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PILLOLE DI DANTE
PILLOLE DI DANTE
Autore
VIRIO GUIDO STIPA
Ascoli Piceno 2013
1
(AN)ESTETICI E ANTIDEPRESSIVI PER LO SPIRITO
PILLOLE DI DANTE
222 mg. DI INDIMENTICABILI MOMENTI, PROBLEMATICHE, STORIE, MITI E PERSONAGGI
DELLA DIVINA COMMEDIA
Leggere attentamente le avvertenze, può causare assuefazione e dipendenza; non esporre alla portata del
mentecatto insipiens italicus.
2
Redatto e ideato da: Virio Guido Stipa
Ascoli Piceno, 2013
© Tutti i diritti riservati
3
INDICE:
PREFAZIONE
1.
LA POTENTISSIMA MAGA ERITTO
2.
Il TORO DI PERILLO
3.
MELISENDA DI GERUSALEMME
4.
IL BESTEMMIATORE CAPANEO
5.
LA MORTE DI MANFREDI DI SICILIA
6.
GLI OCCHI E IN PARTICOLARE QUELLI DI BEATRICE
7.
BONCONTE DA MONTEFELTRO
8.
UN PAGANO TRA I BEATI: RIFEO
9.
I “DANTI” DELLA COMMEDIA
10.
COME GENERARE UN MOSTRO
11.
UN BORIOSO E MANESCO CIALTRONE DI PARTE AVVERSA
12.
GLAUCO
13.
MELEAGRO
14.
UN ROMANO SEVERO E VENERANDO
15.
GODE PIÚ L’UOMO O LA DONNA NELL’ATTO?
16.
UN BASTARDO SENZA GLORIA
17.
DUE AMATISSIMI PERSONAGGI VIRGILIANI
18.
UN POETA NELL’IMBUTO INFERNALE
19.
UN INCIPIT SINISTRO
20.
GIGANTI
21.
UN CONTROVERSO GUARDIANO INFERNALE
22.
ANONIMO SUICIDA FIORENTINO
23.
IL FATO NON SI CAMBIA
24.
ORIGINI INFERNALI
25.
UNA ALLEGRA BRIGATA
26.
UNA PRESA IN GIRO FINITA MALE
27.
LA GROTTESCA VICENDA DELL’ANIMA D’UN SINGOLARE
STRATEGA
28.
BIZZARRE TEORIE “GENETICHE” MEDIEVALI
29.
UN ANTENATO DI CUI ESSER FIERI
30.
UNO PIÚ SAPIENTE DI DANTE STESSO!
31.
UN TRUCULENTO INTRECCIO FAMILIARE
32.
ORDINAMENTO ETICO-GIURIDICO INFERNALE
33.
PIÚ CHE UN ERETICO
34.
SPREGEVOLI SFRUTTATORI
35.
DA SINISTRA A DESTRA
36.
LE NOZZE DI PIRITOO E IPPODAMIA
4
37.
UN SANTO O UN CRIMINALE?
38.
INVIDIE DI CORTE
39.
ODIO INCOMMENSURABILE PER I PROPRI CONCITTADINI
40.
LA MOGLIE CEDUTA
41.
PAN PER FOCACCIA, O PEGGIO: “DATTERO PER FIGO”
42.
L’IMPERATORE ROMANO E L’UMILE VEDOVA
43.
IL RICCHISSIMO CRASSO
44.
UN MENESTRELLO DALLA LINGUA TAGLIENTE
45.
I TRADITORI MUOIONO DUE VOLTE
46.
IL MITO DEL SATIRO MUSICISTA E ALTRE SFIDE
47.
VIA LATTEA
48.
VILE MEZZANO DELLA SUA STESSA SORELLA
49.
UN FORMIDABILE ASTROLOGO
50.
INFLUSSI STELLARI
51.
RETICENZE TRA POETI CHE SVEGLIANO CURIOSITÀ NEI
LETTORI
52.
LA SECONDA MORTE
53.
VERITÀ INDIGESTE
54.
CLERO AVIDO E DANNATO
55.
UN GIOVANE MAGNIFICO
56.
MIRRA E SEMIRAMIDE
57.
UNA SANTA AMATISSIMA E BUONISSIMA
58.
STRAGE PER GELOSIA
59.
NON VENDICARSI DEGLI DEI!
60.
IL DIAVOLO ALICHINO
61.
LE NINFE SALMACE E SIRINGA
62.
L’INNOMINATO DELLA COMMEDIA
63.
GUIDO CAVALCANTI
64.
IL DESTINO DELL’IMPERO
65.
LA LANCIA DI ACHILLE
66.
DUE MORTI INVEROSIMILI
67.
ANTICHE BATTAGLIE IL LORO VALORE E IL VALORE IN ESSE
68.
L’USO DEL “TU”
69.
UNA NUOVA PROSPETTIVA SUL DESTINO DELL’UOMO
70.
UNA BEFFA
71.
UN’ETIMOLOGIA ERRATA MA SUGGESTIVA
72.
UNA BIZZARRA EFFERATEZZA
73.
UN GRAN MANGIATORE
74.
CAIFAS, IL SACERDOTE DEI TEMPI DI PILATO
75.
UN “PROTOCONTESTATORE”: SIGERI
76.
INFAME DI CASA DONATI
77.
FRATI GAUDENTI
78.
NEPOTISMO
5
79.
80.
81.
82.
83.
84.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
93.
94.
95.
96.
97.
98.
99.
100.
101.
102.
103.
104.
105.
106.
107.
108.
109.
110.
111.
112.
113.
114.
115.
116.
117.
118.
119.
120.
121.
UNA TRAGEDIA D’AMORE
EROINA DELL’ENEIDE
VENDETTA DI UNA MADRE
MORDRET
UN CORTESE GIULLARE DANNATO
DIECI ANNI SENZA BEATRICE
VENDETTA FEMMINILE
L’UNICA PUTTANA DELL’INFERNO DANTESCO
UNA MAGNIFICA CANZONE PROVENZALE
UN AMICO RITROVATO E UNA TENZONE POETICA
TRACOTANZA DIABOLICA
AMORE
ADDII
UN CONGEDO IN PROVENZALE
DUE VIOLENTI DESPOTI DI CITTÀ
UN NOBILE GESTO
AMORE
LA SCIENZA DELLE MACCHIE LUNARI
SOGNARE IL FUOCO
IL CERBERO DANTESCO
UN LADRO DIVENUTO CENTAURO ALL’INFERNO
UN RAPIMENTO D’AMORE
IL MALAUGURIO INNOCUO DELL’ENEIDE
UNA SPOSA INFEDELE
UN NUMERO INCOMMENSURABILE
QUESTIONI ANGELICHE
QUESTIONI ANGELICHE II
QUESTIONI ANGELICHE III
UN VERO MIRACOLO
UNO SDEGNOSO EPICUREO FIORENTINO
UN CRUDELE E INFAME POLITICANTE
UNA AMANTE FOCOSA
IL CARDINALE ATEO
UN ANTICO POLITICO SENZA PARI
POLITICO FIORENTINO SODOMITA
IL SIMBOLO DEL TIMONE
UN VERO NOBILUOMO DELL’EPOCA
UN AMORE DISPERATO
COME LA SIBILLA
LEGGENDE SU ORIGINI ETNICHE
GLI “AVELLI” DEGLI ERETICI
UNA VENDETTA ALQUANTO ESAGERATA
GEOMANTI
6
122.
123.
124.
125.
126.
127.
128.
129.
130.
131.
132.
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135.
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153.
154.
155.
156.
157.
158.
159.
160.
161.
162.
163.
164.
GERIONE
UN INCONTRO TRA GRANDI UOMINI
IL SENSO DI AVERE UNA GUIDA
UNA VENDETTA PIETOSA ED EMPIA
UCCISO DA UN MORTO
METEOROLOGIA MEDIEVALE
UN COLORE PARTICOLARE
IL FUOCO
INVOCAZIONI DI DEE PAGANE
UN ERUDITO BEATO
MALCOSTUME ECCLESIASTICO
ASTRONOMIA DI ORIGINE ARABA
DECREPITEZZA PERPETUA
IL PIANETA VENERE
UNA FRASE FORZATA MA SAGGIA
ECUBA: UNA REGINA DEL MEDIOEVO
VIAGGIATORI ULTRAMONDANI
TRE FACCE
QUANDO I SOGNI DICONO IL VERO
VICENDE PRE EROICHE
IMPUDICHE SELVAGGE
LE DIMENSIONI CONTANO
DISTRAZIONI GIOVANILI DAL VERO AMORE
L’ONORE DEL PRIMO SCONTRO
MARESCALCO
LE OPERE LEGGIADRE
ANTIGONE
LA STREGA DI MANTOVA
UN FILOSOFO INARRIVABILE
IL TRICOLORE
ARROGANZA SUPREMA
UN PROBLEMA SENZA SOLUZIONE: DIO
L’ANIMA È UNA
CAPRICCI DELLA FORTUNA
VEGLIO DI CRETA
I DUE FIUMI DEI MORTI
GIOVE SI SALVA
L’ULTIMO RITROVATO DELLA TECNICA
UN “KAPÒ” DI MALEBOLGE
IL COPPIERE DEGLI DEI (OMOSESSUALI)
UN OMICIDIO CHE FECE SCALPORE
L’ISTITUTO GERMANICO DELLA VENDETTA
PAURA
7
165.
166.
167.
168.
169.
170.
171.
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173.
174.
175.
176.
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188.
189.
190.
191.
192.
193.
194.
195.
196.
197.
198.
199.
200.
201.
202.
203.
204.
205.
206.
207.
UN SANT’UOMO E CATTIVO COMMERCIANTE
ELOGI INCROCIATI
MATELDA
L’UNICA FONTE DI CONOSCENZA (DEL MEDIOEVO)
MAL AMORE
ANIME UMANE
IL SIMBOLO DEL SOLE
IL PRIMO UOMO
VENDITE E COMMERCI SIMONIACI
GLI EPICICLI
LA SELVA DI CECCO
UN “BECCAIO” DI PARIGI
LA TEORIA DEL MAL MINORE
IL GIUDICE NINO
LA FIGURA POETICA DELLE API
PAN DEGLI ANGELI E ACQUA VIVA
ANTICHI IDEALI RIMPIANTI
“SEGUITI”
FORMA DI RISPETTO
ESEMPI DI CORRUZIONE POLITICA FIORENTINA
GUGLIELMO VII SPADALUNGA
MONTAGNA DEI PARCITADI
UN INGANNO COMICO
UN TERREMOTO IN PURGATORIO
ROBERTO L’ASTUTO
INTELLETTUALI SODOMITI
UN DIO INCOMPRENSIBILE
PRESCRIZIONI E SIMBOLI BIBLICI
UN RE FALSARIO
RACCONTI CANNIBALI
RACCONTI CANNIBALI II
RACCONTI CANNIBALI III
UNA FRASE BIBLICA MOLTO ATTUALE
I CAMPIONI
ZOOLOGIA MEDIEVALE
PREGIUDIZI NON POLITICAMENTE CORRETTI
NOMEN EST OMEN
AVVELENAMENTI
L’ABITO DI DANTE
“M” ONCIALE
GIUOCO DELLA ZARA
LE TRE PARCHE
MALARIA E OSPEDALI
8
208.
209.
210.
211.
212.
213.
214.
215.
216.
217.
218.
219.
220.
221.
222.
VIRGILIO IL MAGO
UN TRADITORE CORROTTO DAI FRANCESI
LA CITTÀ INFERNALE DI DITE
RIBALDO
BARATTIERE
LA FEDE
ORLANDO
MORTE PER DIARREA DIVINA
UN FIUME INESISTENTE
L’ELIOTROPIO
“MALEBRANCHE”, “MALEBOLGE”, “MALACODA”
AMORE LA FORZA CHE UNISCE O CHE DIVIDE?
ALCHIMIA
LA LINGUA DEL POETA
TANTI BAMBINI PICCOLI
Appendice I: Rilievi sulla questione dell'”Antivedere” (di Farinata) e la
Conoscenza degli Epicurei una volta giunta la fine dei tempi.
Appendice II: Incongruenze: Cenni, in Particolare su Vivi e Anime dei
Morti
Appendice III: Riflessioni sul Prestito del Danaro, considerando Dante
e Meco del Sacco
Appendice
IV: Chi
Bestemmia
non
Ragiona,
chi
Ragiona
non
Bestemmia
Appendice V: La Sorte delle Anime Morte secondo Dante
Appendice VI: Scozzesi e Inglesi nella Divina Commedia
9
PREFAZIONE
Da una acuta osservazione formulata da Vittorio Sermonti nel
commento radiofonico al canto V dell’Inferno di Dante, quello di Paolo
e Francesca ovviamente, viene l’idea della redazione di questa
piuttosto scherzosa e leggera opera divulgativa.
Gli italiani di oggi condividono un canone irrisorio di racconti! È
inevitabile che il tempo farà scomparire per sempre dalla mente di
chiunque l’immane moltitudine di storie, miti, leggende, momenti,
situazioni, aneddoti di cui è composto quell’universo splendido e
complessissimo che è la Divina Commedia. Peccato, ma così va il
mondo!
Fuori dall’ingenuità moralistica e sempliciotta di voler “opporsi a una
crisi” e, oltretutto, all’inevitabile (è risaputo che la miglior soluzione è
sempre quella di assecondarla semmai), il fine perseguito con questi
222 momenti è piuttosto quello di lottare contro la spiacevole e
indisponente situazione odierna che vede tanta bellezza sacrificata per
essere sostituita da una massa di schifezze e stupidaggini banali,
noiose oltre che sciatte e dozzinali e tra l’altro per nulla più “forti”,
tranne che nel pregiudizio degli ignari, rispetto alle storie antiche
classiche, bibliche ed i racconti medievali.
E già che ci siamo, cauteliamoci e dissipiamo un possibile
fraintendimento. Di bellezza si tratta e unicamente di quello, di
amore, o di cultura generale forse, ma non anche di risposte. Nessuna
delle idee dantesche si attaglia ormai alla percezione che di sé
dovrebbe avere l’essere umano d’oggi, né alla conoscenza nel più puro
10
dei sensi. Si dovrebbe finirla con la romanticheria anche essa
sempliciotta e superficiale di pensare che le risposte alle nostre
questioni siano solo “state dimenticate”, e siano ancora lì, a
disposizione e che recuperando Dante si troveranno le soluzioni che ci
mancano, sette secoli dopo. Non è così, dovremo cavarcela da soli,
prenderci le nostre responsabilità, non esistono scorciatoie! Da allora
tanto la scienza quanto la filosofia sono andate avanti, hanno con
sforzo raggiunto nuovi epici traguardi, ed altri se ne raggiungeranno.
Sia come sia, il cemento, che fa degli abitanti dell’Italia gli italiani
dovrebbe essere questo gran serbatoio di bellezza e apprendimento e
non certo la prostrazione al nulla quotidiano delle reti “Merdiaset” e
dei disabili mentali e morali che ci lavorano, della martellante e
assillante
coglioneria
pubblicitaria
e
nemmeno
del
nefasto
malcostume della sterile polemica perpetua, la divisione superficiale e
fine
a
se
stessa
su
qualunque
tema,
e,
peggio
ancora,
dell’atteggiamento di tifo da stadio che tiranneggia ambiti che
debordano dalla calcistica e spaziano sino alla politica.
Questo catalogo di momenti tratti dalla Divina Commedia non è
destinato a chi conosce già piuttosto bene l’opera, non a studenti di
lettere, per intenderci, e forse nemmeno di liceo, è rivolta piuttosto a
tutti quegli italiani che non saprebbero isolare nelle loro menti il
ricordo di almeno dieci momenti o questioni significative dell’opera. Si
vorrebbe regalargli così una palata di quel cemento che dovrebbe
edificare la loro appartenenza al gruppo nazionale e renderli
giustamente felici di essere nati in questo paese. Dante ha scritto per
noi, teniamocelo caro!
Nelle storie a seguire, le interpretazioni dell’opera dantesca sono
riprese da comunissimi testi di liceo, il mio unico contributo è stato
11
quello della selezione delle scene e del taglio dato a ciascuna, l’unica
difficoltà significativa quella della semplificazione e del “taglia e cuci”
all’interno dell’opera e dei riferimenti esterni ad essa, realizzato per
espungere aspetti che potessero colpire, attrarre e affascinare il
lettore odierno e, in un certo modo, assecondare anche le inquietudini
e i gusti di oggi, che indulgono particolarmente su sesso, violenza,
ridicolo, economia.
S’è cercato comunque di non scadere necessariamente nel banale o
nel pedissequo e di lasciare una impronta delle propria estetica
personale, perseguendo anche un fine specifico. Nelle vicende che
seguono c’è di tutto: orrori veri o fantastici, cannibalismo, erotismo,
languore, storia, miti, leggende, cosmogonie, credenze, scienza del
tempo, etimi, il tutto asciugato e condensato al massimo, e anche
semplificato, ma non in modo tale da non richiedere una certa
“sacrale” dose di attenzione da tributarsi, come segno di rispetto,
all’opera dantesca.
Di certo sarà impossibile non notare come siano distanti dal nostro
sentire contemporaneo tante storie, tanti miti, o usi, ma due
situazioni antitetiche fanno riflettere: mentre per quanto riguarda il
progresso scientifico salterà alla vista la sua immane avanzata nei
successivi sette secoli, quanto a mentalità politica colpisce di avere, in
Italia, problematiche e individui ancora molto simili a quelli di allora:
divisi in consorterie piene di servi, ruffiani, adulatori, di potenti e
potentelli dispotici, arroganti, vili, inetti, e, se serve, anche brutali;
senza contare l’assillante presenza di un clero avido, pederasta e
cialtrone. La selezione di certe scene è stata realizzata in modo da far
risaltare questa distonia tra progresso scientifico e stagnazione sociale
e politica italiana, ma senza forzare la mano al poeta.
12
S’è, infine, cercato di evitare di presentare i punti più conosciuti e
celebri, o in ogni caso di soffermarsi solo su situazioni e circostanze
meno note di essi, non per il gusto dell’esotismo, quanto per assolvere
proprio alla prima missione di “recupero” di elementi e dati al bordo
dell’oblio e meno insistiti nella divulgazione dell’opera, che oggi è, per
fortuna, straordinariamente vivace.
Ognuno dei duecento e rotti punti è stato redatto evitando di
proposito
la
disputa
filologica o
critica
e prendendo
spesso,
sfacciatamente, un solo cammino nell’intricata selva esegetica e
storicistica, pur di ottenere l’unico scopo dichiarato di rendere
familiari nomi, luoghi e vicende, nella maniera meno impegnativa per
il lettore, più spedita e, si spera, più divertente. È d’obbligo segnalare,
però, tanto per fare delle proporzioni, come su ogni punto, anche
quelli a prima vista di più limitato respiro, potrebbero assegnarsi
varie e diverse tesi dottorali e potrebbero essere scritti saggi interi.
Questo piccolo catalogo è redatto in “pillole” per cercare di avvicinare
chi è diffidente, o spaventato dalla fama e dal prestigio, oltre che
dall’imponenza, dell’opera in sé e dal rigore dei suoi numerosissimi
commentatori, e vorrebbe essere solo uno stimolo ad andare
ulteriormente avanti nella curiosità e l’approfondimento riprendendo
magari i tomi dei licei, o, per lo meno, usando la rete, che oggi offre
strumenti davvero interessanti e agili per la conoscenza.
Nel frattempo si spera di riuscire a mettere nella memoria del lettore
qualcosa di più di quello che oggi, in genere, condividiamo col nostro,
una volta glorioso, passato letterario.
13
NOTA: al fine di rendere scorrevole l’opera e non ingolfarla di riferimenti
e note, s’è scelto di indicare unicamente un canto (quello di riferimento)
per ciascuna “pillola”, privo dell’indicazione esatta del verso. La scelta
si deve anche al fatto che oggi ogni ricerca è estremamente semplificata
da internet e può agevolmente controllarsi ogni richiamo senza alcuna
perdita di tempo usando le parole chiave.
L’estensione di ogni brano è variabile, da un minimo di poche righe, un
accenno, a qualcuno di maggiore consistenza: pagine. In media però si
tratta di un duecento parole a pezzo. In un solo caso il brano presenta
idee “originali” dell’autore, e una digressione, dall’andamento normale
dell’opera. E in un altro è presentata una questione meramente criticaletteraria.
Quest’opera è stata completamente ideata e realizzata dal suo autore
in ogni sua parte, impaginazione compresa.
14
1. La Potentissima Maga Eritto
E
ritòn “cruda” (Inf. IX), cioè feroce, selvaggia, la maga
Erichto o Eritto della Farsaglia di Lucano, è la
negromante tessala che dimorava in un sepolcreto, e che
per predire a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo (tra suo
padre Gneo, contro Cesare) realizza, per mezzo di un filtro magico,
l’agghiacciante impresa di costringere un nolente soldato morto a
rientrare, raccapricciato lui stesso, nel suo corpo ormai logoro e
insepolto.
Virgilio, respinto dai demoni sulle mura della città di Dite, la cita
spiegando a Dante -in quel momento larvatamente dubbioso sulle
effettive capacità di guida infernale di lui- di esser sceso già una volta
fino al fondo della “trista conca” quando fu evocato proprio da costei per
portarne fuori l'anima di un traditore: uno “spirto del cerchio di Giuda”.
Il passaggio della Commedia, di gran forza e suggestione, apre
un’ingentissima serie di questioni esegetiche, e ne scaturiscono
implicazioni di straordinario interesse e fascino.
Esso è brillante invenzione puramente dantesca, dato che, ad esempio,
non
risulta
altrove
la
mansione,
per
le
anime
del
limbo,
di
accompagnatrici di altre anime –dannate- e neppure vi sono riscontri
del fatto che, nelle sue spettrali pratiche negromantiche, la potentissima
maga pagana si servisse di intermediari.
Lucano, nel VI libro, le dedica ampio respiro e racconta come la maga
arrivi persino ad insultare le Erinni stesse, che ritardavano la
realizzazione della sua macabra impresa. Dapprima le apostrofa “cagne
dello Stige”, e poi addirittura minaccia di far intervenire in suo aiuto un
15
misterioso personaggio, abitatore di una “zona franca” del Tartaro, che
fa tremare la terra al suo passaggio, ed è immune ai mostri infernali,
compresa la più giovane delle Gorgoni –Medusa- che egli può, caso
unico, guardare direttamente in volto senza tramutarsi in pietra. Ecco il
bellissimo passaggio dell’opera:
… Paretis, an ille
conpellandus erit, quo numquam terra uocato
non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam
uerberibusque suis trepidam castigat Erinyn,
indespecta tenet uobis qui Tartara, cuius
uos estis superi, Stygias qui perierat undas?
(Obbedite. O dovrò chiamare colui che sempre invocato scuote la terra e fissa liberamente la Gorgone
e castiga l’Erinni atterrita, con la frusta e abita regioni a voi invisibili del Tartaro di cui siete gli Dei e
spergiura sulle onde dello Stige?).
16
2. Il Toro Di Perillo
D
ai Tristia di Ovidio si apprende che il tiranno di
Agrigento Falaride commissionò all'ateniese Perillo un
grosso toro di bronzo –o rame- (Inf. XXVII) dove
rinchiudere nemici e condannati per ucciderli orribilmente facendoli
arrostire a lungo. Esso doveva essere costruito in modo tale che, dopo
aver acceso un fuoco sotto la pancia della statua,
in virtù di una
particolare acustica, le urla dell’agonizzante, fuoriuscendo dal muso
dell’animale, si tramutassero in versi e muggiti simili a quelli di un toro
infuriato, o, come dice Dante, trafitto dal dolore.
Quando esso fu messo a punto, il primo a sperimentarlo fu, però, il suo
stesso costruttore. Una volta messosi dentro quello, per dar prova del
funzionamento, Falaride non lo lasciò uscire, ma anzi fece accendere il
fuoco per comprovarne anche le sonorità: così quell’elaboratore di orrori
orribilmente perì come meritava, cosa buona e giusta, sentenzia Dante.
Si narra che pure il tiranno, poi, perì in esso, quando Telemaco lo
rovesciò dal trono.
17
3. Melisenda Di Gerusalemme
M
elisenda di Gerusalemme, dovrebbe essere quella
contessa di Tripoli di cui si innamorò perdutamente il
poeta e trovatore francese Jaufré Rudel, principe di
Blaia.
Egli, avendo ascoltato le lodi che di lei si tessevano, così tanto si
innamorò che compose opere per lei, poi, stremato dall’insopportabile
distanza che gliene impediva la vista, si fece crociato e intraprese quel
viaggio in Terrasanta che gli costò la vita.
Ammalatosi durante il tragitto, in un ultimo afflato, morì tra le braccia
della sua amata che mai prima aveva visto e che aveva avuto notizia del
suo innamoramento divenuto leggendario.
La Dama trobadorica trascende la sua natura umana e corporea e
Dante riprende di certo tale concezione, ma egli tratta anche il tema
dell’amore a distanza (amor de lonh) quando crea la vicenda del gran
amore che legava il poeta latino Stazio (Purg. XXII) al suo –sconosciutomaestro Virgilio, e che il primo esprime direttamente e in modo
indimenticabile nella finzione dell’incontro avvenuto durante il viaggio
in Purgatorio.
Si ricordi a tal proposito la dedica che Stazio appone alla sua Tebaide,
rivolgendosi direttamente ad essa le fa una tenera raccomandazione:
“Vivi ti prego, e non tentar di raggiungere la divina Eneide, ma seguirla
da lontano e venerare sempre le sue orme. “Vive, precor, nec tu divinam
Aeneida tempta. Sed longe sequere, et vestigia semper adora”.
18
4. Il Bestemmiatore Capaneo
I
l gigante Capaneo (Inf. XIV) fu tra i sette re che assediarono
Tebe quando scoppiò la guerra tra Eteocle e Polinice, i figli di
Edipo, dopo che il primo si rifiutò di stare ai patti ed
abbandonare il trono della città, che, secondo accordi, avrebbero
dovuto, invece, governare alternatamente per un anno ciascuno.
Sotto le mura, dotato di forza e superbia estreme e sovrumane, urla e
cerca di ingaggiare deliranti tenzoni addirittura con Zeus in persona
oltre che con altre divinità e semidivinità.
Nella tebaide di Stazio il colosso afferma “il coraggio è il mio Dio”.
Infine, stufo di tanta stolida tracotanza, Zeus lo centra con una delle
sue terribili folgori.
Capaneo precipita immediatamente dalla cinta muraria di Tebe ad
arrostirsi disteso e immobile sotto i fiocchi di fuoco dell'Inferno
cristiano, tra i bestemmiatori: i violenti contro Dio.
Bestemmiare il Sommo Dio pagano è bestemmiare quello cristiano.
D’altra parte al canto sesto del Purgatorio Dio viene appellato “Sommo
Giove”.
Sul sabbione dove nevica fuoco, Dante assiste alla sua recita,
all’ennesima e vana mostra di tracotanza dai tratti impossibili:
sprezzante afferma di non essere mai cambiato, e d’esser sempre quello
di una volta, incapace di abbassare la testa e sottomettersi a
chicchessia, lui non permetterà a Giove di avere allegramente la sua
vendetta.
19
5. La Morte Di Manfredi Di Sicilia
N
el
1266
a
Benevento
l'aquila
d'oro
dell'elmo
dell’autoproclamatosi re Manfredi di Sicilia (Purg. III)
discendenza –illegittima- del “secondo vento di soave”
(Federico II, della casa di Svevia), si stacca e cade a terra poco prima
dello scontro con le milizie francesi. Pessimo omen!
Le milizie siciliane, saracene e teutoniche difesero strenuamente il loro
re, mentre quelle italiane lo tradirono.
Non potendo evitare la sconfitta quel coraggioso preferì morire
combattendo ed esaurire in campo tutto il suo immenso valore,
piuttosto che arrendersi.
Tutti i nobili avversari francesi, riconoscendo il suo indiscutibile fegato
in battaglia e nella vita, lasciarono in sfilata un sasso ciascuno sul suo
tumulo, scavato nel terreno dove aveva trovato la morte.
Il clero però -e in specie l'arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli,
con il consenso dell’allora papa Clemente IV- non sopportò l'omaggio
tributatogli: fece esumare dalla “grave mora” –la fossa così omaggiata di
pietre- le sue ossa e le fece condurre senza insegne sacre in riva al
fiume Liri, dove vennero gettate, insepolte- a tremare di vento e
bagnarsi di pioggia.
20
6. Gli Occhi, E In Particolare Quelli Di
Beatrice
R
acconta Virgilio a Dante:
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
...Gli occhi di Beatrice (Inf. II) che poco sopra “Lucevan ... più che la
stella” (singolare per plurale) ora piangono per il poeta smarritosi nella
selva, e il collega mantovano, accorato, si affretta a soccorrere il
fiorentino.
Dante, prima titubante e invaso da paura e codardia, rispetto all’arduo
e sovrumano viaggio da compiere, appreso dell’interessamento della sua
amata, reagisce come i fiori, chiusi e curvati dalla morsa del gelo, ai
tiepidi raggi del sole.
Gli occhi sono l’elemento cardine dello Stilnovo (cfr. Dante, Lapo Gianni,
etc.) in Beatrice è da essi che si sprigiona la bellezza, e la luce di Dio,
che vedono e riflettono.
Beatrice appare solo per mezzo dei suoi occhi fino ad ora, essi sono
l’unico elemento di fisicità, e danno luce.
21
Anche
in
Purgatorio
(XXVII) congedandosi
–magnificamente-
dal
discepolo, Virgilio alluderà a quegli splendidi e luminosi occhi di beata,
visti nel limbo che lo smossero al soccorso: “…vegnan lieti li occhi
belli…”
Poco dopo, sempre in Purgatorio, sull’Eden, Dante vede occhi così belli,
che neppure quelli di Venere innamorata –per errore di suo figlio
Cupido che la aveva trafitta con una delle sue frecce- di Adone potevano
competere: sono quelli di Matelda.
E gli occhi sono anche essi strali: quelli di Beatrice feriscono e
percuotono, trafiggono Dante (Purg. XXX) come già il poeta aveva scritto
nelle Rime (LXVII) “…entro 'n quel cor che i belli occhi feriro quando li
aperse Amor…”
Gli occhi saranno anche chiamati “lucerne” in accordo con Matteo:
“Lucerna corporis tui est oculus”, ed infatti anche quelli di Lucia, la
santa che aveva avvisato Beatrice della situazione peccaminosa in cui si
trovava Dante e la aveva mossa ad intervenire, rifulgono (Purg. IX) e lei
parla solo attraverso essi, senza aprire bocca.
Dagli occhi viene anche lo spavento, si intende il carattere, o il
sentimento;
tanto per citare qualcosa: Caronte ha occhi di brace, e
Cerbero vermigli, Farfarello –diavolo- vuol incutere timore proprio
stravolgendo gli occhi, Cesare ha occhi di sparviero –grifagni-, Paolo e
Francesca sono indotti dalla lettura a guardarsi negli occhi –“li occhi ci
sospinse”- finendo per amarsi, Ciacco torce gli occhi da umani a
bestiali, quando smette di parlare, e similmente si comporta l’usuraio,
ed anche Ugolino li storce riprendendo la sua figura ferina di divoratore
della nuca di Ruggeri.
22
E, concludendo, ricordiamo che è dagli occhi che la Gorgone –Medusatramuta in pietra gli esseri umani, tanto che, dinanzi al pericolo, nel
nono dell’Inferno, Dante li chiude e copre con le sue mani, e Virgilio si
assicura sovrapponendo anche le sue di fantasma.
23
7. Bonconte Da Montefeltro
B
onconte da Montefeltro (Purg. V), figlio del più celebre
Guido -incontrato quest'ultimo tra i “fuochi furi” dove
pagano i loro inganni da consiglieri fraudolenti anche
l’inarrivabile Ulisse e Diomede- attende ai piè del monte Purgatorio il
turno per la penitenza, come da prescrizione burocratica divina,
essendo tra quelle anime che hanno tardato a pentirsi sino all'ultimo
respiro di vita.
Dante inventa la storia della sua fine, che non può conoscere: dopo aver
condotto la cavalleria ghibellina a Campaldino (Dante era lì anche lui),
l’eroe, persa la facoltà della parola e pentito, chiese comunque, ormai
senza voce ed in extremis, la salvezza alla Madonna. La Vergine lo
ascoltò e una volta morto, mentre il Diavolo stava già lì per afferrarlo,
sicuro che fosse dei suoi, scese un angelo a salvarlo.
Il demonio, allora, infuriato per il “furto”, scaraventò il corpo, vuoto
dell’anima che voleva per sé, nell'Archiano in piena e per questo esso
non verrà mai trovato.
La bellissima storia, che contrappunta e inverte la sorte, anche essa
inventata,
e
con
analoghe
implicazioni
teologiche,
del
padre,
presuppone, proprio come l’altra, il paradosso che il diavolo non
conosca esattamente le sorti delle anime che va raccattando tra
l’umanità, ed è comunque sublime.
24
8. Un Pagano Tra I Beati: Rifeo
R
ifeo è uno dei fedeli compagni di Enea nella disperata
resistenza opposta dai troiani per salvare la città
condannata, una volta che l’inganno di Ulisse e
Diomede -il cavallo- sortisce il suo drammatico effetto.
Dante lo colloca, un pagano, in Paradiso (Par. XX).
La Giustizia e la Grazia di Dio salvano chi vogliono e chi lo merita.
Nell’Eneide, Rifeo viene esortato alla pugna, disperata e senza scampo,
dal celeberrimo hysteron proteron di Virgilio: Moriamo e gettiamoci in
mezzo alle armi (“Moriamur et in media arma ruamus”. Eneide II, 353).
L’inversione causale o temporale di due elementi del discorso sarà
utilizzata da Dante in altre splendide occasioni nella Divina Commedia
stessa: Par. II, 23-26 e Par. XXII, 109-110, e ancora Inf. V, 61-62.
Nella prima, il dardo –quadrello- di balestra prima si posa sul bersaglio
e solo poi vola e si schioda dalla noce –il gancio con la tacca che tiene la
corda tesa-; nel secondo, il dito scottato si ritrae dalla fiamma prima di
avvicinarsi ad essa, nell’ultimo Didone prima si uccide per amore, e poi
rompe il giuramento di fedeltà a suo marito Sicheo, morto. Un altro
esempio è presente nell’indicazione oraria sul Monte Purgatorio (Purg.
XV) “Tra l’ultimar de l’ora terza e ‘l principio del dì”.
25
9. I “Danti” Della Divina Commedia
È
noto come il protagonista della Divina Commedia sia il
suo stesso estensore: Dante Alighieri. Ma c’è un aspetto
dell’opera che prima o poi risulterà chiaro anche al lettore
più distratto: il personaggio e il poeta non coincidono.
Ciò è banale: non potrebbero mai coincidere, non solo perché il viaggio è
una invenzione, ma anche perché il poeta, che a casa scrive l’opera, e
durante la sua vita la pensa ed elabora, crea sia la sua immagine in
essa, che tutte le sue titubanze e i dubbi espressi durante il viaggio,
così come tutte la spiegazioni e i chiarimenti che man mano gli vengono
forniti, specie dalle sue guide.
V. Inferno XI, laddove il poeta ha chiarissimo tutto quanto rispetto alle
incertezze sull’ordinamento etico-giuridico dell’Inferno (lo crea lui), che
invece mette in bocca al personaggio pellegrino; frasi che Virgilio
stigmatizza, in modo funzionale alla comprensione del lettore, ma che
ovviamente è sempre il Dante storico e poeta a formulare.
È interessante notare che mentre all’Inferno è il poeta ad avere “il
controllo” e a calibrare le conoscenze della sua proiezione nell’opera,
ascendendo verso il Paradiso è il personaggio pellegrino ad avere una
maggiore contezza di situazioni che il poeta dichiara di non riuscire più
a conoscere e ricordare con la stessa forza e nitore. Ma questa è una
dichiarazione fittizia come tute le altre nell'opera e sempre funzionale a
rendere verosimile la storia che il viaggio si sia davvero verificato.
Artificio anche questo, certo (la mente del poeta è una), ma di
straordinario impatto e vivacità.
26
Ma c’è un altro personaggio “intermedio” tra il Dante storico (che
realmente è a casa, o in viaggio, e scrive e inventa l’opera che ci ha
lasciato) e il personaggio pellegrino (che sarebbe se stesso nel 1300
quando vuol farci credere che il primo ha avuto l’avventura del secondo)
ed è quello che a volte si affaccia dalla pagina e si rivolge al lettore
dandogli del “tu”: “Pensa lettor…”.
Personaggi della Divina Commedia sono sia il pellegrino che viaggia,
proiezione del Dante storico “mai esistita”, che, a sua volta, la
proiezione del pellegrino di rientro a casa: quel personaggio “Dante” che
nell’economia dell’opera si finge abbia realmente compiuto il viaggio e
che lo sta raccontando in poesia e a volte prende la parola.
Quest’ultimo, chiaramente non coincide con il reale estensore del
poema sacro. Oltre al Dante storico, quindi, c'è quello personaggio della
sua opera, ma questo è colto in due momenti diversi: mentre fa il
viaggio, e mentre ne scrive.
Il personaggio che dice di scrivere, però, non è certo il Dante che
realmente scrive.
27
10.
P
Come Generare Un Mostro
asifae, la ninfa moglie di Minosse e progenitrice del
Minotauro, generò il mostruoso figlio, metà toro, metà
uomo, dopo che, innamoratasi febbrilmente, e per castigo
divino, di un magnifico toro bianco, incaricò Dedalo di costruire una
vacca di legno in cui rinchiudersi per ingannare la bestia e ottenere di
copulare e farsi penetrare da essa.
Lei (Purg. XXVI) è citata da Dante come esempio di lussuria sfrenata, e,
sia il marito, che la discendenza, sono incontrati, invece, in persona
all’Inferno, dove figure della mitologia classica sono reclutate da Satana
e preposte a compiti e mansioni di varia natura.
Minosse (Inf. V), re e giudice in terra, presiede come un severo
burocrate giudiziario romano il punto in cui a ogni anima, previa
ineluttabile
confessione
fededegna,
viene
indicata
la
propria
destinazione. È ubicato dopo il Limbo, quindi dispone per le anime che
scenderanno dal cerchio secondo al nono.
Lunga è la tradizione che lo vuole nell’Ade o nell’Erebo: Omero, Virgilio,
Claudiano. Meccanicamente e provvisto di attributi animali, dopo la
confessione completa dei peccatori, indica il cerchio in cui saranno
gettati, avvolgendosi in spire con la sua lunga coda per il numero di
volte corrispondente all’ordinale del cerchio stesso di destinazione.
Il Minotauro (Inf. XII), di cui non conosciamo con esattezza la
rappresentazione che Dante se ne faceva, presiede, come guardiano,
l’ingresso al girone dei violenti dando mostra di una rabbia impotente e
frustrata.
28
11.
Un Borioso E Manesco Cialtrone Di
Parte Avversa
F
ilippo
Cavicciuli,
detto
Argenti
(Inf.
VIII)
viene
riconosciuto da Dante nonostante sia lordo di fango, dato
che è immerso e sguazza nella palude dello Stige
riservata agli iracondi. In vita personaggio manesco e borioso, nerboruto
e dal pugno di ferro, aveva avuto il vezzo di ferrare d’argento il suo
cavallo, di qui il nomignolo. Una volta, membro di un ramo cadetto della
famiglia degli Adimari, di consorteria avversa a quella di Dante, prese
anche a ceffoni l’Alighieri.
Si narra che andasse a cavallo con le gambe singolarmente divaricate
per urtare e percuotere con esse i passanti più umili che si
incrociassero sul tragitto.
Nel suo viaggio iniziatico il poeta, è durissimo con lui: lo riconosce, lo
schernisce, lo fa respingere da Virgilio in acqua con una pedata, e
chiede e ottiene di poter contemplare con soddisfazione la sua sorte
ignobile. L’iracondo, scompare dalla vista mentre, in modo bizzarro,
morde le sue stesse mani, furente di ira, e i compagni di pena lo
assalgono.
29
12.
N
Glauco
arra Ovidio e Dante cita (Par. I) come Glauco, un
pescatore della Beozia –regione della Grecia centrale-,
notò che i pesci che aveva estratto dalle reti e sciorinato
sulla spiaggia, al contatto con una determinata alga, rianimati, si
rituffavano in mare.
Per provare anche lui gli effetti del vegetale ne strappò un ciuffo e se lo
mise in bocca, acquisì così capacità divinatorie e l'immortalità; queste
però non erano abbinate all’eterna giovinezza.
Logorato dal continuo invecchiare, secondo leggenda si sarebbe infine
gettato in mare sentendo internamente l’irresistibile impulso di mutare
natura. Si immerse nell'acqua per sempre diventando un Dio marino.
30
13.
Q
Meleagro
uando si trattò di assegnare i trofei per l’uccisione del
tremendo cinghiale Calidone, che devastava l’Etolia,
Meleagro (Purg. XXV) finì per uccidere i fratelli di sua
madre Altea, che sottrassero vilmente il dono da lui destinato alla sua
amata e vergine cacciatrice Atalanta, presente alla spedizione e prima
feritrice della bestia.
Ma la vita di Meleagro era legata, dai tempi della nascita, a un ciocco di
legno. Atropo, la Parca, aveva predetto alla madre identica durata di vita
sia per il ciocco, che stava bruciando in quel momento sul fuoco, che
per il neonato.
Altea aveva quindi estratto immediatamente il tizzone dal fuoco e lo
aveva riposto gelosamente per non far avverare la profezia.
Affranta dal dolore per la perdita di ambedue i fratelli, però, pietosa ed
empia al contempo, si decide a gettarlo di nuovo tra le fiamme,
vendicandosi contro il suo stesso figlio, il cui spirito lascia il corpo
assente e lontano che si consuma frattanto che il pezzo di legno arde.
31
14.
C
Un Romano Severo E Venerando
atone Uticense (Purg. I), non solo di fede pagana, ma
anche suicida, è tratto dal Limbo –da Cristo: “che la
gran preda levò a Dite”- assieme a grandi figure ebree e
posto a guardia del Monte Purgatorio.
Si palesa a Dante e Virgilio, severo, dopo la loro uscita dalla “natural
burella”, cioè il condotto di pietra originato dal ritrarsi della terra
all’impatto di Lucifero con essa e che, dal centro del mondo sferico dove
il demone principio del male è rimasto incastrato, risale verso l’emisfero
australe fino a sbucare agli antipodi di Gerusalemme: in Purgatorio.
Catone si aprì le viscere ad Utica, a quarantanove anni, dopo la
sconfitta dei pompeiani a Tapso, preferendo la morte alla perdita della
libertà garantita dalla forma di governo repubblicana.
Anche se Dante vede la nascita dell’Impero e l’abbandono della forma
repubblicana come il compiersi della volontà divina che guida la storia,
e un sacrificio necessario a predisporre l’avvento di Cristo, e così la
salvezza
dell’umanità,
egli
ha
grande
stima
e
considerazione
dell’integrità integerrima dell’antico romano.
Egli, nel pensiero complesso e ponderoso del poeta non è certo un
semplice malato di ingratitudine ontologica come lo sono i volgari
suicidi e disfacitori di sé.
32
15.
Gode Più L’Uomo O La Donna
Nell’Atto?
E
bbro per l’ingestione di nettare Giove prese a discutere
con sua moglie Giunone riguardo a chi, tra uomo e
donna, provasse più piacere nell’atto sessuale.
Ognuno manteneva la tesi che fosse il sesso opposto ad essere quello
più beneficiato nell’amplesso.
Incapaci di dirimere la controversia, o giungere a un accordo,
interpellarono il famoso indovino Tiresia (Inf. XX) -che nella Commedia
è all’Inferno, con sua figlia Manto- il quale avendo trovato in un bosco
due serpenti intrecciati per l’accoppiamento ed avendoli percossi con
una bacchetta e separati, aveva cambiato sesso, divenendo donna, e
poi, al capo di sette anni, ripresentandosi una analoga situazione, aveva
ripreso i suoi precedenti attributi maschili. Era quindi l’unica persona
indicata ad esprimere un parere fondato sull’esperienza.
Tiresia, prendendosi la briga di rispondere, affermò che senza dubbio è
la donna a provare più piacere nel coito. Tale rivelazione fece molto
adirare Giunone che lo accecò, mentre Giove lo ricompensò dotandolo
delle capacità divinatorie per cui divenne celeberrimo.
Va segnalato come cecità e divinazione sono elementi che vanno spesso
appaiati nelle tradizioni antiche; per dirne una, lo stesso Odino, il Dio
germanico, è orbo e, secondo una versione del mito, si cavò egli stesso
l’occhio dandolo in tributo al gigante Mimir (mormoratore) proprio per
attingere alla fonte della conoscenza.
33
16.
N
Un Bastardo Senza Gloria
eppure
il
gigantesco
bestemmiatore
Capaneo
è,
all’Inferno, tanto insolente contro il Signore quanto
Vanni Fucci (Inf. XXV).
Egli, dal buco sotterraneo dove si trova, ladro di chiesa e uomo vigliacco
e violento in vita -costretto a definirsi “bestia” e a confessare le sue
colpe infami- osa addirittura alzare i pugni contro il Cielo infilando i
pollici tra indice e medio.
Indirizzandole a Dio in persona: “squadra le fiche”, si diceva, “Togli Dio
che a te le squadro”, grida blasfemo.
Saranno i serpenti presenti nella Bolgia, esecutori tempestivi della
volontà di Dio, a censurare, annodandoglisi addosso, il suo orribile
gesto, che forse, nella sua reiterazione impotente e vile, è parte stessa
della pena.
34
17.
Due Amatissimi Personaggi Virgiliani
E
urialo, giovane di bellissimo aspetto e il suo inseparabile
compagno Niso, legati da un grande amore, sono eroi
della schiera di Enea e personaggi dell’Eneide, citati dal
suo autore per convincere Dante, nel loro primo incontro, ad
intraprendere il viaggio che lo porterà a contemplare la sua Beatrice e
persino Dio in persona (Inf. I).
I due, che potrebbero ricordare per affetto reciproco la coppia dell’Iliade
Achille-Patroclo, versano il sangue per l’Italia, e sono celebri anche per
un verso virgiliano magnifico e profondissimo che si interroga sulle
interne dinamiche umane rispetto all’ardore in guerra: “Nisus ait: Dine
hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique deus fit dira
cupido?”; “Niso disse: son gli Dei a mettere nelle nostre menti questo
ardore, oh Eurialo, o ciascuno si fa un Dio della propria terribile
passione?”.
35
18.
S
Un Poeta Nell’Imbuto Infernale
upremo
cantore
d’armi
e
unico
poeta
incontrato
all’Inferno, Bertran de Born (Inf. XXVIII) porta a spasso
la sua testa per la Bolgia Nona dell’Ottavo Cerchio, come
fosse una lanterna.
Spiccata dal busto in modo netto, per aver in vita separato due persone
legate dal vincolo di parentela più stretto, naturale e sacro, paga in tal
modo il fio di aver messo l’uno contro l’altro Enrico III d'Inghilterra,
detto il “re giovane” e suo padre Enrico II.
Amante della pugna, nella sua produzione letteraria è celebre la sua
canzone Be.m platz, che esalta la battaglia e le stragi realizzate in essa.
Dante gli assegna, nel De Vulgari Eloquentia, la palma nella sezione
poetica “armi”, mentre a Giraut de Borneil assegna quella di
“rettitudine” (a cui ascrive anche se stesso) e ad Arnaut Daniel quella
“d’amore”.
Lineare il “contrapasso” in questo caso: ha separato persone così unite
che ora si trova la testa spiccata dal busto, divenendo “due in uno e uno
in due”. Per l’unica volta il lemma “contrapasso” è usato direttamente
da Dante nella sua opera e suggella di canto.
36
19.
R
Un Incipit Sinistro
adegonda VI fu la infelice e santa principessa di
Turingia, prima prigioniera e poi moglie del violento e
brutale merovingio Clotario I.
Ella fuggì dal consorte e si fece monaca dopo che lui fece uccidere il suo
unico ed amatissimo fratello.
A lei destinò varie opere Venanzio Fortunato, il grande poeta in lingua
latina che scrisse anche gli Inni Sacri alla Croce di Cristo.
Questi furono concepiti per l'arrivo al monastero di Poitiers di una
reliquia di legno della vera croce, donata dall'imperatore bizantino
Giustino II (successore di Giustiniano e nipote di lui) e trasportati fino
al monastero in processione.
Tra questi inni v’è il bellissimo Vexilla regis prodeunt (Inf. XXXIV) il
cui incipit è ripreso, e ribaltato nel prosieguo, da Dante per aprire
l’ultimo canto della
(Avanzano
le
prima cantica: “Vexilla regis prodeunt Inferni”
insegne
del
re
dell’Inferno),
attacca
in
modo
grandiosamente sinistro il canto in cui Dante vedrà coi suoi stessi occhi
il principio di tutto il male, il verme sotterraneo, il re di Dite etc.
37
20.
A
Giganti
lti sui ventotto metri, Nembrot, Fialte, Anteo, (Inf. XXXI)
sono i mostruosi giganti visti dal pellegrino prima di
scendere nell’ultimo cerchio infernale, quello del lago
ghiacciato di Cocito, ultimo dell’imbuto nero che deve attraversare per
realizzare il suo percorso iniziatico e di salvezza.
Per colpa del tracotante progetto del primo (presentato anche in Purg.
