la realizzazione della sua macabra impresa. Dapprima le apostrofa “cagne dello Stige”, e poi addirittura minaccia di far intervenire in suo aiuto un 15 misterioso personaggio, abitatore di una “zona franca” del Tartaro, che fa tremare la terra al suo passaggio, ed è immune ai mostri infernali, compresa la più giovane delle Gorgoni –Medusa- che egli può, caso unico, guardare direttamente in volto senza tramutarsi in pietra. Ecco il bellissimo passaggio dell’opera: … Paretis, an ille conpellandus erit, quo numquam terra uocato non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam uerberibusque suis trepidam castigat Erinyn, indespecta tenet uobis qui Tartara, cuius uos estis superi, Stygias qui perierat undas? (Obbedite. O dovrò chiamare colui che sempre invocato scuote la terra e fissa liberamente la Gorgone e castiga l’Erinni atterrita, con la frusta e abita regioni a voi invisibili del Tartaro di cui siete gli Dei e spergiura sulle onde dello Stige?). 16 2. Il Toro Di Perillo D ai Tristia di Ovidio si apprende che il tiranno di Agrigento Falaride commissionò all'ateniese Perillo un grosso toro di bronzo –o rame- (Inf. XXVII) dove rinchiudere nemici e condannati per ucciderli orribilmente facendoli arrostire a lungo. Esso doveva essere costruito in modo tale che, dopo aver acceso un fuoco sotto la pancia della statua, in virtù di una particolare acustica, le urla dell’agonizzante, fuoriuscendo dal muso dell’animale, si tramutassero in versi e muggiti simili a quelli di un toro infuriato, o, come dice Dante, trafitto dal dolore. Quando esso fu messo a punto, il primo a sperimentarlo fu, però, il suo stesso costruttore. Una volta messosi dentro quello, per dar prova del funzionamento, Falaride non lo lasciò uscire, ma anzi fece accendere il fuoco per comprovarne anche le sonorità: così quell’elaboratore di orrori orribilmente perì come meritava, cosa buona e giusta, sentenzia Dante. Si narra che pure il tiranno, poi, perì in esso, quando Telemaco lo rovesciò dal trono. 17 3. Melisenda Di Gerusalemme M elisenda di Gerusalemme, dovrebbe essere quella contessa di Tripoli di cui si innamorò perdutamente il poeta e trovatore francese Jaufré Rudel, principe di Blaia. Egli, avendo ascoltato le lodi che di lei si tessevano, così tanto si innamorò che compose opere per lei, poi, stremato dall’insopportabile distanza che gliene impediva la vista, si fece crociato e intraprese quel viaggio in Terrasanta che gli costò la vita. Ammalatosi durante il tragitto, in un ultimo afflato, morì tra le braccia della sua amata che mai prima aveva visto e che aveva avuto notizia del suo innamoramento divenuto leggendario. La Dama trobadorica trascende la sua natura umana e corporea e Dante riprende di certo tale concezione, ma egli tratta anche il tema dell’amore a distanza (amor de lonh) quando crea la vicenda del gran amore che legava il poeta latino Stazio (Purg. XXII) al suo –sconosciutomaestro Virgilio, e che il primo esprime direttamente e in modo indimenticabile nella finzione dell’incontro avvenuto durante il viaggio in Purgatorio. Si ricordi a tal proposito la dedica che Stazio appone alla sua Tebaide, rivolgendosi direttamente ad essa le fa una tenera raccomandazione: “Vivi ti prego, e non tentar di raggiungere la divina Eneide, ma seguirla da lontano e venerare sempre le sue orme. “Vive, precor, nec tu divinam Aeneida tempta. Sed longe sequere, et vestigia semper adora”. 18 4. Il Bestemmiatore Capaneo I l gigante Capaneo (Inf. XIV) fu tra i sette re che assediarono Tebe quando scoppiò la guerra tra Eteocle e Polinice, i figli di Edipo, dopo che il primo si rifiutò di stare ai patti ed abbandonare il trono della città, che, secondo accordi, avrebbero dovuto, invece, governare alternatamente per un anno ciascuno. Sotto le mura, dotato di forza e superbia estreme e sovrumane, urla e cerca di ingaggiare deliranti tenzoni addirittura con Zeus in persona oltre che con altre divinità e semidivinità. Nella tebaide di Stazio il colosso afferma “il coraggio è il mio Dio”. Infine, stufo di tanta stolida tracotanza, Zeus lo centra con una delle sue terribili folgori. Capaneo precipita immediatamente dalla cinta muraria di Tebe ad arrostirsi disteso e immobile sotto i fiocchi di fuoco dell'Inferno cristiano, tra i bestemmiatori: i violenti contro Dio. Bestemmiare il Sommo Dio pagano è bestemmiare quello cristiano. D’altra parte al canto sesto del Purgatorio Dio viene appellato “Sommo Giove”. Sul sabbione dove nevica fuoco, Dante assiste alla sua recita, all’ennesima e vana mostra di tracotanza dai tratti impossibili: sprezzante afferma di non essere mai cambiato, e d’esser sempre quello di una volta, incapace di abbassare la testa e sottomettersi a chicchessia, lui non permetterà a Giove di avere allegramente la sua vendetta. 19 5. La Morte Di Manfredi Di Sicilia N el 1266 a Benevento l'aquila d'oro dell'elmo dell’autoproclamatosi re Manfredi di Sicilia (Purg. III) discendenza –illegittima- del “secondo vento di soave” (Federico II, della casa di Svevia), si stacca e cade a terra poco prima dello scontro con le milizie francesi. Pessimo omen! Le milizie siciliane, saracene e teutoniche difesero strenuamente il loro re, mentre quelle italiane lo tradirono. Non potendo evitare la sconfitta quel coraggioso preferì morire combattendo ed esaurire in campo tutto il suo immenso valore, piuttosto che arrendersi. Tutti i nobili avversari francesi, riconoscendo il suo indiscutibile fegato in battaglia e nella vita, lasciarono in sfilata un sasso ciascuno sul suo tumulo, scavato nel terreno dove aveva trovato la morte. Il clero però -e in specie l'arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, con il consenso dell’allora papa Clemente IV- non sopportò l'omaggio tributatogli: fece esumare dalla “grave mora” –la fossa così omaggiata di pietre- le sue ossa e le fece condurre senza insegne sacre in riva al fiume Liri, dove vennero gettate, insepolte- a tremare di vento e bagnarsi di pioggia. 20 6. Gli Occhi, E In Particolare Quelli Di Beatrice R acconta Virgilio a Dante: Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, per che mi fece del venir più presto. ...Gli occhi di Beatrice (Inf. II) che poco sopra “Lucevan ... più che la stella” (singolare per plurale) ora piangono per il poeta smarritosi nella selva, e il collega mantovano, accorato, si affretta a soccorrere il fiorentino. Dante, prima titubante e invaso da paura e codardia, rispetto all’arduo e sovrumano viaggio da compiere, appreso dell’interessamento della sua amata, reagisce come i fiori, chiusi e curvati dalla morsa del gelo, ai tiepidi raggi del sole. Gli occhi sono l’elemento cardine dello Stilnovo (cfr. Dante, Lapo Gianni, etc.) in Beatrice è da essi che si sprigiona la bellezza, e la luce di Dio, che vedono e riflettono. Beatrice appare solo per mezzo dei suoi occhi fino ad ora, essi sono l’unico elemento di fisicità, e danno luce. 21 Anche in Purgatorio (XXVII) congedandosi –magnificamente- dal discepolo, Virgilio alluderà a quegli splendidi e luminosi occhi di beata, visti nel limbo che lo smossero al soccorso: “…vegnan lieti li occhi belli…” Poco dopo, sempre in Purgatorio, sull’Eden, Dante vede occhi così belli, che neppure quelli di Venere innamorata –per errore di suo figlio Cupido che la aveva trafitta con una delle sue frecce- di Adone potevano competere: sono quelli di Matelda. E gli occhi sono anche essi strali: quelli di Beatrice feriscono e percuotono, trafiggono Dante (Purg. XXX) come già il poeta aveva scritto nelle Rime (LXVII) “…entro 'n quel cor che i belli occhi feriro quando li aperse Amor…” Gli occhi saranno anche chiamati “lucerne” in accordo con Matteo: “Lucerna corporis tui est oculus”, ed infatti anche quelli di Lucia, la santa che aveva avvisato Beatrice della situazione peccaminosa in cui si trovava Dante e la aveva mossa ad intervenire, rifulgono (Purg. IX) e lei parla solo attraverso essi, senza aprire bocca. Dagli occhi viene anche lo spavento, si intende il carattere, o il sentimento; tanto per citare qualcosa: Caronte ha occhi di brace, e Cerbero vermigli, Farfarello –diavolo- vuol incutere timore proprio stravolgendo gli occhi, Cesare ha occhi di sparviero –grifagni-, Paolo e Francesca sono indotti dalla lettura a guardarsi negli occhi –“li occhi ci sospinse”- finendo per amarsi, Ciacco torce gli occhi da umani a bestiali, quando smette di parlare, e similmente si comporta l’usuraio, ed anche Ugolino li storce riprendendo la sua figura ferina di divoratore della nuca di Ruggeri. 22 E, concludendo, ricordiamo che è dagli occhi che la Gorgone –Medusatramuta in pietra gli esseri umani, tanto che, dinanzi al pericolo, nel nono dell’Inferno, Dante li chiude e copre con le sue mani, e Virgilio si assicura sovrapponendo anche le sue di fantasma. 23 7. Bonconte Da Montefeltro B onconte da Montefeltro (Purg. V), figlio del più celebre Guido -incontrato quest'ultimo tra i “fuochi furi” dove pagano i loro inganni da consiglieri fraudolenti anche l’inarrivabile Ulisse e Diomede- attende ai piè del monte Purgatorio il turno per la penitenza, come da prescrizione burocratica divina, essendo tra quelle anime che hanno tardato a pentirsi sino all'ultimo respiro di vita. Dante inventa la storia della sua fine, che non può conoscere: dopo aver condotto la cavalleria ghibellina a Campaldino (Dante era lì anche lui), l’eroe, persa la facoltà della parola e pentito, chiese comunque, ormai senza voce ed in extremis, la salvezza alla Madonna. La Vergine lo ascoltò e una volta morto, mentre il Diavolo stava già lì per afferrarlo, sicuro che fosse dei suoi, scese un angelo a salvarlo. Il demonio, allora, infuriato per il “furto”, scaraventò il corpo, vuoto dell’anima che voleva per sé, nell'Archiano in piena e per questo esso non verrà mai trovato. La bellissima storia, che contrappunta e inverte la sorte, anche essa inventata, e con analoghe implicazioni teologiche, del padre, presuppone, proprio come l’altra, il paradosso che il diavolo non conosca esattamente le sorti delle anime che va raccattando tra l’umanità, ed è comunque sublime. 24 8. Un Pagano Tra I Beati: Rifeo R ifeo è uno dei fedeli compagni di Enea nella disperata resistenza opposta dai troiani per salvare la città condannata, una volta che l’inganno di Ulisse e Diomede -il cavallo- sortisce il suo drammatico effetto. Dante lo colloca, un pagano, in Paradiso (Par. XX). La Giustizia e la Grazia di Dio salvano chi vogliono e chi lo merita. Nell’Eneide, Rifeo viene esortato alla pugna, disperata e senza scampo, dal celeberrimo hysteron proteron di Virgilio: Moriamo e gettiamoci in mezzo alle armi (“Moriamur et in media arma ruamus”. Eneide II, 353). L’inversione causale o temporale di due elementi del discorso sarà utilizzata da Dante in altre splendide occasioni nella Divina Commedia stessa: Par. II, 23-26 e Par. XXII, 109-110, e ancora Inf. V, 61-62. Nella prima, il dardo –quadrello- di balestra prima si posa sul bersaglio e solo poi vola e si schioda dalla noce –il gancio con la tacca che tiene la corda tesa-; nel secondo, il dito scottato si ritrae dalla fiamma prima di avvicinarsi ad essa, nell’ultimo Didone prima si uccide per amore, e poi rompe il giuramento di fedeltà a suo marito Sicheo, morto. Un altro esempio è presente nell’indicazione oraria sul Monte Purgatorio (Purg. XV) “Tra l’ultimar de l’ora terza e ‘l principio del dì”. 25 9. I “Danti” Della Divina Commedia È noto come il protagonista della Divina Commedia sia il suo stesso estensore: Dante Alighieri. Ma c’è un aspetto dell’opera che prima o poi risulterà chiaro anche al lettore più distratto: il personaggio e il poeta non coincidono. Ciò è banale: non potrebbero mai coincidere, non solo perché il viaggio è una invenzione, ma anche perché il poeta, che a casa scrive l’opera, e durante la sua vita la pensa ed elabora, crea sia la sua immagine in essa, che tutte le sue titubanze e i dubbi espressi durante il viaggio, così come tutte la spiegazioni e i chiarimenti che man mano gli vengono forniti, specie dalle sue guide. V. Inferno XI, laddove il poeta ha chiarissimo tutto quanto rispetto alle incertezze sull’ordinamento etico-giuridico dell’Inferno (lo crea lui), che invece mette in bocca al personaggio pellegrino; frasi che Virgilio stigmatizza, in modo funzionale alla comprensione del lettore, ma che ovviamente è sempre il Dante storico e poeta a formulare. È interessante notare che mentre all’Inferno è il poeta ad avere “il controllo” e a calibrare le conoscenze della sua proiezione nell’opera, ascendendo verso il Paradiso è il personaggio pellegrino ad avere una maggiore contezza di situazioni che il poeta dichiara di non riuscire più a conoscere e ricordare con la stessa forza e nitore. Ma questa è una dichiarazione fittizia come tute le altre nell'opera e sempre funzionale a rendere verosimile la storia che il viaggio si sia davvero verificato. Artificio anche questo, certo (la mente del poeta è una), ma di straordinario impatto e vivacità. 26 Ma c’è un altro personaggio “intermedio” tra il Dante storico (che realmente è a casa, o in viaggio, e scrive e inventa l’opera che ci ha lasciato) e il personaggio pellegrino (che sarebbe se stesso nel 1300 quando vuol farci credere che il primo ha avuto l’avventura del secondo) ed è quello che a volte si affaccia dalla pagina e si rivolge al lettore dandogli del “tu”: “Pensa lettor…”. Personaggi della Divina Commedia sono sia il pellegrino che viaggia, proiezione del Dante storico “mai esistita”, che, a sua volta, la proiezione del pellegrino di rientro a casa: quel personaggio “Dante” che nell’economia dell’opera si finge abbia realmente compiuto il viaggio e che lo sta raccontando in poesia e a volte prende la parola. Quest’ultimo, chiaramente non coincide con il reale estensore del poema sacro. Oltre al Dante storico, quindi, c'è quello personaggio della sua opera, ma questo è colto in due momenti diversi: mentre fa il viaggio, e mentre ne scrive. Il personaggio che dice di scrivere, però, non è certo il Dante che realmente scrive. 27 10. P Come Generare Un Mostro asifae, la ninfa moglie di Minosse e progenitrice del Minotauro, generò il mostruoso figlio, metà toro, metà uomo, dopo che, innamoratasi febbrilmente, e per castigo divino, di un magnifico toro bianco, incaricò Dedalo di costruire una vacca di legno in cui rinchiudersi per ingannare la bestia e ottenere di copulare e farsi penetrare da essa. Lei (Purg. XXVI) è citata da Dante come esempio di lussuria sfrenata, e, sia il marito, che la discendenza, sono incontrati, invece, in persona all’Inferno, dove figure della mitologia classica sono reclutate da Satana e preposte a compiti e mansioni di varia natura. Minosse (Inf. V), re e giudice in terra, presiede come un severo burocrate giudiziario romano il punto in cui a ogni anima, previa ineluttabile confessione fededegna, viene indicata la propria destinazione. È ubicato dopo il Limbo, quindi dispone per le anime che scenderanno dal cerchio secondo al nono. Lunga è la tradizione che lo vuole nell’Ade o nell’Erebo: Omero, Virgilio, Claudiano. Meccanicamente e provvisto di attributi animali, dopo la confessione completa dei peccatori, indica il cerchio in cui saranno gettati, avvolgendosi in spire con la sua lunga coda per il numero di volte corrispondente all’ordinale del cerchio stesso di destinazione. Il Minotauro (Inf. XII), di cui non conosciamo con esattezza la rappresentazione che Dante se ne faceva, presiede, come guardiano, l’ingresso al girone dei violenti dando mostra di una rabbia impotente e frustrata. 28 11. Un Borioso E Manesco Cialtrone Di Parte Avversa F ilippo Cavicciuli, detto Argenti (Inf. VIII) viene riconosciuto da Dante nonostante sia lordo di fango, dato che è immerso e sguazza nella palude dello Stige riservata agli iracondi. In vita personaggio manesco e borioso, nerboruto e dal pugno di ferro, aveva avuto il vezzo di ferrare d’argento il suo cavallo, di qui il nomignolo. Una volta, membro di un ramo cadetto della famiglia degli Adimari, di consorteria avversa a quella di Dante, prese anche a ceffoni l’Alighieri. Si narra che andasse a cavallo con le gambe singolarmente divaricate per urtare e percuotere con esse i passanti più umili che si incrociassero sul tragitto. Nel suo viaggio iniziatico il poeta, è durissimo con lui: lo riconosce, lo schernisce, lo fa respingere da Virgilio in acqua con una pedata, e chiede e ottiene di poter contemplare con soddisfazione la sua sorte ignobile. L’iracondo, scompare dalla vista mentre, in modo bizzarro, morde le sue stesse mani, furente di ira, e i compagni di pena lo assalgono. 29 12. N Glauco arra Ovidio e Dante cita (Par. I) come Glauco, un pescatore della Beozia –regione della Grecia centrale-, notò che i pesci che aveva estratto dalle reti e sciorinato sulla spiaggia, al contatto con una determinata alga, rianimati, si rituffavano in mare. Per provare anche lui gli effetti del vegetale ne strappò un ciuffo e se lo mise in bocca, acquisì così capacità divinatorie e l'immortalità; queste però non erano abbinate all’eterna giovinezza. Logorato dal continuo invecchiare, secondo leggenda si sarebbe infine gettato in mare sentendo internamente l’irresistibile impulso di mutare natura. Si immerse nell'acqua per sempre diventando un Dio marino. 30 13. Q Meleagro uando si trattò di assegnare i trofei per l’uccisione del tremendo cinghiale Calidone, che devastava l’Etolia, Meleagro (Purg. XXV) finì per uccidere i fratelli di sua madre Altea, che sottrassero vilmente il dono da lui destinato alla sua amata e vergine cacciatrice Atalanta, presente alla spedizione e prima feritrice della bestia. Ma la vita di Meleagro era legata, dai tempi della nascita, a un ciocco di legno. Atropo, la Parca, aveva predetto alla madre identica durata di vita sia per il ciocco, che stava bruciando in quel momento sul fuoco, che per il neonato. Altea aveva quindi estratto immediatamente il tizzone dal fuoco e lo aveva riposto gelosamente per non far avverare la profezia. Affranta dal dolore per la perdita di ambedue i fratelli, però, pietosa ed empia al contempo, si decide a gettarlo di nuovo tra le fiamme, vendicandosi contro il suo stesso figlio, il cui spirito lascia il corpo assente e lontano che si consuma frattanto che il pezzo di legno arde. 31 14. C Un Romano Severo E Venerando atone Uticense (Purg. I), non solo di fede pagana, ma anche suicida, è tratto dal Limbo –da Cristo: “che la gran preda levò a Dite”- assieme a grandi figure ebree e posto a guardia del Monte Purgatorio. Si palesa a Dante e Virgilio, severo, dopo la loro uscita dalla “natural burella”, cioè il condotto di pietra originato dal ritrarsi della terra all’impatto di Lucifero con essa e che, dal centro del mondo sferico dove il demone principio del male è rimasto incastrato, risale verso l’emisfero australe fino a sbucare agli antipodi di Gerusalemme: in Purgatorio. Catone si aprì le viscere ad Utica, a quarantanove anni, dopo la sconfitta dei pompeiani a Tapso, preferendo la morte alla perdita della libertà garantita dalla forma di governo repubblicana. Anche se Dante vede la nascita dell’Impero e l’abbandono della forma repubblicana come il compiersi della volontà divina che guida la storia, e un sacrificio necessario a predisporre l’avvento di Cristo, e così la salvezza dell’umanità, egli ha grande stima e considerazione dell’integrità integerrima dell’antico romano. Egli, nel pensiero complesso e ponderoso del poeta non è certo un semplice malato di ingratitudine ontologica come lo sono i volgari suicidi e disfacitori di sé. 32 15. Gode Più L’Uomo O La Donna Nell’Atto? E bbro per l’ingestione di nettare Giove prese a discutere con sua moglie Giunone riguardo a chi, tra uomo e donna, provasse più piacere nell’atto sessuale. Ognuno manteneva la tesi che fosse il sesso opposto ad essere quello più beneficiato nell’amplesso. Incapaci di dirimere la controversia, o giungere a un accordo, interpellarono il famoso indovino Tiresia (Inf. XX) -che nella Commedia è all’Inferno, con sua figlia Manto- il quale avendo trovato in un bosco due serpenti intrecciati per l’accoppiamento ed avendoli percossi con una bacchetta e separati, aveva cambiato sesso, divenendo donna, e poi, al capo di sette anni, ripresentandosi una analoga situazione, aveva ripreso i suoi precedenti attributi maschili. Era quindi l’unica persona indicata ad esprimere un parere fondato sull’esperienza. Tiresia, prendendosi la briga di rispondere, affermò che senza dubbio è la donna a provare più piacere nel coito. Tale rivelazione fece molto adirare Giunone che lo accecò, mentre Giove lo ricompensò dotandolo delle capacità divinatorie per cui divenne celeberrimo. Va segnalato come cecità e divinazione sono elementi che vanno spesso appaiati nelle tradizioni antiche; per dirne una, lo stesso Odino, il Dio germanico, è orbo e, secondo una versione del mito, si cavò egli stesso l’occhio dandolo in tributo al gigante Mimir (mormoratore) proprio per attingere alla fonte della conoscenza. 33 16. N Un Bastardo Senza Gloria eppure il gigantesco bestemmiatore Capaneo è, all’Inferno, tanto insolente contro il Signore quanto Vanni Fucci (Inf. XXV). Egli, dal buco sotterraneo dove si trova, ladro di chiesa e uomo vigliacco e violento in vita -costretto a definirsi “bestia” e a confessare le sue colpe infami- osa addirittura alzare i pugni contro il Cielo infilando i pollici tra indice e medio. Indirizzandole a Dio in persona: “squadra le fiche”, si diceva, “Togli Dio che a te le squadro”, grida blasfemo. Saranno i serpenti presenti nella Bolgia, esecutori tempestivi della volontà di Dio, a censurare, annodandoglisi addosso, il suo orribile gesto, che forse, nella sua reiterazione impotente e vile, è parte stessa della pena. 34 17. Due Amatissimi Personaggi Virgiliani E urialo, giovane di bellissimo aspetto e il suo inseparabile compagno Niso, legati da un grande amore, sono eroi della schiera di Enea e personaggi dell’Eneide, citati dal suo autore per convincere Dante, nel loro primo incontro, ad intraprendere il viaggio che lo porterà a contemplare la sua Beatrice e persino Dio in persona (Inf. I). I due, che potrebbero ricordare per affetto reciproco la coppia dell’Iliade Achille-Patroclo, versano il sangue per l’Italia, e sono celebri anche per un verso virgiliano magnifico e profondissimo che si interroga sulle interne dinamiche umane rispetto all’ardore in guerra: “Nisus ait: Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique deus fit dira cupido?”; “Niso disse: son gli Dei a mettere nelle nostre menti questo ardore, oh Eurialo, o ciascuno si fa un Dio della propria terribile passione?”. 35 18. S Un Poeta Nell’Imbuto Infernale upremo cantore d’armi e unico poeta incontrato all’Inferno, Bertran de Born (Inf. XXVIII) porta a spasso la sua testa per la Bolgia Nona dell’Ottavo Cerchio, come fosse una lanterna. Spiccata dal busto in modo netto, per aver in vita separato due persone legate dal vincolo di parentela più stretto, naturale e sacro, paga in tal modo il fio di aver messo l’uno contro l’altro Enrico III d'Inghilterra, detto il “re giovane” e suo padre Enrico II. Amante della pugna, nella sua produzione letteraria è celebre la sua canzone Be.m platz, che esalta la battaglia e le stragi realizzate in essa. Dante gli assegna, nel De Vulgari Eloquentia, la palma nella sezione poetica “armi”, mentre a Giraut de Borneil assegna quella di “rettitudine” (a cui ascrive anche se stesso) e ad Arnaut Daniel quella “d’amore”. Lineare il “contrapasso” in questo caso: ha separato persone così unite che ora si trova la testa spiccata dal busto, divenendo “due in uno e uno in due”. Per l’unica volta il lemma “contrapasso” è usato direttamente da Dante nella sua opera e suggella di canto. 36 19. R Un Incipit Sinistro adegonda VI fu la infelice e santa principessa di Turingia, prima prigioniera e poi moglie del violento e brutale merovingio Clotario I. Ella fuggì dal consorte e si fece monaca dopo che lui fece uccidere il suo unico ed amatissimo fratello. A lei destinò varie opere Venanzio Fortunato, il grande poeta in lingua latina che scrisse anche gli Inni Sacri alla Croce di Cristo. Questi furono concepiti per l'arrivo al monastero di Poitiers di una reliquia di legno della vera croce, donata dall'imperatore bizantino Giustino II (successore di Giustiniano e nipote di lui) e trasportati fino al monastero in processione. Tra questi inni v’è il bellissimo Vexilla regis prodeunt (Inf. XXXIV) il cui incipit è ripreso, e ribaltato nel prosieguo, da Dante per aprire l’ultimo canto della (Avanzano le prima cantica: “Vexilla regis prodeunt Inferni” insegne del re dell’Inferno), attacca in modo grandiosamente sinistro il canto in cui Dante vedrà coi suoi stessi occhi il principio di tutto il male, il verme sotterraneo, il re di Dite etc. 37 20. A Giganti lti sui ventotto metri, Nembrot, Fialte, Anteo, (Inf. XXXI) sono i mostruosi giganti visti dal pellegrino prima di scendere nell’ultimo cerchio infernale, quello del lago ghiacciato di Cocito, ultimo dell’imbuto nero che deve attraversare per realizzare il suo percorso iniziatico e di salvezza. Per colpa del tracotante progetto del primo (presentato anche in Purg. XII come esempio) di raggiungere il Cielo, nel mondo non si parla più una unica lingua: quella di emanazione direttamente divina anteriore alla costruzione della Torre di Babele. Ora lui, inebetito, non capisce più alcun idioma e si esprime con parole non intese da nessuno: “Raphèl maì amècche zabì almi”, erompe troncando paurosamente le riflessioni del poeta sulle dimensioni e la forza smisurata di tali bestioni. Il secondo è feroce e ancora più grande del primo. Si tratta di uno dei due Aloidi ed è costretto, con un braccio dietro alla schiena e uno davanti, da una immane catena, per aver osato sfidare, minacciare fisicamente, e aggredire gli Dei dell’Olimpo e il sommo Zeus in persona. Ebbe l’intenzione di scardinare il cielo sovrapponendo i monti Pelio e Ossa all’Olimpo e menare le mani contro le divinità: ormai è bloccato in eterno nei movimenti. Ancora una volta, l’aggressione alla divinità pagana è aggressione all’unico vero Dio. Per ultimo, al posto dello smisurato Briareo, che Dante curiosamente vorrebbe vedere, Virgilio lo conduce, invece, da Anteo, col proposito di servirsene. 38 C’è chi non esclude, fa dire il poeta da Virgilio al colosso, per blandirlo con una captatio benevolentiae e convincerlo a depositarli sul fondo del pozzo che i giganti orlano, che se egli si fosse unito alla grande battaglia di Flegra, contro gli Dei, gli esiti sarebbero potuti essere diversi. Ovviamente ciò non potrebbe mai essere vero, meno che mai se vige una sorta di identificazione tra le supreme divinità pagane e l’unico Dio dei cristiani, ma le parole del mantovano non paiono assumere, come pure è stato detto, il tono di scherno verso un colosso pieno di sé e troppo poco intelligente per cogliere l’ironia. 39 21. È Controverso Guardiano Infernale probabile, si dice, che Dante confondesse Pluto Plutonis e Plutus Pluti (Inf. VII), quando crea il bizzarro personaggio della Commedia celeberrimo per il verso incomprensibile e tremendamente controverso che recita e con cui apre il canto: “Pape Satan, Pape Satan Aleppe”. Si riferisce però a una di due figure della mitologia grecoromana e lo piazza all’imboccatura del cerchio IV, quello di avari e prodighi. Così come presentato, egli è un demone di fattezze imprecisate, ma con la particolare caratteristica di avere un volto in grado di caricarsi e gonfiarsi di rabbia fino a lacerarsi ed esplodere afflosciandosi, poi, come la velatura di una nave quando l’albero viene spezzato dal troppo vento. Il primo dei due possibili personaggi mitologici è il Dio romano delle tenebre dell’Ade, su cui regna con la sua sposa Proserpina, che rapisce e fa sua. È fratello di Nettuno e Giove, coi quali si spartisce i tre regni della terra all’esito della lotta, vittoriosa, contro i Giganti e i Titani. Il secondo, figlio di Demetra e Iasione, nipote di Dardano fondatore di Troia, è Dio delle ricchezza. Aristofane lo descrive come accecato da Zeus e perciò in grado di distribuire averi senza pregiudizi. 40 22. C Anonimo Suicida Fiorentino onclusosi il sanguinante dialogo col più famoso suicida Pier della Vigna -il celebre custode delle due “chiavi del cor di Federigo” (il “sì” e il “no”), dato che godeva della sua totale fiducia poi caduto in disgrazia per invidia di corte, accecato, imprigionato e, in carcere, suicidatosi colpendo con la testa il muro di pietra- il bosco, a tinte smorte e riecheggiante di sospiri dei violenti contro se stessi, si anima di una fulminea caccia selvaggia. Nere cagne sono all’inseguimento delle anime nude di due scialacquatori, convitti assieme ai suicidi, ma non intrappolati in pruni come accade agli altri. Uno di essi, Jacopo da Sant’Andrea, finisce, stremato dalla fuga, per coinvolgere e “scerpare” il rovo dove è imprigionata l’anima di un anonimo suicida fiorentino (Inf. XIII), che, dagli strappi, inizia a lagnarsi e raccontare. Dante non ci riferisce il nome del personaggio, che parla e si duole di sé, forse addirittura per lasciare a ciascuno dei contemporanei la possibilità di una identificazione con qualche conosciuto, dato che, secondo quanto racconta il Boccaccio, come se si trattasse di una maledizione del Cielo, parecchi cittadini fiorentini scelsero di togliersi la vita, pure in quel periodo economicamente così florido e prospero. L’anonimo fornisce una semplice, ma estremamente efficace e triste descrizione della sorte che ha scelto per sé, che “ammutolisce” (chiude) il canto: si impiccò nella solitudine di casa sua, facendo di una trave il suo patibolo: “io fei gibetto a me delle mie case”. 41 23. R Il Fato Non Si Cambia icordiamo bene che in Dante esiste una certa – complicata- continuità tra gli Dei pagani e il Dio unico cristiano; questo viene a volte appellato “sommo Giove” così come bestemmiare l’antico comporta le pene dell’Inferno cristiano etc. Inoltre in lui ogni precetto deve accordarsi con quanto sostenuto dai saggi antichi (Virgilio in primis). Virgilio nella sua Eneide è chiarissimo rispetto alle preghiere e la loro efficacia su decisioni, leggi e precetti divini e conferma il tutto in Purgatorio (Purg. VI). La sua Sibilla, mentre accompagna Enea nell’oltretomba a far visita a suo padre, infatti, dice a Palinuro, che da insepolto implora di essere traghettato ugualmente al di là di Acheronte, di non sperare di piegare le decisioni divine per mezzo delle preghiere (famoso: “desine fata deum flecti sperare precando”). Palinuro, ricordiamo era il timoniere della nave di Enea che cade in acqua preso da torpore divenendo la vittima richiesta da Nettuno a Venere per il prosieguo del viaggio dell’eroe troiano. Nel Cilento un massiccio roccioso porta ancora il suo nome. Quanto sopra, però, si scontra con quanto stabilito dalla dottrina cristiana, e quanto Dante stesso contempla coi suoi occhi alla base del monte Purgatorio, dove anime salve, ma ancora impure e con peccati da espiare, cercano (o persino elemosinano) suffragi per sveltire l’iter di purificazione. Preghiere molto efficaci! Eppure, Virgilio spiega, non c’è contraddizione! Quello che accade è che il fuoco cristiano –di amore- si è ormai sostituito all’inevitabilità del fato pagano a cui erano soggetti gli antichi, sicché ora sì che le preghiere 42 possono attenuare e modificare quanto stabilito dai precetti divini. Il punto di inflessione è ovviamente la nascita di Cristo, da lì in poi si ricrea quel ponte tra l’essere umano e l’amore divino che era stato reciso dal peccato originale. 43 24. L Origini Infernali ’Inferno di Dante “narra di sé” in prima persona (incipit Inf. III). Sull’iscrizione incisa sull’architrave della porta scardinata dall’entrata di Cristo per sottrarre le anime degli antichi ebrei prima ospitati nel Limbo, esso dice di durare in eterno e di essere stato creato quando solo altre cose eterne erano state create. Difatti esso si origina solo dopo la caduta di Lucifero, che, andando avanti, il pellegrino troverà incastrato, a creare venti gelidi con ali da pipistrello e masticare tre anime, al centro della terra: la parte dell’universo più lontana da Dio, nella cosmogonia del poeta. Fino ad allora erano state create, appunto solo cose di durata eterna (Cieli, Intelligenze angeliche etc.), e la ribellione di Lucifero e la sua caduta conformano la topografia terrestre così come la immaginava Dante: l’emisfero australe, più nobile dei due, è sede dell’impatto dell’immane demone, che, cadendo di testa, si conficca con il busto in su verso quello boreale. La terra, pur essendo solo materia bruta, nonostante, si ritrasse per l’orrore provocato dal Signore del Male: da un lato le terre emerse si assieparono tutte dalla parte opposta al punto dell’impatto, dall’altro, per evitare il contatto con il corpo terrificante dell’angelo caduto, formarono il condotto, “natural burella”, che Dante e Virgilio usano come via d’uscita verso il monte Purgatorio. Quest’ultimo è composto proprio dal materiale residuo del condotto stesso. Il monte, immenso, nell’emisfero australe, per il resto privo di terre e sommerso interamente dalle acque, ospita, sulla sua cima, il Paradiso Terrestre da cui Adamo sarà scacciato; come racconterà lui stesso. 44 25. D Una Allegra Brigata i Stricca, forse dei Tolomei, ma più probabilmente dei Salimbeni, di Niccolò dei Salimbeni, e in tal caso fratello del primo, di Bartolomeo dei Folcacchieri, e di Caccia di messer Trovato degli Scialenghi conti di Asciano, in breve Caccia da Asciano, riferisce Capocchio, ex compagno di studi di Dante, finito dal rogo a Siena giù nell’ultimo anello di Malebolge, come alchimista. Per pena patisce la fastidiosa scabbia eterna, che lo sfigura, per la colpa di aver falsato i metalli. I succitati gentiluomini sono alcuni dei membri della così detta Brigata Spendereccia (Inf. XXIX). Sono tutti probabili corridori della selva dei suicidi dove Dante incontrò, inseguiti da nere cagne, gli scialacquatori Jacopo da Sant'Andrea e Lano da Siena, anche quest’ultimo membro di detta brigata. Leggendarie le loro gesta: dodici rampolli di alcune delle più ricche famiglie senesi, raccolsero l’ingente somma di 216.000 fiorini (stimabili in ben oltre una quindicina di milioni di euro attuali) che sperperarono in soli venti mesi di gozzoviglie. I dodici soci si ridussero, così, clamorosamente con le toppe al culo diventando al contempo un mito popolare. Di Lano, già di sicuro all’Inferno, si narra che, per non far perdere la strada ad amici invitati a cena, diede ordine che per il percorso si incendiassero i casolari. 45 Stricca, “che seppe far le temperate spese” ghigna sardonicamente il narratore infernale, sperperò l’immane fortuna paterna in stupidaggini e cattiverie gratuite. Caccia distrusse la “gran fronda”, cioè vigneti e boschi che possedeva. In particolare di Niccolò dei Salimbeni Dante riferisce come egli: “la costuma ricca del garofano prima discoverse”, cioè adottò per primo il costoso vezzo dei chiodi di garofano, allora costosissima spezia importata dall'oriente, che, si raccontava, forse lui era arrivato addirittura ad usare anche solo per farne brace su cui arrostire la cacciagione. 46 26. G Una Presa In Giro Finita Male riffolino d'Arezzo (Inf. XXIX) racconta per scherzo a un cretino patentato, Albero da Siena, di sapersi librare in volo come Dedalo, e quello che aveva molto poco senno, lo prese alla lettera, ci credé e gli chiese di insegnargli come fare. Dal momento che il primo non poté, ovviamente, accontentare le richieste dello sciocco, fu fatto mettere al rogo, dato che, nonostante la sua pochezza di mente, quello era figlio di un potente e chiese ed ottenne dal padre l’esecuzione del malcapitato. Dinanzi al severo e bestiale Minosse però, che non sbaglia mai, venne spedito nel luogo consono alla sua vera colpa, diversa da quella che motivava la condanna a morte, ed è così che capitombola nella decima Bolgia del girone ottavo, quello dei fraudolenti, tra i falsari e in particolare tra i falsari di metalli: “l’alchimia sofistica”, condannata anche da San Tommaso. 47 27. La Grottesca Vicenda Dell’anima D’un Singolare Stratega A nche il diavolo, popolaresco e beffardo della vicenda che segue, è una creatura logica! Lo impara a sue spese Guido da Montefeltro (Inf. XXVII), l’astuto stratega che chiamavano “la volpe” e che fino all’avanzata età dei settanta anni dirigeva con successo campagne militari. Guido, una volta ritiratosi dalla vita attiva, finì in convento e preso il cordiglio, morì, lontano dalla sua agitata e cruenta vita passata. Dante, sulla scorta di notizie fornite da Riccobaldo di Ferrara, inventa la sua storia di dannazione eterna: chiamato dal vituperando Papa Bonifacio in persona, quando già era frate francescano, per avere consigli utili per distruggere Palestrina (degli odiatissimi Colonna), viene convinto da questi, a tornare incidentalmente sulla sua decisione di abbandonare per sempre il mondano, con la promessa di una assoluzione dal peccato che, una tantum, gli si chiede di compiere. Una volta morto, però, il demonio, non ci sta a lasciarselo scippare in virtù di cavilli e artifizi ecclesiastici e, nonostante le vane promesse del pontefice, il maligno motiva efficacemente a San Francesco, che era lì anche lui per raccoglierne l’anima, che non si può assolvere chi non si pente, né pentirsi e voler peccare insieme è concesso dalla logica. La scena è fortemente grottesca, e non ha altro senso che il voler creare una particolare e suggestiva atmosfera popolaresca, dato che se salvezza o dannazione ci fossero, di certo Francesco non potrebbe 48 sbagliare sui defunti a lui devoti e non scenderebbe certo dal cielo ignaro delle sorti dell’anima che vorrebbe prendere; ma è importante rilevare come Dante, inventando due storie con tratti comuni –questa e quella di suo figlio Bonconte- abbia voluto costruire una certa simmetria tra la vicenda di Guido e l’altra del Purgatorio. Come il figlio si salva per poche sillabe espresse senza voce, Guido viene condannato dalle poche parole pronunciate su esortazione di un papa pessimo e corrotto, parole da stratega che suonano: “prometti tanto e mantieni poco”. Con esse cede alle insistenze pontificie e dà il consiglio fraudolento che lo danna in eterno. Confidando nel formale potere del papato di “serrare e dissestare” le porte del Paradiso, Guido si inganna sui meccanismi divini di salvezza e dannazione, senza riuscire a venire mai a capo –per l’eternità infernaledi cosa abbia errato, in quel pentimento sincero che aveva avuto per la sua vita trascorsa, tra i potenti del mondo, da condottiero. Allo stesso modo si rimette ciecamente a quanto sa dell’Inferno e delle sue regole, cioè che da lì nessuno può tornare sulla terra, quando affida al pellegrino, che tace della sua condizione di vivo, le parole della sua triste vicenda, che altrimenti, dice espressamente, non rivelerebbe mai a chicchessia. 49 28. Bizzarre Teorie “Genetiche” Medievali M entre Virgilio se la cava tirando in ballo i negromanti e riferendosi al mito antico di Meleagro e agli effetti dello specchiarsi, Publio Papinio Stazio, a cui il primo delega ulteriori approfondimenti, ormai beato e perciò sapientissimo, prende molto più sul serio e con rigore la domanda di Dante su come facciano le anime dei golosi a dimagrire per digiuno dato che, spiriti che sono, non hanno più bisogno di cibo, non avendo corpo. E attacca a spiegare lungamente la teoria della generazione (Purg. XXV), la formazione del corpo e dell’anima vegetativa e sensitiva, in uno stupendo trattato di embriologia medievale. La complicatissima relazione anima-corpo e la condizione delle anime sciolte dalla materia non si esaurisce affatto in tale sede, né si potrebbe facilmente ricomporla in tutta l’opera, dato che come si apprezzerebbe rileggendola integralmente, in varie occasioni il pellegrino e la sua guida interagiscono in modi diversi con esse, a volte anche fisicamente (spingendole, o tirando i capelli) mentre altre volte le attraversano o le mancano all’atto di provare ad abbracciarle. Ad ogni modo, spiega Stazio: dopo la morte, l’anima si separa dal corpo e diviene unico centro di identità della persona, ma prima di questo stadio l’anima (individuale) era stata infusa in un corpo fisico. Secondo l’embriologia classica aristotelica, tomistica e galenica, condivisa all’epoca, l’apparato digerente del maschio adulto, operando una serie di decantazioni, purificazioni o digestioni, trasforma il cibo ingerito in sangue grezzo. 50 Una ulteriore digestione, trasformazione, gestita da una impalpabile “virtù informativa” che risiede nel cuore, seleziona un sangue perfetto che, diffondendosi per le vene, è quello che dà forma a tutte le membra dell’uomo. Non tutto il sangue perfetto, però, si lascia “bere dalle assetate vene”, cioè non va ad alimentare le membra del corpo paterno, ma è destinato al concepimento di altri esseri umani, quindi: la parte più eletta di esso si tramuta, grazie a una ennesima decantazione, in sperma e scende nei genitali (nella perifrasi dantesca: il luogo che non è bello nominare). La “virtute informativa” trasmessa dal cuore a questo sangue spermatico ha la facoltà, una volta sgocciolato su -unitosi a- sangue femminile, di modellare una nuova creatura –il mestruo era considerato la parte feconda della donna-. Nell’utero, seme maschile e mestruo della femmina si aggregano: il mestruo fornisce l’alimento, il seme del maschio opera la sua “virtute informativa” coagulando e imprimendo la vita al coagulo. A questo punto la spiegazione di Stazio (Dante) prende, tra varie opzioni, la via di Alberto Magno (De natura et origine animae): la virtù informativa, fattasi anima vegetativa (le piante finiscono da qui nel processo), persevera nella sua opera fintanto che l’organismo non acquisisce il movimento e la sensibilità rudimentale di una spugna marina -o altri animali inferiori- poi sviluppa gli organi sensoriali di cui è principio informatore. Rimane da differenziare -passaggio più difficile- l’uomo (fante) dagli altri animali. Non appena lo sviluppo cerebrale del feto è ultimato, il creatore stesso si piega su di lui, e gli soffia dentro “spirito novo di virtù repleto”, cioè l’intelletto possibile ad personam, il quale tira a sé ed assimila le attività vegetative e sensitive del piccolo organismo e le fonde in 51 un’anima sola che, al contempo, vegeta, sente e prende coscienza di sé: “sé in sé rigira”. Anima che, ricorda in altro canto Marco Lombardo, contro l’idea di Origene, il creatore crea continuamente e di volta in volta. Questo ultimo punto ha indotto in errore persone anche molto sagge, tra cui, Averroè il quale disgiunse dall’anima l’intelletto possibile, non individuando un organo specifico per l’intelletto, dottrina condannata dagli arabi stessi. Quando l’Achesis, poi, la parca tessitrice non fila più e si muore, le funzioni inferiori saranno sopite, ma non estinte perché fanno tutt’uno con memoria intelligenza e volontà che però sono acuite nel postmortem dall’assenza della materia del corpo. 