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LE CARCERI CAPODISTRIANE

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LE CARCERI CAPODISTRIANE
Vlasta Beltram
LE CARCERI CAPODISTRIANE
Con particolare riferimento ai prigionieri politici
nel periodo del governo fascista
Nel 65-esimo anniversario della liberazione
dei prigionieri politici nel settembre 1943
Associazione antifascisti, combattenti per i valori della LLN e veterani di Capodistria
Settembre 2008
Alcune riflessioni introduttive
Il letterato italiano Silvio Pellico, condannato a morte dalle autorità asburgiche 188
anni fa e successivamente graziato per la sua appartenenza alla Carboneria, trascorse 10 anni della sua vita rinchiuso nella famigerata prigione dello Spielberg. Egli
descrisse le sofferenze e le atrocità di questa prigionia nel famoso libro “Le mie prigioni”. Questa trasposizione letteraria della dura vita del carcerato è stata tradotta
in molte lingue. Già all’epoca si valutava che il libro fosse per l’Austria molto più
dannoso di qualsiasi sconfitta militare ed esso è tuttora una dura condanna della
violenza perpetrata sull’essere umano rinchiuso in una cella.
Il lavoro storico di Vlasta Beltram racconta di carceri nostrane, quelle di Capodistria, e non è un lavoro letterario come “Le mie prigioni”, ma è un lavoro molto ben
documentato sul carcere con una raccolta di testimonianze di numerosi ex prigionieri - sloveni, croati e italiani antifascisti – che soffrirono nelle sue celle a causa del
loro amore per la libertà e del loro spirito ribelle. Si tratta di un resoconto dei tempi
passati, ma anche di un monito alle giovani generazioni sul fatto che la libertà non
è un qualcosa di scontato, bensì una conquista per la quale molte persone hanno
pagato un prezzo altissimo, anche nelle carceri capodistriane.
La parte riguardante la storia delle carceri capodistriane è stata divisa dall’autrice in
tre periodi. Il primo è quello della monarchia asburgica, in cui il carcere fu costruito,
e presenta le dure condizioni imposte allora dallo stato asburgico ai prigionieri, prevalentemente istriani e dalmati. Lo spazio maggiore è riservato al periodo del Regno
d’Italia e del terrore fascista, quando i perseguitati politici slavi e gli antifascisti italiani
passavano il periodo istruttorio nelle cosiddette “tombe dei vivi” esposti a crudeli torture. Si calcola che nel periodo della Lotta di liberazione nazionale le carceri di Capodistria “accolsero” circa 5.000 prigionieri politici. La crudele storia di questo carcere si
concluse nel maggio del 1945, sotto il Governo militare jugoslavo, e ben presto le sue
larghe mura divennero una rovina e uno spazio per lo sviluppo della città.
La parte più importante della pubblicazione, il capitolo “L’esperienza carceraria testimonianze individuali”, è però riservato dall’autrice alle testimonianze e alle
memorie dei prigionieri politici del periodo tra le due guerre e della seconda guerra mondiale: antifascisti, membri delle organizzazioni di resistenza anche armata
dell’anteguerra (TIGR e altre), condannati del Tribunale Speciale per la difesa dello
Stato, combattenti della Lotta di liberazione nazionale. Ognuna delle testimonianze
è un racconto agghiacciante di torture che avrebbero dovuto stritolare la volontà
e la coscienza delle vittime. E “Le nostre prigioni” furono purtroppo vissute da
numerosi antifascisti e combattenti della lotta che aprì le porte alla liberazione e
all’unione della Primorska e dell’Istria alla patria.
Questa pubblicazione sulle carceri di Capodistria, sulle sofferenze ed i sacrifici dei
prigionieri politici e sul loro contributo alla creazione di una Slovenia indipendente
e sovrana è un lavoro importante, che ci ricorda quali sono le radici della nostra realtà attuale e ci ammonisce a non sottovalutare, tacere o negare le verità storiche.
Dušan Fortič
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
PRIMA PARTE
LA CASA DI PENA DI CAPODISTRIA
DALLA SUA ISTITUZIONE
ALLA SUA DEMOLIZIONE
»Lasciate ogni speranza voi che entrate!«
»/.../ Ricordo ancora l’enorme crocefisso all’ingresso delle carceri
di Capodistria, con quella scritta /.../.«
(Alojz Sosič, Opicina, 1915, testimonianza scritta, aprile 1983)
Fin dal loro sorgere, le formazioni sociali provvidero anche alla
punizione di chi minava l’ordinamento sociale costituito. Le prime
pene consistettero innanzi tutto nell’espulsione dalla comunità dei
responsabili di tale condotta, più tardi si fece ricorso alle pene corporali – ad un determinato reato corrispondeva la punizione della
parte del corpo che se n’era resa responsabile (ad esempio, il furto
era punito con l’amputazione della mano); gli avversari politici ed i
responsabili di gravi violazioni delle norme sociali venivano, di regola, condannati alla pena capitale. Con lo sviluppo dello stato di
diritto, le pene corporali furono sostituite dalla privazione dei diritti
fondamentali dell’uomo e dei beni materiali; il reo era privato della
libertà e del patrimonio, un metodo, peraltro, tuttora in vigore. L’applicazione della pena di privazione della libertà richiese il ricorso ad
appositi stabilimenti di pena. I loro albori risalgono al medio evo,
quando il feudatario, investito dell’autorità giudiziaria, si dotava, a
tal fine, nell’ambito del proprio castello, di appositi vani – di celle e
di prigioni. Esse erano destinate in primo luogo ai sudditi renitenti
alle dazioni obbligatorie, ai cacciatori di frodo, eccetera. Si trattò dei
precursori delle carceri moderne, erette al fine di assoggettare tutti
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
i criminali di una data società ad un controllo.1
Ne furono dotate anche le città, sovente in prossimità delle sedi
delle massime autorità cittadine, investite anche della funzione giudiziaria, oppure, a seguito dell’istituzione di appositi tribunali, nei
loro pressi.
Nell’Ottocento e nel Novecento comparve un’inedita e massiccia categoria di carcerati – quella dei prigionieri politici. Le carceri
furono, beninteso, da sempre colme anche di avversari del principe
o del regime di turno, di antesignani e protagonisti dello sviluppo e
delle trasformazioni sociali (di innovatori, scienziati, riformatori religiosi), dediti alla demolizione dei modelli sociali esistenti ed unicamente ammessi, ma il più delle volte non vi soggiornarono a lungo,
perché costoro venivano di regola condannati alla pena capitale. Il
fenomeno raggiunse tuttavia l’apogeo proprio nel corso del Novecento, con l’avvento dei regimi totalitari. I detenuti politici provenivano da tutti i ceti sociali, il loro crimine consisteva nell’azione
contro il potere costituito, motivata da divergenze di convinzioni
e di interessi politici. Dalle nostre parti, il fenomeno dei detenuti
politici, e della persecuzione politica in genere, assunse le più vaste
proporzioni durante il regime fascista, quando la popolazione reagì
in misura diffusa e con multiformi modalità sia all’azione snazionalizzatrice del regime che all’azione vessatoria del Regno d’Italia nei
riguardi delle popolazioni della Venezia Giulia annessa al territorio
nazionale.
Le carceri di Capodistria poi, sorte sin dalla prima metà dell’Ottocento, pullularono sempre di detenuti politici – in epoca austro-ungarica ne furono perlopiù vittime gli italiani (carbonari, irredentisti), durante il regime fascista e sotto l’occupazione tedesca
ne subirono invece le restrizioni gli sloveni ed i croati della Venezia
Giulia come pure gli antifascisti istriani di lingua italiana, un »bacino d’utenza« che nel corso della guerra si allargò anche ai territori
jugoslavi occupati ed annessi della Provincia di Lubiana e della Dalmazia.
1 Cfr il repertorio enciclopedico in rete Wikipedia.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Ed è precisamente quest’ultima categoria di carcerati ad essere
oggetto del presente opuscolo. Vi si affronta la storia delle carceri di
Capodistria; di un penitenziario eretto sin dall’epoca della monarchia asburgica, ossia, di uno stabilimento di pena dalle dimensioni
tali, da far sì che l’enorme quadrilatero, sovrastato da due torri merlate, marcasse il profilo architettonico della città a guisa di monito
intimidatorio rivolto a tutta la popolazione. Scarse sono le fonti archivistiche relative alle carceri, di conseguenza lo schizzo evolutivo
non può che mantenersi sulle generali, punteggiato come appare di
lacune ed imprecisioni cronologiche. Le sofferenze dei loro detenuti politici durante il regime fascista vi sono invece testimoniate dai
brani memorialisti riportati.