XII come esempio) di raggiungere il Cielo, nel mondo non si parla più
una unica lingua: quella di emanazione direttamente divina anteriore
alla costruzione della Torre di Babele.
Ora lui, inebetito, non capisce più alcun idioma e si esprime con parole
non intese da nessuno: “Raphèl maì amècche zabì almi”, erompe
troncando paurosamente le riflessioni del poeta sulle dimensioni e la
forza smisurata di tali bestioni.
Il secondo è feroce e ancora più grande del primo. Si tratta di uno dei
due Aloidi ed è costretto, con un braccio dietro alla schiena e uno
davanti, da una immane catena, per aver osato sfidare, minacciare
fisicamente, e aggredire gli Dei dell’Olimpo e il sommo Zeus in persona.
Ebbe l’intenzione di scardinare il cielo sovrapponendo i monti Pelio e
Ossa all’Olimpo e menare le mani contro le divinità: ormai è bloccato in
eterno nei movimenti.
Ancora una volta, l’aggressione alla divinità pagana è aggressione
all’unico vero Dio.
Per ultimo, al posto dello smisurato Briareo, che Dante curiosamente
vorrebbe vedere, Virgilio lo conduce, invece, da Anteo, col proposito di
servirsene.
38
C’è chi non esclude, fa dire il poeta da Virgilio al colosso, per blandirlo
con una captatio benevolentiae e convincerlo a depositarli sul fondo del
pozzo che i giganti orlano, che se egli si fosse unito alla grande battaglia
di Flegra, contro gli Dei, gli esiti sarebbero potuti essere diversi.
Ovviamente ciò non potrebbe mai essere vero, meno che mai se vige una
sorta di identificazione tra le supreme divinità pagane e l’unico Dio dei
cristiani, ma le parole del mantovano non paiono assumere, come pure
è stato detto, il tono di scherno verso un colosso pieno di sé e troppo
poco intelligente per cogliere l’ironia.
39
21.
È
Controverso Guardiano Infernale
probabile, si dice, che Dante confondesse Pluto Plutonis e
Plutus Pluti (Inf. VII), quando crea il bizzarro personaggio
della Commedia celeberrimo per il verso incomprensibile e
tremendamente controverso che recita e con cui apre il canto: “Pape
Satan, Pape Satan Aleppe”.
Si riferisce però a una di due figure della mitologia grecoromana e lo
piazza all’imboccatura del cerchio IV, quello di avari e prodighi.
Così come presentato, egli è un demone di fattezze imprecisate, ma con
la particolare caratteristica di avere un volto in grado di caricarsi e
gonfiarsi di rabbia fino a lacerarsi ed esplodere afflosciandosi, poi, come
la velatura di una nave quando l’albero viene spezzato dal troppo vento.
Il primo dei due possibili personaggi mitologici è il Dio romano delle
tenebre dell’Ade, su cui regna con la sua sposa Proserpina, che rapisce
e fa sua.
È fratello di Nettuno e Giove, coi quali si spartisce i tre regni della terra
all’esito della lotta, vittoriosa, contro i Giganti e i Titani.
Il secondo, figlio di Demetra e Iasione, nipote di Dardano fondatore di
Troia, è Dio delle ricchezza. Aristofane lo descrive come accecato da
Zeus e perciò in grado di distribuire averi senza pregiudizi.
40
22.
C
Anonimo Suicida Fiorentino
onclusosi il sanguinante dialogo col più famoso suicida
Pier della Vigna -il celebre custode delle due “chiavi del
cor di Federigo” (il “sì” e il “no”), dato che godeva della
sua totale fiducia poi caduto in disgrazia per invidia di corte, accecato,
imprigionato e, in carcere, suicidatosi colpendo con la testa il muro di
pietra- il bosco, a tinte smorte e riecheggiante di sospiri dei violenti
contro se stessi, si anima di una fulminea caccia selvaggia.
Nere
cagne
sono
all’inseguimento
delle
anime
nude
di
due
scialacquatori, convitti assieme ai suicidi, ma non intrappolati in pruni
come accade agli altri.
Uno di essi, Jacopo da Sant’Andrea, finisce, stremato dalla fuga, per
coinvolgere e “scerpare” il rovo dove è imprigionata l’anima di un
anonimo suicida fiorentino (Inf. XIII), che, dagli strappi, inizia a
lagnarsi e raccontare.
Dante non ci riferisce il nome del personaggio, che parla e si duole di sé,
forse addirittura per lasciare a ciascuno dei contemporanei la possibilità
di una identificazione con qualche conosciuto, dato che, secondo
quanto racconta il Boccaccio, come se si trattasse di una maledizione
del Cielo, parecchi cittadini fiorentini scelsero di togliersi la vita, pure in
quel periodo economicamente così florido e prospero.
L’anonimo fornisce una semplice, ma estremamente efficace e triste
descrizione della sorte che ha scelto per sé, che “ammutolisce” (chiude)
il canto: si impiccò nella solitudine di casa sua, facendo di una trave il
suo patibolo: “io fei gibetto a me delle mie case”.
41
23.
R
Il Fato Non Si Cambia
icordiamo bene che in Dante esiste una certa –
complicata- continuità tra gli Dei pagani e il Dio unico
cristiano; questo viene a volte appellato “sommo Giove”
così come bestemmiare l’antico comporta le pene dell’Inferno cristiano
etc. Inoltre in lui ogni precetto deve accordarsi con quanto sostenuto dai
saggi antichi (Virgilio in primis).
Virgilio nella sua Eneide è chiarissimo rispetto alle preghiere e la loro
efficacia su decisioni, leggi e precetti divini e conferma il tutto in
Purgatorio (Purg. VI). La sua Sibilla, mentre accompagna Enea
nell’oltretomba a far visita a suo padre, infatti, dice a Palinuro, che da
insepolto implora di essere traghettato ugualmente al di là di Acheronte,
di non sperare di piegare le decisioni divine per mezzo delle preghiere
(famoso: “desine fata deum flecti sperare precando”).
Palinuro, ricordiamo era il timoniere della nave di Enea che cade in
acqua preso da torpore divenendo la vittima richiesta da Nettuno a
Venere per il prosieguo del viaggio dell’eroe troiano. Nel Cilento un
massiccio roccioso porta ancora il suo nome.
Quanto sopra, però, si scontra con quanto stabilito dalla dottrina
cristiana, e quanto Dante stesso contempla coi suoi occhi alla base del
monte Purgatorio, dove anime salve, ma ancora impure e con peccati da
espiare, cercano (o persino elemosinano) suffragi per sveltire l’iter di
purificazione. Preghiere molto efficaci!
Eppure, Virgilio spiega, non c’è contraddizione! Quello che accade è che
il fuoco cristiano –di amore- si è ormai sostituito all’inevitabilità del fato
pagano a cui erano soggetti gli antichi, sicché ora sì che le preghiere
42
possono attenuare e modificare quanto stabilito dai precetti divini. Il
punto di inflessione è ovviamente la nascita di Cristo, da lì in poi si
ricrea quel ponte tra l’essere umano e l’amore divino che era stato reciso
dal peccato originale.
43
24.
L
Origini Infernali
’Inferno di Dante “narra di sé” in prima persona (incipit
Inf. III). Sull’iscrizione incisa sull’architrave della porta
scardinata dall’entrata di Cristo per sottrarre le anime
degli antichi ebrei prima ospitati nel Limbo, esso dice di durare in
eterno e di essere stato creato quando solo altre cose eterne erano state
create. Difatti esso si origina solo dopo la caduta di Lucifero, che,
andando avanti, il pellegrino troverà incastrato, a creare venti gelidi con
ali da pipistrello e masticare tre anime, al centro della terra: la parte
dell’universo più lontana da Dio, nella cosmogonia del poeta. Fino ad
allora erano state create, appunto solo cose di durata eterna (Cieli,
Intelligenze angeliche etc.), e la ribellione di Lucifero e la sua caduta
conformano la topografia terrestre così come la immaginava Dante:
l’emisfero australe, più nobile dei due, è sede dell’impatto dell’immane
demone, che, cadendo di testa, si conficca con il busto in su verso
quello boreale. La terra, pur essendo solo materia bruta, nonostante, si
ritrasse per l’orrore provocato dal Signore del Male: da un lato le terre
emerse si assieparono tutte dalla parte opposta al punto dell’impatto,
dall’altro, per evitare il contatto con il corpo terrificante dell’angelo
caduto, formarono il condotto, “natural burella”, che Dante e Virgilio
usano come via d’uscita verso il monte Purgatorio.
Quest’ultimo è composto proprio dal materiale residuo del condotto
stesso. Il monte, immenso, nell’emisfero australe, per il resto privo di
terre e sommerso interamente dalle acque, ospita, sulla sua cima, il
Paradiso Terrestre da cui Adamo sarà scacciato; come racconterà lui
stesso.
44
25.
D
Una Allegra Brigata
i Stricca, forse dei Tolomei, ma più probabilmente dei
Salimbeni, di Niccolò dei Salimbeni, e in tal caso
fratello del primo, di Bartolomeo dei Folcacchieri, e di
Caccia di messer Trovato degli Scialenghi conti di Asciano, in breve
Caccia da Asciano, riferisce Capocchio, ex compagno di studi di Dante,
finito dal rogo a Siena giù nell’ultimo anello di Malebolge, come
alchimista.
Per pena patisce la fastidiosa scabbia eterna, che lo sfigura, per la colpa
di aver falsato i metalli.
I succitati gentiluomini sono alcuni dei membri della così detta Brigata
Spendereccia (Inf. XXIX).
Sono tutti probabili corridori della selva dei suicidi dove Dante incontrò,
inseguiti da nere cagne, gli scialacquatori Jacopo da Sant'Andrea e Lano
da Siena, anche quest’ultimo membro di detta brigata.
Leggendarie le loro gesta: dodici rampolli di alcune delle più ricche
famiglie senesi, raccolsero l’ingente somma di 216.000 fiorini (stimabili
in ben oltre una quindicina di milioni di euro attuali) che sperperarono
in soli venti mesi di gozzoviglie.
I dodici soci si ridussero, così, clamorosamente con le toppe al culo
diventando al contempo un mito popolare.
Di Lano, già di sicuro all’Inferno, si narra che, per non far perdere la
strada ad amici invitati a cena, diede ordine che per il percorso si
incendiassero i casolari.
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Stricca, “che seppe far le temperate spese” ghigna sardonicamente il
narratore infernale, sperperò l’immane fortuna paterna in stupidaggini e
cattiverie gratuite.
Caccia distrusse la “gran fronda”, cioè vigneti e boschi che possedeva.
In particolare di Niccolò dei Salimbeni Dante riferisce come egli: “la
costuma ricca del garofano prima discoverse”, cioè adottò per primo il
costoso vezzo dei chiodi di garofano, allora costosissima spezia
importata dall'oriente, che, si raccontava, forse lui era arrivato
addirittura ad usare anche solo per farne brace su cui arrostire la
cacciagione.
46
26.
G
Una Presa In Giro Finita Male
riffolino d'Arezzo (Inf. XXIX) racconta per scherzo a un
cretino patentato, Albero da Siena, di sapersi librare in
volo come Dedalo, e quello che aveva molto poco senno,
lo prese alla lettera, ci credé e gli chiese di insegnargli come fare.
Dal momento che il primo non poté, ovviamente, accontentare le
richieste dello sciocco, fu fatto mettere al rogo, dato che, nonostante la
sua pochezza di mente, quello era figlio di un potente e chiese ed
ottenne dal padre l’esecuzione del malcapitato.
Dinanzi al severo e bestiale Minosse però, che non sbaglia mai, venne
spedito nel luogo consono alla sua vera colpa, diversa da quella che
motivava la condanna a morte, ed è così che capitombola nella decima
Bolgia del girone ottavo, quello dei fraudolenti, tra i falsari e in
particolare tra i falsari di metalli: “l’alchimia sofistica”, condannata
anche da San Tommaso.
47
27.
La Grottesca Vicenda Dell’anima D’un
Singolare Stratega
A
nche il diavolo, popolaresco e beffardo della vicenda che
segue, è una creatura logica!
Lo impara a sue spese Guido da Montefeltro (Inf.
XXVII), l’astuto stratega che chiamavano “la volpe” e che fino
all’avanzata età dei settanta anni dirigeva con successo campagne
militari.
Guido, una volta ritiratosi dalla vita attiva, finì in convento e preso il
cordiglio, morì, lontano dalla sua agitata e cruenta vita passata.
Dante, sulla scorta di notizie fornite da Riccobaldo di Ferrara, inventa la
sua storia di dannazione eterna: chiamato dal vituperando Papa
Bonifacio in persona, quando già era frate francescano, per avere
consigli utili per distruggere Palestrina (degli odiatissimi Colonna), viene
convinto da questi, a tornare incidentalmente sulla sua decisione di
abbandonare per sempre il mondano, con la promessa di una
assoluzione dal peccato che, una tantum, gli si chiede di compiere.
Una volta morto, però, il demonio, non ci sta a lasciarselo scippare in
virtù di cavilli e artifizi ecclesiastici e, nonostante le vane promesse del
pontefice, il maligno motiva efficacemente a San Francesco, che era lì
anche lui per raccoglierne l’anima, che non si può assolvere chi non si
pente, né pentirsi e voler peccare insieme è concesso dalla logica.
La scena è fortemente grottesca, e non ha altro senso che il voler creare
una particolare e suggestiva atmosfera popolaresca, dato che se
salvezza o dannazione ci fossero, di certo Francesco non potrebbe
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sbagliare sui defunti a lui devoti e non scenderebbe certo dal cielo
ignaro delle sorti dell’anima che vorrebbe prendere; ma è importante
rilevare come Dante, inventando due storie con tratti comuni –questa e
quella di suo figlio Bonconte- abbia voluto costruire una certa
simmetria tra la vicenda di Guido e l’altra del Purgatorio.
Come il figlio si salva per poche sillabe espresse senza voce, Guido viene
condannato dalle poche parole pronunciate su esortazione di un papa
pessimo e corrotto, parole da stratega che suonano: “prometti tanto e
mantieni poco”.
Con esse cede alle insistenze pontificie e dà il consiglio fraudolento che
lo danna in eterno.
Confidando nel formale potere del papato di “serrare e dissestare” le
porte del Paradiso, Guido si inganna sui meccanismi divini di salvezza e
dannazione, senza riuscire a venire mai a capo –per l’eternità infernaledi cosa abbia errato, in quel pentimento sincero che aveva avuto per la
sua vita trascorsa, tra i potenti del mondo, da condottiero.
Allo stesso modo si rimette ciecamente a quanto sa dell’Inferno e delle
sue regole, cioè che da lì nessuno può tornare sulla terra, quando affida
al pellegrino, che tace della sua condizione di vivo, le parole della sua
triste vicenda, che altrimenti, dice espressamente, non rivelerebbe mai a
chicchessia.
49
28.
Bizzarre Teorie “Genetiche” Medievali
M
entre Virgilio se la cava tirando in ballo i negromanti e
riferendosi al mito antico di Meleagro e agli effetti
dello specchiarsi, Publio Papinio Stazio, a cui il primo
delega ulteriori approfondimenti, ormai beato e perciò sapientissimo,
prende molto più sul serio e con rigore la domanda di Dante su come
facciano le anime dei golosi a dimagrire per digiuno dato che, spiriti che
sono, non hanno più bisogno di cibo, non avendo corpo.
E attacca a spiegare lungamente la teoria della generazione (Purg.
XXV), la formazione del corpo e dell’anima vegetativa e sensitiva, in uno
stupendo trattato di embriologia medievale.
La complicatissima relazione anima-corpo e la condizione delle anime
sciolte dalla materia non si esaurisce affatto in tale sede, né si potrebbe
facilmente ricomporla in tutta l’opera, dato che come si apprezzerebbe
rileggendola integralmente, in varie occasioni il pellegrino e la sua guida
interagiscono in modi diversi con esse, a volte anche fisicamente
(spingendole, o tirando i capelli) mentre altre volte le attraversano o le
mancano all’atto di provare ad abbracciarle.
Ad ogni modo, spiega Stazio: dopo la morte, l’anima si separa dal corpo
e diviene unico centro di identità della persona, ma prima di questo
stadio l’anima (individuale) era stata infusa in un corpo fisico.
Secondo
l’embriologia
classica
aristotelica,
tomistica
e
galenica,
condivisa all’epoca, l’apparato digerente del maschio adulto, operando
una serie di decantazioni, purificazioni o digestioni, trasforma il cibo
ingerito in sangue grezzo.
50
Una ulteriore digestione, trasformazione, gestita da una impalpabile
“virtù informativa” che risiede nel cuore, seleziona un sangue perfetto
che, diffondendosi per le vene, è quello che dà forma a tutte le membra
dell’uomo.
Non tutto il sangue perfetto, però, si lascia “bere dalle assetate vene”,
cioè non va ad alimentare le membra del corpo paterno, ma è destinato
al concepimento di altri esseri umani, quindi: la parte più eletta di esso
si tramuta, grazie a una ennesima decantazione, in sperma e scende nei
genitali (nella perifrasi dantesca: il luogo che non è bello nominare).
La
“virtute
informativa”
trasmessa
dal
cuore
a
questo
sangue
spermatico ha la facoltà, una volta sgocciolato su -unitosi a- sangue
femminile, di modellare una nuova creatura –il mestruo era considerato
la parte feconda della donna-.
Nell’utero, seme maschile e mestruo della femmina si aggregano: il
mestruo fornisce l’alimento, il seme del maschio opera la sua “virtute
informativa” coagulando e imprimendo la vita al coagulo.
A questo punto la spiegazione di Stazio (Dante) prende, tra varie
opzioni, la via di Alberto Magno (De natura et origine animae): la virtù
informativa, fattasi anima vegetativa (le piante finiscono da qui nel
processo), persevera nella sua opera fintanto che l’organismo non
acquisisce il movimento e la sensibilità rudimentale di una spugna
marina -o altri animali inferiori- poi sviluppa gli organi sensoriali di cui
è principio informatore.
Rimane da differenziare -passaggio più difficile- l’uomo (fante) dagli altri
animali. Non appena lo sviluppo cerebrale del feto è ultimato, il creatore
stesso si piega su di lui, e gli soffia dentro “spirito novo di virtù repleto”,
cioè l’intelletto possibile ad personam, il quale tira a sé ed assimila le
attività vegetative e sensitive del piccolo organismo e le fonde in
51
un’anima sola che, al contempo, vegeta, sente e prende coscienza di sé:
“sé in sé rigira”.
Anima che, ricorda in altro canto Marco Lombardo, contro l’idea di
Origene, il creatore crea continuamente e di volta in volta.
Questo ultimo punto ha indotto in errore persone anche molto sagge,
tra cui, Averroè il quale disgiunse dall’anima l’intelletto possibile, non
individuando un organo specifico per l’intelletto, dottrina condannata
dagli arabi stessi.
Quando l’Achesis, poi, la parca tessitrice non fila più e si muore, le
funzioni inferiori saranno sopite, ma non estinte perché fanno tutt’uno
con memoria intelligenza e volontà che però sono acuite nel postmortem
dall’assenza della materia del corpo.
52
29.
C
Un Antenato Di Cui Esser Fieri
avaliere della Seconda Crociata (1147-1149) Alighiero
di Cacciaguida (Par. XV-XVII), bisavo di Dante, si
intrattiene a lungo col pronipote toccando vari temi, tra
cui l’origine della divisione fiorentina tra Guelfi e Ghibellini, i costumi
della vecchia Firenze, le sue dimensioni e le antiche casate, e parla con
una favella che già, il poeta lo nota, non è quella che lui, Dante, pratica
nella Firenze del 1300.
Nominato cavaliere da Corrado III di Svevia, che seguì nella seconda
crociata, ove trovò la morte, Cacciaguida è personaggio fulgido e lineare
che viene assunto immediatamente nella sfera celeste di Marte, nel
Quinto Cielo, senza intermediazione purgatoria.
Figlio di una piccola e ideale Firenze “sobria e pudica”, dai costumi
semplici e retti, molto distante da quella frenetica, tracotante e corrotta
descritta dal discendente, è esempio di vera nobiltà.
Ma, chiarisce il poeta nel Convivio: chi non vede quanto sia vano e futile
il nome della nobiltà? Quella vera è nell’animo perfettamente dotato e
non nel sangue, laddove quest’ultima, la nobiltà di sangue, altro non è
che un certo prestigio che deriva dai meriti degli antenati.
Esempio di vera nobiltà d’animo, il beato cavalier Cacciaguida l’ha
conquistata e dimostrata nella migliore delle maniere: servendo sino
all’estremo sacrificio della vita, fino al martirio, la fede cristiana.
53
30.
P
Uno Più Sapiente Di Dante Stesso!
arlando della teoria della generazione e della relazione
anima-corpo nell’essere umano, Dante fa definire, da
Stazio, Averroé, (Inf. IV) come più sapiente del poeta
pellegrino stesso.
Lui lo aveva già visto nel Limbo, cerchio primo dell’Inferno dove non si
soffrono pene fisiche, ma dove unicamente si sospira, dato che raccoglie
le anime dei giusti non cristiani: i grandi e i sapienti, i “megalopsicoi”.
Egli è il grande filosofo musulmano che, nonostante la sua grandezza,
erra su un dato importantissimo della embriologia medievale.
Tale errore lo spinge a pensare che l’anima individuale muoia con il
corpo. Egli era, infatti, propenso a credere che “l’intelletto possibile” -la
facoltà intellettiva dell’uomo- fosse una sostanza disgiunta dall’anima
individuale umana alla quale si univa solo all’atto d’intendere.
Detto ciò, non ravvisava altra opzione se non quella che all’uomo
sopravvivesse solo la parte a lui disgiunta, e che essa fosse unica per
tutta la specie umana e impersonale.
Quindi non restava, nell’oltremondano, traccia delle individualità
terrene.
Potrebbe sembrare strano vedere un pagano, seguace di Maometto, il
quale invece è relegato nel basso Inferno, in un luogo così elevato e
nobile nell’economia dell’immane cosmogonia dantesca, ma d’altra
parte, nel limbo a fargli compagnia non ci sono solo, e ad esempio, i
filosofi greci, latini, i poeti, le stirpi romane, lo stesso Virgilio e Cesare,
ma pure il collega Avicenna e persino il famosissimo Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf
b. Ayyūb b. Shādī b. Marwān, il feroce Saladino: il guerriero di celebrata
54
forza d’animo che fu tra i più agguerriti e duri avversari dei crociati, che
entrò trionfante a Gerusalemme il 2 ottobre 1187, e lottò contro
Riccardo Cuor di Leone nel 1191. Due anni dopo la partenza del suo
fiero avversario, morì.
55
31.
Un Truculento Intreccio Familiare
A
tene sotto assedio viene liberata solo grazie all’aiuto di
Tereo. Egli ottiene perciò in sposa Procne -o Progne(Purg. XVII), ma la loro unione, disgraziatamente, viene
officiata dalle Eumenidi: le dee della vendetta femminile.
Una volta in Tracia, terra di Tereo, i due coniugi concepiscono un figlio:
Iti. Dopo cinque anni Procne, presa da inguaribile nostalgia per la
sorella lontana, chiede ed ottiene che il marito si rechi ad Atene e preghi
il padre Pandione di lasciarla andare in Tracia a trovarla.
Tuttavia, quando Tereo vede Filomela, viene assalito da una bruciante e
folle passione per lei. Una volta sbarcati, Tereo conduce Filomela in una
stalla e la prende con la forza. Lei, dolente e incolpevole della violenza
subita, minaccia di rivelare tutto agli Dei, ai boschi e agli uomini, e così,
affinché non riesca a dar seguito ai suoi propositi delatori, Tereo,
incollerito e spaventato al contempo, la imprigiona, le mozza la lingua
affinché non parli e si reca dalla consorte con la falsa notizia della
morte dell’amata sorella.
Un anno dopo Filomela riesce comunque a ricamare su una tela il
racconto dello stupro e la fa recapitare a Procne. Lei, distrutta dalla
notizia, sfrutta la notte dei baccanali per liberare la sorella. Poi, madre
degenere, infierisce sul suo stesso figlio Iti, lo uccide, lo cucina e lo
serve a Tereo.
Dopo che questi ha mangiato, ignaro, la carne del suo stesso figlio,
Filomela si manifesta, insozza di sangue il re e gli tira in faccia la testa
recisa
di
Iti.
Tereo
immerso
nell’orrore
più
nero,
si
lancia
all’inseguimento delle due sorelle, ma tutti e tre si trovano di colpo
56
mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in usignolo, Procne in
rondine.
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32.
L’ordinamento Etico-Giuridico
Infernale
L
’ordinamento etico-giuridico (Inf. XI) dell’immenso e
inappellabile
carcere
infernale, ha tratti
evidenti e
reiterati di burocratismo penale romano e, in questo caso
ciceroniano.
Esso è spiegato durante una pausa dei pellegrini, necessaria a far
abituare l’olfatto al lezzo tremendo che si sprigiona dalla fogna del basso
Inferno.
Sulla tomba di un eretico, papa Anastasio, seguace di Fotino, Virgilio
coglie l’occasione per illustrare come al di fuori delle mura di Dite sono
puniti i peccati di incontinenza e “matta bestialità” che, secondo una
classificazione aristotelica, sono meno gravi di quelli di malizia puniti,
invece, all’interno della città infernale, le cui soglie i due pellegrini
hanno varcato da poco con l’aiuto di un messo celeste.
I peccati di incontinenza sono meno gravi perché azionati da una
passione e non dall’intenzione deliberata di volere il male altrui.
Fuori da Dite scontano l’intemperanza e la bestialità: lussuriosi, golosi,
avari e prodighi, iracondi e accidiosi. I vizi capitali!
Da notare come, tra essi, puniti singolarmente, non c’è posto per invidia
e superbia all’Inferno, perni stessi di ogni peccato e della rivolta di
Lucifero contro Dio, sono congeniti al peccare in sé.
Gli altri peccati sono puniti più in fondo nell’imbuto infernale, dato che
più ci si avvita verso il basso più le colpe sono gravi. La deliberata
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trasgressione della legge a danno altrui, “iniuria”, infatti, offende Dio
maggiormente e può essere commessa o con violenza o con frode.
Tra i due modi commissivi è la frode ad essere più grave, poiché usa la
ragione, la caratteristica tipica solo dell’uomo, per fini malvagi.
La violenza può essere esercitata su tre oggetti: se stessi (averi o
integrità fisica, quindi: prodighi e suicidi), il prossimo, Dio.
La frode può dirigersi contro chi non ha in mano titoli specifici per
fidarsi, e i condannati, in questo caso, finiscono in uno dei nove fossati
di Malebolge che contengono nell’ordine (incompleto e alterato dal
disprezzo nella tirata virgiliana e riordinato qui di seguito): ruffiani e
seduttori,
adulatori
e
lusingatori,
simoniaci,
maghi
e
indovini,
barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di scandalo e
di scisma, falsari.
Infine vi è posto per chi tradisce chi, invece, si fida, ed esso è il gelo di
quattro diversi luoghi del lago, ghiacciato dal vento luciferino, di Cocito:
Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca, a seconda che siano traditi i
parenti, la patria, gli ospiti, i benefattori.
59
33.
M
Più Che Un Eretico
entre Dante pone tre grandi anime musulmane a
sospirare senza patire pene nel Limbo del cerchio
primo, insieme agli altri grandissimi spiriti della storia
umana, non riserva la stessa sorte al capostipite della loro religione:
Maometto (Inf. XXVIII).
Lui è dannato, ma non tra gli eretici, che sono i primi abitatori
dell’Inferno vero e proprio, quello interno alla città di Dite, bensì molto
più giù nel sinistro “castello inverso” di Malebolge; tra i seminatori di
scandalo e di scisma.
È punito per una colpa molto più grave, quindi dell’eresia –secondo lo
schema dantesco, però, visto che per alcuni dottori l’eresia era il
peccato più grave-.
Per pena, un diavolo armato di spada lo fende dall’ano, descritto dal
poeta come luogo dal quale di scorreggia (“trulla”), al mento, e lui si
rivolge ai pellegrini aprendosi con ambo le mani il petto e mostrando le
frattaglie visibili dallo spacco.
Il suo stomaco è disgustosamente descritto come: “tristo sacco che
merda fa di quel che si trangugia” e tutto il personaggio ha tratti
grottescamente volgari e ridicoli.
Dante, vista l’ubicazione del primo musulmano, sembra prestare credito
alla leggenda templare secondo la quale Maometto, prima vescovo della
religione cristiana, avesse creato uno scisma artatamente e cagionato
solo dalla stizza e dal rancore personale per non essere divenuto papa
lui
stesso,
carica
alla
quale
ambiva,
cioè
per
ignobili
ragioni
utilitaristiche e di risentimento.
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All’epoca, sul personaggio circolava un gran numero di leggende, e della
sua figura parlano in molti, ma senza dati storicamente riscontrabili:
l’enciclopedista Vincenzo di Beauvais, Pietro il Venerabile, Jacopo da
Varagine, Fazio degli Uberti, e persino il maestro di Dante, messo a
rosolarsi come sodomita, Brunetto Latini.
Risulta, infatti, storicamente che Maometto non sia mai appartenuto
alla fede cristiana, ed abbia predicato, da subito, a popolazioni pagane,
cioè mai state cristiane precedentemente. Non ha, quindi, provocato,
tecnicamente, alcuno scisma.
61
34.
F
Spregevoli Sfruttatori!
attasi illustrare da Virgilio la ratio della classificazione
delle anime dannate, Dante si sofferma sui caorsini abitanti di Cahors città usata per antonomasia, come i
sodomiti da Sodoma-, gli usurai, (Inf. XI e XVII) che poi incontrerà tra i
violenti.
Spiega il poeta latino: la natura prende origine direttamente dalla mente
divina, e dal suo operare, così che essa è come “l’arte di Dio”. Se la
natura è figlia di Dio, e l’arte figlia della natura, risulta che
quest’ultima, l’arte umana, è, per così dire, nipote di Dio. L’usuraio non
si avvale per vivere, né dei frutti della natura, né del suo lavoro, ma
ripone la sua fiducia, per sostentarsi, solo nel prestito del danaro
(qualcosa di sterile, infecondo). Tale attività è contro natura, poiché il
danaro, da solo e di per sé, non crea altro danaro. Esso rende frutti solo
se è investito in qualcos’altro di concreto, una attività produttiva, che
implica uno sforzo personale, ma non certo per il solo trascorrere
inerziale del tempo.
Dante dà un grande rilievo a questa colpa, grave piaga della sua epoca,
di cui pare che anche egli, come prima di lui suo padre, avesse avuto
esperienza diretta come debitore, e disprezza fortemente questa massa
di avidi sfruttatori della miseria e dello sforzo vitale altrui, strozzini
spregevoli e vili, nonostante, in molti abbiano vanitosamente comprato
stemmi e titoli per nobilitarsi.
Quelli che incontra personalmente sono, infatti, riconoscibili da blasoni
e insegne gentilizie pitturate a colori vivaci su borse appiccate al collo:
esponenti delle famiglie dei Gianfigliazzi, Obriachi, Scrovegni, sono
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descritti
in
modo
sprezzante
e
ridicolo,
animalesco,
mentre
si
arrostiscono seduti sotto i fiocchi di fuoco che cadono dall’alto.
Soffrono una analoga dose di dolore agli altri compagni di pena, i
bestemmiatori e i sodomiti, eppure sono così abietti da essere descritti
in modo più grottesco e spregevole.
Dante in una singolare inversione della regola di imbattersi in colpe via
via più gravi col procedere del viaggio, colloca prima di questi sodomiti e
bestemmiatori che offendono beni maggiori.
63
35.
S
Da Sinistra A Destra
olo in due occasioni i pellegrini variano il senso circolare
rivolto
verso
sinistra
con
il
quale
si
insinuano,
avvitandosi, in giù per l’imbuto infernale.
Imbuto che, sia detto di sfuggita, non potrebbe mai quadrare, per
dimensioni, nella stima, erronea anche essa, che Dante fa della
grandezza della Terra.
Il dato si evince se prendiamo alla lettera le indicazioni fornite nelle due
ultime bolge del Cerchio Ottavo, e se cerchiamo di farle quadrare col
resto, ma non è il caso di rifare i conteggi. Inoltre non potrebbero mai
percorrere in un solo giorno tutto il viaggio, a meno di non scendere mai
al di sotto di una velocità di percorrenza sovrumana di oltre trecento
chilometri orari.
Il cambio di senso del percorso (Inf. IX e XVII), comunque, avviene,
una prima volta all’entrata della città di Dite, dove sono ubicate le
tombe degli eretici, e poi all’inizio del fossato di Malebolge, quando per
calarsi in esso i due viandanti devono volare sulle spalle del mostruoso
Gerione. In questo secondo caso i pellegrini non possono muoversi nel
senso consueto dato che Gerione atterra a destra del corso vermiglio di
sangue del fiume Flegetonte, che altrimenti sarebbero stati costretti ad
attraversare.
Ma, se Dante si sofferma esplicitamente sul punto, deve esserci un
valore allegorico in esso, così come nel senso sinistrorso della spirale in
cui si avvolge il viaggio, ed esso è stato ravvisato nell’uso della falsità,
che accomuna le due situazioni dei fraudolenti e degli eretici, questi
ultimi falsi nella dottrina, i primi nell’azione.
64
36.
C
Le nozze di Piritoo e Ippodamia
ome è noto nella Divina Commedia, i centauri, tranne Caco
che sarà presente nella Bolgia dei ladri e che però non è
tradizionalmente tale (centauro) nel mito, ma descritto così
solo dal poeta, pattugliano disciplinatamente, con archi e frecce, il
fiume di sangue bollente dei violenti (Inf. XII), il Flegetonte.
La loro fama di rissaioli comprende, nel mito, anche lo sposalizio di
Piritoo, l'amico di Teseo e partecipe della conquista del Vello d'Oro,
principe del Lapiti, mitico popolo di Tessaglia.
In occasione delle nozze tra l'eroe e Ippodamia (letteralmente: "colei che
doma i cavalli"), la sorella di uno degli epigoni, quei bestioni mezzi
uomini e mezzi cavalli, non abituati al massiccio consumo di vino,
persero completamente la testa e, in preda alla colossale sbornia, si
comportarono in modo inammissibile: molestarono e cercarono di rapire
e stuprare la sposa ed altre fanciulle e fanciulli presenti alla festa.
Si scatenò così una violenta rissa in cui i tessali, condotti e motivati da
Teseo stesso, riuscirono a respingere i violenti ibridi.
Dall'episodio si originò la Centauromachia.
65
37.
P
Un Santo O Un Criminale?
oeta provenzale di gran fama e di origini genovesi,
Folchetto di Marsiglia (Par. IX) celebrò e cantò il suo
amore per Azaleis, moglie del visconte di Marsiglia, Barral
du Baux.
Dopo la morte di lei si fece monaco e fu poi eletto vescovo di Tolosa.
Profuse, in questa nuova veste, lo stesso ardore che aveva versato
nell’amore anteriore ed è per ciò che Dante lo sistema, lucente come un
rubino, nel cielo di Venere.
Da lui, dalla sua poetica, prende, inoltre, ispirazione per la stesura
dell’unico tratto in lingua straniera della Divina Commedia: il congedo
in provenzale di Arnaut (Purg. XXVI).
Folchetto fu l’unico della zona occitana ad appoggiare con zelo San
Domenico nella fanatica lotta agli eretici albigesi, durante il pontificato
di Innocenzo III, una repressione crudele e feroce per cui alcuni gli
attribuiscono mezzo milione di morti.
Nella stessa crociata anche i Catari furono oggetto di spietata
repressione. Tali eretici sono famosi anche per l’episodio orripilante di
Beziérs, in Occitania, dove nel giugno del 1209 furono massacrate circa
ventimila persone, donne e bambini inclusi, in gran parte non eretici,
ma cattolici.
Fu in quell'occasione che Arnaud Amaury, si racconta, diede l’ordine ai
suoi di non sottilizzare e non distinguere gli eretici dagli altri. Disse:
“uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, come riporta il monaco Cesario
di Heisterbach.
66
38.
S
Invidie Di Corte
pirito mercuriale del Paradiso, Romeo di Villanova (Par.
VI) Romieu de Villeneuve, fu ministro e gran siniscalco di
Raimondo Berenghieri IV, conte di Provenza.
Fu preso a corte di ritorno dal pellegrinaggio a Santiago de Compostela,
in Galizia. Straordinariamente coscienzioso, servì con umiltà e con gran
capacità il suo signore, ottenendo risultati eccellenti. Riuscì infatti a
raddoppiare il patrimonio del conte e trovò vantaggiosi mariti per tutte
le quattro figlie di lui: tutte sposarono un re!
Per invidia degli altri cortigiani, però, nonostante il suo egregio operato,
fu ingiustamente accusato di furto e cacciato da corte, da dove fu
costretto ad andarsene povero come era arrivato e solo più vecchio.
Ingrati! L’invidia è, dai tempi del canto infernale di un altro grande
personaggio
della
Commedia
(Pier
della
Vigna),
fedele
e
leale
collaboratore di Federigo II, calunniato dai cortigiani, (o questa la storia
che crede il poeta): “delle corti vizio”, vizio tipico, endogeno delle corti e
del cortigiano.
Piero, caduto in disgrazia per calunnie, fu accecato e, prima di essere
messo a morte, riuscì a suicidarsi picchiando la testa contro il muro di
pietra della sua cella.
Cortigiani, figure spregevoli! Anche Dante come Romeo, sarà costretto a
vivere faticosamente, “mendicando la sua vita a frusto a frusto”, il pane
pezzo per pezzo. Il poeta, infatti, profetizzerà più avanti in Paradiso
il suo eroico avo Cacciaguida, proverà “come sa di sale lo pane altrui”,
celebre frase che offre spaventosi presagi di esilio.
In un mondo di mediocri, corrotti e invidiosi, è il giusto a patire la fame.
67
39.
Odio Incommensurabile Per I Propri
Concittadini
N
el giugno del 1269, presso Colle di Val d'Elsa, Firenze
guelfa,
comandata
Bertrand,
si
prese
dal
vicario
la
rivincita
angioino
dalla
Giovanni
battaglia
di
Montaperti, su Siena.
Sapia
Salvani
(Purg.
XIII),
-si narra-
dal suo
castello
presso
Monteriggioni, che dominava la strada da cui passava l’esercito senese
in rotta, poté ammirare la fuga disordinata per la disfatta dei suoi odiati
concittadini, guidati, oltretutto, da Provenzano Salvani, suo nipote e da
Guido Novello.
Provenzano rimase sul campo: non accettando di tornare sconfitto a
Siena, si gettò nella mischia e fu ucciso da Regolino Tolomei, suo
acerrimo nemico. La sua testa fu erta su una picca e portata per il
campo affinché tutti la vedessero.
Ebbene, Sapia, che confessa sulla seconda cornice del Purgatorio,
destinata agli invidiosi, di non essere mai stata “saggia” come, per
etimo, il suo nome stesso lascerebbe credere (v. “savio”), gioì
immensamente di quella rovinosa disfatta.
Una gioia dai tratti disumani per cui lei aveva addirittura pregato
l’onnipotente e che, all’epoca, celebrò con uno slancio sfociante sul
blasfemo, e che ricorda l'atteggiamento spregevole del ladro Vanni
Fucci.
68
Sapia, avvelenata da quella irrazionale “anticarità” che è l'invidia, alza il
volto verso il cielo e, rivolgendosi a Dio stesso, dice di non temerlo più,
tanta era la gioia incommensurabile e definitiva che quell’evento le
aveva procurato nella vita e che nulla ormai poteva più toglierle.
69
40.
M
La Moglie Ceduta
arzia (Inf. IV, Purg. I) è lo spirito limbicolo ex moglie
dell’integerrimo politico repubblicano Catone, suicida
ad Utica e promosso da Dante a guardiano del
Purgatorio.
Lei, vista dal poeta tra altre famose donne romane: Julia, Lucrezia,
Cornelia, fu la figlia di Lucio Marcio Filippo, che andò in sposa, come
seconda moglie, a Catone il quale poi, secondo usi del tempo, la cedette
al famoso avvocato romano e amico Quinto Ortensio, e tornò a
riprendere con sé dopo la morte dell’altro.
Nel Convivio Dante interpreta il ritorno di lei a quel grande romano,
come una allegoria del ritorno dell’anima a Dio alla fine della vita, ma
invero, il costume pagano della cessione di cui Marzia fu oggetto fu
fortemente criticato dalla morale cristiana.
Virgilio, presentando la vicenda di sé e del pellegrino poeta al fermo e
severo custode repubblicano dalla bianca barba, formula una sontuosa
captatio benevolentiae promettendogli di porgere alla ex moglie i suoi
saluti, quando tornerà anche lui nel Limbo da dove è uscito per guidare
Dante.
Catone, ormai definitivamente fuori da quel luogo pieno di grandi
anime, in cui anche lui aveva soggiornato fino alla scesa di Cristo
all’Inferno, spiega con fermezza come ella ormai non possa più
muoverlo, dato che con altri due pagani della Divina Commedia,
Traiano e Rifeo, fu salvato dalla inappellabile volontà divina.
La lode a Marzia, nel discorso di Virgilio a Catone, riproduce, in qualche
modo, l’altra (bellissima) lode realizzata da Beatrice a Virgilio stesso,
70
quando lei promette al poeta latino di lodarlo sovente presso Dio in
persona, una volta tornata al suo cospetto.
Tali promesse di lode sono accomunate da una assurdità teologica,
laddove si palesa una inutile umana premura post mortem per le sorti di
anime il cui destino ultimo è già segnato in modo immodificabile,
cionondimeno sono sublimi.
71
41.
Pan Per Focaccia, O Peggio: “Dattero
Per Figo”
F
rate Alberigo (Inf. XXXIII), frate gaudente, è stretto
supino dal ghiaccio, compatto tanto che non avrebbe
fatto “cric” neppure se investito dal crollo di alte
montagne, della zona di Cocito che è riservata ai traditori degli ospiti: la
Tolomea.
Il nome deriva da Tolomeo di Gerico che uccise a tradimento Simone
Maccabeo e i suoi figli dopo averli invitati ad un banchetto. Egli è punito
per un’infamia del tutto analoga a quella del personaggio biblico da cui
il posto prende il nome.
Invitati a convito due suoi parenti con i quali era in discordia: Manfredo
e Alberghetto dei Manfredi, a conclusione dello stesso diede ai sicari il
segnale in codice per il loro intervento: “che vengan le frutta”. Invece di
servire i frutti, quelli si fecero sui commensali col pugnale e li finirono.
Ora Alberigo confessa a Dante di essere lì a riprendere da quella
vicenda “dattero per figo”: la giusta punizione. Lo confessa dietro
promessa capziosa del pellegrino di rimuovergli dagli occhi il gelo che
glieli stringe tanto dolorosamente.
Dante promette di aiutarlo, a costo di maledirsi: “o possa finire fino nel
fondo dell’Inferno!”. Afferma ciò ingannandolo (posto che è destinato a
finire lo stesso fin davanti a Lucifero, ma non per essere punito).
72
Una volta saputo ciò che vuol sapere lo lascia senza sollievo tradendolo,
come merita: “e io non gliel’apersi (gli occhi) e cortesia fu lui esser
villano”, conclude il canto.
73
42.
L’Imperatore Romano E L’Umile
Vedova
L
’arte infinita, e a tratti magica, del Signore riesce ad
ottenere tutto: a impastare due anime in una come
fossero di calda cera e anche a far parlare una scultura
marmorea.
Il terzo esempio di umiltà scolpito con divina maestria nella pietra
finissima della prima cornice purgatoriale, non rappresenta solo una
immagine fissa, ma un intero dialogo tra l’uomo più potente al mondo al
momento: l’imperatore Traiano, che Dante vedrà nel cielo di Giove tra le
anime giuste del Paradiso, e una povera vedovella (Purg. X) che cerca
giustizia per suo figlio assassinato.
L’imperatore, nell'atto di abbandonare Roma per intraprendere la sua
campagna militare in Dacia (Romania), e quindi impegnato in
responsabilità di ben altro momento, non rifiuta di ascoltare l’umile e
indifesa donna, ma le chiede di pazientare fino al suo ritorno, per
ottenere la giustizia che tanto brama. Lei, in preda all’angoscia
assillante di chi soffre e ha il timore di non poter più ottenere il sollievo,
chiede cosa mai succederebbe, se lui, poi, non tornasse affatto, e viene
rassicurata dall’affermazione che riceverebbe comunque la giustizia che
merita, da qualcun altro potente che verrebbe dopo di lui.
L’umile donna, a questo punto, stimola senza rimedio il senso di
giustizia di quel grande con una semplice domanda: “il bene fatto da
74
altri, a cosa ti servirà quando avrai omesso di fare quello che avresti
dovuto fare tu?”.
Le occasioni di fare del bene non vanno sprecate. Allora Traiano,
esemplare, smonta da cavallo, e dimora ancora il tempo necessario ad
assolvere al suo compito di giudice.
75
43.
I
Il Ricchissimo Crasso
l triumviro, con Cesare e Pompeo, Marco Licinio Crasso
(Purg. XX), era famoso per la sua straordinaria ricchezza,
avidità e avarizia, tanto da divenirne esempio.
Sconfitto dai Parti (persiani) a Carre (Herran, in Turchia), la battaglia
drammatica in cui perse la vita anche suo figlio, la cui testa mozzata fu
infissa su un'asta per atterrire i Romani, e dove si persero le aquile della
legione, poi restituite ad Augusto, pare che fosse ucciso sul campo,
durante delle trattative, a seguito di un tumulto partico.
Una volta tagliatagli la testa re Orode gli fece versare in bocca oro fuso
per irridere alla sua insaziabile cupidigia.
Dante riferisce l’episodio con un sarcasmo vivacissimo facendo chiedere
dal re dei parti al capo reciso: “Crasso, diccelo, di che sapore è l’oro?”.
Non è inusuale nei classici irridere la cupidigia e la sfrontata ricchezza;
come arcinoto Mida, finisce ridicolmente per morire di fame a causa del
suo famoso dono di tramutare in oro qualunque cosa toccasse. Anche
lui è citato da Dante.
76
44.
S
Menestrello Dalla Lingua Tagliente
ordello da Goito (Purg. VI), è il più grande trovatore
italiano, nato in famiglia di piccola nobiltà, preferì alla
monotonia a cui era destinato la vita avventurosa e
ingegnosa del menestrello e del giullare.
Fu famoso per la composizione dell'affilato planh (compianto) per la
morte del barone Blacatz, nel quale, biasimando la di loro codardia,
esorta tutti i monarchi dell’epoca: Federico II, i re di Francia e Navarra, i
signori di Provenza, a ingerire un pezzo del cuore di quel valoroso per
assimilarne una parte del coraggio.
Fu conosciuto anche per vari sirventesi. Dante lo vede (lo colloca) in
Purgatorio sulla valletta dei principi e riprende, dunque, lo stile del
sirventese politico quando, attacca con la celebre invettiva contro
l’Italia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran
tempesta, non donna di province, ma bordello!”
Il sirventese è un tipo di componimento poetico di origine provenzale,
con determinati schemi metrici, che prende il nome dalla natura
pristina di canzone celebrativa delle gesta, e dedicata al proprio signore.
I temi tipici di questo componimento erano quello politico, guerresco,
apologetico, didattico e morale. Restava escluso quello amoroso.
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45.
U
I Traditori Muoiono Due Volte
na caratteristica bizzarra della Tolomea (Inf. XXXIII),
come detto uno dei posti approntati dal Signore per
accogliere i traditori, è quella di essere l’unica zona
dell’Inferno dantesco in cui possono trovarsi anime di personaggi
ancora in vita nel mondo fisico.
Difatti si viene precipitati in essa al momento immediatamente
successivo alla realizzazione del tradimento che motiva la condanna
eterna, senza aspettare, come in tutti gli altri casi, la fine della vita
biologica.
Un diavolo, poi, prende possesso del corpo ancora in vita e lo
amministra per il restante tempo concessogli dalla grazia divina, mentre
il dannato perde completamente la cognizione dello stato di esso.
Tanto è vero che Dante, meravigliato, viene a sapere che lì all’Inferno c’è
già Branca Doria, il genovese ghibellino che assassinò il barattiere
Michele Zanche, giudice di Logudoro di cui Dante ha notizie dal
compagno di pena Ciampolo di Navarra tra i barattieri.
L’invenzione dantesca della dannazione prematura, utile in ogni caso
anche solo a poter includere tra i dannati il suddetto ghibellino, è
comunque di incredibile suggestione nell’economia del peccato di
tradimento, che è una “piccola morte della persona”. Essa però
comporta, come è stato segnalato, l’inaccettabile conseguenza teologica
dell’impossibilità, per il traditore, del pentimento in extremis.
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46.
Il Mito Del Satiro Musicista E Altre
Sfide
I
l satiro Marsia (Par. I), avendo osato sfidare Apollo ad una
tenzone musicale -lui al flauto, il Dio alla cetra-, sconfitto, fu
legato a un albero e scorticato vivo dal Dio.
“Quid me mihi detrahis?”, grida l’incauto musicista: “perché mi estrai da
me stesso?”.
Non è questa l’unica storia di sfida tra Dei e creature di minor rango,
Dante stesso ne ricorda e si riferisce ad altri miti nel corso dell’opera.
Cita, per esempio, la tenzone tra le Muse e le Pieridi che, abili nel canto
si recarono sul monte Elicona, sede della Muse, per sfidarle, e, senza
ottenere
il
successo
a
cui
ambivano
scelleratamente,
vennero
successivamente tramutate in piche.