52 29. C Un Antenato Di Cui Esser Fieri avaliere della Seconda Crociata (1147-1149) Alighiero di Cacciaguida (Par. XV-XVII), bisavo di Dante, si intrattiene a lungo col pronipote toccando vari temi, tra cui l’origine della divisione fiorentina tra Guelfi e Ghibellini, i costumi della vecchia Firenze, le sue dimensioni e le antiche casate, e parla con una favella che già, il poeta lo nota, non è quella che lui, Dante, pratica nella Firenze del 1300. Nominato cavaliere da Corrado III di Svevia, che seguì nella seconda crociata, ove trovò la morte, Cacciaguida è personaggio fulgido e lineare che viene assunto immediatamente nella sfera celeste di Marte, nel Quinto Cielo, senza intermediazione purgatoria. Figlio di una piccola e ideale Firenze “sobria e pudica”, dai costumi semplici e retti, molto distante da quella frenetica, tracotante e corrotta descritta dal discendente, è esempio di vera nobiltà. Ma, chiarisce il poeta nel Convivio: chi non vede quanto sia vano e futile il nome della nobiltà? Quella vera è nell’animo perfettamente dotato e non nel sangue, laddove quest’ultima, la nobiltà di sangue, altro non è che un certo prestigio che deriva dai meriti degli antenati. Esempio di vera nobiltà d’animo, il beato cavalier Cacciaguida l’ha conquistata e dimostrata nella migliore delle maniere: servendo sino all’estremo sacrificio della vita, fino al martirio, la fede cristiana. 53 30. P Uno Più Sapiente Di Dante Stesso! arlando della teoria della generazione e della relazione anima-corpo nell’essere umano, Dante fa definire, da Stazio, Averroé, (Inf. IV) come più sapiente del poeta pellegrino stesso. Lui lo aveva già visto nel Limbo, cerchio primo dell’Inferno dove non si soffrono pene fisiche, ma dove unicamente si sospira, dato che raccoglie le anime dei giusti non cristiani: i grandi e i sapienti, i “megalopsicoi”. Egli è il grande filosofo musulmano che, nonostante la sua grandezza, erra su un dato importantissimo della embriologia medievale. Tale errore lo spinge a pensare che l’anima individuale muoia con il corpo. Egli era, infatti, propenso a credere che “l’intelletto possibile” -la facoltà intellettiva dell’uomo- fosse una sostanza disgiunta dall’anima individuale umana alla quale si univa solo all’atto d’intendere. Detto ciò, non ravvisava altra opzione se non quella che all’uomo sopravvivesse solo la parte a lui disgiunta, e che essa fosse unica per tutta la specie umana e impersonale. Quindi non restava, nell’oltremondano, traccia delle individualità terrene. Potrebbe sembrare strano vedere un pagano, seguace di Maometto, il quale invece è relegato nel basso Inferno, in un luogo così elevato e nobile nell’economia dell’immane cosmogonia dantesca, ma d’altra parte, nel limbo a fargli compagnia non ci sono solo, e ad esempio, i filosofi greci, latini, i poeti, le stirpi romane, lo stesso Virgilio e Cesare, ma pure il collega Avicenna e persino il famosissimo Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf b. Ayyūb b. Shādī b. Marwān, il feroce Saladino: il guerriero di celebrata 54 forza d’animo che fu tra i più agguerriti e duri avversari dei crociati, che entrò trionfante a Gerusalemme il 2 ottobre 1187, e lottò contro Riccardo Cuor di Leone nel 1191. Due anni dopo la partenza del suo fiero avversario, morì. 55 31. Un Truculento Intreccio Familiare A tene sotto assedio viene liberata solo grazie all’aiuto di Tereo. Egli ottiene perciò in sposa Procne -o Progne(Purg. XVII), ma la loro unione, disgraziatamente, viene officiata dalle Eumenidi: le dee della vendetta femminile. Una volta in Tracia, terra di Tereo, i due coniugi concepiscono un figlio: Iti. Dopo cinque anni Procne, presa da inguaribile nostalgia per la sorella lontana, chiede ed ottiene che il marito si rechi ad Atene e preghi il padre Pandione di lasciarla andare in Tracia a trovarla. Tuttavia, quando Tereo vede Filomela, viene assalito da una bruciante e folle passione per lei. Una volta sbarcati, Tereo conduce Filomela in una stalla e la prende con la forza. Lei, dolente e incolpevole della violenza subita, minaccia di rivelare tutto agli Dei, ai boschi e agli uomini, e così, affinché non riesca a dar seguito ai suoi propositi delatori, Tereo, incollerito e spaventato al contempo, la imprigiona, le mozza la lingua affinché non parli e si reca dalla consorte con la falsa notizia della morte dell’amata sorella. Un anno dopo Filomela riesce comunque a ricamare su una tela il racconto dello stupro e la fa recapitare a Procne. Lei, distrutta dalla notizia, sfrutta la notte dei baccanali per liberare la sorella. Poi, madre degenere, infierisce sul suo stesso figlio Iti, lo uccide, lo cucina e lo serve a Tereo. Dopo che questi ha mangiato, ignaro, la carne del suo stesso figlio, Filomela si manifesta, insozza di sangue il re e gli tira in faccia la testa recisa di Iti. Tereo immerso nell’orrore più nero, si lancia all’inseguimento delle due sorelle, ma tutti e tre si trovano di colpo 56 mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in usignolo, Procne in rondine. 57 32. L’ordinamento Etico-Giuridico Infernale L ’ordinamento etico-giuridico (Inf. XI) dell’immenso e inappellabile carcere infernale, ha tratti evidenti e reiterati di burocratismo penale romano e, in questo caso ciceroniano. Esso è spiegato durante una pausa dei pellegrini, necessaria a far abituare l’olfatto al lezzo tremendo che si sprigiona dalla fogna del basso Inferno. Sulla tomba di un eretico, papa Anastasio, seguace di Fotino, Virgilio coglie l’occasione per illustrare come al di fuori delle mura di Dite sono puniti i peccati di incontinenza e “matta bestialità” che, secondo una classificazione aristotelica, sono meno gravi di quelli di malizia puniti, invece, all’interno della città infernale, le cui soglie i due pellegrini hanno varcato da poco con l’aiuto di un messo celeste. I peccati di incontinenza sono meno gravi perché azionati da una passione e non dall’intenzione deliberata di volere il male altrui. Fuori da Dite scontano l’intemperanza e la bestialità: lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi. I vizi capitali! Da notare come, tra essi, puniti singolarmente, non c’è posto per invidia e superbia all’Inferno, perni stessi di ogni peccato e della rivolta di Lucifero contro Dio, sono congeniti al peccare in sé. Gli altri peccati sono puniti più in fondo nell’imbuto infernale, dato che più ci si avvita verso il basso più le colpe sono gravi. La deliberata 58 trasgressione della legge a danno altrui, “iniuria”, infatti, offende Dio maggiormente e può essere commessa o con violenza o con frode. Tra i due modi commissivi è la frode ad essere più grave, poiché usa la ragione, la caratteristica tipica solo dell’uomo, per fini malvagi. La violenza può essere esercitata su tre oggetti: se stessi (averi o integrità fisica, quindi: prodighi e suicidi), il prossimo, Dio. La frode può dirigersi contro chi non ha in mano titoli specifici per fidarsi, e i condannati, in questo caso, finiscono in uno dei nove fossati di Malebolge che contengono nell’ordine (incompleto e alterato dal disprezzo nella tirata virgiliana e riordinato qui di seguito): ruffiani e seduttori, adulatori e lusingatori, simoniaci, maghi e indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di scandalo e di scisma, falsari. Infine vi è posto per chi tradisce chi, invece, si fida, ed esso è il gelo di quattro diversi luoghi del lago, ghiacciato dal vento luciferino, di Cocito: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca, a seconda che siano traditi i parenti, la patria, gli ospiti, i benefattori. 59 33. M Più Che Un Eretico entre Dante pone tre grandi anime musulmane a sospirare senza patire pene nel Limbo del cerchio primo, insieme agli altri grandissimi spiriti della storia umana, non riserva la stessa sorte al capostipite della loro religione: Maometto (Inf. XXVIII). Lui è dannato, ma non tra gli eretici, che sono i primi abitatori dell’Inferno vero e proprio, quello interno alla città di Dite, bensì molto più giù nel sinistro “castello inverso” di Malebolge; tra i seminatori di scandalo e di scisma. È punito per una colpa molto più grave, quindi dell’eresia –secondo lo schema dantesco, però, visto che per alcuni dottori l’eresia era il peccato più grave-. Per pena, un diavolo armato di spada lo fende dall’ano, descritto dal poeta come luogo dal quale di scorreggia (“trulla”), al mento, e lui si rivolge ai pellegrini aprendosi con ambo le mani il petto e mostrando le frattaglie visibili dallo spacco. Il suo stomaco è disgustosamente descritto come: “tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia” e tutto il personaggio ha tratti grottescamente volgari e ridicoli. Dante, vista l’ubicazione del primo musulmano, sembra prestare credito alla leggenda templare secondo la quale Maometto, prima vescovo della religione cristiana, avesse creato uno scisma artatamente e cagionato solo dalla stizza e dal rancore personale per non essere divenuto papa lui stesso, carica alla quale ambiva, cioè per ignobili ragioni utilitaristiche e di risentimento. 60 All’epoca, sul personaggio circolava un gran numero di leggende, e della sua figura parlano in molti, ma senza dati storicamente riscontrabili: l’enciclopedista Vincenzo di Beauvais, Pietro il Venerabile, Jacopo da Varagine, Fazio degli Uberti, e persino il maestro di Dante, messo a rosolarsi come sodomita, Brunetto Latini. Risulta, infatti, storicamente che Maometto non sia mai appartenuto alla fede cristiana, ed abbia predicato, da subito, a popolazioni pagane, cioè mai state cristiane precedentemente. Non ha, quindi, provocato, tecnicamente, alcuno scisma. 61 34. F Spregevoli Sfruttatori! attasi illustrare da Virgilio la ratio della classificazione delle anime dannate, Dante si sofferma sui caorsini abitanti di Cahors città usata per antonomasia, come i sodomiti da Sodoma-, gli usurai, (Inf. XI e XVII) che poi incontrerà tra i violenti. Spiega il poeta latino: la natura prende origine direttamente dalla mente divina, e dal suo operare, così che essa è come “l’arte di Dio”. Se la natura è figlia di Dio, e l’arte figlia della natura, risulta che quest’ultima, l’arte umana, è, per così dire, nipote di Dio. L’usuraio non si avvale per vivere, né dei frutti della natura, né del suo lavoro, ma ripone la sua fiducia, per sostentarsi, solo nel prestito del danaro (qualcosa di sterile, infecondo). Tale attività è contro natura, poiché il danaro, da solo e di per sé, non crea altro danaro. Esso rende frutti solo se è investito in qualcos’altro di concreto, una attività produttiva, che implica uno sforzo personale, ma non certo per il solo trascorrere inerziale del tempo. Dante dà un grande rilievo a questa colpa, grave piaga della sua epoca, di cui pare che anche egli, come prima di lui suo padre, avesse avuto esperienza diretta come debitore, e disprezza fortemente questa massa di avidi sfruttatori della miseria e dello sforzo vitale altrui, strozzini spregevoli e vili, nonostante, in molti abbiano vanitosamente comprato stemmi e titoli per nobilitarsi. Quelli che incontra personalmente sono, infatti, riconoscibili da blasoni e insegne gentilizie pitturate a colori vivaci su borse appiccate al collo: esponenti delle famiglie dei Gianfigliazzi, Obriachi, Scrovegni, sono 62 descritti in modo sprezzante e ridicolo, animalesco, mentre si arrostiscono seduti sotto i fiocchi di fuoco che cadono dall’alto. Soffrono una analoga dose di dolore agli altri compagni di pena, i bestemmiatori e i sodomiti, eppure sono così abietti da essere descritti in modo più grottesco e spregevole. Dante in una singolare inversione della regola di imbattersi in colpe via via più gravi col procedere del viaggio, colloca prima di questi sodomiti e bestemmiatori che offendono beni maggiori. 63 35. S Da Sinistra A Destra olo in due occasioni i pellegrini variano il senso circolare rivolto verso sinistra con il quale si insinuano, avvitandosi, in giù per l’imbuto infernale. Imbuto che, sia detto di sfuggita, non potrebbe mai quadrare, per dimensioni, nella stima, erronea anche essa, che Dante fa della grandezza della Terra. Il dato si evince se prendiamo alla lettera le indicazioni fornite nelle due ultime bolge del Cerchio Ottavo, e se cerchiamo di farle quadrare col resto, ma non è il caso di rifare i conteggi. Inoltre non potrebbero mai percorrere in un solo giorno tutto il viaggio, a meno di non scendere mai al di sotto di una velocità di percorrenza sovrumana di oltre trecento chilometri orari. Il cambio di senso del percorso (Inf. IX e XVII), comunque, avviene, una prima volta all’entrata della città di Dite, dove sono ubicate le tombe degli eretici, e poi all’inizio del fossato di Malebolge, quando per calarsi in esso i due viandanti devono volare sulle spalle del mostruoso Gerione. In questo secondo caso i pellegrini non possono muoversi nel senso consueto dato che Gerione atterra a destra del corso vermiglio di sangue del fiume Flegetonte, che altrimenti sarebbero stati costretti ad attraversare. Ma, se Dante si sofferma esplicitamente sul punto, deve esserci un valore allegorico in esso, così come nel senso sinistrorso della spirale in cui si avvolge il viaggio, ed esso è stato ravvisato nell’uso della falsità, che accomuna le due situazioni dei fraudolenti e degli eretici, questi ultimi falsi nella dottrina, i primi nell’azione. 64 36. C Le nozze di Piritoo e Ippodamia ome è noto nella Divina Commedia, i centauri, tranne Caco che sarà presente nella Bolgia dei ladri e che però non è tradizionalmente tale (centauro) nel mito, ma descritto così solo dal poeta, pattugliano disciplinatamente, con archi e frecce, il fiume di sangue bollente dei violenti (Inf. XII), il Flegetonte. La loro fama di rissaioli comprende, nel mito, anche lo sposalizio di Piritoo, l'amico di Teseo e partecipe della conquista del Vello d'Oro, principe del Lapiti, mitico popolo di Tessaglia. In occasione delle nozze tra l'eroe e Ippodamia (letteralmente: "colei che doma i cavalli"), la sorella di uno degli epigoni, quei bestioni mezzi uomini e mezzi cavalli, non abituati al massiccio consumo di vino, persero completamente la testa e, in preda alla colossale sbornia, si comportarono in modo inammissibile: molestarono e cercarono di rapire e stuprare la sposa ed altre fanciulle e fanciulli presenti alla festa. Si scatenò così una violenta rissa in cui i tessali, condotti e motivati da Teseo stesso, riuscirono a respingere i violenti ibridi. Dall'episodio si originò la Centauromachia. 65 37. P Un Santo O Un Criminale? oeta provenzale di gran fama e di origini genovesi, Folchetto di Marsiglia (Par. IX) celebrò e cantò il suo amore per Azaleis, moglie del visconte di Marsiglia, Barral du Baux. Dopo la morte di lei si fece monaco e fu poi eletto vescovo di Tolosa. Profuse, in questa nuova veste, lo stesso ardore che aveva versato nell’amore anteriore ed è per ciò che Dante lo sistema, lucente come un rubino, nel cielo di Venere. Da lui, dalla sua poetica, prende, inoltre, ispirazione per la stesura dell’unico tratto in lingua straniera della Divina Commedia: il congedo in provenzale di Arnaut (Purg. XXVI). Folchetto fu l’unico della zona occitana ad appoggiare con zelo San Domenico nella fanatica lotta agli eretici albigesi, durante il pontificato di Innocenzo III, una repressione crudele e feroce per cui alcuni gli attribuiscono mezzo milione di morti. Nella stessa crociata anche i Catari furono oggetto di spietata repressione. Tali eretici sono famosi anche per l’episodio orripilante di Beziérs, in Occitania, dove nel giugno del 1209 furono massacrate circa ventimila persone, donne e bambini inclusi, in gran parte non eretici, ma cattolici. Fu in quell'occasione che Arnaud Amaury, si racconta, diede l’ordine ai suoi di non sottilizzare e non distinguere gli eretici dagli altri. Disse: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, come riporta il monaco Cesario di Heisterbach. 66 38. S Invidie Di Corte pirito mercuriale del Paradiso, Romeo di Villanova (Par. VI) Romieu de Villeneuve, fu ministro e gran siniscalco di Raimondo Berenghieri IV, conte di Provenza. Fu preso a corte di ritorno dal pellegrinaggio a Santiago de Compostela, in Galizia. Straordinariamente coscienzioso, servì con umiltà e con gran capacità il suo signore, ottenendo risultati eccellenti. Riuscì infatti a raddoppiare il patrimonio del conte e trovò vantaggiosi mariti per tutte le quattro figlie di lui: tutte sposarono un re! Per invidia degli altri cortigiani, però, nonostante il suo egregio operato, fu ingiustamente accusato di furto e cacciato da corte, da dove fu costretto ad andarsene povero come era arrivato e solo più vecchio. Ingrati! L’invidia è, dai tempi del canto infernale di un altro grande personaggio della Commedia (Pier della Vigna), fedele e leale collaboratore di Federigo II, calunniato dai cortigiani, (o questa la storia che crede il poeta): “delle corti vizio”, vizio tipico, endogeno delle corti e del cortigiano. Piero, caduto in disgrazia per calunnie, fu accecato e, prima di essere messo a morte, riuscì a suicidarsi picchiando la testa contro il muro di pietra della sua cella. Cortigiani, figure spregevoli! Anche Dante come Romeo, sarà costretto a vivere faticosamente, “mendicando la sua vita a frusto a frusto”, il pane pezzo per pezzo. Il poeta, infatti, profetizzerà più avanti in Paradiso il suo eroico avo Cacciaguida, proverà “come sa di sale lo pane altrui”, celebre frase che offre spaventosi presagi di esilio. In un mondo di mediocri, corrotti e invidiosi, è il giusto a patire la fame. 67 39. Odio Incommensurabile Per I Propri Concittadini N el giugno del 1269, presso Colle di Val d'Elsa, Firenze guelfa, comandata Bertrand, si prese dal vicario la rivincita angioino dalla Giovanni battaglia di Montaperti, su Siena. Sapia Salvani (Purg. XIII), -si narra- dal suo castello presso Monteriggioni, che dominava la strada da cui passava l’esercito senese in rotta, poté ammirare la fuga disordinata per la disfatta dei suoi odiati concittadini, guidati, oltretutto, da Provenzano Salvani, suo nipote e da Guido Novello. Provenzano rimase sul campo: non accettando di tornare sconfitto a Siena, si gettò nella mischia e fu ucciso da Regolino Tolomei, suo acerrimo nemico. La sua testa fu erta su una picca e portata per il campo affinché tutti la vedessero. Ebbene, Sapia, che confessa sulla seconda cornice del Purgatorio, destinata agli invidiosi, di non essere mai stata “saggia” come, per etimo, il suo nome stesso lascerebbe credere (v. “savio”), gioì immensamente di quella rovinosa disfatta. Una gioia dai tratti disumani per cui lei aveva addirittura pregato l’onnipotente e che, all’epoca, celebrò con uno slancio sfociante sul blasfemo, e che ricorda l'atteggiamento spregevole del ladro Vanni Fucci. 68 Sapia, avvelenata da quella irrazionale “anticarità” che è l'invidia, alza il volto verso il cielo e, rivolgendosi a Dio stesso, dice di non temerlo più, tanta era la gioia incommensurabile e definitiva che quell’evento le aveva procurato nella vita e che nulla ormai poteva più toglierle. 69 40. M La Moglie Ceduta arzia (Inf. IV, Purg. I) è lo spirito limbicolo ex moglie dell’integerrimo politico repubblicano Catone, suicida ad Utica e promosso da Dante a guardiano del Purgatorio. Lei, vista dal poeta tra altre famose donne romane: Julia, Lucrezia, Cornelia, fu la figlia di Lucio Marcio Filippo, che andò in sposa, come seconda moglie, a Catone il quale poi, secondo usi del tempo, la cedette al famoso avvocato romano e amico Quinto Ortensio, e tornò a riprendere con sé dopo la morte dell’altro. Nel Convivio Dante interpreta il ritorno di lei a quel grande romano, come una allegoria del ritorno dell’anima a Dio alla fine della vita, ma invero, il costume pagano della cessione di cui Marzia fu oggetto fu fortemente criticato dalla morale cristiana. Virgilio, presentando la vicenda di sé e del pellegrino poeta al fermo e severo custode repubblicano dalla bianca barba, formula una sontuosa captatio benevolentiae promettendogli di porgere alla ex moglie i suoi saluti, quando tornerà anche lui nel Limbo da dove è uscito per guidare Dante. Catone, ormai definitivamente fuori da quel luogo pieno di grandi anime, in cui anche lui aveva soggiornato fino alla scesa di Cristo all’Inferno, spiega con fermezza come ella ormai non possa più muoverlo, dato che con altri due pagani della Divina Commedia, Traiano e Rifeo, fu salvato dalla inappellabile volontà divina. La lode a Marzia, nel discorso di Virgilio a Catone, riproduce, in qualche modo, l’altra (bellissima) lode realizzata da Beatrice a Virgilio stesso, 70 quando lei promette al poeta latino di lodarlo sovente presso Dio in persona, una volta tornata al suo cospetto. Tali promesse di lode sono accomunate da una assurdità teologica, laddove si palesa una inutile umana premura post mortem per le sorti di anime il cui destino ultimo è già segnato in modo immodificabile, cionondimeno sono sublimi. 71 41. Pan Per Focaccia, O Peggio: “Dattero Per Figo” F rate Alberigo (Inf. XXXIII), frate gaudente, è stretto supino dal ghiaccio, compatto tanto che non avrebbe fatto “cric” neppure se investito dal crollo di alte montagne, della zona di Cocito che è riservata ai traditori degli ospiti: la Tolomea. Il nome deriva da Tolomeo di Gerico che uccise a tradimento Simone Maccabeo e i suoi figli dopo averli invitati ad un banchetto. Egli è punito per un’infamia del tutto analoga a quella del personaggio biblico da cui il posto prende il nome. Invitati a convito due suoi parenti con i quali era in discordia: Manfredo e Alberghetto dei Manfredi, a conclusione dello stesso diede ai sicari il segnale in codice per il loro intervento: “che vengan le frutta”. Invece di servire i frutti, quelli si fecero sui commensali col pugnale e li finirono. Ora Alberigo confessa a Dante di essere lì a riprendere da quella vicenda “dattero per figo”: la giusta punizione. Lo confessa dietro promessa capziosa del pellegrino di rimuovergli dagli occhi il gelo che glieli stringe tanto dolorosamente. Dante promette di aiutarlo, a costo di maledirsi: “o possa finire fino nel fondo dell’Inferno!”. Afferma ciò ingannandolo (posto che è destinato a finire lo stesso fin davanti a Lucifero, ma non per essere punito). 72 Una volta saputo ciò che vuol sapere lo lascia senza sollievo tradendolo, come merita: “e io non gliel’apersi (gli occhi) e cortesia fu lui esser villano”, conclude il canto. 73 42. L’Imperatore Romano E L’Umile Vedova L ’arte infinita, e a tratti magica, del Signore riesce ad ottenere tutto: a impastare due anime in una come fossero di calda cera e anche a far parlare una scultura marmorea. Il terzo esempio di umiltà scolpito con divina maestria nella pietra finissima della prima cornice purgatoriale, non rappresenta solo una immagine fissa, ma un intero dialogo tra l’uomo più potente al mondo al momento: l’imperatore Traiano, che Dante vedrà nel cielo di Giove tra le anime giuste del Paradiso, e una povera vedovella (Purg. X) che cerca giustizia per suo figlio assassinato. L’imperatore, nell'atto di abbandonare Roma per intraprendere la sua campagna militare in Dacia (Romania), e quindi impegnato in responsabilità di ben altro momento, non rifiuta di ascoltare l’umile e indifesa donna, ma le chiede di pazientare fino al suo ritorno, per ottenere la giustizia che tanto brama. Lei, in preda all’angoscia assillante di chi soffre e ha il timore di non poter più ottenere il sollievo, chiede cosa mai succederebbe, se lui, poi, non tornasse affatto, e viene rassicurata dall’affermazione che riceverebbe comunque la giustizia che merita, da qualcun altro potente che verrebbe dopo di lui. L’umile donna, a questo punto, stimola senza rimedio il senso di giustizia di quel grande con una semplice domanda: “il bene fatto da 74 altri, a cosa ti servirà quando avrai omesso di fare quello che avresti dovuto fare tu?”. Le occasioni di fare del bene non vanno sprecate. Allora Traiano, esemplare, smonta da cavallo, e dimora ancora il tempo necessario ad assolvere al suo compito di giudice. 75 43. I Il Ricchissimo Crasso l triumviro, con Cesare e Pompeo, Marco Licinio Crasso (Purg. XX), era famoso per la sua straordinaria ricchezza, avidità e avarizia, tanto da divenirne esempio. Sconfitto dai Parti (persiani) a Carre (Herran, in Turchia), la battaglia drammatica in cui perse la vita anche suo figlio, la cui testa mozzata fu infissa su un'asta per atterrire i Romani, e dove si persero le aquile della legione, poi restituite ad Augusto, pare che fosse ucciso sul campo, durante delle trattative, a seguito di un tumulto partico. Una volta tagliatagli la testa re Orode gli fece versare in bocca oro fuso per irridere alla sua insaziabile cupidigia. Dante riferisce l’episodio con un sarcasmo vivacissimo facendo chiedere dal re dei parti al capo reciso: “Crasso, diccelo, di che sapore è l’oro?”. Non è inusuale nei classici irridere la cupidigia e la sfrontata ricchezza; come arcinoto Mida, finisce ridicolmente per morire di fame a causa del suo famoso dono di tramutare in oro qualunque cosa toccasse. Anche lui è citato da Dante. 76 44. S Menestrello Dalla Lingua Tagliente ordello da Goito (Purg. VI), è il più grande trovatore italiano, nato in famiglia di piccola nobiltà, preferì alla monotonia a cui era destinato la vita avventurosa e ingegnosa del menestrello e del giullare. Fu famoso per la composizione dell'affilato planh (compianto) per la morte del barone Blacatz, nel quale, biasimando la di loro codardia, esorta tutti i monarchi dell’epoca: Federico II, i re di Francia e Navarra, i signori di Provenza, a ingerire un pezzo del cuore di quel valoroso per assimilarne una parte del coraggio. Fu conosciuto anche per vari sirventesi. Dante lo vede (lo colloca) in Purgatorio sulla valletta dei principi e riprende, dunque, lo stile del sirventese politico quando, attacca con la celebre invettiva contro l’Italia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” Il sirventese è un tipo di componimento poetico di origine provenzale, con determinati schemi metrici, che prende il nome dalla natura pristina di canzone celebrativa delle gesta, e dedicata al proprio signore. I temi tipici di questo componimento erano quello politico, guerresco, apologetico, didattico e morale. Restava escluso quello amoroso. 77 45. U I Traditori Muoiono Due Volte na caratteristica bizzarra della Tolomea (Inf. XXXIII), come detto uno dei posti approntati dal Signore per accogliere i traditori, è quella di essere l’unica zona dell’Inferno dantesco in cui possono trovarsi anime di personaggi ancora in vita nel mondo fisico. Difatti si viene precipitati in essa al momento immediatamente successivo alla realizzazione del tradimento che motiva la condanna eterna, senza aspettare, come in tutti gli altri casi, la fine della vita biologica. Un diavolo, poi, prende possesso del corpo ancora in vita e lo amministra per il restante tempo concessogli dalla grazia divina, mentre il dannato perde completamente la cognizione dello stato di esso. Tanto è vero che Dante, meravigliato, viene a sapere che lì all’Inferno c’è già Branca Doria, il genovese ghibellino che assassinò il barattiere Michele Zanche, giudice di Logudoro di cui Dante ha notizie dal compagno di pena Ciampolo di Navarra tra i barattieri. L’invenzione dantesca della dannazione prematura, utile in ogni caso anche solo a poter includere tra i dannati il suddetto ghibellino, è comunque di incredibile suggestione nell’economia del peccato di tradimento, che è una “piccola morte della persona”. Essa però comporta, come è stato segnalato, l’inaccettabile conseguenza teologica dell’impossibilità, per il traditore, del pentimento in extremis. 78 46. Il Mito Del Satiro Musicista E Altre Sfide I l satiro Marsia (Par. I), avendo osato sfidare Apollo ad una tenzone musicale -lui al flauto, il Dio alla cetra-, sconfitto, fu legato a un albero e scorticato vivo dal Dio. “Quid me mihi detrahis?”, grida l’incauto musicista: “perché mi estrai da me stesso?”. Non è questa l’unica storia di sfida tra Dei e creature di minor rango, Dante stesso ne ricorda e si riferisce ad altri miti nel corso dell’opera. Cita, per esempio, la tenzone tra le Muse e le Pieridi che, abili nel canto si recarono sul monte Elicona, sede della Muse, per sfidarle, e, senza ottenere il successo a cui ambivano scelleratamente, vennero successivamente tramutate in piche. Vince, invece, la gara con una Dea, Aracne (XII Purg.), la ragazza di Lidia che affermava spocchiosamente che Atena stessa avesse appreso l’arte della tessitura da lei, ed è usata da Dante ad esempio di superbia punita. Atena non accettò la sconfitta, nella sfida in cui si erano confrontate, sicché stracciò la sua tela, la giovane si impiccò e la Dea, per punire la sua Hybris, la trasformò in ragno costringendola a tessere in eterno dalla bocca. 79 47. S Via Lattea econdo uno dei miti, (ve ne sono altri: latte fuoriuscito dal seno di Era, sangue dei genitali recisi di Urano da cui nasce anche Afrodite) la striatura della Via Lattea altro non è che il frutto dell’operato di Fetonte (citato più volte: Purg. VI, XII, XXIX, Par. XII, Inf. XVII, XXXI) il quale per dimostrare ad Epafo di discendere direttamente da Apollo, chiese ed ottenne da suo padre di poter guidare il carro del Sole. A causa della sua inesperienza, però, non fu capace di governarlo, finì fuori rotta dando fuoco a parte del cielo, e poi, avvicinandosi troppo alla terra diede origine al deserto di Libia (il Sahara). Finì la sua folle corsa colpito da un fulmine di Zeus esasperato, e andò a schiantarsi sulle foci del fiume Eridano. 80 48. Vile Mezzano Della Sua Stessa Sorella V enedico Caccianemico, capo della fazione guelfa dei Gemerei di Bologna, pensava di non essere riconosciuto, mentre passava sotto lo sguardo accigliato di Dante in rivista della popolazione della Bolgia I, quella riservata a ruffiani e seduttori, ma poco gli valse l’abbassare il volto: Dante, non solo lo riconosce, ma lo interpella pure chiamandolo per nome. Il bolognese fece prostituire la sorella Ghisolabella (Inf. XVIII), moglie di Nicolò Fontana da Ferrara, col marchese Obizzo II D’Este, segnalato dal poeta come tiranno a lesso nel fiume Flegetonte (o forse con Azzo VIII, figlio di Obizzo e suo uccisore patricida, e pure mandante dell’omicidio di Jacopo del Cassero) col fine di stringere rapporti amichevoli ed ingraziarselo. Non è affatto il solo, in quella Bolgia, a parlare bolognese, anzi, precisa, ce ne sono più di quelli morti e finiti lì che di concittadini vivi. 81 49. G Un Formidabile Astrologo uido Bonatti (Inf. XX) fu un astronomo e astrologo forlivese che all’epoca assunse incarichi anche molto prestigiosi, per esempio con Ezzelino III da Romano, e poi anche con Guido da Montefeltro, e fu persona di gran fama: il suo trattato di astrologia in dieci libri (Liber decem continens tractatus astronomiae) era conosciuto in tutta Europa. Tra i più grossi successi, è segnalata una previsione molto accurata dell’esito della battaglia di Montaperti. 82 50. N Influssi Stellari el Paradiso, Dante afferma di essere nato sotto il segno dei gemelli, segno che lo renderebbe particolarmente dotato in scrittura, scienza e conoscenza. L’idea che gli astri abbiano un influsso sul destino e le inclinazioni umane era comune e di certo ritenuta valida anche dal poeta. Il tema è affrontato anche dall’iracondo Marco Lombardo (Purg. XVI) che spiega come sia però errato porre la causa (diretta, inevitabile) di ciò che accade nella storia in cielo, dato che, seppure è vero che esiste un impalpabile influsso celeste sulle inclinazioni umane e gli eventi che ne derivano, esso non annulla o elimina di certo il libero arbitrio, che può, di fatto, opporsi all’influsso astrale. All’Inferno il poeta aveva già incontrato quel gruppo di peccatori della Bolgia IV (Inf. XX) che “al giudicio divino passion comporta”: i maghi, che nella terzina in questione, secondo alcuni, avrebbero l’ambizione scellerata di piegare il voler divino o prevederlo esattamente, e che, con un capzioso determinismo, arriverebbero anche a giustificare (come inevitabili e da loro conosciute) le peggiori efferatezze storiche e comportamenti personali, annullando le scelte morali e proponendo una sorta di inaccettabile e rigida predestinazione. 83 51. Reticenze Tra Poeti Che Svegliano Curiosità Nei Lettori P er tre volte Dante ci riferisce che lui e la sua guida, mentre pellegrinano per l’Inferno –succede solo lì- parlano tra loro, e poi ci nasconde cosa si dicano (Inf. IV, VI, XXI): la prima volta nel Limbo, la seconda dopo aver visitato il cerchio dei golosi e parlato con Ciacco, la terza mentre si dirigono dalla quarta alla quinta Bolgia del cerchio ottavo. Nel primo caso Dante, assunto come sesto nel quintetto di poeti antichi formato da Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio, (“sesto tra cotanto senno”, grande è la consapevolezza della sua qualità artistica, e ripercussione futura di poeta), afferma che loro stavano: “Parlando cose che 'l tacere è bello, sì com' era 'l parlar colà dov' era”. “Bello” in questo caso vale come “opportuno”, il che potrebbe lasciar pensare alla trattazione di temi tecnici, poetici, non consoni alla Divina Commedia. La seconda volta, successivamente all’incontro con il goloso Ciacco, che, dopo aver parlato di questioni politiche e profetizzato sulla vita di Dante stesso, ricade, di punto in bianco, nella melma puzzolente e sotto la pioggia monocorde che lo batte. Di lui viene detto non si alzerà più di lì fino alla fine dei tempi. In questo secondo caso, ci viene riferita solo una parte del dialogo tra Dante e Virgilio: la trattazione, sulla maggior perfezione dei corpi dopo la fine del mondo, e la spiegazione della profezia del goloso. 84 Un’ultima volta la reticenza è in apertura di canto: “Così di ponte in ponte, altro parlando, che la mia comedìa cantar non cura”. Questa volta si dice che si parlava di temi inadatti alla Commedia, fuori tema. Questi espedienti, che sicuramente servono a conferire anche maggiore verosimiglianza alla vicenda, presentata come realmente accaduta, del pellegrinaggio nell’otremondo, nella loro semplicità riescono mirabilmente nella suggestione: senza rimedio spingono chiunque, secoli di lettori, ad immaginare e incuriosirsi su cosa si siano detti i due poeti in dialoghi mai avvenuti. 85 52. L La Seconda Morte a seconda morte (Inf. I, III, XIII) è un concetto piuttosto oscuro. Potrebbe essere, secondo alcuni, la dannazione pura e semplice (morte dell’anima): la prima morte sarebbe, quindi, quella del corpo, quando l’anima lo abbandona, e la seconda quella del giudizio dell’anima stessa e la sua dannazione. Ma potrebbe anche trattarsi della dannazione finale, posteriore al giudizio universale, quando sappiamo che ogni anima, tranne quella dei suicidi, riprenderà il proprio corpo, e, Virgilio spiega sulla scorta di Aristotele, le pene saranno più cocenti, dato che si verserà in un maggior grado di perfezione. Oppure, terza opzione, potrebbe trattarsi dell’annichilimento definitivo dell’anima nel fuoco e della conseguente fine di ogni residuo di imperfezione nel cosmo. In tre casi Dante si riferisce a detto concetto. Di tutti i dannati si dice: “che a la seconda morte ciascun grida”. Degli ignavi, ubicati e puniti nel vestibolo, quindi fuori dall’Inferno vero e proprio, si dice che essi: “non hanno speranza di morte”. E uno degli scialacquatori, Lano, che corre nel bosco dei suicidi, invoca accoratamente l’arrivo della morte: “or accorri, accorri, morte”. Ciò andrà, forse, inteso come il comprensibile desiderio di ogni dannato di cessare di esistere del tutto e di precipitare nel nulla, desiderio che Giordano da Pisa considerava, però, contrariamente all’idea pagana che invece supportava questo ultimo destino, impossibile da realizzarsi. 86 Va segnalato come nel paganesimo (Cfr. Seneca: Mors est non esse), la morte è il ritorno al nulla, e l’autentico desiderio dei suicidi. Dante stesso si riferisce a questo concetto quando nel descrivere il terzo esempio di ira punita (Purg. XVII), mette fantasiosamente in bocca a Lavinia, figlia di Amata, e futura moglie di Enea, le parole rivolte alla madre, suicida -suicida per ritenersi causa di un matrimonio che aveva arduamente osteggiato in favore dell’altro contendente, Turno, che erroneamente crede già morto-: “o regina perché per ira hai voluto esser nulla?” 87 53. A Verità Indigeste grume (Par. XVII) è, secondo il senso dell’epoca, non il genere di frutto a cui ci riferiamo noi (“citrici” in genere), ma aglio cipolla e simili, ortaggi di forte sapore e di difficile digestione. Dante afferma di non voler venire meno al vero, nella stesura della sua opera, ma di rendersi conto di come ciò implicherà che molti contemporanei mal sopporteranno le sue parole: le troveranno pesanti e indigeste come aglio. D’altra parte però, e qui abbiamo un’altra dimostrazione della gran consapevolezza del poeta sul suo immenso valore futuro (nel Limbo era entrato nel circolo eletto dei maggiori poeti antichi, nel Purgatorio si riferisce a se come poeta italiano successivo e maggiore dell’amico Guido Cavalcanti, prima di lui il più grande dell’epoca) non potrebbe mai essere un “timido amico del vero” se vuol continuare a vivere tra noi oggi, cioè: “tra color che questo tempo chiameranno antico”. Siamo noi, chiamati in causa secoli e secoli dopo! 88 54. A Clero Avido e Dannato lmeno due posti dell’Inferno sono affollati di appartenenti al clero (Inf. VII, XIX): il cerchio IV di avari e prodighi e la III Bolgia del cerchio ottavo riservata ai simoniaci. Per non parlare, ma capiterà, dei sodomiti. I primi hanno addirittura un attributo tipico dell’uomo di chiesa: il crine mozzo, cioè rasato, la tonsura; e Virgilio conferma: ci sono anche papi e cardinali tra loro. Di papi all’Inferno se ne trovano vari, oltre al probabile ignavo Celestino V, che fece il “gran rifiuto”, all’eretico Anastasio, traviato, secondo Dante, da Fotino contro il monofisismo e partecipe dello scisma di Acacio, in Paradiso si parlerà anche di Giovanni XXII. Inoltre, “propagginato in pectore” è Bonifacio VIII, ancora in vita nel 1300, ma il suo collega Innocenzo III lo attende (con infallibile vista futura da dannato) nella Bolgia dei simoniaci. Successivamente, Bonifacio sarà spinto più in giù nel pozzetto di pena da Clemente V. I tre papi citati nella Bolgia terza dovranno scontare quel peccato, solo clericale, consistente nel vendere indulgenze ed altri articoli di fede e che prende il nome da Simon Mago, il quale, fattosi battezzare, osò poi mercanteggiare con San Pietro proponendogli in modo sacrilego di apprendere, dietro corresponsione di un compenso in danaro, le arti miracolose e taumaturgiche che mostrava di conoscere. Il potere temporale della chiesa si giustificava, all’epoca, in base all’atto della famosa donazione di Costantino (tirato in ballo, infatti, in apertura di Canto XIX, ma di cui si parla anche al XXXII di Purgatorio, per 89 esempio) che Dante, pur ritenendola il più grande dei mali, credeva essere autentica. Fu poi il Valla a chiarire definitivamente trattarsi di un falso. Ciononostante la posizione assunta dal poeta riguardo alla avidità del clero, formato spesso da meri faccendieri e addirittura atei e miscredenti bramosi unicamente di potere e beni, è molto critica e recisa. 90 55. J Un Giovane Magnifico acopo del Cassero (Purg. VIII) magistrato, uomo d’arme e condottiero italiano, nato a Fano da nobilissima famiglia guelfa, era costantemente seguito da sicari e scherani del vituperato e sanguinario marchese d’Este Azzo VIII, che si era inimicato quando era podestà di Bologna. Durante la sua carica, infatti, ostacolò le ambizioni di dominio di quello, che, dal canto suo, non gli perdonava neppure la costante villania con la quale veniva perennemente vilipeso e insultato pubblicamente. Jacopo, chiamato come podestà a Milano, evitò, dunque, di attraversare i territori estensi e, presa la via del mare, passò per Venezia, aspettandosi agguati da parte dei sicari del marchese, che, sapeva, si era ripromesso, prima o poi, di farlo ammazzare. Sul padovano, però, detti sicari lo raggiunsero, forse in combutta coi signori della zona, e lo finirono sul Brenta, nei pressi del castello di Oriago. Forse sarebbe bastato poco, dice lui stesso di esserne convinto raccontando a Dante la sua vicenda, per sfuggire alla morte. Con un filo di rimpianto per la breve vita umana, Jacopo afferma in Purgatorio che se non si fosse diretto verso la palude, dove, impigliato e impedito nei movimenti da canne e fango, cadde, sarebbe ancora dove si respira, e non avrebbe contemplato la tragedia e lo spavento di vedere: “delle mie vene farsi in terra laco”. Verso magnifico che ritrae l’occhio quasi incredulo dell’ancora vivo che vede il suo stesso sangue invadere il terreno e il campo visivo, negli ultimi momenti di coscienza. Una lapide cittadina lo ricorda: “rugiada e bel tempo della patria”. 91 56. M Mirra E Semiramide irra (Inf. XXX), figlia di Cinira re di Cipro, ardente di un pazzo amore per il suo stesso padre, con la complicità dell’oscurità, mistificò il suo aspetto, lo ingannò e si infilò a letto con lui. Dalla loro unione nacque il bellissimo Adone. Scoperta dal genitore, però, fuggì in Arabia, dove fu tramutata in pianta: quella da cui si estrae la sostanza aromatica che porta il suo nome. All’Inferno è puinita per l’inganno in cui fa cadere il padre, e non per il ben meno grave peccato di lussuria. Semiramide (Inf. V) è, invece, la regina assira che fu tanto rotta alla sfrenata libidine da rendere lecito ogni tipo di eccesso, pur di non patire il biasimo delle sue stesse condotte; ed è punita infatti nel cerchio dei lussuriosi. Di lei si narra che fosse in relazione incestuosa con suo figlio. 92 57. Una Santa Amatissima E Buonissima S anta Zita (Inf. XXI) era una umile domestica lucchese in odore di santità, ed eletta, dalla devozione popolare, diffusissima, di cui godette, a patrona della città stessa. Morta nel 1278, ai tempi di Dante, che però la prende ugualmente a simbolo di Lucca, non era ancora stata canonizzata, ciò avvenne (bisogna pensare a lungo su tali “ponderose” questioni) solo nel 1696 sotto Innocenzo XII, e fu eletta, ancor più successivamente, a patrona delle domestiche. Le si attribuivano vari miracoli, ed era famosa per la sua dedizione al lavoro e la bontà d’animo e generosità con cui cercava di aiutare i meno abbienti. Un racconto popolare narra di come lei, mentendo sul contenuto del grembiule, che utilizzava come sporta per portare del cibo trafugato dalla cucina per donarlo ai poveri, all’aprirlo vide miracolosamente confermata la sua versione. Forse uno dei punti più alti e teneri della, spesso biasimevole, devozione popolare, una figura semplice e popolana che tocca il cuore. 93 58. I Strage Per Gelosia n una delle sue solite sfuriate di gelosia per la condotta del divino marito, promiscuo e fecondo, Giunone (Inf. XXX) moglie e Dea di temperamento, ebbe modo di punire per ben due volte l’amore di lui con Semele, la bella figlia del fondatore di Tebe: Cadmo. Prima fece incenerire lei, convincendola, proditoriamente e sotto mentite spoglie, a chiedere all’amante -Zeus, ovviamente- di mostrarsi in tutto il suo bruciante ed insopportabile splendore di supremo degli Dei, e poi fece impazzire Atamante, marito della sorella di Semele. Questo, quando vide la madre dei suoi figli con in braccio i suoi due bambini, vaneggiando esclamò: “Tendiamo le reti!”, poi prese uno dei due, Learco, e gli fracassò la testa contro una pietra. La madre, per evitare che si avventasse anche sul secondo, si gettò in mare da una rupe, annegando con il piccolo in grembo. 94 59. C Non Vendicarsi Degli Dei! oronide, figlia di Flegias (Inf. VII), fu sedotta e fecondata da Apollo. Il padre, in consonanza con l’etimologia greca del suo nome (phlego e il flagro, stessa di Flegetonte e dei Campi Flegrei), che vale infatti “ardere”, per vendicarsi cercò di incendiare il tempio di Apollo a Delfi, atto per il quale il Dio prima lo crivellò delle sue frecce e poi lo gettò nel Tartaro. Nell’Eneide di Virgilio Flegias, con un verso celebre, ammonisce gli esseri umani: “Discite iustitiam moniti et non temnere diuos”, (diremmo: il mio esempio vi insegni ad essere giusti; a non disprezzare gli dei, VI, 620). Come altri personaggi mitici viene assunto nell’esercito infernale dantesco, in questo caso come brusco traghettatore della palude stigia, dove sono puniti, in superficie gli iracondi e nel fondo, non visibili, gli accidiosi. 