La monarchia asburgica
I
Le carceri di Capodistria funsero dapprima da penitenziario in cui i
condannati dovevano scontare la loro pena. Lo stabilimento penale
assunse, nel corso degli anni, diverse denominazioni (Casa di castigo, Penitenziario, Casa di pena, Stabilimento carcerario, Stabilimento penale, Casa di reclusione). Più tardi furono loro attribuite
anche le funzioni di carcere giudiziario. La loro gestione fu affidata
alle competenze del ministero della giustizia.
Da una lettera del commissario straordinario indirizzata al ministero della giustizia nel 1923 si apprende che lo stabilimento penale
capodistriano era stato eretto dalle autorità austriache nel 1850 e
precisamente sopra il sedime di un complesso monastico formato
da due conventi dismessi – uno più vasto, domenicano, ed uno minore, glagolita, separati l’uno dall’altro da una pubblica via. Sopra il
sedime del convento domenicano era stato eretto l’enorme edificio
carcerario che racchiudeva dei cortili interni. Esso era dotato di celle
carcerarie, d’uffici, di una chiesa, disponeva di un proprio personale
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Veduta panoramica di Capodistria, all’epoca ancora un’isola. Sulla sinistra s’erge
imponente il complesso carcerario.
e di tutti i servizi necessari, fra i quali anche un’infermeria. Sull’area
dell’ex convento glagolita, lungo l’allora Via Castel Musella, sorgevano invece alcuni edifici minori che ospitavano i detenuti minorenni,
diverse officine, mentre il cortile adiacente fungeva da lavanderia e
da asciugatoio.2
Vi era una chiesa anche nell’ex convento glagolita, nel quale la
liturgia ortodossa era officiata a beneficio dei detenuti provenienti
dalla Dalmazia. Di fatto erano stati adibiti a carcere i vani di due conventi che erano stati aboliti dalle autorità francesi nel 1806; un intervento delle autorità austriache che richiese dei rimaneggiamenti e
delle integrazioni edili di modesta portata, per far fronte alle nuove
esigenze sin dalla prima metà dell’Ottocento, sin dagli anni attor2 SI PAK KP 7 (Archivio Regionale di Capodistria, NdT), Comune di Capodistria, u. t. 396, n. 1541.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
no al 1820.3 In una lettera risalente al 1836 le carceri sono indicate
come Imperial-regia Casa di castigo.4
L’approvvigionamento idrico delle carceri fu una sfida, alla quale si pose mano con maggior lena solo agli inizi degli anni Sessanta.
Nel 1863 fu elaborato un progetto di condotta idrica che avrebbe
dovuto convogliarvi l’acqua delle sorgenti in località Campel ai piedi
di Pomiano. L’impresa avrebbe dovuto coinvolgere anche le autorità
civili di Capodistria, perchè a trarne profitto sarebbe stata la cittadinanza intera.5
L’illuminazione fu inizialmente assicurata da lumi a petrolio,
mentre nel 1910 il complesso carcerario si vide allacciato alla rete
elettrica.6
I detenuti provenivano dai territori dell’Istria e della Dalmazia,
e di conseguenza anche la loro estrazione linguistica appariva quanto mai variegata. Inizialmente vi si utilizzarono i ceppi, sia per gli arti
inferiori sia per quelli superiori, le catene ed altri metodi cruenti di
restrizione della libertà, che nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento furono aboliti. Spiccava all’epoca l’elevata mortalità fra i detenuti. Pure in seguito all’abolizione degli strumenti di detenzione
cruenti le condizioni carcerarie rimasero pessime, al punto da prestare il fianco per ripetuti ammutinamenti. Sin dal 1868 il comune
cercò di ovviarvi, ricorrendo ad una guarnigione di 300 soldati.7 Verso la fine di dicembre del 1899 scoppiò fra i carcerati uno sciopero
generale che vide i condannati, insofferenti del duro regime carcerario, rifiutare le prestazioni di lavoro inerenti alla gestione diurna ed
al funzionamento delle officine interne. L’amministrazione richiese
il rinforzo di soldati di stanza a Trieste, mentre il podestà richiese a
tal fine lo stabilimento permanente a Capodistria di una guarnigione
3 4 5 6 7 Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria slovena nella lotta per la libertà), Koper 1998,
edizione aggiornata, pag. 512.
Archivio di Stato di Trieste (AST), I.R. Governo del Litorale, Atti Generali (AG), busta (b.) 504.
SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 73, n. 42.
Aldo Cherini, Mezzo secolo di vita a Capodistria / Spoglio di una cronaca giornalistica
1890–1945/, Trieste 1990, pag. 110.
SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 88, n. 982.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
di 80 soldati.8
Verso la fine degli anni Sessanta fu introdotta nelle carceri
l’istruzione a beneficio dei detenuti. I giornali locali riportano notizie sugli esami sostenutivi, sugli insegnanti, eccetera, ma soltanto
per gli anni Settanta, mentre di vani didattici e del personale docente si fa menzione anche nel 1922.9 Così, ad esempio, si legge che
il 21 dicembre 1871 si svolsero, presso le carceri, gli esami per gli
allievi dei corsi scolastici, avviati qualche anno prima. Essi furono,
infatti, obbligatori dapprima soltanto fino al ventesimo anno di età,
dal 1872 in poi, fino al 24° anno d’età.10 Per il 1877 si legge che vi
avevano operato due sezioni, ciascuna articolata in due corsi: la sezione italiana vantava 72 allievi, quella slava 129; insegnò presso la
prima, Simeone Vascotti, presso la seconda (frequentata perlopiù da
contadini dalmati analfabeti), Matteo Cristofich; le materie di studio furono religione, lingua materna, storia e geografia austriache,
fisica, aritmetica, canto e disegno; accanto ai due insegnanti citati
vi insegnarono due sacerdoti cattolici (Giorgio Zubranich e Biagio
Glavina) ed un greco ortodosso, Vladimiro Kordich.11
Relativamente precoce fu anche l’introduzione di provvidenze
a favore dei detenuti rilasciati – nel 1861 fu infatti istituito un comitato di assistenza ai reduci dal carcere, domiciliati nel comune di
Capodistria.12
I carcerati che scontavano la pena detentiva venivano addetti ai
lavori nelle officine del penitenziario, ma erano tenuti a prestazioni lavorative anche nell’ambito di molteplici lavori pubblici esterni.
Furono, ad esempio, così impiegati anche nella costruzione del terrapieno e della strada che collega Capodistria a Semedella, nonché
nei lavori di manutenzione della Riva Lunga che collegava Isola a
Capodistria.
8 9 10 11 12 10
AST, I.R. Luogotenenza del Litorale, Atti Presidiali, b. 230, 1/17.7.
AS 1792 (Archivio della Repubblica di Slovenia), Direzione degli Istituti di Pena di Capodistria,
Ordini del Giorno del Penitenziario 1922–1923, ordine n. 7.
La Provincia, 1. 1. 1872.
L’Unione, 25. 12. 1877, št. 6. La dizione »greco-ortodosso« si riferisce di fatto alla liturgia
ortodossa.
SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 65, n. 842 – bozza dello statuto.
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Nel marzo del 1915 le autorità austriache evacuarono le carceri;
detenuti, impiegati e personale di sorveglianza furono trasferiti a
Maribor.13
II
Una prigione funzionò anche in uno degli angoli al pianterreno di
Palazzo pretorio. Da una lettera del commissariato distrettuale di
Capodistria dell’aprile 1836 si apprende dell’esistenza di tre vani,
destinati agli indagati per reati comuni e politici in fase istruttoria,
e di due vani (distinti per uomini e donne), destinati a chi doveva
scontare pene detentive per infrazioni (debiti insoluti, contrabbando, ecc.). Le condizioni carcerarie insalubri (l’umidità, l’assenza di
luce diretta e di ventilazione) generavano un alto tasso di morbosità,
perciò si pose mano ad un progetto di ampliamento delle carceri e
di miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti.14
Il Regno d’Italia
Nel 1919, le autorità italiane provvidero alla riapertura dello
stabilimento principale del penitenziario per scopi detentivi (nel
1922 fu inoltre introdotto il Regolamento, vigente nel resto del territorio del Regno); furono invece abbandonati i vani dell’ex convento glagolita. Negli anni 1920–1921 fu demolita gran parte del
maggiore dei suoi edifici, mentre il resto del complesso fu destinato
alle esigenze dell’11° Reggimento di fanteria.15 Venne inoltre abolita
la liturgia ortodossa, per la presunta assenza di detenuti provenienti
dalla Dalmazia, mentre sei quadri ed il lampadario della chiesa di
San Gregorio sarebbero stati affidati alle cure dell’allora Civico mu-
13 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 396, n. 1541.