Vince, invece, la gara con una Dea, Aracne (XII Purg.), la ragazza di
Lidia che affermava spocchiosamente che Atena stessa avesse appreso
l’arte della tessitura da lei, ed è usata da Dante ad esempio di superbia
punita. Atena non accettò la sconfitta, nella sfida in cui si erano
confrontate, sicché stracciò la sua tela, la giovane si impiccò e la Dea,
per punire la sua Hybris, la trasformò in ragno costringendola a tessere
in eterno dalla bocca.
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47.
S
Via Lattea
econdo uno dei miti, (ve ne sono altri: latte fuoriuscito dal
seno di Era, sangue dei genitali recisi di Urano da cui
nasce anche Afrodite) la striatura della Via Lattea altro
non è che il frutto dell’operato di Fetonte (citato più volte: Purg. VI, XII,
XXIX, Par. XII, Inf. XVII, XXXI) il quale per dimostrare ad Epafo di
discendere direttamente da Apollo, chiese ed ottenne da suo padre di
poter guidare il carro del Sole.
A causa della sua inesperienza, però, non fu capace di governarlo, finì
fuori rotta dando fuoco a parte del cielo, e poi, avvicinandosi troppo alla
terra diede origine al deserto di Libia (il Sahara). Finì la sua folle corsa
colpito da un fulmine di Zeus esasperato, e andò a schiantarsi sulle foci
del fiume Eridano.
80
48.
Vile Mezzano Della Sua Stessa Sorella
V
enedico Caccianemico, capo della fazione guelfa dei
Gemerei di Bologna, pensava di non essere riconosciuto,
mentre passava sotto lo sguardo accigliato di Dante in
rivista della popolazione della Bolgia I, quella riservata a ruffiani e
seduttori, ma poco gli valse l’abbassare il volto: Dante, non solo lo
riconosce, ma lo interpella pure chiamandolo per nome.
Il bolognese fece prostituire la sorella Ghisolabella (Inf. XVIII), moglie di
Nicolò Fontana da Ferrara, col marchese Obizzo II D’Este, segnalato dal
poeta come tiranno a lesso nel fiume Flegetonte (o forse con Azzo VIII,
figlio di Obizzo e suo uccisore patricida, e pure mandante dell’omicidio
di Jacopo del Cassero) col fine di stringere rapporti amichevoli ed
ingraziarselo.
Non è affatto il solo, in quella Bolgia, a parlare bolognese, anzi, precisa,
ce ne sono più di quelli morti e finiti lì che di concittadini vivi.
81
49.
G
Un Formidabile Astrologo
uido Bonatti (Inf. XX) fu un astronomo e astrologo
forlivese che all’epoca assunse incarichi anche molto
prestigiosi, per esempio con Ezzelino III da Romano, e
poi anche con Guido da Montefeltro, e fu persona di gran fama: il suo
trattato di astrologia in dieci libri (Liber decem continens tractatus
astronomiae) era conosciuto in tutta Europa. Tra i più grossi successi, è
segnalata una previsione molto accurata dell’esito della battaglia di
Montaperti.
82
50.
N
Influssi Stellari
el Paradiso, Dante afferma di essere nato sotto il segno
dei gemelli, segno che lo renderebbe particolarmente
dotato in scrittura, scienza e conoscenza.
L’idea che gli astri abbiano un influsso sul destino e le inclinazioni
umane era comune e di certo ritenuta valida anche dal poeta.
Il tema è affrontato anche dall’iracondo Marco Lombardo (Purg. XVI)
che spiega come sia però errato porre la causa (diretta, inevitabile) di ciò
che accade nella storia in cielo, dato che, seppure è vero che esiste un
impalpabile influsso celeste sulle inclinazioni umane e gli eventi che ne
derivano, esso non annulla o elimina di certo il libero arbitrio, che può,
di fatto, opporsi all’influsso astrale.
All’Inferno il poeta aveva già incontrato quel gruppo di peccatori della
Bolgia IV (Inf. XX) che “al giudicio divino passion comporta”: i maghi,
che nella terzina in questione, secondo alcuni, avrebbero l’ambizione
scellerata di piegare il voler divino o prevederlo esattamente, e che, con
un capzioso determinismo, arriverebbero anche a giustificare (come
inevitabili e da loro conosciute) le peggiori efferatezze storiche e
comportamenti personali, annullando le scelte morali e proponendo una
sorta di inaccettabile e rigida predestinazione.
83
51.
Reticenze Tra Poeti Che Svegliano
Curiosità Nei Lettori
P
er tre volte Dante ci riferisce che lui e la sua guida,
mentre pellegrinano per l’Inferno –succede solo lì- parlano
tra loro, e poi ci nasconde cosa si dicano (Inf. IV, VI,
XXI): la prima volta nel Limbo, la seconda dopo aver visitato il cerchio
dei golosi e parlato con Ciacco, la terza mentre si dirigono dalla quarta
alla quinta Bolgia del cerchio ottavo.
Nel primo caso Dante, assunto come sesto nel quintetto di poeti antichi
formato da Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio, (“sesto tra cotanto
senno”, grande è la consapevolezza della sua qualità artistica, e
ripercussione futura di poeta), afferma che loro stavano: “Parlando cose
che 'l tacere è bello, sì com' era 'l parlar colà dov' era”. “Bello” in questo
caso vale come “opportuno”, il che potrebbe lasciar pensare alla
trattazione di temi tecnici, poetici, non consoni alla Divina Commedia.
La seconda volta, successivamente all’incontro con il goloso Ciacco, che,
dopo aver parlato di questioni politiche e profetizzato sulla vita di Dante
stesso, ricade, di punto in bianco, nella melma puzzolente e sotto la
pioggia monocorde che lo batte. Di lui viene detto non si alzerà più di lì
fino alla fine dei tempi.
In questo secondo caso, ci viene riferita solo una parte del dialogo tra
Dante e Virgilio: la trattazione, sulla maggior perfezione dei corpi dopo
la fine del mondo, e la spiegazione della profezia del goloso.
84
Un’ultima volta la reticenza è in apertura di canto: “Così di ponte in
ponte, altro parlando, che la mia comedìa cantar non cura”. Questa
volta si dice che si parlava di temi inadatti alla Commedia, fuori tema.
Questi espedienti, che sicuramente servono a conferire anche maggiore
verosimiglianza alla vicenda, presentata come realmente accaduta, del
pellegrinaggio
nell’otremondo,
nella
loro
semplicità
riescono
mirabilmente nella suggestione: senza rimedio spingono chiunque,
secoli di lettori, ad immaginare e incuriosirsi su cosa si siano detti i due
poeti in dialoghi mai avvenuti.
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52.
L
La Seconda Morte
a seconda morte (Inf. I, III, XIII) è un concetto piuttosto
oscuro.
Potrebbe essere, secondo alcuni, la dannazione pura e
semplice (morte dell’anima): la prima morte sarebbe, quindi, quella del
corpo, quando l’anima lo abbandona, e la seconda quella del giudizio
dell’anima stessa e la sua dannazione.
Ma potrebbe anche trattarsi
della dannazione finale, posteriore al
giudizio universale, quando sappiamo che ogni anima, tranne quella dei
suicidi, riprenderà il proprio corpo, e, Virgilio spiega sulla scorta di
Aristotele, le pene saranno più cocenti, dato che si verserà in un
maggior grado di perfezione.
Oppure, terza opzione, potrebbe trattarsi dell’annichilimento definitivo
dell’anima nel fuoco e della conseguente fine di ogni residuo di
imperfezione nel cosmo.
In tre casi Dante si riferisce a detto concetto. Di tutti i dannati si dice:
“che a la seconda morte ciascun grida”. Degli ignavi, ubicati e puniti nel
vestibolo, quindi fuori dall’Inferno vero e proprio, si dice che essi: “non
hanno speranza di morte”. E uno degli scialacquatori, Lano, che corre
nel bosco dei suicidi, invoca accoratamente l’arrivo della morte: “or
accorri, accorri, morte”.
Ciò andrà, forse, inteso come il comprensibile desiderio di ogni dannato
di cessare di esistere del tutto e di precipitare nel nulla, desiderio che
Giordano da Pisa considerava, però, contrariamente all’idea pagana che
invece supportava questo ultimo destino, impossibile da realizzarsi.
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Va segnalato come nel paganesimo (Cfr. Seneca: Mors est non esse), la
morte è il ritorno al nulla, e l’autentico desiderio dei suicidi.
Dante stesso si riferisce a questo concetto quando nel descrivere il terzo
esempio di ira punita (Purg. XVII), mette fantasiosamente in bocca a
Lavinia, figlia di Amata, e futura moglie di Enea, le parole rivolte alla
madre, suicida -suicida per ritenersi causa di un matrimonio che aveva
arduamente osteggiato in favore dell’altro contendente, Turno, che
erroneamente crede già morto-: “o regina perché per ira hai voluto esser
nulla?”
87
53.
A
Verità Indigeste
grume (Par. XVII) è, secondo il senso dell’epoca, non il
genere di frutto a cui ci riferiamo noi (“citrici” in genere),
ma aglio cipolla e simili, ortaggi di forte sapore e di
difficile digestione.
Dante afferma di non voler venire meno al vero, nella stesura della sua
opera, ma di rendersi conto di come ciò implicherà che molti
contemporanei mal sopporteranno le sue parole: le troveranno pesanti e
indigeste come aglio.
D’altra parte però, e qui abbiamo un’altra dimostrazione della gran
consapevolezza del poeta sul suo immenso valore futuro (nel Limbo era
entrato nel circolo eletto dei maggiori poeti antichi, nel Purgatorio si
riferisce a se come poeta italiano successivo e maggiore dell’amico
Guido Cavalcanti, prima di lui il più grande dell’epoca) non potrebbe
mai essere un “timido amico del vero” se vuol continuare a vivere tra noi
oggi, cioè: “tra color che questo tempo chiameranno antico”. Siamo noi,
chiamati in causa secoli e secoli dopo!
88
54.
A
Clero Avido e Dannato
lmeno due posti dell’Inferno sono affollati di appartenenti
al clero (Inf. VII, XIX): il cerchio IV di avari e prodighi e la
III Bolgia del cerchio ottavo riservata ai simoniaci. Per
non parlare, ma capiterà, dei sodomiti.
I primi hanno addirittura un attributo tipico dell’uomo di chiesa: il crine
mozzo, cioè rasato, la tonsura; e Virgilio conferma: ci sono anche papi e
cardinali tra loro.
Di papi all’Inferno se ne trovano vari, oltre al probabile ignavo Celestino
V, che fece il “gran rifiuto”, all’eretico Anastasio, traviato, secondo
Dante, da Fotino contro il monofisismo e partecipe dello scisma di
Acacio, in Paradiso si parlerà anche di Giovanni XXII.
Inoltre, “propagginato in pectore” è Bonifacio VIII, ancora in vita nel
1300, ma il suo collega Innocenzo III lo attende (con infallibile vista
futura da dannato) nella Bolgia dei simoniaci.
Successivamente, Bonifacio sarà spinto più in giù nel pozzetto di pena
da Clemente V.
I tre papi citati nella Bolgia terza dovranno scontare quel peccato, solo
clericale, consistente nel vendere indulgenze ed altri articoli di fede e
che prende il nome da Simon Mago, il quale, fattosi battezzare, osò poi
mercanteggiare con San Pietro proponendogli in modo sacrilego di
apprendere, dietro corresponsione di un compenso in danaro, le arti
miracolose e taumaturgiche che mostrava di conoscere.
Il potere temporale della chiesa si giustificava, all’epoca, in base all’atto
della famosa donazione di Costantino (tirato in ballo, infatti, in apertura
di Canto XIX, ma di cui si parla anche al XXXII di Purgatorio, per
89
esempio) che Dante, pur ritenendola il più grande dei mali, credeva
essere autentica.
Fu poi il Valla a chiarire definitivamente trattarsi di un falso.
Ciononostante la posizione assunta dal poeta riguardo alla avidità del
clero, formato spesso da meri faccendieri e addirittura atei e
miscredenti bramosi unicamente di potere e beni, è molto critica e
recisa.
90
55.
J
Un Giovane Magnifico
acopo del Cassero (Purg. VIII) magistrato, uomo d’arme e
condottiero italiano, nato a Fano da nobilissima famiglia
guelfa, era costantemente seguito da sicari e scherani del
vituperato e sanguinario marchese d’Este Azzo VIII, che si era inimicato
quando era podestà di Bologna.
Durante la sua carica, infatti, ostacolò le ambizioni di dominio di quello,
che, dal canto suo, non gli perdonava neppure la costante villania con
la quale veniva perennemente vilipeso e insultato pubblicamente.
Jacopo, chiamato come podestà a Milano, evitò, dunque, di attraversare
i territori estensi e, presa la via del mare, passò per Venezia,
aspettandosi agguati da parte dei sicari del marchese, che, sapeva, si
era ripromesso, prima o poi, di farlo ammazzare.
Sul padovano, però, detti sicari lo raggiunsero, forse in combutta coi
signori della zona, e lo finirono sul Brenta, nei pressi del castello di
Oriago.
Forse sarebbe bastato poco, dice lui stesso di esserne convinto
raccontando a Dante la sua vicenda, per sfuggire alla morte.
Con un filo di rimpianto per la breve vita umana, Jacopo afferma in
Purgatorio che se non si fosse diretto verso la palude, dove, impigliato e
impedito nei movimenti da canne e fango, cadde, sarebbe ancora dove si
respira, e non avrebbe contemplato la tragedia e lo spavento di vedere:
“delle mie vene farsi in terra laco”. Verso magnifico che ritrae l’occhio
quasi incredulo dell’ancora vivo che vede il suo stesso sangue invadere
il terreno e il campo visivo, negli ultimi momenti di coscienza. Una
lapide cittadina lo ricorda: “rugiada e bel tempo della patria”.
91
56.
M
Mirra E Semiramide
irra (Inf. XXX), figlia di Cinira re di Cipro, ardente di un
pazzo amore per il suo stesso padre, con la complicità
dell’oscurità, mistificò il suo aspetto, lo ingannò e si
infilò a letto con lui. Dalla loro unione nacque il bellissimo Adone.
Scoperta dal genitore, però, fuggì in Arabia, dove fu tramutata in pianta:
quella da cui si estrae la sostanza aromatica che porta il suo nome.
All’Inferno è puinita per l’inganno in cui fa cadere il padre, e non per il
ben meno grave peccato di lussuria.
Semiramide (Inf. V) è, invece, la regina assira che fu tanto rotta alla
sfrenata libidine da rendere lecito ogni tipo di eccesso, pur di non patire
il biasimo delle sue stesse condotte; ed è punita infatti nel cerchio dei
lussuriosi. Di lei si narra che fosse in relazione incestuosa con suo
figlio.
92
57.
Una Santa Amatissima E Buonissima
S
anta Zita (Inf. XXI) era una umile domestica lucchese in
odore di santità, ed eletta, dalla devozione popolare,
diffusissima, di cui godette, a patrona della città stessa.
Morta nel 1278, ai tempi di Dante, che però la prende ugualmente a
simbolo di Lucca, non era ancora stata canonizzata, ciò avvenne
(bisogna pensare a lungo su tali “ponderose” questioni) solo nel 1696
sotto Innocenzo XII, e fu eletta, ancor più successivamente, a patrona
delle domestiche.
Le si attribuivano vari miracoli, ed era famosa per la sua dedizione al
lavoro e la bontà d’animo e generosità con cui cercava di aiutare i meno
abbienti.
Un racconto popolare narra di come lei, mentendo sul contenuto del
grembiule, che utilizzava come sporta per portare del cibo trafugato
dalla cucina per donarlo ai poveri, all’aprirlo vide miracolosamente
confermata la sua versione.
Forse uno dei punti più alti e teneri della, spesso biasimevole, devozione
popolare, una figura semplice e popolana che tocca il cuore.
93
58.
I
Strage Per Gelosia
n una delle sue solite sfuriate di gelosia per la condotta del
divino marito, promiscuo e fecondo, Giunone (Inf. XXX)
moglie e Dea di temperamento, ebbe modo di punire per ben
due volte l’amore di lui con Semele, la bella figlia del fondatore di Tebe:
Cadmo.
Prima fece incenerire lei, convincendola, proditoriamente e sotto mentite
spoglie, a chiedere all’amante -Zeus, ovviamente- di mostrarsi in tutto il
suo bruciante ed insopportabile splendore di supremo degli Dei, e poi
fece impazzire Atamante, marito della sorella di Semele.
Questo, quando vide la madre dei suoi figli con in braccio i suoi due
bambini, vaneggiando esclamò: “Tendiamo le reti!”, poi prese uno dei
due, Learco, e gli fracassò la testa contro una pietra.
La madre, per evitare che si avventasse anche sul secondo, si gettò in
mare da una rupe, annegando con il piccolo in grembo.
94
59.
C
Non Vendicarsi Degli Dei!
oronide, figlia di Flegias (Inf. VII), fu sedotta e fecondata
da Apollo.
Il padre, in consonanza con l’etimologia greca del suo
nome (phlego e il flagro, stessa di Flegetonte e dei Campi Flegrei), che
vale infatti “ardere”, per vendicarsi cercò di incendiare il tempio di
Apollo a Delfi, atto per il quale il Dio prima lo crivellò delle sue frecce e
poi lo gettò nel Tartaro.
Nell’Eneide di Virgilio Flegias, con un verso celebre, ammonisce gli
esseri umani: “Discite iustitiam moniti et non temnere diuos”, (diremmo:
il mio esempio vi insegni ad essere giusti; a non disprezzare gli dei, VI,
620).
Come altri personaggi mitici viene assunto nell’esercito infernale
dantesco, in questo caso come brusco traghettatore della palude stigia,
dove sono puniti, in superficie gli iracondi e nel fondo, non visibili, gli
accidiosi.
95
60.
A
Il Diavolo Alichino
lichino (Inf. XXI-XXIII) è il primo dei diavoli della becera
decuria incaricata da Malacoda -il capo- di scortare,
senza che loro lo vogliano affatto, tra l’altro, il due poeti
in visita alle “boglienti pane” –stagni- dove si lessano i barattieri a nuoto
nella pece bollente.
Il nome è ripreso da quello del demone provenzale Hellequin, oggetto di
numerose storie popolari, e specie della divulgatissima leggenda della
caccia feroce. Tale nome, italianizzato proprio da Dante, diverrà
successivamente la maschera veneziana di Arlecchino.
La sua figura è fortemente comica, come lo sono tutte quelle dei suoi
colleghi “Malebranche”.
Il barattiere Ciampolo di Navarra promette, a cambio di essere
risparmiato dallo squartamento al quale sta andando incontro e lo
sottoporranno i diavoli a breve, di far emergere, per farli catturare a
posto suo, ben sette suoi compagni di pena. Per ottenerlo dice di essere
disposto a tradirli facendoli affiorare dalla pece usando il segnale che
tra loro si scambiano quando non ci sono diavoli in vista e vogliono
avere un po’ di sollievo dalla perenne brasatura.
Alichino è colui che convince tutti gli altri a stare al gioco. Gioco che
però finisce male per i diavoli dato che, nonostante le minacce del
demonio stesso, il corrotto navarrese, approfittando di un attimo di
distrazione generale, riesce a divincolarsi e rituffarsi nella pece bollente,
salvandosi dagli uncini, senza dare nulla a cambio.
Alichino prova a dar seguito alle intimidazioni precedentemente
formulare, volandogli dietro per riacciuffarlo, ma è troppo lento e, come
96
il falcone che manca la preda, è costretto a riprendere quota tutto
scocciato e frustrato.
Il collega Calcabrina, allora, apparentemente per aiutarlo, ma, invero,
imbestialito per la disdetta subita a seguito proprio della iniziale
stupidità dell’altro, e desideroso di accendere la rissa con lui, si mette
anche egli in volo sulla pozza di pece, si scontra in aria con Alichino e
ambedue finiscono per precipitare nella pegola bollente dove sono
punititi i barattieri che dovrebbero piantonare.
I due pellegrini se la filano alla chetichella lasciandoli lì a risolvere i loro
impicci.
97
61.
S
Le Ninfe Salmace E Siringa
almace (Inf. XXV) è la ninfa della fonte di Caria, ricordata
da Dante durante le orribili trasmutazioni che occorrono
ai ladri ed in particolare ad Aniello.
Si innamorò del bellissimo figlio di Ermete e Afrodite, che possedeva già
di per sé la caratteristica di congiungere in uno i tratti di ambedue i
genitori: Ermafrodito.
Nell’amplesso frenetico in cui si legò ad esso, confuse il suo corpo con
quello dell’amato, che divenne un essere ibrido partecipe della natura
maschile e femminile al contempo.
Più sfortunata ancora la ninfa Siringa (Purg. XXXII), che amata dal dio
Pan, per sfuggirgli invoca le Naiadi e si trasforma in canne palustri, le
quali toccate dal vento emettono un delicato sibilo.
Cantò del loro amore –Siringa e Pan- Mercurio, su incarico di Giove, per
far addormentare e poi uccidere il terribile pastore Argo dai cento occhi,
la metà dei quali teneva sempre aperti, che era a guardia della Ninfa Io
della quale il Dio si era innamorato e che era trasformata in giovenca.
Dante si riferisce all’episodio per sottolineare l’impossibilità per
chiunque di descrivere l’atto di addormentarsi, stato che l’essere umano
raggiunge perdendone la consapevolezza.
98
62.
M
L’Innominato Della Commedia
ai nominato direttamente in nessuno dei cento i canti
che compongono l’opera, la sua sagoma sinistra e
vituperata aleggia comunque per vari passaggi politici
della Commedia, e infine prende anche forma nella figura allegorica di
un gigante (Purg. XXXII) che amoreggia con una puttana in cima
all’Eden che poi frusta dalla testa ai piedi e trascina nel bosco.
È l’infame e odiosissimo Filippo IV il Bello re di Francia, che, tra le varie
vicende che gli facevano onore agli occhi di Dante, vanta di essere il
mandante del famoso schiaffo di Anagni, col quale umiliò il Papa.
I suoi emissari: Guglielmo di Nogaret, consigliere del re di Francia, e
Giacomo Sciarra Colonna, nemico giurato del pontefice, furono inviati
proprio da lui contro Papa Caetani.
Per quanto si trattasse del futuro simoniaco, il biasimatissimo e avido
Bonifacio VIII, per Dante si trattava pur sempre del vicario di Cristo in
terra, la cui figura non poteva essere umiliata in tal modo.
Filippo è anche un noto traditore dato che nella seconda guerra tra
francesi e fiamminghi promise al conte di Fiandra assediato a Gand la
libertà in cambio della resa, ma poi lo fece portare come prigioniero a
Parigi, esempio di slealtà per il quale Dante vede nella successiva e
clamorosa sconfitta francese a Courtrai una punizione divina.
Ma, soprattutto, Filippo il Bello distrusse il potentissimo ordine
templare.
Con
un
trucco
astuto
e
diabolico
li
fece
arrestare
tutti
contemporaneamente, senza che nessuno sospettasse che ciò stesse
99
accadendo al contempo a tutti gli appartenenti all’Ordine, impedendo
così la difesa.
Poi, in base a una serie di accuse false ed infamanti, e di confessioni
estorte con la tortura per mezzo del grande inquisitore Guglielmo
Imbert, ottenne la soppressione dell’ordine.
Filippo fece uccidere migliaia di monaci guerrieri, e infine bruciare sul
rogo a Parigi, sull’isolotto della Cité, nel 1308, Jaques de Molay, Grande
Maestro dell’Ordine.
100
63.
A
Guido Cavalcanti
lcuni dei versi della Divina Commedia suonano e
ricordano quelli del “primo amico” (così chiamato nella
Vita Nuova) di Dante, Guido Cavalcanti, dal quale si
allontanerà per forti divergenze filosofiche.
Il: “Sì che parea che l’aere ne tremesse” del Canto I dell’Inferno, per
esempio, ricorda i versi della rima IV: “Chi è questa che vèn, ch'ogn'om
la mira, che fa tremar di chiaritate l'are”, oppure: “cantando come
donna innamorata” (Purg. XXIX, 1) ricorda la sua rima XLVI dove la
pastorella: “Cantava come fosse innamorata”, ma anche Inf. VIII 36 di
Filippo Argenti -“vedi che son un che piango”- potrebbe essere un suo
eco: “vedete ch’i’ son un che vo piangendo”, (Rime X 1).
È famoso come Guido fosse un intellettuale fiorentino probabilmente
definibile come epicureo ed ateo.
Il Boccaccio, nel Decamerone (VI, 9), ce lo presenta, affermando, ma
senza che esistano prove di ciò, intento ad impegnare il suo intelletto in
se “trovar si potesse che Iddio non fosse”.
Dino Compagni lo definisce: “un giovane gentile, figlio di messer
Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito, ma sdegnoso e
solitario e intento allo studio”.
Nel Purgatorio, Oderisi da Gubbio citerà Guido come colui che ha tolto il
primato poetico italiano a Guido Guinizzeli: il poeta che il pellegrino
incontrerà più in alto nel fuoco Purgatorio dei lussuriosi.
Poi lascia intendere che sarà lui stesso, Dante, a prendere il testimone
di miglior poeta italiano sottraendolo a Guido.
101
È vero che se la fama terrena è incostante e mutevole, o di breve durata
quella di Dante dura da oltre sette secoli, e anche Guido merita, senza
dubbio, di non essere dimenticato. Sterminate le mostre di affetto per
lui, tra cui da non dimenticare: Italo Calvino.
102
64.
D
Il Destino Dell’Impero
alla fine di Pallante (Par. VI), figlio di Evandro, inizia il
momento storico del discorso di Giustiniano sulle
vicende dell’aquila dell’impero, simbolo del potere
imperiale romano voluto e guidato da Dio in persona a redenzione del
mondo intero.
Potremmo dire che il personaggio del Paradiso, e imperatore, attacca il
suo racconto da dove si conclude l’Iliade.
Simbolo del sacrificio di un eroe per la patria (citati nel I dell’Inferno
anche altri sacrifici famosi per la creazione dell’Italia: la vergine Camilla,
Eurialo, Niso), venne ucciso da Turno e vendicato esplicitamente da
Enea stesso, che vince così e sposa la contesa Lavinia.
La narrazione della vendetta è nell’ultimo libro dell’opera ed è da lì che
si chiarisce definitivamente il percorso storico che porterà all’impero di
Roma, necessario a preparare l’avvento del Cristo. Sarà, infatti, poi il
figlio di Enea, Ascanio a Fondare Albalonga, dove l’aquila imperiale si
stabilirà per tre secoli, prima di posarsi definitivamente su Roma, a
seguito dell’esito della sfida tra Orazi e Curiazi.
Enea grida a Turno mentre lo trafigge: “Pallas te hoc vulnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.” (Pallante con questa
ferita, Pallante ti immola e prende vendetta dal sangue maledetto).
D’altra parte, sia detto tangenzialmente, la sconfitta di Turno pare
scontata nell’Eneide, e lo stesso eroe, consapevole di essa, prima di
affrontare l’invincibile avversario troiano si chiede titubante in un verso
splendido: “usque adeone mori miserum est?” (quanto farà poi male
morire?)
103
65.
L
La Lancia Di Achille
a lancia di Achille (Inf. XXXI), che prima fu di suo padre
Peleo, aveva la leggendaria caratteristica di guarire con un
secondo colpo dalle ferite che aveva provocato col primo.
Nella lirica d’amore due-trecentesca era figura molto usata e famosa
(Mostacci, Davanzati, Dall’Orto, e persino Petrarca) a paragone
dell’effetto e l’efficacia taumaturgica dello sguardo, o del bacio della
donna amata.
66.
S
Due Morti Inverosimili
abello e Nasidio (Inf. XXV) sono due soldati dell’esercito
di Catone, che secondo il leggendario e inverosimile
racconto di Lucano nella Pharsalia, muoiono in modo
orribile quando vengono morsi da due fantasiosi serpenti del deserto del
Sahara.
Gli ofidi leggendari provocano: uno l’incenerimento del primo, e l’altro
un immane gonfiore nel secondo che finisce per esplodere dalla corazza.
104
67.
Antiche Battaglie, Il Loro Valore E Il
Valore In Esse
N
ell’antichità e almeno per tutto il Medioevo le guerre
venivano combattute per essere vinte, e ogni sconfitta o
trionfo poteva avere immediate conseguenze, devastanti
o benefiche, direttamente sui e per i contendenti.
Non si contano i casi di re e persino imperatori finiti in schiavitù o
giustiziati, crudelmente lasciati morire di fame, o chiusi in gabbia; si
pensi
a
Vercingetorige,
o
quanto
si
narra
leggendariamente
sull’imperatore Valeriano, catturato dal re sasanide Sapore I, che lo
umiliò servendosene prima come sgabello per montare a cavallo e che,
una volta morto, fece scuoiare, impagliare e dipingere di rosso per
usarlo come trofeo.
La sconfitta è la peggiore delle sorti! E si deve averlo sempre chiaro in
mente. Bisogna essere spietati per paura che gli altri possano esserlo
peggio.
Persino la Firenze di Farinata rischiò la demolizione intera, come ben si
ricorda dal decimo dell’Inferno: “tòrre via Fiorenza…”. Dopo Montaperti 1260-, che costò alla lega fiorentina oltre diecimila morti, Siena e Pisa
proposero di raderla al suolo, si oppose Farinata!
Ogni battaglia persa era quindi frutto di un qualche errore di
valutazione o di strategia di qualcuno, come una partita di scacchi.
Una cronaca dell’epoca narra come il valorosissimo Bonconte –quello
che, nella storia della Commedia, si salva dalla dannazione eterna per le
105
poche parole rivolte alla Madonna in fin di vita- alla battaglia di
Campaldino -1289-, dove capeggiava la cavalleria ghibellina, avendo
considerato e constatato l’inferiorità numerica della propria parte,
avesse espresso l’opinione di non doversi ingaggiar battaglia.
Alla accusa di codardia espressa tra le righe dal Vescovo di Arezzo, pare
che il valoroso giovane replicasse che se anche lui –il vescovo- avesse
osato spingersi tanto in là quanto avrebbe fatto egli stesso quel giorno,
non sarebbe più tornato indietro. Ed infatti entrambi persero la vita in
quella drammatica vicenda di sangue.
Bonconte cominciò lui la battaglia scatenando la prima ondata dei
trecento feditori al galoppo, che comandava. La giornata di Campaldino
costò oltre duemila vittime tra ambo i lati.
106
68.
P
L’Uso Del “Tu”
er tutta la Commedia Dante incontra una quantità
immane di personaggi e interagisce con loro, in genere
dialoga, o ascolta.
Nel viaggio ultramondano trova amici, conoscenti, personaggi storici,
antenati, con cui calibra linguaggi diversi, più o meno confidenziali, o
rispettosi.
Ad alcune anime addirittura tira i capelli, o li minaccia, o prende a
calci, ma in genere tratta con deferenza ricambiata personaggi della
politica, anche i dannati.
Questo avviene, per esempio, nell’agnizione del vecchio maestro
sodomita Brunetto Latini: “Voi qui ser Brunetto…” e di seguito è lo
stesso Virgilio a raccomandargli di usare cortesia con Guido Guerra,
Tegghiaio Adobrandi e Iacopo Rusticucci, così come prima aveva fatto
con Farinata, col quale, perfino nel famoso battibecco, rimane
rispettoso.
È famoso, poi, come, scoperte le sue nobili origini con l’avo Cacciaguida,
nel rivolgersi a lui, passi dall’uso del “tu” a quello del “voi”.
Ma quanto ad astio e irriverenti “tu” sputati addosso al pellegrino,
l’anima più insolente è sempre quella del bastardo Vanni Fucci (XXIV),
lui non solo gliene spara quattro filati, ma anzi, conclude una odiosa e
preoccupante profezia sul futuro del poeta, e la disfatta della sua parte
politica (guelferia bianca), con truce soddisfazione: “sì ch’ogne bianco ne
sarà feruto”.
107
Con tale profezia chiude anche il canto, con tutto il livore possibile, e
semmai ci fossero dubbi, specifica: “E detto l'ho perché doler ti debbia!”
(affinché tu ne soffra).
108
69.
Una Nuova Prospettiva Sul Destino
Dell’Uomo
L
e stelle (Inf. XXXIV, Purg. XXXIII, Par. XXXIII) sono il
destino ultimo dell’essere umano.
Come tutti sanno, la parola “stelle” chiude ognuna delle
tre cantiche: dall’Inferno Dante riesce a rivederle, dopo il Purgatorio è
disposto a salirvi, nel Paradiso è partecipe del loro moto d’amore.
Virgilio, la sua paterna e amorevole guida pagana, chiude la I e la X
Egloga con la parola Umbra e l’Eneide con la parola umbrae: le ombre
dove precipita l’anima del povero Turno ucciso da Enea (“ast illi
soluuntur frigore membra uitaque cum gemitu fugit indignata sub
umbras”: le sue membra si afflosciano nel freddo, e la sua vita con un
gemito svanisce indignata tra le ombre).
Dalle ombre del mondo antico e pagano, pessimista e in cui la morte
non
ha
appelli
imprigionando
dato
l’anima
che
in
chiude
un
l’esperienza
triste
luogo
breve
buio,
della
lugubre
vita
e
raccapricciante, -se non addirittura nel nulla- si arriva a quello
cristiano, liberi dalla schiavitù della morte e approdati alla sfolgorante
vita eterna, in cui Dante credeva fermamente.
109
70.
I
Una Beffa
l ponte (Inf. XXI) che, su indicazione del diavolo Malacoda, i
pellegrini cercano per superare la Bolgia sesta, non esiste
affatto.
Essi, infatti, sono crollati tutti da 1266 anni e un giorno, dato che il
viaggio si realizza nella notte del venerdì santo del 1300, e sul crollo
almeno, il diavolo pare averla raccontata giusta.
Virgilio apprende con sorpresa d’essersi fatto, dunque, ingannare dalle
false indicazioni del demonio, e lo viene a sapere in modo beffardo
dall’ipocrita Catalano, che lo schernisce affermando di aver appreso,
all’Università di Bologna la dotta, che il diavolo ha parecchi vizi, e tra
essi quello di essere maestro di menzogna: come se fossero necessari
studi universitari per saperlo e tenerlo in conto, quando si ha a che fare
con uno di loro.
La ragione ben può essere ingannata e persino schernita e ridicolizzata
dalla frode, che è anche essa frutto dell’intelligenza.
Virgilio incassa il colpo e se ne va indignato.
110
71.
I
Una Etimologia Errata Ma Suggestiva
l senso del contrappasso della pena degli ipocriti (Inf. XXIII)
della Bolgia sesta, sta tutto nella composizione dei materiali
delle
pesantissime
-e
dall’apparenza
sontuose-
cappe
monacali che loro sono costretti a indossare. Esse appaiono come
dorate –“rance”, color arancio-, ma sono di piombo all’interno.
Tralasciando
ora
le
implicazioni
alchemiche
che
legano
in
un
complicatissimo rapporto l’oro e il piombo (è noto, infatti, come una
delle missioni del magistero alchemico sia la trasmutazione dell’ultimo
nel primo) Dante parte da una paretimologia del condottiero Uguccione
della Faggiuola per concepire il senso allegorico della punizione.
Secondo tale etimo, infatti, il lemma “ipocrita” sarebbe composta dalla
preposizione greca hypò, (sotto) o forse hyper (sopra), e la parola greca
chrysòs, (oro) e varrebbe “che nasconde qualcosa sotto l’oro”, o “che ha
l’oro sopra”.
L’etimologia autentica dovrebbe essere invece, ypokrites: attore. Gli
ipocriti danteschi, paiono monaci dorati, ma dentro nascondono il più
vile e pesante dei metalli, che li schiaccia e opprime.
111
72.
U
Una Bizzarra Efferatezza
na diceria medievale, molto conosciuta e propalata
come vera, ma nata molto probabilmente solo per
capziosa
e
falsa
propaganda
guelfa,
attribuiva
a
Federico II (Inf. XXIII) il costume orrendo di punire i rei di lesa maestà
facendogli indossare delle cappe di piombo e mettendoli in una caldaia
sul fuoco.
Il piombo si sarebbe, quindi, fuso addosso ai malcapitati uccidendoli in
modo orribile.
Dante si rifà a questa truce bizzarria quando concepisce la pena degli
ipocriti, che girano per la Bolgia sesta, appunto, sotto il peso
insopportabile di cappe di foggia simile a quelle dei monaci cluniacensi,
ma metalliche: internamente di piombo e esteriormente d’oro.
112
73.
D
Un Gran Mangiatore
i Papa Martino IV (Purg. XXIV), che espia il peccato
della gola in Purgatorio, è leggendaria la ghiottoneria
viziosissima.
Si racconta che facesse arrostire anguille di Bolsena fatte prima
annegare nella vernaccia, ma non si sa se l’interpretazione della ricetta
sia esatta, e poi ne faceva strage a tavola.
Alla sua morte un epitaffio lo ricorda: “Gaudent anguillae quod mortuus
hic jacet ille qui, quasi morte reas, excoriabat eas” ossia “Gioiscono le
anguille poiché morto qui giace colui che, quasi fossero colpevoli di
morte, le scorticava” divorandole con avidità.
Un episodio militare lo lega ad altri due personaggi della Commedia: il
consigliere fraudolento Guido da Montefeltro, e l’astronomo Guido
Bonatti. Insieme, infatti, l’uno come signore della città di Forlì assediata
e condottiero, l’altro come consigliere riuscirono a legnare sonoramente
–“dei franceschi sanguinoso mucchio”- l’esercito franco guelfo da lui
inviato contro la roccaforte ghibellina.
113
74.
Caifas Il Sacerdote Dei Tempi di
Pilato
U
nici ipocriti a non patire il peso della propria cappa
plumbea, ma condannati a dover sopportare il peso
intero di tutta l’ipocrisia del mondo, dato che sono
assicurati a tre paletti conficcati a terra e tutti i convitti delle Bolgia gli
passano a turno sopra, sono Caifas (Inf. XXIII), il Sommo Sacerdote di
Gerusalemme che fece giustiziare Gesù, e suo suocero, che adunò in
casa sua il sinedrio dove si prese la decisione di sacrificare un solo
uomo, Gesù appunto, pur di non far subire conseguenze nefaste a tutto
il popolo ebraico.
114
75.
S
Un Protocontestatore: Sigeri
igieri da Brabante (Par. X) fu maestro alla Facoltà delle
Arti della Sorbona a Parigi, che sorgeva nel “Vico degli
strami” (cioè della paglia) come segnala Dante.
Notazione importante, perché era lì che all’epoca risiedeva la facoltà con
le sue scuole di filosofia dove insegnavano gli aristotelici, in forte
contrasto e perenne polemica, dato che partivano da principi diversi,
con l’altra facoltà, quella di teologia.
Sigieri fu il principale esponente dell’averroismo latino, l’aristotelismo
basato sul commento di Averroè (nel Limbo chiamato, appunto:
“Averrois che ‘l gran comento feo”) e più volte condannato per alcune
sue dottrine, fortemente deterministiche, basate su e dedotte, appunto,
da Aristotele, ma inconciliabili con la fede cristiana.
In forte opposizione a Tommaso, ma lodato proprio da lui nel Paradiso
dantesco, egli negò la creazione ex nihilo, l’esistenza del libero arbitrio e
l’immortalità dell’anima.
Successivamente, appellatosi a questi, fu assolto dal Papa –Martino IV-,
in quel momento ad Orvieto, dove, oltre al perdono, però ricevette
l’ordine di permanere per poter essere controllato nelle sue attività e
studi.
Il chierico suo segretario, forse impazzito, forse spinto da trame dei suoi
nemici, lo uccise nel 1283.
115
76.
L
Infame Di Casa Donati
a Commedia non si macchia del suo nome infame. È,
invece, Forese Donati, amico di Dante, a profetizzare, con
allusioni, la fine di suo fratello Corso (Purg. XXIV).
Corso fu colui che provocò il primo motivo di dissidio tra le due fazioni
fiorentine dei bianchi, “cerchieschi”, a cui apparteneva anche Dante, e
neri, o “donateschi”.
Sul finire del Duecento fa promessa di matrimonio a Tessa Ubertini,
imparentata coi Cerchi da parte paterna, ma negò a lei e ai suoi parenti
un’eredità che spettava loro.
Soprannominato “il barone” per i suoi modi sdegnosi ed inclini al
motteggio, fu brutale e crudele, in politica tramò e pescò nel torbido di
continuo.
Sposò in terze nozze la figlia del condottiero ghibellino Ugucchione della
Faggiuola.
Nel 1299 venne esiliato dai Bianchi, ma durante il confino, si recò a
Roma, dove riuscì a ottenere l'appoggio di Bonifacio VIII per il suo
partito.
Tornò, così, trionfalmente a Firenze al seguito di Carlo di Valois, falso
paciere mandato appunto dal papa per favorire i Neri.
Ripreso il potere, esiliò per due volte i bianchi fino a che fu condannato
come traditore e la folla lo costrinse a fuggire dalla città.
Durante la fuga cadde da cavallo rimanendo impigliato in una staffa, i
suoi nemici lo raggiunsero e finirono a colpi di lancia. Leggenda vuole, e
Dante ama fantasticare, come fosse trascinato dal suo stesso cavallo
direttamente all’Inferno.
116
77.
I
Frati Gaudenti
“Frati Gaudenti”, Ordo Militiae Mariae Gloriosae, furono un
ordine in prima linea durante la crociata contro gli albigesi –
fu creato per l’occasione-, e poi rifondato a Bologna -con
regola approvata da Papa Urbano IV- da Loderingo degli Andalò, che poi
è uno dei due ipocriti infernali appartenenti all’ordine (Inf. XIII).
Un altro dannato pure “gaudente” è Alberigo nella Tolomea (Inf. XXXIII)
il traditore.
Loro missione era anche quella di mantenere la pace tra le diverse
fazioni cittadine, e per questo potevano girare armati come gli ordini
militari.
A causa dei loro compromessi con la realtà mondana, e anche a causa
della vita comoda e agiata cui erano inclini e della cospicuità del loro
patrimonio,
che
amministravano
con
avidità,
furono
chiamati
“gaudenti”, alla fine per scherno, appunto, e ripetutamente portati ad
esempio di ipocrisia.
117
78.
G
Nepotismo
herardo II è, probabilmente, l’abate di San Zeno a
Verona (Purg. XIII) dei tempi di Federico I Hoenstaufen,
detto Barbarossa. Dell’imperatore, egli racconta in
Purgatorio, i milanesi si ricordano ancora con dolore, dato che distrusse
la città nel 1162.
L’abate profetizza come stia per morire, un potente -si tratta di Alberto
della Scala-, che dovrà scontare l’offesa arrecata a quel bel monastero,
con l’imposizione abusiva, come abate, di un suo figlio illegittimo Giuseppe- “mal del corpo intero e della mente peggio”: uno storpio, oltre
che idiota.
A questo disgraziato si attribuiscono le peggiori scelleratezze e
scostumatezze, e si sa che, sotto la benedizione di Cangrande della
Scala –il personaggio a cui Dante, grato, dedica il Paradiso e che
ospiterà il poeta tenendolo in grande considerazione- lo stesso Giuseppe
finì per porre, a sua volta, un suo figlio, pure questo illegittimo, al suo
stesso posto di abate a San Zeno.
Cangrande aveva probabilmente letto queste terzine, che coinvolgono,
nel giudizio negativo per nepotismo oltre ai suoi fratelli anche suo
padre, ma l’integrità del poeta e la sua indipendenza, nonostante i suoi
affetti e la gratitudine, riescono a superare anche gli interessi personali
e non si prostrano dinanzi al potere.
118
79.
A
Una Tragedia D’Amore
l momento di immettersi all’interno dell’ustionante muro
di fuoco dove si “affinano” –purificano- i lussuriosi,
Dante, invaso senza rimedio dalla paura, si paralizza
sbiancando e gelandosi, come un cadavere che stia per essere messo
nella fossa.
Protende quindi le mani in avanti rigido come a ripararsi dalla fiamma,
che vede davanti a lui e gli ricorda bene l’orrore di corpi umani che ha
visto bruciare sul rogo.
Virgilio deve intervenire per smuovere il discepolo pietrificato, ed ottiene
l’effetto cercato citando il nome “taumaturgico” della sua amata
Beatrice.
Al di là del muro di fuoco che, Dante dirà, lo brucerà come se si fosse
immerso in “bolliente vetro”, ma che non può nuocergli fisicamente, si
trova, infatti, il Paradiso Terrestre e finalmente si paleserà, come
promesso, la giovane amata.
L’effetto che il nome di Beatrice provoca in lui è lo stesso effetto che
provocò su Piramo il nome della sua amata Tisbe (Purg. XXVII).
Amanti di due famiglie babilonesi nemiche, i due giovani possono
amoreggiare solo separati da un muro.
Decidono di fuggire insieme e si danno appuntamento sotto un gelso.
Tisbe, arrivata per prima, si spaventa per l’approssimarsi di una
leonessa, e fugge lasciando cadere a terra la sua veste. La leonessa
sbrana la veste rimasta sul suolo, sicché, quando giunge, il giovane è
indotto a pensare che, a causa del suo ritardo, si sia verificato il peggio.
Senza indugi, disperato e solerte, si dà la morte con la spada.
119
Trafitto e a punto di morire, ormai incosciente, apre occhi per un attimo
e per l’ultima volta, quando sente il nome dell’amata che è tornata e lo
piange: “C’è la tua Tisbe con te.” Spirato lui, anche lei si uccide al suo
fianco.
120
80.
P
Eroina Dell’Eneide
entesilea (Inf. IV) è la regina delle amazzoni uccisa da
Achille (il quale, a sua volta, Dante vedrà tra le “più di
mille” anime di lussuriosi indicate da Virgilio), sotto le
mura di Troia e finita nel Limbo.
Bellissima, fu richiamata da Priamo nell’ultimo anno del decennale
conflitto troiano, dopo la morte di Ettore.
Anche nell’Eneide c’è una guerriera: la “Cammilla” che Dante cita tra gli
eroi morti nella guerra promossa da Enea per la conquista del Lazio,
enumerando senza distinguere i caduti delle due parti avverse, e che poi
vede nel Nobile Castello del Limbo.
Camilla, coraggiosissima, crea lo scompiglio in battaglia lanciandosi
nelle mischie e ferendo a morte decine di guerrieri uomini.
Sarà uccisa in modo vile da Arunte, ucciso a sua volta da Opi su ordine
di Diana in persona.
121
81.
T
discepolo
Vendetta Di Una Madre
omiri (in Purg. XII Tamiri) è la regina degli Sciiti (Ponto,
Caucaso, etc.) che, secondo quanto narra Paolo Orosio,
storico portoghese in Paradiso, molto studiato dal poeta e
di
Sant’Agostino,
sconfisse
e
uccise
Ciro
il
grande,
l’imperatore persiano fondatore della dinastia degli Achemenidi.
Il figlio di Tomiri, Spargapise, era stato catturato e messo a morte,
grazie a uno stratagemma di Ciro, che riuscì a cogliere di sorpresa le
truppe sciite, che erano state proditoriamente indotte ad ubriacarsi
senza essere abituati a reggere l’alcool.
Sua madre, vinto inopinatamente il tracotante e superbo imperatore
persiano, cercò il suo cadavere nel campo, lo fece decapitare e gettò la
sua testa recisa in un otre colmo si sangue pronunciando le parole
riportate da Dante: “sangue sitisti e io di sangue t’empio”, nel latino di
Orosio: “satia te sanguine quem sitisti” (saziati col sangue di cui fosti
assetato).
122
82.
M
Mordret
ordret (Inf. XXXII, Mordred), famoso, viene citato
anche da Dante Alighieri: “Quelli a cui fu rotto il petto
e l’ombra”.
Nell'Inferno è usato come esempio, un po' didascalico, di traditore dei
parenti, “fitto” (infilato) “in gelatina”, paragone gastronomico con lo
spesso ghiaccio di Cocito, di stampo un po’ ridicolo e sprezzante.
Figlio di Artù, leggendario re della Tavola Rotonda, ebbe il proposito di
uccidere a tradimento e con l'inganno il padre, ma lui lo infilò con la
sua lancia.
In particolare viene riportato il macabro dettaglio dell’arma del re che gli
fende il petto così profondamente che, una volta ritratta, Girflet vide
apparire un raggio di sole dalla ferita, che aveva attraversato al
contempo non solo il corpo, ma anche la sua ombra traditrice.
123
83.
D
Un Cortese Giullare Dannato
i Guglielmo Borsiere (Inf. XVI) non si sa altro che il
poco che riferiscono Dante e Boccaccio, il quale,
commentando la Commedia lo descrive come educato e
ingegnoso giullare:
“…Cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed
era il suo essercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra grandi e
gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi e talora con piacevoli e
oneste novelle recreare gli animi de' faticati e confortargli alle cose
onorevoli”.
Fu un cortigiano che, come altri personaggi quali Ciacco, per lunga e
costante frequentazione delle corti, ben poteva sapere e rendersi conto
dei mutamenti sociali e di costume occorsi durante il tempo destinatogli
per vivere.
A lui si riferisce il sodomita Rusticucci, che afferma di aver ricevuto,
dallo stesso, bruttissime notizie sullo stato attuale dei costumi
fiorentini.
Il politico fiorentino della generazione precedente a quella di Dante, lo
afferma quasi sperando che il pellegrino possa smentire l’altro latore di
notizie dal mondo, e portarne di migliori, cosa che, ovviamente, non
avviene –forse il passato appare sempre migliore del presente.