95 60. A Il Diavolo Alichino lichino (Inf. XXI-XXIII) è il primo dei diavoli della becera decuria incaricata da Malacoda -il capo- di scortare, senza che loro lo vogliano affatto, tra l’altro, il due poeti in visita alle “boglienti pane” –stagni- dove si lessano i barattieri a nuoto nella pece bollente. Il nome è ripreso da quello del demone provenzale Hellequin, oggetto di numerose storie popolari, e specie della divulgatissima leggenda della caccia feroce. Tale nome, italianizzato proprio da Dante, diverrà successivamente la maschera veneziana di Arlecchino. La sua figura è fortemente comica, come lo sono tutte quelle dei suoi colleghi “Malebranche”. Il barattiere Ciampolo di Navarra promette, a cambio di essere risparmiato dallo squartamento al quale sta andando incontro e lo sottoporranno i diavoli a breve, di far emergere, per farli catturare a posto suo, ben sette suoi compagni di pena. Per ottenerlo dice di essere disposto a tradirli facendoli affiorare dalla pece usando il segnale che tra loro si scambiano quando non ci sono diavoli in vista e vogliono avere un po’ di sollievo dalla perenne brasatura. Alichino è colui che convince tutti gli altri a stare al gioco. Gioco che però finisce male per i diavoli dato che, nonostante le minacce del demonio stesso, il corrotto navarrese, approfittando di un attimo di distrazione generale, riesce a divincolarsi e rituffarsi nella pece bollente, salvandosi dagli uncini, senza dare nulla a cambio. Alichino prova a dar seguito alle intimidazioni precedentemente formulare, volandogli dietro per riacciuffarlo, ma è troppo lento e, come 96 il falcone che manca la preda, è costretto a riprendere quota tutto scocciato e frustrato. Il collega Calcabrina, allora, apparentemente per aiutarlo, ma, invero, imbestialito per la disdetta subita a seguito proprio della iniziale stupidità dell’altro, e desideroso di accendere la rissa con lui, si mette anche egli in volo sulla pozza di pece, si scontra in aria con Alichino e ambedue finiscono per precipitare nella pegola bollente dove sono punititi i barattieri che dovrebbero piantonare. I due pellegrini se la filano alla chetichella lasciandoli lì a risolvere i loro impicci. 97 61. S Le Ninfe Salmace E Siringa almace (Inf. XXV) è la ninfa della fonte di Caria, ricordata da Dante durante le orribili trasmutazioni che occorrono ai ladri ed in particolare ad Aniello. Si innamorò del bellissimo figlio di Ermete e Afrodite, che possedeva già di per sé la caratteristica di congiungere in uno i tratti di ambedue i genitori: Ermafrodito. Nell’amplesso frenetico in cui si legò ad esso, confuse il suo corpo con quello dell’amato, che divenne un essere ibrido partecipe della natura maschile e femminile al contempo. Più sfortunata ancora la ninfa Siringa (Purg. XXXII), che amata dal dio Pan, per sfuggirgli invoca le Naiadi e si trasforma in canne palustri, le quali toccate dal vento emettono un delicato sibilo. Cantò del loro amore –Siringa e Pan- Mercurio, su incarico di Giove, per far addormentare e poi uccidere il terribile pastore Argo dai cento occhi, la metà dei quali teneva sempre aperti, che era a guardia della Ninfa Io della quale il Dio si era innamorato e che era trasformata in giovenca. Dante si riferisce all’episodio per sottolineare l’impossibilità per chiunque di descrivere l’atto di addormentarsi, stato che l’essere umano raggiunge perdendone la consapevolezza. 98 62. M L’Innominato Della Commedia ai nominato direttamente in nessuno dei cento i canti che compongono l’opera, la sua sagoma sinistra e vituperata aleggia comunque per vari passaggi politici della Commedia, e infine prende anche forma nella figura allegorica di un gigante (Purg. XXXII) che amoreggia con una puttana in cima all’Eden che poi frusta dalla testa ai piedi e trascina nel bosco. È l’infame e odiosissimo Filippo IV il Bello re di Francia, che, tra le varie vicende che gli facevano onore agli occhi di Dante, vanta di essere il mandante del famoso schiaffo di Anagni, col quale umiliò il Papa. I suoi emissari: Guglielmo di Nogaret, consigliere del re di Francia, e Giacomo Sciarra Colonna, nemico giurato del pontefice, furono inviati proprio da lui contro Papa Caetani. Per quanto si trattasse del futuro simoniaco, il biasimatissimo e avido Bonifacio VIII, per Dante si trattava pur sempre del vicario di Cristo in terra, la cui figura non poteva essere umiliata in tal modo. Filippo è anche un noto traditore dato che nella seconda guerra tra francesi e fiamminghi promise al conte di Fiandra assediato a Gand la libertà in cambio della resa, ma poi lo fece portare come prigioniero a Parigi, esempio di slealtà per il quale Dante vede nella successiva e clamorosa sconfitta francese a Courtrai una punizione divina. Ma, soprattutto, Filippo il Bello distrusse il potentissimo ordine templare. Con un trucco astuto e diabolico li fece arrestare tutti contemporaneamente, senza che nessuno sospettasse che ciò stesse 99 accadendo al contempo a tutti gli appartenenti all’Ordine, impedendo così la difesa. Poi, in base a una serie di accuse false ed infamanti, e di confessioni estorte con la tortura per mezzo del grande inquisitore Guglielmo Imbert, ottenne la soppressione dell’ordine. Filippo fece uccidere migliaia di monaci guerrieri, e infine bruciare sul rogo a Parigi, sull’isolotto della Cité, nel 1308, Jaques de Molay, Grande Maestro dell’Ordine. 100 63. A Guido Cavalcanti lcuni dei versi della Divina Commedia suonano e ricordano quelli del “primo amico” (così chiamato nella Vita Nuova) di Dante, Guido Cavalcanti, dal quale si allontanerà per forti divergenze filosofiche. Il: “Sì che parea che l’aere ne tremesse” del Canto I dell’Inferno, per esempio, ricorda i versi della rima IV: “Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira, che fa tremar di chiaritate l'are”, oppure: “cantando come donna innamorata” (Purg. XXIX, 1) ricorda la sua rima XLVI dove la pastorella: “Cantava come fosse innamorata”, ma anche Inf. VIII 36 di Filippo Argenti -“vedi che son un che piango”- potrebbe essere un suo eco: “vedete ch’i’ son un che vo piangendo”, (Rime X 1). È famoso come Guido fosse un intellettuale fiorentino probabilmente definibile come epicureo ed ateo. Il Boccaccio, nel Decamerone (VI, 9), ce lo presenta, affermando, ma senza che esistano prove di ciò, intento ad impegnare il suo intelletto in se “trovar si potesse che Iddio non fosse”. Dino Compagni lo definisce: “un giovane gentile, figlio di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio”. Nel Purgatorio, Oderisi da Gubbio citerà Guido come colui che ha tolto il primato poetico italiano a Guido Guinizzeli: il poeta che il pellegrino incontrerà più in alto nel fuoco Purgatorio dei lussuriosi. Poi lascia intendere che sarà lui stesso, Dante, a prendere il testimone di miglior poeta italiano sottraendolo a Guido. 101 È vero che se la fama terrena è incostante e mutevole, o di breve durata quella di Dante dura da oltre sette secoli, e anche Guido merita, senza dubbio, di non essere dimenticato. Sterminate le mostre di affetto per lui, tra cui da non dimenticare: Italo Calvino. 102 64. D Il Destino Dell’Impero alla fine di Pallante (Par. VI), figlio di Evandro, inizia il momento storico del discorso di Giustiniano sulle vicende dell’aquila dell’impero, simbolo del potere imperiale romano voluto e guidato da Dio in persona a redenzione del mondo intero. Potremmo dire che il personaggio del Paradiso, e imperatore, attacca il suo racconto da dove si conclude l’Iliade. Simbolo del sacrificio di un eroe per la patria (citati nel I dell’Inferno anche altri sacrifici famosi per la creazione dell’Italia: la vergine Camilla, Eurialo, Niso), venne ucciso da Turno e vendicato esplicitamente da Enea stesso, che vince così e sposa la contesa Lavinia. La narrazione della vendetta è nell’ultimo libro dell’opera ed è da lì che si chiarisce definitivamente il percorso storico che porterà all’impero di Roma, necessario a preparare l’avvento del Cristo. Sarà, infatti, poi il figlio di Enea, Ascanio a Fondare Albalonga, dove l’aquila imperiale si stabilirà per tre secoli, prima di posarsi definitivamente su Roma, a seguito dell’esito della sfida tra Orazi e Curiazi. Enea grida a Turno mentre lo trafigge: “Pallas te hoc vulnere, Pallas immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.” (Pallante con questa ferita, Pallante ti immola e prende vendetta dal sangue maledetto). D’altra parte, sia detto tangenzialmente, la sconfitta di Turno pare scontata nell’Eneide, e lo stesso eroe, consapevole di essa, prima di affrontare l’invincibile avversario troiano si chiede titubante in un verso splendido: “usque adeone mori miserum est?” (quanto farà poi male morire?) 103 65. L La Lancia Di Achille a lancia di Achille (Inf. XXXI), che prima fu di suo padre Peleo, aveva la leggendaria caratteristica di guarire con un secondo colpo dalle ferite che aveva provocato col primo. Nella lirica d’amore due-trecentesca era figura molto usata e famosa (Mostacci, Davanzati, Dall’Orto, e persino Petrarca) a paragone dell’effetto e l’efficacia taumaturgica dello sguardo, o del bacio della donna amata. 66. S Due Morti Inverosimili abello e Nasidio (Inf. XXV) sono due soldati dell’esercito di Catone, che secondo il leggendario e inverosimile racconto di Lucano nella Pharsalia, muoiono in modo orribile quando vengono morsi da due fantasiosi serpenti del deserto del Sahara. Gli ofidi leggendari provocano: uno l’incenerimento del primo, e l’altro un immane gonfiore nel secondo che finisce per esplodere dalla corazza. 104 67. Antiche Battaglie, Il Loro Valore E Il Valore In Esse N ell’antichità e almeno per tutto il Medioevo le guerre venivano combattute per essere vinte, e ogni sconfitta o trionfo poteva avere immediate conseguenze, devastanti o benefiche, direttamente sui e per i contendenti. Non si contano i casi di re e persino imperatori finiti in schiavitù o giustiziati, crudelmente lasciati morire di fame, o chiusi in gabbia; si pensi a Vercingetorige, o quanto si narra leggendariamente sull’imperatore Valeriano, catturato dal re sasanide Sapore I, che lo umiliò servendosene prima come sgabello per montare a cavallo e che, una volta morto, fece scuoiare, impagliare e dipingere di rosso per usarlo come trofeo. La sconfitta è la peggiore delle sorti! E si deve averlo sempre chiaro in mente. Bisogna essere spietati per paura che gli altri possano esserlo peggio. Persino la Firenze di Farinata rischiò la demolizione intera, come ben si ricorda dal decimo dell’Inferno: “tòrre via Fiorenza…”. Dopo Montaperti 1260-, che costò alla lega fiorentina oltre diecimila morti, Siena e Pisa proposero di raderla al suolo, si oppose Farinata! Ogni battaglia persa era quindi frutto di un qualche errore di valutazione o di strategia di qualcuno, come una partita di scacchi. Una cronaca dell’epoca narra come il valorosissimo Bonconte –quello che, nella storia della Commedia, si salva dalla dannazione eterna per le 105 poche parole rivolte alla Madonna in fin di vita- alla battaglia di Campaldino -1289-, dove capeggiava la cavalleria ghibellina, avendo considerato e constatato l’inferiorità numerica della propria parte, avesse espresso l’opinione di non doversi ingaggiar battaglia. Alla accusa di codardia espressa tra le righe dal Vescovo di Arezzo, pare che il valoroso giovane replicasse che se anche lui –il vescovo- avesse osato spingersi tanto in là quanto avrebbe fatto egli stesso quel giorno, non sarebbe più tornato indietro. Ed infatti entrambi persero la vita in quella drammatica vicenda di sangue. Bonconte cominciò lui la battaglia scatenando la prima ondata dei trecento feditori al galoppo, che comandava. La giornata di Campaldino costò oltre duemila vittime tra ambo i lati. 106 68. P L’Uso Del “Tu” er tutta la Commedia Dante incontra una quantità immane di personaggi e interagisce con loro, in genere dialoga, o ascolta. Nel viaggio ultramondano trova amici, conoscenti, personaggi storici, antenati, con cui calibra linguaggi diversi, più o meno confidenziali, o rispettosi. Ad alcune anime addirittura tira i capelli, o li minaccia, o prende a calci, ma in genere tratta con deferenza ricambiata personaggi della politica, anche i dannati. Questo avviene, per esempio, nell’agnizione del vecchio maestro sodomita Brunetto Latini: “Voi qui ser Brunetto…” e di seguito è lo stesso Virgilio a raccomandargli di usare cortesia con Guido Guerra, Tegghiaio Adobrandi e Iacopo Rusticucci, così come prima aveva fatto con Farinata, col quale, perfino nel famoso battibecco, rimane rispettoso. È famoso, poi, come, scoperte le sue nobili origini con l’avo Cacciaguida, nel rivolgersi a lui, passi dall’uso del “tu” a quello del “voi”. Ma quanto ad astio e irriverenti “tu” sputati addosso al pellegrino, l’anima più insolente è sempre quella del bastardo Vanni Fucci (XXIV), lui non solo gliene spara quattro filati, ma anzi, conclude una odiosa e preoccupante profezia sul futuro del poeta, e la disfatta della sua parte politica (guelferia bianca), con truce soddisfazione: “sì ch’ogne bianco ne sarà feruto”. 107 Con tale profezia chiude anche il canto, con tutto il livore possibile, e semmai ci fossero dubbi, specifica: “E detto l'ho perché doler ti debbia!” (affinché tu ne soffra). 108 69. Una Nuova Prospettiva Sul Destino Dell’Uomo L e stelle (Inf. XXXIV, Purg. XXXIII, Par. XXXIII) sono il destino ultimo dell’essere umano. Come tutti sanno, la parola “stelle” chiude ognuna delle tre cantiche: dall’Inferno Dante riesce a rivederle, dopo il Purgatorio è disposto a salirvi, nel Paradiso è partecipe del loro moto d’amore. Virgilio, la sua paterna e amorevole guida pagana, chiude la I e la X Egloga con la parola Umbra e l’Eneide con la parola umbrae: le ombre dove precipita l’anima del povero Turno ucciso da Enea (“ast illi soluuntur frigore membra uitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras”: le sue membra si afflosciano nel freddo, e la sua vita con un gemito svanisce indignata tra le ombre). Dalle ombre del mondo antico e pagano, pessimista e in cui la morte non ha appelli imprigionando dato l’anima che in chiude un l’esperienza triste luogo breve buio, della lugubre vita e raccapricciante, -se non addirittura nel nulla- si arriva a quello cristiano, liberi dalla schiavitù della morte e approdati alla sfolgorante vita eterna, in cui Dante credeva fermamente. 109 70. I Una Beffa l ponte (Inf. XXI) che, su indicazione del diavolo Malacoda, i pellegrini cercano per superare la Bolgia sesta, non esiste affatto. Essi, infatti, sono crollati tutti da 1266 anni e un giorno, dato che il viaggio si realizza nella notte del venerdì santo del 1300, e sul crollo almeno, il diavolo pare averla raccontata giusta. Virgilio apprende con sorpresa d’essersi fatto, dunque, ingannare dalle false indicazioni del demonio, e lo viene a sapere in modo beffardo dall’ipocrita Catalano, che lo schernisce affermando di aver appreso, all’Università di Bologna la dotta, che il diavolo ha parecchi vizi, e tra essi quello di essere maestro di menzogna: come se fossero necessari studi universitari per saperlo e tenerlo in conto, quando si ha a che fare con uno di loro. La ragione ben può essere ingannata e persino schernita e ridicolizzata dalla frode, che è anche essa frutto dell’intelligenza. Virgilio incassa il colpo e se ne va indignato. 110 71. I Una Etimologia Errata Ma Suggestiva l senso del contrappasso della pena degli ipocriti (Inf. XXIII) della Bolgia sesta, sta tutto nella composizione dei materiali delle pesantissime -e dall’apparenza sontuose- cappe monacali che loro sono costretti a indossare. Esse appaiono come dorate –“rance”, color arancio-, ma sono di piombo all’interno. Tralasciando ora le implicazioni alchemiche che legano in un complicatissimo rapporto l’oro e il piombo (è noto, infatti, come una delle missioni del magistero alchemico sia la trasmutazione dell’ultimo nel primo) Dante parte da una paretimologia del condottiero Uguccione della Faggiuola per concepire il senso allegorico della punizione. Secondo tale etimo, infatti, il lemma “ipocrita” sarebbe composta dalla preposizione greca hypò, (sotto) o forse hyper (sopra), e la parola greca chrysòs, (oro) e varrebbe “che nasconde qualcosa sotto l’oro”, o “che ha l’oro sopra”. L’etimologia autentica dovrebbe essere invece, ypokrites: attore. Gli ipocriti danteschi, paiono monaci dorati, ma dentro nascondono il più vile e pesante dei metalli, che li schiaccia e opprime. 111 72. U Una Bizzarra Efferatezza na diceria medievale, molto conosciuta e propalata come vera, ma nata molto probabilmente solo per capziosa e falsa propaganda guelfa, attribuiva a Federico II (Inf. XXIII) il costume orrendo di punire i rei di lesa maestà facendogli indossare delle cappe di piombo e mettendoli in una caldaia sul fuoco. Il piombo si sarebbe, quindi, fuso addosso ai malcapitati uccidendoli in modo orribile. Dante si rifà a questa truce bizzarria quando concepisce la pena degli ipocriti, che girano per la Bolgia sesta, appunto, sotto il peso insopportabile di cappe di foggia simile a quelle dei monaci cluniacensi, ma metalliche: internamente di piombo e esteriormente d’oro. 112 73. D Un Gran Mangiatore i Papa Martino IV (Purg. XXIV), che espia il peccato della gola in Purgatorio, è leggendaria la ghiottoneria viziosissima. Si racconta che facesse arrostire anguille di Bolsena fatte prima annegare nella vernaccia, ma non si sa se l’interpretazione della ricetta sia esatta, e poi ne faceva strage a tavola. Alla sua morte un epitaffio lo ricorda: “Gaudent anguillae quod mortuus hic jacet ille qui, quasi morte reas, excoriabat eas” ossia “Gioiscono le anguille poiché morto qui giace colui che, quasi fossero colpevoli di morte, le scorticava” divorandole con avidità. Un episodio militare lo lega ad altri due personaggi della Commedia: il consigliere fraudolento Guido da Montefeltro, e l’astronomo Guido Bonatti. Insieme, infatti, l’uno come signore della città di Forlì assediata e condottiero, l’altro come consigliere riuscirono a legnare sonoramente –“dei franceschi sanguinoso mucchio”- l’esercito franco guelfo da lui inviato contro la roccaforte ghibellina. 113 74. Caifas Il Sacerdote Dei Tempi di Pilato U nici ipocriti a non patire il peso della propria cappa plumbea, ma condannati a dover sopportare il peso intero di tutta l’ipocrisia del mondo, dato che sono assicurati a tre paletti conficcati a terra e tutti i convitti delle Bolgia gli passano a turno sopra, sono Caifas (Inf. XXIII), il Sommo Sacerdote di Gerusalemme che fece giustiziare Gesù, e suo suocero, che adunò in casa sua il sinedrio dove si prese la decisione di sacrificare un solo uomo, Gesù appunto, pur di non far subire conseguenze nefaste a tutto il popolo ebraico. 114 75. S Un Protocontestatore: Sigeri igieri da Brabante (Par. X) fu maestro alla Facoltà delle Arti della Sorbona a Parigi, che sorgeva nel “Vico degli strami” (cioè della paglia) come segnala Dante. Notazione importante, perché era lì che all’epoca risiedeva la facoltà con le sue scuole di filosofia dove insegnavano gli aristotelici, in forte contrasto e perenne polemica, dato che partivano da principi diversi, con l’altra facoltà, quella di teologia. Sigieri fu il principale esponente dell’averroismo latino, l’aristotelismo basato sul commento di Averroè (nel Limbo chiamato, appunto: “Averrois che ‘l gran comento feo”) e più volte condannato per alcune sue dottrine, fortemente deterministiche, basate su e dedotte, appunto, da Aristotele, ma inconciliabili con la fede cristiana. In forte opposizione a Tommaso, ma lodato proprio da lui nel Paradiso dantesco, egli negò la creazione ex nihilo, l’esistenza del libero arbitrio e l’immortalità dell’anima. Successivamente, appellatosi a questi, fu assolto dal Papa –Martino IV-, in quel momento ad Orvieto, dove, oltre al perdono, però ricevette l’ordine di permanere per poter essere controllato nelle sue attività e studi. Il chierico suo segretario, forse impazzito, forse spinto da trame dei suoi nemici, lo uccise nel 1283. 115 76. L Infame Di Casa Donati a Commedia non si macchia del suo nome infame. È, invece, Forese Donati, amico di Dante, a profetizzare, con allusioni, la fine di suo fratello Corso (Purg. XXIV). Corso fu colui che provocò il primo motivo di dissidio tra le due fazioni fiorentine dei bianchi, “cerchieschi”, a cui apparteneva anche Dante, e neri, o “donateschi”. Sul finire del Duecento fa promessa di matrimonio a Tessa Ubertini, imparentata coi Cerchi da parte paterna, ma negò a lei e ai suoi parenti un’eredità che spettava loro. Soprannominato “il barone” per i suoi modi sdegnosi ed inclini al motteggio, fu brutale e crudele, in politica tramò e pescò nel torbido di continuo. Sposò in terze nozze la figlia del condottiero ghibellino Ugucchione della Faggiuola. Nel 1299 venne esiliato dai Bianchi, ma durante il confino, si recò a Roma, dove riuscì a ottenere l'appoggio di Bonifacio VIII per il suo partito. Tornò, così, trionfalmente a Firenze al seguito di Carlo di Valois, falso paciere mandato appunto dal papa per favorire i Neri. Ripreso il potere, esiliò per due volte i bianchi fino a che fu condannato come traditore e la folla lo costrinse a fuggire dalla città. Durante la fuga cadde da cavallo rimanendo impigliato in una staffa, i suoi nemici lo raggiunsero e finirono a colpi di lancia. Leggenda vuole, e Dante ama fantasticare, come fosse trascinato dal suo stesso cavallo direttamente all’Inferno. 116 77. I Frati Gaudenti “Frati Gaudenti”, Ordo Militiae Mariae Gloriosae, furono un ordine in prima linea durante la crociata contro gli albigesi – fu creato per l’occasione-, e poi rifondato a Bologna -con regola approvata da Papa Urbano IV- da Loderingo degli Andalò, che poi è uno dei due ipocriti infernali appartenenti all’ordine (Inf. XIII). Un altro dannato pure “gaudente” è Alberigo nella Tolomea (Inf. XXXIII) il traditore. Loro missione era anche quella di mantenere la pace tra le diverse fazioni cittadine, e per questo potevano girare armati come gli ordini militari. A causa dei loro compromessi con la realtà mondana, e anche a causa della vita comoda e agiata cui erano inclini e della cospicuità del loro patrimonio, che amministravano con avidità, furono chiamati “gaudenti”, alla fine per scherno, appunto, e ripetutamente portati ad esempio di ipocrisia. 117 78. G Nepotismo herardo II è, probabilmente, l’abate di San Zeno a Verona (Purg. XIII) dei tempi di Federico I Hoenstaufen, detto Barbarossa. Dell’imperatore, egli racconta in Purgatorio, i milanesi si ricordano ancora con dolore, dato che distrusse la città nel 1162. L’abate profetizza come stia per morire, un potente -si tratta di Alberto della Scala-, che dovrà scontare l’offesa arrecata a quel bel monastero, con l’imposizione abusiva, come abate, di un suo figlio illegittimo Giuseppe- “mal del corpo intero e della mente peggio”: uno storpio, oltre che idiota. A questo disgraziato si attribuiscono le peggiori scelleratezze e scostumatezze, e si sa che, sotto la benedizione di Cangrande della Scala –il personaggio a cui Dante, grato, dedica il Paradiso e che ospiterà il poeta tenendolo in grande considerazione- lo stesso Giuseppe finì per porre, a sua volta, un suo figlio, pure questo illegittimo, al suo stesso posto di abate a San Zeno. Cangrande aveva probabilmente letto queste terzine, che coinvolgono, nel giudizio negativo per nepotismo oltre ai suoi fratelli anche suo padre, ma l’integrità del poeta e la sua indipendenza, nonostante i suoi affetti e la gratitudine, riescono a superare anche gli interessi personali e non si prostrano dinanzi al potere. 118 79. A Una Tragedia D’Amore l momento di immettersi all’interno dell’ustionante muro di fuoco dove si “affinano” –purificano- i lussuriosi, Dante, invaso senza rimedio dalla paura, si paralizza sbiancando e gelandosi, come un cadavere che stia per essere messo nella fossa. Protende quindi le mani in avanti rigido come a ripararsi dalla fiamma, che vede davanti a lui e gli ricorda bene l’orrore di corpi umani che ha visto bruciare sul rogo. Virgilio deve intervenire per smuovere il discepolo pietrificato, ed ottiene l’effetto cercato citando il nome “taumaturgico” della sua amata Beatrice. Al di là del muro di fuoco che, Dante dirà, lo brucerà come se si fosse immerso in “bolliente vetro”, ma che non può nuocergli fisicamente, si trova, infatti, il Paradiso Terrestre e finalmente si paleserà, come promesso, la giovane amata. L’effetto che il nome di Beatrice provoca in lui è lo stesso effetto che provocò su Piramo il nome della sua amata Tisbe (Purg. XXVII). Amanti di due famiglie babilonesi nemiche, i due giovani possono amoreggiare solo separati da un muro. Decidono di fuggire insieme e si danno appuntamento sotto un gelso. Tisbe, arrivata per prima, si spaventa per l’approssimarsi di una leonessa, e fugge lasciando cadere a terra la sua veste. La leonessa sbrana la veste rimasta sul suolo, sicché, quando giunge, il giovane è indotto a pensare che, a causa del suo ritardo, si sia verificato il peggio. Senza indugi, disperato e solerte, si dà la morte con la spada. 119 Trafitto e a punto di morire, ormai incosciente, apre occhi per un attimo e per l’ultima volta, quando sente il nome dell’amata che è tornata e lo piange: “C’è la tua Tisbe con te.” Spirato lui, anche lei si uccide al suo fianco. 120 80. P Eroina Dell’Eneide entesilea (Inf. IV) è la regina delle amazzoni uccisa da Achille (il quale, a sua volta, Dante vedrà tra le “più di mille” anime di lussuriosi indicate da Virgilio), sotto le mura di Troia e finita nel Limbo. Bellissima, fu richiamata da Priamo nell’ultimo anno del decennale conflitto troiano, dopo la morte di Ettore. Anche nell’Eneide c’è una guerriera: la “Cammilla” che Dante cita tra gli eroi morti nella guerra promossa da Enea per la conquista del Lazio, enumerando senza distinguere i caduti delle due parti avverse, e che poi vede nel Nobile Castello del Limbo. Camilla, coraggiosissima, crea lo scompiglio in battaglia lanciandosi nelle mischie e ferendo a morte decine di guerrieri uomini. Sarà uccisa in modo vile da Arunte, ucciso a sua volta da Opi su ordine di Diana in persona. 121 81. T discepolo Vendetta Di Una Madre omiri (in Purg. XII Tamiri) è la regina degli Sciiti (Ponto, Caucaso, etc.) che, secondo quanto narra Paolo Orosio, storico portoghese in Paradiso, molto studiato dal poeta e di Sant’Agostino, sconfisse e uccise Ciro il grande, l’imperatore persiano fondatore della dinastia degli Achemenidi. Il figlio di Tomiri, Spargapise, era stato catturato e messo a morte, grazie a uno stratagemma di Ciro, che riuscì a cogliere di sorpresa le truppe sciite, che erano state proditoriamente indotte ad ubriacarsi senza essere abituati a reggere l’alcool. Sua madre, vinto inopinatamente il tracotante e superbo imperatore persiano, cercò il suo cadavere nel campo, lo fece decapitare e gettò la sua testa recisa in un otre colmo si sangue pronunciando le parole riportate da Dante: “sangue sitisti e io di sangue t’empio”, nel latino di Orosio: “satia te sanguine quem sitisti” (saziati col sangue di cui fosti assetato). 122 82. M Mordret ordret (Inf. XXXII, Mordred), famoso, viene citato anche da Dante Alighieri: “Quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra”. Nell'Inferno è usato come esempio, un po' didascalico, di traditore dei parenti, “fitto” (infilato) “in gelatina”, paragone gastronomico con lo spesso ghiaccio di Cocito, di stampo un po’ ridicolo e sprezzante. Figlio di Artù, leggendario re della Tavola Rotonda, ebbe il proposito di uccidere a tradimento e con l'inganno il padre, ma lui lo infilò con la sua lancia. In particolare viene riportato il macabro dettaglio dell’arma del re che gli fende il petto così profondamente che, una volta ritratta, Girflet vide apparire un raggio di sole dalla ferita, che aveva attraversato al contempo non solo il corpo, ma anche la sua ombra traditrice. 123 83. D Un Cortese Giullare Dannato i Guglielmo Borsiere (Inf. XVI) non si sa altro che il poco che riferiscono Dante e Boccaccio, il quale, commentando la Commedia lo descrive come educato e ingegnoso giullare: “…Cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed era il suo essercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra grandi e gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi e talora con piacevoli e oneste novelle recreare gli animi de' faticati e confortargli alle cose onorevoli”. Fu un cortigiano che, come altri personaggi quali Ciacco, per lunga e costante frequentazione delle corti, ben poteva sapere e rendersi conto dei mutamenti sociali e di costume occorsi durante il tempo destinatogli per vivere. A lui si riferisce il sodomita Rusticucci, che afferma di aver ricevuto, dallo stesso, bruttissime notizie sullo stato attuale dei costumi fiorentini. Il politico fiorentino della generazione precedente a quella di Dante, lo afferma quasi sperando che il pellegrino possa smentire l’altro latore di notizie dal mondo, e portarne di migliori, cosa che, ovviamente, non avviene –forse il passato appare sempre migliore del presente. Il passo conferma le dinamiche immaginate dal Poeta sulla memoria dei dannati, a cui il futuro è chiaro, mentre non lo è il presente, del quale, se non arrivano nuove da altre anime, nulla se ne sa (conferma anche frate Alberigo, il quale, parlando del suo corpo lasciato in vita al mondo e governato dal demonio, dice: “nulla scienza porto”). 124 La trovata dantesca di anime dannate aduse a ciarlare tra loro propone una calda e tutto sommato casalinga e provinciale visione del trascorrere della perenne prigionia infernale, tra individui ancora interessati e preoccupati delle vicende mondane e in specie patrie: convitti che soffrono, sì, ma al contempo parlano tra loro commentando, giudicando e scambiandosi notizie e aneddoti. È una commedia. 125 84. L Dieci Anni Senza Beatrice a sete decennale di Dante di tornare a godere della vista di Beatrice non si “disseta” semplicemente. Una volta giunto in cima all’Eden, al suo apparire essa si “disbrama” (Purg. XXII). L’astinenza da una visione tanto desiderata e tanto lungamente, crea la necessità di usare una parola forgiata all’uopo, come tantissime altre, e dall’unione di due forti componenti: “dis”, negativo, e “brama”. Sono dieci anni che Dante non vede la sua amata Bice di Folco Portinari, data in sposa a Simone dei Bardi, e spentasi giovanissima, nel 1290 a soli ventiquattro anni. Il viaggio ultramondano, infatti è immaginato nella Pasqua del 1300. A Dante non bastarono le lacrime quando apprese del triste evento: concepì l’opera più bella della letteratura. 126 85. I Vendetta Femminile ndispettita dalla trascuratezza con cui il suo tempio era venerato, Afrodite maledisse le donne di Lemno, rendendole ripugnanti agli uomini del posto, per mezzo di una feroce e insalvabile alitosi. I maschi iniziarono a trascurarle preferendo ad esse le donne trace, e loro decisero di vendicarsi panificando ed eseguendo il loro sterminio: padri, fratelli compresi. La regina Ipsipile (Inf. XVIII e Purg. XXVI), però, ingannò le altre mettendo in salvo il proprio genitore, Toante, e facendolo vivere a largo dell’isola in un baule. Dante la cita presentando il mito del suo amore con Giasone, il capo degli Argonauti. Quando lui la sedusse ed ingannò, ella era ancora solo una giovinetta, scaltra, certo, dato che aveva salvato suo padre dall’ira di tutte le altre donne, ma in impari posizione dinanzi all’eroe. Giasone è punito, infatti, come adulatore, dato che la sedusse per interesse personale, usandola, e senza provare sentimenti. Lui era già un eroe formato, all’epoca aveva, infatti, già conquistato il Vello d’oro. Il poeta riprende, poi, la sua vicenda quando racconta di essersi sentito quasi a punto di gettarsi tra le fiamme (che lo avvolgono per fargli espiare la lussuria) ad abbracciare Guido Guinizzelli, cosa che osarono fare, invece, i due figli di lei (ottenuti da Giasone) quando per salvarla dal rogo si gettano, felici di averla ritrovata, tra le fiamme a cui la aveva condannata per negligenza il re Licurgo a cui era stata venduta come schiava. I figli la liberano e la abbracciano avidamente. 127 86. L’Unica Puttana Dell’Inferno Dantesco C ’è, o almeno si viene a sapere solo di un’unica puttana all’Inferno, tra i ruffiani e i seduttori della Bolgia seconda, Taide (Inf. XVIII), personaggio dell’Eunucus di Terenzio, e amante del vanaglorioso e smargiasso soldato romano Trasone. …quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora è in piedi stante. Taïde è, la puttana… La visione ha dei tratti molto popolari e comici; lei, irrequieta e unica testimone di una diffusissima attività crematistica e commerciale che “simula” godimento e svilisce la passione amorosa a risorsa per trarre profitto e sostentamento, pare dannata più per la menzogna implicita nella sua pratica e per la scimmiottatura ingannevole di sentimenti e, specie, di piaceri che andrebbero vissuti in modo autentico, che per esagerata intransigenza moralistica. 128 87. Da Una Magnifica Canzone Provenzale L ’allodola (Par. XX) dantesca: Quale allodoletta che'n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta dell'ultima dolcezza che la sazia … è ripresa da un noto attacco di una magnifica canzone provenzale di Bernart de Ventadorn. Le figure sono però profondamente diverse nel loro significato specifico in ciascun componimento: l’allodola mistica di Dante, che viene vinta e ridotta al silenzio dalla dolcezza del suo stesso canto, non ha i tratti di quella del poeta provenzale, il quale, parlando in prima persona del suo sfortunato amore, prova invidia per la gioia spensierata di lei in volo dimentica di sé, e in caduta libera per la dolcezza che le entra nel cuore felice: Can vei la lauzeta mover Quando vedo l’allodoletta batter de joi sas alas contra·l rai, di gioia l’ali sue verso il sole, que s'oblida e·s laissa chazer che s’oblia e lascia cadere, per la doussor c'al cor li vai, per la dolcezza che le va al cuore, ai! tan grans enveya m'en ve ah! Tanta invidia mi prende de cui qu'eu veya jauzion! di chiunque veda esser gioioso Meravilhas ai, car desse. che mi stupisco di come subito Lo cor de dezirer nom fon. di desiderio il cuore non mi si fonda. 129 88. Un Amico Ritrovato E Una Tenzone Poetica U sava al tempo, di indirizzarsi, tra amici dotati di intelletto, componimenti poetici sarcastici, burleschi e ingegnosamente offensivi. L’ingegnosità nel formulare insulti attrae sicuramente l’attenzione del poeta, se pensiamo a quanto interesse abbia posto alla scenetta del battibecco e delle relative offese incrociate che si rivolgono i due gaglioffi e truffatori, ospiti dell’ultima Bolgia: Mastro Adamo, il falsario inglese, e Sinone, il greco che ingannò i troiani facendo entrare in città il cavallo ideato da Ulisse e Diomede. L’interesse divertito di Dante verso tale “sperpero” di intelligenza, indirizzata verso manierismi inutili e, alla fine, volgari, aveva fatto sbottare Virgilio, che, in quella precisa occasione, aveva ripreso Dante rivolgendogli un qualcosa di simile a un paterno: “guarda che mo’ mi arrabbio!”. In gioventù Dante stesso aveva indugiato in scherzose attività del genere; è celebre la disputa sorta tra lui e l’amico Forese Donati (Purg. XXIII-XXV), che incontra, sulla cornice dei golosi in Purgatorio, senza riconoscerlo subito, tanto è dimagrito e smunto da sembrare, in volto, simile a una “m” onciale. Loro si mandarono tre sonetti a testa, dove si accusavano di essere figli di pezzenti, o freddi con la propria donna, o morti di fame, vigliacchi etc, un catalogo di varie condotte censurabili: 130 1. Dante a Forese 2. Forese a Dante Chi udisse tossir la mal fatata L’altra notte mi venn’ una gran tosse, moglie di Bicci vocato Forese, perch’i’ non avea che tener a dosso potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata ma incontanente dì [ed i’] fui mosso ove si fa ’l cristallo ’n quel paese. per gir a guadagnar ove che fosse. Di mezzo agosto la truovi infreddata; Udite la fortuna ove m’adusse: or sappi che de’ far d’ogn’altro mese! ch’i’ credetti trovar perle in un bosso E no·lle val perché dorma calzata, e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso, merzé del copertoio c’ha cortonese. ed i’ trovai Alaghier tra le fosso La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome, no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi, se fu di Salamon o d’altro saggio. ma per difetto ch’ella sente al nido. Allora mi segna’ verso ’l levante: Piange la madre, c’ha più d’una doglia, e que’ mi disse: «Per amor di Dante, dicendo: «Lassa, che per fichi secchi scio’mi»; ed i’ non potti veder come: messa l’avre’ in casa il conte Guido!». tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio. 3. Dante a Forese 4. Forese a Dante Ben ti faranno il nodo Salamone, Va’ rivesti San Gal prima che dichi Bicci novello, e petti delle starne, parole o motti d’altrui povertate, ma peggio fia la lonza del castrone, ché troppo n’è venuta gran pietate ché ’l cuoio farà vendetta della carne; in questo verno a tutti suoi amichi. tal che starai più presso a San Simone, E anco, se tu ci hai per sì mendichi, se·ttu non ti procacci de l’andarne: perché pur mandi a·nnoi per caritate? e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate, sarebbe oramai tardi a ricomprarne. ch’io saccio ben che tu te ne nutrichi. Ma ben m’ è detto che tu sai un’arte, Ma ben ti lecerà il lavorare, che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare, se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco, però ch’ell’è di molto gran guadagno; che col Belluzzo tu non stia in brigata. e fa·ssì, a tempo, che tema di carte Allo spedale a Pinti ha’ riparare; non hai, che·tti bisogni scioperare; e già mi par vedere stare a desco, ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno. ed in terzo, Alighier co·lla farsata. 5. Dante a Forese 6.Forese a Dante Bicci novel, figliuol di non so cui Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri, (s’i’ non ne domandassi monna Tessa), e acorgomene pur a la vendetta giù per la gola tanta rob’ hai messa, che facesti di lu’ sì bella e netta ch’a forza ti convien tôrre l’altrui. de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri. E già la gente si guarda da·llui, Se tagliato n’avess’ uno a quartieri, chi ha borsa a·llato, là dov’e’ s’appressa, di pace non dove’ aver tal fretta; dicendo: «Questi c’ha la faccia fessa ma tu ha’ poi sì piena la bonetta, è piuvico ladron negli atti sui». che no·lla porterebber duo somieri. E tal giace per lui nel letto tristo, Buon uso ci ha’ recato, ben ti ·l dico, per tema non sia preso a lo ’mbolare, che qual ti carica ben di bastone, che gli apartien quanto Giosep a Cristo. colu’ ha’ per fratello e per amico. Di Bicci e de’ fratei posso contare Il nome ti direi delle persone che, per lo sangue lor, del mal acquisto che v’hanno posto sù; ma del panico sann’ a lor donne buon’ cognati stare. mi reca, ch’i’ vo’ metter la ragione. 131 89. S Tracotanza Diabolica olo un angelo appare all’Inferno, per aiutare il povero Virgilio, tenuto in scacco al di fuori della città di Dite, a proseguire il cammino. I diavoli (Inf. VIII) infatti, più di mille, ammassati a guardare e a sbeffeggiare i due pellegrini relegati fuori dalle mura ferree e arroventate della città infernale, chiedevano minacciosi “Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?”. Poi avevano proposto al poeta mantovano, sgomentando Dante, di abbandonare al suo destino il discepolo, “vediamo se saprà tornarsene da solo nel mondo dei vivi”, dicono in modo crudelmente beffardo: Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha’ iscorta sì buia contrada. Qui il poeta, come in altre occasioni, si rivolge direttamente al lettore chiedendogli di immaginare il suo sgomento. Poi, a perdifiato, accoratissimo, chiede alla amata guida di non lasciarlo solo all’Inferno, e, come farà in altra occasione, arriva a proporre anche di rinunciare la prosecuzione del percorso, piuttosto che rischiare l’abbandono: O caro duca mio, che più di sette volte m’ hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette, non mi lasciar”, diss’io, “così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto. 132 90. L Amore ’amore (Inf. V) non consente, a nessuno che sia amato, di non amare a sua volta, fa dire Dante a Francesca. Guinizzelli affermava che: “Al cor gentil rempaira sempre amore”. Nella Vita Nuova Dante stesso affermava che “Amore e 'l cor gentil sono una cosa”. Non deve essere certo il matrimonio una scusa contro l’amore. Anzi, il vero amore ha luogo solo al di fuori del matrimonio. “Che altro è l'amore se non uno smisurato abbraccio furtivo di pensieri nascosti”, l’amore non può darsi per scontato e non è certo nelle responsabilità della relazione coniugale, formale, che possa trovare la sua essenza. Così, grossomodo, alcune direttrici del pensiero di un autore il cui testo era diffusissimo ai tempi di Dante. Andrea Cappellano, cappellano alla corte della contessa Maria di Champagne, sorella del re di Francia, redige i principi e le regole dell’amare cortese nel suo trattatello De Amore. In amore non si mente, non si sparla di altri; si deve rispettare l’amore vero di chi lo possiede già; l’amore è servaggio (feudale) verso la donna. L’amore appiana anche le differenze di classe perché può sorgere ovunque. Dante proprio a questo autore si riferisce quando mette in bocca, alla bellissima Francesca, amata da Paolo, le tre terzine d’amore, forse le più conosciute e benvolute di tutta l’opera. 133 Vediamo, in particolare alcuni dei trenta punti del cappellano, poi sapremo riconoscere se siamo mai stati innamorati davvero (versione del De Amore in volgare del Codice Barberiano, cap. XXXII, Le regole d’amore): I. Nonn è giusta scuda d’amare per cagione di matrimonio. II. Chi nonn è geloso, non può amare. III. Niuno si può legare all’amore di due. IV. Certo si è che l’amore sempre o menoma o crescie. IX. Lo diritto amante non disidera sollazzi d’altro amante con buon cuore, se non del suo amante. XI. Niuno dé perdere lo suo amore sanza sua colpa. XII. Niuno può amare se non quello ov’è il suo cuore. XIII. L’amore, dach’è palesato, rade volte suole durare. XVI. Quando l’uno amante vede l’altro, di sicuro sì gli batte il cuore. XVII. Lo nuovo amore caccia il vecchio. XVIII. Solo lo senno è quello che fa degno catuno d’essere amato. XXIII. Chi à pensiero del suo amore meno dorme e mangia meno, per le qua’ cose l’usare dell’amare viene a fine quando giace col suo amante. XXVIII. Non suole amare ch[i] è molto luxurioso. XXIX. Il diritto amante sempre sanza riposo l’imagina il suo amante. XXX. Nonn è vietata d’amare dui uomini una femina, e due femmine un uomo. 134 91. D Addii ante non si accorge, sull’Eden, che Virgilio non è più al suo fianco, anzi, si gira verso di lui per farlo partecipe di quanto sta vivendo, come aveva fatto fino ad allora per due cantiche, ma non lo trova più. Il latino sta facendo marcia indietro, da solo, tutto il viaggio di ritorno fino al Limbo. Il poeta fiorentino piange per la perdita, e Beatrice gli si rivolge severa dicendogli che per ben altro dovrà piangere che per l’abbandono della paterna guida. Anche in Paradiso il pellegrino ultramondano rimane sorpreso: si gira per rivolgersi a Beatrice, e, invece del suo magnifico volto, trova quello di un anziano, “un sene”. E lei? È al suo posto nella schiera dei Beati, per farsi ammirare, in tutto il suo splendore, nel trono che i suoi meriti le hanno fatto ottenere. È lontanissima: più lontana di quanto lo sarebbe chi dalle cime più alte dei monti, “region che più su tona”, ficcasse lo sguardo nel più profondo abisso marino: “in mare più giù s’abbandona”. Ma Dante la vede nitidamente lo stesso, perché la sua figura non perviene offuscata dalla presenza di aria. Ed ecco che si rivolge a lei per l’ultima volta con dei versi magnifici: O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in Inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant' i' ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. 