14 AST, I.R. Governo del Litorale, AG, b. 504.
15 Ibidem
11
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
seo di Storia ed Arte.16
Fino alla fine della guerra operarono nel complesso carcerario diverse officine, al cui fabbisogno di manodopera sopperirono
esclusivamente i condannati che vi scontavano pene detentive. Data
la penuria di manodopera durante la guerra, i detenuti furono assegnati a diverse imprese esterne.
Le carceri nell’appendice di Palazzo pretorio funsero a quell’epoca da carcere femminile. Durante il primo decennio del regime
fascista, tali necessità non dovettero apparire pressanti, se nel 1931
il ministero della giustizia decise di disfarsene, affidandoli al comune, e di ricorrere, all’uopo, alle carceri triestine.17 Più tardi furono
riaperti e nel corso della guerra si rivelarono sovraffollati. Funsero
allora anche da tappa di transito delle detenute politiche provenienti dai territori jugoslavi occupati dall’esercito italiano e destinate ad
istituti di pena dell’interno dell’Italia. Verso la fine del 1942, il ministero chiese al comune di poter utilizzare, a tal fine, altri vani adiacenti ed il cortile stesso.18
Le carceri di Capodistria, dotate dello statuto sia di carcere giudiziario, sia di istituto di pena, accolsero un numero crescente di
detenuti politici, persino preponderante, nel corso della guerra. Vi
trascorsero periodi più (nel corso delle indagini) o meno lunghi
(come in occasione delle paventate celebrazioni clandestine del Primo Maggio, di visite in loco di gerarchi di spicco o di altri eventi politici di rilievo). Altri stabilimenti carcerari operarono, entro un breve
raggio, a Trieste (le carceri del Coroneo, quelle Ai Gesuiti), a Gorizia
ed a Fiume, ma nelle testimonianze memorialistiche ricorre spesso
la considerazione che fu proprio quello di Capodistria a goder della
pessima fama. Incutevano terrore le celle d’isolamento disumane,
dette »tombe dei vivi«, deputate a rendere gli inquisiti più malleabili
alla vigilia degli interrogatori. Prima della guerra gli interrogatori si
svolsero presso la questura, oppure, come nel caso degli inquisiti
ritenuti più pericolosi, anche presso la stazione dei Carabinieri di
16 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 389, n. 1718.
17 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 474.
18 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 680.
12
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Semedella; durante la guerra invece, essi ebbero luogo presso lo
stabilimento carcerario stesso. Gli interrogatori furono, il più delle
volte, accompagnati da torture proporzionali alla gravità del reato
politico imputato.
La maggior parte dei detenuti politici era d’origine slava, proveniente da tutta l’area della Venezia Giulia; seguivano, per incidenza, gli antifascisti italiani dell’Istria. La conquista da parte italiana di
territori jugoslavi nel corso della seconda guerra mondiale, estese il
bacino di provenienza dei carcerati e dei detenuti in stato d’arresto,
facendo registrare un afflusso anche dai territori occupati ed annessi
della Provincia di Lubiana e della Dalmazia. Lo stabilimento carcerario fu così investito anche di un ruolo inedito – quello di tappa di
transito di numerosi detenuti politici (uomini e donne), condannati dinanzi alle corti marziali nei territori occupati e destinati alle
carceri all’interno del paese. Essendo disponibili, per le carceri di
Capodistria, soltanto modeste fonti d’archivio, sarà probabilmente
impossibile giungere mai a dei dati quantitativi conclusivi sul numero dei detenuti politici di qualsiasi nazionalità, transitati attraverso
quell’istituto di pena. Dovette tuttavia trattarsi in ogni caso di un
numero assai consistente, posto che la sua capienza ufficiale era di
2.100 detenuti e considerando che nel corso della lotta di liberazione
vi avrebbero soggiornato fino a 5.000 detenuti.19 In un censimento
conservato presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia, si riportano, per il 1943, ben 7.500 posizioni carcerarie per altrettanti detenuti (il dato si riferisce sia alle carceri maschili, sia a quelle femminili).20
Non è difficile immaginarne le condizioni di vita carcerarie.
Trascorsero giorni da incubo nelle carceri di Capodistria, subendovi cruenti interrogatori, anche gli inquisiti, gli imputati ed i
condannati ad alcuni processi che ebbero grande risonanza pubblica: fra essi, quello ai partecipanti alla sollevazione di Maresego del
15 maggio 1921 (la spontanea ripulsa, da parte degli inermi abitanti
19 20 Salvator Žitko, Koprski zapori. (Le carceri di Capodistria, NdT) – In: Bili so zaprti, pregnani,
obešeni, ustreljeni, na suženjskem delu, uporni / Vodnik po koncentracijskih taboriščih in
zaporih, Ljubljana 1980, pag. 123–125.
AS 1792, Carceri giudiziarie, t. e. 3.
13
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
di Maresego e delle frazioni del circondario, dell’incursione degli
squadristi capodistriani il giorno delle elezioni politiche), nonché
quello ai militanti dell’organizzazione clandestina triestina di resistenza nazionale Borba nel settembre del 1930, imputati dinanzi al
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, convocato in via eccezionale a Trieste (fra essi, i quattro condannati alla pena capitale
e fucilati al poligono di Basovizza), nonché quello agli antifascisti,
di svariata estrazione politica, imputati, ancora una volta a Trieste,
dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nel dicembre del 1941 (con l’esecuzione di cinque condanne capitali presso
il poligono di Opicina). Accanto a loro si snodò, va da sé, una lunga
teoria di antifascisti locali, nonché, nel corso della guerra, di attivisti
del Fronte di Liberazione del popolo sloveno (Osvobodilna fronta /
OF) e di militanti nelle formazioni partigiane.
Nel corso dell’occupazione tedesca, le autorità germaniche misero in funzione, presso l’istituto carcerario, alcune officine, mentre
i fascisti capodistriani, al servizio delle autorità militari tedesche, vi
rinchiusero gli attivisti ed i partigiani catturati per sottoporli ad interrogatori prima che i tedeschi li assegnassero alle carceri triestine
del Coroneo, alla Risiera di San Sabba o li trasferissero ai campi di
concentramento nazisti.
14
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
La liberazione dei detenuti nel settembre del 1943
L’armistizio, reso pubblico l’8 settembre, accese le speranze di
una sollecita liberazione dei detenuti. Esse rimasero tuttavia deluse.
Il 9 ed il 10 settembre, i parenti dei detenuti originari dei villaggi
circostanti organizzarono delle manifestazioni per rivendicare la liberazione dei carcerati. Contestualmente, i detenuti stessi si ammutinarono, ottenendo la liberazione dei detenuti originari dai villaggi
del circondario, mentre quelli di nazionalità italiana erano stati rilasciati in precedenza. In un telegramma dell’11 settembre, indirizzato dal commissario di pubblica sicurezza di Capodistria al Questore
di Pola, lo scrivente motivò la decisione di rilasciare i detenuti locali:
il giorno prima i militari italiani avevano disertato in massa di fronte
all’avanzata dell’esercito germanico, mentre la gente s’appropriava
delle armi, delle uniformi e delle vettovaglie abbandonate, ponendo
con ciò a serio rischio l’ordine pubblico. Al tempo stesso, congiunti ed amici dei detenuti politici ne rivendicarono la liberazione. Di
fronte alla situazione incerta, alla scarsità di forze a sua disposizione
ed all’eventualità che la protesta di massa potesse sfociare in una
sollevazione generale dei detenuti e nella loro evasione, dispose il
rilascio degli arrestati.21
Una sorte ben peggiore spettò ai detenuti originari di altre regioni. L’invasore tedesco ne dispose, da lì a poco, la deportazione.
Le donne, che avevano scatenato una rumorosa protesta volta ad
ottenere la liberazione, furono trasferite, il 15 settembre, nelle carceri maschili, per venir due giorni dopo avviate alle carceri di Venezia ed altrove in Italia. Il 26 settembre un gran numero di detenuti
maschi fu deportato verso i campi di concentramento germanici. Il
giorno seguente la popolazione locale dei villaggi del circondario,
con la manforte dei partigiani croati (il primo battaglione della 2°
brigata croata, che in quel frangente presidiava quel territorio) liberò i detenuti rimasti, e nei giorni che precedettero l’inizio dell’offensiva tedesca, scatenata il 2 ottobre, asportarono dalle carceri
un’enorme quantità di materiale che fu dapprima custodito presso
21 Historijski arhiv Pazin (Archivio Storico di Pisino, NdT), fasc. 30.
15
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Veduta sulle carceri di Capodistria dal torre civico.
gli edifici scolastici dei villaggi circostanti, per venir quindi inoltrato
a Pinguente.