Il passo conferma le dinamiche immaginate dal Poeta sulla memoria dei
dannati, a cui il futuro è chiaro, mentre non lo è il presente, del quale,
se non arrivano nuove da altre anime, nulla se ne sa (conferma anche
frate Alberigo, il quale, parlando del suo corpo lasciato in vita al mondo
e governato dal demonio, dice: “nulla scienza porto”).
124
La trovata dantesca di anime dannate aduse a ciarlare tra loro propone
una calda e tutto sommato casalinga e provinciale visione del
trascorrere della perenne prigionia infernale, tra individui ancora
interessati e preoccupati delle vicende mondane e in specie patrie:
convitti che soffrono, sì, ma al contempo parlano tra loro commentando,
giudicando e scambiandosi notizie e aneddoti. È una commedia.
125
84.
L
Dieci Anni Senza Beatrice
a sete decennale di Dante di tornare a godere della vista di
Beatrice non si “disseta” semplicemente.
Una volta giunto in cima all’Eden, al suo apparire essa si
“disbrama” (Purg. XXII).
L’astinenza da una visione tanto desiderata e tanto lungamente, crea la
necessità di usare una parola forgiata all’uopo, come tantissime altre, e
dall’unione di due forti componenti: “dis”, negativo, e “brama”.
Sono dieci anni che Dante non vede la sua amata Bice di Folco
Portinari, data in sposa a Simone dei Bardi, e spentasi giovanissima,
nel 1290 a soli ventiquattro anni. Il viaggio ultramondano, infatti è
immaginato nella Pasqua del 1300. A Dante non bastarono le lacrime
quando apprese del triste evento: concepì l’opera più bella della
letteratura.
126
85.
I
Vendetta Femminile
ndispettita dalla trascuratezza con cui il suo tempio era
venerato, Afrodite maledisse le donne di Lemno, rendendole
ripugnanti agli uomini del posto, per mezzo di una feroce e
insalvabile alitosi.
I maschi iniziarono a trascurarle preferendo ad esse le donne trace, e
loro decisero di vendicarsi panificando ed eseguendo il loro sterminio:
padri, fratelli compresi.
La regina Ipsipile (Inf. XVIII e Purg. XXVI), però, ingannò le altre
mettendo in salvo il proprio genitore, Toante, e facendolo vivere a largo
dell’isola in un baule.
Dante la cita presentando il mito del suo amore con Giasone, il capo
degli Argonauti. Quando lui la sedusse ed ingannò, ella era ancora solo
una giovinetta, scaltra, certo, dato che aveva salvato suo padre dall’ira
di tutte le altre donne, ma in impari posizione dinanzi all’eroe.
Giasone è punito, infatti, come adulatore, dato che la sedusse per
interesse personale, usandola, e senza provare sentimenti.
Lui era già un eroe formato, all’epoca aveva, infatti, già conquistato il
Vello d’oro.
Il poeta riprende, poi, la sua vicenda quando racconta di essersi sentito
quasi a punto di gettarsi tra le fiamme (che lo avvolgono per fargli
espiare la lussuria) ad abbracciare Guido Guinizzelli, cosa che osarono
fare, invece, i due figli di lei (ottenuti da Giasone) quando per salvarla
dal rogo si gettano, felici di averla ritrovata, tra le fiamme a cui la aveva
condannata per negligenza il re Licurgo a cui era stata venduta come
schiava. I figli la liberano e la abbracciano avidamente.
127
86.
L’Unica Puttana Dell’Inferno
Dantesco
C
’è, o almeno si viene a sapere solo di un’unica puttana
all’Inferno, tra i ruffiani e i seduttori della Bolgia
seconda, Taide (Inf. XVIII), personaggio dell’Eunucus di
Terenzio, e amante del vanaglorioso e smargiasso soldato romano
Trasone.
…quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana…
La visione ha dei tratti molto popolari e comici; lei, irrequieta e unica
testimone di una diffusissima attività crematistica e commerciale che
“simula” godimento e svilisce la passione amorosa a risorsa per trarre
profitto e sostentamento, pare dannata più per la menzogna implicita
nella sua pratica e per la scimmiottatura ingannevole di sentimenti e,
specie, di piaceri che andrebbero vissuti in modo autentico, che per
esagerata intransigenza moralistica.
128
87.
Da Una Magnifica Canzone
Provenzale
L
’allodola (Par. XX) dantesca:
Quale allodoletta che'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia
…
è ripresa da un noto attacco di una magnifica canzone provenzale di
Bernart de Ventadorn.
Le figure sono però profondamente diverse nel loro significato specifico
in ciascun componimento: l’allodola mistica di Dante, che viene vinta e
ridotta al silenzio dalla dolcezza del suo stesso canto, non ha i tratti di
quella del poeta provenzale, il quale, parlando in prima persona del suo
sfortunato amore, prova invidia per la gioia spensierata di lei in volo
dimentica di sé, e in caduta libera per la dolcezza che le entra nel cuore
felice:
Can vei la lauzeta mover
Quando vedo l’allodoletta batter
de joi sas alas contra·l rai,
di gioia l’ali sue verso il sole,
que s'oblida e·s laissa chazer
che s’oblia e lascia cadere,
per la doussor c'al cor li vai,
per la dolcezza che le va al cuore,
ai! tan grans enveya m'en ve
ah! Tanta invidia mi prende
de cui qu'eu veya jauzion!
di chiunque veda esser gioioso
Meravilhas ai, car desse.
che mi stupisco di come subito
Lo cor de dezirer nom fon.
di desiderio il cuore non mi si fonda.
129
88.
Un Amico Ritrovato E Una Tenzone
Poetica
U
sava al tempo, di indirizzarsi, tra amici dotati di
intelletto, componimenti poetici sarcastici, burleschi e
ingegnosamente offensivi.
L’ingegnosità nel formulare insulti attrae sicuramente l’attenzione del
poeta, se pensiamo a quanto interesse abbia posto alla scenetta del
battibecco e delle relative offese incrociate che si rivolgono i due gaglioffi
e truffatori, ospiti dell’ultima Bolgia: Mastro Adamo, il falsario inglese, e
Sinone, il greco che ingannò i troiani facendo entrare in città il cavallo
ideato da Ulisse e Diomede.
L’interesse divertito di Dante verso tale “sperpero” di intelligenza,
indirizzata verso manierismi inutili e, alla fine, volgari, aveva fatto
sbottare Virgilio, che, in quella precisa occasione, aveva ripreso Dante
rivolgendogli un qualcosa di simile a un paterno: “guarda che mo’ mi
arrabbio!”.
In gioventù Dante stesso aveva indugiato in scherzose attività del
genere; è celebre la disputa sorta tra lui e l’amico Forese Donati (Purg.
XXIII-XXV), che incontra, sulla cornice dei golosi in Purgatorio, senza
riconoscerlo subito, tanto è dimagrito e smunto da sembrare, in volto,
simile a una “m” onciale.
Loro si mandarono tre sonetti a testa, dove si accusavano di essere figli
di pezzenti, o freddi con la propria donna, o morti di fame, vigliacchi etc,
un catalogo di varie condotte censurabili:
130
1. Dante a Forese
2. Forese a Dante
Chi udisse tossir la mal fatata
L’altra notte mi venn’ una gran tosse,
moglie di Bicci vocato Forese,
perch’i’ non avea che tener a dosso
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ma incontanente dì [ed i’] fui mosso
ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.
per gir a guadagnar ove che fosse.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
Udite la fortuna ove m’adusse:
or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!
ch’i’ credetti trovar perle in un bosso
E no·lle val perché dorma calzata,
e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
ed i’ trovai Alaghier tra le fosso
La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,
no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,
se fu di Salamon o d’altro saggio.
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Allora mi segna’ verso ’l levante:
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
e que’ mi disse: «Per amor di Dante,
dicendo: «Lassa, che per fichi secchi
scio’mi»; ed i’ non potti veder come:
messa l’avre’ in casa il conte Guido!».
tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.
3. Dante a Forese
4. Forese a Dante
Ben ti faranno il nodo Salamone,
Va’ rivesti San Gal prima che dichi
Bicci novello, e petti delle starne,
parole o motti d’altrui povertate,
ma peggio fia la lonza del castrone,
ché troppo n’è venuta gran pietate
ché ’l cuoio farà vendetta della carne;
in questo verno a tutti suoi amichi.
tal che starai più presso a San Simone,
E anco, se tu ci hai per sì mendichi,
se·ttu non ti procacci de l’andarne:
perché pur mandi a·nnoi per caritate?
e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone
Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate,
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
ch’io saccio ben che tu te ne nutrichi.
Ma ben m’ è detto che tu sai un’arte,
Ma ben ti lecerà il lavorare,
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;
che col Belluzzo tu non stia in brigata.
e fa·ssì, a tempo, che tema di carte
Allo spedale a Pinti ha’ riparare;
non hai, che·tti bisogni scioperare;
e già mi par vedere stare a desco,
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.
ed in terzo, Alighier co·lla farsata.
5. Dante a Forese
6.Forese a Dante
Bicci novel, figliuol di non so cui
Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri,
(s’i’ non ne domandassi monna Tessa),
e acorgomene pur a la vendetta
giù per la gola tanta rob’ hai messa,
che facesti di lu’ sì bella e netta
ch’a forza ti convien tôrre l’altrui.
de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri.
E già la gente si guarda da·llui,
Se tagliato n’avess’ uno a quartieri,
chi ha borsa a·llato, là dov’e’
s’appressa, di pace non dove’ aver tal fretta;
dicendo: «Questi c’ha la faccia fessa
ma tu ha’ poi sì piena la bonetta,
è piuvico ladron negli atti sui».
che no·lla porterebber duo somieri.
E tal giace per lui nel letto tristo,
Buon uso ci ha’ recato, ben ti ·l dico,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che qual ti carica ben di bastone,
che gli apartien quanto Giosep a Cristo.
colu’ ha’ per fratello e per amico.
Di Bicci e de’ fratei posso contare
Il nome ti direi delle persone
che, per lo sangue lor, del mal acquisto
che v’hanno posto sù; ma del panico
sann’ a lor donne buon’ cognati stare.
mi reca, ch’i’ vo’ metter la ragione.
131
89.
S
Tracotanza Diabolica
olo un angelo appare all’Inferno, per aiutare il povero
Virgilio, tenuto in scacco al di fuori della città di Dite, a
proseguire il cammino. I diavoli (Inf. VIII) infatti, più di
mille, ammassati a guardare e a sbeffeggiare i due pellegrini relegati
fuori dalle mura ferree e arroventate della città infernale, chiedevano
minacciosi “Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta
gente?”.
Poi avevano proposto al poeta mantovano, sgomentando Dante, di
abbandonare al suo destino il discepolo, “vediamo se saprà tornarsene
da solo nel mondo dei vivi”, dicono in modo crudelmente beffardo:
Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada.
Qui il poeta, come in altre occasioni, si rivolge direttamente al lettore
chiedendogli di immaginare il suo sgomento. Poi, a perdifiato,
accoratissimo, chiede alla amata guida di non lasciarlo solo all’Inferno,
e, come farà in altra occasione, arriva a proporre anche di rinunciare la
prosecuzione del percorso, piuttosto che rischiare l’abbandono:
O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar”, diss’io, “così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto.
132
90.
L
Amore
’amore (Inf. V) non consente, a nessuno che sia amato, di
non amare a sua volta, fa dire Dante a Francesca.
Guinizzelli affermava che: “Al cor gentil rempaira sempre
amore”.
Nella Vita Nuova Dante stesso affermava che “Amore e 'l cor gentil sono
una cosa”.
Non deve essere certo il matrimonio una scusa contro l’amore.
Anzi, il vero amore ha luogo solo al di fuori del matrimonio.
“Che altro è l'amore se non uno smisurato abbraccio furtivo di pensieri
nascosti”, l’amore non può darsi per scontato e non è certo nelle
responsabilità della relazione coniugale, formale, che possa trovare la
sua essenza.
Così, grossomodo, alcune direttrici del pensiero di un autore il cui testo
era diffusissimo ai tempi di Dante.
Andrea Cappellano, cappellano alla corte della contessa Maria di
Champagne, sorella del re di Francia, redige i principi e le regole
dell’amare cortese nel suo trattatello De Amore.
In amore non si mente, non si sparla di altri; si deve rispettare l’amore
vero di chi lo possiede già; l’amore è servaggio (feudale) verso la donna.
L’amore appiana anche le differenze di classe perché può sorgere
ovunque.
Dante proprio a questo autore si riferisce quando mette in bocca, alla
bellissima Francesca, amata da Paolo, le tre terzine d’amore, forse le più
conosciute e benvolute di tutta l’opera.
133
Vediamo, in particolare alcuni dei trenta punti del cappellano, poi
sapremo riconoscere se siamo mai stati innamorati davvero (versione
del De Amore in volgare del Codice Barberiano, cap. XXXII, Le regole
d’amore):
I. Nonn è giusta scuda d’amare per cagione di matrimonio.
II. Chi nonn è geloso, non può amare.
III. Niuno si può legare all’amore di due.
IV. Certo si è che l’amore sempre o menoma o crescie.
IX. Lo diritto amante non disidera sollazzi d’altro amante con buon cuore, se non del suo amante.
XI. Niuno dé perdere lo suo amore sanza sua colpa.
XII. Niuno può amare se non quello ov’è il suo cuore.
XIII. L’amore, dach’è palesato, rade volte suole durare.
XVI. Quando l’uno amante vede l’altro, di sicuro sì gli batte il cuore.
XVII. Lo nuovo amore caccia il vecchio.
XVIII. Solo lo senno è quello che fa degno catuno d’essere amato.
XXIII. Chi à pensiero del suo amore meno dorme e mangia meno, per le qua’ cose l’usare dell’amare
viene a fine quando giace col suo amante.
XXVIII. Non suole amare ch[i] è molto luxurioso.
XXIX. Il diritto amante sempre sanza riposo l’imagina il suo amante.
XXX. Nonn è vietata d’amare dui uomini una femina, e due femmine un uomo.
134
91.
D
Addii
ante non si accorge, sull’Eden, che Virgilio non è più al
suo fianco, anzi, si gira verso di lui per farlo partecipe
di quanto sta vivendo, come aveva fatto fino ad allora
per due cantiche, ma non lo trova più.
Il latino sta facendo marcia indietro, da solo, tutto il viaggio di ritorno
fino al Limbo. Il poeta fiorentino piange per la perdita, e Beatrice gli si
rivolge severa dicendogli che per ben altro dovrà piangere che per
l’abbandono della paterna guida.
Anche in Paradiso il pellegrino ultramondano rimane sorpreso: si gira
per rivolgersi a Beatrice, e, invece del suo magnifico volto, trova quello
di un anziano, “un sene”.
E lei? È al suo posto nella schiera dei Beati, per farsi ammirare, in tutto
il suo splendore, nel trono che i suoi meriti le hanno fatto ottenere.
È lontanissima: più lontana di quanto lo sarebbe chi dalle cime più alte
dei monti, “region che più su tona”, ficcasse lo sguardo nel più profondo
abisso marino: “in mare più giù s’abbandona”. Ma Dante la vede
nitidamente lo stesso, perché la sua figura non perviene offuscata dalla
presenza di aria. Ed ecco che si rivolge a lei per l’ultima volta con dei
versi magnifici:
O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in Inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant' i' ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
135
Tu m'hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt' i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l'anima mia, che fatt' hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.
Così si congeda definitivamente dalla sua amata, un letterale ‘a-ddio’
(Par. XXXI) dato che, per quanto fosse lontano, Dante riesce a rendersi
conto benissimo che lei lo guarda e sorride, ma poi distoglie lo sguardo
da lui e lo rivolge a Dio:
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l'etterna fontana.
136
92.
S
Un Congedo In Provenzale
alvo le lingue fittizie messe in bocca a Pluto e Nembrot,
l’unico personaggio che non parli la lingua del poeta che
scrive è Arnaut Daniel (Purg. XXVI), il trovatore occitano
segnalato come supremo cantore d’amore nel De Vulgari Eloquentia.
È famoso per l’elegantissimo congedo in provenzale dal dialogo col
pellegrino in bilico sulla cornice dei lussuriosi.
Presentato da Guido Guinizzelli come il più grande “fabbro” di versi
d’amore e superiore pure al collega lemosino Giraut de Bornelh, l’eredità
letteraria lasciata da questo elaboratissimo cantore è tra le più longeve e
durature.
Ad esso si rifanno anche poeti moderni quali: Thomas Stearns Eliot,
Ezra Pound ed anche vari italiani. Ecco i versi della Commedia
attribuitigli:
Tan m'abellis vostre cortes deman,
Tanto m’aggrada la vostra cortese domanda
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ch’io non posso né voglio a voi nascondermi
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
Io sono Arnaut, che piango e vado cantando
consiros vei la passada folor,
contrito contemplo la passata follia
E intravedo lieto la letizia che dinanzi mi attende
Ara vos prec, per aquella valor
Ora vi prego, per quella virtù
que vos guida al som de l'escalina,
che vi conduce in cima alla scala
sovenha vos a temps de ma dolor!
Ricordatevi in tempo della mia pena!
137
93.
R
Due Violenti Despoti Da Città
iconoscibili solo dal colore della chioma, una mora, l’altra
bionda, dato che sono immersi fino ai capelli nel sangue
bollente del fiume Flegetonte dove si puniscono i violenti
contro gli altri, Ezzelino III da Romano e Obizzo II d’Este (Inf. XII)
sono famosi per la loro efferatezza e crudeltà.
La fama di Ezzelino, fratello all’Inferno di Cunizza, ubicata, invece, come
beata in Paradiso, ghibellino di leggendaria ferocia e crudeltà, si
alimenta e protrae a lungo: Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio,
Ludovico Ariosto, Alessandro Tassoni, Percy Shelley e Oscar Wilde ne
parlano.
Il cronista Fra’ Salimbene de Adam lo definisce gran massacratore di
uomini e temuto addirittura più del diavolo “Hic plus quam diabolus
timebatur”. Albertino Mussato (c. 1315) lo dipinge come figlio del
diavolo, e la pubblicistica guelfa gli attribuirà il rogo di undicimila
cittadini di Padova e persino l’accecamento di bambini.
Morto Federico II, fu scomunicato da papa Alessandro IV, per efferatezze
ed eresia, nel 1254.
Di Obizzo II d’Este, si racconta, ma senza riscontri precisi, che avesse
fatto annegare in mare la madre ex lavandaia per la vergogna delle sue
umili origini, e stuprato tutte le donne di Ferrara, sorelle incluse.
Dante lo vuole ucciso per mano del suo stesso figlio, Azzo VIII,
mandante dell’omicidio anche di Jacopo del Cassero.
138
94.
L
Un Nobile Gesto
eggenda vuole che un gentiluomo, caduto in disgrazia,
aveva deciso di far prostituire le sue tre figlie, non avendo
modo di sfamarle.
San Nicola (Purg. XX), all’epoca giovinetto, ma poi veneratissimo santo
della cristianità, patrono di Bari e Vescovo di Mirra nella Licia (e pure
imparentato con la figura nordica di Babbo Natale: Santa Claus), per
aiutarle si recò per tre volte in una stessa notte a portare un sacco di
monete sufficiente ad evitare che le fanciulle finissero in strada.
Il genitore, grazie alla generosità del santo riuscì infatti a maritarle e a
salvare il loro onore.
95.
N
el
pregiudizio
Amore
della
poesia
cortese
l’amore
è
irresistibilità: “amor ch’a nullo amato amar perdona”,
ma
nel
Purgatorio
(Purg.
XXII)
Dante
corregge
esplicitamente il tiro sulla questione: “amore, acceso di virtù sempre
altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore”.
L’amore è tale quando è innescato da virtù ed ordinato al bene, e non
quando è forza incontrollabile che tiranneggia l’essere umano.
139
96.
D
La Scienza Delle Macchie Lunari
ante tratterà con rigore il problema delle macchie
lunari delegando a Beatrice l’esposizione della loro
natura e affermando di non credere alla favola che si
raccontava al tempo.
Eppure, in modo consono al luogo dove la menziona, è infatti tra maghi
e indovini, riferisce la leggenda popolare (Inf. XX) che le voleva originate
da Caino, che, maledetto da Dio, era stato confinato sulla superficie del
satellite e costretto a portare un fascio di spine sulle spalle.
La questione delle macchie lunari, “segni bui”, che rappresentavano un
problema alla presupposta perfezione degli astri e dell’universo
(questione discussa persino da Galileo, secoli dopo), viene risolto da
Beatrice, che, dopo aver confutato i discorsi erronei, non fornisce una
spiegazione in senso astronomico, ma metafisico: il moto e l'influenza
delle sfere celesti, infatti, dipendono dalle intelligenze angeliche.
I Cieli sottostanti all’Empireo e a quello delle Stelle Fisse, vale a dire
quelli dei sette pianeti, dispongono in differente modo le diverse virtù
che hanno ricevuto dall’alto: irradiando e riflettendo.
I giri dei pianeti non avvengono da soli, ma sono mossi da esseri dotati
di capacità intellettiva, appunto: le intelligenze angeliche. Il mondo
sensibile è quindi governato da una realtà intelligibile che dal Cielo
ottavo in giù, si manifesta in modo diverso e a questo si devono anche le
differenze tra le materie.
140
97.
T
Sognare Il Fuoco
ra i sogni (Par. IX) leggendari, accostati a quello antico
attribuito, nel mondo classico, ad Ecuba, la quale sogna
la città in fiamme prima di partorire Paride, destinato a
scatenare la guerra di Troia sottraendo la bellissima Elena a Menelao, ci
sono quelli, simili, della madre di San Domenico, che aveva sognato
fuoco a presagio dell’attività e del destino del figlio, che incendierà con
la sua parola il mondo, e quello della madre di Ezzelino III da Romano,
il feroce tiranno nel Flegetonte, che aveva sognato di dare alla luce una
fiaccola che incendiava tutta la regione, in questo caso per crudeltà,
però.
98.
L
Il Cerbero Dantesco
’aspetto del Cerbero dantesco (Inf. VI), che strazia i golosi,
“li scuoia”, “li squata”, ed assorda col suo latrato, è
particolarmente inquietante.
In lui i tratti attribuitigli da Virgilio di rabbioso cane da guardia
multicefalo, sono contaminati da attributi umani, le teste sono solo tre,
ma egli possiede: mani unghiate, barba unta e atra, tre facce, un gran
ventre. Il Cerbero dantesco è quindi in parte antropomorfo.
141
99.
Un Ladro Divenuto Centauro
All’Inferno
A
ll’Inferno, Caco (Inf. XXV) è un centauro separato, però,
nell’organizzazione militare e burocratica infernale, dai
suoi simili che pattugliano il Flegetonte, e confinato,
invece, tra i ladri.
Nella descrizione dantesca, egli è coperto di serpi sulla groppa –tante
quante non ne possiede la maremma intera- e ornato da un drago che
sputa fiamme, erto sul suo capo.
Il personaggio mitologico è protagonista di una delle dodici fatiche di
Ercole.
In Virgilio egli non è un centauro, ma è un mostruoso figlio di Vulcano,
che sputa fuoco e si dedica al ladroneggio nella zona limitrofa a dove
dimora: un anfratto dell’Aventino.
Tra i suoi furti aveva commesso l’errore di rubare ad Ercole una
mandria di vacche e tori rossi che a sua volta l’eroe aveva sottratto a
Gerione -la fiera bizzarra assunta all’Inferno ad allegoria della frode e
che trasporta volando i due poeti nell’abisso a imbuto di Malebolge.
L’astuzia di Caco nella sottrazione dei buoi fu quella di farli muovere
all’indietro, tirandoli per le code, confondendo le tracce che Ercole
avrebbe potuto seguire per rintracciarli. Ciononostante il potentissimo
semidio riuscì a localizzare i bovini grazie ai loro versi e, per riprenderli,
dovette confrontarsi fisicamente col ladro che cercò di incenerirlo con
142
una fiammata, ma che fu afferrato dalla poderosa stretta dell’eroe e
morì stritolato da essa.
In Dante, che varia, la morte avviene per randellate: cento; anche se
verosimilmente, dice il poeta, non ne avrà sopportate cosciente e sentite
nemmeno una decina.
143
100.
“L
Un Rapimento D’Amore
a regina dell’etterno pianto” (Inf. IX) e
anche “la
donna che qui regge” (Inf. X) della profezia di
Farinata, “qui”, cioè all’Inferno, è la bellissima
Proserpina, la moglie di Plutone, il figlio di Saturno e Cibele, che il
brusco Dio, innamoratosi di lei, rapisce e conduce nell’Ade.
Regna col marito sul terzo dei regni di cui si compone l’universo e che
egli si spartisce coi fratelli, Giove e Nettuno.
È noto come, nel mito, ella trascorra solo sei mesi con lo sposo, nel
cuore della terra mentre nei restanti sei torna in superficie con la madre
Cerere che ne aveva chiesto la liberazione a Giove ed aveva ottenuto
questo compromesso.
Nei sei mesi in cui è chiusa sotto terra con lo sposo si avvicendano
autunno ed inverno, mentre nei restanti sei ella torna a far esplodere la
vita di primavera ed estate.
Le feroci Erinni, o Furie, (Tesifone, Aletto, Megera, che secondo una
leggenda nacquero dal sangue di Urano, fuoriuscito quando Crono lo
evirò) alle sue dipendenze, si mostrano a Dante, minacciose, sulle mura
di Dite quando i diavoli sbarrano loro il passo.
Così come succede con molti altri personaggi e Dei della mitologia
classica, o persino coi regni dei morti stessi degli antichi (Ade, Tartaro,
etc.) e i loro luoghi specifici (Stige, Flegetonte, etc.) anche gli Dei sono
assunti o assimilati da Dante, in qualche modo, nella cosmogonia
infernale.
144
101.
Il Malaugurio Innocuo Dell’Eneide
N
ella selva dei violenti contro se stessi, Dante viene a
sapere che si annidano le Arpie (Inf. XIII).
Il poeta riferisce al lettore come loro facciano versi e
straccino gli arbusti che contengono le anime suicide facendole soffrire
e sanguinare, ma procurando pure e al contempo uno sfogo alla
manifestazione del dolore stesso, orribilmente sigillato nel vegetale
animato.
Orribili rapaci con volti di donne, nell’Eneide, sulle Strofadi, smerdano
coi loro escrementi i cibi degli eroi troiani al seguito del prode Enea e
una
di
loro,
Celeno,
spaventa
tutti
con
una
profezia
che,
apparentemente minacciosa, si rivelerà, invece, innocua.
Avendo previsto che per terribile fame i troiani avrebbero finito per
mangiare le loro stesse mense, ciò che si verifica è solo che una volta in
Italia essi, finito il banchetto, si cibano anche di piatti commestibili
preparati con farro essiccato.
145
102.
D
Una Sposa “Infedele”
idone (Inf. V) è colei che, sbattuta dalla tempesta che
agita le anime lussuriose, “ruppe fede al cener di
Sicheo”, tradì la promessa di fedeltà fatta a suo marito
Sicheo morto e al quale, nonostante le proposte di matrimonio da parte
di Iarba, re dei Numidi, era rimasta fedele, fino all’arrivo di Enea, di cui
si finì per innamorarsi.
Cupido, sotto mentite spoglie, prendendo le fattezze di Ascanio, figlio
dell’eroe troiano, accende in lei l’amore.
Famosissimo e di straordinaria bellezza il verso virgiliano in cui la
regina riconosce il sentimento provato tanto tempo addietro da lei
stessa e ben riconoscibile, d’improvviso di nuovo accesosi nel suo petto:
“agnosco veteris vestigia flammae”, (riconosco i segni dell’antica
fiamma): il marchio di fuoco inconfondibile di chi ha amato.
Abbandonata da Enea, il quale deve seguire il suo destino di
“protofondatore” di Roma, Didone si uccide e finisce nell’Ade, dove si
ricongiunge col marito.
Didone viene vista da Enea, di passaggio per il Tartaro, mentre è in
visita ultramondana a suo padre Anchise, finito nei Campi Elisi. Lei
ignorerà l’eroe e freddamente non gli rivolgerà lo sguardo.
146
103.
A
Un Numero Incommensurabile
paragone della sterminata quantità di angeli presenti in
Cielo, Dante usa una figura piuttosto comune al suo
tempo, e che rimontava a un leggendario racconto
orientale.
In esso l’inventore del gioco degli scacchi (Par. XXVIII) chiese al re di
Persia, che voleva ripagarlo per l’impresa mirabile da lui portata a
compimento, la quantità di chicchi di grano corrispondente alla somma
totale del loro raddoppiamento per ognuna delle sessantaquattro case
della scacchiera a partire dalla prima con un chicco e successivamente
per ciascuna delle altre (la prima un chicco, la seconda due, la terza
quattro e così via per tutte).
Promesso alla leggera il compenso richiesto, che intuitivamente pareva
di poco valore e abbordabile, solo successivamente, al tentativo di
realizzare i calcoli esatti, il re si rese conto che tutti i granai del suo
regno non contenevano cereale a sufficienza.
Il numero in questione, infatti, è l’esorbitante cifra di due alla
sessanquattresima, meno uno.
Il numero delle intelligenze angeliche è ancor più grande: letteralmente
incommensurabile, eppure non infinito, posto che se così fosse, anche
l’esercito di angeli ribelli sarebbe infinito, essendone una percentuale di
circa il dieci, e quindi una porzione anche essa infinita dell’infinito.
147
104.
L
Questioni Angeliche
a conoscenza (Par. XXVIII-XXIX), il modo di conoscere,
degli angeli non è certo come quello degli esseri umani.
In essi non v’è scissione tra intelletto, volontà e memoria.
Nell’uomo, invece, alla seconda precede la prima: prima si conosce e poi
si decide.
Inoltre tali creature non hanno memoria, posto che conoscono tutto
direttamente presenzialmente in Dio.
L’angelo non intende per procedimento di astrazione delle specie, a
partire dalla percezione degli oggetti sensibili e non percepisce la
scissione tra passato e futuro. Quindi non ha bisogno di ricordare, ma
leggono direttamente dalla mente di Dio.
148
105.
L
Questioni Angeliche II
e differenze tra gli angeli (Par. XXVIII-XXIX) sono dovute
alla loro diversa vicinanza a Dio e in base ad essa sono
disposti in uno dei nove cerchi che Dante vede roteare
attorno al punto-Dio.
Nei primi due cerchi, i più veloci, ci sono i Serafini e i Cherubini, i terzi
sono i Troni, da dove rifulge il Dio giudicante.
Successivamente
a
questi
primi
tre
cerchi
seguono
quelli
di
Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli e Angeli.
La ripartizione dantesca segue pedissequamente (perché quella vera,
secondo il poeta e nell’economia del racconto) la classificazione che, in
materia, fece Dionigi l’Areopagita, il quale “più addentro vide l’angelica
natura e ‘l ministero”.
Interessante la storia di Gregorio Magno che, sul punto, si discostò da
quanto detto dall’altro autore e che, Dante viene a sapere da lui stesso,
una volta in Cielo e contemplata la verità, rise del suo stesso errore.
149
106.
I
n
Questioni Angeliche III
meno
di
venti
secondi
le
intelligenze
angeliche
si
separarono tra coloro, la grande maggioranza (90%), che
rimasero fedeli a Dio e coloro che seguirono Lucifero
insuperbitosi di sé.
Dante, come è noto “inventa” un terzo gruppo di angeli, confinato
nell’AntInferno con gli ignavi: coloro che rimasero neutrali, e che,
perciò, sono rifiutati tanto dai Cieli, che non vogliono essere meno belli
a causa della loro presenza imperfetta, tanto dai ribelli degli inferi, che
potrebbero su di loro, che non hanno saputo neppure prendere
posizione, trarre qualche motivo di vanto.
Ma bisogna tener presente che è la Grazia la causa del merito, e non
viceversa (Inf. XIX).
Il ricevere la Grazia è meritorio solo in proporzione all’affetto con cui si
dispone a riceverla.
Gli angeli che non si insuperbirono, e non seguirono Lucifero, quindi,
non furono beati a causa della loro fedeltà, ma della loro Grazia.
Rispetto a quelli neutrali, e quindi imperfetti, va precisato che seppure è
incontestabile che la sistematizzazione dantesca di essi come convitti
extrainfernali sia del tutto originale, l’esistenza del gruppo in sé non lo è
del tutto, se è vera l’esistenza di opere anteriori alla Commedia che
raccoglievano tale leggenda e se una di esse (riportata nel Parzifal di
Eschembach) narra come agli appartenenti di questo terzo gruppo
angelico fosse stato in principio affidata la custodia del Santo Graal: la
coppa,
secondo
alcuni di
smeraldo,
in
cui gocciolò
il sangue
taumaturgico del Cristo, e poi affidato a Giuseppe D’Arimatea.
150
107.
A
Un Vero Miracolo
lla morte di Gesù si racconta che il Sole si oscurò (Par.
XXIX) spontaneamente.
Dante aveva fede che ciò fosse successo davvero e che
fosse impossibile e errato ricercare spiegazioni scientifiche e fisiche che
potessero avere ragione sull’avvenimento che, invece, doveva essere
inteso semplicemente come miracoloso: oltre le meccaniche della natura
e prescindendo da esse.
A coloro che sostenevano invece che, forse, la Luna avesse potuto
tornare indietro di sei segni provocando una eclissi, Dante contestava il
fatto che essa avrebbe causato un fenomeno visibile solo in alcune
regioni terrestri e certo non planetario, come invece si afferma nei
Vangeli. È evidente qui come la meccanica delle eclissi, il cono d’ombra
che esse proiettano, fosse già conosciuta nel Medioevo.
Anche qui, come in altri passi dei due canti sugli angeli (XXVIII e XXIX
del Paradiso), il poeta tuona contro coloro, teologi, commentatori e,
peggio, predicatori (da strapazzo), che per smania di risultare originali e
affascinare le masse, si soffermano e procedono per sottigliezze,
mistificando la verità, a volte lineare, delle scritture.
Esempio celebre di beceri profittatori, dell’altrui ignoranza e semplicità,
sono i monaci Antoniani: dei “porci” che spacciano moneta falsa per
circuire gli ingenui ed ottenere i proventi che usano, non solo per
allevare i loro maiali (erano infatti noti per gli allevamenti di questa
specie animale, simbolo del diavolo tentatore con cui era ritratto il loro
capostipite San Antonio), ma pure i loro figli illegittimi e le loro
concubine.
151
108.
L
Uno Sdegnoso Epicureo Fiorentino
’accanimento dei fiorentini contro il ghibellinissimo eretico
epicureo Farinata degli Uberti (Inf. X) soprannome di
Manente degli Uberti, fu principalmente dovuto alla valida
manforte data per la vittoria dei ghibellini a Montaperti contro la sua
stessa città –Firenze-, ed è diventato leggendario.
Dante, che intrattiene con il politico di opposta fazione il famosissimo
dialogo, fa allusione alle vicende.
Farinata morì nel 1264, ma nel 1283 si celebrò contro di lui un
processo per eresia, che si concluse con la sua condanna postuma,
come eretico cataro. Nel Medioevo non era infrequente la celebrazione –
inutile e irrazionale- di processi contro estinti o contro animali.
Le sue spoglie, sepolte da diciannove anni nella chiesa di Santa
Reparata, e quelle di sua moglie Adeletta, furono esumate e gettate in
Arno, i loro beni confiscati agli eredi e questi banditi.
A causa della faziosità politica di Manente, gli Uberti tutti furono
sempre esecrati dal popolo e mai inseriti negli editti di condono e
amnistia, con tutto che quel fiero e autoritario personaggio avesse, come
Dante fa ricordare a lui stesso, difeso la città di Firenze, unico tra tutti,
quando gli altri –ghibellini di Pisa e Siena- si proponevano di
distruggerla completamente: “torre via Fiorenza”, raderla al suolo.
152
109.
Un Crudele E Infame Politicante
F
ulcieri da Calboli (Purg. XIV) politico sanguinario e
crudele, fazioso e opportunista, di cui il poeta sparla con
un suo antenato in Purgatorio, viene paragonato a
Polifemo (“assuetum rictus humano sanguine tingui”: aduso a intingere il
muso nel sangue umano).
Polifemo
è
il
leggendario
ciclope
che
nell’Odissea,
sentendosi
appartenere a una genia più forte addirittura di quella degli Dei stessi,
non si ritiene minimamente vincolato dalla pietas, né tantomeno dal
dovere di ospitalità e prende a divorare orribilmente uno ad uno i
compagni di Ulisse, promettendo a questo, per scherno, come “dono di
ospitalità”: che lo mangerà per ultimo.
Fulcieri fu podestà e Capitano del popolo di Milano, Parma, Modena,
Bologna e Firenze. In quest’ultima città continuò con ferocia, per parte
dei neri, le persecuzioni contro i bianchi, iniziate da Cante dei Gabrielli,
che aveva esiliato Dante, e da Gherardino da Gambara, per puro
interesse personale non si faceva scrupoli a uccidere.
153
110.
L
Una Amante Focosa
a sorella del tiranno all’Inferno Ezzelino III da Romano,
Cunizza
(Par. IX) era
nata
con una straordinaria
propensione all’amore, ed è assunta, infatti, pentitasi in
vecchiaia dell’eccesso di libido con cui trascorse una vita licenziosa, nel
cielo di Venere.
Ebbe tre mariti e numerosi amanti, tra i quali, pare, anche il trovatore
Sordello da Goito, che Dante vede in Purgatorio sulla valletta dei
principi, in disparte, e con cui fu protagonista di una stupenda
avventura tipicamente medievale.
Da lui, menestrello, fu infatti rapita e si favoleggia di una loro storia
d’amore.
Negli ultimi anni di vita, pentitasi dei suoi trascorsi e della sua vita di
facili
costumi
e
piaceri,
adottò
quella
di
mortificazione.
Morì
ultraottuagenaria a Firenze dove potrebbe darsi che Dante abbia avuto
modo di conoscerla ed elaborare la storia della sua salvezza eterna.
154
111.
S
Il Cardinale Ateo
econdo epicureo segnalato da Farinata come compagno di
pena nell’avello -il sepolcro- che lo accoglie, dopo Federico
II di Svevia, è il cardinale Ottaviano degli Ubaldini (Inf.
X), nominato semplicemente “il cardinale”, come era costume appellarlo
all’epoca.
Di nobile famiglia ghibellina, parte politica che egli appoggiò sempre e
senza flessioni o tentennamenti in vita, appartiene a quel gruppo di
eretici che “l’anima col corpo morta fanno”, cioè che pensano che
l’anima, se esiste, muoia col corpo.
L’Ubaldini soleva sostenere: “io posso dire, se è anima, che l'ho perduta
per la parte ghibellina”.
Fu, infatti, persona mondana e certamente atea nonostante la carica
ecclesiastica.
Inviato da Papa Alessandro IV a combattere contro il figlio naturale di
Federico II e Bianca Lancia, il famoso Manfredi di Sicilia, si accordò con
lui in una pace tanto poco conveniente che il pontefice non fu in grado
di accettarla.
155
112.
E
Un Antico Politico Senza Pari
sempio di estrema integrità pubblica e privata dell’antica
Repubblica romana è Tito Quinzio, o Cincinnato (Par.
IX e XV), così chiamato per il “cirro negletto” o ciuffo
arruffato, etimologia errata e di probabile origine “uguccionesca”, come
l’altra erronea, quella degli ipocriti, -l’autentica vale: “ricciuto”.
Egli, eletto dittatore, magistratura straordinaria che a Roma era
temporanea e conferita in momenti di particolare emergenza bellica,
rinunciò ad ogni compenso ed onore dopo aver condotto l’esercito
romano alla vittoria sugli Equi. Così come aveva lasciato l’aratro per
prendere le redini della guerra, dismise l’attività politica e tornò alla
coltivazione del suo orto dopo il successo. Esattamente come accade
ancora oggi!
156
113.
G
Politico Fiorentino Sodomita
uido Guerra (Inf. XVI) che “fece col senno assai e con la
spada”, sesto dei conti Guidi di Dovadola, fu condottiero
di parte guelfa di Firenze.
Cacciò i ghibellini da Arezzo nel 1255 e condusse contro Manfredi a
Benevento i fiorentini divenuti esuli, come lui, a seguito della
sanguinaria battaglia di Montaperti.
È tra i tre vecchi politici fiorentini e sodomiti che Dante tratta con la
deferenza raccomandatagli dalla sua guida mentre girano in tondo come
fanno i lottatori, studiando la presa prima di lanciarsi nel contatto
fisico. I tre sono costretti a questa strana “danza” dato che non possono
fermarsi per prescrizione penale divina se non vogliono incorrere nella
punizione aggiuntiva di sopportare per cento anni la pena riservata ai
bestemmiatori, i quali sono puniti come loro (e gli usurai) “sull’orribil
sabbione” e colpiti dalla pioggia di fuoco che cade, lenta come neve
alpina quando non c’è vento, ma distesi e senza potersi muovere e
riparare un minimo dalle bruciature.
157
114.
U
Il Simbolo Del Timone
na leggenda medievale voleva che la croce di Cristo
fosse stata costruita con il legno di un albero nato da
un virgulto di quello proibito del Paradiso Terrestre.
Lo stesso legno che aveva portato all’uomo la morte, portava, infine,
anche la redenzione.
Il timone (Purg. XXXII) del carro allegorico che Dante vede nella
processione a cui presenzia sul Paradiso Terrestre, sarebbe fatto dello
stesso legno.
Se così fosse il timone sarebbe simbolo della croce e con esso Cristo
stabilirebbe un “ponte” tra l’umanità e la giustizia divina offesa da
Adamo.
115.
D
Un Vero Nobiluomo Dell’Epoca
i Ugo di Toscana, morto nell’anno milleuno, margravio
di Ottone III -titolo usato sotto il Sacro Romano Impero
e corrispondente a quello di marchese, dal tedesco
mark e graf, “conte della marca”- si narrava che, grandissimo uomo e
generoso, avesse fatto costruire ben sette badie, regalate poi alla città.
I fiorentini del tempo di Dante ancora ne celebravano la generosità
all’anniversario della sua dipartita, il giorno di San Tommaso.
158
116.
L
Un Amore Disperato
a ninfa Eco (Par. XII) non corrisposta nel suo amore per il
bel Narciso (Inf. XXX, Par. III), finì per consumare se
stessa nel disamore tanto che di lei rimasero solo ossa e
voce.
Le ossa, poi, furono dagli Dei mutate in pietra, e solo la voce rimase viva
di lei, vagando nell’aria.
Narciso, ripreso innumerevoli volte in poesia, finì, come è noto, per
innamorarsi del suo stesso riflesso, mentre si specchiava nella fonte.
Memorabili, ad esempio, i versi d’amore che riprendono il mito, nel
trovatore Bernart de Ventadorn, e nella già citata “can vei …”
rivolgendosi all’amata:
miralhs, pus me mirei en te,
Specchio, da quando in te mi specchiai
m’an mort li sospir de preon,
m’han distrutto i sospiri profondi (d’amore)
c’aissi·m perdei com perdet se
sicché mi persi come si perse
lo bels Narcisus en la fon.
il bel Narciso nella fonte.
È
senza
dubbio
stupendo
il
verso
ovidiano
che
descrive
l’innamoramento del giovane per se stesso: “dumque petit, petitur,
pariterque accendit et ardet”, (e così desidera ed è desiderato e accende e
brucia al contempo).
Ad esso si riferisce Dante, paragonando due situazioni diverse, quando
dice in Paradiso di esser caduto nell’errore opposto a quello realizzato
dal giovinetto, il quale si innamorò dell’immagine riflessa credendola
reale, mentre lui, crede riflessi dei volti reali, tanto che si gira per
cercare le persone erroneamente credute ad origine delle figure che
osserva e che lo osservano, ma che non sono affatto dei riflessi.
159
117.
L
Come La Sibilla
a visione ultima di Dante (Par. XXXIII) scema nella sua
mente e, per descrivere tale spegnimento nella memoria,
egli isola due paragoni, uno attinto dal mondo naturale,
l’altro dal mito.
Conferisce con ciò al fenomeno uno stupendo alone di mistero e levità,
utilizzando: neve e foglie, sciogliersi e confondersi nel vento:
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
La seconda figura è ripresa dall’Eneide, dove la maga Sibilla, prima di
accompagnare Enea da suo padre defunto, è vista esercitare le sue arti,
incurante di riordinare le foglie sparse dal vento su cui legge le sue
vaghe profezie: “…verum eadem, verso tenuis cum cardine ventus impulit
et teneras turbavit ianua frondes…”.
Il verso dantesco fa allusione al modo di divinare di lei, che, nella sua
grotta, disponeva ordinatamente le foglie per scrivere il responso e che il
soffio del vento disperdeva e cancellava per sempre.
160
118.
P
Leggende Su Origini Etniche
are probabile che dinanzi al caminetto, la sera in famiglia,
si raccontasse la leggendaria fondazione di Firenze,
avvenuta,
secondo
il
mito,
da
parte
dei
Romani
direttamente discendenti da Enea, il quale, come narra l’Eneide, fuggito
da Troia in fiamme arriva in Italia, e dà l’abbrivo alla fondazione di
Albalonga e poi definitivamente a quella di Roma.
Il mito popolare voleva che, distrutta Fiesole, città dei partigiani del
controverso Catilina, i romani scendessero per fondare, appunto la città
di Firenze.
Dante, che riprende il racconto pur consapevole del fatto che si tratta di
una fantasia, attribuisce al residuo fiesolano componente della
popolazione (Inf. XV, Par. XV e VI) l’inclinazione all’ingratitudine e alla
malignità dei suoi concittadini, mentre, per bocca di messer Brunetto,
che narra questa leggenda nel suo Tesoro, riserva esplicitamente a sé, e
alla sua integrità invidiata, origine dai romani virtuosi.
I fiorentini sono “lazzi aspri”, rozzi e simili a capre, mentre Dante è il
“dolce fico” nella tirata del suo maestro Bunetto.
Altra leggenda, pure essa ripresa da Dante (Inf. XXV), vuole che Pistoia,
“degna tana” di una bestia del calibro di Vanni Fucci, sia stata, invece,
fondata proprio dai resti delle truppe di Catilina sconfitte presso
“Campo Picen” (che però non è nel Piceno).
Ciò giustificherebbe la rozzezza di modi e la pochezza d’animo dei suoi
abitanti.
161
In Dante, Piceno è attribuito alla zona di Pistoia per confusione di
quanto riporta Sallustio, su Metello quando muove contro Catilina. Il
Piceno è notoriamente la zona di Ascoli e non di Pistoia.
162
119.
I
Gli “Avelli” Degli Eretici
l sepolcreto (Inf. X) che accoglie gli eretici, un campo
disseminato di tombe aperte e che saranno sigillate alla
fine dei tempi e per l’eternità, somiglia a quello provenzale
di Arles, anticamente luogo di sepoltura romano e poi cimitero
cristiano.
La leggenda medievale, narrata da Boccaccio, Benvenuti e altri,
voleva che le tombe fossero sorte miracolosamente, una notte, per
dar sepoltura ai guerrieri cristiani caduti sul campo contro i
Saraceni.
120.
Una Vendetta Alquanto Esagerata
E
liseo è indicato nella Commedia in un emistichio
come “colui che si vengiò con gli orsi” ovverosia come
quel profeta che si vendicò per mezzo di orsi, dato,
che, da racconto biblico, egli maledisse nel nome di Dio dei
ragazzini che sbeffeggiavano assai insolentemente la sua calvizie.
Due orse allora uscirono dalla boscaglia e sbranarono quarantadue
degli schernitori, ragazzi!
163
121.
I
I Geomanti
geomanti (Purg. XIX) letteralmente dal greco “indovini della
terra”, traevano i loro oroscopi da segni tracciati a caso sulla
sabbia,
o
con
sabbia
gettata
su
una
superficie,
congiungendoli con linee che permettevano di identificare sedici diverse
figure, dal nome latino, e di significato oroscopico e divinatorio.
L’origine di questa “arte” è però orientale, persiana, e si diffuse e praticò
anche in Italia, per intermediazione araba, fin oltre il Rinascimento.
Una delle figure conosciute della geomanzia era la Fortuna Mayor, a cui
probabilmente si riferisce Dante.
Essa formava una figura simile a quella ottenuta unendo parte della
Costellazione dell’Acquario con parte di quella dei Pesci.
Tale figura è osservabile solo all’alba di primavera quando i due segni
sorgono e sono visibili insieme (sono uno successivo all’altro, infatti)
poco prima che la luce del giorno ne sovrasti la brillantezza.
164
122.
I
Gerione
l Gerione dantesco è una bestia alata e mostruosa, dai
molteplici attributi allegorici, che ne fanno un’immagine di
frode, ma nel mito lui era un re, di una o varie isole iberiche,
composto di tre corpi giganteschi uniti al ventre, o semplicemente
tricefalo.
Il mito classico lo vuole nipote di Medusa e sconfitto da Ercole che, su
incarico di Euristeo, era andato a prendere il gregge di bovini rossi che
lui custodiva ed alimentava con carne umana di malcapitati che
ospitava per poi uccidere.
Si tratta dello stesso bestiame che poi Caco sottrasse proditoriamente
all’eroe, perdendo a causa del furto e a sua volta, la vita.
Gerione è presente anche nell’Averno virgiliano che lo definisce: “forma
tricorporis umbrae”.