135 Tu m'hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt' i modi che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, sì che l'anima mia, che fatt' hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi. Così si congeda definitivamente dalla sua amata, un letterale ‘a-ddio’ (Par. XXXI) dato che, per quanto fosse lontano, Dante riesce a rendersi conto benissimo che lei lo guarda e sorride, ma poi distoglie lo sguardo da lui e lo rivolge a Dio: Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l'etterna fontana. 136 92. S Un Congedo In Provenzale alvo le lingue fittizie messe in bocca a Pluto e Nembrot, l’unico personaggio che non parli la lingua del poeta che scrive è Arnaut Daniel (Purg. XXVI), il trovatore occitano segnalato come supremo cantore d’amore nel De Vulgari Eloquentia. È famoso per l’elegantissimo congedo in provenzale dal dialogo col pellegrino in bilico sulla cornice dei lussuriosi. Presentato da Guido Guinizzelli come il più grande “fabbro” di versi d’amore e superiore pure al collega lemosino Giraut de Bornelh, l’eredità letteraria lasciata da questo elaboratissimo cantore è tra le più longeve e durature. Ad esso si rifanno anche poeti moderni quali: Thomas Stearns Eliot, Ezra Pound ed anche vari italiani. Ecco i versi della Commedia attribuitigli: Tan m'abellis vostre cortes deman, Tanto m’aggrada la vostra cortese domanda qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ch’io non posso né voglio a voi nascondermi Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; Io sono Arnaut, che piango e vado cantando consiros vei la passada folor, contrito contemplo la passata follia E intravedo lieto la letizia che dinanzi mi attende Ara vos prec, per aquella valor Ora vi prego, per quella virtù que vos guida al som de l'escalina, che vi conduce in cima alla scala sovenha vos a temps de ma dolor! Ricordatevi in tempo della mia pena! 137 93. R Due Violenti Despoti Da Città iconoscibili solo dal colore della chioma, una mora, l’altra bionda, dato che sono immersi fino ai capelli nel sangue bollente del fiume Flegetonte dove si puniscono i violenti contro gli altri, Ezzelino III da Romano e Obizzo II d’Este (Inf. XII) sono famosi per la loro efferatezza e crudeltà. La fama di Ezzelino, fratello all’Inferno di Cunizza, ubicata, invece, come beata in Paradiso, ghibellino di leggendaria ferocia e crudeltà, si alimenta e protrae a lungo: Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto, Alessandro Tassoni, Percy Shelley e Oscar Wilde ne parlano. Il cronista Fra’ Salimbene de Adam lo definisce gran massacratore di uomini e temuto addirittura più del diavolo “Hic plus quam diabolus timebatur”. Albertino Mussato (c. 1315) lo dipinge come figlio del diavolo, e la pubblicistica guelfa gli attribuirà il rogo di undicimila cittadini di Padova e persino l’accecamento di bambini. Morto Federico II, fu scomunicato da papa Alessandro IV, per efferatezze ed eresia, nel 1254. Di Obizzo II d’Este, si racconta, ma senza riscontri precisi, che avesse fatto annegare in mare la madre ex lavandaia per la vergogna delle sue umili origini, e stuprato tutte le donne di Ferrara, sorelle incluse. Dante lo vuole ucciso per mano del suo stesso figlio, Azzo VIII, mandante dell’omicidio anche di Jacopo del Cassero. 138 94. L Un Nobile Gesto eggenda vuole che un gentiluomo, caduto in disgrazia, aveva deciso di far prostituire le sue tre figlie, non avendo modo di sfamarle. San Nicola (Purg. XX), all’epoca giovinetto, ma poi veneratissimo santo della cristianità, patrono di Bari e Vescovo di Mirra nella Licia (e pure imparentato con la figura nordica di Babbo Natale: Santa Claus), per aiutarle si recò per tre volte in una stessa notte a portare un sacco di monete sufficiente ad evitare che le fanciulle finissero in strada. Il genitore, grazie alla generosità del santo riuscì infatti a maritarle e a salvare il loro onore. 95. N el pregiudizio Amore della poesia cortese l’amore è irresistibilità: “amor ch’a nullo amato amar perdona”, ma nel Purgatorio (Purg. XXII) Dante corregge esplicitamente il tiro sulla questione: “amore, acceso di virtù sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore”. L’amore è tale quando è innescato da virtù ed ordinato al bene, e non quando è forza incontrollabile che tiranneggia l’essere umano. 139 96. D La Scienza Delle Macchie Lunari ante tratterà con rigore il problema delle macchie lunari delegando a Beatrice l’esposizione della loro natura e affermando di non credere alla favola che si raccontava al tempo. Eppure, in modo consono al luogo dove la menziona, è infatti tra maghi e indovini, riferisce la leggenda popolare (Inf. XX) che le voleva originate da Caino, che, maledetto da Dio, era stato confinato sulla superficie del satellite e costretto a portare un fascio di spine sulle spalle. La questione delle macchie lunari, “segni bui”, che rappresentavano un problema alla presupposta perfezione degli astri e dell’universo (questione discussa persino da Galileo, secoli dopo), viene risolto da Beatrice, che, dopo aver confutato i discorsi erronei, non fornisce una spiegazione in senso astronomico, ma metafisico: il moto e l'influenza delle sfere celesti, infatti, dipendono dalle intelligenze angeliche. I Cieli sottostanti all’Empireo e a quello delle Stelle Fisse, vale a dire quelli dei sette pianeti, dispongono in differente modo le diverse virtù che hanno ricevuto dall’alto: irradiando e riflettendo. I giri dei pianeti non avvengono da soli, ma sono mossi da esseri dotati di capacità intellettiva, appunto: le intelligenze angeliche. Il mondo sensibile è quindi governato da una realtà intelligibile che dal Cielo ottavo in giù, si manifesta in modo diverso e a questo si devono anche le differenze tra le materie. 140 97. T Sognare Il Fuoco ra i sogni (Par. IX) leggendari, accostati a quello antico attribuito, nel mondo classico, ad Ecuba, la quale sogna la città in fiamme prima di partorire Paride, destinato a scatenare la guerra di Troia sottraendo la bellissima Elena a Menelao, ci sono quelli, simili, della madre di San Domenico, che aveva sognato fuoco a presagio dell’attività e del destino del figlio, che incendierà con la sua parola il mondo, e quello della madre di Ezzelino III da Romano, il feroce tiranno nel Flegetonte, che aveva sognato di dare alla luce una fiaccola che incendiava tutta la regione, in questo caso per crudeltà, però. 98. L Il Cerbero Dantesco ’aspetto del Cerbero dantesco (Inf. VI), che strazia i golosi, “li scuoia”, “li squata”, ed assorda col suo latrato, è particolarmente inquietante. In lui i tratti attribuitigli da Virgilio di rabbioso cane da guardia multicefalo, sono contaminati da attributi umani, le teste sono solo tre, ma egli possiede: mani unghiate, barba unta e atra, tre facce, un gran ventre. Il Cerbero dantesco è quindi in parte antropomorfo. 141 99. Un Ladro Divenuto Centauro All’Inferno A ll’Inferno, Caco (Inf. XXV) è un centauro separato, però, nell’organizzazione militare e burocratica infernale, dai suoi simili che pattugliano il Flegetonte, e confinato, invece, tra i ladri. Nella descrizione dantesca, egli è coperto di serpi sulla groppa –tante quante non ne possiede la maremma intera- e ornato da un drago che sputa fiamme, erto sul suo capo. Il personaggio mitologico è protagonista di una delle dodici fatiche di Ercole. In Virgilio egli non è un centauro, ma è un mostruoso figlio di Vulcano, che sputa fuoco e si dedica al ladroneggio nella zona limitrofa a dove dimora: un anfratto dell’Aventino. Tra i suoi furti aveva commesso l’errore di rubare ad Ercole una mandria di vacche e tori rossi che a sua volta l’eroe aveva sottratto a Gerione -la fiera bizzarra assunta all’Inferno ad allegoria della frode e che trasporta volando i due poeti nell’abisso a imbuto di Malebolge. L’astuzia di Caco nella sottrazione dei buoi fu quella di farli muovere all’indietro, tirandoli per le code, confondendo le tracce che Ercole avrebbe potuto seguire per rintracciarli. Ciononostante il potentissimo semidio riuscì a localizzare i bovini grazie ai loro versi e, per riprenderli, dovette confrontarsi fisicamente col ladro che cercò di incenerirlo con 142 una fiammata, ma che fu afferrato dalla poderosa stretta dell’eroe e morì stritolato da essa. In Dante, che varia, la morte avviene per randellate: cento; anche se verosimilmente, dice il poeta, non ne avrà sopportate cosciente e sentite nemmeno una decina. 143 100. “L Un Rapimento D’Amore a regina dell’etterno pianto” (Inf. IX) e anche “la donna che qui regge” (Inf. X) della profezia di Farinata, “qui”, cioè all’Inferno, è la bellissima Proserpina, la moglie di Plutone, il figlio di Saturno e Cibele, che il brusco Dio, innamoratosi di lei, rapisce e conduce nell’Ade. Regna col marito sul terzo dei regni di cui si compone l’universo e che egli si spartisce coi fratelli, Giove e Nettuno. È noto come, nel mito, ella trascorra solo sei mesi con lo sposo, nel cuore della terra mentre nei restanti sei torna in superficie con la madre Cerere che ne aveva chiesto la liberazione a Giove ed aveva ottenuto questo compromesso. Nei sei mesi in cui è chiusa sotto terra con lo sposo si avvicendano autunno ed inverno, mentre nei restanti sei ella torna a far esplodere la vita di primavera ed estate. Le feroci Erinni, o Furie, (Tesifone, Aletto, Megera, che secondo una leggenda nacquero dal sangue di Urano, fuoriuscito quando Crono lo evirò) alle sue dipendenze, si mostrano a Dante, minacciose, sulle mura di Dite quando i diavoli sbarrano loro il passo. Così come succede con molti altri personaggi e Dei della mitologia classica, o persino coi regni dei morti stessi degli antichi (Ade, Tartaro, etc.) e i loro luoghi specifici (Stige, Flegetonte, etc.) anche gli Dei sono assunti o assimilati da Dante, in qualche modo, nella cosmogonia infernale. 144 101. Il Malaugurio Innocuo Dell’Eneide N ella selva dei violenti contro se stessi, Dante viene a sapere che si annidano le Arpie (Inf. XIII). Il poeta riferisce al lettore come loro facciano versi e straccino gli arbusti che contengono le anime suicide facendole soffrire e sanguinare, ma procurando pure e al contempo uno sfogo alla manifestazione del dolore stesso, orribilmente sigillato nel vegetale animato. Orribili rapaci con volti di donne, nell’Eneide, sulle Strofadi, smerdano coi loro escrementi i cibi degli eroi troiani al seguito del prode Enea e una di loro, Celeno, spaventa tutti con una profezia che, apparentemente minacciosa, si rivelerà, invece, innocua. Avendo previsto che per terribile fame i troiani avrebbero finito per mangiare le loro stesse mense, ciò che si verifica è solo che una volta in Italia essi, finito il banchetto, si cibano anche di piatti commestibili preparati con farro essiccato. 145 102. D Una Sposa “Infedele” idone (Inf. V) è colei che, sbattuta dalla tempesta che agita le anime lussuriose, “ruppe fede al cener di Sicheo”, tradì la promessa di fedeltà fatta a suo marito Sicheo morto e al quale, nonostante le proposte di matrimonio da parte di Iarba, re dei Numidi, era rimasta fedele, fino all’arrivo di Enea, di cui si finì per innamorarsi. Cupido, sotto mentite spoglie, prendendo le fattezze di Ascanio, figlio dell’eroe troiano, accende in lei l’amore. Famosissimo e di straordinaria bellezza il verso virgiliano in cui la regina riconosce il sentimento provato tanto tempo addietro da lei stessa e ben riconoscibile, d’improvviso di nuovo accesosi nel suo petto: “agnosco veteris vestigia flammae”, (riconosco i segni dell’antica fiamma): il marchio di fuoco inconfondibile di chi ha amato. Abbandonata da Enea, il quale deve seguire il suo destino di “protofondatore” di Roma, Didone si uccide e finisce nell’Ade, dove si ricongiunge col marito. Didone viene vista da Enea, di passaggio per il Tartaro, mentre è in visita ultramondana a suo padre Anchise, finito nei Campi Elisi. Lei ignorerà l’eroe e freddamente non gli rivolgerà lo sguardo. 146 103. A Un Numero Incommensurabile paragone della sterminata quantità di angeli presenti in Cielo, Dante usa una figura piuttosto comune al suo tempo, e che rimontava a un leggendario racconto orientale. In esso l’inventore del gioco degli scacchi (Par. XXVIII) chiese al re di Persia, che voleva ripagarlo per l’impresa mirabile da lui portata a compimento, la quantità di chicchi di grano corrispondente alla somma totale del loro raddoppiamento per ognuna delle sessantaquattro case della scacchiera a partire dalla prima con un chicco e successivamente per ciascuna delle altre (la prima un chicco, la seconda due, la terza quattro e così via per tutte). Promesso alla leggera il compenso richiesto, che intuitivamente pareva di poco valore e abbordabile, solo successivamente, al tentativo di realizzare i calcoli esatti, il re si rese conto che tutti i granai del suo regno non contenevano cereale a sufficienza. Il numero in questione, infatti, è l’esorbitante cifra di due alla sessanquattresima, meno uno. Il numero delle intelligenze angeliche è ancor più grande: letteralmente incommensurabile, eppure non infinito, posto che se così fosse, anche l’esercito di angeli ribelli sarebbe infinito, essendone una percentuale di circa il dieci, e quindi una porzione anche essa infinita dell’infinito. 147 104. L Questioni Angeliche a conoscenza (Par. XXVIII-XXIX), il modo di conoscere, degli angeli non è certo come quello degli esseri umani. In essi non v’è scissione tra intelletto, volontà e memoria. Nell’uomo, invece, alla seconda precede la prima: prima si conosce e poi si decide. Inoltre tali creature non hanno memoria, posto che conoscono tutto direttamente presenzialmente in Dio. L’angelo non intende per procedimento di astrazione delle specie, a partire dalla percezione degli oggetti sensibili e non percepisce la scissione tra passato e futuro. Quindi non ha bisogno di ricordare, ma leggono direttamente dalla mente di Dio. 148 105. L Questioni Angeliche II e differenze tra gli angeli (Par. XXVIII-XXIX) sono dovute alla loro diversa vicinanza a Dio e in base ad essa sono disposti in uno dei nove cerchi che Dante vede roteare attorno al punto-Dio. Nei primi due cerchi, i più veloci, ci sono i Serafini e i Cherubini, i terzi sono i Troni, da dove rifulge il Dio giudicante. Successivamente a questi primi tre cerchi seguono quelli di Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli e Angeli. La ripartizione dantesca segue pedissequamente (perché quella vera, secondo il poeta e nell’economia del racconto) la classificazione che, in materia, fece Dionigi l’Areopagita, il quale “più addentro vide l’angelica natura e ‘l ministero”. Interessante la storia di Gregorio Magno che, sul punto, si discostò da quanto detto dall’altro autore e che, Dante viene a sapere da lui stesso, una volta in Cielo e contemplata la verità, rise del suo stesso errore. 149 106. I n Questioni Angeliche III meno di venti secondi le intelligenze angeliche si separarono tra coloro, la grande maggioranza (90%), che rimasero fedeli a Dio e coloro che seguirono Lucifero insuperbitosi di sé. Dante, come è noto “inventa” un terzo gruppo di angeli, confinato nell’AntInferno con gli ignavi: coloro che rimasero neutrali, e che, perciò, sono rifiutati tanto dai Cieli, che non vogliono essere meno belli a causa della loro presenza imperfetta, tanto dai ribelli degli inferi, che potrebbero su di loro, che non hanno saputo neppure prendere posizione, trarre qualche motivo di vanto. Ma bisogna tener presente che è la Grazia la causa del merito, e non viceversa (Inf. XIX). Il ricevere la Grazia è meritorio solo in proporzione all’affetto con cui si dispone a riceverla. Gli angeli che non si insuperbirono, e non seguirono Lucifero, quindi, non furono beati a causa della loro fedeltà, ma della loro Grazia. Rispetto a quelli neutrali, e quindi imperfetti, va precisato che seppure è incontestabile che la sistematizzazione dantesca di essi come convitti extrainfernali sia del tutto originale, l’esistenza del gruppo in sé non lo è del tutto, se è vera l’esistenza di opere anteriori alla Commedia che raccoglievano tale leggenda e se una di esse (riportata nel Parzifal di Eschembach) narra come agli appartenenti di questo terzo gruppo angelico fosse stato in principio affidata la custodia del Santo Graal: la coppa, secondo alcuni di smeraldo, in cui gocciolò il sangue taumaturgico del Cristo, e poi affidato a Giuseppe D’Arimatea. 150 107. A Un Vero Miracolo lla morte di Gesù si racconta che il Sole si oscurò (Par. XXIX) spontaneamente. Dante aveva fede che ciò fosse successo davvero e che fosse impossibile e errato ricercare spiegazioni scientifiche e fisiche che potessero avere ragione sull’avvenimento che, invece, doveva essere inteso semplicemente come miracoloso: oltre le meccaniche della natura e prescindendo da esse. A coloro che sostenevano invece che, forse, la Luna avesse potuto tornare indietro di sei segni provocando una eclissi, Dante contestava il fatto che essa avrebbe causato un fenomeno visibile solo in alcune regioni terrestri e certo non planetario, come invece si afferma nei Vangeli. È evidente qui come la meccanica delle eclissi, il cono d’ombra che esse proiettano, fosse già conosciuta nel Medioevo. Anche qui, come in altri passi dei due canti sugli angeli (XXVIII e XXIX del Paradiso), il poeta tuona contro coloro, teologi, commentatori e, peggio, predicatori (da strapazzo), che per smania di risultare originali e affascinare le masse, si soffermano e procedono per sottigliezze, mistificando la verità, a volte lineare, delle scritture. Esempio celebre di beceri profittatori, dell’altrui ignoranza e semplicità, sono i monaci Antoniani: dei “porci” che spacciano moneta falsa per circuire gli ingenui ed ottenere i proventi che usano, non solo per allevare i loro maiali (erano infatti noti per gli allevamenti di questa specie animale, simbolo del diavolo tentatore con cui era ritratto il loro capostipite San Antonio), ma pure i loro figli illegittimi e le loro concubine. 151 108. L Uno Sdegnoso Epicureo Fiorentino ’accanimento dei fiorentini contro il ghibellinissimo eretico epicureo Farinata degli Uberti (Inf. X) soprannome di Manente degli Uberti, fu principalmente dovuto alla valida manforte data per la vittoria dei ghibellini a Montaperti contro la sua stessa città –Firenze-, ed è diventato leggendario. Dante, che intrattiene con il politico di opposta fazione il famosissimo dialogo, fa allusione alle vicende. Farinata morì nel 1264, ma nel 1283 si celebrò contro di lui un processo per eresia, che si concluse con la sua condanna postuma, come eretico cataro. Nel Medioevo non era infrequente la celebrazione – inutile e irrazionale- di processi contro estinti o contro animali. Le sue spoglie, sepolte da diciannove anni nella chiesa di Santa Reparata, e quelle di sua moglie Adeletta, furono esumate e gettate in Arno, i loro beni confiscati agli eredi e questi banditi. A causa della faziosità politica di Manente, gli Uberti tutti furono sempre esecrati dal popolo e mai inseriti negli editti di condono e amnistia, con tutto che quel fiero e autoritario personaggio avesse, come Dante fa ricordare a lui stesso, difeso la città di Firenze, unico tra tutti, quando gli altri –ghibellini di Pisa e Siena- si proponevano di distruggerla completamente: “torre via Fiorenza”, raderla al suolo. 152 109. Un Crudele E Infame Politicante F ulcieri da Calboli (Purg. XIV) politico sanguinario e crudele, fazioso e opportunista, di cui il poeta sparla con un suo antenato in Purgatorio, viene paragonato a Polifemo (“assuetum rictus humano sanguine tingui”: aduso a intingere il muso nel sangue umano). Polifemo è il leggendario ciclope che nell’Odissea, sentendosi appartenere a una genia più forte addirittura di quella degli Dei stessi, non si ritiene minimamente vincolato dalla pietas, né tantomeno dal dovere di ospitalità e prende a divorare orribilmente uno ad uno i compagni di Ulisse, promettendo a questo, per scherno, come “dono di ospitalità”: che lo mangerà per ultimo. Fulcieri fu podestà e Capitano del popolo di Milano, Parma, Modena, Bologna e Firenze. In quest’ultima città continuò con ferocia, per parte dei neri, le persecuzioni contro i bianchi, iniziate da Cante dei Gabrielli, che aveva esiliato Dante, e da Gherardino da Gambara, per puro interesse personale non si faceva scrupoli a uccidere. 153 110. L Una Amante Focosa a sorella del tiranno all’Inferno Ezzelino III da Romano, Cunizza (Par. IX) era nata con una straordinaria propensione all’amore, ed è assunta, infatti, pentitasi in vecchiaia dell’eccesso di libido con cui trascorse una vita licenziosa, nel cielo di Venere. Ebbe tre mariti e numerosi amanti, tra i quali, pare, anche il trovatore Sordello da Goito, che Dante vede in Purgatorio sulla valletta dei principi, in disparte, e con cui fu protagonista di una stupenda avventura tipicamente medievale. Da lui, menestrello, fu infatti rapita e si favoleggia di una loro storia d’amore. Negli ultimi anni di vita, pentitasi dei suoi trascorsi e della sua vita di facili costumi e piaceri, adottò quella di mortificazione. Morì ultraottuagenaria a Firenze dove potrebbe darsi che Dante abbia avuto modo di conoscerla ed elaborare la storia della sua salvezza eterna. 154 111. S Il Cardinale Ateo econdo epicureo segnalato da Farinata come compagno di pena nell’avello -il sepolcro- che lo accoglie, dopo Federico II di Svevia, è il cardinale Ottaviano degli Ubaldini (Inf. X), nominato semplicemente “il cardinale”, come era costume appellarlo all’epoca. Di nobile famiglia ghibellina, parte politica che egli appoggiò sempre e senza flessioni o tentennamenti in vita, appartiene a quel gruppo di eretici che “l’anima col corpo morta fanno”, cioè che pensano che l’anima, se esiste, muoia col corpo. L’Ubaldini soleva sostenere: “io posso dire, se è anima, che l'ho perduta per la parte ghibellina”. Fu, infatti, persona mondana e certamente atea nonostante la carica ecclesiastica. Inviato da Papa Alessandro IV a combattere contro il figlio naturale di Federico II e Bianca Lancia, il famoso Manfredi di Sicilia, si accordò con lui in una pace tanto poco conveniente che il pontefice non fu in grado di accettarla. 155 112. E Un Antico Politico Senza Pari sempio di estrema integrità pubblica e privata dell’antica Repubblica romana è Tito Quinzio, o Cincinnato (Par. IX e XV), così chiamato per il “cirro negletto” o ciuffo arruffato, etimologia errata e di probabile origine “uguccionesca”, come l’altra erronea, quella degli ipocriti, -l’autentica vale: “ricciuto”. Egli, eletto dittatore, magistratura straordinaria che a Roma era temporanea e conferita in momenti di particolare emergenza bellica, rinunciò ad ogni compenso ed onore dopo aver condotto l’esercito romano alla vittoria sugli Equi. Così come aveva lasciato l’aratro per prendere le redini della guerra, dismise l’attività politica e tornò alla coltivazione del suo orto dopo il successo. Esattamente come accade ancora oggi! 156 113. G Politico Fiorentino Sodomita uido Guerra (Inf. XVI) che “fece col senno assai e con la spada”, sesto dei conti Guidi di Dovadola, fu condottiero di parte guelfa di Firenze. Cacciò i ghibellini da Arezzo nel 1255 e condusse contro Manfredi a Benevento i fiorentini divenuti esuli, come lui, a seguito della sanguinaria battaglia di Montaperti. È tra i tre vecchi politici fiorentini e sodomiti che Dante tratta con la deferenza raccomandatagli dalla sua guida mentre girano in tondo come fanno i lottatori, studiando la presa prima di lanciarsi nel contatto fisico. I tre sono costretti a questa strana “danza” dato che non possono fermarsi per prescrizione penale divina se non vogliono incorrere nella punizione aggiuntiva di sopportare per cento anni la pena riservata ai bestemmiatori, i quali sono puniti come loro (e gli usurai) “sull’orribil sabbione” e colpiti dalla pioggia di fuoco che cade, lenta come neve alpina quando non c’è vento, ma distesi e senza potersi muovere e riparare un minimo dalle bruciature. 157 114. U Il Simbolo Del Timone na leggenda medievale voleva che la croce di Cristo fosse stata costruita con il legno di un albero nato da un virgulto di quello proibito del Paradiso Terrestre. Lo stesso legno che aveva portato all’uomo la morte, portava, infine, anche la redenzione. Il timone (Purg. XXXII) del carro allegorico che Dante vede nella processione a cui presenzia sul Paradiso Terrestre, sarebbe fatto dello stesso legno. Se così fosse il timone sarebbe simbolo della croce e con esso Cristo stabilirebbe un “ponte” tra l’umanità e la giustizia divina offesa da Adamo. 115. D Un Vero Nobiluomo Dell’Epoca i Ugo di Toscana, morto nell’anno milleuno, margravio di Ottone III -titolo usato sotto il Sacro Romano Impero e corrispondente a quello di marchese, dal tedesco mark e graf, “conte della marca”- si narrava che, grandissimo uomo e generoso, avesse fatto costruire ben sette badie, regalate poi alla città. I fiorentini del tempo di Dante ancora ne celebravano la generosità all’anniversario della sua dipartita, il giorno di San Tommaso. 158 116. L Un Amore Disperato a ninfa Eco (Par. XII) non corrisposta nel suo amore per il bel Narciso (Inf. XXX, Par. III), finì per consumare se stessa nel disamore tanto che di lei rimasero solo ossa e voce. Le ossa, poi, furono dagli Dei mutate in pietra, e solo la voce rimase viva di lei, vagando nell’aria. Narciso, ripreso innumerevoli volte in poesia, finì, come è noto, per innamorarsi del suo stesso riflesso, mentre si specchiava nella fonte. Memorabili, ad esempio, i versi d’amore che riprendono il mito, nel trovatore Bernart de Ventadorn, e nella già citata “can vei …” rivolgendosi all’amata: miralhs, pus me mirei en te, Specchio, da quando in te mi specchiai m’an mort li sospir de preon, m’han distrutto i sospiri profondi (d’amore) c’aissi·m perdei com perdet se sicché mi persi come si perse lo bels Narcisus en la fon. il bel Narciso nella fonte. È senza dubbio stupendo il verso ovidiano che descrive l’innamoramento del giovane per se stesso: “dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet”, (e così desidera ed è desiderato e accende e brucia al contempo). Ad esso si riferisce Dante, paragonando due situazioni diverse, quando dice in Paradiso di esser caduto nell’errore opposto a quello realizzato dal giovinetto, il quale si innamorò dell’immagine riflessa credendola reale, mentre lui, crede riflessi dei volti reali, tanto che si gira per cercare le persone erroneamente credute ad origine delle figure che osserva e che lo osservano, ma che non sono affatto dei riflessi. 159 117. L Come La Sibilla a visione ultima di Dante (Par. XXXIII) scema nella sua mente e, per descrivere tale spegnimento nella memoria, egli isola due paragoni, uno attinto dal mondo naturale, l’altro dal mito. Conferisce con ciò al fenomeno uno stupendo alone di mistero e levità, utilizzando: neve e foglie, sciogliersi e confondersi nel vento: Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. La seconda figura è ripresa dall’Eneide, dove la maga Sibilla, prima di accompagnare Enea da suo padre defunto, è vista esercitare le sue arti, incurante di riordinare le foglie sparse dal vento su cui legge le sue vaghe profezie: “…verum eadem, verso tenuis cum cardine ventus impulit et teneras turbavit ianua frondes…”. Il verso dantesco fa allusione al modo di divinare di lei, che, nella sua grotta, disponeva ordinatamente le foglie per scrivere il responso e che il soffio del vento disperdeva e cancellava per sempre. 160 118. P Leggende Su Origini Etniche are probabile che dinanzi al caminetto, la sera in famiglia, si raccontasse la leggendaria fondazione di Firenze, avvenuta, secondo il mito, da parte dei Romani direttamente discendenti da Enea, il quale, come narra l’Eneide, fuggito da Troia in fiamme arriva in Italia, e dà l’abbrivo alla fondazione di Albalonga e poi definitivamente a quella di Roma. Il mito popolare voleva che, distrutta Fiesole, città dei partigiani del controverso Catilina, i romani scendessero per fondare, appunto la città di Firenze. Dante, che riprende il racconto pur consapevole del fatto che si tratta di una fantasia, attribuisce al residuo fiesolano componente della popolazione (Inf. XV, Par. XV e VI) l’inclinazione all’ingratitudine e alla malignità dei suoi concittadini, mentre, per bocca di messer Brunetto, che narra questa leggenda nel suo Tesoro, riserva esplicitamente a sé, e alla sua integrità invidiata, origine dai romani virtuosi. I fiorentini sono “lazzi aspri”, rozzi e simili a capre, mentre Dante è il “dolce fico” nella tirata del suo maestro Bunetto. Altra leggenda, pure essa ripresa da Dante (Inf. XXV), vuole che Pistoia, “degna tana” di una bestia del calibro di Vanni Fucci, sia stata, invece, fondata proprio dai resti delle truppe di Catilina sconfitte presso “Campo Picen” (che però non è nel Piceno). Ciò giustificherebbe la rozzezza di modi e la pochezza d’animo dei suoi abitanti. 161 In Dante, Piceno è attribuito alla zona di Pistoia per confusione di quanto riporta Sallustio, su Metello quando muove contro Catilina. Il Piceno è notoriamente la zona di Ascoli e non di Pistoia. 162 119. I Gli “Avelli” Degli Eretici l sepolcreto (Inf. X) che accoglie gli eretici, un campo disseminato di tombe aperte e che saranno sigillate alla fine dei tempi e per l’eternità, somiglia a quello provenzale di Arles, anticamente luogo di sepoltura romano e poi cimitero cristiano. La leggenda medievale, narrata da Boccaccio, Benvenuti e altri, voleva che le tombe fossero sorte miracolosamente, una notte, per dar sepoltura ai guerrieri cristiani caduti sul campo contro i Saraceni. 120. Una Vendetta Alquanto Esagerata E liseo è indicato nella Commedia in un emistichio come “colui che si vengiò con gli orsi” ovverosia come quel profeta che si vendicò per mezzo di orsi, dato, che, da racconto biblico, egli maledisse nel nome di Dio dei ragazzini che sbeffeggiavano assai insolentemente la sua calvizie. Due orse allora uscirono dalla boscaglia e sbranarono quarantadue degli schernitori, ragazzi! 163 121. I I Geomanti geomanti (Purg. XIX) letteralmente dal greco “indovini della terra”, traevano i loro oroscopi da segni tracciati a caso sulla sabbia, o con sabbia gettata su una superficie, congiungendoli con linee che permettevano di identificare sedici diverse figure, dal nome latino, e di significato oroscopico e divinatorio. L’origine di questa “arte” è però orientale, persiana, e si diffuse e praticò anche in Italia, per intermediazione araba, fin oltre il Rinascimento. Una delle figure conosciute della geomanzia era la Fortuna Mayor, a cui probabilmente si riferisce Dante. Essa formava una figura simile a quella ottenuta unendo parte della Costellazione dell’Acquario con parte di quella dei Pesci. Tale figura è osservabile solo all’alba di primavera quando i due segni sorgono e sono visibili insieme (sono uno successivo all’altro, infatti) poco prima che la luce del giorno ne sovrasti la brillantezza. 164 122. I Gerione l Gerione dantesco è una bestia alata e mostruosa, dai molteplici attributi allegorici, che ne fanno un’immagine di frode, ma nel mito lui era un re, di una o varie isole iberiche, composto di tre corpi giganteschi uniti al ventre, o semplicemente tricefalo. Il mito classico lo vuole nipote di Medusa e sconfitto da Ercole che, su incarico di Euristeo, era andato a prendere il gregge di bovini rossi che lui custodiva ed alimentava con carne umana di malcapitati che ospitava per poi uccidere. Si tratta dello stesso bestiame che poi Caco sottrasse proditoriamente all’eroe, perdendo a causa del furto e a sua volta, la vita. Gerione è presente anche nell’Averno virgiliano che lo definisce: “forma tricorporis umbrae”. In Boccaccio egli accoglieva gli ospiti benevolmente e poi li assassinava e derubava nel sonno. A questa ultima versione forse Dante si spira per farne la personificazione della frode e sfigurarlo terribilmente. In Dante, ricordiamolo, esso è una bestia demoniaca con volto d’uomo giusto, corpo di serpente bizzarramente arabescato come un ricco tappeto turco o dei tartari, zampe pelose da belva, e una coda di scorpione biforcuta. 165 123. D Un Incontro Tra Grandi Uomini ella vita di San Francesco (Par. XI) Dante isola alcuni momenti precisi, ed il quarto di essi riguarda la leggendaria visita che egli realizzò al Sultano Curdo al- Malik al-Kāmil, mentre, nel suo viaggio in Terrasanta del 1219, durante la quinta crociata, col seguito di dodici frati, si era mosso per cercare di convertire alla fede cristiana il popolo musulmano. Dell’incontro si narra che il sultano lo ricevette con grande cortesia, lo ascoltò con attenzione e senza ostilità, e che accompagnò con vari doni il diniego alla conversione che quello gli proponeva, apprezzando comunque gli sforzi del sant’uomo per metter fine ai combattimenti e allo spargimento di sangue. 124. C Il Senso Di Avere Una Guida ome Dante è guidato da Virgilio, così il protagonista del poema di quest’ultimo, Enea, era stato accompagnato nell’Averno dalla Sibilla (Inf. IX). Anche la maga rassicura l’eroe troiano di esser già stata e per due volte in quel triste luogo, ed anche lei fa coraggio al suo accompagnato al momento di entrarci, proprio come fa Virgilio prendendo per mano Dante. 166 125. L Una Vendetta Pietosa Ed Empia ’epigono Alcmeone (Par. IV, Purg. XII) pur di non mancare alla promessa fatta a suo padre Anfiarao, caduto nella guerra dei sette re contro Tebe, uccise sua madre Erifile: pietoso e impietoso al contempo. Lei, infatti, pur di avere la collana di Armonia realizzata da Vulcano, aveva rivelato a Polinice il nascondiglio dello sposo Anfiarao, che era deciso a evitare la spedizione dato che, indovino che era, aveva presagito che vi avrebbe trovato la morte. Zeus, difatti, con un fulmine aprì una voragine da dove lui precipiterà, direttamente all’Inferno dantesco, come anche succede al compagno di battaglie Capaneo. Anfiarao, però, a differenza del gigante blasfemo, finirà tra i maghi e indovini, che per pena girano per la loro Bolgia con la testa totalmente ruotata all’indietro di centottanta gradi. Prima di morire sua madre maledisse Alcmeone, e lui impazzì, inseguito dalle Erinni (o Furie), urlanti Dee del rimorso, che Dante vede sulle mura di Dite. 167 126. N Ucciso Da Un Morto esso, centauro che pattuglia il Flegetonte con il famoso precettore Chirone e Folo, si vendicò da sé della sua morte, ricevuta per mano del possente Ercole (Purg. IX), che lo aveva ucciso con un dardo avvelenato del sangue dell’Idra di Lerna, mentre cercava di rapire e violentare sua moglie Deianira. Sfruttando la gelosia della consorte di lui, che non sopportava la promiscuità del suo indomabile e incontenibile sposo, le fece dono di una camicia intrisa del suo sangue, che a detta sua, gli avrebbe fatto riconquistare l’amore del marito. Se gliela avesse fatta indossare qualora lui avesse mostrato interesse per altre donne, lui sarebbe tornato da lei. Quando Ercole fu preso dalla passione per la bella Iole, figlia del re della Tessaglia, lei lo indusse ad indossare la camicia avvelenata, e l’eroe impazzì e arse per il contatto col sangue tossico del centauro che egli stesso aveva ucciso. 168 127. N Meteorologia Medievale ella scienza del tempo, e in Ristoro d’Arezzo, nella sua “Composizione del mondo”, i fulmini e le stelle cadenti erano vapori ignei (o accesi) e le nubi vapori acquei (Inf. XXV, Purg. V). Nella meccanica della meteorologia Dante sembra aderire alla scuola dell’autorevole Aristotele, la cui parafrasi troviamo in Alberto Magno. Riassumendo, i vapores caldi e secchi esalanti dalla terra, mescolati ai vapori freddi e umidi, (nella teoria umorale caldo-freddo e secco-umido, sono coppie di attributi dei quattro elementi: aria-fuoco-terra-acqua) una volta ascesi alla zona fredda dell'aria, rimangono in parte imprigionati nelle cavità dei vapori umidi delle nubi. Queste ultime, man mano che si raffreddano e condensano, comprimono al loro interno il vapore o spiritus secco e sottile fino a provocarne la violenta fuoriuscita, con l'effetto del boato (il tonitruum) e dell'improvvisa inflammatio o ignitio, accensione. Tale fenomeno fiammeggiante veniva poi distinto in: bagliore vermiglio (coruscatio), balenante saettare in aria (fulgur) e impetuosa caduta a terra (fulmen). La meccanica dei vapori è pure responsabile del maggior rossore di Marte in certe situazioni climatiche, quando i vapori sul mare sono più spessi, cioè al mattino. Marte nel Convivio è descritto come il pianeta che “dissecca e arde le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco” (Cv II XIII 21). 169 128. I Un Colore Particolare l colore perso, citato in molteplici occasioni nella Commedia (Purg. IX) è una tinta rosso scuro, sul granata, che Dante nel Convivio definisce un “colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero”. Più che “persa”, quindi totalmente buia e oscura è l’acqua dello Stige, sul suo fondo gorgogliano gli accidiosi, quelle anime avvolte dal nero fumo -nebbia fitta- che in vita gli avvolgeva lo spirito. Perennemente tristi sulla Terra, pure dinanzi al brillare del Sole, ingrati ontologicamente, ora sono avvolti dal nero fango della palude (“belletta negra”), costretti a cantare, senza terminarla per l’acqua che gli penetra in gola, una nenia, una parodia di liturgia. 170 129. I Il Fuoco l fuoco, spesso usato in Dante anche come simbolo di ira, ma anche di amore (ardente), nella scienza medievale, è materia indefinita la cui forma è la fiamma, come l’anima, separata dal corpo prende forma nel corpo etereo (Purg. XXV). Esso è usato anche per descrivere la natura dell’amore. In terzine molto controverse e costellate di termini filosofici sono chiariti due momenti del fenomeno dell’amore, grossomodo: la facoltà conoscitiva umana ricava dalla realtà l’immagine che poi ripiega nella propria mente, cioè conosce astraendo dalla realtà sensibile una immagine. Questo momento è preliminare all’amore, posto che per la filosofia scolastica l’uomo ama solo ciò che conosce. Successivamente, ecco che dalla conoscenza nasce l’amore, l’animo, rivolto verso l’immagine, si inclina verso di essa riconoscendola amabile e passando così dall’amore naturale, innato, a quello d’animo. Questo secondo momento, l’animo inclinatosi verso l’oggetto amato, è paragonato al fuoco che si dirige verso l’alto, per sua forma che è creata con la tendenza a salire. Il fuoco però non è dotato di facoltà di scelta, mentre l’uomo sì. 171 130. D Invocazioni Di Dee Pagane ante, come è noto, invoca le Muse per averne l’appoggio nella stesura della sua ardua opera. Prima di entrare all’Inferno le invoca genericamente tutte, lanciando poi la “sfida” alla sua “mente che non erra” (di cui si dovrà palesare la “nobilitate”), e tirando in ballo anche l’alto ingegno di cui sa di essere dotato. All’inizio del Purgatorio torna a rivolgersi a loro consacrandosi integralmente, e chiedendo l’appoggio specificamente di Calliope, somma tra le Dee. Infine, per affrontare l’impresa di raccontare il Paradiso, dice di aver bisogno dell’appoggio di ambedue le cime del Parnaso, vale a dire d’Elicona, e di Cirra. Nell’una vivono le nove Muse, nell’altra il Dio Apollo stesso. La prima cima, o “giogo” fa conoscere le cose temporali, la seconda, quelle eterne. Apollo, quindi, ispirerà le cose divine, le Muse quelle poetiche. In momenti particolari dell’opera, comunque, realizza altre invocazioni: una specifica è presente anche sulla cima del monte Purgatorio (Purg. XXIX) dove, prima si rivolge a tutte loro, ricordando di aver sofferto per esse fame, freddo e sonno, poi chiede aiuto a una in particolare di loro nove: Urania. Lei è preposta alla conoscenza degli astri e alla scienza celeste (costellazioni e loro influssi). 172 131. E Un Erudito Beato lio Donato (Par. XII) grammatico del IV secolo autore del diffusissimo libro di testo scolastico Ars Grammatica, il corso di grammatica latina più completo dell’epoca, e distinto in Ars minor, grammatica elementare, e Ars maior, che spazia dall'alfabeto ai tropi, e anche commentatore e biografo di Terenzio e Virgilio, si trova tra teologi e profeti, i sapienti del Cielo del Sole. La sua ubicazione non va presa come una stravaganza, bisogna infatti ricordare come tra le sette arti liberali, le quattro del quadrivio e le tre del trivio, la grammatica fosse la prima. Le artes sermocinales: grammatica, retorica, dialettica; e le artes reales: aritmetica, geometria, astronomia, musica. 173 132. D Malcostume Ecclesiastico opo il Vangelo, la massima autorità per la verità sono gli scritti dei dottori della Chiesa: con essi e per essi si medita sulle Sacre Scritture e si guida il gregge dei credenti verso il Vero. Invece di dedicarsi a questa altissima attività, Papi e cardinali trascurano i testi che trasmettono la fede e si dedicano alle decretali (Par. IX): i testi di diritto canonico, strumento del potere temporale. Vennero così chiamati i decreti pontifici, successivi alla Concordantia discordantium canonum di Graziano, detto “di Chiusi”, ma invero di Orvieto, che sistematizzò tutte le leggi ecclesiastiche della tradizione. La pratica delle decretali, che divennero presto strumento di esercizio dell’avidità attraverso il diritto civile, fu oggetto di critiche e satire, già alla metà del secolo XII. San Bernardo, nel suo De Consideratione (ma Dante non pare conoscerlo) ammoniva il papa Eugenio III a “reprimere gli abusi di litigi e cavilli legali nella vita della Chiesa e, specialmente, nell'attività giurisdizionale accentrata in Roma”. Il grande decretalista Enrico di Susa, l'Ostiense, viene, esemplarmente, nominato (Par. XII) come oggetto di un affanno di studi tutto rivolto a conseguire successi e vantaggi mondani. 174 133. L ricavate Astronomia Di Origine Araba e nozioni di astronomia, da cui Dante attinge per trapungere tutta l’opera di note tecniche e scientifiche e esatti rilievi orari e astronomici, sono probabilmente dal manuale arabo dell’astronomo Alfragano: Liber de aggregationibus stellarum. Tra esse il Cielo di Venere, per esempio, (Par. IX) è designato come quello in cui “s’appunta”, termina, il cono d’ombra proiettato dalla Terra nello spazio. In verità il cono d’ombra terrestre è molto meno esteso di quanto vorrebbe l’antico: un milione e mezzo di chilometri, fronte alla distanza di Venere di cinquanta milioni di chilometri. E ancora: il calcolo delle volte che Marte è passato nel segno del Leone, (580) dal giorno dell'Annunciazione a quello in cui nacque il beato cavalier Cacciaguida –il bisavo di Dante-, è eseguito sulla scorta di quanto calcolato dall’arabo stesso, che individua in 687 giorni un anno marziano, ed essi equivalgono, nel caso specifico, a 1091 anni solari terrestri. Sempre tramite Alfragano e il suo testo, Dante avrebbe potuto avere notizia delle tre stelle delle costellazioni australi della Nave e dell’Eridano con cui sono molto incertamente identificate le “tre facelle” del Canto Primo del Purgatorio. 