Circa le modalità dell’azione che condusse alla liberazione dei
detenuti di Capodistria, uno dei partecipanti, Nazarij Bordon, della
frazione di Cesari, conserva il seguente ricordo:
»La sortita avrebbe dovuto svolgersi il 26 settembre. Fu in quel
giorno che i combattenti si dettero appuntamento a Pobeghi, alle
8 del mattino. Ci dividemmo per manipoli e ci dirigemmo verso
Capodistria. Fui designato a recarmi in avanscoperta sul monte
sopra Pobeghi. Ben presto scorsi tre navi, salpate da Trieste alla
volta di Capodistria. Corremmo ad avvertire l’unità che intercettammo nei pressi di Prade. Le navi apersero il fuoco in direzione
di Bertocchi. Tornai assieme ad uno dei manipoli a Cesari, dove
la mattina successiva venne a cercarmi Vincenc Kocjančič (membro del comitato distrettuale del Partito Comunista Sloveno per la
16
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
zona dei Brkini e dell’Istria slovena, NdA), perché lo affiancassi nell’operazione volta a liberare i detenuti nelle carceri di Capodistria.
Strada facendo aggregammo a noi un gruppo di persone e ci dirigemmo a Capodistria. Assieme al Kocjančič ed a qualche attivista
di Bertocchi bussammo alla porta delle carceri di Capodistria. Esigemmo che ci aprissero e ci consegnassero le chiavi delle carceri.
Dopo una breve trattativa ottenemmo lo scopo: il custode ci aprì
la porta e ci consegnò le chiavi. Dall’una del pomeriggio alle undici di sera si snodò poi un viavai di camion, carichi di materiali
sequestrati all’istituto di pena e smistati presso le sedi scolastiche
di Monte, Maresego, Cesari, Prade e Sant’Antonio. Caricammo sul
camion anche dei fascisti capodistriani: il direttore delle carceri,
il maresciallo dei carabinieri, il veterinario, i fratelli Almerigogna,
il maestro Zetto. Furono dapprima trasferiti a Maresego, quindi a
Pinguente, dove tuttavia i tedeschi provvidero ben presto a rimetterli in libertà.«22
Nel volume Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria slovena
nella lotta per la libertà, NdT) lo svolgimento degli eventi è stato
così integrato, sulla scorta di alcune fonti memorialistiche: il medico
capodistriano Giovanni Paruta, incaricato anche del servizio medico
carcerario, usava nascondere i prigionieri politici sloveni coprendoli
con delle lenzuola ed asserendo che si trattava di malati gravi. Nelle ore notturne del 25 settembre i tedeschi trasferirono numerosi
detenuti politici, a bordo di una nave, per associarli alle carceri triestine del Coroneo. Ne rimasero circa 200, in attesa di subire una
sorte analoga, perciò il comitato distrettuale del PCS per la zona dei
Brkini e dell’Istria slovena, dette avvio all’azione volta a liberarli e
portata a buon fine dai villici delle frazioni del circondario, coadiuvati dai partigiani croati. Una volta entrati e liberati i detenuti, fecero
schierare di fronte ad essi il personale carcerario, per consentire il
riconoscimento, in quei ranghi, degli aguzzini più feroci.23
22 Testimonianza scritta, raccolta da Vlasta Beltram nell'agosto del 1980, Archivio del Museo
Regionale di Capodistria /Archivio del MRC/.
23 Slovenska Istra v boju za svobodo, op. cit., pag. 356–357.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Il governo militare dell’Armata jugoslava
L’imponente edificio sopravvisse per soli tre anni alla fine della
guerra. Nel maggio del 1945 vi erano stati rinchiusi dei prigionieri
di guerra tedeschi (vi furono fra loro anche gli appartenenti all’organizzazione di lavoro coatto tedesca TODT di Villa Decani),24 ma non
funse più da istituto carcerario. Vi operarono una falegnameria ed
un’officina meccanica e, dal novembre 1946, anche una filatura. Vi
elessero inoltre sede diverse organizzazioni e piccole imprese che
vi perseverarono addirittura qualche anno dopo che nel 1948 ne
era stata avviata l’opera di demolizione. Il materiale edile ricavatone fu perlopiù riutilizzato per la costruzione delle sedi cooperative
che sorsero, a quel tempo, e si diffusero massicciamente in tutte le
frazioni. Sopra l’area nord-orientale del sedime del complesso carcerario fu avviata la costruzione della scuola elementare slovena ed
italiana; il 21 luglio 1949 si svolse la cerimonia della posa della prima pietra. Sul resto del sedime sorsero più tardi un grattacielo e la
sede degli uffici postali.
24 Testimonianza orale di Fabio Vatovec, da Cesari.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
SECONDA PARTE
L’ESPERIENZA CARCERARIA
TESTIMONIANZE INDIVIDUALI
»Fino al 1945, anno della liberazione, qui si ergevano le tetre
mura delle carceri di Capodistria. Nelle loro oscure celle numerosi combattenti per la libertà ebbero a sopportare pene strazianti
ed anche la morte perché tu, uomo libero in patria libera, possa
passare libero per questa via. Ricordati il loro spirito indomito e il
loro umano pensiero che distruggevano le prigioni, e difendi libero
il cammino della patria tua e del tuo popolo! /.../.«
/Ciril Kosmač, 1959, dedica apposta sull’edificio scolastico, ed eretto sopra il sedime dell’ex complesso carcerario, inaugurato nel 1951 e demolito nel 2008, iscritta
su una lapide, custodita attualmente presso il Museo Regionale di Capodistria/
Si ebbero, in passato, diversi tentativi, sia nelle file delle organizzazioni combattentistiche che in collaborazione con il museo di
Capodistria, tesi a raccogliere il maggior numero di testimonianze
possibile presso gli ex-detenuti politici che avevano saggiato sulla
propria pelle i trattamenti inumani loro riservati dal terribile regime
carcerario capodistriano, con l’obiettivo di trarne del materiale memorialistico per una pubblicazione autonoma. Fu così che il Museo
Regionale di Capodistria assemblò un fascicolo di testimonianze in
forma di dichiarazioni scritte. La loro pubblicazione nell’opuscolo
che il lettore ha sott’occhi, assolve il debito contratto con tutti i testimoni che si sono presi cura di vergare le proprie memorie, convinti
che i posteri avrebbero un giorno potuto leggerle.
Le testimonianze coprono un lasso di tempo che assomma il
periodo fra le due guerre e quello della seconda guerra mondiale. La
loro lettura consente di comporre un quadro piuttosto esauriente
sia del complesso carcerario e del suo funzionamento, sia degli stati
d’animo dei detenuti e delle torture da loro subite per aver opposto
resistenza al fascismo ed alla sua opera di snazionalizzazione.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Avgust Primožič (Cesari, 1914),
antifascista e comunista d’anteguerra, subì a più riprese la detenzione nelle carceri di Capodistria: fu arrestato la prima volta nel luglio
del 1932, perché sorpreso a trasportare una macchina dattilografica
per le necessità del ciclostile clandestino, allestito a Gabrovica; nel
1938 fu arrestato, perché riconosciuto in una fotografia che ritraeva
un gruppo di ragazzi locali che assieme a lui salutava a pugno chiuso; quindi, ancora, in occasione dell’entrata dell’Italia in guerra il
10 giugno 1940 ed in occasione dell’aggressione alla Jugoslavia il 6
aprile 1941 ed inoltre, alcune volte, in concomitanza del Primo Maggio o della visita di alti gerarchi in Istria.
»Sin dalle immagini fotografiche conservatesi è possibile capacitarsi, di quanto fosse enorme il complesso a tre piani delle
carceri di Capodistria, che si poteva allora scorgere da imbarcazioni ancora al largo sull’orizzonte. La facciata, costeggiata dal
Belvedere, era lunga quasi una settantina di metri, mentre era di
poco più stretta verso mezzogiorno. Lungo il versante meridionale
vi furono più tardi accostati edifici accessori. Sul versante occidentale avevano sede, a pianterreno ed ai piani superiori, officine
tessili e di altro genere, mentre all’angolo meridionale vi erano gli
uffici dell’amministrazione e l’entrata principale. Un’altra entrata, destinata probabilmente al passaggio dei carichi di vettovaglie,
si trovava sul lato settentrionale.
Le ali del complesso racchiudevano al loro interno il cortile per
‘l’aria’ dei detenuti, compartimentato da pareti. Sul lato meridionale sorgeva la chiesa, ed accanto ad essa, all’interno, l’infermeria
con l’astanteria per i detenuti. Sul versante sudorientale fu più tardi eretto un edificio a due piani di dimensioni più ridotte, in cui
furono allestite le celle d’isolamento. Se ne potevano contare circa
18; sotto, invece, il corridoio sfociava in una cappella. Dal piccolo
cortile, destinato all’aria dei detenuti in cella d’isolamento, si potevano scorgere l’ingresso alla chiesa e la facciata dell’astanteria.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Veduta del penitenziario dal molo.