In Boccaccio egli accoglieva gli ospiti benevolmente e poi li assassinava
e derubava nel sonno. A questa ultima versione forse Dante si spira per
farne la personificazione della frode e sfigurarlo terribilmente.
In Dante, ricordiamolo, esso è una bestia demoniaca con volto d’uomo
giusto, corpo di serpente bizzarramente arabescato come un ricco
tappeto turco o dei tartari, zampe pelose da belva, e una coda di
scorpione biforcuta.
165
123.
D
Un Incontro Tra Grandi Uomini
ella vita di San Francesco (Par. XI) Dante isola alcuni
momenti precisi, ed il quarto di essi riguarda la
leggendaria visita che egli realizzò al Sultano Curdo al-
Malik al-Kāmil, mentre, nel suo viaggio in Terrasanta del 1219, durante
la quinta crociata, col seguito di dodici frati, si era mosso per cercare di
convertire alla fede cristiana il popolo musulmano.
Dell’incontro si narra che il sultano lo ricevette con grande cortesia, lo
ascoltò con attenzione e senza ostilità, e che accompagnò con vari doni
il diniego alla conversione che quello gli proponeva, apprezzando
comunque gli sforzi del sant’uomo per metter fine ai combattimenti e
allo spargimento di sangue.
124.
C
Il Senso Di Avere Una Guida
ome Dante è guidato da Virgilio, così il protagonista del
poema di quest’ultimo, Enea, era stato accompagnato
nell’Averno dalla Sibilla (Inf. IX). Anche la maga
rassicura l’eroe troiano di esser già stata e per due volte in quel triste
luogo, ed anche lei fa coraggio al suo accompagnato al momento di
entrarci, proprio come fa Virgilio prendendo per mano Dante.
166
125.
L
Una Vendetta Pietosa Ed Empia
’epigono Alcmeone (Par. IV, Purg. XII) pur di non
mancare alla promessa fatta a suo padre Anfiarao, caduto
nella guerra dei sette re contro Tebe, uccise sua madre
Erifile: pietoso e impietoso al contempo.
Lei, infatti, pur di avere la collana di Armonia realizzata da Vulcano,
aveva rivelato a Polinice il nascondiglio dello sposo Anfiarao, che era
deciso a evitare la spedizione dato che, indovino che era, aveva
presagito che vi avrebbe trovato la morte.
Zeus, difatti, con un fulmine aprì una voragine da dove lui precipiterà,
direttamente all’Inferno dantesco, come anche succede al compagno di
battaglie Capaneo.
Anfiarao, però, a differenza del gigante blasfemo, finirà tra i maghi e
indovini, che per pena girano per la loro Bolgia con la testa totalmente
ruotata all’indietro di centottanta gradi.
Prima di morire sua madre maledisse Alcmeone, e lui impazzì, inseguito
dalle Erinni (o Furie), urlanti Dee del rimorso, che Dante vede sulle
mura di Dite.
167
126.
N
Ucciso Da Un Morto
esso, centauro che pattuglia il Flegetonte con il famoso
precettore Chirone e Folo, si vendicò da sé della sua
morte, ricevuta per mano del possente Ercole (Purg. IX),
che lo aveva ucciso con un dardo avvelenato del sangue dell’Idra di
Lerna, mentre cercava di rapire e violentare sua moglie Deianira.
Sfruttando la gelosia della consorte di lui, che non sopportava la
promiscuità del suo indomabile e incontenibile sposo, le fece dono di
una camicia intrisa del suo sangue, che a detta sua, gli avrebbe fatto
riconquistare l’amore del marito.
Se gliela avesse fatta indossare qualora lui avesse mostrato interesse
per altre donne, lui sarebbe tornato da lei.
Quando Ercole fu preso dalla passione per la bella Iole, figlia del re della
Tessaglia, lei lo indusse ad indossare la camicia avvelenata, e l’eroe
impazzì e arse per il contatto col sangue tossico del centauro che egli
stesso aveva ucciso.
168
127.
N
Meteorologia Medievale
ella scienza del tempo, e in Ristoro d’Arezzo, nella sua
“Composizione del mondo”, i fulmini e le stelle cadenti
erano vapori ignei (o accesi) e le nubi vapori acquei
(Inf. XXV, Purg. V).
Nella meccanica della meteorologia Dante sembra aderire alla scuola
dell’autorevole Aristotele, la cui parafrasi troviamo in Alberto Magno.
Riassumendo, i vapores caldi e secchi esalanti dalla terra, mescolati ai
vapori freddi e umidi, (nella teoria umorale caldo-freddo e secco-umido,
sono coppie di attributi dei quattro elementi: aria-fuoco-terra-acqua)
una volta ascesi alla zona fredda dell'aria, rimangono in parte
imprigionati nelle cavità dei vapori umidi delle nubi.
Queste
ultime,
man
mano
che
si
raffreddano
e
condensano,
comprimono al loro interno il vapore o spiritus secco e sottile fino a
provocarne la violenta fuoriuscita, con l'effetto del boato (il tonitruum) e
dell'improvvisa inflammatio o ignitio, accensione.
Tale fenomeno fiammeggiante veniva poi distinto in: bagliore vermiglio
(coruscatio), balenante saettare in aria (fulgur) e impetuosa caduta a
terra (fulmen).
La meccanica dei vapori è pure responsabile del maggior rossore di
Marte in certe situazioni climatiche, quando i vapori sul mare sono più
spessi, cioè al mattino.
Marte nel Convivio è descritto come il pianeta che “dissecca e arde le
cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco” (Cv II XIII 21).
169
128.
I
Un Colore Particolare
l colore perso, citato in molteplici occasioni nella Commedia
(Purg. IX) è una tinta rosso scuro, sul granata, che Dante nel
Convivio definisce un “colore misto di purpureo e di nero, ma
vince lo nero”.
Più che “persa”, quindi totalmente buia e oscura è l’acqua dello Stige,
sul suo fondo gorgogliano gli accidiosi, quelle anime avvolte dal nero
fumo -nebbia fitta- che in vita gli avvolgeva lo spirito.
Perennemente tristi sulla Terra, pure dinanzi al brillare del Sole, ingrati
ontologicamente, ora sono avvolti dal nero fango della palude (“belletta
negra”), costretti a cantare, senza terminarla per l’acqua che gli penetra
in gola, una nenia, una parodia di liturgia.
170
129.
I
Il Fuoco
l fuoco, spesso usato in Dante anche come simbolo di ira, ma
anche di amore (ardente), nella scienza medievale, è materia
indefinita la cui forma è la fiamma, come l’anima, separata
dal corpo prende forma nel corpo etereo (Purg. XXV).
Esso è usato anche per descrivere la natura dell’amore.
In terzine molto controverse e costellate di termini filosofici sono chiariti
due
momenti
del
fenomeno
dell’amore,
grossomodo:
la
facoltà
conoscitiva umana ricava dalla realtà l’immagine che poi ripiega nella
propria mente, cioè conosce astraendo dalla realtà sensibile una
immagine.
Questo momento è preliminare all’amore, posto che per la filosofia
scolastica l’uomo ama solo ciò che conosce.
Successivamente, ecco che dalla conoscenza nasce l’amore, l’animo,
rivolto verso l’immagine, si inclina verso di essa riconoscendola amabile
e passando così dall’amore naturale, innato, a quello d’animo.
Questo secondo momento, l’animo inclinatosi verso l’oggetto amato, è
paragonato al fuoco che si dirige verso l’alto, per sua forma che è creata
con la tendenza a salire.
Il fuoco però non è dotato di facoltà di scelta, mentre l’uomo sì.
171
130.
D
Invocazioni Di Dee Pagane
ante, come è noto, invoca le Muse per averne l’appoggio
nella stesura della sua ardua opera.
Prima di entrare all’Inferno le invoca genericamente
tutte, lanciando poi la “sfida” alla sua “mente che non erra” (di cui si
dovrà palesare la “nobilitate”), e tirando in ballo anche l’alto ingegno di
cui sa di essere dotato.
All’inizio del Purgatorio torna a rivolgersi a loro consacrandosi
integralmente, e chiedendo l’appoggio specificamente di Calliope,
somma tra le Dee.
Infine, per affrontare l’impresa di raccontare il Paradiso, dice di aver
bisogno dell’appoggio di ambedue le cime del Parnaso, vale a dire
d’Elicona, e di Cirra.
Nell’una vivono le nove Muse, nell’altra il Dio Apollo stesso.
La prima cima, o “giogo” fa conoscere le cose temporali, la seconda,
quelle eterne.
Apollo, quindi, ispirerà le cose divine, le Muse quelle poetiche.
In momenti particolari dell’opera, comunque, realizza altre invocazioni:
una specifica è presente anche sulla cima del monte Purgatorio (Purg.
XXIX) dove, prima si rivolge a tutte loro, ricordando di aver sofferto per
esse fame, freddo e sonno, poi chiede aiuto a una in particolare di loro
nove: Urania. Lei è preposta alla conoscenza degli astri e alla scienza
celeste (costellazioni e loro influssi).
172
131.
E
Un Erudito Beato
lio Donato (Par. XII) grammatico del IV secolo autore del
diffusissimo libro di testo scolastico Ars Grammatica, il
corso di grammatica latina più completo dell’epoca, e
distinto in Ars minor, grammatica elementare, e Ars maior, che spazia
dall'alfabeto ai tropi, e anche commentatore e biografo di Terenzio e
Virgilio, si trova tra teologi e profeti, i sapienti del Cielo del Sole.
La sua ubicazione non va presa come una stravaganza, bisogna infatti
ricordare come tra le sette arti liberali, le quattro del quadrivio e le tre
del trivio, la grammatica fosse la prima. Le artes sermocinales:
grammatica, retorica, dialettica; e le artes reales: aritmetica, geometria,
astronomia, musica.
173
132.
D
Malcostume Ecclesiastico
opo il Vangelo, la massima autorità per la verità sono
gli scritti dei dottori della Chiesa: con essi e per essi si
medita sulle Sacre Scritture e si guida il gregge dei
credenti verso il Vero.
Invece di dedicarsi a questa altissima attività, Papi e cardinali
trascurano i testi che trasmettono la fede e si dedicano alle decretali
(Par. IX): i testi di diritto canonico, strumento del potere temporale.
Vennero così chiamati i decreti pontifici, successivi alla Concordantia
discordantium canonum di Graziano, detto “di Chiusi”, ma invero di
Orvieto, che sistematizzò tutte le leggi ecclesiastiche della tradizione.
La pratica delle decretali, che divennero presto strumento di esercizio
dell’avidità attraverso il diritto civile, fu oggetto di critiche e satire, già
alla metà del secolo XII.
San Bernardo, nel suo De Consideratione (ma Dante non pare
conoscerlo) ammoniva il papa Eugenio III a “reprimere gli abusi di litigi
e cavilli legali nella vita della Chiesa e, specialmente, nell'attività
giurisdizionale accentrata in Roma”.
Il grande decretalista Enrico di Susa, l'Ostiense, viene, esemplarmente,
nominato (Par. XII) come oggetto di un affanno di studi tutto rivolto a
conseguire successi e vantaggi mondani.
174
133.
L
ricavate
Astronomia Di Origine Araba
e nozioni di astronomia, da cui Dante attinge per
trapungere tutta l’opera di note tecniche e scientifiche e
esatti rilievi orari e astronomici, sono probabilmente
dal
manuale
arabo
dell’astronomo
Alfragano:
Liber
de
aggregationibus stellarum.
Tra esse il Cielo di Venere, per esempio, (Par. IX) è designato come
quello in cui “s’appunta”, termina, il cono d’ombra proiettato dalla Terra
nello spazio.
In verità il cono d’ombra terrestre è molto meno esteso di quanto
vorrebbe l’antico: un milione e mezzo di chilometri, fronte alla distanza
di Venere di cinquanta milioni di chilometri.
E ancora: il calcolo delle volte che Marte è passato nel segno del Leone,
(580) dal giorno dell'Annunciazione a quello in cui nacque il beato
cavalier Cacciaguida –il bisavo di Dante-, è eseguito sulla scorta di
quanto calcolato dall’arabo stesso, che individua in 687 giorni un anno
marziano, ed essi equivalgono, nel caso specifico, a 1091 anni solari
terrestri.
Sempre tramite Alfragano e il suo testo, Dante avrebbe potuto avere
notizia delle tre stelle delle costellazioni australi della Nave e
dell’Eridano con cui sono molto incertamente identificate le “tre facelle”
del Canto Primo del Purgatorio.
175
134.
A
Decrepitezza Perpetua
urora, la Dea del mattino, si invaghì del bel figlio di
Laumedonte, fratello di Priamo, Titone (Purg IX) lo rapì e
presolo in sposo ottenne per lui da Giove l’immortalità.
Dimenticò però di chiedere l’eterna giovinezza e quindi quello continuò
ad invecchiare inesorabilmente. Da questo mito l’appellativo di Dante
“antico” al riferirsi a lui.
135.
P
Il Pianeta Venere
ur sapendo che si trattava della stessa stella, il pianeta
Venere (Par. VIII) aveva, presso gli antichi, due nomi
diversi a seconda che apparisse di sera o al mattino:
Vespro e Lucifero.
Il Sole pare corteggiare Venere mentre il pianeta appare nel cielo,
precedendolo all’alba e dandogli le spalle e seguendolo appena dopo il
tramonto quando si lascia “guardare in volto”.
176
136.
Una Frase Forzata, Ma Saggia
A
nche in Purgatorio, come all’Inferno, assieme agli avari ci
sono i prodighi.
Tra essi Dante incontra il poeta Stazio, giusto nel
momento in cui finisce di scontare la sua pena.
Della prodigalità di Stazio in vita non si hanno notizie altre che una
indiretta allusione di Giovenale, il quale riporta che se lui –Stazio- non
avesse venduto i diritti di una sua opera inedita, non avrebbe avuto di
cui sfamarsi.
Interessante, tra tantissime altre questioni che fanno amare questo
personaggio (ci si affeziona davvero) come Stazio affermi di essere stato
indotto a riflettere sul suo peccato, e a pentirsene e correggerlo,
meditando su un passo dell’Eneide di Virgilio: cioè sull’opera di un
pagano da cui già aveva attinto il necessario per la sua intima e occulta
conversione al cristianesimo (invenzione di Dante questa, come è ovvio,
ma sulla scorta di un leggendario pregiudizio: è famoso che l’egloga IV
delle Bucoliche fosse ritenuta fonte di varie conversioni al cristianesimo.
Addirittura il fatto che Virgilio non fosse cristiano aveva fatto avvistare
da qualcuno San Paolo in lacrime sulla sua tomba).
Torniamo
alla
frase.
Nell’episodio
di
Polidoro,
assassinato
da
Polimnestore, e tramutato nel cespuglio sanguinante, da cui Dante
riprende l’idea dei pruni della selva dei suicidi, il poeta fa dire: “Quid
non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?” -a cosa non spingi il cuore
degli uomini, tu esecrabile fame dell’oro?-. Dante, forzando il senso
lineare della frase, lo ribalta facendone una invettiva contro la
prodigalità, invece che contro l’avidità, e conferisce al termine sacer il
177
senso errato di “sacro”, invece che quello corretto di esecrabile o
esecrando. In tal senso fa dire a Stazio (Purg. XXII) “Perché non reggi tu,
o sacra fame de l’oro, l’appetito dei mortali?”; cioè il saper gestire con
rettitudine le ricchezze, saperle rispettare ed amministrare con saggezza
e oculatezza.
178
137.
E
Ecuba, Una Regina Del Medioevo
cuba (Inf. XXX) è la triste moglie, in seconde nozze, di
Priamo che vede morire tutti i suoi figli: gli ultimi Ettore
e Polidoro.
Secondo un mito diede a Priamo, diciannove figli, i più conosciuti oltre
Ettore e Paride, sono: Deifobo, Eleno, Polidoro, Cassandra, Polissena.
Il resto della discendenza il re la aveva avuta da altre donne, concubine
e schiave fino ad arrivare al leggendario numero di cinquanta figli.
In Euripide, però, i cinquanta figli di Priamo sono addirittura tutti frutto
di relazioni con Ecuba.
Dopo la caduta di Troia la regina dovette seguire Ulisse come schiava.
Fu nel Chersoneso Tracico che scoprì il cadavere del suo ultimo figlio
ancora in vita, Polidoro, assassinato dal re Polimestore a cui era stato
affidato con molte ricchezze, purché lo salvasse e che quello aveva,
invece, ucciso per pura avidità.
Dopo la atroce scoperta, Ecuba, avvicinato con una scusa Polimestore
con i figli, e con l’aiuto delle altre donne troiane prigioniere, uccise la di
lui discendenza e accecò il padre, gli strappò gli occhi.
Poi, trasformata in cagna, si gettò in mare. In una notissima canzone
medievale, -Oh Fortuna, dei Carmina Burana- è citata ad esempio di
vicenda sfortunata e truce, sottomessa ai colpi della sorte.
179
138.
S
Viaggiatori Ultramondani
olo Dante fa un viaggio attraverso tutti e tre i regni dei
morti, molti altri però sono scesi agli inferi, o hanno
avuto visioni del Paradiso.
Anzi quello dell’esplorazione dell’altro mondo potrebbe addirittura
assumere il valore di sottogenere letterario a sé stante.
Tra i più famosi personaggi oltre a San Paolo ed Enea, citati
esplicitamente nel canto I dell’Inferno proprio per esprimere la sua
stessa titubanza –di Dante- ad intraprendere un percorso tanto
impegnativo e riservato, fino ad allora, solo a grandi personaggi della
vicenda umana, si conosce anche la storia di Ulisse che, nella terra dei
Cimmeri, abitanti di un non ben individuato “settentrione”, scende nel
Tartaro per recarsi ad incontrare Tiresia e dove parla anche con sua
madre.
180
139.
L
Tre Facce
ucifero (Inf. XXXIV), il re (“vexilla regis prodeunt”),
l’imperatore (“’mperador del doloroso regno”) ha tre facce,
una nera, una gialla, e l’altra rossa, è una antitesi
trinitaria fatta di impotenza, ignoranza e odio.
In Dante però, dato che nella sua opera non si deflette mai dalla
questione politica –la politica e la storia sono guidate e osservate dal
suo accigliato Dio- ecco che Lucifero si occupa personalmente di due
personaggi storici responsabili di tradimento politico. Oltre a Giuda,
maciullati nelle altre due fauci e spellati dagli artigli del mostruoso
demone, si trovano Bruto e Cassio.
Il primo peccatore, Giuda, ha tradito la maestà divina, e gli altri due
quella imperiale.
Bruto, è il figliastro di Cesare che cercò di restaurare la Repubblica e si
uccise dopo la rotta di Filippi subita per mezzo di Ottaviano.
Cassio (Longino) è il suo amico e altro congiurato contro Cesare,
descritto per errore (perché confuso con Lucio Cassio, che seguì
Catilina) come robusto e corpulento.
181
140.
I
Quando I Sogni Dicono Il Vero
l verso: “…presso al mattin del ver si sogna”, nell’attacco a
invettiva contro Firenze, dove Dante finge di aver sognato la
distruzione dolorosa, ma ineluttabile, della sua opulenta e
arrogante città, allude a una antica credenza, comune anche nel
Medioevo, secondo la quale i sogni (Inf. XXVI Purg IX) fatti verso le
ultime ore della notte, e sul limitare dell’alba, sarebbero i più veritieri,
dato che l’anima è più lontana dalle impressioni sensibili ricevute
durante la giornata.
L’idea ha ascendenze antiche, per esempio Ovidio: “Namque sub aurora
iam dormitante Lucina, Tempore quo cerni somnia vera solent”, ma ha
anche origini orientali, neoplatoniche-arabe.
182
141.
D
Vicende Pre-eroiche
al momento che sapeva che il figlio avrebbe perso la
vita nella guerra di Troia, presa da apprensione
materna, Teti, rapì il dormiente Achille (Purg. IX) e lo
nascose da Chirone, il saggio centauro pedagogo, sull’isola di Sciro,
affinché si salvasse.
Lì dimorò alla corte di re Licomede, assieme alla figlie di lui, travestito
da fanciulla –alquanto umiliante!
Fu in quella occasione però che concepì con la bella Deidamia il crudele
Pirro, il quale nell’Eneide entra “insultans” nella rocca invasa per mezzo
del trucco del cavallo, e fa scempi, a Troia.
È lui che uccide, tra gli altri Priamo e rapisce Polissena e forse è lo
stesso a cui Dante si riferisce facendolo nominare tra i violenti a lesso
nel Flegetonte.
Suo padre Achille stette in pace e al sicuro nel suo rifugio prebellico fino
a quando, con un trucco, non fu scoperto dallo scaltro Ulisse, che lo era
andato a cercar lo per condurlo alla gloria eterna dei campi di battaglia.
Si narra come per riconoscerlo tra le fanciulle, facesse recapitare tra
vari abiti in dono alle stesse anche una spada. Il giovane naturalmente
attratto da essa non seppe resistere, e branditala finì per svelarsi.
A quali prototipi maschili siamo oggi abituati? Il mito racconta che
Achille, avendo dovuto scegliere e essendogliene offerta la possibilità,
con grave dolore per la madre Teti, la semidea, preferì comunque
liberamente, a una vita lunga e anodina dove invecchiare e morire
nell’anonimato e la tranquillità, una morte precoce e cruenta, ma
eroica, diventando un eroe, forse L’eroe!
183
142.
L
Impudiche Selvagge
a Barbagia (Purg. XXIII) è una regione di Sardegna in cui
vivevano stirpi di Mauritani deportate lì dai Vandali, che
si dedicavano al ladroneggio.
È usata da Dante, ma non solo, ad antonomasia di terra dai costumi
barbarici, rozzi e primitivi.
Nella fattispecie viene accostata ai costumi dei suoi contemporanei
fiorentini, corrotti, e in particolare a quelli delle donne, impudiche al
punto da andare in giro mostrando i capezzoli, come potevano fare solo
le femmine preistoriche.
I costumi della Firenze dei tempi di Dante sono, per il poeta, addirittura
peggiori di quelli di una terra semiselvaggia, abitata da popoli ostili
all’ordine e al potere costituito e con donne incolpevoli della loro
impudicizia dato che ignare perché, appunto, ancora incivili.
184
143.
P
Le Dimensioni Contano
rima di essere interrotto dalla incomprensibile frase
dell’inebetito
gigante
Nembort,
Dante
realizza
un
ragionamento prolisso e che pare quasi dettato dallo
sgomento e dalla paura per avere a che fare, e dover presenziare alla
vista di creature tanto possenti e di dimensioni così spropositate come
lo sono i giganti del pozzo dove deve calarsi per visitare l’ultimo tratto di
Inferno e vedere Lucifero.
La Natura è certo stata previdente quando ha smesso di formare -quasi
fosse un’artista: “smise l’arte”- creature come i giganti, posto che
seppure non è paga del tutto e non si pente di sfornare elefanti, balene,
e consimili mastodonti (Inf. XXXI), a chi analizza sottilmente, non
sfuggirà la sua saggezza, dato che il vero pericolo si crea laddove alle
dimensioni,
e
alla
relativa
possa
fisica,
si
aggiunge
anche
la
caratteristica umana dell’intelletto e quindi della possibile cattiva
volontà.
Dice il poeta che contro l’unione di possa e cattiva volontà nulla si può,
posto che la capacità di nuocere diviene immensa.
In altra parte (Inf. XXIII, “Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa”) il pericolo
è diverso: qui i protagonisti sono i diavoli capeggiati da Malacoda, e il
male diavolesco, in questo caso, è rappresentato dall’unione, (“gueffa”
vale matassa) tra il sentimento dell’ira e mal volere: l’intenzione.
Per fortuna le prescrizioni divine impediscono ai diavoli assegnati ad
una Bolgia di uscirne e recarsi in altre –le regole le fa Dio dopotutto, un
divino burocrate e per quanto i diavoli recitino la parte arrogante dei
ribelli sono gli sconfitti e sono condannati pure loro- e così,
185
precipitandosi giù senza titubanze, i due poeti –Dante e Virgilio
ovviamente- riescono a cavarsela per un pelo.
186
144.
Distrazioni Giovanili Dal Vero
Amore
I
l pellegrino attraversa tutto l’imbuto infernale, contemplando
l’irrimediabile dannazione umana e la relativa sofferenza che
ciò implica; si inerpica, poi, faticosamente su per tutta la
vasta montagna del Purgatorio; attraversa l’ustionante muro di fuoco, e
tutto il resto pur di vedere il sorriso di Beatrice, promesso da Virgilio:
“tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice”, e
quando, infine, arriva a lei, lei prima assume un contegno da
ammiraglio, poi lo rimprovera e umilia pubblicamente.
In specie gli rinfaccia, e per di più senza un filo di umana gelosia o
passione amorosa mondana, di essere stata sostituita occasionalmente,
nell’amore univoco e puro che avrebbe dovuto tributare a lei soltanto,
da qualche “pargoletta” (Purg. XXXI).
Il termine viene dalla lirica d’amore e si riferisce, in specie, a tre rime
scritte dal poeta per “donna altra da Beatrice” e segnatamente la
LXXXVII, LXXXIX e la C, con le quali forse egli si era distratto in vita,
distogliendosi dalla sua guida verso la salvezza eterna, per seguire
amori mondani.
187
145.
C
L’Onore Del Primo Scontro
ome il cavaliere a volte esce al galoppo dalla sua schiera
per ottenere l’onore del primo scontro col nemico …
Esordisce Dante –parafrasato- ossia:
Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo
…
La magnifica similitudine (Purg. XXIV) si rifà al fiero costume dell’arte
militare medievale di spronare il cavallo per arrivare, facendo bella
mostra di valore e intrepido coraggio, per primi e solitari ad affrontare il
nemico.
Dante usa questa figura per descrivere una situazione del tutto
differente: l’amico Forese che si stacca dal gruppo dei tre poeti che lo
accompagna, per unirsi alla sua schiera di anime in pena.
Le atmosfere delle due situazioni sono molto diverse e la similitudine
vale solo per il dato meccanico “dell’accelerazione” di un individuo
rispetto a una schiera che si lascia indietro, ma con precisione e sintesi
cala il lettore in uno splendido ritratto di un momento di vita della
contemporaneità, cavalleresca e valorosa, dell’epoca.
Inoltre, forse, nel suo commiato con Forese vuole lasciarci, e suscitare
nei lettori, un sentimento alto e ardimentoso.
Già aveva fatto qualcosa di simile col maestro Brunetto Latini, che per
riprendere i suoi compagni di pena accelera la corsa come un atleta che
188
corra a Verona per il premio del “drappo verde” e che, ricordiamo, pare
al discepolo come chi “vince, non colui che perde”.
Facciamo qualche esempio. Dell’usanza coraggiosa di scontrarsi per
primi con le schiere nemiche, nella battaglia di Hastings il giullare
normanno Tagliaferro all’inizio della stessa intonò le canzoni di Carlo
Magno, Orlando e Oliviero, chiese poi al duca Guglielmo il primo colpo e
lo ottenne: spronò e si mise avanti a tutti.
In un altro caso, un anonimo senese racconta che, a Montaperti,
Gualtieri di Stimbergo chiese al suo comandante l’onore di poter essere
il primo ad abbassare la lancia contro il nemico -essere “lo primo
feditore”- e così fece, scagliandosi avanti a tutti contro le schiere
lucchesi.
189
146.
M
Marescalco
arescalco (Purg. XXIV) -oggi maniscalco- è termine
attribuito alle guide Virgilio e Stazio nel racconto
purgatoriale.
Si tratta di un titolo che risale al nome franco marhskalk composto di:
servo (skalk) e cavallo (marh) -cioè servo del cavallo- arrivato a noi
attraverso il tardo latino mariscalcus e il latino medievale marscalchus,
o marescalchus.
Equivalente al nostrano connestabile (comes stabuli) per estensione
passò a significare il conte che soprintendeva alle scuderie reali, e poi il
capo dell’esercito.
Sempre da lì e attraverso il francese (maréchal) è derivato maresciallo,
che ha infatti assunto i significati sia di sottufficiale -meno elevato in
grado- che di supremo comandante, per esempio: maresciallo d’Italia.
190
147.
L
Le Opere Leggiadre
e Opere leggiadre (Purg. XI) sono quelle tipiche del
cavaliere.
Infatti è Dante stesso a definire la leggiadria (Rime
LXXXIII), come virtù propria del cavaliere.
Al tempo il lemma “leggiadro” poteva assumere anche il significato di
superbo o altero, ma chi usa questa espressione in Purgatorio è
Omberto Aldobrandeschi, che ricorda le opere dei suoi antenati come
grandi, magnanime, tali da averlo reso orgoglioso, peccando, sulla
Terra.
Conte di Soana e Campagnatico, si narrano due vicende discrepanti
sulla sua morte: la prima vuole che egli sia stato ucciso nel suo letto dai
sicari senesi, la seconda che morisse valorosamente combattendo, e in
modo furibondo, per le vie della città.
191
148.
A
Antigone
ntigone (Purg. XXII) sorella di Ismene, figlie di Edipo e
Giocasta, e sorelle, entrambe, di Eteocle e Polinice, i due
fratelli che si contendono la città di Tebe: dopo che essi
si diedero l’un l'altro la morte, e contro il divieto del tiranno Creonte,
diede sepoltura al cadavere di Polinice, ponendo le leggi divine al di
sopra di quelle umane.
Per ciò fu condannata dal re ad essere sepolta viva in una caverna
sotterranea.
Ismene, tristemente, vide morire tutti i suoi congiunti e il fidanzato
Cirreo, e è ritratta da Stazio piangente sul cadavere delle madre.
Nel passo del Purgatorio dove Virgilio, tra altri personaggi, le ricorda,
Dante ama immaginare che la sua guida mostrasse all’altro poeta, a
Stazio, di conoscere alla perfezione, per affetto e stima, la sua opera
letteraria (Tebaide e Achilleide), opere di produzione successiva alla sua
stessa dipartita.
192
149.
M
La Strega Di Mantova
anto (Inf. XX) sacerdotessa di Apollo a Delfo, madre
di Ocno, è la maga figlia di Tiresia, famosa nella
Commedia
anche
per
essere
oggetto
di
una
discrepanza che si è cercato di risolvere immaginando un problema di
trascrizione.
Ubicata nella Bolgia di maghi e indovini, dove procede come tutti
camminando all’indietro, con collo torto fino ad avere il viso rivolto sulle
spalle, è poi citata da Virgilio come anima presente nel Limbo (Purg.
XXII).
All’Inferno, alla sua vista, Virgilio prende l’occasione per spiegare,
smentendo se stesso che in vita aveva sostenuto altro, l’origine del
nome della sua città natale, Mantova, che appunto deriva da lei.
193
150.
I
Un Filosofo Inarrivabile
n parecchie occasioni ci sono allusioni al pensiero, o echi di
frasi,
di
Boezio,
filosofo
che,
assieme
a
Cicerone
-
quest’ultimo presente nel Limbo e nel Medioevo autorità in
filosofia morale- spinsero Dante ad amare la filosofia.
Due versi, che ne ricordano la produzione, sono particolarmente
splendidi e riguardano due donne.
Il primo è relativo a Beatrice (Inf. II) a cui Virgilio si rivolge con questo
incipit: “O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne
contento…”.
Si riecheggia qui la situazione del De Consolatione Philosophiae, quando
il filosofo Boezio, incarcerato ingiustamente, viene visitato dalla Filosofia
stessa impersonata da una donna ed esordisce: “O omnium magistra
virtutum, supero cardine delapsa venisti?”, (O maestra di tutte le virtù,
discesa dalla più alta parte del cielo, che sei tu a fare venuta in queste
solitudini del nostro esilio?).
Il secondo lo recita la bella Francesca da Polenta (Inf. V): “Nessun
maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l
tuo dottore”.
Così apre la dama il suo lacrimevole racconto di amore e morte,
riprendendo una frase del sunnominato filosofo: “In omni adversitate
fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem” (In ogni
avversità della sorte è infelicissima forma di sofferenza l’essere stato
una volta felice).
Alcuni pensano che “il dottore” di cui parla Francesca possa essere
Boezio stesso, quando è invece quasi certo che la dama si riferisca a
194
Virgilio, che pur nel Limbo, dove non soffre pene fisiche, ben può
conoscere lo stato di infelicità a cui allude la bella donna (trucidata col
cognato, dal marito), rapportando la sua esistenza attuale, comunque
fatta di sospiri, allo stato felice della vita terrena.
195
151.
N
Il Tricolore
ella complicatissima, dal punto di vista esegetico,
processione che si sviluppa in cima all’Eden (Purg.
XXIX), e vicino allo stranissimo carro allegorico che in
essa procede, appaiono tre donne una verde come smeraldo, una bianca
come neve e una rossa.
Sono le tre virtù teologali: la rossa rappresenta la carità, la bianca la
fede, la verde la speranza.
Sono i colori del tricolore italiano, ovviamente.
Le triadi di colori hanno lunghissima, sterminata tradizione in varie
discipline sapienziali da tempi remotissimi.
In alchimia nero, bianco e rosso indicano tre fasi del magistero nella
preparazione della pietra filosofale e l’elisir di lunga vita, e quasi tutte le
bandiere europee si compongono di tre colori. Al nero può essere
sostituito il blu (o nel caso dell’Italia appunto il verde) e in Dante, per
farla breve, anche Lucifero (anti Dio) ha tre facce di tre colori diversi:
giallo (invece del bianco), rosso, e nero, che lo rendono una “antitrinità”:
alle caratteristiche divine di podestate, somma sapienza e amore (Inf.
III), egli oppone quindi, per contrasto: impotenza, ignoranza e odio.
196
152.
S
Arroganza Suprema
erse (Purg. XXVIII), arrogantissimo e superbo re Persiano,
errando per Hybris (parola greca assimilata alla superbia,
arroganza e allo spregio –sfida- dell’autorità divina), fece
costruire sull’Ellesponto -lo stretto tra Grecia ed Asia- un ponte di navi
sul quale far passare il suo smisurato esercito, con l’intenzione di
sottomettere così tutta la Grecia.
Una prima volta una tempesta distrusse il manufatto umano e il re fece
decapitare i costruttori e frustare con trecento colpi il mare.
Poi, ricostruitolo, una volta subita la clamorosa sconfitta militare, esso
fu devastato dal suo stesso esercito, in fuga disordinata, tanto che il
gran re dovette tornare indietro, salvandosi a stento e alloggiando su
una misera barchetta di pescatori: ridicolo.
Quello stesso tratto, traversava -ogni volta che il mare non era in
tempesta- agile e a nuoto, il bel giovane Leandro per recarsi dalla sua
amata Era.
197
153.
C
Un Problema Senza Soluzione: Dio
ontemplando Dio, ed assorbito completamente con
intelletto e volontà in esso, non volendo rinunciare a
capire, ma non riuscendoci affatto, Dante si sente come
un geometra (Par. XXXIII) che stia cercando di risolvere il problema
della quadratura del cerchio.
Tale problema era stato affrontato già da Archimede (il π è infatti
chiamato anche “costante di Archimede”), ed era noto agli studiosi
medievali, i quali cercavano ostinatamente di costruire un quadrato con
la stessa superficie di un cerchio.
Oggi comunemente si intende π come il rapporto tra la circonferenza e il
diametro di un cerchio, o anche come l'area di un cerchio di raggio 1.
L’impresa, nei termini dell’epoca di Dante, era impossibile da realizzarsi,
dato che il numero in questione è una costante matematica definita in
modo astratto, indipendente dalle misure di carattere fisico, e si tratta
di un numero irrazionale: che non può, cioè, essere scritto come
quoziente di due interi.
Ciò fu dimostrato nel 1761 da Johann Heinrich Lambert. Esso è inoltre
un numero trascendente, fatto provato da Ferdinand von Lindemann
nel 1882.
198
154.
S
L’Anima È Una!
e una qualità -o potenza- dell’anima (Purg. IV) accoglie in
sé, dalla percezione, impressioni piacevoli o dolorose,
l’anima umana si concentra tutta su quel dolore o piacere
e non pare che assolva ad altra potenza o facoltà.
Un’anima, cioè, quando è presa da una forte sensazione, si concentra
solo su di essa e non può contemporaneamente badare ad altro.
Ciò è chiaramente dovuto al fatto che l’anima è una sola e che sbaglia
chi sostiene il contrario, chi afferma, cioè, che: “un’anima sovr’altra in
noi s’accenda” (prenda vita).
In specie Platone individuava tre anime umane, ubicate in diverse parti
del corpo: un’anima vegetativa residente nel fegato, una sensitiva nel
cuore, quella intellettiva nel cervello.
Si tratta di una tripartizione corrispondente a quella del principio vitale
in: concupiscibile, irascibile e razionale.
Aristotele affermava, al contrario di Platone, che si tratta di tre funzioni
di una stessa ed unica anima.
A tale dottrina si rifaranno poi gli scolastici, che la elaborano, e ad essa
aderisce anche Dante.
199
155.
È
Capricci Della Fortuna
Virgilio a chiarire il problema dei veloci cambiamenti
dovuti alla mutevolezza della Dea Fortuna (Inf. VII).
Dante aveva biasimato, in altre opere, il di lei operare,
sulla scorta della osservazione, sicuramente certa ed evidente a tutti,
secondo cui le dinamiche di questa imperscrutabile forza, invero
inesistente, e percepita solo dall’uomo, agiscono ed operano a
prescindere dai meriti personali e da un generale criterio di giustizia.
L’iconografia di origine pagana rappresentava la Fortuna come una Dea
cieca, o bendata che fa girare una ruota, abbassando taluni e
sollevando altri indifferentemente (anche nei Tarocchi, per esempio, c’è
la ruota che gira con persone abbarbicate in diversi punti di essa).
Agostino la inquadrava come strumento della Provvidenza divina, e poi
anche Boezio e Arrigo da Settimello avevano trattato il tema in modo
tale che il suo ingiusto operare diventasse compatibile con la visione
cristiana di Dio (onnipotente, uno, onnisciente, infinitamente buono, e,
ovviamente, preoccupato per le vicende umane).
Naturalmente anche Tommaso tratta il controverso tema.
In Dante, Dio prepone a guida di ogni sfera celeste una intelligenza, gli
angeli (o Dei), e così pure fa con i beni terreni, la cui guida è, appunto,
la Fortuna.
Ma mentre nel Convivio affermava, affranto, che nel possesso dei beni
materiali: “nulla distributiva giustizia risplende”, nella sua tirata
infernale Virgilio fornisce una versione “boeziana” del tema, in cui la
Fortuna andrebbe lodata maggiormente proprio da coloro che invece la
biasimano, posto che, privati dei beni terreni e di tutto quanto hanno
200
avuto, conoscono bene la caducità delle cose terrene e possono aspirare
alla unica e vera libertà e a comprendere il valore dei beni spirituali.
201
156.
I
Il Veglio Di Creta
l Veglio di Creta (Inf. XIV) è una gigantesca statua allegorica
di cui Virgilio parla per spiegare la complessa e simbolica
idrologia infernale.
Nella storia, questa colossale figura era ubicata all’interno di una
montagna nell’isola di Creta, ed era composta di quattro parti di
differenti materiali.
La descrizione che ne fa Dante è fedele al passo biblico in cui si narra di
Nabucodonosor, re babilonese seguace di Marduk, che terrorizzato da
un sogno ricorrente, che però non riusciva a ricordare, aveva conferito
ai maghi caldei l’incarico di indovinalo dentro la sua mente.
Dopo il fallimento di essi, Daniele riuscì ad identificare la visione e lui si
convertì alla fede ebraica.
Egli sognava una colossale statua di un vecchio (il Veglio, appunto) la
cui testa era d’oro puro, il petto e le braccia di argento, il busto sino
all’inguine era di rame, le gambe di ferro, tranne il piede destro di
terracotta. Su questo ultimo piede, più che sull’atro, poggia il peso
dell’intera struttura.
Il colosso rivolge le spalle all’Oriente (Dammiata: Damietta) mentre la
testa è rivolta verso Roma, come a specchiarsi in essa.
Tutta la statua, fuorché la testa d’oro, è percorsa da una crepa e dalla
fessura
gocciolano
lacrime
che
fuoriescono
dalla
montagna
e,
attraversando le rocce, formano tre fiumi infernali: l’Acheronte, lo Stige,
il Flegetonte, e infine confluiscono nel lago di Cocito, dove il vento
provocato dal battito delle ali da pipistrello di Lucifero ghiaccia tutto in
modo compatto come vetro colato.
202
Per la precisione va detto che anche il fiume Lete scola all’Inferno: dopo
essere stato originato sul Paradiso Terrestre e dopo aver lavato i residui
di peccato delle anime penitenti ormai mondate e fuori dal castigo
purgatorio: si incunea per la “natural burella”, riversandosi nella conca
infernale.
I pellegrini dell’oltremondano, infatti, uscendo nell’emisfero australe si
imbattono appunto in esso: un rigagnolo.
Così anche l’ultimo residuo di “male” termina al suo posto.
Il senso allegorico della statua è molto controverso. Potrebbe essere una
rappresentazione del decadimento storico dell’umanità, e quindi i
materiali rimonterebbero al mito delle ere della storia umana (dall’età
dell’oro, fino a quella del ferro) oppure potrebbe trattarsi di una
descrizione della corruzione dell’essere umano stesso, immerso nel
peccato.
In questo ultimo caso, l’oro del capo significherebbe il libero arbitrio
(integro), l’argento la ragione, il rame la volontà, il ferro gli affetti
sensitivi e la terracotta quelli della concupiscenza.
203
157.
L
I Due Fiumi Dei Morti
’idrologia, sia quella infernale che del Purgatorio, è un
tema complesso e assolutamente centrale nell’economia
allegorica dell’opera, ma vale la pena di notare come essa
attenga anche al primo destino delle anime dei morti.
Esse infatti finiscono, sia le dannate, che le salve, sulle sponde di due
fiumi.
Le prime appaiono nell’affollato e caotico porticciolo di Acheronte (Inf.
III), dove il terribile e canuto, vecchio, Caronte le traghetterà, nella
confusione di imbarchi disperati, ma inevitabili, dinanzi al mitico
giudice Minosse.
Da lì saranno poi gettate direttamente ciascuna nel proprio cerchio di
appartenenza, corrispondente al peccato mortale più grave commesso in
vita.
Le seconde, ma destinate al Purgatorio, finiscono, invece, in riva al
Tevere
(Purg. II),
dove
ben altra,
magnifica
e
festina
(veloce),
imbarcazione condotta da un angelo immutabile, con ali perfette e
immobili,
le
sbarca
sulle
spiagge
del
monte
agli
antipodi
di
Gerusalemme.
Saliranno poi in su fino in cima all’Eden, sostando, più o meno
lungamente, su ogni cornice di pena per espiare tutti i peccati capitali.
204
158.
L
Giove Si Salva
a montagna di Creta dove è nascosto il Veglio è il monte
Ida.
Il mito vuole fosse lo stesso monte dove Rea (o Cibele)
nascose suo figlio Giove (Inf. XIV) affinché il padre, Saturno, non lo
trovasse, dal momento che altrimenti lo avrebbe divorato, come già
aveva fatto con tutti i suoi precedenti figli, pur di non far avverare la
profezia che lo vedeva ucciso e spodestato dal trono da uno della sua
discendenza.
Quando il piccolo piangeva o vagiva, Rea, per non farlo sentire e
scovare, aveva dato ordine ai suoi sacerdoti, i Coribanti, che facessero
chiasso con le loro armi ed i loro strumenti.
205
159.
P
L’Ultimo Ritrovato Della Tecnica
rima dell’esame in tema di fede sostenuto da Dante
dinanzi a San Pietro, le anime liete dei beati iniziano a
ruotare attorno a un punto fisso, come fossero comete.
Per descriverne il movimento, Dante attinge a uno degli ultimi e più
tecnologici oggetti del suo tempo:
E come cerchi in tempra d'oriuoli
Si giran sì, che'l primo a chi pon mente
Quieto pare, e l'ultimo che voli.
L’orologio (Par. XXIV) era costruito con un sistema di ruote dentate che
trasmettevano il movimento, da ingranaggio a ingranaggio, in modo tale
che esse cambiavano le dimensioni e anche la velocità.
La prima ruota, direttamente mossa dal motore, faceva un giro al
giorno, o ogni dodici ore, le ultime si muovevano vorticosamente.
Fu nel corso del Medioevo che furono inventati i primi orologi
meccanici: nel giro di un mezzo secolo, all'inizio del Trecento, molti
campanili cittadini vennero dotati di cronografo: Parigi, Milano, la
stessa Firenze; ed è proprio a questo ultimo ritrovato della tecnica che si
rifà il poeta per descrivere un moto d’anime in Paradiso, forse un po’
come se oggi uno prendesse ad esempio di ubiquità l’Internet.
206
160.
G
Un “Kapò” Di Malebolge
ianni Schicchi (Inf. XXX) apparteneva alla famiglia dei
Cavalcanti, abilissimo a contraffare le persone, è
condannato all’Inferno nella Bolgia dei falsari.
Nel suo luogo di pena è descritto avere assunto le fattezze di un folletto,
quindi, secondo la leggenda del tempo, di un veloce e alato spirito
maligno di origine demoniaca, nocivo per gli esseri umani.
Lo si vede imperversare rabbiosamente per la Bolgia mordendo gli altri
convitti: velocissimo, come un porco che esca dal porcile, azzanna il
povero Capocchio per la collottola e lo trascina via con sé facendogli
grattare il ventre col fondo duro della Bolgia.
Il compagno di pena rimane, tremante, a colloquio con Dante, avrebbe
potuto fare lui quella fine.
Anche i diavoli sono convitti dell’Inferno che gestiscono, ma si nota
come nella discesa infernale, la categorizzazione tra carcerato e
carceriere si affievolisce e scema, i ruoli si confondono sempre più.
In questo caso, la sua rabbia e le sue fattezze demoniache sono parte
stessa della sua pena, ma con ciò anche un supplemento di essa per gli
altri compagni, che patiscono diversi ed eterogenei tipi di mali: chi la
scabbia, chi l’idropisia, chi la febbre acuta.
207
161.
I
Il Coppiere Degli Dei (Omosessuali)
l bellissimo giovinetto Ganimede, figlio di Troo e Troia, venne
rapito da un’aquila mentre cacciava con degli amici sul
monte Ida (quello nella Troade, però, e non quello omonimo
di Creta, dove si trovava il famoso Veglio).
L’aquila era Giove in persona, che, invaghitosi di lui, lo prese per farlo
divenire coppiere degli Dei.
Il mito assunse per il cristianesimo un significato mistico: l’anima
umana promossa da Dio a partecipare della sua grandezza, e ad esso
Dante si rifà paragonandogli il suo rapimento nel sonno dalla Valletta
dei Principi.
162.
B
Un Omicidio Che Fece Scalpore
enincasa da Laterina detto L'Aretin (Purg. VI) fu un
famoso giureconsulto a Bologna, giudice a Siena e
podestà.
Condannò a morte, per ruberie e violenze, un fratello e uno zio di Ghino
di Tacco gentiluomo che, bandito dalla città, si rifugiò in Maremma
dedicandosi al ladroneggio.
Ebbene Ghino, personaggio storico molto controverso, si presentò in
aula mentre egli teneva udienza e lì lo uccise uscendo con la sua testa
mozza sotto il mantello.
208
163.
N
L’istituto Germanico Della Vendetta
ella Bolgia dei seminatori di scandalo e di scisma, si
trova anche un parente di Dante, col quale lui però non
parla, dato che era distratto ed incantato dal poeta di
Altaforte, Bertran de Born.
Lo vede però Virgilio, mentre punta il dito contro il discendente in segno
di accusa e risentimento, recriminando di non essere ancora stato
vendicato (Inf. XXIX) della sua morte.
Si tratta di Geri del Bello, cugino di primo grado del padre di Dante, che
pare fosse stato ucciso da un tal Brodaio dei Sacchetti a causa del suo
costume di seminare discordia, colpa per cui è punito all’Inferno.
Nel 1342, probabilmente una trentina d’anni dopo la sua morte, si
stipulò la pace definitiva tra le due famiglie ancora in lite.
Fino all’età di Dante la vendetta privata era non solo ammessa, ma
ritenuta doverosa nella società.
Brunetto Latini nel suo Tesoretto recita: “lenta o ratta sia la vendetta
fatta”, e dal comportamento sdegnoso e risentito di Geri affiora, senza
dubbio, il malcontento di sapersi ancora invendicato e la relativa onta.
Anche l’amico di Dante, Forese, aveva, nella tenzone poetica a chi
architettasse i peggiori insulti all’altro, accusato gli Alighieri di non
sapersi far valere vendicandosi dei torti patiti.
209
164.
I
Paura
l 6 agosto 1289, dopo un breve assedio delle truppe della
Taglia Guelfa, cadde il castello pisano tenuto dai ghibellini: la
rocca di Caprona.
Unica testimonianza della partecipazione di Dante alle file dell’esercito
degli assedianti ci è dato da lui stesso quando (Inf. XXI) racconta di aver
sentito una paura simile a quella che aveva potuto scorgere (da
vincitore) dagli occhi dei nemici che abbandonavano la rocca tra due
schiere di assalitori armati.
La paura dei fanti vinti era dovuta al timore che i vincitori non
sarebbero stati ai patti della resa e li trucidassero mentre erano indifesi.
Poco prima (giugno) Dante era stato cavaliere a Campaldino -lo scontro
tra guelfi fiorentini e ghibellini aretini- come feditore del gruppo di Vieri
dei Cerchi, ruolo ardimentoso, dato che costoro erano i primi ad
ingaggiar battaglia.