175 134. A Decrepitezza Perpetua urora, la Dea del mattino, si invaghì del bel figlio di Laumedonte, fratello di Priamo, Titone (Purg IX) lo rapì e presolo in sposo ottenne per lui da Giove l’immortalità. Dimenticò però di chiedere l’eterna giovinezza e quindi quello continuò ad invecchiare inesorabilmente. Da questo mito l’appellativo di Dante “antico” al riferirsi a lui. 135. P Il Pianeta Venere ur sapendo che si trattava della stessa stella, il pianeta Venere (Par. VIII) aveva, presso gli antichi, due nomi diversi a seconda che apparisse di sera o al mattino: Vespro e Lucifero. Il Sole pare corteggiare Venere mentre il pianeta appare nel cielo, precedendolo all’alba e dandogli le spalle e seguendolo appena dopo il tramonto quando si lascia “guardare in volto”. 176 136. Una Frase Forzata, Ma Saggia A nche in Purgatorio, come all’Inferno, assieme agli avari ci sono i prodighi. Tra essi Dante incontra il poeta Stazio, giusto nel momento in cui finisce di scontare la sua pena. Della prodigalità di Stazio in vita non si hanno notizie altre che una indiretta allusione di Giovenale, il quale riporta che se lui –Stazio- non avesse venduto i diritti di una sua opera inedita, non avrebbe avuto di cui sfamarsi. Interessante, tra tantissime altre questioni che fanno amare questo personaggio (ci si affeziona davvero) come Stazio affermi di essere stato indotto a riflettere sul suo peccato, e a pentirsene e correggerlo, meditando su un passo dell’Eneide di Virgilio: cioè sull’opera di un pagano da cui già aveva attinto il necessario per la sua intima e occulta conversione al cristianesimo (invenzione di Dante questa, come è ovvio, ma sulla scorta di un leggendario pregiudizio: è famoso che l’egloga IV delle Bucoliche fosse ritenuta fonte di varie conversioni al cristianesimo. Addirittura il fatto che Virgilio non fosse cristiano aveva fatto avvistare da qualcuno San Paolo in lacrime sulla sua tomba). Torniamo alla frase. Nell’episodio di Polidoro, assassinato da Polimnestore, e tramutato nel cespuglio sanguinante, da cui Dante riprende l’idea dei pruni della selva dei suicidi, il poeta fa dire: “Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?” -a cosa non spingi il cuore degli uomini, tu esecrabile fame dell’oro?-. Dante, forzando il senso lineare della frase, lo ribalta facendone una invettiva contro la prodigalità, invece che contro l’avidità, e conferisce al termine sacer il 177 senso errato di “sacro”, invece che quello corretto di esecrabile o esecrando. In tal senso fa dire a Stazio (Purg. XXII) “Perché non reggi tu, o sacra fame de l’oro, l’appetito dei mortali?”; cioè il saper gestire con rettitudine le ricchezze, saperle rispettare ed amministrare con saggezza e oculatezza. 178 137. E Ecuba, Una Regina Del Medioevo cuba (Inf. XXX) è la triste moglie, in seconde nozze, di Priamo che vede morire tutti i suoi figli: gli ultimi Ettore e Polidoro. Secondo un mito diede a Priamo, diciannove figli, i più conosciuti oltre Ettore e Paride, sono: Deifobo, Eleno, Polidoro, Cassandra, Polissena. Il resto della discendenza il re la aveva avuta da altre donne, concubine e schiave fino ad arrivare al leggendario numero di cinquanta figli. In Euripide, però, i cinquanta figli di Priamo sono addirittura tutti frutto di relazioni con Ecuba. Dopo la caduta di Troia la regina dovette seguire Ulisse come schiava. Fu nel Chersoneso Tracico che scoprì il cadavere del suo ultimo figlio ancora in vita, Polidoro, assassinato dal re Polimestore a cui era stato affidato con molte ricchezze, purché lo salvasse e che quello aveva, invece, ucciso per pura avidità. Dopo la atroce scoperta, Ecuba, avvicinato con una scusa Polimestore con i figli, e con l’aiuto delle altre donne troiane prigioniere, uccise la di lui discendenza e accecò il padre, gli strappò gli occhi. Poi, trasformata in cagna, si gettò in mare. In una notissima canzone medievale, -Oh Fortuna, dei Carmina Burana- è citata ad esempio di vicenda sfortunata e truce, sottomessa ai colpi della sorte. 179 138. S Viaggiatori Ultramondani olo Dante fa un viaggio attraverso tutti e tre i regni dei morti, molti altri però sono scesi agli inferi, o hanno avuto visioni del Paradiso. Anzi quello dell’esplorazione dell’altro mondo potrebbe addirittura assumere il valore di sottogenere letterario a sé stante. Tra i più famosi personaggi oltre a San Paolo ed Enea, citati esplicitamente nel canto I dell’Inferno proprio per esprimere la sua stessa titubanza –di Dante- ad intraprendere un percorso tanto impegnativo e riservato, fino ad allora, solo a grandi personaggi della vicenda umana, si conosce anche la storia di Ulisse che, nella terra dei Cimmeri, abitanti di un non ben individuato “settentrione”, scende nel Tartaro per recarsi ad incontrare Tiresia e dove parla anche con sua madre. 180 139. L Tre Facce ucifero (Inf. XXXIV), il re (“vexilla regis prodeunt”), l’imperatore (“’mperador del doloroso regno”) ha tre facce, una nera, una gialla, e l’altra rossa, è una antitesi trinitaria fatta di impotenza, ignoranza e odio. In Dante però, dato che nella sua opera non si deflette mai dalla questione politica –la politica e la storia sono guidate e osservate dal suo accigliato Dio- ecco che Lucifero si occupa personalmente di due personaggi storici responsabili di tradimento politico. Oltre a Giuda, maciullati nelle altre due fauci e spellati dagli artigli del mostruoso demone, si trovano Bruto e Cassio. Il primo peccatore, Giuda, ha tradito la maestà divina, e gli altri due quella imperiale. Bruto, è il figliastro di Cesare che cercò di restaurare la Repubblica e si uccise dopo la rotta di Filippi subita per mezzo di Ottaviano. Cassio (Longino) è il suo amico e altro congiurato contro Cesare, descritto per errore (perché confuso con Lucio Cassio, che seguì Catilina) come robusto e corpulento. 181 140. I Quando I Sogni Dicono Il Vero l verso: “…presso al mattin del ver si sogna”, nell’attacco a invettiva contro Firenze, dove Dante finge di aver sognato la distruzione dolorosa, ma ineluttabile, della sua opulenta e arrogante città, allude a una antica credenza, comune anche nel Medioevo, secondo la quale i sogni (Inf. XXVI Purg IX) fatti verso le ultime ore della notte, e sul limitare dell’alba, sarebbero i più veritieri, dato che l’anima è più lontana dalle impressioni sensibili ricevute durante la giornata. L’idea ha ascendenze antiche, per esempio Ovidio: “Namque sub aurora iam dormitante Lucina, Tempore quo cerni somnia vera solent”, ma ha anche origini orientali, neoplatoniche-arabe. 182 141. D Vicende Pre-eroiche al momento che sapeva che il figlio avrebbe perso la vita nella guerra di Troia, presa da apprensione materna, Teti, rapì il dormiente Achille (Purg. IX) e lo nascose da Chirone, il saggio centauro pedagogo, sull’isola di Sciro, affinché si salvasse. Lì dimorò alla corte di re Licomede, assieme alla figlie di lui, travestito da fanciulla –alquanto umiliante! Fu in quella occasione però che concepì con la bella Deidamia il crudele Pirro, il quale nell’Eneide entra “insultans” nella rocca invasa per mezzo del trucco del cavallo, e fa scempi, a Troia. È lui che uccide, tra gli altri Priamo e rapisce Polissena e forse è lo stesso a cui Dante si riferisce facendolo nominare tra i violenti a lesso nel Flegetonte. Suo padre Achille stette in pace e al sicuro nel suo rifugio prebellico fino a quando, con un trucco, non fu scoperto dallo scaltro Ulisse, che lo era andato a cercar lo per condurlo alla gloria eterna dei campi di battaglia. Si narra come per riconoscerlo tra le fanciulle, facesse recapitare tra vari abiti in dono alle stesse anche una spada. Il giovane naturalmente attratto da essa non seppe resistere, e branditala finì per svelarsi. A quali prototipi maschili siamo oggi abituati? Il mito racconta che Achille, avendo dovuto scegliere e essendogliene offerta la possibilità, con grave dolore per la madre Teti, la semidea, preferì comunque liberamente, a una vita lunga e anodina dove invecchiare e morire nell’anonimato e la tranquillità, una morte precoce e cruenta, ma eroica, diventando un eroe, forse L’eroe! 183 142. L Impudiche Selvagge a Barbagia (Purg. XXIII) è una regione di Sardegna in cui vivevano stirpi di Mauritani deportate lì dai Vandali, che si dedicavano al ladroneggio. È usata da Dante, ma non solo, ad antonomasia di terra dai costumi barbarici, rozzi e primitivi. Nella fattispecie viene accostata ai costumi dei suoi contemporanei fiorentini, corrotti, e in particolare a quelli delle donne, impudiche al punto da andare in giro mostrando i capezzoli, come potevano fare solo le femmine preistoriche. I costumi della Firenze dei tempi di Dante sono, per il poeta, addirittura peggiori di quelli di una terra semiselvaggia, abitata da popoli ostili all’ordine e al potere costituito e con donne incolpevoli della loro impudicizia dato che ignare perché, appunto, ancora incivili. 184 143. P Le Dimensioni Contano rima di essere interrotto dalla incomprensibile frase dell’inebetito gigante Nembort, Dante realizza un ragionamento prolisso e che pare quasi dettato dallo sgomento e dalla paura per avere a che fare, e dover presenziare alla vista di creature tanto possenti e di dimensioni così spropositate come lo sono i giganti del pozzo dove deve calarsi per visitare l’ultimo tratto di Inferno e vedere Lucifero. La Natura è certo stata previdente quando ha smesso di formare -quasi fosse un’artista: “smise l’arte”- creature come i giganti, posto che seppure non è paga del tutto e non si pente di sfornare elefanti, balene, e consimili mastodonti (Inf. XXXI), a chi analizza sottilmente, non sfuggirà la sua saggezza, dato che il vero pericolo si crea laddove alle dimensioni, e alla relativa possa fisica, si aggiunge anche la caratteristica umana dell’intelletto e quindi della possibile cattiva volontà. Dice il poeta che contro l’unione di possa e cattiva volontà nulla si può, posto che la capacità di nuocere diviene immensa. In altra parte (Inf. XXIII, “Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa”) il pericolo è diverso: qui i protagonisti sono i diavoli capeggiati da Malacoda, e il male diavolesco, in questo caso, è rappresentato dall’unione, (“gueffa” vale matassa) tra il sentimento dell’ira e mal volere: l’intenzione. Per fortuna le prescrizioni divine impediscono ai diavoli assegnati ad una Bolgia di uscirne e recarsi in altre –le regole le fa Dio dopotutto, un divino burocrate e per quanto i diavoli recitino la parte arrogante dei ribelli sono gli sconfitti e sono condannati pure loro- e così, 185 precipitandosi giù senza titubanze, i due poeti –Dante e Virgilio ovviamente- riescono a cavarsela per un pelo. 186 144. Distrazioni Giovanili Dal Vero Amore I l pellegrino attraversa tutto l’imbuto infernale, contemplando l’irrimediabile dannazione umana e la relativa sofferenza che ciò implica; si inerpica, poi, faticosamente su per tutta la vasta montagna del Purgatorio; attraversa l’ustionante muro di fuoco, e tutto il resto pur di vedere il sorriso di Beatrice, promesso da Virgilio: “tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice”, e quando, infine, arriva a lei, lei prima assume un contegno da ammiraglio, poi lo rimprovera e umilia pubblicamente. In specie gli rinfaccia, e per di più senza un filo di umana gelosia o passione amorosa mondana, di essere stata sostituita occasionalmente, nell’amore univoco e puro che avrebbe dovuto tributare a lei soltanto, da qualche “pargoletta” (Purg. XXXI). Il termine viene dalla lirica d’amore e si riferisce, in specie, a tre rime scritte dal poeta per “donna altra da Beatrice” e segnatamente la LXXXVII, LXXXIX e la C, con le quali forse egli si era distratto in vita, distogliendosi dalla sua guida verso la salvezza eterna, per seguire amori mondani. 187 145. C L’Onore Del Primo Scontro ome il cavaliere a volte esce al galoppo dalla sua schiera per ottenere l’onore del primo scontro col nemico … Esordisce Dante –parafrasato- ossia: Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo … La magnifica similitudine (Purg. XXIV) si rifà al fiero costume dell’arte militare medievale di spronare il cavallo per arrivare, facendo bella mostra di valore e intrepido coraggio, per primi e solitari ad affrontare il nemico. Dante usa questa figura per descrivere una situazione del tutto differente: l’amico Forese che si stacca dal gruppo dei tre poeti che lo accompagna, per unirsi alla sua schiera di anime in pena. Le atmosfere delle due situazioni sono molto diverse e la similitudine vale solo per il dato meccanico “dell’accelerazione” di un individuo rispetto a una schiera che si lascia indietro, ma con precisione e sintesi cala il lettore in uno splendido ritratto di un momento di vita della contemporaneità, cavalleresca e valorosa, dell’epoca. Inoltre, forse, nel suo commiato con Forese vuole lasciarci, e suscitare nei lettori, un sentimento alto e ardimentoso. Già aveva fatto qualcosa di simile col maestro Brunetto Latini, che per riprendere i suoi compagni di pena accelera la corsa come un atleta che 188 corra a Verona per il premio del “drappo verde” e che, ricordiamo, pare al discepolo come chi “vince, non colui che perde”. Facciamo qualche esempio. Dell’usanza coraggiosa di scontrarsi per primi con le schiere nemiche, nella battaglia di Hastings il giullare normanno Tagliaferro all’inizio della stessa intonò le canzoni di Carlo Magno, Orlando e Oliviero, chiese poi al duca Guglielmo il primo colpo e lo ottenne: spronò e si mise avanti a tutti. In un altro caso, un anonimo senese racconta che, a Montaperti, Gualtieri di Stimbergo chiese al suo comandante l’onore di poter essere il primo ad abbassare la lancia contro il nemico -essere “lo primo feditore”- e così fece, scagliandosi avanti a tutti contro le schiere lucchesi. 189 146. M Marescalco arescalco (Purg. XXIV) -oggi maniscalco- è termine attribuito alle guide Virgilio e Stazio nel racconto purgatoriale. Si tratta di un titolo che risale al nome franco marhskalk composto di: servo (skalk) e cavallo (marh) -cioè servo del cavallo- arrivato a noi attraverso il tardo latino mariscalcus e il latino medievale marscalchus, o marescalchus. Equivalente al nostrano connestabile (comes stabuli) per estensione passò a significare il conte che soprintendeva alle scuderie reali, e poi il capo dell’esercito. Sempre da lì e attraverso il francese (maréchal) è derivato maresciallo, che ha infatti assunto i significati sia di sottufficiale -meno elevato in grado- che di supremo comandante, per esempio: maresciallo d’Italia. 190 147. L Le Opere Leggiadre e Opere leggiadre (Purg. XI) sono quelle tipiche del cavaliere. Infatti è Dante stesso a definire la leggiadria (Rime LXXXIII), come virtù propria del cavaliere. Al tempo il lemma “leggiadro” poteva assumere anche il significato di superbo o altero, ma chi usa questa espressione in Purgatorio è Omberto Aldobrandeschi, che ricorda le opere dei suoi antenati come grandi, magnanime, tali da averlo reso orgoglioso, peccando, sulla Terra. Conte di Soana e Campagnatico, si narrano due vicende discrepanti sulla sua morte: la prima vuole che egli sia stato ucciso nel suo letto dai sicari senesi, la seconda che morisse valorosamente combattendo, e in modo furibondo, per le vie della città. 191 148. A Antigone ntigone (Purg. XXII) sorella di Ismene, figlie di Edipo e Giocasta, e sorelle, entrambe, di Eteocle e Polinice, i due fratelli che si contendono la città di Tebe: dopo che essi si diedero l’un l'altro la morte, e contro il divieto del tiranno Creonte, diede sepoltura al cadavere di Polinice, ponendo le leggi divine al di sopra di quelle umane. Per ciò fu condannata dal re ad essere sepolta viva in una caverna sotterranea. Ismene, tristemente, vide morire tutti i suoi congiunti e il fidanzato Cirreo, e è ritratta da Stazio piangente sul cadavere delle madre. Nel passo del Purgatorio dove Virgilio, tra altri personaggi, le ricorda, Dante ama immaginare che la sua guida mostrasse all’altro poeta, a Stazio, di conoscere alla perfezione, per affetto e stima, la sua opera letteraria (Tebaide e Achilleide), opere di produzione successiva alla sua stessa dipartita. 192 149. M La Strega Di Mantova anto (Inf. XX) sacerdotessa di Apollo a Delfo, madre di Ocno, è la maga figlia di Tiresia, famosa nella Commedia anche per essere oggetto di una discrepanza che si è cercato di risolvere immaginando un problema di trascrizione. Ubicata nella Bolgia di maghi e indovini, dove procede come tutti camminando all’indietro, con collo torto fino ad avere il viso rivolto sulle spalle, è poi citata da Virgilio come anima presente nel Limbo (Purg. XXII). All’Inferno, alla sua vista, Virgilio prende l’occasione per spiegare, smentendo se stesso che in vita aveva sostenuto altro, l’origine del nome della sua città natale, Mantova, che appunto deriva da lei. 193 150. I Un Filosofo Inarrivabile n parecchie occasioni ci sono allusioni al pensiero, o echi di frasi, di Boezio, filosofo che, assieme a Cicerone - quest’ultimo presente nel Limbo e nel Medioevo autorità in filosofia morale- spinsero Dante ad amare la filosofia. Due versi, che ne ricordano la produzione, sono particolarmente splendidi e riguardano due donne. Il primo è relativo a Beatrice (Inf. II) a cui Virgilio si rivolge con questo incipit: “O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento…”. Si riecheggia qui la situazione del De Consolatione Philosophiae, quando il filosofo Boezio, incarcerato ingiustamente, viene visitato dalla Filosofia stessa impersonata da una donna ed esordisce: “O omnium magistra virtutum, supero cardine delapsa venisti?”, (O maestra di tutte le virtù, discesa dalla più alta parte del cielo, che sei tu a fare venuta in queste solitudini del nostro esilio?). Il secondo lo recita la bella Francesca da Polenta (Inf. V): “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore”. Così apre la dama il suo lacrimevole racconto di amore e morte, riprendendo una frase del sunnominato filosofo: “In omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem” (In ogni avversità della sorte è infelicissima forma di sofferenza l’essere stato una volta felice). Alcuni pensano che “il dottore” di cui parla Francesca possa essere Boezio stesso, quando è invece quasi certo che la dama si riferisca a 194 Virgilio, che pur nel Limbo, dove non soffre pene fisiche, ben può conoscere lo stato di infelicità a cui allude la bella donna (trucidata col cognato, dal marito), rapportando la sua esistenza attuale, comunque fatta di sospiri, allo stato felice della vita terrena. 195 151. N Il Tricolore ella complicatissima, dal punto di vista esegetico, processione che si sviluppa in cima all’Eden (Purg. XXIX), e vicino allo stranissimo carro allegorico che in essa procede, appaiono tre donne una verde come smeraldo, una bianca come neve e una rossa. Sono le tre virtù teologali: la rossa rappresenta la carità, la bianca la fede, la verde la speranza. Sono i colori del tricolore italiano, ovviamente. Le triadi di colori hanno lunghissima, sterminata tradizione in varie discipline sapienziali da tempi remotissimi. In alchimia nero, bianco e rosso indicano tre fasi del magistero nella preparazione della pietra filosofale e l’elisir di lunga vita, e quasi tutte le bandiere europee si compongono di tre colori. Al nero può essere sostituito il blu (o nel caso dell’Italia appunto il verde) e in Dante, per farla breve, anche Lucifero (anti Dio) ha tre facce di tre colori diversi: giallo (invece del bianco), rosso, e nero, che lo rendono una “antitrinità”: alle caratteristiche divine di podestate, somma sapienza e amore (Inf. III), egli oppone quindi, per contrasto: impotenza, ignoranza e odio. 196 152. S Arroganza Suprema erse (Purg. XXVIII), arrogantissimo e superbo re Persiano, errando per Hybris (parola greca assimilata alla superbia, arroganza e allo spregio –sfida- dell’autorità divina), fece costruire sull’Ellesponto -lo stretto tra Grecia ed Asia- un ponte di navi sul quale far passare il suo smisurato esercito, con l’intenzione di sottomettere così tutta la Grecia. Una prima volta una tempesta distrusse il manufatto umano e il re fece decapitare i costruttori e frustare con trecento colpi il mare. Poi, ricostruitolo, una volta subita la clamorosa sconfitta militare, esso fu devastato dal suo stesso esercito, in fuga disordinata, tanto che il gran re dovette tornare indietro, salvandosi a stento e alloggiando su una misera barchetta di pescatori: ridicolo. Quello stesso tratto, traversava -ogni volta che il mare non era in tempesta- agile e a nuoto, il bel giovane Leandro per recarsi dalla sua amata Era. 197 153. C Un Problema Senza Soluzione: Dio ontemplando Dio, ed assorbito completamente con intelletto e volontà in esso, non volendo rinunciare a capire, ma non riuscendoci affatto, Dante si sente come un geometra (Par. XXXIII) che stia cercando di risolvere il problema della quadratura del cerchio. Tale problema era stato affrontato già da Archimede (il π è infatti chiamato anche “costante di Archimede”), ed era noto agli studiosi medievali, i quali cercavano ostinatamente di costruire un quadrato con la stessa superficie di un cerchio. Oggi comunemente si intende π come il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio, o anche come l'area di un cerchio di raggio 1. L’impresa, nei termini dell’epoca di Dante, era impossibile da realizzarsi, dato che il numero in questione è una costante matematica definita in modo astratto, indipendente dalle misure di carattere fisico, e si tratta di un numero irrazionale: che non può, cioè, essere scritto come quoziente di due interi. Ciò fu dimostrato nel 1761 da Johann Heinrich Lambert. Esso è inoltre un numero trascendente, fatto provato da Ferdinand von Lindemann nel 1882. 198 154. S L’Anima È Una! e una qualità -o potenza- dell’anima (Purg. IV) accoglie in sé, dalla percezione, impressioni piacevoli o dolorose, l’anima umana si concentra tutta su quel dolore o piacere e non pare che assolva ad altra potenza o facoltà. Un’anima, cioè, quando è presa da una forte sensazione, si concentra solo su di essa e non può contemporaneamente badare ad altro. Ciò è chiaramente dovuto al fatto che l’anima è una sola e che sbaglia chi sostiene il contrario, chi afferma, cioè, che: “un’anima sovr’altra in noi s’accenda” (prenda vita). In specie Platone individuava tre anime umane, ubicate in diverse parti del corpo: un’anima vegetativa residente nel fegato, una sensitiva nel cuore, quella intellettiva nel cervello. Si tratta di una tripartizione corrispondente a quella del principio vitale in: concupiscibile, irascibile e razionale. Aristotele affermava, al contrario di Platone, che si tratta di tre funzioni di una stessa ed unica anima. A tale dottrina si rifaranno poi gli scolastici, che la elaborano, e ad essa aderisce anche Dante. 199 155. È Capricci Della Fortuna Virgilio a chiarire il problema dei veloci cambiamenti dovuti alla mutevolezza della Dea Fortuna (Inf. VII). Dante aveva biasimato, in altre opere, il di lei operare, sulla scorta della osservazione, sicuramente certa ed evidente a tutti, secondo cui le dinamiche di questa imperscrutabile forza, invero inesistente, e percepita solo dall’uomo, agiscono ed operano a prescindere dai meriti personali e da un generale criterio di giustizia. L’iconografia di origine pagana rappresentava la Fortuna come una Dea cieca, o bendata che fa girare una ruota, abbassando taluni e sollevando altri indifferentemente (anche nei Tarocchi, per esempio, c’è la ruota che gira con persone abbarbicate in diversi punti di essa). Agostino la inquadrava come strumento della Provvidenza divina, e poi anche Boezio e Arrigo da Settimello avevano trattato il tema in modo tale che il suo ingiusto operare diventasse compatibile con la visione cristiana di Dio (onnipotente, uno, onnisciente, infinitamente buono, e, ovviamente, preoccupato per le vicende umane). Naturalmente anche Tommaso tratta il controverso tema. In Dante, Dio prepone a guida di ogni sfera celeste una intelligenza, gli angeli (o Dei), e così pure fa con i beni terreni, la cui guida è, appunto, la Fortuna. Ma mentre nel Convivio affermava, affranto, che nel possesso dei beni materiali: “nulla distributiva giustizia risplende”, nella sua tirata infernale Virgilio fornisce una versione “boeziana” del tema, in cui la Fortuna andrebbe lodata maggiormente proprio da coloro che invece la biasimano, posto che, privati dei beni terreni e di tutto quanto hanno 200 avuto, conoscono bene la caducità delle cose terrene e possono aspirare alla unica e vera libertà e a comprendere il valore dei beni spirituali. 201 156. I Il Veglio Di Creta l Veglio di Creta (Inf. XIV) è una gigantesca statua allegorica di cui Virgilio parla per spiegare la complessa e simbolica idrologia infernale. Nella storia, questa colossale figura era ubicata all’interno di una montagna nell’isola di Creta, ed era composta di quattro parti di differenti materiali. La descrizione che ne fa Dante è fedele al passo biblico in cui si narra di Nabucodonosor, re babilonese seguace di Marduk, che terrorizzato da un sogno ricorrente, che però non riusciva a ricordare, aveva conferito ai maghi caldei l’incarico di indovinalo dentro la sua mente. Dopo il fallimento di essi, Daniele riuscì ad identificare la visione e lui si convertì alla fede ebraica. Egli sognava una colossale statua di un vecchio (il Veglio, appunto) la cui testa era d’oro puro, il petto e le braccia di argento, il busto sino all’inguine era di rame, le gambe di ferro, tranne il piede destro di terracotta. Su questo ultimo piede, più che sull’atro, poggia il peso dell’intera struttura. Il colosso rivolge le spalle all’Oriente (Dammiata: Damietta) mentre la testa è rivolta verso Roma, come a specchiarsi in essa. Tutta la statua, fuorché la testa d’oro, è percorsa da una crepa e dalla fessura gocciolano lacrime che fuoriescono dalla montagna e, attraversando le rocce, formano tre fiumi infernali: l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte, e infine confluiscono nel lago di Cocito, dove il vento provocato dal battito delle ali da pipistrello di Lucifero ghiaccia tutto in modo compatto come vetro colato. 202 Per la precisione va detto che anche il fiume Lete scola all’Inferno: dopo essere stato originato sul Paradiso Terrestre e dopo aver lavato i residui di peccato delle anime penitenti ormai mondate e fuori dal castigo purgatorio: si incunea per la “natural burella”, riversandosi nella conca infernale. I pellegrini dell’oltremondano, infatti, uscendo nell’emisfero australe si imbattono appunto in esso: un rigagnolo. Così anche l’ultimo residuo di “male” termina al suo posto. Il senso allegorico della statua è molto controverso. Potrebbe essere una rappresentazione del decadimento storico dell’umanità, e quindi i materiali rimonterebbero al mito delle ere della storia umana (dall’età dell’oro, fino a quella del ferro) oppure potrebbe trattarsi di una descrizione della corruzione dell’essere umano stesso, immerso nel peccato. In questo ultimo caso, l’oro del capo significherebbe il libero arbitrio (integro), l’argento la ragione, il rame la volontà, il ferro gli affetti sensitivi e la terracotta quelli della concupiscenza. 203 157. L I Due Fiumi Dei Morti ’idrologia, sia quella infernale che del Purgatorio, è un tema complesso e assolutamente centrale nell’economia allegorica dell’opera, ma vale la pena di notare come essa attenga anche al primo destino delle anime dei morti. Esse infatti finiscono, sia le dannate, che le salve, sulle sponde di due fiumi. Le prime appaiono nell’affollato e caotico porticciolo di Acheronte (Inf. III), dove il terribile e canuto, vecchio, Caronte le traghetterà, nella confusione di imbarchi disperati, ma inevitabili, dinanzi al mitico giudice Minosse. Da lì saranno poi gettate direttamente ciascuna nel proprio cerchio di appartenenza, corrispondente al peccato mortale più grave commesso in vita. Le seconde, ma destinate al Purgatorio, finiscono, invece, in riva al Tevere (Purg. II), dove ben altra, magnifica e festina (veloce), imbarcazione condotta da un angelo immutabile, con ali perfette e immobili, le sbarca sulle spiagge del monte agli antipodi di Gerusalemme. Saliranno poi in su fino in cima all’Eden, sostando, più o meno lungamente, su ogni cornice di pena per espiare tutti i peccati capitali. 204 158. L Giove Si Salva a montagna di Creta dove è nascosto il Veglio è il monte Ida. Il mito vuole fosse lo stesso monte dove Rea (o Cibele) nascose suo figlio Giove (Inf. XIV) affinché il padre, Saturno, non lo trovasse, dal momento che altrimenti lo avrebbe divorato, come già aveva fatto con tutti i suoi precedenti figli, pur di non far avverare la profezia che lo vedeva ucciso e spodestato dal trono da uno della sua discendenza. Quando il piccolo piangeva o vagiva, Rea, per non farlo sentire e scovare, aveva dato ordine ai suoi sacerdoti, i Coribanti, che facessero chiasso con le loro armi ed i loro strumenti. 205 159. P L’Ultimo Ritrovato Della Tecnica rima dell’esame in tema di fede sostenuto da Dante dinanzi a San Pietro, le anime liete dei beati iniziano a ruotare attorno a un punto fisso, come fossero comete. Per descriverne il movimento, Dante attinge a uno degli ultimi e più tecnologici oggetti del suo tempo: E come cerchi in tempra d'oriuoli Si giran sì, che'l primo a chi pon mente Quieto pare, e l'ultimo che voli. L’orologio (Par. XXIV) era costruito con un sistema di ruote dentate che trasmettevano il movimento, da ingranaggio a ingranaggio, in modo tale che esse cambiavano le dimensioni e anche la velocità. La prima ruota, direttamente mossa dal motore, faceva un giro al giorno, o ogni dodici ore, le ultime si muovevano vorticosamente. Fu nel corso del Medioevo che furono inventati i primi orologi meccanici: nel giro di un mezzo secolo, all'inizio del Trecento, molti campanili cittadini vennero dotati di cronografo: Parigi, Milano, la stessa Firenze; ed è proprio a questo ultimo ritrovato della tecnica che si rifà il poeta per descrivere un moto d’anime in Paradiso, forse un po’ come se oggi uno prendesse ad esempio di ubiquità l’Internet. 206 160. G Un “Kapò” Di Malebolge ianni Schicchi (Inf. XXX) apparteneva alla famiglia dei Cavalcanti, abilissimo a contraffare le persone, è condannato all’Inferno nella Bolgia dei falsari. Nel suo luogo di pena è descritto avere assunto le fattezze di un folletto, quindi, secondo la leggenda del tempo, di un veloce e alato spirito maligno di origine demoniaca, nocivo per gli esseri umani. Lo si vede imperversare rabbiosamente per la Bolgia mordendo gli altri convitti: velocissimo, come un porco che esca dal porcile, azzanna il povero Capocchio per la collottola e lo trascina via con sé facendogli grattare il ventre col fondo duro della Bolgia. Il compagno di pena rimane, tremante, a colloquio con Dante, avrebbe potuto fare lui quella fine. Anche i diavoli sono convitti dell’Inferno che gestiscono, ma si nota come nella discesa infernale, la categorizzazione tra carcerato e carceriere si affievolisce e scema, i ruoli si confondono sempre più. In questo caso, la sua rabbia e le sue fattezze demoniache sono parte stessa della sua pena, ma con ciò anche un supplemento di essa per gli altri compagni, che patiscono diversi ed eterogenei tipi di mali: chi la scabbia, chi l’idropisia, chi la febbre acuta. 207 161. I Il Coppiere Degli Dei (Omosessuali) l bellissimo giovinetto Ganimede, figlio di Troo e Troia, venne rapito da un’aquila mentre cacciava con degli amici sul monte Ida (quello nella Troade, però, e non quello omonimo di Creta, dove si trovava il famoso Veglio). L’aquila era Giove in persona, che, invaghitosi di lui, lo prese per farlo divenire coppiere degli Dei. Il mito assunse per il cristianesimo un significato mistico: l’anima umana promossa da Dio a partecipare della sua grandezza, e ad esso Dante si rifà paragonandogli il suo rapimento nel sonno dalla Valletta dei Principi. 162. B Un Omicidio Che Fece Scalpore enincasa da Laterina detto L'Aretin (Purg. VI) fu un famoso giureconsulto a Bologna, giudice a Siena e podestà. Condannò a morte, per ruberie e violenze, un fratello e uno zio di Ghino di Tacco gentiluomo che, bandito dalla città, si rifugiò in Maremma dedicandosi al ladroneggio. Ebbene Ghino, personaggio storico molto controverso, si presentò in aula mentre egli teneva udienza e lì lo uccise uscendo con la sua testa mozza sotto il mantello. 208 163. N L’istituto Germanico Della Vendetta ella Bolgia dei seminatori di scandalo e di scisma, si trova anche un parente di Dante, col quale lui però non parla, dato che era distratto ed incantato dal poeta di Altaforte, Bertran de Born. Lo vede però Virgilio, mentre punta il dito contro il discendente in segno di accusa e risentimento, recriminando di non essere ancora stato vendicato (Inf. XXIX) della sua morte. Si tratta di Geri del Bello, cugino di primo grado del padre di Dante, che pare fosse stato ucciso da un tal Brodaio dei Sacchetti a causa del suo costume di seminare discordia, colpa per cui è punito all’Inferno. Nel 1342, probabilmente una trentina d’anni dopo la sua morte, si stipulò la pace definitiva tra le due famiglie ancora in lite. Fino all’età di Dante la vendetta privata era non solo ammessa, ma ritenuta doverosa nella società. Brunetto Latini nel suo Tesoretto recita: “lenta o ratta sia la vendetta fatta”, e dal comportamento sdegnoso e risentito di Geri affiora, senza dubbio, il malcontento di sapersi ancora invendicato e la relativa onta. Anche l’amico di Dante, Forese, aveva, nella tenzone poetica a chi architettasse i peggiori insulti all’altro, accusato gli Alighieri di non sapersi far valere vendicandosi dei torti patiti. 209 164. I Paura l 6 agosto 1289, dopo un breve assedio delle truppe della Taglia Guelfa, cadde il castello pisano tenuto dai ghibellini: la rocca di Caprona. Unica testimonianza della partecipazione di Dante alle file dell’esercito degli assedianti ci è dato da lui stesso quando (Inf. XXI) racconta di aver sentito una paura simile a quella che aveva potuto scorgere (da vincitore) dagli occhi dei nemici che abbandonavano la rocca tra due schiere di assalitori armati. La paura dei fanti vinti era dovuta al timore che i vincitori non sarebbero stati ai patti della resa e li trucidassero mentre erano indifesi. Poco prima (giugno) Dante era stato cavaliere a Campaldino -lo scontro tra guelfi fiorentini e ghibellini aretini- come feditore del gruppo di Vieri dei Cerchi, ruolo ardimentoso, dato che costoro erano i primi ad ingaggiar battaglia. 210 165. Un Sant’Uomo E Cattivo Commerciante P er fortuna Pier Pettinaio (Purg. XIII) si ricorda, il sant’uomo che è, di Sapia Salvani, l’invidiosa penitente che aveva finito per bestemmiare dalla gioia a seguito della sconfitta, da lei bramata oltremodo, dei suoi detestati concittadini senesi, altrimenti il suo castigo non sarebbe stato così rapido. Questo umile santo, leggendariamente longevo, ultracentenario, fu terziario francescano. Ubertino da Casale lo conobbe e definì “uomo pieno di Dio”. Vendeva pettini, probabilmente da tessitore; uomo umile e piccolo sulla Terra, ma potente verso Dio, le sue preghiere erano effettivamente ascoltate dal Sommo. Si narra che, con scrupolo e onestà massime, vendesse merce che selezionava personalmente senza mai cedere alle furbizie tipiche dell’arte mercantile, e non ingannando mai i clienti. 211 166. S Elogi Incrociati an Tommaso, dell’ordine domenicano, in Paradiso (Par. XI) formula l’elogio di San Francesco; Bonaventura da Bagnoregio, un francescano, tesse quello (Par. XII) di San Domenico. Questo doppio elogio incrociato di due santi capostipiti di due ordini (i maggiori) della Chiesa cattolica risponde all’uso medievale per il quale il giorno della festa dei due patroni, rispettivamente degli ordini francescano e domenicano, appunto, fosse un esponente d’un ordine a tessere l’elogio del capostipite dell’altro. 167. L Matelda! a donna che, per la sua bellezza, fa ricordare a Dante Proserpina che, rapita da Plutone, è costretta ad abbandonare la madre Cerere e anche i fiori primaverili che stava raccogliendo sul prato, è Matelda. Il suo nome letto al contrario fa: Ad Letam ed è la donna che lo immerge nel fiume Lete, lavandogli la memoria dai peccati realizzati in vita, e introducendolo alle “cose liete”; interpretazione però questa che è stata molto criticata perché forse non corrispondente, e non in grado di attagliarsi, all’orizzonte semantico e concettuale del poeta. 212 168. L’unica Fonte Di Conoscenza (Del Medioevo) L a luce (Par. XIX) viene solo da Dio: Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenèbra od ombra de la carne o suo veleno. Non c’è lume per l’intelletto umano che non discenda dalla rivelazione e dalla Grazia del Cielo, sempre sereno e mai offuscato, della mente divina; al di fuori di ciò, gli sforzi dell’uomo realizzati da se stesso, da solo, sono tenebra, o ombra e veleno della carne. Lo sforzo del solo intelletto umano è cecità: chi non è illuminato direttamente da Dio brancola nel buio. Il corpo umano, poi, è di per sé un ostacolo alla potenzialità dell’intelletto puro, in accordo con la tradizione ebraico cristiana. Il “veleno” della frase è la concupiscenza umana attraverso i sensi, l’ostacolo più plumbeo e pesante posto all’uomo verso la comprensione, quello che maggiormente lo acceca e grava. 213 169. M Mal Amore entre l’ingresso infernale è scardinato (“lo cui sogliare a nessuno è negato”…) la porta del Purgatorio è metallica, salda e serrata. Quando si apre crepita della durezza dei suoi forti cardini. Viene descritta come “porta, che ‘l mal amor de l’anime disusa” (Purg. X): non attraversata da chi eserciti male “l’amore”. È l’amore mal rivolto delle anime, che la fa cadere in disuso, quindi. La causa del peccato è, difatti, amore mal riposto, mentre la causa del bene è amore diritto verso il suo fine. L’amore, infatti, è ciò che sempre muove l’uomo: l’uomo è, insomma, fatto per amare. Dio stesso è in primis amore, ed esso ha creato anche l’Inferno (“fecemi la divina potestate, la somma sapienza e 'l primo amore”, recita l’iscrizione sull’architrave dell’ingresso infernale), e muove ogni cosa (“’l sole e l’altre stelle”). Tommaso chiariva che ogni agente compie la sua azione in forza di un qualche amore, ed esso nell’uomo può essere di due tipi: o istintivo, vale a dire insito nella natura, o d’animo, ossia di libera elezione. L’amore naturale, istintivo, non è passibile d’errore perché è dato direttamente dalla natura, Dio appunto, affinché raggiunga il suo fine. Quello frutto di intelletto e volontà, invece, può errare, in quanto libero. L’uomo ama sempre il bene supremo, in effetti, anche senza saperlo, ma scambia, errando, tale bene assoluto, per quelli particolari. E quindi può sbagliare in tre modi, ossia: primo, sull’oggetto, o, (altri due modi) sul vigore, in questo ultimo caso destinandogliene troppo, o troppo poco. 214 Alla prima categoria corrispondono i peccati di ira, invidia e superbia, alla seconda quelli di lussuria, gola e avarizia, al terzo l’accidia. 215 170. P Anime Umane latone riteneva che le anime (Par. IV) dopo la morte tornassero alle stelle dalle quali provenivano. Cioè che esse anime, prima di incarnarsi, esistevano già. Tale teoria, diffusa e nota nel Medioevo grazie a un commento del Timeo di Calcidio, è palesemente in contrasto con la fede cristiana, dove l’anima è creata di volta in volta da Dio e insufflata nell’embrione che si forma nel seno materno. In Dante la veridicità della teoria platonica rimane solo laddove non sono le anime individuali a scendere e poi risalire in cielo, ma sono, invece, solo gli influssi -teoria degli influssi astrali-, sulle loro attitudini e operazioni, a provenire da lì. Tali influssi ognuno li riceve alla nascita come “corredo di doti” volute dagli astri per la singola persona, ma, come aveva chiarito anche Marco Lombardo in Purgatorio, essi non sono comunque mai così poderosi da coartare e annullare la libertà umana, intrinseca in noi e dono di Dio. 216 171. L Il Simbolo Del Sole ’astronomia tolemaica riteneva che le stelle ricevessero il loro splendore da un unico centro luminoso: il Sole. Questa teoria, prevalente nel Medioevo alle altre, pur presenti, rendeva ancor più pregnante e attinente il paragone tra il Sole e Dio: unica fonte di luce e conoscenza (“lume non v’è se no vien dal sereno…”). È anche grazie a questo antico errore astronomico che (Par. XX) Dante ci regala questi bellissimi versi: Quando colui che tutto ’l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende, che ’l giorno d’ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente per molte luci, in che una risplende… 217 172. A Quando Il Primo Uomo damo (Par. XXVI), il primo uomo creato è beato in Paradiso, ma la sua vicenda è, ovviamente, tra le meno lineari. Dante riacquista la vista, momentaneamente persa in contemplazioni troppo poco adatte ad occhio di carne e materia, se lo trova dinanzi e brucia di curiosità riguardo a varie questioni che solo lui potrebbe risolvere come diretto interessato. È il santo stesso che le elenca, dato che conosce la mente di Dante, potendo scrutarla direttamente nello specchio infallibile e onnisciente della mente di Dio stesso. Dante vorrebbe sapere: 1. Quanto tempo è passato, sino ad allora, dalla sua creazione (quindi dalla creazione della specie umana sino al momento del dialogo); 2. Per quanto tempo Adamo dimorò nel Paradiso Terrestre; 3. Quale fu la vera ragione dell’ira divina per il peccato originale; 4. Quale idioma egli creò e parlò originariamente. Dunque, dalla creazione di Adamo, alla nascita del Cristo passano 5198 anni, cifra già accertata dalla computistica di Eusebio; considerando che Adamo stesso visse per 930 anni, Gesù per 34 anni, e che il viaggio del pellegrino si svolge nel 1300, si può dedurre che dalla creazione dell’uomo al momento in cui si svolge il dialogo chiarificatore sono passati 6498 anni, mentre, dopo essere morto, Adamo ha dimorato nel Limbo per 4302 anni. Nel Paradiso terrestre, egli racconta, non rimase per più di sette ore. 218 La causa dell’esilio dell’umanità da tale luogo beato non fu dovuta al gesto di cogliere e saggiare il frutto proibito in sé, ma al fatto di oltrepassare un limite imposto dalla divinità: un atto di superbia. Atto che ricorda la vicenda del dannato Ulisse quando supera le colonne d’Ercole, “li riguardi”, sistemati lì per indicare chiaramente all’uomo di non andare oltre. Infine la lingua originaria di Adamo era estinta già prima di quando Nembrot (anche lui esempio di superbia punita, e relegato all’Inferno, nel pozzo dei giganti) volle costruire la torre di Babele; teoria questa ultima contraria a quanto sostenuto dal poeta stesso nel suo De Vulgari Eloquentia. 219 173. Q Vendite e Commerci Simoniaci uando si trova a contemplare i giusti del cielo di Giove, Dante indirizza a un papa queste sprezzanti e dure parole (Par. XVIII): Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. Ben puoi tu dire: “I' ho fermo 'l disiro sì a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro ch'io non conosco il pescator né Polo”. È papa Giovanni XXII, caorsino, di nascita e di costumi, a cui (si interpreta) Dante rimprovera, oltre al mantenimento del papato in cattività avignonese ed altro ancora, il costume pessimo e simoniaco di scrivere decreti, scomuniche e interdetti usandoli solo come mezzo intimidatorio per ottenere benefici politici, per poi cancellarli o sospenderli in cambio di danaro; cioè senza un vero contenuto sacro. Narra il Villani, come egli fece coniare ad Avignone: “una nuova moneta d'oro fatta del peso e lega e conio del fiorino d'oro di Firenze sanza altra intransegna, se non che da lato del giglio diceano le lettere il nome del papa Giovanni; per la qual cosa gli fue messa grande riprensione, a fare dissimulare sì fatta moneta come il fiorino di Firenze”. Ricordiamo che il fiorino (che Mastro Adamo è punito per aver falsificato a ventuno) era a ventiquattro carati e moneta di riferimento dei banchieri dell’epoca. 