Varcata la soglia d’entrata principale, un corridoio costeggiava i vani della cucina. Da segnalare inoltre, che i corridoi comunicavano fra di loro lungo tutta la circonferenza del complesso.
Interessante era anche la veduta che dal corridoio al pianoterra si
apriva sul versante orientale, sui sotterranei delle cellule d’isolamento, strumento delle pene detentive più severe. Ve n’erano forse
una decina. Ciascuna era dotata di un breve corridoio a forma di
lettera L, la quale impediva al detenuto la visuale del passaggio,
nonostante la porta della cella fosse dotata di uno spioncino sbarrata da una grata. Nelle celle un lumino era costantemente acceso
e dalle pareti pendevano, murati, degli anelli di ferro. Lungo quel
corridoio gli indagati erano condotti agli interrogatori presso i
vani al pianterreno del lato orientale.
In queste carceri, destinate soprattutto a quanti dovevano
scontare le pene detentive più lunghe, compresi gli ergastolani, vi
21
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
erano pure detenuti politici, ma soltanto per il periodo in cui si
svolgevano le indagini a loro carico. I detenuti veri e propri erano
soprattutto criminali comuni. I carcerati erano distribuiti in grandi cameroni che ne potevano contare una dozzina e più. Durante
la giornata venivano assegnati ai lavori.
Per ragioni di sicurezza, il personale di sorveglianza perlustrava i reparti la mattina e la sera, munito di una scala a pioli, retta
da un detenuto, cella per cella, saggiando con una barra di ferro le
inferriate delle finestre, alla ricerca di eventuali segni di manomissione. Questa rumorosa verifica aveva luogo simultaneamente in
tutti i reparti, sollevando un frastuono che sembrava amplificare
un ferrigno gracchiare di rane.
Notammo fra i custodi due soli sloveni del posto (Križman di
Sant’Antonio e Kocjančič da Truscolo), per il resto si trattava di
italiani. La mia descrizione si riferisce al periodo 1930–1940.«25
Dall’articolo:
La vita dei nostri arrestati nelle
carceri italiane
»/…/ Anche il carcere di Capodistria, un vecchio castello riadattato (recte: un ex-convento, NdA), piuttosto idoneo all’uopo, ma
non per i detenuti politici. Questi vengono di solito gettati nelle cosiddette celle di rigore che sono completamente interrate, prive di
finestre, mai illuminate da un solo raggio di sole perché le celle sono
separate dal lato esterno dell’edificio da lunghi corridoi. Queste celle sono terribili e soltanto chi le ha sperimentate riesce a farsene
un’idea. Sono larghe non più di un metro e mezzo e lunghe quel
tanto che consente ad una persona di media statura di compiere tre
passi e mezzo dopo aver appreso a far correttamente dietro-front,
altrimenti cade preda di vertigini che si manifestano dopo soli pochi
passi. Soltanto in una nicchia sopra l’uscio di ferro luccica giorno
25 Testimonianza scritta, aprile 1979, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
e notte un lume. I detenuti spesso non sanno se sia notte o giorno e
si orientano nel tempo soltanto grazie alla razione che viene servita
attorno a mezzogiorno, poiché in quelle tane non giunge neppure il
suono del campanello né quello delle campane. /…/«26
Ernest Vatovec - Amedej (Cesari, 1902),
comunista d’anteguerra (dal 1925), dal settembre 1943 fino alla fine
della guerra fu attivista distrettuale e circondariale dell’OF nell’Istria
slovena e nella circoscrizione del Litorale meridionale; fu condannato a complessivi 16 anni di detenzione, dei quali 9 scontati in carcere
e 3 al confino.
»/…/ I primi giorni di febbraio del 1929 fui arrestato e rinchiuso nelle carceri di Capodistria. Sin dal primo giorno fui tradotto in
cella d’isolamento. Patii un freddo cane, ovunque una grande umidità, unico foro – una piccola feritoia, attraverso la quale ci veniva
passata la razione di cibo. Vi rimasi una settantina di giorni. Dopo
settanta giorni iniziai uno sciopero della fame e per due giorni mi
rifiutai di mangiare. Dopo un colloquio con il sorvegliante Steffè,
un capodistriano, fui trasferito in un’altra cella, più asciutta, ma
zeppa di cimici. Trascorsi in carcere sette mesi; tutta la fase delle
indagini. Il cibo era misero ma sufficiente. Ce ne portavano anche
i parenti, consegnandolo al sorvegliante, poiché ogni contatto con
i famigliari era vietato. Il giudice che mi interrogò venne appositamente da Roma. Personalmente non subii, a differenza di molti altri carcerati, interrogatori notturni. Né subii percosse od altri maltrattamenti. Dopo l’interrogatorio, al quale negai ogni addebito,
fui tradotto a Roma. Fu lì che mi condannarono, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a quattro anni di detenzione,
scontati a Firenze ed a Civitavecchia /…/«.27
26 Istra, glasilo Zveze jugoslovanskih emigrantov iz Julijske krajine (Istra, organo della
Lega degli emigrati jugoslavi dalla Venezia Giulia, NdT), 28/10/1932, n. 44, pag. 4.
27 Testimonianza scritta, aprile 1984, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Jože Vergan (Popetre 1904),
antifascista d’anteguerra, comunista, combattente di Spagna. Fu arrestato per la prima volta il 17 maggio 1921 per aver partecipato, il
15 maggio di quell’anno, nel giorno delle elezioni parlamentari, alla
sollevazione dei villici di Maresego contro la violenza fascista accanitasi contro il seggio elettorale di Maresego.
»Il primo marzo del 1929 fui arrestato e condotto alle carceri
di Capodistria, assieme ad una settantina di compagni provenienti dall’Istria slovena; in tredici dovemmo sostenere il giudizio dinanzi al Tribunale Speciale a Roma.
Quella terribile prigione era suddivisa in tre parti: la prima
comprendeva i vani comuni e le officine, la seconda le celle d’isolamento, la terza infine le celle sotterranee – le celle della tortura,
delle sofferenze e della morte. Tutti i carcerati, fossero essi in stato
d’arresto o detenuti che scontavano la pena, le chiamavano le celle
della morte.
Per tre giorni ed altrettante notti subii, nella sede della questura di Capodistria, incessanti interrogatori e sevizie. Le percosse ed
i calci ricevuti mi fecero più volte perdere la conoscenza; con dei
ceri mi bruciarono le unghie delle mani e dei piedi, ecc. Quando
ne ebbero abbastanza, i fascisti mi scortarono alle carceri. Fui affidato ad un direttore, incaricato di compiti speciali. Mi fecero di
nuovo perdere i sensi e mi rinchiusero in una delle famigerate celle
sotterranee, nella quale trascorsi sei mesi. La cella era lunga un
metro e mezzo, larga uno e venti. Era un vano interrato e quindi
privo di finestre od altra fonte luminosa, mentre l’acqua non cessava di gocciolarmi sulla testa, sugli indumenti, sulla coperta e sul
pagliericcio. Ovunque acqua ed umidità. Mi fu negato ogni diritto,
pur previsto dal regime carcerario – le cure sanitarie, la corrispondenza con i famigliari, le visite, l’acquisto di generi alimentari. Più
volte accadde che i secondini portassero quella brodaglia nera, per
versarla poi semplicemente a terra, incapaci, in quelle tenebre, di
24
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
distinguere la ciotola che tendevo. Loro poco importava; se ne andavano, mentre io rimanevo a raccattare da terra il recuperabile,
perché ero attanagliato dalla fame.«28
Vekoslav Španger (Prosecco, 1906),
membro dell’organizzazione clandestina triestina Borba, condannato al primo dei due megaprocessi triestini del Tribunale Speciale per
la Difesa dello Stato, nel settembre del 1930, a trent’anni di carcere.