210
165.
Un Sant’Uomo E Cattivo
Commerciante
P
er fortuna Pier Pettinaio (Purg. XIII) si ricorda, il
sant’uomo che è, di Sapia Salvani, l’invidiosa penitente
che aveva finito per bestemmiare dalla gioia a seguito
della sconfitta, da lei bramata oltremodo, dei suoi detestati concittadini
senesi, altrimenti il suo castigo non sarebbe stato così rapido.
Questo umile santo, leggendariamente longevo, ultracentenario, fu
terziario francescano.
Ubertino da Casale lo conobbe e definì “uomo pieno di Dio”. Vendeva
pettini, probabilmente da tessitore; uomo umile e piccolo sulla Terra,
ma potente verso Dio, le sue preghiere erano effettivamente ascoltate
dal Sommo.
Si narra che, con scrupolo e onestà massime, vendesse merce che
selezionava personalmente senza mai cedere alle furbizie tipiche
dell’arte mercantile, e non ingannando mai i clienti.
211
166.
S
Elogi Incrociati
an Tommaso, dell’ordine domenicano, in Paradiso (Par.
XI) formula l’elogio di San Francesco; Bonaventura da
Bagnoregio, un francescano, tesse quello (Par. XII) di
San Domenico.
Questo doppio elogio incrociato di due santi capostipiti di due ordini (i
maggiori) della Chiesa cattolica risponde all’uso medievale per il quale il
giorno della festa dei due patroni, rispettivamente degli ordini
francescano e domenicano, appunto, fosse un esponente d’un ordine a
tessere l’elogio del capostipite dell’altro.
167.
L
Matelda!
a donna che, per la sua bellezza, fa ricordare a Dante
Proserpina
che,
rapita
da
Plutone,
è
costretta
ad
abbandonare la madre Cerere e anche i fiori primaverili
che stava raccogliendo sul prato, è Matelda.
Il suo nome letto al contrario fa: Ad Letam ed è la donna che lo immerge
nel fiume Lete, lavandogli la memoria dai peccati realizzati in vita, e
introducendolo alle “cose liete”; interpretazione però questa che è stata
molto criticata perché forse non corrispondente, e non in grado di
attagliarsi, all’orizzonte semantico e concettuale del poeta.
212
168.
L’unica Fonte Di Conoscenza (Del
Medioevo)
L
a luce (Par. XIX) viene solo da Dio:
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.
Non c’è lume per l’intelletto umano che non discenda dalla rivelazione e
dalla Grazia del Cielo, sempre sereno e mai offuscato, della mente
divina; al di fuori di ciò, gli sforzi dell’uomo realizzati da se stesso, da
solo, sono tenebra, o ombra e veleno della carne.
Lo sforzo del solo intelletto umano è cecità: chi non è illuminato
direttamente da Dio brancola nel buio.
Il corpo umano, poi, è di per sé un ostacolo alla potenzialità
dell’intelletto puro, in accordo con la tradizione ebraico cristiana.
Il “veleno” della frase è la concupiscenza umana attraverso i sensi,
l’ostacolo più plumbeo e pesante posto all’uomo verso la comprensione,
quello che maggiormente lo acceca e grava.
213
169.
M
Mal Amore
entre l’ingresso infernale è scardinato (“lo cui sogliare
a nessuno è negato”…) la porta del Purgatorio è
metallica, salda e serrata. Quando si apre crepita
della durezza dei suoi forti cardini.
Viene descritta come “porta, che ‘l mal amor de l’anime disusa” (Purg.
X): non attraversata da chi eserciti male “l’amore”.
È l’amore mal rivolto delle anime, che la fa cadere in disuso, quindi.
La causa del peccato è, difatti, amore mal riposto, mentre la causa del
bene è amore diritto verso il suo fine. L’amore, infatti, è ciò che sempre
muove l’uomo: l’uomo è, insomma, fatto per amare.
Dio stesso è in primis amore, ed esso ha creato anche l’Inferno (“fecemi
la divina potestate, la somma sapienza e 'l primo amore”, recita
l’iscrizione sull’architrave dell’ingresso infernale), e muove ogni cosa (“’l
sole e l’altre stelle”).
Tommaso chiariva che ogni agente compie la sua azione in forza di un
qualche amore, ed esso nell’uomo può essere di due tipi: o istintivo, vale
a dire insito nella natura, o d’animo, ossia di libera elezione.
L’amore naturale, istintivo, non è passibile d’errore perché è dato
direttamente dalla natura, Dio appunto, affinché raggiunga il suo fine.
Quello frutto di intelletto e volontà, invece, può errare, in quanto libero.
L’uomo ama sempre il bene supremo, in effetti, anche senza saperlo, ma
scambia, errando, tale bene assoluto, per quelli particolari.
E quindi può sbagliare in tre modi, ossia: primo, sull’oggetto, o, (altri
due modi) sul vigore, in questo ultimo caso destinandogliene troppo, o
troppo poco.
214
Alla prima categoria corrispondono i peccati di ira, invidia e superbia,
alla seconda quelli di lussuria, gola e avarizia, al terzo l’accidia.
215
170.
P
Anime Umane
latone riteneva che le anime (Par. IV) dopo la morte
tornassero alle stelle dalle quali provenivano. Cioè che
esse anime, prima di incarnarsi, esistevano già.
Tale teoria, diffusa e nota nel Medioevo grazie a un commento del Timeo
di Calcidio, è palesemente in contrasto con la fede cristiana, dove
l’anima è creata di volta in volta da Dio e insufflata nell’embrione che si
forma nel seno materno.
In Dante la veridicità della teoria platonica rimane solo laddove non
sono le anime individuali a scendere e poi risalire in cielo, ma sono,
invece, solo gli influssi -teoria degli influssi astrali-, sulle loro attitudini
e operazioni, a provenire da lì.
Tali influssi ognuno li riceve alla nascita come “corredo di doti” volute
dagli astri per la singola persona, ma, come aveva chiarito anche Marco
Lombardo in Purgatorio, essi non sono comunque mai così poderosi da
coartare e annullare la libertà umana, intrinseca in noi e dono di Dio.
216
171.
L
Il Simbolo Del Sole
’astronomia tolemaica riteneva che le stelle ricevessero il
loro splendore da un unico centro luminoso: il Sole.
Questa teoria, prevalente nel Medioevo alle altre, pur
presenti, rendeva ancor più pregnante e attinente il paragone tra il Sole
e Dio: unica fonte di luce e conoscenza (“lume non v’è se no vien dal
sereno…”). È anche grazie a questo antico errore astronomico che (Par.
XX) Dante ci regala questi bellissimi versi:
Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende…
217
172.
A
Quando
Il Primo Uomo
damo (Par. XXVI), il primo uomo creato è beato in
Paradiso, ma la sua vicenda è, ovviamente, tra le meno
lineari.
Dante
riacquista
la
vista,
momentaneamente
persa
in
contemplazioni troppo poco adatte ad occhio di carne e materia, se lo
trova dinanzi e brucia di curiosità riguardo a varie questioni che solo lui
potrebbe risolvere come diretto interessato.
È il santo stesso che le elenca, dato che conosce la mente di Dante,
potendo scrutarla direttamente nello specchio infallibile e onnisciente
della mente di Dio stesso. Dante vorrebbe sapere:
1. Quanto tempo è passato, sino ad allora, dalla sua creazione (quindi
dalla creazione della specie umana sino al momento del dialogo);
2. Per quanto tempo Adamo dimorò nel Paradiso Terrestre;
3. Quale fu la vera ragione dell’ira divina per il peccato originale;
4. Quale idioma egli creò e parlò originariamente.
Dunque, dalla creazione di Adamo, alla nascita del Cristo passano 5198
anni, cifra già accertata dalla computistica di Eusebio; considerando
che Adamo stesso visse per 930 anni, Gesù per 34 anni, e che il viaggio
del pellegrino si svolge nel 1300, si può dedurre che dalla creazione
dell’uomo al momento in cui si svolge il dialogo chiarificatore sono
passati 6498 anni, mentre, dopo essere morto, Adamo ha dimorato nel
Limbo per 4302 anni. Nel Paradiso terrestre, egli racconta, non rimase
per più di sette ore.
218
La causa dell’esilio dell’umanità da tale luogo beato non fu dovuta al
gesto di cogliere e saggiare il frutto proibito in sé, ma al fatto di
oltrepassare un limite imposto dalla divinità: un atto di superbia.
Atto che ricorda la vicenda del dannato Ulisse quando supera le colonne
d’Ercole, “li riguardi”, sistemati lì per indicare chiaramente all’uomo di
non andare oltre.
Infine la lingua originaria di Adamo era estinta già prima di quando
Nembrot (anche lui esempio di superbia punita, e relegato all’Inferno,
nel pozzo dei giganti) volle costruire la torre di Babele; teoria questa
ultima contraria a quanto sostenuto dal poeta stesso nel suo De Vulgari
Eloquentia.
219
173.
Q
Vendite e Commerci Simoniaci
uando si trova a contemplare i giusti del cielo di Giove,
Dante indirizza a un papa queste sprezzanti e dure parole
(Par. XVIII):
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire: “I' ho fermo 'l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro
ch'io non conosco il pescator né Polo”.
È papa Giovanni XXII, caorsino, di nascita e di costumi, a cui (si
interpreta) Dante rimprovera, oltre al mantenimento del papato in
cattività avignonese ed altro ancora, il costume pessimo e simoniaco di
scrivere decreti, scomuniche e interdetti usandoli solo come mezzo
intimidatorio per ottenere benefici politici, per poi cancellarli o
sospenderli in cambio di danaro; cioè senza un vero contenuto sacro.
Narra il Villani, come egli fece coniare ad Avignone:
“una nuova moneta d'oro fatta del peso e lega e conio del fiorino d'oro di
Firenze sanza altra intransegna, se non che da lato del giglio diceano le
lettere il nome del papa Giovanni; per la qual cosa gli fue messa grande
riprensione, a fare dissimulare sì fatta moneta come il fiorino di Firenze”.
Ricordiamo che il fiorino (che Mastro Adamo è punito per aver falsificato
a ventuno) era a ventiquattro carati e moneta di riferimento dei
banchieri dell’epoca.
220
E aggiunge:
“dopo la sua morte si trovò nel tesoro de la Chiesa a Vignone in monete
d'oro coniate il valere e compito di XVIII milioni di fiorini d'oro e più; e il
vasellamento, corone, croci, e mitre, e altri gioielli d'oro con pietre preziose
lo stimo a larga valuta di sette milioni di fiorini d'oro, che ogni milione è
mille migliaia di fiorini d'oro la valuta”.
Mentre i martiri Pietro e Paolo sono alla vita eterna, i guasti realizzati
alla vigna che lui come pontefice dovrebbe, invece, accudire sono
presagio di sua ventura dannazione eterna.
221
174.
L
Gli Epicicli
e sfere dei pianeti, in Dante e per la sua epoca, sono
concentriche e indipendenti, ciascuna termina dove inizia
la successiva e vengono chiamate anche “Cieli” (I Cielo
Mercurio, II Cielo Venere etc.).
Per poter spiegare il movimento dei pianeti nel modello tolemaico
geocentrico, dando una giustificazione alle posizioni concrete in cui essi
appaiono in cielo durante il tragitto, oltre al movimento rotatorio da
oriente a occidente era necessario pensare e aggiungere un secondo
movimento immaginandoli situati sul cerchio equatoriale di una piccola
sfera che avesse come centro l’equatore del loro cielo: un piccolo cerchio
quasi situato sull’altro cerchio principale, epiciclo (Par. VIII), appunto.
In
definitiva,
per
spiegare
quelle
che
venivano
chiamate
le
retrogradazioni, si aggiungeva un moto opposto (tranne che per il Sole)
da occidente a oriente, su un cerchio minore.
Tanto complessa teoria era necessaria pur di non accettare un sistema
eliocentrico.
222
175.
T
La Selva Di Cecco
utti sanno che Dante inizia la Commedia trovandosi perso
per
una
selva
oscura,
allegoria
del
peccato,
che
nonostante la sua fama imperitura è un rapidissimo
antefatto a tutto quanto segue poi.
Non tutti invece conoscono i versi polemici in cui la stessa selva viene
nominata dall’astrologo e scienziato contemporaneo Francesco Stabili,
meglio conosciuto come Cecco D’Ascoli, nella sua opera L’Acerba:
… Qui non se canta al modo de le rane;
Qui non se canta al modo del poeta,
Che finge, imaginando cose vane.
Ma qui resplende e luce onne natura,
Che a chi intende fa la mente leta.
Qui non se gira per la selva obscura; …
L’Acerba è comunemente intesa come una sorta di “anticommedia”, di
molto minor momento e fortuna, nella quale l’autore esplicitamente
polemizza con l’Alighieri sostenendo un punto di vista maggiormente
scientifico e razionale, che rifiuta favole e miti, ma attinge solo a
conoscenze fisiche e naturali della scienza del tempo e alla filosofia
aristotelica, tomistica e araba.
Come noto il suo autore lascerà incompiuta l’opera, e sarà arso sul rogo
a Firenze come eretico nel 1327.
223
176.
I
Un “Beccaio” Di Parigi
n Purgatorio Dante incontra il capostipite della stirpe corrotta
e che estende i suoi influssi malefici su tutta la cristianità
fino ai suoi tempi, i Capetingi: Ugo.
È anche probabile che egli confonda i primi due “Ughi”, vale a dire Ugo I
il Grande, Duca di Francia, Borgogna e Aquitania e il parlante Ugo
Capeto, in uno solo.
Questo secondo, estintasi la dinastia di Ludovico V il Neghittoso,
succeduto a sua volta a Lotario, si trovò con l’intero regno di Francia tra
le mani e fu incoronato re.
Nella cronistoria Dante attinge in vari punti a leggende diffuse nel
Medioevo.
Curiosa quella che voleva il Capeto, nome italianizzato nella Commedia
in Ciappetta, dal francese Chapette, che vale: piccola cappa -quella di
abate laico che portava-, al quale poi si impose Capet, forse per
imposizione della voce latina Capetus: esercitare originariamente la
professione umile del macellaio.
Non risulta che, né lui né il padre, svolgessero tale attività e la
confusione potrebbe doversi alla leggenda narrata nel poema francese
Chanson de geste de Hugues Capet, largamente diffusa anche in Italia, e
nella quale la madre, e non Ugo direttamente, risulta essere figlia di un
beccaio.
Anche il Villani riferisce la diceria che lo vorrebbe “buccero” o mercante
di bestiame.
224
Dante forse dà credito alla notizia anche per rimarcare, ancora una
volta, la disgrazia, non estranea alla Firenze del tempo, degli arricchiti
avventatisi sul potere politico.
225
177.
N
La Teoria Del Mal Minore
on è vero che il libero arbitrio sia libero giudizio della
ragione, non pervenuta dall’appetito intorno all’operare,
e che: “omnis electio est ex necessitate” (le scelte si
compiono tutte per necessità) e che quindi un uomo, come un asino
(simile a quello di Buridano) morirebbe di fame posto in mezzo a due
mucchi di fieno identici ed equidistanti, prima di trovare una ragione
per decidersi ad appetire l’uno piuttosto che l’altro.
Ma può accadere che per evitare un pericolo maggiore egli sia indotto ad
accettare e fare un male che non avrebbe intenzione di fare.
Nella teoria del male minore (Par. IV) l’uomo sceglie tra due mali non
volendo invero né l’uno né l’altro.
Sulla scorta di Aristotele gli scolastici distinguevano, in tali casi, tra due
volontà: una assoluta che non vuole il male che realizza e non potrebbe
mai realizzarlo, e una condizionata (secundum quid) che, tenendo invece
conto delle circostanze concrete e determinate, si piega ad accettare il
male pur di evitarne uno maggiore, non volendo però nessuno dei due
in effetti.
In tale valutazione della circostanza può succedere che l’uomo erri e si
inganni pensando di scegliere il male minore ed evitando il peggio,
quando invece non è così. Dante propone in questo caso l’esempio di
Alcmeone, matricida per amore paterno.
La volontà, quindi sarebbe proprio la capacità di scegliere liberamente
in base ai dati forniti dalla ragione.
226
Tommaso diceva che: “la radice della libertà è la volontà in quanto
soggetto dell’azione, ma è la ragione in quanto causa”, ed in consonanza
Dante definisce il libero arbitrio come: libero giudizio di volontà.
227
178.
D
Il Giudice Nino
ante si rallegra, pare quasi tirare un sospiro di sollievo,
nel vedere il giudice “Nin gentil” (Purg. VIII) in
Purgatorio, e quindi salvo; segno, tra l’altro, che non
doveva essere troppo convinto delle sue sorti.
Nino, o Ugolino, Visconti fu il pisano figlio di una figlia di Ugolino della
Gherardesca, e signore del giudicato di Gallura in Sardegna e per
questo chiamato “Giudice di Gallura”.
Primo tra i guelfi di Pisa, esiliato dal governo pisano dal succitato nonno
e
dall’Arcivescovo
Ruggeri
degli
Ubaldini,
in
accordo
tra
loro,
successivamente fu proprio lui a denunciare l’arcivescovo Ubaldini
stesso per la crudele morte di Ugolino, che, come tutti sanno, Dante
incontra nel gelo di Cocito addossato al Ruggeri del quale rode
ferocemente il cranio.
Ugolino, incarcerato nella “Torre delle Muda” -a seguito, dell’episodio,
che fece scalpore all’epoca, essa fu chiamata Torre della Fame- finì la
sua vita assieme a quella dei suoi figli (due figli e due nipoti, invero)
morendo, lì rinchiuso, di inedia: “La bocca sollevò dal fiero pasto” etc.
Nino, invece, fuoriuscito da Pisa la combatté per un lustro intero, fino a
diventare nel 1293 il capo della Taglia Guelfa di Toscana.
“Taglia” nell’italiano medievale aveva un preciso significato militare, e
indica un contingente di milizie mercenarie, diremmo di “elite”, fornite
da vari membri di una lega –unione di intenti militari tra varie città o
realtà politiche- per il raggiungimento di uno scopo bellico comune.
Probabilmente recandosi a Firenze, conobbe Dante ed inoltre entrambi
parteciparono alla battaglia di Campaldino.
228
È probabile che il tradimento che motiva la condanna dantesca del
nonno di Nino –Ugolino è tra i traditori- fu quello proprio verso di lui,
quando, con un improvviso e tremendo voltafaccia, spinto e in accordo
con colui da cui successivamente sarà a sua volta tradito crudelmente,
lo espulsero dalla città.
229
179.
I
La Figura Poetica Delle Api
l convegno delle bianche stole, la milizia santa nella sua
interezza, si mostra a Dante in forma di candida rosa: la rosa
(supremo simbolo medievale cristiano) dei corpi risorti.
Ma gli angeli non sono inattivi in tale visione, come api (Par. XXXI 3),
tutta la loro milizia, con volti di fiamma, ali d’oro e il resto più bianco di
qualunque neve, è, anzi, incessantemente operosa: salgono e scendono
dal fiore all’alveare (il luogo dove il loro lavoro diviene miele).
La similitudine era già stata formulata di Sant’Anselmo, ma nel loro
andirivieni tra Dio e la rosa, gli angeli-ape versano la grazia di Dio sui
beati, cioè miele sul fiore. Le api sono simbolo di operosità e animali
virtuosi ed amati, erano care anche alla poesia classica, Virgilio per
esempio paragona il loro ronzio al vento.
230
180.
P
Pan De Li Angeli E Acqua Viva
an de li angeli (Par. II) è espressione scritturale, biblica,
tratta dai Salmi. Tale pane è la sapienza divina (il Verbo)
di cui si nutrono le intelligenze celesti eternamente in
Cielo.
Di esso può nutrirsi l’uomo anche in Terra, ma mai a sazietà.
Nel Convivio, Dante aveva già utilizzato l’espressione per indicare il cibo
che vuole imbandire nella sua opera e di cui pochi possono nutrirsi.
Gesù, invece, fermandosi a conversare nei pressi di un pozzo con una
umile donna samaritana le parla di una acqua viva (Purg. XXI) che,
diversamente da quella nel pozzo, che rappresenta la conoscenza
raggiungibile con le sole capacità umane, la disseterà per sempre.
Nell’uomo è innata la “sete natural”, il desiderio di sapere che, però,
solo la Grazia divina può estinguere del tutto.
Secondo il racconto la donna si affretta a chiedere a Cristo di essere
dissetata da tale acqua, che, secondo l’esegesi biblica, significando la
Grazia divina, è un dono che innalza l’uomo al di là della sua natura.
231
181.
U
Antichi Ideali Rimpianti
no dei due invidiosi con cui Dante discetta, lui, della
corruzione della vituperata Val d’Arno e, l’altro, di
quella di Romagna, è Guido del Duca.
Questo, preso dalla nostalgia (parola di recente origine, ma comunque
adatta) all’elencare e riferirsi ai migliori e più illustri, nobili e antichi
uomini di Romagna, in cui albergavano alte doti cavalleresche, è tanto
affranto dal discorso che si commuove e preferisce smettere di parlarne,
tanto è più forte il desiderio di piangere.
Preso dal languore chiede al pellegrino di non meravigliarsi se piange al
ricordarsi di quell’intero mondo scomparso e non solo ogni singolo
personaggio:
le donne e ' cavalier, li affanni e li agi
che ne 'nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
Nobildonne e cavalieri, i rischi delle guerre e i riposi a corte, di cui
amore e cortesia ci mettevano in animo la voglia … (Purg. XIV).
I primi due versi sono una perfetta sintesi, e sono divenuti un simbolo,
degli ideali cavallereschi, tanto che, come è arcinoto, se ne innamorerà
l’Ariosto che aprirà il suo Orlando Furioso riecheggiandoli:
Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto
(…)
232
La disposizione dei versi è a doppio chiasmo: elegantemente sei parole
trasportano, quasi in musica, il lettore in un universo cortese onirico,
un bel mondo, costumi di una vita perduti, forse mai esistiti, e
comunque già relegati nel passato anche al tempo del poeta.
233
182.
I
“Seguiti”
l lemma seguiti (Par. II) nell’attacco di canto:
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
(…)
dove il poeta scoraggia il lettore impreparato a seguirlo oltre nel poema,
è usato alla latina come secuti estis.
Se la teologia è un grande e profondo mare, i piccoli ingegni altro non
possono essere che piccoli scafi, barchette, inadatte a solcare l’opera
dantesca.
Ma tale verbo ricorda una celebre frase di Dante stesso del De Vulgari
Eloquentia: “Humana secuti sunt, brutalia dedignantes” riferita a
Mandredi di Sicilia, il figlio illegittimo di Federeco II di Svevia avuto con
la dama Bianca Lancia, che, al contrario di quanto avrebbe voluto la
pubblicistica clericale, che lo descriveva: “ex damnato coitu derivatus”,
l’Alighieri dichiara “bene genitus”, tributandogli doti principesche a
continuità di una magnanima eccellenza di stirpe e pertanto, tra esse,
anche la maestà di principi mecenati, che include il non cedere alla
brutalità, ma l’essere, invece, un umanista.
Forse Dante sapeva il Manfredi “sonatore e cantore”, di certo egli fu
revisore e prefatore del De Arte venandi cum avibus di suo padre, e
autore del Prologus alla traduzione, dall'ebraico, del Liber de pomo sive
de morte Aristotelis.
234
183.
D
Forma Di Rispetto
ante usa il voi (Par. XVI) esplicitamente solo con
Beatrice, Cavalcanti, Farinata e Brunetto, poi passa dal
tu al voi con l’antenato Cacciaguida.
In tale occasione riferisce la credenza, erronea ma molto diffusa nel
Medioevo, che voleva che il pronome onorifico fosse stato usato per la
prima volta a Roma verso Giulio Cesare per piaggeria o timore di lui,
dopo tutte le vittoriose campagne militari brillantemente condotte dal
formidabile stratega romano.
Dante continua segnalando, e suo figlio Pietro ratificherà l’esistenza del
malcostume, come in futuro proprio i romani, che inventarono tale
pratica di rispetto, furono quelli meno inclini a perseverare in essa,
trattando tutti, villanescamente, e rivolgendosi loro al singolare, a
prescindere da prestigio e ruolo sociale.
In Svezia negli anni Sessanta una riforma della grammatica –du
reformen- abolì l’uso di forme di rispetto –terza persona- in accordo coi
precetti socialisti di uguaglianza a cui non avrebbe mai potuto accedere
il povero Dante, sostenitore del ruolo e del prestigio.
235
184.
Esempi Di Corruzione Politica
Fiorentina
N
el passato, secondo lui, e a quanto poi riferirà il suo
antenato in Paradiso, fatti di corruzione del genere non
accadevano, ma quando Dante era ancora a Firenze,
alla carica di Priore della città fu posto un trevigiano, Monfiorito di
Coderda, del tutto nelle mani di malfattori politici e cittadini mestatori, i
quali gli fecero fare, come riferisce Dino Compagni “delle ragione torto e
del torto ragione”, tanto che quello “assolvea e condannava senza
ragione come a loro parea”.
Il 5 maggio 1299 egli fu deposto a seguito degli scandali, e, torturato,
confessò una lunga serie di malefatte.
Tra le tante riferì di aver fatto assolvere il priore Nicola Acciaioli
accogliendo una falsa testimonianza.
Questi, in combutta con Baldo Aguglioni (uomo di legge), sottrasse,
grazie alla carica di giudice del complice, il libro degli atti notarili del
comune (“quaderno”) e ne eliminò una testimonianza, grave prova di
corruzione contro di lui.
Il Notaio, all’erta, si rese conto della rasura di una delle pagine,
denunciò il fatto e Acciaioli fu condannato a tremila lire di multa,
mentre l’Aguglione, pure condannato, fuggì e restò confinato per un
anno.
Questo stesso figuro fu responsabile dell’esclusione di Dante dalla
“riforma” degli esiliati fiorentini, e pertanto impedì il suo rientro a casa.
236
Donato dei Chiaramontesi, invece, frate della penitenza e uomo di affari
al contempo, era sospettosamente ricco.
In carica come “camarlingo della camera del sale” e perciò preposto alla
distribuzione e vendita di tale mercanzia, dopo aver ricevuto dal
Comune, lo staio, il recipiente con cui si misurava la quantità di sale,
regolamentare, ne sottrasse una delle doghe e lo distribuì alla
cittadinanza con una misura rimpicciolita, lucrando poderosamente.
Scoperto il peculato, lui fu condannato a morte e la sua nobile famiglia
fu sanzionata e fu vergognosamente oggetto di scherno e pubblico
ludibrio: il popolo la dileggiava con una canzoncina che ricordava i fatti.
Successivamente all’episodio lo staio fu fatto di ferro. A questi due fatti
di cronaca si riferisce Dante quando parla di “quaderno e doga” (Purg.
XII).
237
185.
T
Guglielmo VII Spadalunga
ra
gli
otto
principi
della
valletta
purgatoriale
c’è
Guglielmo VII Spadalunga (Purg. VII), marchese di
Monferrato, così chiamato per il suo valore in guerra.
A seguito della sua cattura nella ribellione della città di Alessandria, finì
la sua vicenda umana rinchiuso in una gabbia, dove morì dopo un anno
e mezzo di prigionia.
Il figlio, per vendetta, portò guerra alla medesima città provocando lutti
e distruzione tra Monferrato e Canavese, che costituivano le parti del
marchesato stesso, vale a dire tra la parte destra e la parte sinistra del
Po fino alle Alpi Graie.
186.
D
Montagna dei Parcitadi.
i Montagna de’ Parcitadi (Inf. XXVII), che fu uno dei
capi riminesi della parte ghibellina, fecero “il mal
governo” il Malatesta da Verucchio Malatesta e suo
figlio Malatestino (“'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio”),
impadronitisi del potere, imprigionandolo e facendolo uccidere, e
sterminando gli altri della famiglia.
Egli fu tra i più fieri oppositori con tutto che fosse imparentato con loro.
238
187.
S
Un Inganno Comico
imone Donati, padre di Piccarda, Forese e dell’infame
Corso (cugini di Gemma, la moglie di Dante), incaricò al
falsario (imitatore) Gianni Schicchi, un Cavalcanti, di
travestirsi da suo zio Buoso Donati, (omonimo del ladro del canto XXV,
che è suo nipote, a meno che non si tratti di un Abati come vorrebbero
gli antichi commentatori) e, nel letto di morte, testare in suo favore,
dinanzi a testimoni.
Gianni accettò il difficile incarico, che fu realizzato a regola d’arte,
ingannando tutti, dato che fu ascoltato dai presenti e che il notaio
ratificò quanto da lui disposto come ultima volontà.
Per se stesso volle, e fece testare, la donna della torma (Inf. XXX), la
migliore cavalla della mandria, una splendida giumenta di gran pregio e
valore: oltre duecento fiorini.
239
188.
A
Terremoto In Purgatorio
Dante era stato detto che sul Monte Purgatorio non
potevano verificarsi eventi di tipo climatico e tellurico,
cioè che esso è immune da perturbazioni e fenomeni
naturali, climatici e mondani di cambiamento, soggetto come è, dalle
radici a mollo nel mare, fino alla vetta, solo a cause celesti, che a loro
volta sono caratterizzate da immutabilità e incorruttibilità.
Ricordiamo che, all’epoca, agli astri si attribuiva l'essere del tutto
perfetti (v. problema della macchie lunari, poi la resistenza ad
ammettere quelle, addirittura, solari, scoperte da Galileo).
Non può quindi intervenire neppure il vapore secco e denso (quello
secco e sottile provoca i venti) che, restando imprigionato all’interno
della terra, causa i terremoti, secondo la dottrina di Aristotele seguita
dai vari trattatisti delle epoche successive.
Eppure Dante una scossa (Purg. XXI) la sente, proprio quando incontra
il poeta latino Stazio, al quale, dottissimo, chiede spiegazioni.
La causa dello scuotimento del monte è non materiale, ma spirituale:
quando un’anima si sente definitivamente mondata dai suoi peccati, e
pronta a iniziare l’ascesa verso il Paradiso Terrestre per la definitiva
beatificazione, il monte trema, rimanendo nonostante ciò immutato.
Dante quindi incontra Stazio mille e duecento anni dopo la sua morte,
proprio nel momento della fine del suo castigo e dopo che egli ha
passato oltre cinquecento anni tra avari e prodighi, altri quattrocento
tra gli accidiosi e i restanti duecento circa in altre non specificate
cornici e zone del monte.
240
189.
N
ella
croce
Roberto L’Astuto
di
Marte,
in
Paradiso,
brilla
Ruberto
Guiscardo (Par XVIII), sesto figlio di Tancredi il
capostipite degli Altavilla, sfavilla assieme ai celeberrimi
esempi di lotta agli infedeli: Carlo Magno, Orlando, Guglielmo D’Orange,
il suo gigantesco servo saraceno convertito Rinoaldo –Rinoardo-, e
Goffredo da Buglione –Duca di Lorena e condottiero che guidò la prima
crociata, prese Gerusalemme e vi fu incoronato re. Lì morì nel 1100-.
Il Guiscardo -l’astuto- guidò la conquista dell’Italia meridionale contro i
bizantini, diventando duca di Puglia e Calabria.
Si distinse per la liberazione di Papa Gregorio VII, che lo mandò a
chiamare mentre era assediato a Castel Sant’Angelo da Enrico IV
durante il sacco di Roma del 1084, nella lotta per le investiture.
Si narra che il suo esercito normanno devastò la città addirittura più
duramente di quanto fecero gli Unni e faranno i Lanzichenecchi.
Il papa abbandonò la città scortato dal Guiscardo stesso (o suo
prigioniero) e trovò la morte a Salerno appena un anno dopo.
241
190.
Q
Intellettuali Sodomiti
uando Dante chiede al suo vecchio maestro sodomita
(Inf. XV) Brunetto Latini quali altre anime siano punite
nel “sabbione”, quello risponde facendo pochissimi nomi,
ma affermando che tale peccato era tipico di chierici e di letterati grandi
e di gran fama. Insomma di precettori, uomini di chiesa e, in genere, di
cultura.
Poi segnala uno di essi, Prisciano di Cesarea, forse confondendolo col il
vescovo eretico del IV secolo Priscilliano a cui si attribuiva tale condotta.
All’Inferno costoro sono puniti tra i violenti: persone di prestigio e
autorità morale e docente che approfittano, asimmetricamente e in
modo intimidatorio, dell’inesperienza giovanile coartando la libertà di
ragazzi ingenui in virtù della loro posizione di supremazia e del prestigio
personale sbandierato per impressionare.
Ma nel Purgatorio, vale ricordarlo, la sodomia in sé non è che una
variante dell’intemperanza erotica, affine, stanno tutti nella stessa
cornice infatti, a quella dei lussuriosi eterosessuali.
All’Inferno, ecco quindi un altro peccato attribuito, come tipico, al clero.
Ne esce un impietoso quadro di avidi, avari, simoniaci e pederasti.
242
191.
Q
Un Dio Incomprensibile
uando Oza (Purg. X) vede inclinarsi l’Arca dell’alleanza,
che re David, danzante dinanzi ad essa, sta trasportando
su un grande carro trainato da buoi, da Epata a
Gerusalemme, per evitare di vederla rovinosamente cadere, la tocca e
muore all’istante fulminato da Dio.
Solo ai sacerdoti, infatti, era permesso di custodire e toccare il sacro
oggetto, sicché lui aveva messo mano a un incarico che non gli era stato
commissionato ed era, per questo, stato ripagato con la morte.
243
192.
L
Prescrizioni e Simboli Biblici
’iracondo Marco Lombardo (Purg. XVI) spiega da dove
discenda la corruzione universale: essa dipende dall’uomo
e la sua prima ragione è nella confusione tra potere
temporale e spirituale.
Come è vero che l’anima dell’uomo per tendenza naturale cerca il
piacere, e che per averlo correttamente occorre una guida, se la guida
devia, devia con essa anche il guidato: il genere umano.
La guida del genere umano, la Chiesa, ha deviato confondendo i due
poteri, fornendo un pessimo esempio di attaccamento ai beni terreni.
Il Papa può pure conoscere la legge divina, ma non può agire come
guida temporale, ruolo che spetta all’Imperatore.
Per spiegare parte del ragionamento, invero molto più esteso e
complesso, Dante si riferisce a una strana metafora presa dalle scritture
(Levitico e Deuteronomio): “rugumar può, ma non ha l'unghie fesse”.
La legge mosaica prescriveva che gli ebrei non potessero mangiare la
carne di quegli animali con non fossero ruminanti e che non avessero lo
zoccolo fesso (spaccato).
Questa legge fu presa dalla scolastica come allegoria: l’unghia
dell’animale stava a significare i due Testamenti, o il Padre e il Figlio, o
le due nature (umana-divina) del Cristo; il ruminare è invece la
meditazione delle Sacre Scritture.
244
193.
T
Un Re Falsario
ra i numerosi “cattivi principi cristiani”, oltre al fiacco
padre del Giustiniano inglese Edoardo I Plantageneto,
quello impegnato in Scozia contro Robert Bruce e William
Wallace, si nomina Stefano Urosio II (Par. XIX), re di Rascia, vale a dire
di un allora fiorente regno grossomodo corrispondente a parte della
Serbia e Bosnia, Croazia, Dalmazia.
Egli batté moneta di fattezze simili a quelle del matapan della
Serenissima, che veniva, infatti, confusa ed accettata come l’altra, pur
coniata con una lega d’argento alterata.
Tale
pratica,
invisa
alla
Repubblica
di
Venezia,
fu
da
questa
stigmatizzata con un decreto che cercava di bloccarne la circolazione.
245
194.
T
Racconti Cannibali
ra i vari racconti cannibali (ricordiamo Saturno che
divora gli Dei per non essere detronizzato, Tereo che
mangia suo figlio Iti ucciso dalla madre per vendicare lo
stupro della sorella, Polifemo che divora impietosamente i compagni di
Ulisse, etc.) e specificamente di genitori che divorano la discendenza,
Dante si riferisce anche a quello riportato nel De bello iudaico di
Giuseppe
Flavio,
dove,
tra
gli
ebrei
assediati
a
Gerusalemme
dall’imperatore Tito, alcune madri tra cui Maria di Eleazaro (Purg. XXIII)
mangiarono i loro figli per fame.
Subito prima (nella Commedia) il poeta si era riferito a un racconto
ovidiano di “autocannibalismo” o “autofagia”, quello di Erisittone, re di
Tessaglia che, avendo osato tagliare una quercia sacra a Cerere, fu
condannato dalla Dea a patire una inestinguibile fame. Dopo aver
dilapidato ogni suo bene nel tentativo vano di placarla, si vide costretto
a divorare se stesso.
Mentre nel racconto classico non v'è soluzione di continuità tra la fine
delle risorse economiche e la decisione di addentarsi pur di alleviare la
fame, in Dante (che lo prende ad esempio) Erisittone arriva al
drammatico epilogo lottando per salvarsi: solo dopo un brutale
dimagrimento.
Ricorrere, per varie ragioni e circostanze, a una fame tanto inesauribile
da condurre alla propria stessa soppressione per divoramento è una
soluzione esperita più volte in letteratura, per esempio King, ma pure
Tolkien, nel mito del ragno (femmina) Ungoliant.
246
195.
U
Racconti Cannibali II
na citazione del Tieste di Seneca durante la magnifica e
patetica tirata del conte Ugolino (Inf. XXXIII: “Ahi dura
terra perché non t’apristi”) abilita l’interpretazione
antropofaga dell’ambiguo verso: “poscia più che ‘l dolor poté ‘l digiuno”,
o per lo meno induce elegantemente il lettore a considerarla una delle
opzioni.
A Tieste vengono date da mangiare le carni dei suoi figli uccisi da Atreo
per vendetta.
In almeno due occasioni (Inf. XXX, pena di Mastro Adamo, e Purg. XXII,
pena del golosi) Dante si riferisce a Tantalo, anche se non in ragione del
racconto antropofago che arricchisce la copiosa serie di miti di cui è
protagonista, bensì per la sua più celebre pena divina di fame e sete
eterne.
Una storia voleva il semidio essere l’uccisore di suo figlio Pelope,
assassinato di nascosto con il solo scopo di togliersi la curiosità rispetto
alla onniscienza degli Dei.
Gli Dei, invitati al desco, e dimostrandosi veramente onniscienti,
rifiutarono l’offerta surrettizia e sacrilega di cibarsi della carne umana a
loro servita dall’impertinente “siniscalco” e resuscitarono il giovane.
Introducendo la storia di Ugolino, in chiusa del canto precedente a
quello che la accoglie (Inf. XXXII-XXXIII), c’è anche un riferimento a
Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe (Capaneo, Tiresia, sono
presenti all’Inferno e partecipano, in vita, alla stessa campagna) e che,
ferito a morte da Menalippo, riuscì comunque ad ucciderlo a sua volta.
Tideo, fattasi portare la testa dell’altro, la addentò ferocemente e con
247
odio: proprio come fa Ugolino con l’arcivescovo Ruggieri, roso come pane
per fame, prima di spirare anche lui.
248
196.
D
Racconti Cannibali III
a ultimo, e più “di sponda” va ricordata ancora
l’allusione al cannibalismo dei versi in compianto per la
morte del barone Blacatz, composti da Sordello da
Goito (Purg. VI), personaggio che il poeta pellegrino incontra in
Purgatorio e di cui imita l’incalzante e tagliente “stile politico”.
In tale “planh” (compianto) il trovatore spingeva i vili sovrani dell’epoca
a mangiare un pezzo del cuore del valoroso barone così da assumerne il
coraggio.
Ancestrale la credenza antropofaga e primitiva che vorrebbe una
qualche trasposizione di forza e valore, o altre caratteristiche del morto,
nel vivo che se ne ciba, ma la vicenda del cuore mangiato è stata usata
anche altrove, e con ben altro respiro, nella letteratura dell’epoca, anche
italiana.
La novella IV, 9 del Decamerone narra una storia ispirata a una
leggendaria e tragica fine attribuita al trovatore Guillem de Cabestany,
che nella realtà storica probabilmente perì nella famosissima battaglia
delle Navas de Tolosa.
Secondo la leggenda egli fu ucciso dal marito della sua amata durante
una battuta di caccia, questi gli espiantò il cuore che, cucinato, servì
proditoriamente all’adultera, rivelando solo dopo che lei lo ebbe
mangiato di cosa si trattasse.
In preda al dolore e allo sgomento la dama si suiciderà immediatamente
lanciandosi da una finestra.
249
197.
M
Una Frase Biblica Molto Attuale
olte fiate già pianser li figli per la colpa del padre
… (Par. VI) è sentenza biblica, che forse, in Paradiso
dove è ubicata, si riferisce a Filippo di Taranto e Carlo
Martello, figli di Carlo II, che dovranno pagare l’ingiusta occupazione del
regno di Napoli a danno di Manfredi.
Ma, mentre retoricamente (e solo retoricamente) il poeta si augura la
distruzione per intervento divino di intere città, per le colpe di coloro
che le guidano, c’è un momento nell’opera in cui lo stesso prende
posizione rispetto alla giustizia (umana) che condanna insieme ai padri i
figli incolpevoli, ed è ovviamente, quello grande e famosissimo della
morte per fame di Ugolino della Gherardesca e dei suoi figli.
Dante dice esplicitamente che, in considerazione della loro giovane età
erano innocenti e non sarebbero dovuti essere coinvolti:
“Ché se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non
dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'etā novella, novella
Tebe…”
Al di là dei ritocchi che Dante fa di elementi della vicenda storica così
come effettivamente occorsa, variazioni realizzate per accumulare
pathos, (consta, per esempio, che i ragazzi in questione non erano
affatto imberbi ed innocui come egli li descrive), l’invettiva che Dante
formula in tale romanza contro coloro che hanno coinvolto tutti nella
condanna, ha anche un valore autobiografico, posto che anche i suoi
figli furono costretti a vivere gli stenti propri della sua (ingiusta, tra
l’altro) condizione di esiliato.
250
198.
C
I Campioni
ome documentato e ripetutamente riportato nei classici
(Cicerone, Livio, etc.), i lottatori antichi, greci e latini, si
affrontavano nudi e cosparsi di olio, per rendere più
difficile la presa all’avversario.
È, però, probabile che Dante nel riferirsi ai campioni (Inf. XVI), all’atto
di trovare una similitudine per descrivere il curioso atteggiamento dei
tre vecchi politici fiorentini che incontra tra i sodomiti, pensi a quelli
della sua epoca e non già agli antichi, anche perché usa verbi al
presente.
Era ancora in uso infatti, nel Medioevo toscano dell’epoca di Dante, il
duello giudiziario, nel quale, per questioni e controversie tra parti, prive
di scritti e testimonianze che potessero suffragare le rispettive posizioni,
si ricorreva a incontri tra professionisti detti anche pugiles.
Tali ordalie, al cospetto di Dio (venivano anche detti Giudizi di Dio,
appunto), erano realizzate con armi da offesa e difesa, e potevano
arrivare ad essere all’ultimo sangue, se la questione era di gran
importanza, ma per quelle di minor valore i contendenti entravano in
uno steccato, o recinto, e si affrontavano a lotta e pugilato, nudi e unti
come descritto dal poeta.
La parte il cui campione cadeva, rimaneva, come è scontato,
soccombente nella vertenza giudiziaria.
251
199.
E
Zoologia Medievale
ra credenza zoologica medievale che il merlo uscisse a
cantare nelle giornate assolate, anche in pieno inverno.
Una antica favola riferiva che egli stupidamente, dopo
un forte e letale gelo, vista una prima ed estemporanea giornata di sole,
cinguettasse dicendo spavaldo e imprudente: “più non ti curo Domine,
che uscito son del verno”.
Tali parole divennero proverbiali e ad esse si rifà Dante nel
caratterizzare il comportamento sconsiderato di Sapia Salvani (Purg.
XIII).
Il bivero –castoro- si credeva, invece, che cacciasse acquattato, in
attesa delle prede in mezzo ai fiumi, su dighe di legno da lui costruite,
stando parzialmente dentro e parzialmente fuori dall’acqua.
Dante cita l’animaletto per descrivere l’approdo di Gerione (Inf. XVII)
sull’orlo di pietra del girone sul limitare del basso Inferno.
Era, invece, credenza marinaresca quella che voleva i delfini (Inf. XXII)
accostarsi alle navi prima di una tempesta emergendo col dorso.
Una leggenda medievale, riportata anche da Brunetto Latini, assimilava
la figura del pellicano (Par. XXV) al Cristo per la bizzarra idea
dell’etologia dell’epoca secondo la quale esso fosse capace di resuscitare
i suoi piccoli morti, offrendo loro sangue del proprio petto.
La scimmia (Inf. XXIX ) è animale imitatore per eccellenza dell'uomo, e,
come è evidente, ciò è valido ancora oggi, dato che si usa il verbo
“scimmiottare”.
Tra bestie fantasiose e inventate (idre, sirene, centauri, etc.) Dante cita
alcuni serpenti fantastici (Inf. XXIV) di origine classica, sono quelli
252
libici di Lucano: il “farea” solcava il terreno con la coda e la testa eretta,
il “chelidro” è un anfibio (dal greco χέλυδρος, testuggine d’acqua) che si
riteneva procedesse senza torcersi e sollevando fumo al passaggio, lo
“iaculo” –lanciante- vola e si lancia dagli alberi sull’uomo come un
giavellotto, il “cencri” col ventre maculato e punteggiato, procede senza
torcersi, e “l’anfisbena” aveva una seconda testa sulla coda.
253
200.
Pregiudizi Non Politicamente
Corretti
P
regiudizi! Dante descrive i greci come superbi tanto che
Virgilio chiede a lui di lasciarlo parlare con la “fiamma
bifida”, bicefala, dove sono martirizzati Ulisse e Diomede,
che altrimenti, probabilmente, non gli avrebbero rivolto la parola (Inf.
XXVI).
Virgilio può, e lo fa subito, introducendosi ai due, presentarsi come
grande poeta epico ed emulo di Omero, che di loro stessi narra in poemi
immortali che i due paiono conoscere.
I tedeschi invece sono definiti “lurchi” vale a dire ghiottoni e beoni.
Lurco –onis, in latino, significa ingordo, ghiotto.
I “frisoni”, infine, cioè gli abitanti della Frisia, grossomodo la attuale
Danimarca, sono presi per antonomasia come uomini alti, possenti.
254
201.
È
Nomen Est Omen
aderente alla tipica mentalità medievale quella di cercare
corrispondenze tra vari oggetti della realtà e del pensiero,
forse indizi di un ordine supremo che traspare e da
cogliere nelle cose osservandole con attenzione.
Gli scolastici in specie ne ricercavano tra oggetti o persone e i loro
nomi: nomina sunt consecuentia rerum, dicevano.
Si pensi a San Pietro, il cui nome proprio è associato alla pietra: “tu sei
Pietro e su questa pietra…”.
Tracce di tale atteggiamento sono, ovviamente, presenti anche nella
Commedia, per esempio nella citata corrispondenza, mancata in tal
senso, del nome Sapia con savio.
Ma anche il nome di Beatrice ha un chiaro significato attinente alla
missione a cui il poeta la destina.
Rispetto alla santa donna, però, Dante va molto più in là, e nella Vita
Nuova formula una serie di complicati riscontri e corrispondenze
cabalistiche, numerologiche e astrologiche legate al numero nove, fino
ad arrivare a “dimostrare” che lei è di per sé miracolosa:
“Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se
medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali
sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del
nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui
radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade”.
Rispetto al numero nove, poi, è noto come, nella struttura del poema,
Dante gli conferisca un ruolo di grande valore simbolico, e, in primo
luogo, contrassegnati con tale ordinale sono i canti di passaggio da una
255
prima
fase
della
cantica
(diciamo
introduttiva)
alla
successiva:
nell’Inferno il poeta accede alla città di Dite, nel Purgatorio si immette
nelle cornici di pena, in Paradiso si superano i primi tre Cieli “minori”.
256
202.
F
Avvelenamenti
ar credenza (Purg. XXVII) si riferisce al costume
dell’epoca, ne parla anche il Boccaccio, di dare a provare
le pietanze del principe, di solito, a cani o ad altri
animali, per sincerasi del fatto che non fossero avvelenate.
Nella situazione dantesca, Virgilio sprona il poeta con queste parole a
verificare il fatto che il muro di fuoco che deve attraversare per accedere
al Paradiso terrestre può scottarlo sì, ma non nuocergli fisicamente, non
torcergli un capello: lo invita quindi a immergere in esso un lembo della
sua veste, che, vedrà, non prenderà fuoco.
257
203.
I
L’Abito Di Dante
l lucco, parola di etimo incerto e forse imparentato con cloak,
(mantello, in inglese), è la lunga veste maschile in uso a
Firenze con cui viene raffigurato Dante e che il suo maestro
ser Brunetto (Inf. XV) afferra esprimendo il suo stupore nel vederlo
transitare per l’Inferno da vivo.
Leggiamo che essa era: di panno o di damasco, di colore nero, rosso o
paonazzo, chiuso al collo da grossi ganci, o annodato con nastri, e
cadeva a pieghe fino a terra, con aperture laterali per lasciar passare le
braccia; era foderato d’estate di taffettà o altri tessuti, d’inverno di
pelliccia di vaio o di velluto.
Da principio fu veste riservata ai nobili, ai dottori, ai magistrati, ai priori
e ai gonfalonieri, in seguito divenne di uso comune per ogni cittadino
che avesse compiuti i 18 anni.
258
204.
Q
“M” Onciale
uando Dante incontra il suo goloso amico Forese in
Purgatorio, non lo riconosce tanto è smagrito.