220 E aggiunge: “dopo la sua morte si trovò nel tesoro de la Chiesa a Vignone in monete d'oro coniate il valere e compito di XVIII milioni di fiorini d'oro e più; e il vasellamento, corone, croci, e mitre, e altri gioielli d'oro con pietre preziose lo stimo a larga valuta di sette milioni di fiorini d'oro, che ogni milione è mille migliaia di fiorini d'oro la valuta”. Mentre i martiri Pietro e Paolo sono alla vita eterna, i guasti realizzati alla vigna che lui come pontefice dovrebbe, invece, accudire sono presagio di sua ventura dannazione eterna. 221 174. L Gli Epicicli e sfere dei pianeti, in Dante e per la sua epoca, sono concentriche e indipendenti, ciascuna termina dove inizia la successiva e vengono chiamate anche “Cieli” (I Cielo Mercurio, II Cielo Venere etc.). Per poter spiegare il movimento dei pianeti nel modello tolemaico geocentrico, dando una giustificazione alle posizioni concrete in cui essi appaiono in cielo durante il tragitto, oltre al movimento rotatorio da oriente a occidente era necessario pensare e aggiungere un secondo movimento immaginandoli situati sul cerchio equatoriale di una piccola sfera che avesse come centro l’equatore del loro cielo: un piccolo cerchio quasi situato sull’altro cerchio principale, epiciclo (Par. VIII), appunto. In definitiva, per spiegare quelle che venivano chiamate le retrogradazioni, si aggiungeva un moto opposto (tranne che per il Sole) da occidente a oriente, su un cerchio minore. Tanto complessa teoria era necessaria pur di non accettare un sistema eliocentrico. 222 175. T La Selva Di Cecco utti sanno che Dante inizia la Commedia trovandosi perso per una selva oscura, allegoria del peccato, che nonostante la sua fama imperitura è un rapidissimo antefatto a tutto quanto segue poi. Non tutti invece conoscono i versi polemici in cui la stessa selva viene nominata dall’astrologo e scienziato contemporaneo Francesco Stabili, meglio conosciuto come Cecco D’Ascoli, nella sua opera L’Acerba: … Qui non se canta al modo de le rane; Qui non se canta al modo del poeta, Che finge, imaginando cose vane. Ma qui resplende e luce onne natura, Che a chi intende fa la mente leta. Qui non se gira per la selva obscura; … L’Acerba è comunemente intesa come una sorta di “anticommedia”, di molto minor momento e fortuna, nella quale l’autore esplicitamente polemizza con l’Alighieri sostenendo un punto di vista maggiormente scientifico e razionale, che rifiuta favole e miti, ma attinge solo a conoscenze fisiche e naturali della scienza del tempo e alla filosofia aristotelica, tomistica e araba. Come noto il suo autore lascerà incompiuta l’opera, e sarà arso sul rogo a Firenze come eretico nel 1327. 223 176. I Un “Beccaio” Di Parigi n Purgatorio Dante incontra il capostipite della stirpe corrotta e che estende i suoi influssi malefici su tutta la cristianità fino ai suoi tempi, i Capetingi: Ugo. È anche probabile che egli confonda i primi due “Ughi”, vale a dire Ugo I il Grande, Duca di Francia, Borgogna e Aquitania e il parlante Ugo Capeto, in uno solo. Questo secondo, estintasi la dinastia di Ludovico V il Neghittoso, succeduto a sua volta a Lotario, si trovò con l’intero regno di Francia tra le mani e fu incoronato re. Nella cronistoria Dante attinge in vari punti a leggende diffuse nel Medioevo. Curiosa quella che voleva il Capeto, nome italianizzato nella Commedia in Ciappetta, dal francese Chapette, che vale: piccola cappa -quella di abate laico che portava-, al quale poi si impose Capet, forse per imposizione della voce latina Capetus: esercitare originariamente la professione umile del macellaio. Non risulta che, né lui né il padre, svolgessero tale attività e la confusione potrebbe doversi alla leggenda narrata nel poema francese Chanson de geste de Hugues Capet, largamente diffusa anche in Italia, e nella quale la madre, e non Ugo direttamente, risulta essere figlia di un beccaio. Anche il Villani riferisce la diceria che lo vorrebbe “buccero” o mercante di bestiame. 224 Dante forse dà credito alla notizia anche per rimarcare, ancora una volta, la disgrazia, non estranea alla Firenze del tempo, degli arricchiti avventatisi sul potere politico. 225 177. N La Teoria Del Mal Minore on è vero che il libero arbitrio sia libero giudizio della ragione, non pervenuta dall’appetito intorno all’operare, e che: “omnis electio est ex necessitate” (le scelte si compiono tutte per necessità) e che quindi un uomo, come un asino (simile a quello di Buridano) morirebbe di fame posto in mezzo a due mucchi di fieno identici ed equidistanti, prima di trovare una ragione per decidersi ad appetire l’uno piuttosto che l’altro. Ma può accadere che per evitare un pericolo maggiore egli sia indotto ad accettare e fare un male che non avrebbe intenzione di fare. Nella teoria del male minore (Par. IV) l’uomo sceglie tra due mali non volendo invero né l’uno né l’altro. Sulla scorta di Aristotele gli scolastici distinguevano, in tali casi, tra due volontà: una assoluta che non vuole il male che realizza e non potrebbe mai realizzarlo, e una condizionata (secundum quid) che, tenendo invece conto delle circostanze concrete e determinate, si piega ad accettare il male pur di evitarne uno maggiore, non volendo però nessuno dei due in effetti. In tale valutazione della circostanza può succedere che l’uomo erri e si inganni pensando di scegliere il male minore ed evitando il peggio, quando invece non è così. Dante propone in questo caso l’esempio di Alcmeone, matricida per amore paterno. La volontà, quindi sarebbe proprio la capacità di scegliere liberamente in base ai dati forniti dalla ragione. 226 Tommaso diceva che: “la radice della libertà è la volontà in quanto soggetto dell’azione, ma è la ragione in quanto causa”, ed in consonanza Dante definisce il libero arbitrio come: libero giudizio di volontà. 227 178. D Il Giudice Nino ante si rallegra, pare quasi tirare un sospiro di sollievo, nel vedere il giudice “Nin gentil” (Purg. VIII) in Purgatorio, e quindi salvo; segno, tra l’altro, che non doveva essere troppo convinto delle sue sorti. Nino, o Ugolino, Visconti fu il pisano figlio di una figlia di Ugolino della Gherardesca, e signore del giudicato di Gallura in Sardegna e per questo chiamato “Giudice di Gallura”. Primo tra i guelfi di Pisa, esiliato dal governo pisano dal succitato nonno e dall’Arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini, in accordo tra loro, successivamente fu proprio lui a denunciare l’arcivescovo Ubaldini stesso per la crudele morte di Ugolino, che, come tutti sanno, Dante incontra nel gelo di Cocito addossato al Ruggeri del quale rode ferocemente il cranio. Ugolino, incarcerato nella “Torre delle Muda” -a seguito, dell’episodio, che fece scalpore all’epoca, essa fu chiamata Torre della Fame- finì la sua vita assieme a quella dei suoi figli (due figli e due nipoti, invero) morendo, lì rinchiuso, di inedia: “La bocca sollevò dal fiero pasto” etc. Nino, invece, fuoriuscito da Pisa la combatté per un lustro intero, fino a diventare nel 1293 il capo della Taglia Guelfa di Toscana. “Taglia” nell’italiano medievale aveva un preciso significato militare, e indica un contingente di milizie mercenarie, diremmo di “elite”, fornite da vari membri di una lega –unione di intenti militari tra varie città o realtà politiche- per il raggiungimento di uno scopo bellico comune. Probabilmente recandosi a Firenze, conobbe Dante ed inoltre entrambi parteciparono alla battaglia di Campaldino. 228 È probabile che il tradimento che motiva la condanna dantesca del nonno di Nino –Ugolino è tra i traditori- fu quello proprio verso di lui, quando, con un improvviso e tremendo voltafaccia, spinto e in accordo con colui da cui successivamente sarà a sua volta tradito crudelmente, lo espulsero dalla città. 229 179. I La Figura Poetica Delle Api l convegno delle bianche stole, la milizia santa nella sua interezza, si mostra a Dante in forma di candida rosa: la rosa (supremo simbolo medievale cristiano) dei corpi risorti. Ma gli angeli non sono inattivi in tale visione, come api (Par. XXXI 3), tutta la loro milizia, con volti di fiamma, ali d’oro e il resto più bianco di qualunque neve, è, anzi, incessantemente operosa: salgono e scendono dal fiore all’alveare (il luogo dove il loro lavoro diviene miele). La similitudine era già stata formulata di Sant’Anselmo, ma nel loro andirivieni tra Dio e la rosa, gli angeli-ape versano la grazia di Dio sui beati, cioè miele sul fiore. Le api sono simbolo di operosità e animali virtuosi ed amati, erano care anche alla poesia classica, Virgilio per esempio paragona il loro ronzio al vento. 230 180. P Pan De Li Angeli E Acqua Viva an de li angeli (Par. II) è espressione scritturale, biblica, tratta dai Salmi. Tale pane è la sapienza divina (il Verbo) di cui si nutrono le intelligenze celesti eternamente in Cielo. Di esso può nutrirsi l’uomo anche in Terra, ma mai a sazietà. Nel Convivio, Dante aveva già utilizzato l’espressione per indicare il cibo che vuole imbandire nella sua opera e di cui pochi possono nutrirsi. Gesù, invece, fermandosi a conversare nei pressi di un pozzo con una umile donna samaritana le parla di una acqua viva (Purg. XXI) che, diversamente da quella nel pozzo, che rappresenta la conoscenza raggiungibile con le sole capacità umane, la disseterà per sempre. Nell’uomo è innata la “sete natural”, il desiderio di sapere che, però, solo la Grazia divina può estinguere del tutto. Secondo il racconto la donna si affretta a chiedere a Cristo di essere dissetata da tale acqua, che, secondo l’esegesi biblica, significando la Grazia divina, è un dono che innalza l’uomo al di là della sua natura. 231 181. U Antichi Ideali Rimpianti no dei due invidiosi con cui Dante discetta, lui, della corruzione della vituperata Val d’Arno e, l’altro, di quella di Romagna, è Guido del Duca. Questo, preso dalla nostalgia (parola di recente origine, ma comunque adatta) all’elencare e riferirsi ai migliori e più illustri, nobili e antichi uomini di Romagna, in cui albergavano alte doti cavalleresche, è tanto affranto dal discorso che si commuove e preferisce smettere di parlarne, tanto è più forte il desiderio di piangere. Preso dal languore chiede al pellegrino di non meravigliarsi se piange al ricordarsi di quell’intero mondo scomparso e non solo ogni singolo personaggio: le donne e ' cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia là dove i cuor son fatti sì malvagi. Nobildonne e cavalieri, i rischi delle guerre e i riposi a corte, di cui amore e cortesia ci mettevano in animo la voglia … (Purg. XIV). I primi due versi sono una perfetta sintesi, e sono divenuti un simbolo, degli ideali cavallereschi, tanto che, come è arcinoto, se ne innamorerà l’Ariosto che aprirà il suo Orlando Furioso riecheggiandoli: Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto (…) 232 La disposizione dei versi è a doppio chiasmo: elegantemente sei parole trasportano, quasi in musica, il lettore in un universo cortese onirico, un bel mondo, costumi di una vita perduti, forse mai esistiti, e comunque già relegati nel passato anche al tempo del poeta. 233 182. I “Seguiti” l lemma seguiti (Par. II) nell’attacco di canto: O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d'ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: (…) dove il poeta scoraggia il lettore impreparato a seguirlo oltre nel poema, è usato alla latina come secuti estis. Se la teologia è un grande e profondo mare, i piccoli ingegni altro non possono essere che piccoli scafi, barchette, inadatte a solcare l’opera dantesca. Ma tale verbo ricorda una celebre frase di Dante stesso del De Vulgari Eloquentia: “Humana secuti sunt, brutalia dedignantes” riferita a Mandredi di Sicilia, il figlio illegittimo di Federeco II di Svevia avuto con la dama Bianca Lancia, che, al contrario di quanto avrebbe voluto la pubblicistica clericale, che lo descriveva: “ex damnato coitu derivatus”, l’Alighieri dichiara “bene genitus”, tributandogli doti principesche a continuità di una magnanima eccellenza di stirpe e pertanto, tra esse, anche la maestà di principi mecenati, che include il non cedere alla brutalità, ma l’essere, invece, un umanista. Forse Dante sapeva il Manfredi “sonatore e cantore”, di certo egli fu revisore e prefatore del De Arte venandi cum avibus di suo padre, e autore del Prologus alla traduzione, dall'ebraico, del Liber de pomo sive de morte Aristotelis. 234 183. D Forma Di Rispetto ante usa il voi (Par. XVI) esplicitamente solo con Beatrice, Cavalcanti, Farinata e Brunetto, poi passa dal tu al voi con l’antenato Cacciaguida. In tale occasione riferisce la credenza, erronea ma molto diffusa nel Medioevo, che voleva che il pronome onorifico fosse stato usato per la prima volta a Roma verso Giulio Cesare per piaggeria o timore di lui, dopo tutte le vittoriose campagne militari brillantemente condotte dal formidabile stratega romano. Dante continua segnalando, e suo figlio Pietro ratificherà l’esistenza del malcostume, come in futuro proprio i romani, che inventarono tale pratica di rispetto, furono quelli meno inclini a perseverare in essa, trattando tutti, villanescamente, e rivolgendosi loro al singolare, a prescindere da prestigio e ruolo sociale. In Svezia negli anni Sessanta una riforma della grammatica –du reformen- abolì l’uso di forme di rispetto –terza persona- in accordo coi precetti socialisti di uguaglianza a cui non avrebbe mai potuto accedere il povero Dante, sostenitore del ruolo e del prestigio. 235 184. Esempi Di Corruzione Politica Fiorentina N el passato, secondo lui, e a quanto poi riferirà il suo antenato in Paradiso, fatti di corruzione del genere non accadevano, ma quando Dante era ancora a Firenze, alla carica di Priore della città fu posto un trevigiano, Monfiorito di Coderda, del tutto nelle mani di malfattori politici e cittadini mestatori, i quali gli fecero fare, come riferisce Dino Compagni “delle ragione torto e del torto ragione”, tanto che quello “assolvea e condannava senza ragione come a loro parea”. Il 5 maggio 1299 egli fu deposto a seguito degli scandali, e, torturato, confessò una lunga serie di malefatte. Tra le tante riferì di aver fatto assolvere il priore Nicola Acciaioli accogliendo una falsa testimonianza. Questi, in combutta con Baldo Aguglioni (uomo di legge), sottrasse, grazie alla carica di giudice del complice, il libro degli atti notarili del comune (“quaderno”) e ne eliminò una testimonianza, grave prova di corruzione contro di lui. Il Notaio, all’erta, si rese conto della rasura di una delle pagine, denunciò il fatto e Acciaioli fu condannato a tremila lire di multa, mentre l’Aguglione, pure condannato, fuggì e restò confinato per un anno. Questo stesso figuro fu responsabile dell’esclusione di Dante dalla “riforma” degli esiliati fiorentini, e pertanto impedì il suo rientro a casa. 236 Donato dei Chiaramontesi, invece, frate della penitenza e uomo di affari al contempo, era sospettosamente ricco. In carica come “camarlingo della camera del sale” e perciò preposto alla distribuzione e vendita di tale mercanzia, dopo aver ricevuto dal Comune, lo staio, il recipiente con cui si misurava la quantità di sale, regolamentare, ne sottrasse una delle doghe e lo distribuì alla cittadinanza con una misura rimpicciolita, lucrando poderosamente. Scoperto il peculato, lui fu condannato a morte e la sua nobile famiglia fu sanzionata e fu vergognosamente oggetto di scherno e pubblico ludibrio: il popolo la dileggiava con una canzoncina che ricordava i fatti. Successivamente all’episodio lo staio fu fatto di ferro. A questi due fatti di cronaca si riferisce Dante quando parla di “quaderno e doga” (Purg. XII). 237 185. T Guglielmo VII Spadalunga ra gli otto principi della valletta purgatoriale c’è Guglielmo VII Spadalunga (Purg. VII), marchese di Monferrato, così chiamato per il suo valore in guerra. A seguito della sua cattura nella ribellione della città di Alessandria, finì la sua vicenda umana rinchiuso in una gabbia, dove morì dopo un anno e mezzo di prigionia. Il figlio, per vendetta, portò guerra alla medesima città provocando lutti e distruzione tra Monferrato e Canavese, che costituivano le parti del marchesato stesso, vale a dire tra la parte destra e la parte sinistra del Po fino alle Alpi Graie. 186. D Montagna dei Parcitadi. i Montagna de’ Parcitadi (Inf. XXVII), che fu uno dei capi riminesi della parte ghibellina, fecero “il mal governo” il Malatesta da Verucchio Malatesta e suo figlio Malatestino (“'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio”), impadronitisi del potere, imprigionandolo e facendolo uccidere, e sterminando gli altri della famiglia. Egli fu tra i più fieri oppositori con tutto che fosse imparentato con loro. 238 187. S Un Inganno Comico imone Donati, padre di Piccarda, Forese e dell’infame Corso (cugini di Gemma, la moglie di Dante), incaricò al falsario (imitatore) Gianni Schicchi, un Cavalcanti, di travestirsi da suo zio Buoso Donati, (omonimo del ladro del canto XXV, che è suo nipote, a meno che non si tratti di un Abati come vorrebbero gli antichi commentatori) e, nel letto di morte, testare in suo favore, dinanzi a testimoni. Gianni accettò il difficile incarico, che fu realizzato a regola d’arte, ingannando tutti, dato che fu ascoltato dai presenti e che il notaio ratificò quanto da lui disposto come ultima volontà. Per se stesso volle, e fece testare, la donna della torma (Inf. XXX), la migliore cavalla della mandria, una splendida giumenta di gran pregio e valore: oltre duecento fiorini. 239 188. A Terremoto In Purgatorio Dante era stato detto che sul Monte Purgatorio non potevano verificarsi eventi di tipo climatico e tellurico, cioè che esso è immune da perturbazioni e fenomeni naturali, climatici e mondani di cambiamento, soggetto come è, dalle radici a mollo nel mare, fino alla vetta, solo a cause celesti, che a loro volta sono caratterizzate da immutabilità e incorruttibilità. Ricordiamo che, all’epoca, agli astri si attribuiva l'essere del tutto perfetti (v. problema della macchie lunari, poi la resistenza ad ammettere quelle, addirittura, solari, scoperte da Galileo). Non può quindi intervenire neppure il vapore secco e denso (quello secco e sottile provoca i venti) che, restando imprigionato all’interno della terra, causa i terremoti, secondo la dottrina di Aristotele seguita dai vari trattatisti delle epoche successive. Eppure Dante una scossa (Purg. XXI) la sente, proprio quando incontra il poeta latino Stazio, al quale, dottissimo, chiede spiegazioni. La causa dello scuotimento del monte è non materiale, ma spirituale: quando un’anima si sente definitivamente mondata dai suoi peccati, e pronta a iniziare l’ascesa verso il Paradiso Terrestre per la definitiva beatificazione, il monte trema, rimanendo nonostante ciò immutato. Dante quindi incontra Stazio mille e duecento anni dopo la sua morte, proprio nel momento della fine del suo castigo e dopo che egli ha passato oltre cinquecento anni tra avari e prodighi, altri quattrocento tra gli accidiosi e i restanti duecento circa in altre non specificate cornici e zone del monte. 240 189. N ella croce Roberto L’Astuto di Marte, in Paradiso, brilla Ruberto Guiscardo (Par XVIII), sesto figlio di Tancredi il capostipite degli Altavilla, sfavilla assieme ai celeberrimi esempi di lotta agli infedeli: Carlo Magno, Orlando, Guglielmo D’Orange, il suo gigantesco servo saraceno convertito Rinoaldo –Rinoardo-, e Goffredo da Buglione –Duca di Lorena e condottiero che guidò la prima crociata, prese Gerusalemme e vi fu incoronato re. Lì morì nel 1100-. Il Guiscardo -l’astuto- guidò la conquista dell’Italia meridionale contro i bizantini, diventando duca di Puglia e Calabria. Si distinse per la liberazione di Papa Gregorio VII, che lo mandò a chiamare mentre era assediato a Castel Sant’Angelo da Enrico IV durante il sacco di Roma del 1084, nella lotta per le investiture. Si narra che il suo esercito normanno devastò la città addirittura più duramente di quanto fecero gli Unni e faranno i Lanzichenecchi. Il papa abbandonò la città scortato dal Guiscardo stesso (o suo prigioniero) e trovò la morte a Salerno appena un anno dopo. 241 190. Q Intellettuali Sodomiti uando Dante chiede al suo vecchio maestro sodomita (Inf. XV) Brunetto Latini quali altre anime siano punite nel “sabbione”, quello risponde facendo pochissimi nomi, ma affermando che tale peccato era tipico di chierici e di letterati grandi e di gran fama. Insomma di precettori, uomini di chiesa e, in genere, di cultura. Poi segnala uno di essi, Prisciano di Cesarea, forse confondendolo col il vescovo eretico del IV secolo Priscilliano a cui si attribuiva tale condotta. All’Inferno costoro sono puniti tra i violenti: persone di prestigio e autorità morale e docente che approfittano, asimmetricamente e in modo intimidatorio, dell’inesperienza giovanile coartando la libertà di ragazzi ingenui in virtù della loro posizione di supremazia e del prestigio personale sbandierato per impressionare. Ma nel Purgatorio, vale ricordarlo, la sodomia in sé non è che una variante dell’intemperanza erotica, affine, stanno tutti nella stessa cornice infatti, a quella dei lussuriosi eterosessuali. All’Inferno, ecco quindi un altro peccato attribuito, come tipico, al clero. Ne esce un impietoso quadro di avidi, avari, simoniaci e pederasti. 242 191. Q Un Dio Incomprensibile uando Oza (Purg. X) vede inclinarsi l’Arca dell’alleanza, che re David, danzante dinanzi ad essa, sta trasportando su un grande carro trainato da buoi, da Epata a Gerusalemme, per evitare di vederla rovinosamente cadere, la tocca e muore all’istante fulminato da Dio. Solo ai sacerdoti, infatti, era permesso di custodire e toccare il sacro oggetto, sicché lui aveva messo mano a un incarico che non gli era stato commissionato ed era, per questo, stato ripagato con la morte. 243 192. L Prescrizioni e Simboli Biblici ’iracondo Marco Lombardo (Purg. XVI) spiega da dove discenda la corruzione universale: essa dipende dall’uomo e la sua prima ragione è nella confusione tra potere temporale e spirituale. Come è vero che l’anima dell’uomo per tendenza naturale cerca il piacere, e che per averlo correttamente occorre una guida, se la guida devia, devia con essa anche il guidato: il genere umano. La guida del genere umano, la Chiesa, ha deviato confondendo i due poteri, fornendo un pessimo esempio di attaccamento ai beni terreni. Il Papa può pure conoscere la legge divina, ma non può agire come guida temporale, ruolo che spetta all’Imperatore. Per spiegare parte del ragionamento, invero molto più esteso e complesso, Dante si riferisce a una strana metafora presa dalle scritture (Levitico e Deuteronomio): “rugumar può, ma non ha l'unghie fesse”. La legge mosaica prescriveva che gli ebrei non potessero mangiare la carne di quegli animali con non fossero ruminanti e che non avessero lo zoccolo fesso (spaccato). Questa legge fu presa dalla scolastica come allegoria: l’unghia dell’animale stava a significare i due Testamenti, o il Padre e il Figlio, o le due nature (umana-divina) del Cristo; il ruminare è invece la meditazione delle Sacre Scritture. 244 193. T Un Re Falsario ra i numerosi “cattivi principi cristiani”, oltre al fiacco padre del Giustiniano inglese Edoardo I Plantageneto, quello impegnato in Scozia contro Robert Bruce e William Wallace, si nomina Stefano Urosio II (Par. XIX), re di Rascia, vale a dire di un allora fiorente regno grossomodo corrispondente a parte della Serbia e Bosnia, Croazia, Dalmazia. Egli batté moneta di fattezze simili a quelle del matapan della Serenissima, che veniva, infatti, confusa ed accettata come l’altra, pur coniata con una lega d’argento alterata. Tale pratica, invisa alla Repubblica di Venezia, fu da questa stigmatizzata con un decreto che cercava di bloccarne la circolazione. 245 194. T Racconti Cannibali ra i vari racconti cannibali (ricordiamo Saturno che divora gli Dei per non essere detronizzato, Tereo che mangia suo figlio Iti ucciso dalla madre per vendicare lo stupro della sorella, Polifemo che divora impietosamente i compagni di Ulisse, etc.) e specificamente di genitori che divorano la discendenza, Dante si riferisce anche a quello riportato nel De bello iudaico di Giuseppe Flavio, dove, tra gli ebrei assediati a Gerusalemme dall’imperatore Tito, alcune madri tra cui Maria di Eleazaro (Purg. XXIII) mangiarono i loro figli per fame. Subito prima (nella Commedia) il poeta si era riferito a un racconto ovidiano di “autocannibalismo” o “autofagia”, quello di Erisittone, re di Tessaglia che, avendo osato tagliare una quercia sacra a Cerere, fu condannato dalla Dea a patire una inestinguibile fame. Dopo aver dilapidato ogni suo bene nel tentativo vano di placarla, si vide costretto a divorare se stesso. Mentre nel racconto classico non v'è soluzione di continuità tra la fine delle risorse economiche e la decisione di addentarsi pur di alleviare la fame, in Dante (che lo prende ad esempio) Erisittone arriva al drammatico epilogo lottando per salvarsi: solo dopo un brutale dimagrimento. Ricorrere, per varie ragioni e circostanze, a una fame tanto inesauribile da condurre alla propria stessa soppressione per divoramento è una soluzione esperita più volte in letteratura, per esempio King, ma pure Tolkien, nel mito del ragno (femmina) Ungoliant. 246 195. U Racconti Cannibali II na citazione del Tieste di Seneca durante la magnifica e patetica tirata del conte Ugolino (Inf. XXXIII: “Ahi dura terra perché non t’apristi”) abilita l’interpretazione antropofaga dell’ambiguo verso: “poscia più che ‘l dolor poté ‘l digiuno”, o per lo meno induce elegantemente il lettore a considerarla una delle opzioni. A Tieste vengono date da mangiare le carni dei suoi figli uccisi da Atreo per vendetta. In almeno due occasioni (Inf. XXX, pena di Mastro Adamo, e Purg. XXII, pena del golosi) Dante si riferisce a Tantalo, anche se non in ragione del racconto antropofago che arricchisce la copiosa serie di miti di cui è protagonista, bensì per la sua più celebre pena divina di fame e sete eterne. Una storia voleva il semidio essere l’uccisore di suo figlio Pelope, assassinato di nascosto con il solo scopo di togliersi la curiosità rispetto alla onniscienza degli Dei. Gli Dei, invitati al desco, e dimostrandosi veramente onniscienti, rifiutarono l’offerta surrettizia e sacrilega di cibarsi della carne umana a loro servita dall’impertinente “siniscalco” e resuscitarono il giovane. Introducendo la storia di Ugolino, in chiusa del canto precedente a quello che la accoglie (Inf. XXXII-XXXIII), c’è anche un riferimento a Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe (Capaneo, Tiresia, sono presenti all’Inferno e partecipano, in vita, alla stessa campagna) e che, ferito a morte da Menalippo, riuscì comunque ad ucciderlo a sua volta. Tideo, fattasi portare la testa dell’altro, la addentò ferocemente e con 247 odio: proprio come fa Ugolino con l’arcivescovo Ruggieri, roso come pane per fame, prima di spirare anche lui. 248 196. D Racconti Cannibali III a ultimo, e più “di sponda” va ricordata ancora l’allusione al cannibalismo dei versi in compianto per la morte del barone Blacatz, composti da Sordello da Goito (Purg. VI), personaggio che il poeta pellegrino incontra in Purgatorio e di cui imita l’incalzante e tagliente “stile politico”. In tale “planh” (compianto) il trovatore spingeva i vili sovrani dell’epoca a mangiare un pezzo del cuore del valoroso barone così da assumerne il coraggio. Ancestrale la credenza antropofaga e primitiva che vorrebbe una qualche trasposizione di forza e valore, o altre caratteristiche del morto, nel vivo che se ne ciba, ma la vicenda del cuore mangiato è stata usata anche altrove, e con ben altro respiro, nella letteratura dell’epoca, anche italiana. La novella IV, 9 del Decamerone narra una storia ispirata a una leggendaria e tragica fine attribuita al trovatore Guillem de Cabestany, che nella realtà storica probabilmente perì nella famosissima battaglia delle Navas de Tolosa. Secondo la leggenda egli fu ucciso dal marito della sua amata durante una battuta di caccia, questi gli espiantò il cuore che, cucinato, servì proditoriamente all’adultera, rivelando solo dopo che lei lo ebbe mangiato di cosa si trattasse. In preda al dolore e allo sgomento la dama si suiciderà immediatamente lanciandosi da una finestra. 249 197. M Una Frase Biblica Molto Attuale olte fiate già pianser li figli per la colpa del padre … (Par. VI) è sentenza biblica, che forse, in Paradiso dove è ubicata, si riferisce a Filippo di Taranto e Carlo Martello, figli di Carlo II, che dovranno pagare l’ingiusta occupazione del regno di Napoli a danno di Manfredi. Ma, mentre retoricamente (e solo retoricamente) il poeta si augura la distruzione per intervento divino di intere città, per le colpe di coloro che le guidano, c’è un momento nell’opera in cui lo stesso prende posizione rispetto alla giustizia (umana) che condanna insieme ai padri i figli incolpevoli, ed è ovviamente, quello grande e famosissimo della morte per fame di Ugolino della Gherardesca e dei suoi figli. Dante dice esplicitamente che, in considerazione della loro giovane età erano innocenti e non sarebbero dovuti essere coinvolti: “Ché se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'etā novella, novella Tebe…” Al di là dei ritocchi che Dante fa di elementi della vicenda storica così come effettivamente occorsa, variazioni realizzate per accumulare pathos, (consta, per esempio, che i ragazzi in questione non erano affatto imberbi ed innocui come egli li descrive), l’invettiva che Dante formula in tale romanza contro coloro che hanno coinvolto tutti nella condanna, ha anche un valore autobiografico, posto che anche i suoi figli furono costretti a vivere gli stenti propri della sua (ingiusta, tra l’altro) condizione di esiliato. 250 198. C I Campioni ome documentato e ripetutamente riportato nei classici (Cicerone, Livio, etc.), i lottatori antichi, greci e latini, si affrontavano nudi e cosparsi di olio, per rendere più difficile la presa all’avversario. È, però, probabile che Dante nel riferirsi ai campioni (Inf. XVI), all’atto di trovare una similitudine per descrivere il curioso atteggiamento dei tre vecchi politici fiorentini che incontra tra i sodomiti, pensi a quelli della sua epoca e non già agli antichi, anche perché usa verbi al presente. Era ancora in uso infatti, nel Medioevo toscano dell’epoca di Dante, il duello giudiziario, nel quale, per questioni e controversie tra parti, prive di scritti e testimonianze che potessero suffragare le rispettive posizioni, si ricorreva a incontri tra professionisti detti anche pugiles. Tali ordalie, al cospetto di Dio (venivano anche detti Giudizi di Dio, appunto), erano realizzate con armi da offesa e difesa, e potevano arrivare ad essere all’ultimo sangue, se la questione era di gran importanza, ma per quelle di minor valore i contendenti entravano in uno steccato, o recinto, e si affrontavano a lotta e pugilato, nudi e unti come descritto dal poeta. La parte il cui campione cadeva, rimaneva, come è scontato, soccombente nella vertenza giudiziaria. 251 199. E Zoologia Medievale ra credenza zoologica medievale che il merlo uscisse a cantare nelle giornate assolate, anche in pieno inverno. Una antica favola riferiva che egli stupidamente, dopo un forte e letale gelo, vista una prima ed estemporanea giornata di sole, cinguettasse dicendo spavaldo e imprudente: “più non ti curo Domine, che uscito son del verno”. Tali parole divennero proverbiali e ad esse si rifà Dante nel caratterizzare il comportamento sconsiderato di Sapia Salvani (Purg. XIII). Il bivero –castoro- si credeva, invece, che cacciasse acquattato, in attesa delle prede in mezzo ai fiumi, su dighe di legno da lui costruite, stando parzialmente dentro e parzialmente fuori dall’acqua. Dante cita l’animaletto per descrivere l’approdo di Gerione (Inf. XVII) sull’orlo di pietra del girone sul limitare del basso Inferno. Era, invece, credenza marinaresca quella che voleva i delfini (Inf. XXII) accostarsi alle navi prima di una tempesta emergendo col dorso. Una leggenda medievale, riportata anche da Brunetto Latini, assimilava la figura del pellicano (Par. XXV) al Cristo per la bizzarra idea dell’etologia dell’epoca secondo la quale esso fosse capace di resuscitare i suoi piccoli morti, offrendo loro sangue del proprio petto. La scimmia (Inf. XXIX ) è animale imitatore per eccellenza dell'uomo, e, come è evidente, ciò è valido ancora oggi, dato che si usa il verbo “scimmiottare”. Tra bestie fantasiose e inventate (idre, sirene, centauri, etc.) Dante cita alcuni serpenti fantastici (Inf. XXIV) di origine classica, sono quelli 252 libici di Lucano: il “farea” solcava il terreno con la coda e la testa eretta, il “chelidro” è un anfibio (dal greco χέλυδρος, testuggine d’acqua) che si riteneva procedesse senza torcersi e sollevando fumo al passaggio, lo “iaculo” –lanciante- vola e si lancia dagli alberi sull’uomo come un giavellotto, il “cencri” col ventre maculato e punteggiato, procede senza torcersi, e “l’anfisbena” aveva una seconda testa sulla coda. 253 200. Pregiudizi Non Politicamente Corretti P regiudizi! Dante descrive i greci come superbi tanto che Virgilio chiede a lui di lasciarlo parlare con la “fiamma bifida”, bicefala, dove sono martirizzati Ulisse e Diomede, che altrimenti, probabilmente, non gli avrebbero rivolto la parola (Inf. XXVI). Virgilio può, e lo fa subito, introducendosi ai due, presentarsi come grande poeta epico ed emulo di Omero, che di loro stessi narra in poemi immortali che i due paiono conoscere. I tedeschi invece sono definiti “lurchi” vale a dire ghiottoni e beoni. Lurco –onis, in latino, significa ingordo, ghiotto. I “frisoni”, infine, cioè gli abitanti della Frisia, grossomodo la attuale Danimarca, sono presi per antonomasia come uomini alti, possenti. 254 201. È Nomen Est Omen aderente alla tipica mentalità medievale quella di cercare corrispondenze tra vari oggetti della realtà e del pensiero, forse indizi di un ordine supremo che traspare e da cogliere nelle cose osservandole con attenzione. Gli scolastici in specie ne ricercavano tra oggetti o persone e i loro nomi: nomina sunt consecuentia rerum, dicevano. Si pensi a San Pietro, il cui nome proprio è associato alla pietra: “tu sei Pietro e su questa pietra…”. Tracce di tale atteggiamento sono, ovviamente, presenti anche nella Commedia, per esempio nella citata corrispondenza, mancata in tal senso, del nome Sapia con savio. Ma anche il nome di Beatrice ha un chiaro significato attinente alla missione a cui il poeta la destina. Rispetto alla santa donna, però, Dante va molto più in là, e nella Vita Nuova formula una serie di complicati riscontri e corrispondenze cabalistiche, numerologiche e astrologiche legate al numero nove, fino ad arrivare a “dimostrare” che lei è di per sé miracolosa: “Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade”. Rispetto al numero nove, poi, è noto come, nella struttura del poema, Dante gli conferisca un ruolo di grande valore simbolico, e, in primo luogo, contrassegnati con tale ordinale sono i canti di passaggio da una 255 prima fase della cantica (diciamo introduttiva) alla successiva: nell’Inferno il poeta accede alla città di Dite, nel Purgatorio si immette nelle cornici di pena, in Paradiso si superano i primi tre Cieli “minori”. 256 202. F Avvelenamenti ar credenza (Purg. XXVII) si riferisce al costume dell’epoca, ne parla anche il Boccaccio, di dare a provare le pietanze del principe, di solito, a cani o ad altri animali, per sincerasi del fatto che non fossero avvelenate. Nella situazione dantesca, Virgilio sprona il poeta con queste parole a verificare il fatto che il muro di fuoco che deve attraversare per accedere al Paradiso terrestre può scottarlo sì, ma non nuocergli fisicamente, non torcergli un capello: lo invita quindi a immergere in esso un lembo della sua veste, che, vedrà, non prenderà fuoco. 257 203. I L’Abito Di Dante l lucco, parola di etimo incerto e forse imparentato con cloak, (mantello, in inglese), è la lunga veste maschile in uso a Firenze con cui viene raffigurato Dante e che il suo maestro ser Brunetto (Inf. XV) afferra esprimendo il suo stupore nel vederlo transitare per l’Inferno da vivo. Leggiamo che essa era: di panno o di damasco, di colore nero, rosso o paonazzo, chiuso al collo da grossi ganci, o annodato con nastri, e cadeva a pieghe fino a terra, con aperture laterali per lasciar passare le braccia; era foderato d’estate di taffettà o altri tessuti, d’inverno di pelliccia di vaio o di velluto. Da principio fu veste riservata ai nobili, ai dottori, ai magistrati, ai priori e ai gonfalonieri, in seguito divenne di uso comune per ogni cittadino che avesse compiuti i 18 anni. 258 204. Q “M” Onciale uando Dante incontra il suo goloso amico Forese in Purgatorio, non lo riconosce tanto è smagrito. Descrive poi tutti gli ospiti della cornice VI come delle M onciali. Chi pensa che nel volto umano sia scritta la parola “omo”, prendendo i due occhi per le O e vedendo gli zigomi, le arcate sopracciliari e la linea del naso tratteggiati rispettivamente dagli steli esterni, le curve superiori e la retta centrale della lettera M, può facilmente capire il tremendo spettacolo di queste anime consumate: le pupille parevano gemme incastonate in enormi orbite. L'onciale fu la scrittura per eccellenza dei codici miniati bizantini, diffusa dal IV al IX secolo, era arrotondata e meno squadrata degli antecedenti alfabeti, quindi più indicata per la penna e la pergamena che si diffusero al tempo. Nelle epigrafi le O erano inserite dentro gli spazi interni e curvi della lettera M quindi divenivano simili a due occhi in un volto stilizzato. Il volto dell’amico è così scavato che la similitudine è subito evidente in lui. L’opinione che l’essere umano avesse la parola “omo” scritta in volto, era diffusa nel Medioevo; in specie una predica francescana di Bertoldo di Ratisbona testimonia in modo preciso tale dato. 259 L 205. Gioco Della Zara iberandosi gentilmente del capannello di anime purgatoriali che attendono alla radice del monte il momento dell’ingresso alle cornici di pena, attesa imposta per aver dilazionato negligentemente il proprio pentimento, sino alla fine della vita, Dante, che può accelerare i tempi pregando per loro, si ritrova a comportarsi come chi, sulla pubblica piazza, sia uscito vittorioso da una partita alla zara, e vada distribuendo mance. La Zara (Purg. VI) è un gioco di dadi, comune nel Medioevo. Il suo nome dovrebbe essere di origine orientale -cfr. lo spagnolo azahar, dall’arabo zahr (fiore)- zagara, appunto: fiore d’arancio o d’agrume. Oppure dalla stessa parola araba (che significa anche dado) poi passata anch’essa allo spagnolo in azar, azzardo, rischio, aleatorietà, incertezza. Si giocava con tre dadi, si dichiarava una cifra da 3 a 18 e si lanciava, chi azzeccava l’uscita prendeva il piatto. 260 206. L Le Tre Parche e tre Parche, corrispondenti alla greche Moire, le celebri e sinistre, divinità romane, sono menzionate tutte nella Divina Commedia: Atropo, l'Inesorabile, da ὰ-τρέπω (Inf. XXXIII), Cloto la Filatrice, da κλώθω (Purg. XXI) e Lachesi da λαχεῖν, (Purg. XXI). Figlie di Erebo (dal greco ῎Ερεβος, “tenebre” e quindi anche personificazione degli inferi, figlio di Caos) e della Notte (sua sorella da cui ebbe altra svariata discendenza), o di Zeus e Themis, si occupavano dello stame della vita umana, la cui intera vicenda era rappresentata da operazioni tessili. Alla nascita di ciascuno, Cloto, la più giovane, prelevava una certa quantità di lino, lana, o canapa (pennecchio) e la avvolgeva sulla conocchia, Lachesi, poi, la filava giorno e notte. La durata di vita di ciascuno era determinata e limitata dalla attività di questa Parca, dato che, quando ella finiva di tessere, il filo era ineluttabilmente reciso dalle forbici di Atropo. “Clotho colum retinet, Lachesis net et Athropos occat”. 261 207. G Malaria E Ospedali iunto il momento di salire in groppa a Gerione per tuffarsi a volo e transitare così verso il basso Inferno di Malebolge (non c’è altro modo) Dante si sente assalito da un incontrollabile brivido che paragona al “riprezzo” -ribrezzo: brivido di freddo, di chi trema alla sola vista dell’ombra-, anche esso non soggetto a volontà, di chi senta arrivare la febbre quartana. La quartana è una febbre infettiva, variante della malaria, che sorge nel malato con una periodicità costante, ogni quattro giorni, intervallata da due giorni di apiressia, ed è causata dalla presenza nel sangue di successive generazioni parassitarie. Il poeta formula in un’altra occasione il riferimento alla malaria (Inf. XXIX) quando, visitando il luogo di pena degli alchimisti afferma che unendo lamenti e puzzo degli ospedali di Valdichiana, Maremma e Sardegna, luoghi all’epoca infestati da tale male (anche Senigallia, Par. XVI, ne è infestata) non si arriverebbe alla situazione che egli stava vivendo. La prima località, tra Arezzo e Chiusi, era infetta per il ristagno delle acque del Chiana, la Maremma è famosamente paludosa, e la Sardegna era considerata molto malsana. In tali posti erano stati costruiti ospedali che accoglievano dovizia di malati, specie tra luglio e settembre. 262 208. P Virgilio Il Mago are che nel Medioevo la fama di “mago” seguisse spesso quella del semplice sapiente. Di sola sapienza scambiata per magia si parla anche in merito a un dannato dantesco: Michele Scotto, che fa “retroso calle” assieme a Asdente, Bonatti e compagnia proprio come indovino. Maghi e indovini sono, notoriamente, puniti assieme all’Inferno anche se tecnicamente si tratta di condotte diverse. Di Scotto si narra che parlasse latino, greco, ebraico, caldaico, arabico, fosse matematico, astrologo, teologo, filosofo e naturalista alla corte di Federico II, l’imperatore avverso al papato, anche lui eruditissimo, e definito dalla pubblicistica clericale persino come l’Anticristo. Tra altri, la redazione di libri di magia, fu attribuita persino a San Tommaso e Alberto Magno. Il discorso sarebbe complicatissimo, ma, benché Dante non pare aver potuto condividere una opinione del genere, una leggendaria fama di mago aleggiava anche su un personaggio centrale della Commedia: Virgilio. Quello stesso Virgilio che (prima guida, delle almeno tre identificate e personificazione della ragion naturale) il suo discepolo Dante sistema, reverente, nel Limbo, come giusto pagano, e che, secondo altre leggende, può vantare di aver convertito molti alla fede cristiana con la sua famosa egloga IV. Tra altri convertiti dall’inconsapevole opera poetica del mantovano, Dante stesso inventa la bellissima storia di Stazio, che sarà incontrato in Purgatorio. 263 Virgilio, diceva il mito, aveva salvato anime pur senza essersi salvato lui stesso. Nel Medioevo si narrava pure che, se avesse avuto la fede, Virgilio sarebbe stato addirittura un santo, ed è per questo che sorse la leggenda bizzarra secondo la quale uno di essi, San Paolo, pianse sulla sua tomba. 264 209. B Un Traditore Corrotto Dai Francesi uoso da Duera (Inf. XXXII) signore di Cremona, fu incaricato dai ghibellini di Lombardia e da Manfredi di resistere, presso Parma, alla calata di Carlo D’Angiò, ma corrotto col danaro (“argento de’ franceschi”) lasciò passare i francesi, i quali così potettero prendere parte alla famosa Battaglia di Benevento del 1266 contro il figlio di Federigo II. Così la storia secondo Dante. A dire il vero, secondo fonti storiche, nell'estate del 1265, per iniziativa di Filippo Della Torre, che aveva già spodestato il Pelavicino a Milano, i guelfi, tra cui, in testa a tutti, Obizzo d'Este (sempre quello a bagno nel Flegetonte), il marchese del Monferrato e il conte di Savoia, si allearono con Carlo d'Angiò, aspirante alla corona siciliana. Questo patto era espressamente rivolto contro Manfredi di Sicilia, Oberto Pelavicino -o Pallavicino, coreggente di Cremona ed ex capitano di ventura sotto Federico II di Svevia- e il Duera stesso, e avrebbe dovuto aprire alle truppe francesi la via verso l'Italia centrale e meridionale. Il Buoso e il Pelavicino, con forze molto inferiori di quelle degli avversari, tentarono pure di sbarrare il passaggio dell'Oglio a Soncino e Orzinuovi, ma alla fine del 1265 gli invasori varcarono il fiume indisturbati più a settentrione, presso Palazzolo, unendosi, a Mantova, con le truppe estensi. 