»Rimasi nelle carceri di Capodistria dal 4 aprile al primo maggio del 1930. Fui rinchiuso nella cella numero 1, l’ultima, al pianterreno. Dopo due interrogatori condotti da un giudice speciale
dell’OVRA,29 fui condotto, la notte dal 16 al 17 aprile, ammanettato
e bendato, alla stazione dei carabinieri di Semedella. M’inflissero
un sacco di percosse ed il supplizio del pediluvio in acqua bollente. Il mattino successivo fui ricondotto alle carceri di Capodistria,
dove rimasi fino al primo maggio. Soggiornarono in quel periodo,
nelle carceri di Capodistria, fra gli altri, anche Franjo Marušič,
Zvonimir Miloš e Lojze Valenčič, essi pure torturati presso la stazione dei carabinieri di Semedella, più tardi condannati a morte, al
primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speciale
per la Difesa dello Stato, e fucilati, il 6 settembre 1930, al poligono
di Basovizza /…/.«30
Vladimir Štoka (Contovello, 1910),
militante dell’organizzazione clandestina Borba, condannato al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per
28 Testimonianza scritta, 3/10/1959, Archivio del MRC.
29 OVRA – Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascismo.
30 Testimonianza scritta, 1959, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
la Difesa dello Stato, nel settembre del 1930, a vent’anni di carcere;
grazie all’amnistia, fu rilasciato nel 1939, il che gli consentì di riparare a Maribor e, nel corso della guerra, a Zagabria, dove fu arrestato,
condotto dapprima alle carceri romane, ed infine a quelle triestine
del Coroneo; rilasciato il 10 settembre 1943, raggiunse senza indugi
le file partigiane, per cadere, due giorni più tardi, nei pressi di Comeno, colpito da una scheggia di granata.31
Fu rinchiuso, assieme a Vekoslav Španger ed ai quattro compagni, in seguito fucilati al poligono di Basovizza, nel corso delle indagini che prelusero al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi
al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nelle carceri di Capodistria, e torturato presso la stazione dei carabinieri di Semedella. A
proposito delle torture subite a Semedella, egli depose, nelle note
autobiografiche, la seguente testimonianza.
»Sulla soglia d’ingresso delle carceri m’attendeva un’automobile, la stessa, se ben ricordo, che mi aveva condotto a Capodistria.
Fui trattenuto sulla soglia di una stanza, mentre qualcuno della
scorta bussò – l’uscio si aprì di colpo – e io vi fui scaraventato.
Ebbi appena il tempo di rendermi conto del buio pesto che vi regnava, che mi ritrovai in men che non si dica gli occhi bendati
da un asciugamano ben stretto sulla nuca ed i polsi ammanettati
sulla schiena. Mi calarono sul capo un impermeabile e senza proferir parola fui spinto a bordo dell’automobile che, percorse alcune
vie di Capodistria, raggiunse la strada principale. /…/ Pensai che
m’avrebbero scortato a qualche stazione ferroviaria per quindi
tradurmi a Roma, facendo scomparire ogni traccia di me. Chi avrà
occasione di leggere queste memorie, potrà forse pensare che quanto sto dicendo sia il mero frutto di una fertile immaginazione. Non
auguro a nessuno di dover provare di persona queste verità. Vi assicuro che non invento, né esagero nulla. Chi ha avuto esperienza
dei trattamenti di polizia, non avrà difficoltà a credere, chi invece
non ha avuto questo triste onore, sia grato alla propria sorte.
31 Primorski slovenski biografski leksikon (Lessico biografico sloveno del Litorale, NdT), III.
volume, Gorica 1986–1989, pag. 587.
26
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Dopo un percorso durato alcuni minuti, la vettura s’arrestò,
alcuni scesero e li sentii confabulare. Non capii nulla. Qualcuno,
tuttavia, continuava a sedemi accanto. Chiesi che mi fosse allentato il bendaggio perché potessi respirare meglio. /…/ Inoltre, un
crampo m’aveva attanagliato la mano sinistra a causa del laccio
troppo stretto. Non gli permisero né di togliermi la benda né di sciogliermi i polsi. Dovetti tuttavia fargli pena, perché si prese la cura
di sciogliermi il crampo al muscolo del braccio che mi procurava
un dolore lancinante. Intanto sopraggiunse una motocicletta che
si arrestò accanto a noi. Sentii le seguenti parole: ‘Sono partiti anche loro, fra dieci minuti saranno qui. Bene. Procediamo. Guidaci
tu, con calma.’ Avanzammo di alcune centinaia di metri per poi
fermarci. Dopo aver sentito quel breve scambio di battute, mutai
d’avviso sull’esito di quell’escursione notturna. Non ebbi difficoltà
a capire che non eravamo diretti a Roma. Ne ebbi conferma anche
da alcune parole sibilatemi da qualcuno che mi aveva aiutato a
scendere dalla vettura: ‘Spicciati, brigante. Non star lì a poltrire!’
Varcata una soglia, mi furono liberati i polsi, ma non gli occhi.
Dinanzi a me s’aprì una porta, entrai, o meglio, vi fui sospinto, per
cadere in braccio ad un energumeno che in un attimo mi acciuffò
per i capelli e mi chiese: ‘Sai cosa ha fatto Miloš?’ ‘Io non so nulla.’
‘Bene, ci penseremo noi a rinfrescarti la memoria, maledetto dinamitardo sloveno!’
Quella fu quindi la scena d’esordio di quel fatale 15 aprile
1930, perché ritengo che doveva esser ormai passata mezzanotte.
Non mi attarderò a descrivere per filo e per segno tutti i dettagli di
quella fatidica notte. Basti dire che pretesero da me e da Španger
dichiarazioni precise a proposito di quanto andava sostenendo
la signora Frančeškin.32 Per raggiungere lo scopo, ricorsero a sistematiche percosse e torture. Io fui dapprima denudato fino alla
cintola, due di loro mi stirarono le braccia, mentre altri due mi
colpirono con i pugni sul dorso e sul petto. Non si contarono i man32 Zofija Korže Frančeškin, condannata al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a 2 anni e mezzo di reclusione.
27
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
rovesci, gli strappi di capelli e di orecchie, gli sputi, eccetera. Lo
stadio successivo prevedeva il ricorso all’acqua bollente. Fui fatto
entrare a piedi nudi in una bacinella d’acqua bollente. Balzatone
fuori per il dolore, si misero a percuotermi i piedi ustionati con
delle verghe, fino a renderli completamente tumefatti. Poi, altra
acqua bollente, seguita dal dolore insopportabile provocato dalle
scudisciate di una verga sottile. Il tutto si susseguì ad intervalli
più o meno brevi, poiché io e lo Španger ci avvicendammo in quel
supplizio che durò fino alle cinque del mattino. Poi smisero. Conseguenza di quelle percosse fu l’ammissione, mia e dello Španger,
di appartenenza all’organizzazione, accompagnata alla negazione di ogni addebito in relazione all’attentato alla redazione del
‘Popolo’. Io fui rinchiuso in una cella adiacente al vano nel quale
eravamo stati torturati. A mattino ormai inoltrato, saranno state
le nove o più tardi ancora, udii Marušič urlare dal dolore. Era
giunto il suo turno. Ebbi l’impressione che non fosse rimasto a lungo sulla graticola, perché da lì a poco lo sentii proclamare ad alta
voce, nel corridoio, la propria innocenza. Buon segno! Non aveva
cantato. Chiamarono qualcun altro. Cercai di ovviare ai dolori
fisici, accovacciandomi sul tavolaccio in maniera da poter udire,
con l’orecchio appiccicato alla parete, cosa succedeva nella stanza
accanto. Sentii distinte le grida dell’inquirente, lo stesso che aveva
interrogato me, e il rumore dei colpi, nessun grido, il trambusto
delle sedie. Poi di nuovo silenzio. Non avendo udito, di chi dei nostri fosse giunto il turno, ne dedussi che l’interrogato doveva aver
perso i sensi e che stessero brigando per farglieli riprendere.«33
33 Tratto dall'opuscolo Srečanje / Utrinki iz fašističnih ječ in taborišč smrti (Incontro, Ricordi
dalle carceri fasciste e dai campi della morte, NdT), Koper - Capodistria 1970, pag. 14–16.
28
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Zorko Jelinčič (Log pod Mangartom, 1900),
pubblicista, formatosi negli ambienti dei giovani liberali, fu dirigente
ed iniziatore dell’organizzazione clandestina TIGR – da lui fondata
nel 1927, sul monte Nanos, in collaborazione con Albert Rejec. Arrestato nel 1930, subì una condanna da parte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato a vent’anni di carcere (pena scontata a
Civitavecchia, San Gimignano ed a Siena); amnistiato, fece ritorno
a casa dopo nove anni. All’entrata dell’Italia in guerra, nel giugno
del 1940, fu nuovamente arrestato, internato ad Isernia, donde, a
seguito dell’armistizio, fuggì per raggiungere, dopo varie vicissitudini, Bari, dove verso la fine di marzo del 1944 aderì al movimento
partigiano jugoslavo.
Ceppi e chiave delle carceri di Capodistria, esposti al Museo Regionale di Capodistria.