Descrive poi tutti gli ospiti della cornice VI come delle M
onciali.
Chi pensa che nel volto umano sia scritta la parola “omo”, prendendo i
due occhi per le O e vedendo gli zigomi, le arcate sopracciliari e la linea
del naso tratteggiati rispettivamente dagli steli esterni, le curve
superiori e la retta centrale della lettera M, può facilmente capire il
tremendo spettacolo di queste anime consumate: le pupille parevano
gemme incastonate in enormi orbite.
L'onciale fu la scrittura per eccellenza dei codici miniati bizantini,
diffusa dal IV al IX secolo, era arrotondata e meno squadrata degli
antecedenti alfabeti, quindi più indicata per la penna e la pergamena
che si diffusero al tempo.
Nelle epigrafi le O erano inserite dentro gli spazi interni e curvi della
lettera M quindi divenivano simili a due occhi in un volto stilizzato.
Il volto dell’amico è così scavato che la similitudine è subito evidente in
lui.
L’opinione che l’essere umano avesse la parola “omo” scritta in volto,
era diffusa nel Medioevo; in specie una predica francescana di Bertoldo
di Ratisbona testimonia in modo preciso tale dato.
259
L
205.
Gioco Della Zara
iberandosi
gentilmente
del
capannello
di
anime
purgatoriali che attendono alla radice del monte il
momento dell’ingresso alle cornici di pena, attesa imposta
per aver dilazionato negligentemente il proprio pentimento, sino alla fine
della vita, Dante, che può accelerare i tempi pregando per loro, si ritrova
a comportarsi come chi, sulla pubblica piazza, sia uscito vittorioso da
una partita alla zara, e vada distribuendo mance.
La Zara (Purg. VI) è un gioco di dadi, comune nel Medioevo. Il suo nome
dovrebbe essere di origine orientale -cfr. lo spagnolo azahar, dall’arabo
zahr (fiore)- zagara, appunto: fiore d’arancio o d’agrume. Oppure dalla
stessa parola araba (che significa anche dado) poi passata anch’essa
allo spagnolo in azar, azzardo, rischio, aleatorietà, incertezza.
Si giocava con tre dadi, si dichiarava una cifra da 3 a 18 e si lanciava,
chi azzeccava l’uscita prendeva il piatto.
260
206.
L
Le Tre Parche
e tre Parche, corrispondenti alla greche Moire, le celebri e
sinistre, divinità romane, sono menzionate tutte nella
Divina Commedia: Atropo, l'Inesorabile, da ὰ-τρέπω (Inf.
XXXIII), Cloto la Filatrice, da κλώθω (Purg. XXI) e Lachesi da λαχεῖν,
(Purg. XXI).
Figlie di Erebo (dal greco
῎Ερεβος, “tenebre” e quindi anche
personificazione degli inferi, figlio di Caos) e della Notte (sua sorella da
cui ebbe altra svariata discendenza), o di Zeus e Themis, si occupavano
dello stame della vita umana, la cui intera vicenda era rappresentata da
operazioni tessili.
Alla nascita di ciascuno, Cloto, la più giovane, prelevava una certa
quantità di lino, lana, o canapa (pennecchio) e la avvolgeva sulla
conocchia, Lachesi, poi, la filava giorno e notte.
La durata di vita di ciascuno era determinata e limitata dalla attività di
questa Parca, dato che, quando ella finiva di tessere, il filo era
ineluttabilmente reciso dalle forbici di Atropo. “Clotho colum retinet,
Lachesis net et Athropos occat”.
261
207.
G
Malaria E Ospedali
iunto il momento di salire in groppa a Gerione per
tuffarsi a volo e transitare così verso il basso Inferno di
Malebolge (non c’è altro modo) Dante si sente assalito
da un incontrollabile brivido che paragona al “riprezzo” -ribrezzo:
brivido di freddo, di chi trema alla sola vista dell’ombra-, anche esso
non soggetto a volontà, di chi senta arrivare la febbre quartana.
La quartana è una febbre infettiva, variante della malaria, che sorge nel
malato con una periodicità costante, ogni quattro giorni, intervallata da
due giorni di apiressia, ed è causata dalla presenza nel sangue di
successive generazioni parassitarie.
Il poeta formula in un’altra occasione il riferimento alla malaria (Inf.
XXIX) quando, visitando il luogo di pena degli alchimisti afferma che
unendo lamenti e puzzo degli ospedali di Valdichiana, Maremma e
Sardegna, luoghi all’epoca infestati da tale male (anche Senigallia, Par.
XVI, ne è infestata) non si arriverebbe alla situazione che egli stava
vivendo.
La prima località, tra Arezzo e Chiusi, era infetta per il ristagno delle
acque del Chiana, la Maremma è famosamente paludosa, e la Sardegna
era considerata molto malsana. In tali posti erano stati costruiti
ospedali che accoglievano dovizia di malati, specie tra luglio e
settembre.
262
208.
P
Virgilio Il Mago
are che nel Medioevo la fama di “mago” seguisse spesso
quella del semplice sapiente.
Di sola sapienza scambiata per magia si parla anche in
merito a un dannato dantesco: Michele Scotto, che fa “retroso calle”
assieme a Asdente, Bonatti e compagnia proprio come indovino.
Maghi e indovini sono, notoriamente, puniti assieme all’Inferno anche
se tecnicamente si tratta di condotte diverse.
Di Scotto si narra che parlasse latino, greco, ebraico, caldaico, arabico,
fosse matematico, astrologo, teologo, filosofo e naturalista alla corte di
Federico II, l’imperatore avverso al papato, anche lui eruditissimo, e
definito dalla pubblicistica clericale persino come l’Anticristo.
Tra altri, la redazione di libri di magia, fu attribuita persino a San
Tommaso e Alberto Magno.
Il discorso sarebbe complicatissimo, ma, benché Dante non pare aver
potuto condividere una opinione del genere, una leggendaria fama di
mago aleggiava anche su un personaggio centrale della Commedia:
Virgilio.
Quello stesso Virgilio che (prima guida, delle almeno tre identificate e
personificazione della ragion naturale) il suo discepolo Dante sistema,
reverente, nel Limbo, come giusto pagano, e che, secondo altre
leggende, può vantare di aver convertito molti alla fede cristiana con la
sua famosa egloga IV.
Tra altri convertiti dall’inconsapevole opera poetica del mantovano,
Dante stesso inventa la bellissima storia di Stazio, che sarà incontrato
in Purgatorio.
263
Virgilio, diceva il mito, aveva salvato anime pur senza essersi salvato lui
stesso. Nel Medioevo si narrava pure che, se avesse avuto la fede,
Virgilio sarebbe stato addirittura un santo, ed è per questo che sorse la
leggenda bizzarra secondo la quale uno di essi, San Paolo, pianse sulla
sua tomba.
264
209.
B
Un Traditore Corrotto Dai Francesi
uoso da Duera (Inf. XXXII) signore di Cremona, fu
incaricato dai ghibellini di Lombardia e da Manfredi di
resistere, presso Parma, alla calata di Carlo D’Angiò, ma
corrotto col danaro (“argento de’ franceschi”) lasciò passare i francesi, i
quali così potettero prendere parte alla famosa Battaglia di Benevento
del 1266 contro il figlio di Federigo II. Così la storia secondo Dante.
A dire il vero, secondo fonti storiche, nell'estate del 1265, per iniziativa
di Filippo Della Torre, che aveva già spodestato il Pelavicino a Milano, i
guelfi, tra cui, in testa a tutti, Obizzo d'Este (sempre quello a bagno nel
Flegetonte), il marchese del Monferrato e il conte di Savoia, si allearono
con Carlo d'Angiò, aspirante alla corona siciliana.
Questo patto era espressamente rivolto contro Manfredi di Sicilia,
Oberto Pelavicino -o Pallavicino, coreggente di Cremona ed ex capitano
di ventura sotto Federico II di Svevia- e il Duera stesso, e avrebbe
dovuto aprire alle truppe francesi la via verso l'Italia centrale e
meridionale. Il Buoso e il Pelavicino, con forze molto inferiori di quelle
degli avversari, tentarono pure di sbarrare il passaggio dell'Oglio a
Soncino e Orzinuovi, ma alla fine del 1265 gli invasori varcarono il
fiume indisturbati più a settentrione, presso Palazzolo, unendosi, a
Mantova, con le truppe estensi.
265
210.
I
La Città Infernale Di Dite
l “recinto” che separa le anime peccatrici per incontinenza da
quelle colpevoli per violenza e frode, all’Inferno, è tracciato
dalle mura della città di Dite (Inf. VIII-IX).
Attraversandole si entra nell’Inferno vero e proprio (rectius: “basso
Inferno”), avvenimento che cade al Canto Nono della cantica, (già detto
che anche nelle altre due succederà di superare un passaggio cruciale
del viaggio oltremondano al nono canto).
Dite è al contempo un luogo e un personaggio.
In Cicerone Dite è il Dio romano, identificato con quello greco figlio di
Crono e Rea, e re dell’Averno, Plutone.
Dante chiamerà Dite sia la città che lo stesso Lucifero, che difatti è un
re infernale, come anche accade nell’Eneide.
Appressandosi ad essa, da fuori quindi, Dante scorge in primo luogo,
come è naturale che sia, le “meschite” che costellano le mura, cioè sorta
di campanili o torri che ricordano quelle pagane delle moschee, non
potevano certo sembrare campanili cristiani dato che non sono certo
costruite a gloria di Dio.
Come nell’opera virgiliana, le mura infernali sono cinte dal fiume
paludoso dello Stige e molta della descrizione antica viene ripresa in
quella dantesca.
Nella Divina Commedia, il recinto urbico è di ferro rosso fuoco,
incandescente per il calore che all’interno dell’Inferno brucia.
Difatti la prima scena che si presenta ai pellegrini all’interno della città
infernale è una solitaria distesa di sepolcri aperti, quelli degli eretici,
266
“affocati”, infuocati, e il personaggio che si rivolge a Dante in tale luogo
(Farinata) la definisce “città del foco”.
Forse la “catena” ferrea che recinge il luogo di pena delle anime violente
e fraudolente sta a significare l’impossibilità per esse di uscire dai loro
peccati mortali, possibilità, invece, più fattibile, o meno irrealizzabile,
per coloro che peccano unicamente di incontinenza e si trovano più in
alto, al di fuori di essa.
267
211.
R
Ribaldo!
ibaldo (anticamente: rubaldo) dal provenzale e francese
antico ribaud, è parola di etimo controverso.
Secondo alcuni essa originariamente non ha avuto da
subito il significato negativo che ha anche presso di noi, ma si riferiva
semplicemente al cortigiano, e forse Dante in questo senso la usa.
In tal caso il termine deriverebbe, chissà, dal germanico bald o balt:
ardito, glorioso; unito al tedesco rik: forza, ricchezza.
Secondo altri l’origine sarebbe, invece, sempre dal germanico, ma da:
hrība (prostituta) e avrebbe un immediato senso odioso. Altri ancora lo
vorrebbero discendere dal tedesco: rieben (raschiare) e starebbe a
indicare il furbo, l’astuto. Il termine è usato da Dante una sola volta, il
furbo barattiere Ciampolo di Navarra sulla sua nascita (Inf. XXII) dice:
“mia madre... m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di se e di sue
cose”; forse si tratta di un cortigiano licenzioso e crapulone.
Guido da Pisa mette in relazione e differenzia ribaldi e barattieri:
…barattiere è chi opera in mala fede o frode contro la cosa pubblica e
l’economia, per lucro. Il ribaldo è chi distrugge le sue cose giocando e
biscazzando (“Hic
tacite
demonstrat
quae
differentia
sit
inter
barattatorem et ribaldum. ‘Barattator’... est qui dolo vel fraude contra rem
publicam vel yconomicam per pecuniam aliquid operatur. ‘Ribaldus’ vero
est qui, ludendo, dispergendo vel commessando res et bona sua...”). I
termini ribaud in francese e ribaldus nel latino medievale, erano stati
usati, quindi, in accezioni molto diverse come anche nell'italiano duetrecentesco.
268
Specificamente, ribaldi erano innanzi tutto detti i soldati di vile
condizione e armati alla leggera, ai quali era affidato il compito di
accendere e ingaggiar battaglia; si parla in tal caso dei tempi di Filippo
Augusto re di Francia, che in tal preciso modo li fece chiamare.
Ma il termine si riferì anche a coloro che andavano saccheggiando al
seguito dei cavalieri, e anche ai servi, ai predatori, alla folla e a tutti i
non combattenti che, seguendo le milizie, riuscivano a entrare negli
accampamenti. Per estensione, furono così chiamati anche coloro che
“senza arte onesta vivessero alla giornata di giuoco, di rapina e di
mestieri vili e turpi”.
269
212.
B
Barattiere
arattieri sono, invece, chiamati, nella Commedia, tutti i
dannati della quinta Bolgia dell'ottavo cerchio (Inf. XXI,
XXII).
Dante usa questo termine per riferirsi ai rei, diremmo noi, di peculato e
corruzione in genere: tutti coloro che, in quanto pubblici impiegati o
investiti di pubbliche funzioni, specie cariche politiche, si facevano
corrompere dal denaro e facevano commercio, per lucro, della cosa
pubblica. Dice infatti di tale comportamento: “del no per li danar vi si fa
ita”, cioè si fa del “no” il “sì” per danaro.
La parola barattiere, però, in una sua prima accezione più plebea, non
si riferisce alla attività politica, ma ha un significato più basso e affine a
quella precedente.
Negli Statuta Cadubrii si parla di: voce generica che presso gli italiani
indica un gran gruppo di vilissimi uomini che vivono lucrando
sordidamente (“vox generica, qua apud Italos praecipue vilissimi quique
homines... significantur” e quindi “qui ex sordido lucro vitam agunt”).
Nei secoli XIII e XIV erano chiamati barattieri i calones, i galeones,
coloro che esercitavano le professioni di facchino e addirittura di boia o
il suo tirapiedi, i pulitori di pozzi neri, chi teneva un banco di gioco, chi
viveva alla giornata, rapinando ed esercitando mestieri vili e turpi,
anche al seguito degli eserciti, ma il termine arrivava a indicare
genericamente anche: la contesa, il contrasto, la baruffa.
Fra i secoli XIV e XVII significherà persino il luogo nel quale i barattieri
giocavano d'azzardo.
270
Pare che tra il Due-Trecento toscano esistesse una baratteria spicciola,
faccendiera, quotidiana, esercitata da uomini di bassa condizione e non
dediti all’esercizio di un’arte e che quindi vivano di mezzucci e alla
ventura.
A Lucca il fenomeno arrivò a tale diffusione e proporzioni che il Comune
incassava un tributo, il provento della baratteria, la “kabella barrate rie”
e a Firenze aveva dato luogo a una vera e propria consorteria, dotata
addirittura di un proprio gonfalone con tanto di insegna, i cui
componenti indossavano: “una tuta di lavoro con cappellina nera a
punta”.
Anche il termine ribaldo, particolarmente in uso per prostitute e gestori
di bordelli aveva nella Francia del XII secolo un personaggio ufficiale,
conosciuto come Rex Ribaldorum, appunto, il cui compito era quello di
indagare e promuovere inchieste giudiziarie per i reati commessi entro il
perimetro della corte, e di controllo di vagabondi, prostitute, bordelli e
gioco d'azzardo-case.
Nella vita fiorentina dell’epoca, a quanto sembra indisturbati da parte
delle autorità, attendevano al giuoco dei dadi, o alla gherminella.
Sul Mercato Vecchio non soltanto i contadini, le contadine e le
popolane, ma anche i cavalieri ed i giovanotti delle grandi casate
formavano la ben gradita clientela che si assiepava intorno ai barattieri.
271
213.
D
La Fede
ante, dinanzi a San Pietro che lo sta esaminando, e in
accordo con la chiosa tomista alla Lettera agli Ebrei (XI,
1:
“est
fides
sperandarum
substantia
rerum,
argumentum non apparentium”) definisce la Fede (Par. XXIV) come:
… sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi,
...
Inutile rimarcare qui quanto centrale sia il tema della fede per un
cristiano, ma per farla breve il poeta afferma convinto di avere fede
(paragonata a una lucente moneta d’oro) a causa dei numerosi miracoli
di cui si favoleggia nella Bibbia, e che non potrebbero mai avere una
spiegazione altra che l’origine divina.
All’obiezione dello stesso Pietro, che gli fa osservare l’ovvietà per la quale
il racconto biblico ricoprirebbe al contempo il ruolo di testimone e
giudice in uno stesso procedimento mentale, Dante replica che ad ogni
modo il maggiore e più stupefacente dei miracoli lo ha potuto osservare
lui stesso, dato che esso è l’enorme diffusione del cristianesimo da un
così piccolo seme.
Per Dante quindi, il più grande dei miracoli mai occorsi, è proprio che
da una vicenda apparentemente umile e poco significativa, che
implicava personaggi anche essi umili (non val la pena ricordare che
Pietro stesso, primo Papa, era un pescatore) sia scaturita una intera
civiltà.
272
214.
C
Orlando
ome accade in molti altri punti e con altri personaggi,
potrebbe essere oggetto di interessantissime, dotte e
complicate tesi dottorali sviscerare il senso e la portata
dei riferimenti a Orlando durante la Commedia.
Essi, comunque, suscitavano di certo un’impressione immediata e viva
nel cuore del lettore dell’epoca, altamente evocativa.
Orlando, il celebre eroe cantato per secoli dalla cristianità, appare citato
all’Inferno (Inf. XXXI), probabilmente in virtù della sua vicenda umana
che lo rende esempio, antonomasia, di persona tradita.
Difatti Dante lo ricorda a proposito del corno ascoltato con spavento al
Pozzo dei Giganti, e quindi proprio poco prima di immettersi nel lago di
Cocito dove si puniscono i traditori.
Come tutti ricordano, nel 778 egli morì a Roncisvalle nella retroguardia
dell’esercito di Carlo Magno, composta da tremila uomini, che lui stesso
guidava. L’attacco degli infedeli fu propiziato proprio dal traditore Gano.
È arcinoto come nella Chanson si narri del suo corno Olifante, che
riecheggiò vastamente per le montagne e il cui suono giunse sino alle
orecchie preoccupate di Carlo.
Orlando, su consiglio del saggio Oliviero, lo suonò, e con tanta forza lo
fece, narra il poema, che le tempie gli si creparono e sangue chiaro gli
sgorgò dalla bocca.
Quando il re cristiano arrivò in soccorso non trovò che morti.
In Paradiso (XVIII) Orlando è citato con Carlo Magno dopo due eroi
biblici, come esempio di campione nella lotta contro gli infedeli.
273
215. Morte Per Diarrea Divina
D
a un passaggio, poi considerato spurio, del Decretum di
Graziano, Dante ricava la storia del famoso Papa
Anastasio (Inf. XI), chiuso nel sepolcro da eretico dove
sostano i due poeti pellegrini prima di scendere la rupe e avventurarsi
oltre i peccati di incontinenza.
Secondo la leggenda, il Papa, traviato dal diacono Fotino affinché
abbracciasse l’eresia monofisita di Acacio, che assegnava al Cristo la
sola natura umana, fu punito da Dio in persona con una morte
improvvisa (nutu divino percussus est).
Non è l’unico la cui morte sia dovuta a diretto intervento e punizione
divina (a volte Dio interviene altre, no!), analoga e bizzarra sorte, si
narra, capitò ad Ario.
Ambedue morirono in modo assai singolare e umiliante, mentre stavano
espletando le loro funzioni corporali, evacuando a terra tutte le viscere.
274
216.
I
senesi,
Un Fiume Inesistente
già
segnalati
all’Inferno
come
persone
di
straordinaria idiozia, sono ricordati pure in Purgatorio per
una
fallimentare
iniziativa
nella
quale
furono
spese
ingentissime risorse economiche e profusero sforzi vanamente.
È noto, infatti, che nella ricerca di acqua si ossessionarono nel voler
cercare un fiume (Diana) che non esiste affatto e, città non costiera,
addirittura abilitarono cariche militari ridicole e vacue: ammiragli di
città senza porti.
217. L’Eliotropio
N
el Medioevo si credeva -o si fingeva di credere- che una
pietra, una forma particolare di quarzo: calcedonio verde
scuro con inclusioni di ossido di ferro o diaspro in forma
di macchioline di color rosso o arancio, l'eliotropio (dal greco ήλιοςhelios, sole e τρέπειν-trepein, girare: orologio solare, girasole), fosse in
grado di riparare contro il morso dei serpenti, o, come citata pure da
Dante (Inf. XXIV) e da Boccaccio nella novella di Calandrino
(Decamerone, VIII, 3) e menzionata nel Mare Amoroso, donasse
invisibilità. Suo altro nome è diaspro sanguigno, per via del colore.
275
218.
I
Malebolge, Malebranche, Malacoda
l suffisso mal (ricordiamo che “mal mondo” è l’Inferno stesso)
è usato nell’onomastica infernale dantesca in tre importanti
occasioni
in
unione
con
altri
lemmi:
Malebolge,
Malebranche, Malacoda.
Nel primo caso (Inf. XVIII) Dante così chiama un luogo: la parte
dell’Inferno dove sono puniti i fraudolenti, il basso Inferno.
La parola è formata dall’unione di ‘mal’ con la parola ‘Bolgia’ che,
mentre per noi ha ormai un significato specifico e di derivazione
esclusivamente dantesca (luogo infernale, chiassoso, disorganizzato e
stipato di gente) al tempo del poeta significava, borsa, sacca, e quindi
starebbe stata evocativa di un contenitore di pelle, bisaccia, riempito del
male del mondo.
L’aver punito i fraudolenti in sì chiamati fossati, forse, riecheggia il loro
agire subdolo, coperto, chiuso, ma l’insieme della conformazione dei
fossati
stessi,
la
parola
che
li
indica
collettivamente,
alcune
caratteristiche specifiche di taluni, lascia inevitabilmente pensare a
degli intestini o a una fogna: le fognature di un sinistro e inverso
castello in pietra.
Malebranche è invece il nome collettivo di tutti i diavoli guardiani e
addetti al tormento, tramite uncini –raffi- dei dannati della quinta
Bolgia, il numero totale di essi è imprecisato, ma, si suppone, vasto (Inf.
XXI, XXII, etc.) ed è formato manifestamente con la parola ‘branche’,
che riecheggia la loro missione di infiocinatori, e scorticatori tramite
forconi, artigli e uncini (da cuochi), dei dannati che “abbrancano”
(appunto), gettano a lesso nella pece e poi controllano.
276
Le figure diavolesche sono popolari, hanno in generale un aspetto
feroce, sono neri, forti, dotati di ali, crudeli, straziano i dannati,
sbeffeggiandoli in modo sarcastico, ma sono anche assai volgari,
litigiosi, irascibili, inaffidabili, poco organizzati e indisciplinati sino alla
inefficienza.
Ricordiamo tutti i loro dodici nomi, per renderceli familiari: Malacoda,
Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco,
Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante.
Tutto il gruppo incontrato da Dante obbedisce a Malacoda, che è
specificamente quello che seleziona la decuria che accompagnerà i due
poeti pellegrini per le “bollienti pane” –stagni.
È lui che parlamenta con Virgilio, ne ascolta le ragioni, si stupisce della
situazione del pellegrinaggio infernale voluto da Dio tanto da far cadere
l’uncino a terra, e fa in modo che nessuno aggredisca i visitatori.
Anche questo nome è ottenuto dall’unione di due lemmi che evocano
immediatamente una certa e precisa sensazione nel lettore, un
procedimento di creazione onomastica definito dalla critica come
“intellettualistico”, però.
Il nome, coniato sullo stesso tipo degli altri due, resta chiaro sia dal
punto di vista lessicale che da quello delle possibili allusioni.
Il secondo elemento che lo compone, coda, richiama l’attributo maligno
del tipico bestiario iconografico infernale, come anche in Gerione (con
coda di scorpione) e propone un personaggio anche esso dai tratti
fortemente popolareschi e grotteschi.
277
219.
L’Amore: Forza Che Unisce O Che
Divide?
D
ante fa dire a Virgilio che quando egli sentì il terremoto
che scosse l’Inferno alla morte di Cristo, lui, che era già
dipartito da qualche tempo, pensò che “l’universo
sentisse amor” (Inf. XII), per mezzo del quale amore il mondo fu più
volte convertito nel caos, si dice.
… l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
…
Che l’amore sia la forza capace di rifondere il mondo nel caos deriva
dalla
dottrina
dell’antico
filosofo
greco
Empedocle,
il
quale
distinguendo i quattro elementi (fuoco, terra, aria, acqua) assegnava
alla discordia, o odio, la facoltà di separarli, o disgregare, e quindi di
ordinare il mondo in oggetti distinguibili, e alla concordia, o amore, di
unirli e quindi di renderlo caotico e indistinto.
L’alternarsi della preponderanza di una delle due forze universali
ricorrerebbe ciclicamente tra due estremi. Tale dottrina fu criticata da
Aristotele, e dalla cosmologia cristiana che assegnavano all’amore la
virtù ordinatrice del mondo.
278
Tralasciando il discorso serio-tecnico, e le ingentissime riflessioni
filosofiche e filologiche che possono formularsi con rigore, e ovviando
al fatto che per noi oggi questa dottrina non ha il minimo senso, è
curioso vedere come la discordia, o l’odio, in Empedocle sia una forza
“utile-funzionale” all’esistenza dell’uomo, che versa in uno stadio
intermedio tra caos privo di conflitto e distruzione assoluta. L’uomo è
parte aggregato e parte no.
Il nostro attuale intendimento dei lemmi implicati nella faccenda ci
induce a relazionare l’odio con il male, la distruzione il disordine, la
sofferenza, e l’amore con il bene, la costruzione, l’ordine, la
piacevolezza.
Ma ciò è in parte arbitrario, in effetti l’odio è per l’essere umano un
sentimento non sempre e necessariamente vincolato al “male” e senza
dubbio è funzionale alla lotta per la sopravvivenza. Assegnare alle
leggi della natura un vincolo diretto con i sentimenti umani, più
conosciuti e tipici, fa venire in mente l’idea che tali sentimenti non
dipendano da altro che da tali forze, e sorgano, quindi, in modo
meccanico ed inevitabile in ciascuno a seconda della composizione
specifica di elementi che lo conformano e obbedendo alle stesse regole
degli animali che si predano tra loro, o degli oggetti inanimati che
cozzano e si sfaldano.
Andrebbe rilevato come anche il pensiero potrebbe essere vincolato
alle due forze elementari, dato che uno dei processi per “mettere
ordine” nelle cose tramite scomposizione degli elementi è quello di
studio, o di analisi: di separazione. Il procedimento di conoscenza
(supremo dei misteri) potrebbe però ben dirsi attivato, in principio, da
un “amore” (‘filosofia’ è amore per il sapere) che è appunto un scelta
279
per qualcosa verso cui si propende, e che difatti fa “unire” due
elementi che sono, dapprima, separati.
Si potrebbe dire, quindi, che l’amore se ti avvicina a qualcosa con una
buona disposizione d’animo e ti unisce ad essa, non per questo è la
stessa forza che te la fa capire e comprendere, e che “mette in ordine”,
sistematizza, l’oggetto per cui sente attrazione.
L’amore è difatti una forza irresistibile e indomabile, da questo punto
di vista caotica, per quanto di solito piacevole, e che aggrega elementi
distanti. Parimenti il voler ordinare le cose significa anche separarle,
romperle, processo che come disposizione interna sentimentale non
implica affatto la buona disposizione e meno che mai il trasporto, ma
una volontà di dominio. Conoscere è sezionare, spezzettare, come fa
l’Hacker pure, per ottenere un risultato.
Anche la parola “discutere”, dal latino, ha originariamente un
significato odioso e aggressivo, significa infatti “sbattere, separare”. E
quindi! Amare una persona non equivale a volerla capire!
Anzi volerla comprendere (comprendere equivale a circoscrivere,
quindi anche, imprigionare), e discuterci, è in un certo senso
incompatibile con l’amarla.
Amare è affidarsi a una forza caotica e tirannica, furiosa e indomabile
che ti unisce all’altro e ti fa desiderare, nell’ardore più sfrenato e il
nonsenso, di riuscire a confonderti con esso, anche fisicamente, in un
amplesso frenetico e febbrile.
Amare è incenerirsi nell’altro cercando una irraggiungibile fusione dei
corpi, premere le labbra e i denti fino alla soglia del dolore, tremare di
desiderio insensato e inesplicabile.
280
Amore è al di là del calcolo, della convenienza, dell’opportunità della
comprensione, di uno scopo: è caos.
E per questo l’amore non è e non sarà mai nella stabilità, nella
struttura, nella famiglia, negli accordi e nei contratti.
Forse chi non ha amato e non ama così, semplicemente non ama!
Deve cercarsi un altro termine e smettere di usurpare con la sua tetra
vita di coppia il sentimento che supera ogni altro quanto a forza.
281
P
220. L’Alchimia
reambolo. Considerato da moltissimi uno dei discorsi più
interessanti -e centrali- della Commedia, quello dell’alchimia
(parola di origine arabo-greca composta dall’articolo arabo “al”
e il greco “chemeia” –χυμεία- fondere, spandere, saldare) non è che
non possa essere trattato o sviluppato, non potrebbe essere nemmeno
menzionato, in poche righe.
C'è chi ritiene addirittura che l'intera opera dantesca non sia da
interpretarsi, nella sua essenza più profonda, altro che in chiave
esoterica, e addirittura come un trattato alchemico occulto e
dissimulato (per ragioni di sicurezza). Altri hanno detto trattarsi di
un'opera alchemica in cui la materia grezza è l'uomo. E così via.
Alcune corrispondenze (se ne è parlato a lungo) fanno certamente
pensare, e l'uso massiccio dell'allegoria, molto studiata e su cui si
insiste assai, può significare chissà cosa di preciso. Bisognerebbe,
dicono alcuni, essere degli iniziati per avere gli strumenti per capire,
altri sostengono di esserlo e non poterci rivelare nulla.
A noi, per avere materia su cui riflettere, basti solo pensare alla
divisione in tre parti del poema corrispondenti, per varie analogie, alle
tre parti dell'opera alchemica: Nigredo, colore nero, putrefazione
(Inferno); Rubedo, colore rosso, purificazione (Purgatorio); e Albedo,
colore bianco, ricomposizione (Paradiso); o agli strafamosi passaggi
che parrebbero alludere esplicitamente a un senso segreto dell'opera e
agli appelli diretti al lettore di far attenzione al “vero senso” dei versi:
Inf. III-19 “le segrete cose”, Inf. IX-63 “li versi strani”, Purg. VIII-20 “’l
velo è ora ben tanto sottile”, etc.
282
Ma quello alchemico non è certo l'unico ambito in cui è stato
ricondotto un messaggio occulto e criptato dell'opera, altri vedono in
Dante un Templare (residuo e nascosto, dopo l’attacco sferrato
proditoriamente da Filippo il Bello che annientò il potente Ordine
monastico guerresco), e altro ancora.
Ad ogni modo la parola “alchìmia” appare due sole volte nell'opera, e
ambedue nello stesso Canto (Inf. XXIX) a menzione di una colpa
mortale.
Siamo nella Decima Bolgia dell'Ottavo Cerchio (dove appunto si
puniscono i falsari e tra essi gli alchimisti) e a tirarla in ballo sono
due personaggi: Griffolino d’Arezzo, e il vecchio compagno di scuola di studi in scienze naturali- dell’Alighieri, Capocchio, i quali
affermano di aver esercitato tale arte in vita e perciò patiscono la loro
lebbra o scabbia infernale.
Scopo del magistero alchemico è quello, notoriamente, di trasformare
i metalli vili in oro attraverso una sorta di reagente chiamato “pietra
filosofale” (e poi quello di trovare, l’onniscienza, o “l’Elisir di lunga
vita”, che dona l'immortalità o un prolungamento indefinito della vita,
ma Dante si riferisce solo alla trasmutazione –falsificazione, dalla sua
ottica, più o meno sincera che sia- dei metalli).
La Chiesa sotto il pontificato Giovanni XXII (lo stesso polemicamente
descritto e vituperato da Dante come simoniaco in Par. XVIII)
condannò esplicitamente tale pratica. Il Pontefice (con una bolla:
“Spondent Pariter” del 1317, quindi successiva, assai probabilmente,
alla stesura definitiva dell'Inferno, ma non di tutta l'opera la cui
conclusione si stima verso il 1321, anno di morte del poeta) sancisce
che gli alchimisti sono “de crimine falsi” rei, ma San Tommaso
283
(canonizzato dallo stesso Papa) e discepolo di Alberto Magno
(interessato al tema alchemico per via dello studio profondo delle
scienze naturali), ammette la possibilità, in via solo teorica, di
ottenere, tramite questa pratica, oro vero, e non contraffatto, da
metalli meno perfetti.
Sbozzando un'idea generale, le operazioni alchemiche dovrebbero
purificare i metalli grezzi (persino il più pesante, vile e grezzo di tutti,
il piombo) in quello prefetto, l’oro, dato che il metallo in sé ha una
radice comune e perfetta presente in ognuno, ma poi inquinata, in
diverso modo, da accidenti, e esistente, pertanto, in vari di gradi di
imperfezione.
L’alchimia -operazione d’arte ad imitazione della natura- non è tutta
illecita quindi: quella “vera” dovrebbe poter essere usata, l'altra, detta
“alchimia sofistica” (usata per trarre profitto con l'inganno e
pervertendo la fiducia -nella moneta e la sua validità- degli altri), no.
Dante però non accenna alla differenziazione (alchimia vera-sofistica),
forse per evitarsi problemi dato che, per molti aspetti, con la sua
opera danza già spesso sul filo dell’eresia e non vorrebbe fare la fine di
Cecco D’Ascoli (rogo nel 1327).
D'altra parte alcuni hanno definito l'alchimia come “la storia di un
errore
umano”
e
già
Petrarca,
in
“De
remediis
utriusque
fortunae” afferma non essere l'alchimia altro che: “fumo, ceneri,
sudori, sospiri, parole, inganni e vituperî”; e poi: “Noi non veggiamo
mai alcun povero, che per mezzo dell'Alchimia divenga ricco; ben
veggiamo molti ricchi per essa ridotti a povertà”.
284
221.
P
La Lingua Del Poeta
er farci immaginare quanto sia difficile (da non prender
sottogamba)
raccontare
del
più
profondo
luogo
dell’Inferno, e quindi, nella cosmogonia geocentrica,
anche dell’intero universo, Dante usa una frase che si riferisce alla
inesperienza sintattica dei bambini (Inf. XXXII):
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
La frase, la figura che ne scaturisce, è particolarmente tenera e delicata
anche se ubicata in un passaggio di grande forza nell’economia
dell’opera (manca ancora la vicenda di Ugolino e Dante vedrà, due canti
dopo, Lucifero in persona), e fa venire in mente una domanda: anche se
non lo capiamo più bene, se molti, scoraggiati, rinunciano a leggerlo, e
tutti si ha bisogno di copiosissime note semantiche oltre che storiche e
letterarie, che lingua parla Dante? La risposta è inequivocabile: la
nostra!
Nella quale ancora, dopo oltre sette secoli, le due prime parole apprese
nella nostra vita suonano esattamente uguali: mamma e babbo.
285
222.
Q
Tanti Bambini Piccoli
uanto più Dante si avvicina alla contemplazione di Dio
tanto più parrebbe regredire allo stato di infante. Sono,
infatti, reiterate le similitudini che involgono bambini che
si fanno via via più piccoli quanto più si ascende.
Ma c’è anche una vasta rappresentanza infantile nel Paradiso poetico.
Congedatosi dalla sua Beatrice nel canto precedente, e assunto a guida
ultima San Bernardo, Dante contempla il magnifico spettacolo delle
anime beate, individuando la sistemazione che a ciascuna di esse è
stata destinata secondo un infallibile schema divino: Maria, Eva,
Rachele (accanto, come si sa dall’inizio dell’opera, canto II dell’Inferno,
le siede Beatrice), e così via Sara, Rebecca, Giuditta, etc. fino a quelle
anime che non sono salve per merito proprio, ma per merito altrui,
essendo uscite dal corpo prima di aver acquisito la capacità di scelta tra
bene e male.
Si tratta dei bambini innocenti (Par. XXXII), morti prima d’avere l’uso
della ragione. Di colpo il solenne Paradiso dantesco pullula di voci e
volti di marmocchi e putti, una scena di singolare dolcezza ed effetto
consolatorio, specie se pensiamo all’alto indice di mortalità infantile che
affliggeva il Medioevo.
Per acquisire questo sublime effetto audio visuale il poeta smentisce la
teologia scolastica che voleva che i morti assumessero il corpo
perfettamente formato e sviluppato, in piene forze, dell’uomo adulto
d’età approssimativa della morte del Cristo, e adotta l’atra opinione che
voleva invece che ciascuno conservasse quello del momento del
286
trapasso, sebbene libero e immune d’ogni difetto (anche San Bernardo è
un sene, dopotutto).
I bimbi sono entrati in Paradiso per merito altrui, dei genitori, ma le
condizioni e i presupposti per tale ingresso sono mutati nella storia
umana. Nel periodo che va da Adamo ad Abramo era sufficiente la sola
fede dei genitori nel Cristo venturo, poi fu necessaria la circoncisione, e
infine il battesimo.
Rimane da segnalare il contrasto tra la visione dantesca del Paradiso e
l’idea di Tommaso che voleva i bimbi “naturalmente perversi”.
Il santo era stato già implicitamente smentito su un altro punto della
sua dottrina, quando, recitando in rima, aveva ricusato le idee
spregiative che in vita aveva avuto dell’arte poetica.
287
Appendice I: Rilievi sulla questione
“dell'Antivedere” (di Farinata) e la
Conoscenza degli Epicurei una volta
giunta la Fine dei Tempi
Il problema della conoscenza e quello della “memoria” di un dannato
dantesco (o ancor più di un’anima qualunque dei tre Regni) è
immensamente
complicato,
così
come
infiniti
altri.
L’estrema
complessità è parte dell'interminabile fascino dell’opera stessa, poiché
tra i piaceri che essa regala c’è quello di immaginare conseguenze
implicite in alcune sue tematiche alla luce degli elementi che Dante
semina nel corso dell'opera. Uno dei più complessi è proprio questo.
I dannati danteschi vivono in un'“aura sanza tempo tinta” (Inf. III, 29)
priva cioè di alternarsi di giorno e notte, cambiamenti e storicità, sono
del tutto relegati al di fuori del mondo storico di cui non fanno più
parte. Tuttavia essi conservano un “sinallagma” con esso, posto che
consapevolmente espiano la colpa mentre il mondo storico procede
nel suo divenire e di ciò sono coscienti, sapendo a che punto della
vicenda esso si trova. All'Inferno ci si finisce mentre il mondo accade,
esso “sta”, infatti, nel mondo, notoriamente sotto la crosta terrestre,
nel punto che fino al suo centro è il più remoto da Dio.
Farinata nel suo dialogo con Dante sostiene di vedere il futuro
(mondano) con la vista difettosa di un presbite, Inf. X, 100-105:
’Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose’, disse, ‘che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
288
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano’.
Lo vede, cioè, più chiaramente quanto più lontano esso è, e meno
nitidamente quanto più vicino, fino ad ignorarlo del tutto in
prossimità e durante il suo verificarsi. A questo punto solo notizie
esterne possono essere efficaci per conoscere il presente.
La curiosa dinamica della loro conoscenza futura è spiegata in virtù
del contrappasso, e forse il fatto di conoscere il futuro in modo
difettoso non è qualcosa di specifico degli epicurei.
I dannati hanno, infatti, vissuto tutti abbarbicati unicamente al loro
presente, pur essendo vero che gli epicurei –tra i dannati, ma anche
tra gli eretici stessi- sono specialmente colpevoli di ciò. È probabile
infatti che tutti i forzati dell'Inferno: in primis conoscano il futuro, e
che ciò sia frutto del contrappasso comune tra loro (d’aver, appunto,
privilegiato il solo presente storico) e probabilmente lo è pure che tutti
ignorino il presente (v. per es. il Rusticucci quando si riferisce al
giullare Guglielmo Borsiere, foriero di notizie del presente di Firenze ai
fiorentini precedentemente deceduti, Inf. XVI, 70-72:
...Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole”.)
Perplessità immani sull’assetto globale ed il funzionamento delle leggi
sulla conoscenza dei dannati e la loro memoria sono comunque forti
già solo notando come, ad esempio, Virgilio presentandosi ad Ulisse e
Diomede
(Inf.
XXVI,
79-84)
formuli
una
specie
di
captatio
benevolentiae formulando un riferimento alla sua Eneide (ibidem, 81:
289
…Li alti versi scrissi), opera che i due dannati avrebbero dovuto
conoscere dopo la loro morte (come futuro), ma solo prima della sua
realizzazione (avvenuta tra il 28 ed il 19 a.C.), e non più all’epoca del
dialogo (il 1300 d.C.), così come avrebbero, a quel punto, dovuto
ignorare Virgilio come persona, ed al massimo conoscerlo solo per il
riverbero della sua durevolissima fama futura, ancora a lungo
persistente nell’avvenire del 1300 (quando si realizza il viaggio).
Detto ciò però avrebbero dovuto conoscere ancor meglio Dante, la
Divina Commedia e la sua fama, che però, povero Dante, egli non
avrebbe mai potuto essere sicuro di ottenere in modo così duraturo
(quand’anche è noto che il poeta fosse consapevole che ne avrebbe
avuta cfr. Par. XVII, 118-120:
e s'io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico)
Ad ogni modo, uscendo da inutili e sterili gineprai dovuti unicamente
alla insuperabile condizione umana del nostro amato Poeta, e gli
inevitabili ostacoli ontologici insiti nella finzione del racconto, dal
dialogo Dante-Farinata esce più o meno chiaro un dato rispetto alla
conoscenza del passato di un dannato, cioè che Farinata (ma
nessun altro dannato o defunto) non soffre di amnesia, vale a dire
egli parla disinvoltamente della sua vita e del suo tempo ricordandoli
con buona memoria (anzi a dirla tutta, è noto come egli, al limite della
contraddizione, paia conoscere anche quel presente storico che
dovrebbe per regola generale ignorare, cfr. Inf. X, 83-84). In merito
all'insieme delle conoscenze che riguardano la sua vita ed il contesto
storico a lui proprio e quello anteriore ad esso ci sarebbe da chiedersi
se la condizione di defunto (e di dannato) gli conferisca alcune
290
conoscenze aggiuntive rispetto a ciò che egli sapeva in vita o se i
ricordi siano esattamente gli stessi (vale a dire se da dannato sa
esattamente quello che sapeva in vita o se le sue conoscenze del
passato si ampliano per il fatto di essere defunto). Ci sarebbe inoltre
da questionarsi su se il periodo di condanna infernale che intercorre
tra la morte di ogni individuo e l’arrivo della fine dei tempi, intacchi i
ricordi e le nozioni contenute in ogni anima o invece li lasci
invariati, senza patire, cioè, il degrado, tipico negli uomini, causato
nella memoria dal trascorrere del tempo. Infine ci sarebbe da
chiedersi se sia invece possibile, ed in che misura, e con che
dinamiche, un qualche accrescimento delle nozioni sul passato solo
in virtù di dialoghi tra dannati (il futuro prossimo è comune a tutti e
si suppone lo ignorino tutti allo stesso modo).
Ammesso che i dannati ricordino il passato, loro proprio, e vedano
il futuro in modo imperfetto, perdendo capacità cognitive di quello
più prossimo sino ad ignorarlo del tutto al presente, viene da pensare
che essi "ricordino" il futuro, proprio all'incontrario di come in Terra si
ricorda il passato, vale a dire perdendo gradatamente la memoria di
esso sino a non averne più traccia e non poter rievocar nulla di
qualcosa di anteriormente saputo. Difatti si sta dicendo che i dannati
non sanno più un qualcosa che sino ad un certo punto hanno, invece,
già saputo, e che quindi hanno "dimenticato". L'idea non è del tutto
originale, basti pensare come, nella tradizione classica, anche alle
Muse si conferisce la caratteristica di ricordare oltre al passato anche
il futuro. In virtù di tale dinamica coerente pensare che Cavalcanti,
che cerca di informarsi sulla condizione del figlio che ha lasciato in
terra (Inf. X, 58-60 e ibidem, 67-69), ignorandola completamente
quando formula le domande (e sconcertando con esse Dante, ibidem,
291
70 che perciò tarda a rispondere), abbia in passato saputo con
esattezza la data della morte di lui (Guido), ma che ora non riesca più
a ricordarla. Il padre al momento del dialogo, deve, quindi, ormai,
anche aver perso del tutto di vista il figlio in quel futuro che riesce già
ad
intravedere
fuori
dalle
nebbie
del
presente,
posto
che
allontanandosi con la mente verso quello più remoto, e a lui più
chiaro, non lo vedrà più presente nel mondo, avendo la certezza che
da lì in poi sarà, per forza di cose, già morto. Difatti Guido, quando
Dante compie il viaggio (si trova lì da Farinata e Cavalcanti il 26
marzo), è ancora vivo, ma morrà a breve, il 29 agosto dello stesso
1300. Fosse morto più in là Cavalcanti non avrebbe dovuto,
verosimilmente, chiedere nulla.
Detto ciò, se si vuol immaginare cosa essi potranno sapere quando i
tempi saranno esauriti (alla fine del mondo e della storia umana),
rimangono poche opzioni: riguardo al futuro è chiaro che essi non ne
sapranno più nulla, difatti esso andrà svanendo nelle loro "menti",
man mano che esso si andrà realizzando nel mondo, fino a non
rimanerne traccia quando non ci sarà più futuro di sorta. Lo
andranno, pertanto, scordando poco a poco ma inesorabilmente (lo
afferma lo stesso Farinata, ibidem, 106-108:
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.).
Tutto il futuro prima conosciuto, e successivamente dimenticato, non
dovrebbe poter essere recuperato in alcun modo, o si sarebbe costretti
a sostenere che per un dannato il presente è sconosciuto per una
sorta di “amnesia temporanea”, il che, tra l’altro parrebbe essere
292
escluso dal Farinata stesso (loc. ult. cit.). Alla fine dei tempi il
presente storico non esisterà più, e quindi i dannati saranno coscienti
solo di quello infernale (immutabile). Ma rispetto al passato il
discorso non è così evidente, e così neppure lo è immaginare quello
che le anime dannate epicuree "conterranno" ancora, in loro stesse di
loro stesse e del mondo storico vissuto, per il resto della loro esistenza
fuori dal tempo.
Se le memorie della propria vita vissuta da vivi rimarranno
intatte, e se essi conoscono del passato solo esse, allora gli epicurei,
coscienti solo di esse, rimarranno per sempre solo quello che loro
sono stati nella propria vita terrena e saranno consapevoli sempre e
solo di ciò (contrappasso calzante, vista la colpa). Se invece la
memoria soffrisse (e anche da morti come in vita) delle variazioni,
del normale progressivo logorio e perdita di nozioni che tutti
conosciamo da vivi, le anime avranno progressivamente sempre meno
coscienza e ricordi di quanto vissuto in terra, sino ad arrivare
(verosimilmente) ad uno stato di amnesia completa ed assoluta alla
fine dei tempi (un curioso flash di questo dimenticare ogni cosa,
persino il proprio nome, nel tedio imperituro dell'Inferno è nel film di
Bergman “L'occhio del Diavolo”, dove un personaggio interrogato sul
proprio nome da Satana in persona risponde “l'ho dimenticato”). Le
anime epicuree saranno, quindi, destinate ad essere del tutto vuote di
nozioni e conoscenza. Forse indizi per smentire questa così dura
ipotesi possono ricavarsi da quanto detto da Virgilio a Dante dopo
l’incontro con Ciacco al Canto VI, 106-108, rispetto alla “maggior
prossimità alla perfezione” dei dannati, dopo aver recuperato il corpo
alla fine dei tempi, quand'anche il passo citato non è affatto
dirimente, tutt'altro.
293
Infine, i dannati potrebbero conoscere il passato in modo pieno e
completo, interamente, con il limite, tuttavia, di saperlo solo fino
all'ultima nozione appresa in vita, posto che tutto il resto sarebbe
stato, una volta morti, nel loro "futuro" e avrebbero dovuto, perciò
averlo già saputo come futuro e successivamente dimenticato in modo
progressivo, nello scontare la pena sino all'arrivo del Regno di Dio. Ciò
però implicherebbe che l'ultimo arrivato degli epicurei saprebbe
molto di più del primo. A questo punto potrebbe immaginarsi che non
dovrebbe poter mai comunicare agli altri le proprie nozioni senza
rompere una delle conseguenze della pena divina (che essi debbano
ignorare il futuro, rectius il loro futuro, al trattarsi di un futuro
progressivamente divenuto passato su questa terra). E sarebbe
plausibile pensare che dopo l'uscita dalla storia umana non sarebbe
più possibile comunicazione tra convitti epicurei (per lo meno di
diverse epoche), oppure bisognerà pensare (plausibile anche) che i
racconti de relato non costituiscano una vera e propria fonte di
“conoscenza”. D'altra parte che i dannati parlino e si raccontino fatti
lo si sa per certo, v., tra altri, il passo che si riferisce a Guglielmo
Borsiere, già citato, così come è frequente che chiedano notizie del
presente (per tutti Guido da Montefeltro). È famosamente curioso che
la richiesta di informazioni sul presente avvenga una volta anche in
Purgatorio dove, neppure, la conoscenza delle anime già salve è scevra
da complessità.