265 210. I La Città Infernale Di Dite l “recinto” che separa le anime peccatrici per incontinenza da quelle colpevoli per violenza e frode, all’Inferno, è tracciato dalle mura della città di Dite (Inf. VIII-IX). Attraversandole si entra nell’Inferno vero e proprio (rectius: “basso Inferno”), avvenimento che cade al Canto Nono della cantica, (già detto che anche nelle altre due succederà di superare un passaggio cruciale del viaggio oltremondano al nono canto). Dite è al contempo un luogo e un personaggio. In Cicerone Dite è il Dio romano, identificato con quello greco figlio di Crono e Rea, e re dell’Averno, Plutone. Dante chiamerà Dite sia la città che lo stesso Lucifero, che difatti è un re infernale, come anche accade nell’Eneide. Appressandosi ad essa, da fuori quindi, Dante scorge in primo luogo, come è naturale che sia, le “meschite” che costellano le mura, cioè sorta di campanili o torri che ricordano quelle pagane delle moschee, non potevano certo sembrare campanili cristiani dato che non sono certo costruite a gloria di Dio. Come nell’opera virgiliana, le mura infernali sono cinte dal fiume paludoso dello Stige e molta della descrizione antica viene ripresa in quella dantesca. Nella Divina Commedia, il recinto urbico è di ferro rosso fuoco, incandescente per il calore che all’interno dell’Inferno brucia. Difatti la prima scena che si presenta ai pellegrini all’interno della città infernale è una solitaria distesa di sepolcri aperti, quelli degli eretici, 266 “affocati”, infuocati, e il personaggio che si rivolge a Dante in tale luogo (Farinata) la definisce “città del foco”. Forse la “catena” ferrea che recinge il luogo di pena delle anime violente e fraudolente sta a significare l’impossibilità per esse di uscire dai loro peccati mortali, possibilità, invece, più fattibile, o meno irrealizzabile, per coloro che peccano unicamente di incontinenza e si trovano più in alto, al di fuori di essa. 267 211. R Ribaldo! ibaldo (anticamente: rubaldo) dal provenzale e francese antico ribaud, è parola di etimo controverso. Secondo alcuni essa originariamente non ha avuto da subito il significato negativo che ha anche presso di noi, ma si riferiva semplicemente al cortigiano, e forse Dante in questo senso la usa. In tal caso il termine deriverebbe, chissà, dal germanico bald o balt: ardito, glorioso; unito al tedesco rik: forza, ricchezza. Secondo altri l’origine sarebbe, invece, sempre dal germanico, ma da: hrība (prostituta) e avrebbe un immediato senso odioso. Altri ancora lo vorrebbero discendere dal tedesco: rieben (raschiare) e starebbe a indicare il furbo, l’astuto. Il termine è usato da Dante una sola volta, il furbo barattiere Ciampolo di Navarra sulla sua nascita (Inf. XXII) dice: “mia madre... m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di se e di sue cose”; forse si tratta di un cortigiano licenzioso e crapulone. Guido da Pisa mette in relazione e differenzia ribaldi e barattieri: …barattiere è chi opera in mala fede o frode contro la cosa pubblica e l’economia, per lucro. Il ribaldo è chi distrugge le sue cose giocando e biscazzando (“Hic tacite demonstrat quae differentia sit inter barattatorem et ribaldum. ‘Barattator’... est qui dolo vel fraude contra rem publicam vel yconomicam per pecuniam aliquid operatur. ‘Ribaldus’ vero est qui, ludendo, dispergendo vel commessando res et bona sua...”). I termini ribaud in francese e ribaldus nel latino medievale, erano stati usati, quindi, in accezioni molto diverse come anche nell'italiano duetrecentesco. 268 Specificamente, ribaldi erano innanzi tutto detti i soldati di vile condizione e armati alla leggera, ai quali era affidato il compito di accendere e ingaggiar battaglia; si parla in tal caso dei tempi di Filippo Augusto re di Francia, che in tal preciso modo li fece chiamare. Ma il termine si riferì anche a coloro che andavano saccheggiando al seguito dei cavalieri, e anche ai servi, ai predatori, alla folla e a tutti i non combattenti che, seguendo le milizie, riuscivano a entrare negli accampamenti. Per estensione, furono così chiamati anche coloro che “senza arte onesta vivessero alla giornata di giuoco, di rapina e di mestieri vili e turpi”. 269 212. B Barattiere arattieri sono, invece, chiamati, nella Commedia, tutti i dannati della quinta Bolgia dell'ottavo cerchio (Inf. XXI, XXII). Dante usa questo termine per riferirsi ai rei, diremmo noi, di peculato e corruzione in genere: tutti coloro che, in quanto pubblici impiegati o investiti di pubbliche funzioni, specie cariche politiche, si facevano corrompere dal denaro e facevano commercio, per lucro, della cosa pubblica. Dice infatti di tale comportamento: “del no per li danar vi si fa ita”, cioè si fa del “no” il “sì” per danaro. La parola barattiere, però, in una sua prima accezione più plebea, non si riferisce alla attività politica, ma ha un significato più basso e affine a quella precedente. Negli Statuta Cadubrii si parla di: voce generica che presso gli italiani indica un gran gruppo di vilissimi uomini che vivono lucrando sordidamente (“vox generica, qua apud Italos praecipue vilissimi quique homines... significantur” e quindi “qui ex sordido lucro vitam agunt”). Nei secoli XIII e XIV erano chiamati barattieri i calones, i galeones, coloro che esercitavano le professioni di facchino e addirittura di boia o il suo tirapiedi, i pulitori di pozzi neri, chi teneva un banco di gioco, chi viveva alla giornata, rapinando ed esercitando mestieri vili e turpi, anche al seguito degli eserciti, ma il termine arrivava a indicare genericamente anche: la contesa, il contrasto, la baruffa. Fra i secoli XIV e XVII significherà persino il luogo nel quale i barattieri giocavano d'azzardo. 270 Pare che tra il Due-Trecento toscano esistesse una baratteria spicciola, faccendiera, quotidiana, esercitata da uomini di bassa condizione e non dediti all’esercizio di un’arte e che quindi vivano di mezzucci e alla ventura. A Lucca il fenomeno arrivò a tale diffusione e proporzioni che il Comune incassava un tributo, il provento della baratteria, la “kabella barrate rie” e a Firenze aveva dato luogo a una vera e propria consorteria, dotata addirittura di un proprio gonfalone con tanto di insegna, i cui componenti indossavano: “una tuta di lavoro con cappellina nera a punta”. Anche il termine ribaldo, particolarmente in uso per prostitute e gestori di bordelli aveva nella Francia del XII secolo un personaggio ufficiale, conosciuto come Rex Ribaldorum, appunto, il cui compito era quello di indagare e promuovere inchieste giudiziarie per i reati commessi entro il perimetro della corte, e di controllo di vagabondi, prostitute, bordelli e gioco d'azzardo-case. Nella vita fiorentina dell’epoca, a quanto sembra indisturbati da parte delle autorità, attendevano al giuoco dei dadi, o alla gherminella. Sul Mercato Vecchio non soltanto i contadini, le contadine e le popolane, ma anche i cavalieri ed i giovanotti delle grandi casate formavano la ben gradita clientela che si assiepava intorno ai barattieri. 271 213. D La Fede ante, dinanzi a San Pietro che lo sta esaminando, e in accordo con la chiosa tomista alla Lettera agli Ebrei (XI, 1: “est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium”) definisce la Fede (Par. XXIV) come: … sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi, ... Inutile rimarcare qui quanto centrale sia il tema della fede per un cristiano, ma per farla breve il poeta afferma convinto di avere fede (paragonata a una lucente moneta d’oro) a causa dei numerosi miracoli di cui si favoleggia nella Bibbia, e che non potrebbero mai avere una spiegazione altra che l’origine divina. All’obiezione dello stesso Pietro, che gli fa osservare l’ovvietà per la quale il racconto biblico ricoprirebbe al contempo il ruolo di testimone e giudice in uno stesso procedimento mentale, Dante replica che ad ogni modo il maggiore e più stupefacente dei miracoli lo ha potuto osservare lui stesso, dato che esso è l’enorme diffusione del cristianesimo da un così piccolo seme. Per Dante quindi, il più grande dei miracoli mai occorsi, è proprio che da una vicenda apparentemente umile e poco significativa, che implicava personaggi anche essi umili (non val la pena ricordare che Pietro stesso, primo Papa, era un pescatore) sia scaturita una intera civiltà. 272 214. C Orlando ome accade in molti altri punti e con altri personaggi, potrebbe essere oggetto di interessantissime, dotte e complicate tesi dottorali sviscerare il senso e la portata dei riferimenti a Orlando durante la Commedia. Essi, comunque, suscitavano di certo un’impressione immediata e viva nel cuore del lettore dell’epoca, altamente evocativa. Orlando, il celebre eroe cantato per secoli dalla cristianità, appare citato all’Inferno (Inf. XXXI), probabilmente in virtù della sua vicenda umana che lo rende esempio, antonomasia, di persona tradita. Difatti Dante lo ricorda a proposito del corno ascoltato con spavento al Pozzo dei Giganti, e quindi proprio poco prima di immettersi nel lago di Cocito dove si puniscono i traditori. Come tutti ricordano, nel 778 egli morì a Roncisvalle nella retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, composta da tremila uomini, che lui stesso guidava. L’attacco degli infedeli fu propiziato proprio dal traditore Gano. È arcinoto come nella Chanson si narri del suo corno Olifante, che riecheggiò vastamente per le montagne e il cui suono giunse sino alle orecchie preoccupate di Carlo. Orlando, su consiglio del saggio Oliviero, lo suonò, e con tanta forza lo fece, narra il poema, che le tempie gli si creparono e sangue chiaro gli sgorgò dalla bocca. Quando il re cristiano arrivò in soccorso non trovò che morti. In Paradiso (XVIII) Orlando è citato con Carlo Magno dopo due eroi biblici, come esempio di campione nella lotta contro gli infedeli. 273 215. Morte Per Diarrea Divina D a un passaggio, poi considerato spurio, del Decretum di Graziano, Dante ricava la storia del famoso Papa Anastasio (Inf. XI), chiuso nel sepolcro da eretico dove sostano i due poeti pellegrini prima di scendere la rupe e avventurarsi oltre i peccati di incontinenza. Secondo la leggenda, il Papa, traviato dal diacono Fotino affinché abbracciasse l’eresia monofisita di Acacio, che assegnava al Cristo la sola natura umana, fu punito da Dio in persona con una morte improvvisa (nutu divino percussus est). Non è l’unico la cui morte sia dovuta a diretto intervento e punizione divina (a volte Dio interviene altre, no!), analoga e bizzarra sorte, si narra, capitò ad Ario. Ambedue morirono in modo assai singolare e umiliante, mentre stavano espletando le loro funzioni corporali, evacuando a terra tutte le viscere. 274 216. I senesi, Un Fiume Inesistente già segnalati all’Inferno come persone di straordinaria idiozia, sono ricordati pure in Purgatorio per una fallimentare iniziativa nella quale furono spese ingentissime risorse economiche e profusero sforzi vanamente. È noto, infatti, che nella ricerca di acqua si ossessionarono nel voler cercare un fiume (Diana) che non esiste affatto e, città non costiera, addirittura abilitarono cariche militari ridicole e vacue: ammiragli di città senza porti. 217. L’Eliotropio N el Medioevo si credeva -o si fingeva di credere- che una pietra, una forma particolare di quarzo: calcedonio verde scuro con inclusioni di ossido di ferro o diaspro in forma di macchioline di color rosso o arancio, l'eliotropio (dal greco ήλιοςhelios, sole e τρέπειν-trepein, girare: orologio solare, girasole), fosse in grado di riparare contro il morso dei serpenti, o, come citata pure da Dante (Inf. XXIV) e da Boccaccio nella novella di Calandrino (Decamerone, VIII, 3) e menzionata nel Mare Amoroso, donasse invisibilità. Suo altro nome è diaspro sanguigno, per via del colore. 275 218. I Malebolge, Malebranche, Malacoda l suffisso mal (ricordiamo che “mal mondo” è l’Inferno stesso) è usato nell’onomastica infernale dantesca in tre importanti occasioni in unione con altri lemmi: Malebolge, Malebranche, Malacoda. Nel primo caso (Inf. XVIII) Dante così chiama un luogo: la parte dell’Inferno dove sono puniti i fraudolenti, il basso Inferno. La parola è formata dall’unione di ‘mal’ con la parola ‘Bolgia’ che, mentre per noi ha ormai un significato specifico e di derivazione esclusivamente dantesca (luogo infernale, chiassoso, disorganizzato e stipato di gente) al tempo del poeta significava, borsa, sacca, e quindi starebbe stata evocativa di un contenitore di pelle, bisaccia, riempito del male del mondo. L’aver punito i fraudolenti in sì chiamati fossati, forse, riecheggia il loro agire subdolo, coperto, chiuso, ma l’insieme della conformazione dei fossati stessi, la parola che li indica collettivamente, alcune caratteristiche specifiche di taluni, lascia inevitabilmente pensare a degli intestini o a una fogna: le fognature di un sinistro e inverso castello in pietra. Malebranche è invece il nome collettivo di tutti i diavoli guardiani e addetti al tormento, tramite uncini –raffi- dei dannati della quinta Bolgia, il numero totale di essi è imprecisato, ma, si suppone, vasto (Inf. XXI, XXII, etc.) ed è formato manifestamente con la parola ‘branche’, che riecheggia la loro missione di infiocinatori, e scorticatori tramite forconi, artigli e uncini (da cuochi), dei dannati che “abbrancano” (appunto), gettano a lesso nella pece e poi controllano. 276 Le figure diavolesche sono popolari, hanno in generale un aspetto feroce, sono neri, forti, dotati di ali, crudeli, straziano i dannati, sbeffeggiandoli in modo sarcastico, ma sono anche assai volgari, litigiosi, irascibili, inaffidabili, poco organizzati e indisciplinati sino alla inefficienza. Ricordiamo tutti i loro dodici nomi, per renderceli familiari: Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante. Tutto il gruppo incontrato da Dante obbedisce a Malacoda, che è specificamente quello che seleziona la decuria che accompagnerà i due poeti pellegrini per le “bollienti pane” –stagni. È lui che parlamenta con Virgilio, ne ascolta le ragioni, si stupisce della situazione del pellegrinaggio infernale voluto da Dio tanto da far cadere l’uncino a terra, e fa in modo che nessuno aggredisca i visitatori. Anche questo nome è ottenuto dall’unione di due lemmi che evocano immediatamente una certa e precisa sensazione nel lettore, un procedimento di creazione onomastica definito dalla critica come “intellettualistico”, però. Il nome, coniato sullo stesso tipo degli altri due, resta chiaro sia dal punto di vista lessicale che da quello delle possibili allusioni. Il secondo elemento che lo compone, coda, richiama l’attributo maligno del tipico bestiario iconografico infernale, come anche in Gerione (con coda di scorpione) e propone un personaggio anche esso dai tratti fortemente popolareschi e grotteschi. 277 219. L’Amore: Forza Che Unisce O Che Divide? D ante fa dire a Virgilio che quando egli sentì il terremoto che scosse l’Inferno alla morte di Cristo, lui, che era già dipartito da qualche tempo, pensò che “l’universo sentisse amor” (Inf. XII), per mezzo del quale amore il mondo fu più volte convertito nel caos, si dice. … l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; … Che l’amore sia la forza capace di rifondere il mondo nel caos deriva dalla dottrina dell’antico filosofo greco Empedocle, il quale distinguendo i quattro elementi (fuoco, terra, aria, acqua) assegnava alla discordia, o odio, la facoltà di separarli, o disgregare, e quindi di ordinare il mondo in oggetti distinguibili, e alla concordia, o amore, di unirli e quindi di renderlo caotico e indistinto. L’alternarsi della preponderanza di una delle due forze universali ricorrerebbe ciclicamente tra due estremi. Tale dottrina fu criticata da Aristotele, e dalla cosmologia cristiana che assegnavano all’amore la virtù ordinatrice del mondo. 278 Tralasciando il discorso serio-tecnico, e le ingentissime riflessioni filosofiche e filologiche che possono formularsi con rigore, e ovviando al fatto che per noi oggi questa dottrina non ha il minimo senso, è curioso vedere come la discordia, o l’odio, in Empedocle sia una forza “utile-funzionale” all’esistenza dell’uomo, che versa in uno stadio intermedio tra caos privo di conflitto e distruzione assoluta. L’uomo è parte aggregato e parte no. Il nostro attuale intendimento dei lemmi implicati nella faccenda ci induce a relazionare l’odio con il male, la distruzione il disordine, la sofferenza, e l’amore con il bene, la costruzione, l’ordine, la piacevolezza. Ma ciò è in parte arbitrario, in effetti l’odio è per l’essere umano un sentimento non sempre e necessariamente vincolato al “male” e senza dubbio è funzionale alla lotta per la sopravvivenza. Assegnare alle leggi della natura un vincolo diretto con i sentimenti umani, più conosciuti e tipici, fa venire in mente l’idea che tali sentimenti non dipendano da altro che da tali forze, e sorgano, quindi, in modo meccanico ed inevitabile in ciascuno a seconda della composizione specifica di elementi che lo conformano e obbedendo alle stesse regole degli animali che si predano tra loro, o degli oggetti inanimati che cozzano e si sfaldano. Andrebbe rilevato come anche il pensiero potrebbe essere vincolato alle due forze elementari, dato che uno dei processi per “mettere ordine” nelle cose tramite scomposizione degli elementi è quello di studio, o di analisi: di separazione. Il procedimento di conoscenza (supremo dei misteri) potrebbe però ben dirsi attivato, in principio, da un “amore” (‘filosofia’ è amore per il sapere) che è appunto un scelta 279 per qualcosa verso cui si propende, e che difatti fa “unire” due elementi che sono, dapprima, separati. Si potrebbe dire, quindi, che l’amore se ti avvicina a qualcosa con una buona disposizione d’animo e ti unisce ad essa, non per questo è la stessa forza che te la fa capire e comprendere, e che “mette in ordine”, sistematizza, l’oggetto per cui sente attrazione. L’amore è difatti una forza irresistibile e indomabile, da questo punto di vista caotica, per quanto di solito piacevole, e che aggrega elementi distanti. Parimenti il voler ordinare le cose significa anche separarle, romperle, processo che come disposizione interna sentimentale non implica affatto la buona disposizione e meno che mai il trasporto, ma una volontà di dominio. Conoscere è sezionare, spezzettare, come fa l’Hacker pure, per ottenere un risultato. Anche la parola “discutere”, dal latino, ha originariamente un significato odioso e aggressivo, significa infatti “sbattere, separare”. E quindi! Amare una persona non equivale a volerla capire! Anzi volerla comprendere (comprendere equivale a circoscrivere, quindi anche, imprigionare), e discuterci, è in un certo senso incompatibile con l’amarla. Amare è affidarsi a una forza caotica e tirannica, furiosa e indomabile che ti unisce all’altro e ti fa desiderare, nell’ardore più sfrenato e il nonsenso, di riuscire a confonderti con esso, anche fisicamente, in un amplesso frenetico e febbrile. Amare è incenerirsi nell’altro cercando una irraggiungibile fusione dei corpi, premere le labbra e i denti fino alla soglia del dolore, tremare di desiderio insensato e inesplicabile. 280 Amore è al di là del calcolo, della convenienza, dell’opportunità della comprensione, di uno scopo: è caos. E per questo l’amore non è e non sarà mai nella stabilità, nella struttura, nella famiglia, negli accordi e nei contratti. Forse chi non ha amato e non ama così, semplicemente non ama! Deve cercarsi un altro termine e smettere di usurpare con la sua tetra vita di coppia il sentimento che supera ogni altro quanto a forza. 281 P 220. L’Alchimia reambolo. Considerato da moltissimi uno dei discorsi più interessanti -e centrali- della Commedia, quello dell’alchimia (parola di origine arabo-greca composta dall’articolo arabo “al” e il greco “chemeia” –χυμεία- fondere, spandere, saldare) non è che non possa essere trattato o sviluppato, non potrebbe essere nemmeno menzionato, in poche righe. C'è chi ritiene addirittura che l'intera opera dantesca non sia da interpretarsi, nella sua essenza più profonda, altro che in chiave esoterica, e addirittura come un trattato alchemico occulto e dissimulato (per ragioni di sicurezza). Altri hanno detto trattarsi di un'opera alchemica in cui la materia grezza è l'uomo. E così via. Alcune corrispondenze (se ne è parlato a lungo) fanno certamente pensare, e l'uso massiccio dell'allegoria, molto studiata e su cui si insiste assai, può significare chissà cosa di preciso. Bisognerebbe, dicono alcuni, essere degli iniziati per avere gli strumenti per capire, altri sostengono di esserlo e non poterci rivelare nulla. A noi, per avere materia su cui riflettere, basti solo pensare alla divisione in tre parti del poema corrispondenti, per varie analogie, alle tre parti dell'opera alchemica: Nigredo, colore nero, putrefazione (Inferno); Rubedo, colore rosso, purificazione (Purgatorio); e Albedo, colore bianco, ricomposizione (Paradiso); o agli strafamosi passaggi che parrebbero alludere esplicitamente a un senso segreto dell'opera e agli appelli diretti al lettore di far attenzione al “vero senso” dei versi: Inf. III-19 “le segrete cose”, Inf. IX-63 “li versi strani”, Purg. VIII-20 “’l velo è ora ben tanto sottile”, etc. 282 Ma quello alchemico non è certo l'unico ambito in cui è stato ricondotto un messaggio occulto e criptato dell'opera, altri vedono in Dante un Templare (residuo e nascosto, dopo l’attacco sferrato proditoriamente da Filippo il Bello che annientò il potente Ordine monastico guerresco), e altro ancora. Ad ogni modo la parola “alchìmia” appare due sole volte nell'opera, e ambedue nello stesso Canto (Inf. XXIX) a menzione di una colpa mortale. Siamo nella Decima Bolgia dell'Ottavo Cerchio (dove appunto si puniscono i falsari e tra essi gli alchimisti) e a tirarla in ballo sono due personaggi: Griffolino d’Arezzo, e il vecchio compagno di scuola di studi in scienze naturali- dell’Alighieri, Capocchio, i quali affermano di aver esercitato tale arte in vita e perciò patiscono la loro lebbra o scabbia infernale. Scopo del magistero alchemico è quello, notoriamente, di trasformare i metalli vili in oro attraverso una sorta di reagente chiamato “pietra filosofale” (e poi quello di trovare, l’onniscienza, o “l’Elisir di lunga vita”, che dona l'immortalità o un prolungamento indefinito della vita, ma Dante si riferisce solo alla trasmutazione –falsificazione, dalla sua ottica, più o meno sincera che sia- dei metalli). La Chiesa sotto il pontificato Giovanni XXII (lo stesso polemicamente descritto e vituperato da Dante come simoniaco in Par. XVIII) condannò esplicitamente tale pratica. Il Pontefice (con una bolla: “Spondent Pariter” del 1317, quindi successiva, assai probabilmente, alla stesura definitiva dell'Inferno, ma non di tutta l'opera la cui conclusione si stima verso il 1321, anno di morte del poeta) sancisce che gli alchimisti sono “de crimine falsi” rei, ma San Tommaso 283 (canonizzato dallo stesso Papa) e discepolo di Alberto Magno (interessato al tema alchemico per via dello studio profondo delle scienze naturali), ammette la possibilità, in via solo teorica, di ottenere, tramite questa pratica, oro vero, e non contraffatto, da metalli meno perfetti. Sbozzando un'idea generale, le operazioni alchemiche dovrebbero purificare i metalli grezzi (persino il più pesante, vile e grezzo di tutti, il piombo) in quello prefetto, l’oro, dato che il metallo in sé ha una radice comune e perfetta presente in ognuno, ma poi inquinata, in diverso modo, da accidenti, e esistente, pertanto, in vari di gradi di imperfezione. L’alchimia -operazione d’arte ad imitazione della natura- non è tutta illecita quindi: quella “vera” dovrebbe poter essere usata, l'altra, detta “alchimia sofistica” (usata per trarre profitto con l'inganno e pervertendo la fiducia -nella moneta e la sua validità- degli altri), no. Dante però non accenna alla differenziazione (alchimia vera-sofistica), forse per evitarsi problemi dato che, per molti aspetti, con la sua opera danza già spesso sul filo dell’eresia e non vorrebbe fare la fine di Cecco D’Ascoli (rogo nel 1327). D'altra parte alcuni hanno definito l'alchimia come “la storia di un errore umano” e già Petrarca, in “De remediis utriusque fortunae” afferma non essere l'alchimia altro che: “fumo, ceneri, sudori, sospiri, parole, inganni e vituperî”; e poi: “Noi non veggiamo mai alcun povero, che per mezzo dell'Alchimia divenga ricco; ben veggiamo molti ricchi per essa ridotti a povertà”. 284 221. P La Lingua Del Poeta er farci immaginare quanto sia difficile (da non prender sottogamba) raccontare del più profondo luogo dell’Inferno, e quindi, nella cosmogonia geocentrica, anche dell’intero universo, Dante usa una frase che si riferisce alla inesperienza sintattica dei bambini (Inf. XXXII): ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, né da lingua che chiami mamma o babbo. La frase, la figura che ne scaturisce, è particolarmente tenera e delicata anche se ubicata in un passaggio di grande forza nell’economia dell’opera (manca ancora la vicenda di Ugolino e Dante vedrà, due canti dopo, Lucifero in persona), e fa venire in mente una domanda: anche se non lo capiamo più bene, se molti, scoraggiati, rinunciano a leggerlo, e tutti si ha bisogno di copiosissime note semantiche oltre che storiche e letterarie, che lingua parla Dante? La risposta è inequivocabile: la nostra! Nella quale ancora, dopo oltre sette secoli, le due prime parole apprese nella nostra vita suonano esattamente uguali: mamma e babbo. 285 222. Q Tanti Bambini Piccoli uanto più Dante si avvicina alla contemplazione di Dio tanto più parrebbe regredire allo stato di infante. Sono, infatti, reiterate le similitudini che involgono bambini che si fanno via via più piccoli quanto più si ascende. Ma c’è anche una vasta rappresentanza infantile nel Paradiso poetico. Congedatosi dalla sua Beatrice nel canto precedente, e assunto a guida ultima San Bernardo, Dante contempla il magnifico spettacolo delle anime beate, individuando la sistemazione che a ciascuna di esse è stata destinata secondo un infallibile schema divino: Maria, Eva, Rachele (accanto, come si sa dall’inizio dell’opera, canto II dell’Inferno, le siede Beatrice), e così via Sara, Rebecca, Giuditta, etc. fino a quelle anime che non sono salve per merito proprio, ma per merito altrui, essendo uscite dal corpo prima di aver acquisito la capacità di scelta tra bene e male. Si tratta dei bambini innocenti (Par. XXXII), morti prima d’avere l’uso della ragione. Di colpo il solenne Paradiso dantesco pullula di voci e volti di marmocchi e putti, una scena di singolare dolcezza ed effetto consolatorio, specie se pensiamo all’alto indice di mortalità infantile che affliggeva il Medioevo. Per acquisire questo sublime effetto audio visuale il poeta smentisce la teologia scolastica che voleva che i morti assumessero il corpo perfettamente formato e sviluppato, in piene forze, dell’uomo adulto d’età approssimativa della morte del Cristo, e adotta l’atra opinione che voleva invece che ciascuno conservasse quello del momento del 286 trapasso, sebbene libero e immune d’ogni difetto (anche San Bernardo è un sene, dopotutto). I bimbi sono entrati in Paradiso per merito altrui, dei genitori, ma le condizioni e i presupposti per tale ingresso sono mutati nella storia umana. Nel periodo che va da Adamo ad Abramo era sufficiente la sola fede dei genitori nel Cristo venturo, poi fu necessaria la circoncisione, e infine il battesimo. Rimane da segnalare il contrasto tra la visione dantesca del Paradiso e l’idea di Tommaso che voleva i bimbi “naturalmente perversi”. Il santo era stato già implicitamente smentito su un altro punto della sua dottrina, quando, recitando in rima, aveva ricusato le idee spregiative che in vita aveva avuto dell’arte poetica. 287 Appendice I: Rilievi sulla questione “dell'Antivedere” (di Farinata) e la Conoscenza degli Epicurei una volta giunta la Fine dei Tempi Il problema della conoscenza e quello della “memoria” di un dannato dantesco (o ancor più di un’anima qualunque dei tre Regni) è immensamente complicato, così come infiniti altri. L’estrema complessità è parte dell'interminabile fascino dell’opera stessa, poiché tra i piaceri che essa regala c’è quello di immaginare conseguenze implicite in alcune sue tematiche alla luce degli elementi che Dante semina nel corso dell'opera. Uno dei più complessi è proprio questo. I dannati danteschi vivono in un'“aura sanza tempo tinta” (Inf. III, 29) priva cioè di alternarsi di giorno e notte, cambiamenti e storicità, sono del tutto relegati al di fuori del mondo storico di cui non fanno più parte. Tuttavia essi conservano un “sinallagma” con esso, posto che consapevolmente espiano la colpa mentre il mondo storico procede nel suo divenire e di ciò sono coscienti, sapendo a che punto della vicenda esso si trova. All'Inferno ci si finisce mentre il mondo accade, esso “sta”, infatti, nel mondo, notoriamente sotto la crosta terrestre, nel punto che fino al suo centro è il più remoto da Dio. Farinata nel suo dialogo con Dante sostiene di vedere il futuro (mondano) con la vista difettosa di un presbite, Inf. X, 100-105: ’Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce, le cose’, disse, ‘che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. 288 Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano’. Lo vede, cioè, più chiaramente quanto più lontano esso è, e meno nitidamente quanto più vicino, fino ad ignorarlo del tutto in prossimità e durante il suo verificarsi. A questo punto solo notizie esterne possono essere efficaci per conoscere il presente. La curiosa dinamica della loro conoscenza futura è spiegata in virtù del contrappasso, e forse il fatto di conoscere il futuro in modo difettoso non è qualcosa di specifico degli epicurei. I dannati hanno, infatti, vissuto tutti abbarbicati unicamente al loro presente, pur essendo vero che gli epicurei –tra i dannati, ma anche tra gli eretici stessi- sono specialmente colpevoli di ciò. È probabile infatti che tutti i forzati dell'Inferno: in primis conoscano il futuro, e che ciò sia frutto del contrappasso comune tra loro (d’aver, appunto, privilegiato il solo presente storico) e probabilmente lo è pure che tutti ignorino il presente (v. per es. il Rusticucci quando si riferisce al giullare Guglielmo Borsiere, foriero di notizie del presente di Firenze ai fiorentini precedentemente deceduti, Inf. XVI, 70-72: ...Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole”.) Perplessità immani sull’assetto globale ed il funzionamento delle leggi sulla conoscenza dei dannati e la loro memoria sono comunque forti già solo notando come, ad esempio, Virgilio presentandosi ad Ulisse e Diomede (Inf. XXVI, 79-84) formuli una specie di captatio benevolentiae formulando un riferimento alla sua Eneide (ibidem, 81: 289 …Li alti versi scrissi), opera che i due dannati avrebbero dovuto conoscere dopo la loro morte (come futuro), ma solo prima della sua realizzazione (avvenuta tra il 28 ed il 19 a.C.), e non più all’epoca del dialogo (il 1300 d.C.), così come avrebbero, a quel punto, dovuto ignorare Virgilio come persona, ed al massimo conoscerlo solo per il riverbero della sua durevolissima fama futura, ancora a lungo persistente nell’avvenire del 1300 (quando si realizza il viaggio). Detto ciò però avrebbero dovuto conoscere ancor meglio Dante, la Divina Commedia e la sua fama, che però, povero Dante, egli non avrebbe mai potuto essere sicuro di ottenere in modo così duraturo (quand’anche è noto che il poeta fosse consapevole che ne avrebbe avuta cfr. Par. XVII, 118-120: e s'io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico) Ad ogni modo, uscendo da inutili e sterili gineprai dovuti unicamente alla insuperabile condizione umana del nostro amato Poeta, e gli inevitabili ostacoli ontologici insiti nella finzione del racconto, dal dialogo Dante-Farinata esce più o meno chiaro un dato rispetto alla conoscenza del passato di un dannato, cioè che Farinata (ma nessun altro dannato o defunto) non soffre di amnesia, vale a dire egli parla disinvoltamente della sua vita e del suo tempo ricordandoli con buona memoria (anzi a dirla tutta, è noto come egli, al limite della contraddizione, paia conoscere anche quel presente storico che dovrebbe per regola generale ignorare, cfr. Inf. X, 83-84). In merito all'insieme delle conoscenze che riguardano la sua vita ed il contesto storico a lui proprio e quello anteriore ad esso ci sarebbe da chiedersi se la condizione di defunto (e di dannato) gli conferisca alcune 290 conoscenze aggiuntive rispetto a ciò che egli sapeva in vita o se i ricordi siano esattamente gli stessi (vale a dire se da dannato sa esattamente quello che sapeva in vita o se le sue conoscenze del passato si ampliano per il fatto di essere defunto). Ci sarebbe inoltre da questionarsi su se il periodo di condanna infernale che intercorre tra la morte di ogni individuo e l’arrivo della fine dei tempi, intacchi i ricordi e le nozioni contenute in ogni anima o invece li lasci invariati, senza patire, cioè, il degrado, tipico negli uomini, causato nella memoria dal trascorrere del tempo. Infine ci sarebbe da chiedersi se sia invece possibile, ed in che misura, e con che dinamiche, un qualche accrescimento delle nozioni sul passato solo in virtù di dialoghi tra dannati (il futuro prossimo è comune a tutti e si suppone lo ignorino tutti allo stesso modo). Ammesso che i dannati ricordino il passato, loro proprio, e vedano il futuro in modo imperfetto, perdendo capacità cognitive di quello più prossimo sino ad ignorarlo del tutto al presente, viene da pensare che essi "ricordino" il futuro, proprio all'incontrario di come in Terra si ricorda il passato, vale a dire perdendo gradatamente la memoria di esso sino a non averne più traccia e non poter rievocar nulla di qualcosa di anteriormente saputo. Difatti si sta dicendo che i dannati non sanno più un qualcosa che sino ad un certo punto hanno, invece, già saputo, e che quindi hanno "dimenticato". L'idea non è del tutto originale, basti pensare come, nella tradizione classica, anche alle Muse si conferisce la caratteristica di ricordare oltre al passato anche il futuro. In virtù di tale dinamica coerente pensare che Cavalcanti, che cerca di informarsi sulla condizione del figlio che ha lasciato in terra (Inf. X, 58-60 e ibidem, 67-69), ignorandola completamente quando formula le domande (e sconcertando con esse Dante, ibidem, 291 70 che perciò tarda a rispondere), abbia in passato saputo con esattezza la data della morte di lui (Guido), ma che ora non riesca più a ricordarla. Il padre al momento del dialogo, deve, quindi, ormai, anche aver perso del tutto di vista il figlio in quel futuro che riesce già ad intravedere fuori dalle nebbie del presente, posto che allontanandosi con la mente verso quello più remoto, e a lui più chiaro, non lo vedrà più presente nel mondo, avendo la certezza che da lì in poi sarà, per forza di cose, già morto. Difatti Guido, quando Dante compie il viaggio (si trova lì da Farinata e Cavalcanti il 26 marzo), è ancora vivo, ma morrà a breve, il 29 agosto dello stesso 1300. Fosse morto più in là Cavalcanti non avrebbe dovuto, verosimilmente, chiedere nulla. Detto ciò, se si vuol immaginare cosa essi potranno sapere quando i tempi saranno esauriti (alla fine del mondo e della storia umana), rimangono poche opzioni: riguardo al futuro è chiaro che essi non ne sapranno più nulla, difatti esso andrà svanendo nelle loro "menti", man mano che esso si andrà realizzando nel mondo, fino a non rimanerne traccia quando non ci sarà più futuro di sorta. Lo andranno, pertanto, scordando poco a poco ma inesorabilmente (lo afferma lo stesso Farinata, ibidem, 106-108: Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta.). Tutto il futuro prima conosciuto, e successivamente dimenticato, non dovrebbe poter essere recuperato in alcun modo, o si sarebbe costretti a sostenere che per un dannato il presente è sconosciuto per una sorta di “amnesia temporanea”, il che, tra l’altro parrebbe essere 292 escluso dal Farinata stesso (loc. ult. cit.). Alla fine dei tempi il presente storico non esisterà più, e quindi i dannati saranno coscienti solo di quello infernale (immutabile). Ma rispetto al passato il discorso non è così evidente, e così neppure lo è immaginare quello che le anime dannate epicuree "conterranno" ancora, in loro stesse di loro stesse e del mondo storico vissuto, per il resto della loro esistenza fuori dal tempo. Se le memorie della propria vita vissuta da vivi rimarranno intatte, e se essi conoscono del passato solo esse, allora gli epicurei, coscienti solo di esse, rimarranno per sempre solo quello che loro sono stati nella propria vita terrena e saranno consapevoli sempre e solo di ciò (contrappasso calzante, vista la colpa). Se invece la memoria soffrisse (e anche da morti come in vita) delle variazioni, del normale progressivo logorio e perdita di nozioni che tutti conosciamo da vivi, le anime avranno progressivamente sempre meno coscienza e ricordi di quanto vissuto in terra, sino ad arrivare (verosimilmente) ad uno stato di amnesia completa ed assoluta alla fine dei tempi (un curioso flash di questo dimenticare ogni cosa, persino il proprio nome, nel tedio imperituro dell'Inferno è nel film di Bergman “L'occhio del Diavolo”, dove un personaggio interrogato sul proprio nome da Satana in persona risponde “l'ho dimenticato”). Le anime epicuree saranno, quindi, destinate ad essere del tutto vuote di nozioni e conoscenza. Forse indizi per smentire questa così dura ipotesi possono ricavarsi da quanto detto da Virgilio a Dante dopo l’incontro con Ciacco al Canto VI, 106-108, rispetto alla “maggior prossimità alla perfezione” dei dannati, dopo aver recuperato il corpo alla fine dei tempi, quand'anche il passo citato non è affatto dirimente, tutt'altro. 