»Fui arrestato il 15 marzo 1930 e tradotto, il giorno successivo,
alle carceri di Capodistria, dove rimasi, in regime di severo isolamento, fino al 19 aprile. Fui immediatamente condotto in alto, credo al terzo o al quarto piano, in uno spazioso salone /…/. Rimasi là
fino alla fine del mese circa, senza poter mai uscire dalla stanza.
Persino l’unica finestra, sbarrata ovviamente da un’inferriata, era
stata otturata con assi inchiodate. Una ciotola di minestra ed un
pezzo di pane furono l’unico alimento che ricevetti in quel carcere.
A spese proprie potei poi acquistare qualcosina allo spaccio soltanto negli ultimi giorni di permanenza. Mi fu, beninteso, impedito
29
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
di scrivere, leggere o ricevere lettere. Soltanto dopo circa un mese
ricevetti da mia moglie, Fanica Obid, un foglio, trasmessomi per il
tramite della questura, con il quale mi comunicava di non saper
neppure dove mi trovassi e se fossi ancora in vita. Mi fu dato un
pezzo di carta perché potessi fornire a mia moglie, per quello stesso
tramite, qualche notizia su di me.
Fu ai primi di aprile che venni condotto in una cella a pianterreno, pressoché del tutto buia, deputata, credo, a cella di rigore,
proprio sul fondo di uno stretto corridoio, cui soltanto un remoto
angolino forniva un barlume di luce. La cella era lunga quanto il
pagliericcio, che giaceva su un pavimento in cemento e lasciava appena lo spazio sufficiente, presso l’uscio, per il bugliolo, era larga
appena una spanna più del pagliericcio ed aveva il soffitto ad altezza d’uomo. Al posto della porta, c’era un’inferriata che si apriva
ad anta verso la parete del corridoio, distante circa un metro, sul
suo fondo oscuro. Lungo tutto il corridoio che affiancava la serie
di una decina di celle, non vi era anima viva. Rimasi in quella cella per due settimane. Gli ultimi giorni - doveva evidentemente trattarsi dei preliminari dell’interrogatorio - ebbi per la prima volta
dal mio arrivo in carcere, la possibilità di radermi, e fui condotto
da qualche parte al pianterreno per sostenervi l’interrogatorio. Mi
fu chiesto soltanto cosa avessi fatto gli ultimi anni. Raccontai in
lungo ed in largo l’attività culturale da me profusa presso la Lega
delle associazioni culturali, della quale ero segretario. Dopo qualche ora ne ebbero abbastanza e fui ricondotto in cella. Non un solo
cenno lasciava intuire se qualcun’altro fosse stato arrestato e se
avessero avuto sentore dell’organizzazione clandestina.
Il giorno successivo fui condotto ad una cella minuscola ma
luminosa, da qualche parte al primo o al secondo piano. Credo fosse una di quelle riservate agli ammalati ed ai convalescenti, munita di un’ampia finestra che mi consentì di riassuefarmi alla luce.
Ma dopo due giorni fui riassegnato ad una sala, analoga a quella
che avevo conosciuto i primi giorni, dalla finestra analogamente
barrata, ma vi rimasi solo qualche giorno. Il 19 aprile, due cara30
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
binieri mi scortarono ammanettato, per direttissima, ovviamente,
a Roma, a bordo di uno speciale scompartimento ferroviario. Pernottammo in una stazione ferroviaria isolata, sopra gli Appennini,
in quello stesso vagone ferroviario, io, per quel che mi concerne,
ammanettato.
Durante tutta la mia permanenza nelle carceri di Capodistria,
scorsi soltanto personale di sorveglianza ed il giudice istruttore.
Fu soltanto nel salone grande che udii a volte fischiettare o canticchiare le canzoni patriottiche dei Sokol, soltanto il loro incipit,
beninteso, per evitare di essere sorpresi dai secondini di guardia
lungo il corridoio. Rispondevo facendo loro il verso. Ne dedussi
che erano stati incarcerati anche altri compagni, presumibilmente
aderenti all’organizzazione clandestina.
Fu quello - va da sé - soltanto l’inizio del mio calvario. Trascorsi a Roma, a Regina Coeli, quasi due anni, sempre in rigoroso
isolamento, in attesa del processo. Fui condannato a vent’anni di
carcere, nove soltanto dei quali scontati, in virtù d’un’amnestia
– fino al 15 marzo 1939. Seguirono naturalmente altri tre anni di
vigilanza di polizia, una specie di internamento a domicilio, durata tuttavia solo fino al 10 giugno 1940 – ossia sino all’inizio della
Guerra /…/.«34
Ivo Marinčič (Zagorje nei pressi di Pivka / San Pietro del Carso, 1907),
membro dell’organizzazione clandestina TIGR, arrestato nel 1931 e
condannato l’anno successivo, dinanzi al Tribunale Speciale per la
Difesa dello Stato, a 7 anni di carcere, rilasciato per intervenuta amnistia, nel 1934; nel 1938 fu espulso in Jugoslavia mediante foglio di
via obbligatorio, senza quindi possibilità di rimpatrio. Dopo l’aprile
del 1941 pose mano, a Lubiana, assieme a Lavo Čermelj ed altri, alla
34 Testimonianza scritta, 12/10/1959, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
resistenza organizzata, fu arrestato nel giugno 1941 ed infine assegnato al confino ad Isernia; nel novembre del 1943 assunse un incarico presso il Governo Militare Alleato con il compito di rintracciare
gli ex-internati e convogliarli al campo di raccolta di Bari. Nel giugno
del 1945 fece ritorno a Trieste, dove operò dapprima presso il Comitato di Liberazione Nazionale per il Litorale Sloveno (Pokrajinski
narodnoosvobodilni odbor za Slovensko primorje - PNOO), nel servizio scolastico, dal settembre 1946 prestò poi servizio, in veste di
giornalista, soprattutto nella redazione del Primorski dnevnik.
Dal 1928 operò nell’organizzazione clandestina TIGR assieme ad
Alojz Valenčič ed a Jože Vadnjal. Dopo l’arresto del Valenčič (uno dei
quattro fucilati al poligono di Basovizza) e la fuga di Vadnjal in Jugoslavia, ne assunse la direzione, curando, per il tramite di Jože Kukec,
attivo a Postumia, il collegamento con i militanti rifugiati in Jugoslavia. Agli inizi di settembre del 1930 i fascisti soppressero il Kukec e
trovarono fra le sue cose un quaderno d’appunti che riportava anche
il nome del Marinčič, il quale fu pertanto arrestato il 19 aprile 1931,
a Zagorje. Egli annotò la propria esperienza carceraria e giudiziaria in
forma rigorosamente sintetica su un quaderno d’appunti. Si riportano di seguito gli eventi legati al carcere di Capodistria.
»/…/ 19/4/1931. Arresto a Zagorje alle ore 13. Prelevato e scortato da un carabiniere. Il commissario presso la stazione dei carabinieri. Primo interrogatorio. Perquisizione domiciliare. Commiato dalla sorella Mila. Notte in Caserma ad Ilirska Bistrica. Coperta
lacera. Nuovo interrogatorio – tenente e commissario.
20/4. Torpedone. Fiume – questura – sotterranei. Stanza: 4
spanne per 13. Primo digiuno fino a martedì. Una settimana di
soggiorno. Impronte, foto, verbale.
25/4. Arrivo alle carceri giudiziarie. Tre anziani, fetore, immondizie sulla branda. Stanza no. 5. Prima domenica in carcere.
27/4. Prelevato da due carabinieri. Per la prima volta in ceppi. Presa stretta, dolori. Trieste, furgone, vaporetto. Le nostre donne
del latte e loro commiserazione. Arrivo a Capodistria a mezzodì.
32
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Veduta dal mare (dall’odierno stabilimento balneare) sulle carceri di Capodistria.
Perquisizioni. Primo incontro con il comandante. Cella no. 6 sopra.
15/5. Primo interrogatorio. Numerosi questurini. Lungo intervento del commissario. Esortazione a confessare la colpa. Professione d’innocenza. Scaraventato in cella d’isolamento /4/. Sette
giorni a pane ed acqua e tavolaccio rigido.
25/5. Lungo interrogatorio. Tre ore. Minacce di morte. Percosse
– dente, poi sei giorni di digiuno. / Nel frattempo il comandante
– levate notturne, lusinghe, tentazioni./
5/6. Terzo interrogatorio, varie violenze, continuazione cella
d’isolamento no 4. Sull’uscio sin dall’inizio la scritta ‘Grande sorveglianza’.
15/6. Quarto interrogatorio. Minacce di arresto ed annientamento di tutta la famiglia. Lusinghe di rilascio in libertà in cambio
di delazioni che portino altri in carcere. Ancora cella d’isolamento.