In vita gli esseri umani vivi ignorano del tutto lo stato della vita
ultraterrena (a dir tanto immaginandola), e conoscono solo la realtà
storica, mondana. In essa, vivono il presente e lo discernono in base
alle loro percezioni sensoriali, ricordano frammentariamente il
294
proprio passato e le conoscenze in esso acquisite, che vanno
perdendo “di vista” con il trascorrere del tempo. Infine, immaginano
un futuro immerso, comunque, in un grado di più o meno elevata
incertezza. Un dannato invece, semplificando all’estremo, (forse)
ignora il presente mondano (è consapevole solo del suo proprio e
piuttosto immutabile “presente” senza tempo di dannato, la sua
esistenza oltremondana, quindi), ricorda un passato biografico suo,
e conosce il futuro, “scordandolo” man mano che esso va confluendo
nel presente, quando, poi, lo ignorerà del tutto. La conoscenza
mondana di un dannato, dunque si va riducendo con il trascorrere
del tempo, posto che il futuro, conosciuto con miglior discernimento
quando remoto, si va sbriciolando in funzione della sua effettiva
realizzazione sulla Terra.
Mentre nella vita vissuta di ogni essere umano un ipotetico futuro,
una volta concretizzatosi in un presente più o meno affine alle
aspettative ed alle previsioni di ciascuno, viene poi incamerato in
memorie, ed accresce i ricordi, alimenta la conoscenza quindi, in un
dannato tutta la conoscenza del futuro svanisce col divenire e non ha
possibilità di essere incamerata in altro modo, e recuperata. Non
potrà confluire in memorie di alcun genere. È per questo che un
dannato defunto in una determinata epoca sarà, quindi, con ogni
probabilità, da immaginarsi, alla fine dei tempi, come un dannato
proprio di una specifica e determinata epoca e solo quello. L’unica
maniera di accrescere le proprie conoscenze una volta entrati nella
condizione di dannati è quella di avere notizie da altri, racconti,
captare nozioni. Ma possiamo immaginare come piuttosto sporadici e
laconici questi contatti forieri di conoscenza e tra essi una occasione è
proprio la discesa del Poeta all’Inferno. Dante infatti in varie occasioni
295
porta notizie del presente e ne parla (v. Guido da Montefeltro, per es.
Inf. XXVII), il suo viaggio è però un caso più unico che raro. Altro
modo di conoscere l’ignoto sarà, come detto, il dialogo tra convitti di
diverse epoche, ma a questo punto, pur ignorando le dinamiche
specifiche del caso, viene da ricordare come i dannati eretici siano
confinati in sepolcri a gruppi, che alla fine dei tempi verranno sigillati
definitivamente, questo potrebbe lasciar pensare che tra i criteri per
formare i gruppi vi sia anche quello della appartenenza ad un
determinato periodo storico. Per ultimo, forse, altra fonte di
apprendimento potrebbe venire anche dalla sporadica comunicazione
con i vivi attraverso pratiche negromantiche o spiritiche, e di
evocazione, idea non del tutto priva di senso e bizzarra nell’assetto
della Divina Commedia se pensiamo alle parole di Virgilio nel Canto
IX e i riferimenti alle Pratiche della maga Eritto (v. Inf. IX, 19-27).
In merito al problema di come si atteggerebbe il “dimenticare
progressivo” e totale di qualcosa di anteriormente conosciuto come
certo –il futuro per i dannati epicurei- e quindi dello stato e dei
meccanismi della loro conoscenza ed intelligenza, si potrebbero
formulare alcune prime riflessioni.
Facendo un parallelismo con la nostra attuale condizione umana di
esseri viventi, e seguendo la nostra più banale, accettata, schematica
e condivisa maniera di “immaginarci” o percepire la realtà sensibile,
quella che come esseri umani siamo intuitivamente –o culturalmenteabituati a pensare come indiscutibilmente valida, possiamo farci
un’idea delle differenze e delle analogie con la condizione di questi
dannati e del loro “stato mentale”. Siamo soliti pensare di ricordare
parti frammentarie di un passato già sedimentato ed immutabile,
certo, perché accaduto e storicizzatosi, di immaginare uno sfuggente e
296
vago futuro, incerto, che va vorticosamente convergendo in un
presente (che viene poi, appunto, immagazzinato in memorie) che
consideriamo come unica “realtà” effettiva. La realizzazione del futuro,
e la sua conversione in presente storico -e dunque in passato-,
avverrebbe in virtù del divenire –del cambiamento- in base (tagliando
le cose con una mannaia affilata fino all'errore) alle leggi di causalità e
(si presuppone visto che ci si considera intuitivamente liberi) delle
concrete scelte -anche con valore morale- realizzate dall’essere
umano. L'essere umano è immerso in un contesto dai tratti più o
meno indipendenti dalla sua flebile volontà, sfuggenti e di cui egli ha
una conoscenza estremamente parziale, ed un dominio ancor minore.
In merito al fatto che sia il futuro a convergere nel presente e non,
viceversa, il presente ad “avanzare” verso il futuro, come, tra gli altri,
ha chiarito in modo esemplare anche Borges, v’è da precisare che la
prima impressione intuitiva –quella, appunto, secondo cui sarebbe il
passato a dirigersi verso il futuro- è piuttosto debole e povera. Ad una
appena più attenta riflessione si nota con certa chiarezza come la
nostra ristrettissima visione dello stato delle cose ci fa percepire come
più descrittiva e corretta la vettorialità del divenire proprio in senso
contrario. È infatti il futuro a convogliarsi verso il presente,
“morendo”, fossilizzandosi, in un passato ormai immutabile e
pietrificato. È il futuro, vivo, ricco di opzioni, plurimo, incerto, e non
ancora realizzato, a ridursi ad unica realtà presente confluendo, per
quell’unico canale che è il presente storico, nell'univocità del passato,
assolutizzandosi
in
tal
modo,
quando
precedentemente
gli
appartenevano tutte le opzioni –i possibili- scartate dalle scelte
concrete realizzate da chi ha questa facoltà -quella di scegliere-. In
merito, una esemplificazione può venire dalla nota situazione di una
297
partita di scacchi, nella quale ogni mossa giocata non possiede solo lo
straordinario potere insito nella sua forza rispetto alla posizione
specifica, ma anche e soprattutto l’immane e definitivo effetto di
scartare irrimediabilmente tutte le altre opzioni a disposizione del
giocatore fino alla sua realizzazione, e con esse anche tutte le
innumerevoli disposizioni dei pezzi incompatibili con la giocata
realizzata.
Intuitivamente siamo portati ad immaginarci e semplificare la realtà
vissuta in modo tale da ritenere che vigano delle leggi di causalità
necessaria –naturali- che conformano la realtà fattuale. A volte ci si
spinge ad immaginare che, forse, se si conoscessero tutte le cause si
potrebbero anche, usando l’intelletto, prevedere tutti gli effetti (per
inciso prima e immediata critica a questa posizione semplicistica, solo
per brevemente fornire uno spunto, viene già dall'osservazione che
l'intelletto umano che dovrebbe comprendere essendo inserito nella
dinamica causale oggetto del suo “studio” è esso stesso “causa tra le
cause” e nel suo comprendere è a sua volta agente di cambiamenti la
cui comprensione dovrebbe inseguire). La scienza moderna ha
ampiamente rivisto e smentito questa intuitiva, ma molto riduttiva,
costruzione e rappresentazione pressoché meccanicista della realtà,
anche senza affrontare -o al di là de- la questione dell’esistenza di una
autonoma e tipica “opzione di scelta morale” dell’essere umano, o
l'esistenza di mondi paralleli. Nonostante tutto, quella causale -e poi
anche
morale-
parrebbe
essere
l’unica
costruzione
davvero
convincente per un essere umano e per il suo assetto cerebrale, e
nella quale egli possa muoversi a proprio agio, illudendosi di
riconoscersi e conoscersi. Prendiamola dunque per buona ai fini di
questo limitato discorso sulla conoscenza del futuro di immaginari
298
dannati epicurei.
Ebbene, in base a quanto intuitivamente percepito da ciascuno di noi,
i limiti della conoscenza umana in merito al passato nel suo insieme
comportano che, non conoscendosi tutte le cause -ed essendo noi
stessi, appunto, causa tra le cause-, si disconoscono anche gli effetti
nel loro dettaglio, e per tanto il futuro rimarrà sempre incerto,
nebuloso ed imprevedibile. Una mente capace di conoscere tutte le
cause, in modo minuzioso ed esaustivo, parrebbe avere i presupposti
per poter anche immaginare in ogni minimo particolare gli stati
successivi di quanto conosciuto.
Un essere umano, quindi, non conosce il futuro ma solo lo immagina,
giacché conosce solo una parte limitatissima del passato -e del
presente- ed in base ad essi si orienta, sia nel prevedere sia nello
scegliere, (e ciò sia che scelga sia che si illuda di scegliere).
Un dannato epicureo dantesco, invece, non vivendo più un autentico
“presente” in divenire, ha immagazzinato, nella sua specifica identità
individuale, un passato (i cui contorni specifici non sono, come detto,
chiarissimi, ma che forse converrà immaginare come quello proprio
biografico suo) e possiede la conoscenza di quel futuro remoto che si
va dissolvendosi man mano che esso si va concretizzando nella realtà
storica. Alla conoscenza del futuro però non sono posti limiti, e quindi
è lecito pensare che esso sia scrutabile sino alla fine dei tempi, ed in
ogni suo aspetto.
Una strana e curiosa situazione da notarsi su questo assetto, sarebbe
che la “distanza” temporale tra la (immaginiamole immutabili) nozioni
storiche
del
individuale
proprio
passato
compresa-,
e
le
biografico
del
conoscenze
dannato
del
–identità
futuro
andrà
299
inesorabilmente ampliandosi. Il dannato, per tanto, prima di non
conoscere più nulla del tutto, al sopraggiungere della fine dei tempi,
conoscerà un determinato passato storico suo proprio ed avrà, al
contempo, cognizione esatta di avvenimenti e circostanze future
di epoche lontanissime dalla sua esistenza mondana, a lui del tutto
estranee quindi. Di tali epoche egli conoscerà, quindi, modi, costumi,
oggetti, senza poter però risalire a ritroso individuando il cammino
certo attraverso il quale si è arrivati alla condizione che vede con
chiarezza, riportandola e facendola combaciare col proprio passato
biografico.
Se in vita, un essere umano, in base alle sue capacità intellettive e
conoscenze del momento -tutto quello che ricorda, che non ha
dimenticato, quindi- riesce ad immaginare ed ipotizzare (con un più o
meno alto grado di errore, e secondo le capacità e le circostanze di
ciascuno) un qualche futuro, si potrebbe immaginare che, a ritroso,
anche un dannato epicureo potrebbe farlo in merito a quel presente
storico, che ignora, ed anche rispetto a tutto quel “futuro” (dal suo
punto di vista di trapassato di un determinato momento) già
concretizzatosi nella vicenda umana: quel futuro, ormai divenuto
passato, che era nel suo “futuro di defunto”, ma che poi si è andato
realizzando e che, quindi, egli ha saputo, ma poi ha anche
“dimenticato”. Rispetto a tale periodo temporale, il presente storicomondano e quell’“ex futuro” -ormai sedimentatosi nella storia umana,
ma successivo alla sua morte ed ormai inconoscibile per l’epicureosaremmo propensi a credere che il dannato potrebbe “immaginarlo”
ricostruendolo a ritroso a partire da tutto quel futuro –ancora non
realizzatosi sulla Terra- che egli può ancora discernere con buona
vista. Un dannato epicureo, quindi, sarà certo di avvenimenti e
300
situazioni ancora incerte, immerse nella libertà morale degli uomini
futuri, mentre ignorerà la realtà già accaduta, vera, concreta, storica.
Chiaro che se così funzionasse una mente dannata, immersa nella
sua specifica condizione, potremmo anche pensare che egli debba
conoscere il futuro storico in modo lacunoso, imperfetto, posto che se
avesse visione chiara e completa di tutti gli effetti futuri, e potesse
contenere tanta conoscenza, potrebbe anche ipotizzarsi che debba
avere implicitamente le capacità di risalire da effetto ultimo a causa, e
con ciò ricostruire il passato interamente, fino a farlo collimare e
combaciare col suo proprio passato storico, anche in considerazione
del fatto che la cesura esistente tra mondo terreno ed ultraterreno
non lo renderebbe per nulla “causa tra le cause”.
È quindi probabile che un dannato epicureo abbia una cognizione del
futuro generale, magari anche corposa, ma non assoluta, visto che la
sua caratteristica (già umana) di ragionamento non parrebbe, nella
versione dantesca, renderlo capace di ricostruirne gli antecedenti con
totale certezza. È anche possibile pertanto che così come in vita si
immagina il futuro (conoscendo il passato ed il presente in modo
imperfetto) in dannazione si “immagini” quel “futuro ormai passato”
(storicamente avvenuto) e dimenticato, avendone una visione del tutto
priva di effettivo valore conoscitivo, ma fantasiosa. Ciò, comunque, è
piuttosto curioso da immaginare in ottica storica umana, visto che ci
troveremmo dinanzi a persone con una loro specifica identità sia
personale che storica che durante tutto il tempo della realizzazione
della vicenda umana staranno immaginando un presente ed un
passato già determinati, mentre sapranno con certezza tutto ciò che
ancora è nell'indeterminatezza della effettiva realizzazione su questo
mondo. Inoltre essi conosceranno meglio tutto ciò che più si allontana
301
dal loro –indimenticato- tempo di vita vissuta, ma non ciò che è a loro
più vicino. Avranno dunque confidenza e cognizione di tecnologie,
teorie, pensiero, costumi, oggetti avvenimenti, assolutamente distanti
dal loro tessuto biografico, perdendo progressivamente la traccia delle
origini di tutto ciò nella storia umana, ed il percorso evolutivo nel
quale essi si sono sviluppati.
302
Appendice II: Incongruenze: Cenni, In
Particolare Su Vivi E Anime Dei Morti
Questo post è concepito come appendice (ce ne sono altre) alla rubrica
"Pillole di Dante" dato che né per estensione, né per contenuti (si
formulano alcune riflessioni personali assenti nelle pillole) rientrerebbe
nei parametri "ortodossi".
Lo dedico alla dolorosa scomparsa della mia amatissima zia Franca.
È molto noto come la struttura “fisica” della Commedia sia stata
elaborata con accuratissima, dotta e bizzarra concretezza (espediente
usato, con altri, anche al fine di suggestionare il lettore inducendolo a
pensare al viaggio ultramondano come a un accadimento realmente
verificatosi).
Ciò contempla indicazioni orarie soventi e precisissime, spesso di
straordinaria eleganza, e addirittura misurazioni di luoghi infernali in
miglia fiorentine che, però, sarebbe impossibile far quadrare con le
dimensioni globali che l’impianto geologico dell’epoca presuppone. Per
non parlare dei disumani tempi di percorrenza dell’intero viaggio
rispettando tali dati spaziotemporali.
Ma, tra le discrepanze dell’intera vicenda, vi sono anche vari passaggi,
tutti notissimi, che mal si coniugano con l’assetto e le regole generali
dei “luoghi” visitati nell’opera e le leggi divine in essa enunciate e
vigenti. Uno di essi, tanto per fare un esempio non dei più
significativi, è la “nudità delle anime” dannate, che specie in uno
specifico luogo (ruffiani e seduttori) viene ribadita come si trattasse di
303
qualcosa di particolare del posto, o per lo meno è stranamente messa
in risalto.
Altra questione vessatissima e di estremo interesse e difficoltà sarebbe
il rintracciare i fili precisi, o almeno avere un quadro esaustivo, della
consistenza delle anime, dato che a volte esse paiono, e sono
esplicitamente, senza peso ed eteree: non appesantiscono la barca
dove salgono, è impossibile abbracciarle (succede in purgatorio
all’incontro con Casella), mentre in altre occasioni paiono solide e
soffrire già fisicamente le pene che, invece, sempre per inappellabile
prescrizione divina, saranno tali (fisiche) solo dopo il recupero del
corpo umano che avverrà alla fine dei tempi (Dante tira per i capelli
un traditore, potrebbe togliere il ghiaccio dagli occhi di un altro,
Alberigo, e non lo fa, etc.).
Probabilmente buona parte dei problemi in tale ambito dipendono
dalla inestricabile e ingestibile questione che attiene, in modo
necessario ed endogeno, a qualunque rapporto si voglia immaginare
tra fisico e spirituale. All’ora di prevedere un qualche punto di
intersezione tra questi due “mondi”, dei quali conosciamo con certezza
solo il primo, si presentano problematiche, nella sostanza, analoghe a
quelle di ben altri ambiti della creatività umana, dai film horror, alle
leggende e storie di morti viventi, le cui meccaniche, per quanto sforzo
si versi nella loro elaborazione, anche appellandosi alla miglior
scienza, lasciano sempre un ingente contenzioso di dubbi irresolubili.
Ma una questione in particolare della commedia, nel rapporto tra vivi
ed anime morte e gli spiriti dell’oltremondano, è affascinante,
quand’anche pure essa poco chiara. E riguarda l’atteggiamento
diremmo “psicologico” o emotivo che esse anime paiono avere all’ora
della vista-incontro con un vivo.
304
La presenza di un uomo all’inferno non pare mai sgomentare o
spaventare le anime dei dannati, ma provoca, invece e in genere, certa
irritazione o ostilità negli spiriti che le piantonano, puniscono, o
seviziano. Vale a dire: quando Dante incontra i dannati e ci parla essi
possono essere più o meno gentili, meravigliati, possono stizzirsi,
stupirsi della presenza di lui vivo, o usare il sarcasmo etc., ma non
paiono mai sgomenti e meno che mai spaventati dalla sua presenza.
Farinata, per esempio, è lui a intimorire con la sua voce il pellegrino,
ma non pare affatto intimorito a sua volta, come non doveva mai
esserlo stato neanche da vivo. Anche Ciacco si rivolge per primo al
pellegrino, incuriosito, etc. Qualche anima dannata lo tratta con
evidente stupore, per esempio ser Brunetto, o con curiosità per
esempio Guerra, e compagni.
I diavoli e demoni, invece, per tendenza cercano proprio di ostacolarlo,
come succede al di fuori di Dite, o con Caronte, o con Minosse etc.; la
brigata di Malacoda addirittura arriva ad inseguirlo. Insomma,
l’esercito di Satana certa diffusa ostilità la mostra.
Nella prima parte del purgatorio, invece, all’autentico e reiterato
stupore delle anime salve e in attesa di penitenza, si aggiunge anche
certo spaesamento e meraviglia, che ha note di sorpreso timore. Lo
stupore, permane per tutta la cantica (fino a Forese, o Guinizzelli),
mentre quel certo sgomento iniziale dai toni quasi timorosi e lo
spaesamento, svaniscono ascendendo il monte e specie accedendo
alle cornici di pena.
Pare quasi che chi sia in penitenza non possa spaventarsi più, o forse
che la pena stessa lo assorba completamente nella sofferenza e non se
ne possa aggiungere di altro tipo (anche avere paura è soffrire). Per i
dannati si può arrivare ad immaginare che chi è all’inferno non possa
305
più avere paura d’altro. Chi è salvo, e ormai si è ambientato e conosce
il percorso da intraprendere, sa cosa deve sopportare, e non potrebbe
intimorirsi più di nulla. D’altra parte i salvi gioiscono delle loro pene!
In paradiso non c’è, come è ovvio, posto neppure per il minor
sgomento o meraviglia, i beati sono saldi e onniscienti, assolutamente
felici, interagiscono col poeta in un modo limpido, franco e privo di
incertezze.
Forse delle tre situazioni, l’atteggiamento più tenero e commovente lo
assumono le prime anime purgatorie, che si meravigliano fino quasi a
palesare quel sottile filo di timore per il fatto che un vivo possa essere
lì tra loro, pensando, chissà, che le regole divine subiscano una
qualche incomprensibile sospensione. Con ciò abilitano nella mente
del lettore un subitaneo paragone con la situazione opposta, del vivo
che incontri un morto, incontro che, anche dovesse trattarsi di
persona assai benvoluta, farebbe comunque palpitare il cuore nello
spavento.
D’altra parte il destino purgatorio pare, specie nella prima parte, e più
delle altre sorti, una specie di temporanea e disorientata, sgomenta,
prosecuzione della vita terrena, e con essa conserva quella strana e
irrazionale, ma emotivamente irrinunciabile e amorevole interazione
tra i due mondi: di vivi e trapassati.
Le anime del purgatorio chiedono che si preghi per loro tra i vivi, e
ricordano i loro affetti e le loro vicende umane, così come anche il più
razionale di noi si sarà trovato in alcuni momenti della propria
esistenza a dialogare intimamente, se non proprio a parlare ad alta
voce, con un caro congiunto estinto, o con un amico scomparso, e di
cui senta la mancanza.
Siamo indotti per natura, dalla paura della morte e dalla sofferenza
306
per la perdita, e culturalmente, per educazione, da Dante stesso e da
una costruzione infinita di miti e leggende ancestrali, a raffigurarci
una morte che non recida del tutto il filo che ci lega ai nostri amati.
Non solo speriamo (alcuni credono) in una vita dopo la morte, ma anzi
immaginiamo i nostri cari lì ad attenderci e pensarci, ancora
preoccupati per noi, in grado di avere notizie e gioire, o proteggerci.
Tutti probabilmente, anche chi è sinceramente scettico, o è convito
che né l’estinto lo possa sentire, né esista più del tutto, hanno,
nell’irrimediabile sofferenza dell’abbandono di chi si vuol bene,
continuato a sentirlo vicino nell'assenza e nel mutismo, in grado di
gioire ancora e ricambiare la preoccupazione e l’amore che si continua
a provare da questo abisso all’altro.
307
Appendice III: Riflessioni sul Prestito del
Danaro, considerando Dante e Meco del
Sacco
La pratica del prestito del danaro forse è tanto vecchia quanto
l’invenzione del danaro stesso. Sin dai tempi antichi esso si concede
pretendendo un interesse; vale a dire, si dà una determinata quantità
di danaro nel presente, a corrispettivo di riottenerne una quantità
maggiore nel futuro.
Il passo del tempo aumenta la quantità di interesse richiesto da chi
presta.
Il fondamento, la ratio, la giustificazione di questa pretesa è da
sempre oggetto di dispute interminabili e complicatissime. Anche
perché non è nemmeno ben chiaro cosa sia il danaro stesso! D’altra
parte tale pratica ha creato figure e professioni autonome, lecite e
illecite: banchieri, usurai, strozzini.
Come sappiamo Dante tratta, nella sua opera, il tema; tema che era
molto discusso già nella sua epoca, dato che si viveva in momenti di
sviluppo commerciale notevole e che il fiorino d’oro era una moneta
molto forte nella bilancia dei pagamenti internazionali; addirittura
l’istituto del credito arrivava in molti casi ad assumere i tratti di
un’emergenza sociale tanto era diffuso.
Oggi il tema è ancora in voga, con un corollario di discussioni
monetarie che pure il poeta ha in qualche modo trattato; nella nostra
attuale situazione sono molto sentite le problematiche relative al
debito pubblico e all’indipendenza e sovranità monetaria, così come la
308
titolarità dell’emissione di moneta. È ormai pacifico, però, che il
danaro abbia un valore in sé e che possa essere prestato con
interesse. Oggi viene addirittura emesso già gravato da un interesse.
Sarebbe assai interessante fare una ricognizione completa nell’opera
dantesca delle opinioni su usura, prestito, moneta e questioni
monetarie, giacché, come si sa, Dante riserva nella Divina Commedia
un consistente spazio a tali tematiche: gli usurai sono puniti come
violenti contro l’Arte, i falsificatori di moneta come falsari, o alchimisti
sofistici, e si tratta, in alcuni passaggi, addirittura di emissione di
monete con valore nominale superiore al loro peso in oro, pratica da
considerarsi scorretta, a detta del Poeta. Oggi, come sappiamo,
abbiamo perso del tutto la relazione tra oro e valore monetario, ma
questo è un altro problema.
Rispetto
all’usura,
ricordiamo
che
nel
canto
XVII
dell’Inferno
esponenti di varie e ricchissime famiglie dell’epoca (Gianfigliazzi,
Obriachi, Scrovegni) subiscono, ultimi del gruppo di tre che abitano
l’”orribil sabbione”, la pioggia di fuoco che cade lenta come neve
alpina in assenza di vento, mentre sono accovacciati immobili.
Ricordiamo, per aneddoto, anche che all’Inferno per regola generale
più ci si avvita verso il basso, più sono punite colpe gravi in modo più
crudele, tranne in questo caso, dove nel gruppo tripartito di violenti
contro Dio, Natura e Arte, i primi sono i bestemmiatori, i secondi i
sodomiti, e i terzi, responsabili di pervertire il corretto operare umano,
l’arte
(lavoro, operosità) figlia della Natura e quindi “nipote”
dell’Altissimo, gli usurai, appunto.
Stando alla bella spiegazione che fa Sermonti del canto XVII (e del XI,
dove il tema è accennato), i canonisti della Chiesa, dopo il concilio
ecumenico di Lione II del 1274 avevano elaborato la dottrina secondo
309
la quale: nessun tipo di mutuo, trattandosi comunque di una vendita
di danaro con pagamento differito, legittimerebbe la riscossione di
interessi, dato che il tempo è un bene comune.
La sostanza sarebbe che non si può lucrare sul passo del tempo, che
non può assumere un valore.
Non è, però, detto, come precisa l’autore, che Dante condividesse
tanta intransigenza dottrinale, e il poeta anzi si ritiene operasse una
molto oculata distinzione fra lo strozzino e il banchiere. Il primo
taglieggia la miseria, il secondo calcola oculatamente i rischi
d’impresa.
A riprova dell’apertura dantesca si invoca l’elogio della volubilità
provvidenziale della Fortuna del canto VI dell’Inferno. Da questo
argomento non siamo autorizzati a dedurre, però, che, seppure Dante
vedesse incentivata dall’attività creditizia la mobilità incessante delle
ricchezze prescritta dalla Provvidenza, operata al buon fine di
dissuaderci dal culto esclusivo dei beni materiali, egli apprezzasse
anche, eticamente, coloro che nel culto esclusivo di tali beni materiali
praticavano quell’attività specifica: il credito.
Rimane il fatto che se la colpa degli usurai, “violenti contro l’Arte”,
fosse semplicemente quella di violare il precetto biblico di procurarsi il
pane con il sudore della fronte, già all’epoca del poeta, ma ancor più
oggi, non si salverebbero in molti.
La pratica del prestito, senza farla troppo lunga, è sempre stata
controversa nel nostro orizzonte culturale, e anche invisa alla
religione cristiana, in quanto implica (ma come altre relazioni
commerciali) l’arricchimento di alcuni grazie alla (puntando su la)
miseria (disgrazia, sofferenza) di altri. Si tratta, perciò, di lucrare e
approfittarsi di situazioni (spesso) che dovrebbero muovere ad
310
altruismo e non ad avidità.
Nel corso del Medioevo la pratica del prestito non ha goduto di buona
fama. Già Giustiniano, nel sesto secolo, aveva stabilito che il tasso
massimo di interesse richiedibile per le operazioni di piccolo credito e
di credito al consumo fosse il 4%, mentre poteva raggiungere il 12% in
caso di carichi viaggianti per mare, foenus nauticus, in considerazione
dell’elevato rischio di tali operazioni; e commercianti e operatori
economici, applicavano un tasso dell’8% generalmente. Il rischio era
quindi un elemento portante del credito e del calcolo dell’interesse.
Basilio Magno (330-379) nella sua omelia al Salmo XIV ammonisce
severamente l’usuraio: “Ma dico: cerchi denaro e guadagno dal
povero? Se avesse potuto renderti più ricco, avrebbe forse battuto alla
tua porta? È venuto per trovare un amico e ha trovato un nemico. Ha
cercato un rimedio ed è incappato nel veleno. Sarebbe stato tuo
dovere alleviare la miseria di quell’uomo e tu invece ne aumenti
l’indigenza cercando di ricavare tutto il possibile dalla miseria. Tu fai,
della sventura dei miseri, una occasione di guadagno.”
Disdicevole! Ma il credito non è certo solo questo, ma anche motore di
sviluppo economico.
Dal canto suo Aristotele era stato molto intransigente e aveva
sostenuto che il danaro era neutro (non avesse un valore di per sé), ed
era solo un intermediario per gli scambi economici, e che quindi per
sua natura fosse sterile, non producendo di per sé frutti (nummus non
parit nummum). Quindi il credito con interessi non aveva ragion
d’essere, e, potremmo dedurre, chi presta, o finanzia una attività, e
poi lucra sui buoni risultati di quella, a lato di una buona capacità di
distinguere gli affari, finanziando quelli e non imprese fallimentari,
lucra comunque sullo sforzo altrui, decurtando i frutti ottenuti dal
311
lavoro di altri, appunto. Che poi tali frutti siano abbondanti e tutti i
partecipi dell’avventura commerciale, soddisfatti è un altro conto. Va
però pure detto che senza il prestito non ci sarebbero le condizioni
materiali per sviluppare idee geniali di persone prive di liquidità, e che
il rischio, l’alea, è sempre presente in ogni attività umana.
Con San Tommaso (Summa Contra Gentiles), più oculato, la
possibilità di prestare a interesse assume una sua legittimità in
quanto il mutuante, privandosi di un suo bene, per quanto in modo
solo provvisorio, non ne ha più la disponibilità, per il periodo, più o
meno esteso, che intercorre tra erogazione e restituzione del prestito.
Subisce, quindi, un danno immediato al quale va sommato non solo il
lucro cessante, ma anche il rischio! C’è infatti anche il “periculum
sortis” che il mutuatario non riesca a saldare il debito. Come
dicevamo.
Nel Concilio Ecumenico di Vienne del 1311-12 si ribadisce, però, la
posizione ostile al prestito su interesse e si sancisce che chi dicesse
che esercitare tale attività non è peccato, dovrebbe essere considerato
eretico. Oggi il Vaticano ha una Banca, le indulgenze non le compra
più nessuno.
Da ascolani è curioso notare che contro tale precetto si schierò anche
un concittadino, stando alle fonti, il quale fu poi processato, come
prevedeva la norma, per eresia. Questo era uno tra i molti capi
d’accusa: l’aver preso una posizione curiosa sul prestito.
Meco del Sacco, infatti è detto aver sostenuto che: “È lecito, a causa
del mutuo, percepire qualcosa dal danaro dato in prestito, affinché il
danaro, dato gratis e senza compenso, non sia come cosa morta e non
vada perduto” (“Ex mutata pecunia lucrum aliquod esse licitum ex
rationee mutui, ne pecunia gratis sine lucro sit mortua et amitatur”).
312
Secondo l’eretico, quindi la ratio che legittima l’interesse sul prestito
non è nel rischio oculato che il banchiere calcola in modo tale da
considerare l’evenienza della mancata restituzione, per le cause che
possano essere, del danaro prestato, ma nello stimolo che colui che
riceve il prestito avrebbe ad intraprendere una attività positiva, e a far
fruttare quanto ricevuto, invece di usarlo senza complicarsi la vita, in
modo passivo e pigro.
La parte ammissibile del credito a interesse, quindi risiederebbe nello
stimolo all’operosità che presuppone, e che è in consonanza con il
precetto biblico di mantenersi operosi, lavorare. Per lo meno da parte
di colui che il prestito lo ottiene, ma, e torniamo a quanto sopra, non
certo dal punto di vista di chi lo concede, che lucra senza muovere un
muscolo.
Questa etica del lavoro oggi sarebbe assai discutibile, dato che
impedirebbe in modo assoluto e per ideologia la formazione di una
umanità priva della necessità di dover faticare per sostentarsi, grazie
agli sviluppi tecnologici. Evenienza che generalmente nessuno
vedrebbe in modo ostile, dato che l’idea che si debba soffrire e
accettare di soffrire e faticare a causa di una colpa da espiare
(partorire con dolore, etc.) si è molto allentata.
In effetti, se osserviamo lo stato attuale del debito, e la sua
procrastinazione automatica da una generazione alla successiva, e
senza che si possa individuare un autentico e certo creditore (chi è il
creditore fisico, certo del debito pubblico?) pare che tale diabolica
creatura sia stata formata proprio dalla volontà di assoggettare
l’umanità, senza possibilità di fuga o redenzione, a una operosa
(quanto spesso inutile) schiavitù del lavoro.
313
Appendice IV: Chi Bestemmia non
Ragiona, chi Ragiona non Bestemmia
Chi bestemmia non ragiona, chi ragiona non bestemmia.
Questa
scritta, apparentemente condivisibile, campeggia sulla chiesa dei frati
di Ascoli.
Sarebbe da subito e intuitivamente condivisibile in virtù di un
ragionamento assai semplice: chi crede in Dio non avrebbe motivo di
bestemmiarlo (è lui che gli ha dato la vita ed è infinitamente buono) e
chi non crede, non ha motivo di farlo dato che, appunto, non
credendo nell’esistenza di tale ente cadrebbe in una banale e stupida
contraddizione con le sue affermazioni, bestemmiando qualcosa che
afferma non esistere. Fine del ragionamento.
In effetti ci sono altri punti di vista da poter considerare. Il primo
potrebbe essere quello di credere in un Dio (cioè un ente con una
volontà e una potenza infinita, reggitore del mondo e creatore dello
stesso –Natura, fisica e affini-) ostile e malvagio, ed in tale visione la
bestemmia, pur impotente, avrebbe
un “senso”, sarebbe una
ribellione del tutto inane, inutile, a chi ha dato sia l’esistenza che la
capacità di comprendere le cose, arrivando ad una conclusione e a
un’ostilità frustrata e impotente, ma “sincera” e ben strutturata.
Arruffianarsi un Dio del genere non bestemmiandolo appare, oltre che
inutile tanto quanto bestemmiarlo, meschino, e quindi la scritta di cui
sopra sarebbe già da vedersi in altro modo che in quello primo e
intuitivo che viene in mente dopo secoli di martellamenti cristiani.
Il secondo potrebbe essere che “Dio” non essendo altro che un
concetto, per un ateo, come tale, come concetto, esiste (e solo in tal
modo esiste) e pertanto può ben essere bestemmiato, proprio
314
ragionando e dopo attenta osservazione della realtà e della storia del
mondo. Ciò in quanto può essere considerato un concetto che ha
portato, nella storia umana, più svantaggi che benefici (arretratezza,
remissività, paura, intolleranza, etc.) e come tale va auspicata la sua
rimozione dalle de-menti dei cittadini; e fintanto che “esiste” in esse,
può ben essere vituperato per infastidire, o svegliare, il prossimo
passivo che ne procrastina l’inevitabile fine sull’altare del progresso
umano, o anche solo per gusto personale.
Questo riassumendo proprio all’osso, e accettando il rischio di fare
una pessima figura, dei concetti e dei ragionamenti che dovrebbero
essere molto più sviluppati.
Anche puntare sempre sul cattivo gusto intrinseco nella bestemmia,
per limitarne l’uso, non è che un ricattino col quale si cerca di non
essere infastiditi, se credenti, dal punto di vista esacerbato del non
credente immerso in una società bigotta.
Credenti che, mi piace ricordarlo, affermano di rispettare gli altri
punti di vista solo quando sono inevitabilmente costretti a farlo, non
per moto spontaneo e sincero, e solo per poter avere garantito il
rispetto totale e tombale su ogni scempiaggine che loro possano
affermare.
Dal mio punto di vista il rispetto non è affatto necessario, basta la
tolleranza, che però deve fermarsi alle parole. Deve essere sempre
garantito a tutti di poter esprimere, su ogni oggetto cognitivo del
mondo, la propria opinione, per assurda che possa apparire e con
essa anche ogni ostilità. E Dio non è che un oggetto tra gli altri verso
il quale si può avere avversione, antipatia, simpatia, schifo,
ripugnanza, adorazione, come per ogni altro: calcio, rock, arte,
filosofia, etc.
315
Deve essere garantita solo la reciprocità! Se devo contemplare uomini
sandwich che affermano che il rock è satanico, pericoloso, da
criminali, e degenere, ok, ma devo ben poter dire un Porcoddio senza
subire conseguenze. E ciò comprende le divinità di altri luoghi di cui
possa venire a conoscenza, in quanto il concetto di “appartenenza”
(non puoi parlare di Hallà perché non sei musulmano) cede dinanzi al
fatto che conosciuto un qualcosa, posso ben farmi un’opinione su di
essa, per erronea che sia, e deve essermi garantito di poterla
comunicare se credo.
Ma ora l’ultimo argomento che mi interessa accennare e di cui vorrei
trattare verte su Dante e sulla bestemmia nell’Inferno (sua opera). Un
autore cristiano.
Sappiamo bene che i bestemmiatori (in vita) hanno luogo e pena
determinati come dannati nell’opera dantesca, e sono relegati al
settimo cerchio, quello dei violenti, e tra essi nel terzo girone (violenza
può darsi, contro il prossimo, contro sé, e poi contro Dio, Natura e
arte, figlia dell’uomo, e quindi nipote di Dio, figlia dei suoi figli). Tra i
bestemmiatori violenti contro Dio, ovviamente, uno in particolare
attira l’attenzione. Continuando a vantarsi, pur da dannato, della
propria superiorità sull’Eterno, ecco rappresentato in terzine il gigante
Capaneo (personaggio del ciclo tebano), che continua, quindi a
bestemmiare pure da morto.
Ma all’Inferno il gigante non è l’unico a bestemmiare, anzi, la
bestemmia appare per la prima volta nel viaggio iniziatico di Dante già
al Canto terzo, cioè non appena si entra all’Inferno (per i primi due
Canti se ne era rimasti fuori, se ben ricordiamo) laddove le anime si
ammassano sulle sponde dell’Acheronte e devono essere traghettate,
cioè non appena scoprono di essere state dannate per sempre.
316
Similmente si torna a bestemmiare in massa dinanzi al burocrate
infernale Minosse, che ascolta confessioni complete e spedisce ogni
anima
alla
sua
pena
specifica.
Tutti
i
dannati,
insomma,
bestemmiano duro!
Una bestemmia specifica ancora più odiosa di quella di Capaneo, poi,
è quella del vigliacco e ladro Vanni Fucci, che insulta Dio con dei
gestacci. E infine bestemmia pure il traditore Bocca degli Abati,
quando viene inavvertitamente calciato dal pellegrino oltremondano
mentre espia stretto fino al collo nel ghiaccio di Cocito gli avvenimenti
di Montaperti. Dante gli fa male, e lui bestemmia.
In
tutti
i
casi
la
bestemmia
è
da
considerarsi
reiterata
ossessivamente, ed è, in un certo senso, parte integrante della pena di
dannazione. La bestemmia in forma di litania è di origine biblica.
Se vediamo, però, il punto di vista di un dannato cristiano con gli
occhi di oggi, vediamo un soggetto, un essere umano, che per errori e
atrocità realizzate in vita breve, si vede costretto a pene eterne e
quindi, a nostro intendere odierno, sproporzionate. Intendimento che,
poi, sarebbe stato fornito all’uomo, dallo stesso Dio che si spaccia
come “giustizia infallibile”, e che ama, quindi, comparire se non
direttamente “ingiusto”, per lo meno “incomprensibilmente giusto”,
che è lo stesso.
Se poi con una mentalità oggi non dico diffusa, ma neppure tanto
esotica, consideriamo la nascita come una violenza agita su un
soggetto che è “costretto” a nascere, ma che non lo sceglie affatto, la
bestemmia assume un carattere di certa legittimità ragionata. Il
contrario di quanto affermano i fratacchiuoli piceni.
Il dannato si trova a dover trascorrere, senza averlo scelto affatto, una
vita che non ha chiesto e che gli sta a cuore per conformazione
317
naturale, in essa agisce, tra gioie e dolori, pur di andare avanti come
meglio crede e può, e alla fine di essa avrà dolore eterno.
Cosa altro potrebbe concludere, lui, che sa di tutto non altro che
quello che ha visto e vissuto, se non di essere stato preda di un
grande, colossale, e crudelissimo raggiro? Una truffa illimitata e
spietata? Che Dio è un infame?
318
Appendice V: La Sorte delle Anime Morte
secondo Dante
Un aspetto tra i più curiosi della Divina Commedia per i lettori odierni
è quello che attiene alle sorti delle anime separatesi dal corpo (morte).
Stranamente è anche uno dei temi meno conosciuti e trattati nelle
scuole, dove, a quanto mi è dato di vedere, e ignoro il perché, si
preferisce annoiare i ragazzi selezionando delle tematiche (quali
l’esilio, la parte storica e politica dei canti) che finiscono per
distanziarli da un’opera che dovrebbe essere amata e che è anche un
grande racconto che oggi definiremmo fantastico.
Purtroppo oggi siamo costretti a sacrificare molto per poter salvare
qualcosa, dato che presto la memoria umana non sarà più in grado di
immagazzinare e gestire tutto quanto la nostra lunga storia e cultura
ha prodotto di meraviglioso.
Dunque vediamo, come è noto i destini di un’anima umana, una volta
terminato il breve errore della vita, possono essere solo due. Durante
il trascorrere delle vita stessa, appunto, usando la propria libertà
morale, ognuno può solo, o salvarsi, o dannarsi.
I possibili destini concreti di beati e dannati sono però, e lo sanno
tutti, tre. I dannati finiscono tutti all’Inferno (lasciamo perdere i
limbicoli) e i beati si ripartiscono tra coloro che devono ascendere il
monte Purgatorio e mondarsi delle loro residue imperfezioni, e coloro
che sono perfettamente beati in Paradiso.
Il destino ultimo delle anime purgatoriali è comunque il Paradiso
(sono salve), ma esse giungono lì dopo aver asceso il monte,
attraversando tutte le sette cornici dei peccati capitali ed aver patito,
319
per durate correlate all’insistenza in vita del peccato specifico, le pene
stabilite in ognuna.
Il Purgatorio è quindi un luogo destinato a svuotarsi, alla fine della
storia, ma anche dell’Inferno, quando sarà compiuta la volontà del
Signore, non rimarrà traccia ed esso verrà annientato completamente
(probabilmente questa è la famosa “Seconda Morte”). Trionferà solo il
bene alla fine dei tempi, rimarrà Dio coi suoi prescelti.
Quando un’anima umana si svelle dal corpo fisico possono, perciò,
darsi tre scenari specifici.
Se essa è dannata il diavolo la farà sua (grottesche e sconnesse le
storie che ne parlano nell’opera) ed essa si troverà ad ammassarsi,
con un’orda spaventosa di altre sue pari, presso le rive tristi di
Acheronte, il primo dei tre fiumi infernali (Stige e Flegetonte gli altri
due). Una volta lì, lo attraverserà per mezzo dell’imbarcazione
condotta dallo spaventoso nocchiero Caronte (con occhi di brace) e si
presenterà dinanzi a Minosse, che, come un immane burocrate
romano, ascolterà la confessione infallibile dei suoi peccati e la
destinerà al cerchio specifico di pena eterna che le spetta. Dopo
Minosse le anime non vagano, scendendo, per l’imbuto infernale fino
a giungere al loro posto, ma sono recapitate, precipitate, direttamente
lì per volontà divina
Se l’anima è salva, ma imperfetta e bisognosa di una purificazione,
essa si troverà, invece, nei pressi del fiume Tevere, alle foci di esso e lì
sarà raccattata da un angelo nocchiero, splendido, che le condurrà,
per mezzo di un’imbarcazione spinta da ali imperiture e perfette, fino
alle coste del monte Purgatorio. Il quale si trova (il mondo di Dante è
notoriamente sferico e non piatto come si crede che nel Medioevo si
320
credesse) agli antipodi di Gerusalemme. Su quel monte, pur ubicato
sulla sfera terrestre, non può giungere nessuno che non sia benedetto
dalla Grazia divina, pensare di poterlo raggiungere è folle; Ulisse ci
provò e racconta la sua tragica fine nel canto XXVI dell’Inferno. Le
Colonne
d’Ercole,
questo
sì
è
medievale,
non
devono
essere
oltrepassate.
Da ultimo potrebbe anche darsi il caso che un’anima muoia già
perfettamente beata, e non necessiti di castigo purgatorio. In tal caso,
all’abbandonare il corpo fisico, nel Medioevo ci si credeva fortemente,
e Dante pure lo crede con passione commovente, tutto l’Empireo,
tutte le anime già salve, sarebbero apparse al nuovo venuto, assunto
tra loro, per accoglierlo e celebrarlo nella Gloria Eterna. Questa è la
sorte dell’antenato di Dante Cacciaguida, morto durante le Crociate
(la II, e investito cavaliere da Corrado III di Svevia) morto al servizio
della Fede Cristiana, la migliore delle fini.
Anche l’umile un giorno avrà la gloria che merita, sarà celebrato da
tutti i cristiani virtuosi, avrà la sua somma importanza e il
riconoscimento che merita, mentre tanti potenti saranno condannati
a pene umilianti e luride.
321
Appendice VI: Scozzesi e Inglesi nella
Divina Commedia
Nella carrellata di personaggi citati, o a cui Dante si riferisce, nel
Canto VII del Purgatorio, sulla Valletta dei Principi, al verso 132
compare allusivamente Edoardo I Plantageneto, morto nel 1307, re
d’Inghilterra figlio di Arrigo III, e, stando a Dante, miglior politico del
padre.
Carlo Villani lo descrive come: “uno de’ valorosi signori e savio de’
Cristiani al suo tempo”. Il suddetto, per aver dato ordine al suo regno,
fu definito come: “il Giustiniano inglese”. Al Canto XIX del Paradiso il
re è citato nuovamente, ma questa volta come esempio di superbia
che spinge a sempre nuova brama di dominio.
Viene nominato, infatti, assieme al suo rivale lo “Scotto”, il re scozzese
Robert Bruce, di piccolo lignaggio fattosi re, contro il quale Edoardo
stava combattendo, proprio negli anni in cui è ambientato il viaggio
della Commedia, una spossante guerra-guerriglia di conquista
divenuta famosa anche alle masse grazie a un film epico che celebra il
valore di William Wallace eroe scozzese fatto giustiziare nel 1305.
Edoardo I non vedrà mai la fine della guerra a causa della sua morte.
Bruce, il cui cuore si trova sepolto nell'abbazia in rovine di Melrose, in
Scozia,
risulta
successivamente
essere
stato
oggetto
di
una
cospirazione dalla quale si arriva, molto di rimpallo, ad un altro
personaggio dantesco, questa volta punito all'Inferno.
La cospirazione fu ordita da Sir David de Brechin e William II de
Soulis, quest’ultimo signore dell’inquietante e severo Hermitage Castle
nel Borders. Egli, prima schierato con Edoardo I l’inglese, dopo la
battaglia di Bannockburn, favorevole a Bruce, nel 1314 passò al
322
bando scozzese, ma, forse per ottenere il trono lui stesso, o più
probabilmente per appoggiare l’ascesa di Edward Balliol, fu arrestato
a Brewick, e perì in circostanze misteriose a Dumbarton Castle, dove
era imprigionato, nel 1321 (anno in cui muore anche il nostro amato
Dante).
Una curiosa leggenda lo vuole però arrestato per stregoneria e bollito
vivo in un calderone nei pressi del circolo megalitico di Ninestane Rig.
Come stregone sarebbe stato allievo di Michele Scotto (scozzese,
appunto), celebre averroista alla corte di Federigo II, l’imperatore
“negromante”. Michael è l'altro personaggio scozzese citato da Dante,
nella bolgia dei maghi e indovini del Canto XX dell’Inferno.
Un’altra questione di questa storia ha una relazione con la Divina
Commedia: riferendosi alla leggenda di cui parliamo, Sir Walter Scott,
il principale esponente del romanticismo scozzese, parla di un
calderone di piombo fuso in cui gettare vivi, per ucciderli, gli stregoni.
La pratica di uccidere i maghi con piombo fuso (Scott: "Again its
magic leaves he spread; And he found that to quell the powerful spell.
The wizard must be boiled in lead…") ha un chiaro riferimento
all’alchimia, ma va menzionato che tale atroce usanza fu accreditata,
da pubblicistica avversa, anche a Federico II.
Pur senza riscontri storici, era creduto all’epoca che l’imperatore
facesse indossare cappe di piombo e poi mettesse i rei di lesa maestà
in un calderone sul fuoco facendoli perire orribilmente per mezzo
della fusione del metallo. Dante si riferisce alla credenza, nel
concepire la punizione per gli ipocriti, vestiti con pesantissime cappe
da monaco, di piombo rivestite d’oro; egli cita proprio l’imperatore:
“…Dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di
paglia”; cioè, le cappe infernali sono tanto pensanti da far sembrare di
323
paglia quelle usate da Federico. Infine, usando il filo conduttore del
riferimento alchemico nella figura del piombo, va menzionato un
ultimo dannato.
Analogo inglese del mago Michele Scotto, nella nostra ormai
superficiale assimilazione di pratiche molto diverse nell’attenta ottica
dantesca, potrebbe essere Mastro Adamo de Anglia (Inghilterra),
punito come falsario per mezzo di alchimia sofistica, nell’ultima delle
dieci bolge del cerchio ottavo (Canto XXX) e quindi per una colpa
considerata più grave di quella di indovini e maghi. Egli fu indotto dai
conti Guidi di Romena a falsificare con straordinaria abilità fiorini
d’oro autentici, a ventiquattro carati (oro puro), a ventuno (con tre
carati di mondiglia, dice Dante, cioè di spazzatura). Fu arso sul rogo
nel 1281.
324
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