293 Infine, i dannati potrebbero conoscere il passato in modo pieno e completo, interamente, con il limite, tuttavia, di saperlo solo fino all'ultima nozione appresa in vita, posto che tutto il resto sarebbe stato, una volta morti, nel loro "futuro" e avrebbero dovuto, perciò averlo già saputo come futuro e successivamente dimenticato in modo progressivo, nello scontare la pena sino all'arrivo del Regno di Dio. Ciò però implicherebbe che l'ultimo arrivato degli epicurei saprebbe molto di più del primo. A questo punto potrebbe immaginarsi che non dovrebbe poter mai comunicare agli altri le proprie nozioni senza rompere una delle conseguenze della pena divina (che essi debbano ignorare il futuro, rectius il loro futuro, al trattarsi di un futuro progressivamente divenuto passato su questa terra). E sarebbe plausibile pensare che dopo l'uscita dalla storia umana non sarebbe più possibile comunicazione tra convitti epicurei (per lo meno di diverse epoche), oppure bisognerà pensare (plausibile anche) che i racconti de relato non costituiscano una vera e propria fonte di “conoscenza”. D'altra parte che i dannati parlino e si raccontino fatti lo si sa per certo, v., tra altri, il passo che si riferisce a Guglielmo Borsiere, già citato, così come è frequente che chiedano notizie del presente (per tutti Guido da Montefeltro). È famosamente curioso che la richiesta di informazioni sul presente avvenga una volta anche in Purgatorio dove, neppure, la conoscenza delle anime già salve è scevra da complessità. In vita gli esseri umani vivi ignorano del tutto lo stato della vita ultraterrena (a dir tanto immaginandola), e conoscono solo la realtà storica, mondana. In essa, vivono il presente e lo discernono in base alle loro percezioni sensoriali, ricordano frammentariamente il 294 proprio passato e le conoscenze in esso acquisite, che vanno perdendo “di vista” con il trascorrere del tempo. Infine, immaginano un futuro immerso, comunque, in un grado di più o meno elevata incertezza. Un dannato invece, semplificando all’estremo, (forse) ignora il presente mondano (è consapevole solo del suo proprio e piuttosto immutabile “presente” senza tempo di dannato, la sua esistenza oltremondana, quindi), ricorda un passato biografico suo, e conosce il futuro, “scordandolo” man mano che esso va confluendo nel presente, quando, poi, lo ignorerà del tutto. La conoscenza mondana di un dannato, dunque si va riducendo con il trascorrere del tempo, posto che il futuro, conosciuto con miglior discernimento quando remoto, si va sbriciolando in funzione della sua effettiva realizzazione sulla Terra. Mentre nella vita vissuta di ogni essere umano un ipotetico futuro, una volta concretizzatosi in un presente più o meno affine alle aspettative ed alle previsioni di ciascuno, viene poi incamerato in memorie, ed accresce i ricordi, alimenta la conoscenza quindi, in un dannato tutta la conoscenza del futuro svanisce col divenire e non ha possibilità di essere incamerata in altro modo, e recuperata. Non potrà confluire in memorie di alcun genere. È per questo che un dannato defunto in una determinata epoca sarà, quindi, con ogni probabilità, da immaginarsi, alla fine dei tempi, come un dannato proprio di una specifica e determinata epoca e solo quello. L’unica maniera di accrescere le proprie conoscenze una volta entrati nella condizione di dannati è quella di avere notizie da altri, racconti, captare nozioni. Ma possiamo immaginare come piuttosto sporadici e laconici questi contatti forieri di conoscenza e tra essi una occasione è proprio la discesa del Poeta all’Inferno. Dante infatti in varie occasioni 295 porta notizie del presente e ne parla (v. Guido da Montefeltro, per es. Inf. XXVII), il suo viaggio è però un caso più unico che raro. Altro modo di conoscere l’ignoto sarà, come detto, il dialogo tra convitti di diverse epoche, ma a questo punto, pur ignorando le dinamiche specifiche del caso, viene da ricordare come i dannati eretici siano confinati in sepolcri a gruppi, che alla fine dei tempi verranno sigillati definitivamente, questo potrebbe lasciar pensare che tra i criteri per formare i gruppi vi sia anche quello della appartenenza ad un determinato periodo storico. Per ultimo, forse, altra fonte di apprendimento potrebbe venire anche dalla sporadica comunicazione con i vivi attraverso pratiche negromantiche o spiritiche, e di evocazione, idea non del tutto priva di senso e bizzarra nell’assetto della Divina Commedia se pensiamo alle parole di Virgilio nel Canto IX e i riferimenti alle Pratiche della maga Eritto (v. Inf. IX, 19-27). In merito al problema di come si atteggerebbe il “dimenticare progressivo” e totale di qualcosa di anteriormente conosciuto come certo –il futuro per i dannati epicurei- e quindi dello stato e dei meccanismi della loro conoscenza ed intelligenza, si potrebbero formulare alcune prime riflessioni. Facendo un parallelismo con la nostra attuale condizione umana di esseri viventi, e seguendo la nostra più banale, accettata, schematica e condivisa maniera di “immaginarci” o percepire la realtà sensibile, quella che come esseri umani siamo intuitivamente –o culturalmenteabituati a pensare come indiscutibilmente valida, possiamo farci un’idea delle differenze e delle analogie con la condizione di questi dannati e del loro “stato mentale”. Siamo soliti pensare di ricordare parti frammentarie di un passato già sedimentato ed immutabile, certo, perché accaduto e storicizzatosi, di immaginare uno sfuggente e 296 vago futuro, incerto, che va vorticosamente convergendo in un presente (che viene poi, appunto, immagazzinato in memorie) che consideriamo come unica “realtà” effettiva. La realizzazione del futuro, e la sua conversione in presente storico -e dunque in passato-, avverrebbe in virtù del divenire –del cambiamento- in base (tagliando le cose con una mannaia affilata fino all'errore) alle leggi di causalità e (si presuppone visto che ci si considera intuitivamente liberi) delle concrete scelte -anche con valore morale- realizzate dall’essere umano. L'essere umano è immerso in un contesto dai tratti più o meno indipendenti dalla sua flebile volontà, sfuggenti e di cui egli ha una conoscenza estremamente parziale, ed un dominio ancor minore. In merito al fatto che sia il futuro a convergere nel presente e non, viceversa, il presente ad “avanzare” verso il futuro, come, tra gli altri, ha chiarito in modo esemplare anche Borges, v’è da precisare che la prima impressione intuitiva –quella, appunto, secondo cui sarebbe il passato a dirigersi verso il futuro- è piuttosto debole e povera. Ad una appena più attenta riflessione si nota con certa chiarezza come la nostra ristrettissima visione dello stato delle cose ci fa percepire come più descrittiva e corretta la vettorialità del divenire proprio in senso contrario. È infatti il futuro a convogliarsi verso il presente, “morendo”, fossilizzandosi, in un passato ormai immutabile e pietrificato. È il futuro, vivo, ricco di opzioni, plurimo, incerto, e non ancora realizzato, a ridursi ad unica realtà presente confluendo, per quell’unico canale che è il presente storico, nell'univocità del passato, assolutizzandosi in tal modo, quando precedentemente gli appartenevano tutte le opzioni –i possibili- scartate dalle scelte concrete realizzate da chi ha questa facoltà -quella di scegliere-. In merito, una esemplificazione può venire dalla nota situazione di una 297 partita di scacchi, nella quale ogni mossa giocata non possiede solo lo straordinario potere insito nella sua forza rispetto alla posizione specifica, ma anche e soprattutto l’immane e definitivo effetto di scartare irrimediabilmente tutte le altre opzioni a disposizione del giocatore fino alla sua realizzazione, e con esse anche tutte le innumerevoli disposizioni dei pezzi incompatibili con la giocata realizzata. Intuitivamente siamo portati ad immaginarci e semplificare la realtà vissuta in modo tale da ritenere che vigano delle leggi di causalità necessaria –naturali- che conformano la realtà fattuale. A volte ci si spinge ad immaginare che, forse, se si conoscessero tutte le cause si potrebbero anche, usando l’intelletto, prevedere tutti gli effetti (per inciso prima e immediata critica a questa posizione semplicistica, solo per brevemente fornire uno spunto, viene già dall'osservazione che l'intelletto umano che dovrebbe comprendere essendo inserito nella dinamica causale oggetto del suo “studio” è esso stesso “causa tra le cause” e nel suo comprendere è a sua volta agente di cambiamenti la cui comprensione dovrebbe inseguire). La scienza moderna ha ampiamente rivisto e smentito questa intuitiva, ma molto riduttiva, costruzione e rappresentazione pressoché meccanicista della realtà, anche senza affrontare -o al di là de- la questione dell’esistenza di una autonoma e tipica “opzione di scelta morale” dell’essere umano, o l'esistenza di mondi paralleli. Nonostante tutto, quella causale -e poi anche morale- parrebbe essere l’unica costruzione davvero convincente per un essere umano e per il suo assetto cerebrale, e nella quale egli possa muoversi a proprio agio, illudendosi di riconoscersi e conoscersi. Prendiamola dunque per buona ai fini di questo limitato discorso sulla conoscenza del futuro di immaginari 298 dannati epicurei. Ebbene, in base a quanto intuitivamente percepito da ciascuno di noi, i limiti della conoscenza umana in merito al passato nel suo insieme comportano che, non conoscendosi tutte le cause -ed essendo noi stessi, appunto, causa tra le cause-, si disconoscono anche gli effetti nel loro dettaglio, e per tanto il futuro rimarrà sempre incerto, nebuloso ed imprevedibile. Una mente capace di conoscere tutte le cause, in modo minuzioso ed esaustivo, parrebbe avere i presupposti per poter anche immaginare in ogni minimo particolare gli stati successivi di quanto conosciuto. Un essere umano, quindi, non conosce il futuro ma solo lo immagina, giacché conosce solo una parte limitatissima del passato -e del presente- ed in base ad essi si orienta, sia nel prevedere sia nello scegliere, (e ciò sia che scelga sia che si illuda di scegliere). Un dannato epicureo dantesco, invece, non vivendo più un autentico “presente” in divenire, ha immagazzinato, nella sua specifica identità individuale, un passato (i cui contorni specifici non sono, come detto, chiarissimi, ma che forse converrà immaginare come quello proprio biografico suo) e possiede la conoscenza di quel futuro remoto che si va dissolvendosi man mano che esso si va concretizzando nella realtà storica. Alla conoscenza del futuro però non sono posti limiti, e quindi è lecito pensare che esso sia scrutabile sino alla fine dei tempi, ed in ogni suo aspetto. Una strana e curiosa situazione da notarsi su questo assetto, sarebbe che la “distanza” temporale tra la (immaginiamole immutabili) nozioni storiche del individuale proprio passato compresa-, e le biografico del conoscenze dannato del –identità futuro andrà 299 inesorabilmente ampliandosi. Il dannato, per tanto, prima di non conoscere più nulla del tutto, al sopraggiungere della fine dei tempi, conoscerà un determinato passato storico suo proprio ed avrà, al contempo, cognizione esatta di avvenimenti e circostanze future di epoche lontanissime dalla sua esistenza mondana, a lui del tutto estranee quindi. Di tali epoche egli conoscerà, quindi, modi, costumi, oggetti, senza poter però risalire a ritroso individuando il cammino certo attraverso il quale si è arrivati alla condizione che vede con chiarezza, riportandola e facendola combaciare col proprio passato biografico. Se in vita, un essere umano, in base alle sue capacità intellettive e conoscenze del momento -tutto quello che ricorda, che non ha dimenticato, quindi- riesce ad immaginare ed ipotizzare (con un più o meno alto grado di errore, e secondo le capacità e le circostanze di ciascuno) un qualche futuro, si potrebbe immaginare che, a ritroso, anche un dannato epicureo potrebbe farlo in merito a quel presente storico, che ignora, ed anche rispetto a tutto quel “futuro” (dal suo punto di vista di trapassato di un determinato momento) già concretizzatosi nella vicenda umana: quel futuro, ormai divenuto passato, che era nel suo “futuro di defunto”, ma che poi si è andato realizzando e che, quindi, egli ha saputo, ma poi ha anche “dimenticato”. Rispetto a tale periodo temporale, il presente storicomondano e quell’“ex futuro” -ormai sedimentatosi nella storia umana, ma successivo alla sua morte ed ormai inconoscibile per l’epicureosaremmo propensi a credere che il dannato potrebbe “immaginarlo” ricostruendolo a ritroso a partire da tutto quel futuro –ancora non realizzatosi sulla Terra- che egli può ancora discernere con buona vista. Un dannato epicureo, quindi, sarà certo di avvenimenti e 300 situazioni ancora incerte, immerse nella libertà morale degli uomini futuri, mentre ignorerà la realtà già accaduta, vera, concreta, storica. Chiaro che se così funzionasse una mente dannata, immersa nella sua specifica condizione, potremmo anche pensare che egli debba conoscere il futuro storico in modo lacunoso, imperfetto, posto che se avesse visione chiara e completa di tutti gli effetti futuri, e potesse contenere tanta conoscenza, potrebbe anche ipotizzarsi che debba avere implicitamente le capacità di risalire da effetto ultimo a causa, e con ciò ricostruire il passato interamente, fino a farlo collimare e combaciare col suo proprio passato storico, anche in considerazione del fatto che la cesura esistente tra mondo terreno ed ultraterreno non lo renderebbe per nulla “causa tra le cause”. È quindi probabile che un dannato epicureo abbia una cognizione del futuro generale, magari anche corposa, ma non assoluta, visto che la sua caratteristica (già umana) di ragionamento non parrebbe, nella versione dantesca, renderlo capace di ricostruirne gli antecedenti con totale certezza. È anche possibile pertanto che così come in vita si immagina il futuro (conoscendo il passato ed il presente in modo imperfetto) in dannazione si “immagini” quel “futuro ormai passato” (storicamente avvenuto) e dimenticato, avendone una visione del tutto priva di effettivo valore conoscitivo, ma fantasiosa. Ciò, comunque, è piuttosto curioso da immaginare in ottica storica umana, visto che ci troveremmo dinanzi a persone con una loro specifica identità sia personale che storica che durante tutto il tempo della realizzazione della vicenda umana staranno immaginando un presente ed un passato già determinati, mentre sapranno con certezza tutto ciò che ancora è nell'indeterminatezza della effettiva realizzazione su questo mondo. Inoltre essi conosceranno meglio tutto ciò che più si allontana 301 dal loro –indimenticato- tempo di vita vissuta, ma non ciò che è a loro più vicino. Avranno dunque confidenza e cognizione di tecnologie, teorie, pensiero, costumi, oggetti avvenimenti, assolutamente distanti dal loro tessuto biografico, perdendo progressivamente la traccia delle origini di tutto ciò nella storia umana, ed il percorso evolutivo nel quale essi si sono sviluppati. 302 Appendice II: Incongruenze: Cenni, In Particolare Su Vivi E Anime Dei Morti Questo post è concepito come appendice (ce ne sono altre) alla rubrica "Pillole di Dante" dato che né per estensione, né per contenuti (si formulano alcune riflessioni personali assenti nelle pillole) rientrerebbe nei parametri "ortodossi". Lo dedico alla dolorosa scomparsa della mia amatissima zia Franca. È molto noto come la struttura “fisica” della Commedia sia stata elaborata con accuratissima, dotta e bizzarra concretezza (espediente usato, con altri, anche al fine di suggestionare il lettore inducendolo a pensare al viaggio ultramondano come a un accadimento realmente verificatosi). Ciò contempla indicazioni orarie soventi e precisissime, spesso di straordinaria eleganza, e addirittura misurazioni di luoghi infernali in miglia fiorentine che, però, sarebbe impossibile far quadrare con le dimensioni globali che l’impianto geologico dell’epoca presuppone. Per non parlare dei disumani tempi di percorrenza dell’intero viaggio rispettando tali dati spaziotemporali. Ma, tra le discrepanze dell’intera vicenda, vi sono anche vari passaggi, tutti notissimi, che mal si coniugano con l’assetto e le regole generali dei “luoghi” visitati nell’opera e le leggi divine in essa enunciate e vigenti. Uno di essi, tanto per fare un esempio non dei più significativi, è la “nudità delle anime” dannate, che specie in uno specifico luogo (ruffiani e seduttori) viene ribadita come si trattasse di 303 qualcosa di particolare del posto, o per lo meno è stranamente messa in risalto. Altra questione vessatissima e di estremo interesse e difficoltà sarebbe il rintracciare i fili precisi, o almeno avere un quadro esaustivo, della consistenza delle anime, dato che a volte esse paiono, e sono esplicitamente, senza peso ed eteree: non appesantiscono la barca dove salgono, è impossibile abbracciarle (succede in purgatorio all’incontro con Casella), mentre in altre occasioni paiono solide e soffrire già fisicamente le pene che, invece, sempre per inappellabile prescrizione divina, saranno tali (fisiche) solo dopo il recupero del corpo umano che avverrà alla fine dei tempi (Dante tira per i capelli un traditore, potrebbe togliere il ghiaccio dagli occhi di un altro, Alberigo, e non lo fa, etc.). Probabilmente buona parte dei problemi in tale ambito dipendono dalla inestricabile e ingestibile questione che attiene, in modo necessario ed endogeno, a qualunque rapporto si voglia immaginare tra fisico e spirituale. All’ora di prevedere un qualche punto di intersezione tra questi due “mondi”, dei quali conosciamo con certezza solo il primo, si presentano problematiche, nella sostanza, analoghe a quelle di ben altri ambiti della creatività umana, dai film horror, alle leggende e storie di morti viventi, le cui meccaniche, per quanto sforzo si versi nella loro elaborazione, anche appellandosi alla miglior scienza, lasciano sempre un ingente contenzioso di dubbi irresolubili. Ma una questione in particolare della commedia, nel rapporto tra vivi ed anime morte e gli spiriti dell’oltremondano, è affascinante, quand’anche pure essa poco chiara. E riguarda l’atteggiamento diremmo “psicologico” o emotivo che esse anime paiono avere all’ora della vista-incontro con un vivo. 304 La presenza di un uomo all’inferno non pare mai sgomentare o spaventare le anime dei dannati, ma provoca, invece e in genere, certa irritazione o ostilità negli spiriti che le piantonano, puniscono, o seviziano. Vale a dire: quando Dante incontra i dannati e ci parla essi possono essere più o meno gentili, meravigliati, possono stizzirsi, stupirsi della presenza di lui vivo, o usare il sarcasmo etc., ma non paiono mai sgomenti e meno che mai spaventati dalla sua presenza. Farinata, per esempio, è lui a intimorire con la sua voce il pellegrino, ma non pare affatto intimorito a sua volta, come non doveva mai esserlo stato neanche da vivo. Anche Ciacco si rivolge per primo al pellegrino, incuriosito, etc. Qualche anima dannata lo tratta con evidente stupore, per esempio ser Brunetto, o con curiosità per esempio Guerra, e compagni. I diavoli e demoni, invece, per tendenza cercano proprio di ostacolarlo, come succede al di fuori di Dite, o con Caronte, o con Minosse etc.; la brigata di Malacoda addirittura arriva ad inseguirlo. Insomma, l’esercito di Satana certa diffusa ostilità la mostra. Nella prima parte del purgatorio, invece, all’autentico e reiterato stupore delle anime salve e in attesa di penitenza, si aggiunge anche certo spaesamento e meraviglia, che ha note di sorpreso timore. Lo stupore, permane per tutta la cantica (fino a Forese, o Guinizzelli), mentre quel certo sgomento iniziale dai toni quasi timorosi e lo spaesamento, svaniscono ascendendo il monte e specie accedendo alle cornici di pena. Pare quasi che chi sia in penitenza non possa spaventarsi più, o forse che la pena stessa lo assorba completamente nella sofferenza e non se ne possa aggiungere di altro tipo (anche avere paura è soffrire). Per i dannati si può arrivare ad immaginare che chi è all’inferno non possa 305 più avere paura d’altro. Chi è salvo, e ormai si è ambientato e conosce il percorso da intraprendere, sa cosa deve sopportare, e non potrebbe intimorirsi più di nulla. D’altra parte i salvi gioiscono delle loro pene! In paradiso non c’è, come è ovvio, posto neppure per il minor sgomento o meraviglia, i beati sono saldi e onniscienti, assolutamente felici, interagiscono col poeta in un modo limpido, franco e privo di incertezze. Forse delle tre situazioni, l’atteggiamento più tenero e commovente lo assumono le prime anime purgatorie, che si meravigliano fino quasi a palesare quel sottile filo di timore per il fatto che un vivo possa essere lì tra loro, pensando, chissà, che le regole divine subiscano una qualche incomprensibile sospensione. Con ciò abilitano nella mente del lettore un subitaneo paragone con la situazione opposta, del vivo che incontri un morto, incontro che, anche dovesse trattarsi di persona assai benvoluta, farebbe comunque palpitare il cuore nello spavento. D’altra parte il destino purgatorio pare, specie nella prima parte, e più delle altre sorti, una specie di temporanea e disorientata, sgomenta, prosecuzione della vita terrena, e con essa conserva quella strana e irrazionale, ma emotivamente irrinunciabile e amorevole interazione tra i due mondi: di vivi e trapassati. Le anime del purgatorio chiedono che si preghi per loro tra i vivi, e ricordano i loro affetti e le loro vicende umane, così come anche il più razionale di noi si sarà trovato in alcuni momenti della propria esistenza a dialogare intimamente, se non proprio a parlare ad alta voce, con un caro congiunto estinto, o con un amico scomparso, e di cui senta la mancanza. Siamo indotti per natura, dalla paura della morte e dalla sofferenza 306 per la perdita, e culturalmente, per educazione, da Dante stesso e da una costruzione infinita di miti e leggende ancestrali, a raffigurarci una morte che non recida del tutto il filo che ci lega ai nostri amati. Non solo speriamo (alcuni credono) in una vita dopo la morte, ma anzi immaginiamo i nostri cari lì ad attenderci e pensarci, ancora preoccupati per noi, in grado di avere notizie e gioire, o proteggerci. Tutti probabilmente, anche chi è sinceramente scettico, o è convito che né l’estinto lo possa sentire, né esista più del tutto, hanno, nell’irrimediabile sofferenza dell’abbandono di chi si vuol bene, continuato a sentirlo vicino nell'assenza e nel mutismo, in grado di gioire ancora e ricambiare la preoccupazione e l’amore che si continua a provare da questo abisso all’altro. 307 Appendice III: Riflessioni sul Prestito del Danaro, considerando Dante e Meco del Sacco La pratica del prestito del danaro forse è tanto vecchia quanto l’invenzione del danaro stesso. Sin dai tempi antichi esso si concede pretendendo un interesse; vale a dire, si dà una determinata quantità di danaro nel presente, a corrispettivo di riottenerne una quantità maggiore nel futuro. Il passo del tempo aumenta la quantità di interesse richiesto da chi presta. Il fondamento, la ratio, la giustificazione di questa pretesa è da sempre oggetto di dispute interminabili e complicatissime. Anche perché non è nemmeno ben chiaro cosa sia il danaro stesso! D’altra parte tale pratica ha creato figure e professioni autonome, lecite e illecite: banchieri, usurai, strozzini. Come sappiamo Dante tratta, nella sua opera, il tema; tema che era molto discusso già nella sua epoca, dato che si viveva in momenti di sviluppo commerciale notevole e che il fiorino d’oro era una moneta molto forte nella bilancia dei pagamenti internazionali; addirittura l’istituto del credito arrivava in molti casi ad assumere i tratti di un’emergenza sociale tanto era diffuso. Oggi il tema è ancora in voga, con un corollario di discussioni monetarie che pure il poeta ha in qualche modo trattato; nella nostra attuale situazione sono molto sentite le problematiche relative al debito pubblico e all’indipendenza e sovranità monetaria, così come la 308 titolarità dell’emissione di moneta. È ormai pacifico, però, che il danaro abbia un valore in sé e che possa essere prestato con interesse. Oggi viene addirittura emesso già gravato da un interesse. Sarebbe assai interessante fare una ricognizione completa nell’opera dantesca delle opinioni su usura, prestito, moneta e questioni monetarie, giacché, come si sa, Dante riserva nella Divina Commedia un consistente spazio a tali tematiche: gli usurai sono puniti come violenti contro l’Arte, i falsificatori di moneta come falsari, o alchimisti sofistici, e si tratta, in alcuni passaggi, addirittura di emissione di monete con valore nominale superiore al loro peso in oro, pratica da considerarsi scorretta, a detta del Poeta. Oggi, come sappiamo, abbiamo perso del tutto la relazione tra oro e valore monetario, ma questo è un altro problema. Rispetto all’usura, ricordiamo che nel canto XVII dell’Inferno esponenti di varie e ricchissime famiglie dell’epoca (Gianfigliazzi, Obriachi, Scrovegni) subiscono, ultimi del gruppo di tre che abitano l’”orribil sabbione”, la pioggia di fuoco che cade lenta come neve alpina in assenza di vento, mentre sono accovacciati immobili. Ricordiamo, per aneddoto, anche che all’Inferno per regola generale più ci si avvita verso il basso, più sono punite colpe gravi in modo più crudele, tranne in questo caso, dove nel gruppo tripartito di violenti contro Dio, Natura e Arte, i primi sono i bestemmiatori, i secondi i sodomiti, e i terzi, responsabili di pervertire il corretto operare umano, l’arte (lavoro, operosità) figlia della Natura e quindi “nipote” dell’Altissimo, gli usurai, appunto. Stando alla bella spiegazione che fa Sermonti del canto XVII (e del XI, dove il tema è accennato), i canonisti della Chiesa, dopo il concilio ecumenico di Lione II del 1274 avevano elaborato la dottrina secondo 309 la quale: nessun tipo di mutuo, trattandosi comunque di una vendita di danaro con pagamento differito, legittimerebbe la riscossione di interessi, dato che il tempo è un bene comune. La sostanza sarebbe che non si può lucrare sul passo del tempo, che non può assumere un valore. Non è, però, detto, come precisa l’autore, che Dante condividesse tanta intransigenza dottrinale, e il poeta anzi si ritiene operasse una molto oculata distinzione fra lo strozzino e il banchiere. Il primo taglieggia la miseria, il secondo calcola oculatamente i rischi d’impresa. A riprova dell’apertura dantesca si invoca l’elogio della volubilità provvidenziale della Fortuna del canto VI dell’Inferno. Da questo argomento non siamo autorizzati a dedurre, però, che, seppure Dante vedesse incentivata dall’attività creditizia la mobilità incessante delle ricchezze prescritta dalla Provvidenza, operata al buon fine di dissuaderci dal culto esclusivo dei beni materiali, egli apprezzasse anche, eticamente, coloro che nel culto esclusivo di tali beni materiali praticavano quell’attività specifica: il credito. Rimane il fatto che se la colpa degli usurai, “violenti contro l’Arte”, fosse semplicemente quella di violare il precetto biblico di procurarsi il pane con il sudore della fronte, già all’epoca del poeta, ma ancor più oggi, non si salverebbero in molti. La pratica del prestito, senza farla troppo lunga, è sempre stata controversa nel nostro orizzonte culturale, e anche invisa alla religione cristiana, in quanto implica (ma come altre relazioni commerciali) l’arricchimento di alcuni grazie alla (puntando su la) miseria (disgrazia, sofferenza) di altri. Si tratta, perciò, di lucrare e approfittarsi di situazioni (spesso) che dovrebbero muovere ad 310 altruismo e non ad avidità. Nel corso del Medioevo la pratica del prestito non ha goduto di buona fama. Già Giustiniano, nel sesto secolo, aveva stabilito che il tasso massimo di interesse richiedibile per le operazioni di piccolo credito e di credito al consumo fosse il 4%, mentre poteva raggiungere il 12% in caso di carichi viaggianti per mare, foenus nauticus, in considerazione dell’elevato rischio di tali operazioni; e commercianti e operatori economici, applicavano un tasso dell’8% generalmente. Il rischio era quindi un elemento portante del credito e del calcolo dell’interesse. Basilio Magno (330-379) nella sua omelia al Salmo XIV ammonisce severamente l’usuraio: “Ma dico: cerchi denaro e guadagno dal povero? Se avesse potuto renderti più ricco, avrebbe forse battuto alla tua porta? È venuto per trovare un amico e ha trovato un nemico. Ha cercato un rimedio ed è incappato nel veleno. Sarebbe stato tuo dovere alleviare la miseria di quell’uomo e tu invece ne aumenti l’indigenza cercando di ricavare tutto il possibile dalla miseria. Tu fai, della sventura dei miseri, una occasione di guadagno.” Disdicevole! Ma il credito non è certo solo questo, ma anche motore di sviluppo economico. Dal canto suo Aristotele era stato molto intransigente e aveva sostenuto che il danaro era neutro (non avesse un valore di per sé), ed era solo un intermediario per gli scambi economici, e che quindi per sua natura fosse sterile, non producendo di per sé frutti (nummus non parit nummum). Quindi il credito con interessi non aveva ragion d’essere, e, potremmo dedurre, chi presta, o finanzia una attività, e poi lucra sui buoni risultati di quella, a lato di una buona capacità di distinguere gli affari, finanziando quelli e non imprese fallimentari, lucra comunque sullo sforzo altrui, decurtando i frutti ottenuti dal 311 lavoro di altri, appunto. Che poi tali frutti siano abbondanti e tutti i partecipi dell’avventura commerciale, soddisfatti è un altro conto. Va però pure detto che senza il prestito non ci sarebbero le condizioni materiali per sviluppare idee geniali di persone prive di liquidità, e che il rischio, l’alea, è sempre presente in ogni attività umana. Con San Tommaso (Summa Contra Gentiles), più oculato, la possibilità di prestare a interesse assume una sua legittimità in quanto il mutuante, privandosi di un suo bene, per quanto in modo solo provvisorio, non ne ha più la disponibilità, per il periodo, più o meno esteso, che intercorre tra erogazione e restituzione del prestito. Subisce, quindi, un danno immediato al quale va sommato non solo il lucro cessante, ma anche il rischio! C’è infatti anche il “periculum sortis” che il mutuatario non riesca a saldare il debito. Come dicevamo. Nel Concilio Ecumenico di Vienne del 1311-12 si ribadisce, però, la posizione ostile al prestito su interesse e si sancisce che chi dicesse che esercitare tale attività non è peccato, dovrebbe essere considerato eretico. Oggi il Vaticano ha una Banca, le indulgenze non le compra più nessuno. Da ascolani è curioso notare che contro tale precetto si schierò anche un concittadino, stando alle fonti, il quale fu poi processato, come prevedeva la norma, per eresia. Questo era uno tra i molti capi d’accusa: l’aver preso una posizione curiosa sul prestito. Meco del Sacco, infatti è detto aver sostenuto che: “È lecito, a causa del mutuo, percepire qualcosa dal danaro dato in prestito, affinché il danaro, dato gratis e senza compenso, non sia come cosa morta e non vada perduto” (“Ex mutata pecunia lucrum aliquod esse licitum ex rationee mutui, ne pecunia gratis sine lucro sit mortua et amitatur”). 312 Secondo l’eretico, quindi la ratio che legittima l’interesse sul prestito non è nel rischio oculato che il banchiere calcola in modo tale da considerare l’evenienza della mancata restituzione, per le cause che possano essere, del danaro prestato, ma nello stimolo che colui che riceve il prestito avrebbe ad intraprendere una attività positiva, e a far fruttare quanto ricevuto, invece di usarlo senza complicarsi la vita, in modo passivo e pigro. La parte ammissibile del credito a interesse, quindi risiederebbe nello stimolo all’operosità che presuppone, e che è in consonanza con il precetto biblico di mantenersi operosi, lavorare. Per lo meno da parte di colui che il prestito lo ottiene, ma, e torniamo a quanto sopra, non certo dal punto di vista di chi lo concede, che lucra senza muovere un muscolo. Questa etica del lavoro oggi sarebbe assai discutibile, dato che impedirebbe in modo assoluto e per ideologia la formazione di una umanità priva della necessità di dover faticare per sostentarsi, grazie agli sviluppi tecnologici. Evenienza che generalmente nessuno vedrebbe in modo ostile, dato che l’idea che si debba soffrire e accettare di soffrire e faticare a causa di una colpa da espiare (partorire con dolore, etc.) si è molto allentata. In effetti, se osserviamo lo stato attuale del debito, e la sua procrastinazione automatica da una generazione alla successiva, e senza che si possa individuare un autentico e certo creditore (chi è il creditore fisico, certo del debito pubblico?) pare che tale diabolica creatura sia stata formata proprio dalla volontà di assoggettare l’umanità, senza possibilità di fuga o redenzione, a una operosa (quanto spesso inutile) schiavitù del lavoro. 313 Appendice IV: Chi Bestemmia non Ragiona, chi Ragiona non Bestemmia Chi bestemmia non ragiona, chi ragiona non bestemmia. Questa scritta, apparentemente condivisibile, campeggia sulla chiesa dei frati di Ascoli. Sarebbe da subito e intuitivamente condivisibile in virtù di un ragionamento assai semplice: chi crede in Dio non avrebbe motivo di bestemmiarlo (è lui che gli ha dato la vita ed è infinitamente buono) e chi non crede, non ha motivo di farlo dato che, appunto, non credendo nell’esistenza di tale ente cadrebbe in una banale e stupida contraddizione con le sue affermazioni, bestemmiando qualcosa che afferma non esistere. Fine del ragionamento. In effetti ci sono altri punti di vista da poter considerare. Il primo potrebbe essere quello di credere in un Dio (cioè un ente con una volontà e una potenza infinita, reggitore del mondo e creatore dello stesso –Natura, fisica e affini-) ostile e malvagio, ed in tale visione la bestemmia, pur impotente, avrebbe un “senso”, sarebbe una ribellione del tutto inane, inutile, a chi ha dato sia l’esistenza che la capacità di comprendere le cose, arrivando ad una conclusione e a un’ostilità frustrata e impotente, ma “sincera” e ben strutturata. Arruffianarsi un Dio del genere non bestemmiandolo appare, oltre che inutile tanto quanto bestemmiarlo, meschino, e quindi la scritta di cui sopra sarebbe già da vedersi in altro modo che in quello primo e intuitivo che viene in mente dopo secoli di martellamenti cristiani. Il secondo potrebbe essere che “Dio” non essendo altro che un concetto, per un ateo, come tale, come concetto, esiste (e solo in tal modo esiste) e pertanto può ben essere bestemmiato, proprio 314 ragionando e dopo attenta osservazione della realtà e della storia del mondo. Ciò in quanto può essere considerato un concetto che ha portato, nella storia umana, più svantaggi che benefici (arretratezza, remissività, paura, intolleranza, etc.) e come tale va auspicata la sua rimozione dalle de-menti dei cittadini; e fintanto che “esiste” in esse, può ben essere vituperato per infastidire, o svegliare, il prossimo passivo che ne procrastina l’inevitabile fine sull’altare del progresso umano, o anche solo per gusto personale. Questo riassumendo proprio all’osso, e accettando il rischio di fare una pessima figura, dei concetti e dei ragionamenti che dovrebbero essere molto più sviluppati. Anche puntare sempre sul cattivo gusto intrinseco nella bestemmia, per limitarne l’uso, non è che un ricattino col quale si cerca di non essere infastiditi, se credenti, dal punto di vista esacerbato del non credente immerso in una società bigotta. Credenti che, mi piace ricordarlo, affermano di rispettare gli altri punti di vista solo quando sono inevitabilmente costretti a farlo, non per moto spontaneo e sincero, e solo per poter avere garantito il rispetto totale e tombale su ogni scempiaggine che loro possano affermare. Dal mio punto di vista il rispetto non è affatto necessario, basta la tolleranza, che però deve fermarsi alle parole. Deve essere sempre garantito a tutti di poter esprimere, su ogni oggetto cognitivo del mondo, la propria opinione, per assurda che possa apparire e con essa anche ogni ostilità. E Dio non è che un oggetto tra gli altri verso il quale si può avere avversione, antipatia, simpatia, schifo, ripugnanza, adorazione, come per ogni altro: calcio, rock, arte, filosofia, etc. 315 Deve essere garantita solo la reciprocità! Se devo contemplare uomini sandwich che affermano che il rock è satanico, pericoloso, da criminali, e degenere, ok, ma devo ben poter dire un Porcoddio senza subire conseguenze. E ciò comprende le divinità di altri luoghi di cui possa venire a conoscenza, in quanto il concetto di “appartenenza” (non puoi parlare di Hallà perché non sei musulmano) cede dinanzi al fatto che conosciuto un qualcosa, posso ben farmi un’opinione su di essa, per erronea che sia, e deve essermi garantito di poterla comunicare se credo. Ma ora l’ultimo argomento che mi interessa accennare e di cui vorrei trattare verte su Dante e sulla bestemmia nell’Inferno (sua opera). Un autore cristiano. Sappiamo bene che i bestemmiatori (in vita) hanno luogo e pena determinati come dannati nell’opera dantesca, e sono relegati al settimo cerchio, quello dei violenti, e tra essi nel terzo girone (violenza può darsi, contro il prossimo, contro sé, e poi contro Dio, Natura e arte, figlia dell’uomo, e quindi nipote di Dio, figlia dei suoi figli). Tra i bestemmiatori violenti contro Dio, ovviamente, uno in particolare attira l’attenzione. Continuando a vantarsi, pur da dannato, della propria superiorità sull’Eterno, ecco rappresentato in terzine il gigante Capaneo (personaggio del ciclo tebano), che continua, quindi a bestemmiare pure da morto. Ma all’Inferno il gigante non è l’unico a bestemmiare, anzi, la bestemmia appare per la prima volta nel viaggio iniziatico di Dante già al Canto terzo, cioè non appena si entra all’Inferno (per i primi due Canti se ne era rimasti fuori, se ben ricordiamo) laddove le anime si ammassano sulle sponde dell’Acheronte e devono essere traghettate, cioè non appena scoprono di essere state dannate per sempre. 316 Similmente si torna a bestemmiare in massa dinanzi al burocrate infernale Minosse, che ascolta confessioni complete e spedisce ogni anima alla sua pena specifica. Tutti i dannati, insomma, bestemmiano duro! Una bestemmia specifica ancora più odiosa di quella di Capaneo, poi, è quella del vigliacco e ladro Vanni Fucci, che insulta Dio con dei gestacci. E infine bestemmia pure il traditore Bocca degli Abati, quando viene inavvertitamente calciato dal pellegrino oltremondano mentre espia stretto fino al collo nel ghiaccio di Cocito gli avvenimenti di Montaperti. Dante gli fa male, e lui bestemmia. In tutti i casi la bestemmia è da considerarsi reiterata ossessivamente, ed è, in un certo senso, parte integrante della pena di dannazione. La bestemmia in forma di litania è di origine biblica. Se vediamo, però, il punto di vista di un dannato cristiano con gli occhi di oggi, vediamo un soggetto, un essere umano, che per errori e atrocità realizzate in vita breve, si vede costretto a pene eterne e quindi, a nostro intendere odierno, sproporzionate. Intendimento che, poi, sarebbe stato fornito all’uomo, dallo stesso Dio che si spaccia come “giustizia infallibile”, e che ama, quindi, comparire se non direttamente “ingiusto”, per lo meno “incomprensibilmente giusto”, che è lo stesso. Se poi con una mentalità oggi non dico diffusa, ma neppure tanto esotica, consideriamo la nascita come una violenza agita su un soggetto che è “costretto” a nascere, ma che non lo sceglie affatto, la bestemmia assume un carattere di certa legittimità ragionata. Il contrario di quanto affermano i fratacchiuoli piceni. Il dannato si trova a dover trascorrere, senza averlo scelto affatto, una vita che non ha chiesto e che gli sta a cuore per conformazione 317 naturale, in essa agisce, tra gioie e dolori, pur di andare avanti come meglio crede e può, e alla fine di essa avrà dolore eterno. Cosa altro potrebbe concludere, lui, che sa di tutto non altro che quello che ha visto e vissuto, se non di essere stato preda di un grande, colossale, e crudelissimo raggiro? Una truffa illimitata e spietata? Che Dio è un infame? 318 Appendice V: La Sorte delle Anime Morte secondo Dante Un aspetto tra i più curiosi della Divina Commedia per i lettori odierni è quello che attiene alle sorti delle anime separatesi dal corpo (morte). Stranamente è anche uno dei temi meno conosciuti e trattati nelle scuole, dove, a quanto mi è dato di vedere, e ignoro il perché, si preferisce annoiare i ragazzi selezionando delle tematiche (quali l’esilio, la parte storica e politica dei canti) che finiscono per distanziarli da un’opera che dovrebbe essere amata e che è anche un grande racconto che oggi definiremmo fantastico. Purtroppo oggi siamo costretti a sacrificare molto per poter salvare qualcosa, dato che presto la memoria umana non sarà più in grado di immagazzinare e gestire tutto quanto la nostra lunga storia e cultura ha prodotto di meraviglioso. Dunque vediamo, come è noto i destini di un’anima umana, una volta terminato il breve errore della vita, possono essere solo due. Durante il trascorrere delle vita stessa, appunto, usando la propria libertà morale, ognuno può solo, o salvarsi, o dannarsi. I possibili destini concreti di beati e dannati sono però, e lo sanno tutti, tre. I dannati finiscono tutti all’Inferno (lasciamo perdere i limbicoli) e i beati si ripartiscono tra coloro che devono ascendere il monte Purgatorio e mondarsi delle loro residue imperfezioni, e coloro che sono perfettamente beati in Paradiso. Il destino ultimo delle anime purgatoriali è comunque il Paradiso (sono salve), ma esse giungono lì dopo aver asceso il monte, attraversando tutte le sette cornici dei peccati capitali ed aver patito, 319 per durate correlate all’insistenza in vita del peccato specifico, le pene stabilite in ognuna. Il Purgatorio è quindi un luogo destinato a svuotarsi, alla fine della storia, ma anche dell’Inferno, quando sarà compiuta la volontà del Signore, non rimarrà traccia ed esso verrà annientato completamente (probabilmente questa è la famosa “Seconda Morte”). Trionferà solo il bene alla fine dei tempi, rimarrà Dio coi suoi prescelti. Quando un’anima umana si svelle dal corpo fisico possono, perciò, darsi tre scenari specifici. Se essa è dannata il diavolo la farà sua (grottesche e sconnesse le storie che ne parlano nell’opera) ed essa si troverà ad ammassarsi, con un’orda spaventosa di altre sue pari, presso le rive tristi di Acheronte, il primo dei tre fiumi infernali (Stige e Flegetonte gli altri due). Una volta lì, lo attraverserà per mezzo dell’imbarcazione condotta dallo spaventoso nocchiero Caronte (con occhi di brace) e si presenterà dinanzi a Minosse, che, come un immane burocrate romano, ascolterà la confessione infallibile dei suoi peccati e la destinerà al cerchio specifico di pena eterna che le spetta. Dopo Minosse le anime non vagano, scendendo, per l’imbuto infernale fino a giungere al loro posto, ma sono recapitate, precipitate, direttamente lì per volontà divina Se l’anima è salva, ma imperfetta e bisognosa di una purificazione, essa si troverà, invece, nei pressi del fiume Tevere, alle foci di esso e lì sarà raccattata da un angelo nocchiero, splendido, che le condurrà, per mezzo di un’imbarcazione spinta da ali imperiture e perfette, fino alle coste del monte Purgatorio. Il quale si trova (il mondo di Dante è notoriamente sferico e non piatto come si crede che nel Medioevo si 320 credesse) agli antipodi di Gerusalemme. Su quel monte, pur ubicato sulla sfera terrestre, non può giungere nessuno che non sia benedetto dalla Grazia divina, pensare di poterlo raggiungere è folle; Ulisse ci provò e racconta la sua tragica fine nel canto XXVI dell’Inferno. Le Colonne d’Ercole, questo sì è medievale, non devono essere oltrepassate. Da ultimo potrebbe anche darsi il caso che un’anima muoia già perfettamente beata, e non necessiti di castigo purgatorio. In tal caso, all’abbandonare il corpo fisico, nel Medioevo ci si credeva fortemente, e Dante pure lo crede con passione commovente, tutto l’Empireo, tutte le anime già salve, sarebbero apparse al nuovo venuto, assunto tra loro, per accoglierlo e celebrarlo nella Gloria Eterna. Questa è la sorte dell’antenato di Dante Cacciaguida, morto durante le Crociate (la II, e investito cavaliere da Corrado III di Svevia) morto al servizio della Fede Cristiana, la migliore delle fini. Anche l’umile un giorno avrà la gloria che merita, sarà celebrato da tutti i cristiani virtuosi, avrà la sua somma importanza e il riconoscimento che merita, mentre tanti potenti saranno condannati a pene umilianti e luride. 321 Appendice VI: Scozzesi e Inglesi nella Divina Commedia Nella carrellata di personaggi citati, o a cui Dante si riferisce, nel Canto VII del Purgatorio, sulla Valletta dei Principi, al verso 132 compare allusivamente Edoardo I Plantageneto, morto nel 1307, re d’Inghilterra figlio di Arrigo III, e, stando a Dante, miglior politico del padre. Carlo Villani lo descrive come: “uno de’ valorosi signori e savio de’ Cristiani al suo tempo”. Il suddetto, per aver dato ordine al suo regno, fu definito come: “il Giustiniano inglese”. Al Canto XIX del Paradiso il re è citato nuovamente, ma questa volta come esempio di superbia che spinge a sempre nuova brama di dominio. Viene nominato, infatti, assieme al suo rivale lo “Scotto”, il re scozzese Robert Bruce, di piccolo lignaggio fattosi re, contro il quale Edoardo stava combattendo, proprio negli anni in cui è ambientato il viaggio della Commedia, una spossante guerra-guerriglia di conquista divenuta famosa anche alle masse grazie a un film epico che celebra il valore di William Wallace eroe scozzese fatto giustiziare nel 1305. Edoardo I non vedrà mai la fine della guerra a causa della sua morte. Bruce, il cui cuore si trova sepolto nell'abbazia in rovine di Melrose, in Scozia, risulta successivamente essere stato oggetto di una cospirazione dalla quale si arriva, molto di rimpallo, ad un altro personaggio dantesco, questa volta punito all'Inferno. La cospirazione fu ordita da Sir David de Brechin e William II de Soulis, quest’ultimo signore dell’inquietante e severo Hermitage Castle nel Borders. Egli, prima schierato con Edoardo I l’inglese, dopo la battaglia di Bannockburn, favorevole a Bruce, nel 1314 passò al 322 bando scozzese, ma, forse per ottenere il trono lui stesso, o più probabilmente per appoggiare l’ascesa di Edward Balliol, fu arrestato a Brewick, e perì in circostanze misteriose a Dumbarton Castle, dove era imprigionato, nel 1321 (anno in cui muore anche il nostro amato Dante). Una curiosa leggenda lo vuole però arrestato per stregoneria e bollito vivo in un calderone nei pressi del circolo megalitico di Ninestane Rig. Come stregone sarebbe stato allievo di Michele Scotto (scozzese, appunto), celebre averroista alla corte di Federigo II, l’imperatore “negromante”. Michael è l'altro personaggio scozzese citato da Dante, nella bolgia dei maghi e indovini del Canto XX dell’Inferno. Un’altra questione di questa storia ha una relazione con la Divina Commedia: riferendosi alla leggenda di cui parliamo, Sir Walter Scott, il principale esponente del romanticismo scozzese, parla di un calderone di piombo fuso in cui gettare vivi, per ucciderli, gli stregoni. La pratica di uccidere i maghi con piombo fuso (Scott: "Again its magic leaves he spread; And he found that to quell the powerful spell. The wizard must be boiled in lead…") ha un chiaro riferimento all’alchimia, ma va menzionato che tale atroce usanza fu accreditata, da pubblicistica avversa, anche a Federico II. Pur senza riscontri storici, era creduto all’epoca che l’imperatore facesse indossare cappe di piombo e poi mettesse i rei di lesa maestà in un calderone sul fuoco facendoli perire orribilmente per mezzo della fusione del metallo. Dante si riferisce alla credenza, nel concepire la punizione per gli ipocriti, vestiti con pesantissime cappe da monaco, di piombo rivestite d’oro; egli cita proprio l’imperatore: “…Dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia”; cioè, le cappe infernali sono tanto pensanti da far sembrare di 323 paglia quelle usate da Federico. Infine, usando il filo conduttore del riferimento alchemico nella figura del piombo, va menzionato un ultimo dannato. Analogo inglese del mago Michele Scotto, nella nostra ormai superficiale assimilazione di pratiche molto diverse nell’attenta ottica dantesca, potrebbe essere Mastro Adamo de Anglia (Inghilterra), punito come falsario per mezzo di alchimia sofistica, nell’ultima delle dieci bolge del cerchio ottavo (Canto XXX) e quindi per una colpa considerata più grave di quella di indovini e maghi. Egli fu indotto dai conti Guidi di Romena a falsificare con straordinaria abilità fiorini d’oro autentici, a ventiquattro carati (oro puro), a ventuno (con tre carati di mondiglia, dice Dante, cioè di spazzatura). Fu arso sul rogo nel 1281. 324