33
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
20/6. Arrivo del padre e del fratello / arresto /. Incontro in cortile. Scortato a forza in cella. Messaggio tramite spazzino.
1/7. Quinto interrogatorio. Assunta su di me tutta la responsabilità per scagionare gli altri due.
2/7. Fine della carcerazionie in cella d’isolamento. Arrivo alla
cella no. 5 / I. Cimici, calura.
19/7. Trasferimento a no. 3/I. Le loro storie. Sopra 6/II un seguace del Radić a corto di tabacco, 3/II Benso il Rosso da Genova.
Secondini. Tundo con gli occhiali, Kocjančič, Križman / Collutazione con Janko/. Vellenich in escandescenze. Altro italiano in escandescenze. Regime carcerario. Abluzioni, nutrizione speciale, libri,
finalmente i settimanali.
Prima posta dopo due mesi, solo in italiano. Ricevuta solo
ogni seconda o terza lettera. Prime notizie sulla gente di Kal di
Canale.
Passeggiata sotto le finestre. Intravvisto il fratello. Consegnato
un fazzoletto. Scambio di battute in assenza di secondini.
24/9. Sesto interrogatorio. Gli appunti di Kukec. Mio padre
rilasciato / saputo dal secondino /.
31/10. Partenza da Capodistria. Trieste – gesuiti. Pittoresca
combriccola in cella. Solo criminali comuni. Istriani diretti alle
isole /…/.«35
Nell’ottobre del 1959 descrisse poi di proprio pugno quel periodo
con le seguenti parole:
»/…/ Domenica, 19/4/1931, giunse a Zagorje la volante da Ilirska Bistrica. Fui convocato alla caserma dei carabinieri, dove fui
ammanettato ed accompagnato, in un furgone di polizia, sotto nutrita scorta, ad Ilirska Bistrica, ed il giorno seguente alle carceri
di polizia di Fiume. Quì fui gettato in una cella sotterranea e fui
lasciato due giorni a digiuno. Più tardi fui trasferito alle carceri
giudiziarie e da lì, senza aver subito interrogatorio alcuno, via
35 La trascrizione degli appunti ed i dati sono stati forniti dalla moglie Angela Marinčič nel
dicembre del 1983, Archivio del MRC.
34
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Trieste, a Capodistria, dove giunsi il 27/4/1931.
A Capodistria venni dapprima rinchiuso in una cella d’isolamento del reparto detenuti politici, dove rimasi fino al primo
interrogatorio, avvenuto il 15 maggio. Seppi allora di essere imputato di tutte le azioni antifasciste che avevano avuto luogo negli
ultimi anni a Pivka ( San Pietro del Carso). Il commissario che
mi interrogò, voleva da me i nomi degli altri militanti antifascisti
ancora a piede libero, ed in cambio mi offriva la libertà. Avendo
l’interrogatorio avuto esito negativo, fui gettato nella cella d’isolamento sotterranea no. 4, priva di porte e finestre, dove rimasi isolato, ad acqua e pane, per due mesi. Di giorno rimanevo al
buio, mentre di notte ero illuminato da una fonte luminosa che
m’impediva di addormentarmi, fosse pure sul nudo pavimento. In
quel lasso di tempo dimagrii notevolmente, tanto è vero che scesi
di peso dai 67 ai 49 chilogrammi. Seguirono altri interrogatori, durante i quali mi inflissero percosse a sangue, senza ottenere da me
alcuna ammissione. Il 20 giugno condussero in carcere mio padre
e lo trattennero per oltre tre mesi, nonostante soffrisse di gravi dolori allo stomaco. Quello stesso giorno condussero al carcere anche
mio fratello Franc e lo trattennero per 100 giorni. Rimasero a casa
soltanto le sorelle minori con il nonno ottantottenne.
Io fui poi più volte interrogato e guardato sotto stretta sorveglianza in una cella d’isolamento. I primi tre mesi non mi fu consegnata alcuna corrispondenza da casa, più tardi poi, solo di rado,
qualche lettera rigorosamente censurata. Nessuno dei congiunti
poteva rendermi visita. Come seppi più tardi, anche mio fratello
fu più volte interrogato e rinchiuso per un periodo in cella d’isolamento. Il 31/10/1931 fui infine tradotto da Capodistria sotto una
nutrita scorta di carabinieri. Dopo nove giorni di peregrinazioni di
carcere in carcere, che non mi risparmiarono il tanfo, le cimici ed
il digiuno delle tappe carcerarie di transito in diverse città, giunsi
infine a Roma, dove fui rinchiuso nel famigerato reparto delle carceri di Regina Coeli, anche quì, ovviamente, in cella d’isolamento.
A Roma ripresero gli interrogatori, che tuttavia non consentirono,
come già non avevano consentito a Capodistria, di associare chic35
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
chessia ai miei capi d’imputazione. Fu così che il 9/3/1932 giunsi
solo dinanzi al Tribunale Speciale. Nell’udienza a porte chiuse venni condannato a 7 anni di carcere di rigore, a tre anni di vigilanza
di polizia ed all’interdizione perpetua dai diritti civili. Scontai la
pena nei penitenziari di Volterra e Civitavecchia, in compagnia di
altri antifascisti sloveni ed italiani.«36
Angel Segulin (Slope, 1906),
comunista d’anteguerra, al rientro dal confino fu attivista dell’OF nel
distretto del Litorale Meridionale.
»Era lunedì, il 7 settembre 1940, quando alle due del mattino
l’uscio di casa fu scosso da un tale fracasso che balzai dal letto
alla finestra e chiesi: ‘Chi è?’. Di rimando ebbi una brusca risposta:
‘Aprite! Polizia!’ A quella risposta mi svegliai del tutto. Notai diverse ombre aggirarsi per il cortile e le udii confabulare. Risuonarono
altri colpi alla porta e sentii nuovamente intimare ‘Aprite!’, perciò
scesi di corsa le scale, aprii la porta, e prima ancora che mi avvedessi di cosa stesse in realtà succedendo, due agenti in civile mi
avevano ormai ammanettato e mi sospingevano in cucina verso
la luce, mentre alle mie spalle premevano altri agenti dell’OVRA,
in divisa o in civile, che affollarono per bene la cucina. Alla richiesta di potermi lavare, mi sciolsero un braccio e mi permisero
di sciacquarmi il viso. Nel frattempo vi condussero anche i miei
due fratelli, Ivan e Franc, oggi ormai defunto, ammanettati l’uno
all’altro. Quindi si misero a perquisire con puntiglio la casa dalla
stalla alla soffitta, rovesciando il rovesciabile e rovistando ogni
minima fessura, costringendomi ad assistere al tutto. Terminata
la perquisizione, fummo scortati in silenzio ai piedi del villaggio,
dove avevano lasciato le automobili per sé, ed un furgone per noi.
La scorta sedette fra di noi nel furgone e fummo condotti alle car36 Testimonianza scritta, 1959, Archivio del MRC.
36
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
ceri di Capodistria. In carcere intravvidi altri cinque compaesani
che erano stati arrestati quella stessa notte. Assegnarono a ciascuno la propria cella e non li vidi più fino all’aprile del 1941, quando
fummo trasferiti alle carceri triestine del Coroneo.
Le carceri di Capodistria erano un vero luogo di supplizio, per
meglio dire, un’autentica tomba per sepolti vivi. Le celle avevano
dei finestrini che davano sul cortile, ma erano talmene alti, da non
consentire neppure la vista del cielo. Più volte al mese ci trasferirono di cella in cella. Se ti capitava di salire da una cella d’angolo al
pianterreno in una ai piani superiori, venivi assalito da un senso
di gioioso sollievo per la luce della quale si poteva godere e per
l’assenza di umidità. Questa fu almeno la mia esperienza di quel
cambiamento, dopo che avevo dovuto penare per tutto l’inverno in
quelle celle al pianterreno, intirizzito dal freddo, vestito com’ero
di indumenti estivi, e dotato di una sola coperta, per di più del
tutto consunta. Mi sembrava di essere in frigorifero e non cessavo
di tremare dal freddo, sia di giorno che di notte. Risentirono del
freddo e dell’umidità – il pavimento era infatti inondato per lo
spessore di una suola – anche le mie mani, talmente gonfie, da non
poterle infilare in tasca. Mi capitò di peggio, quando fui colpito da
un forte attacco d’influenza. Due secondini mi scortarono fino al
medico carcerario, il quale, ridendo, mi disse che non aveva, per
me, alcun rimedio: ‘Non possiedo un farmaco che faccia per lei; è
stato lei a scegliersi la sorte, ora se la goda.’ Fu così che si risolse
la mia visita medica. Giacqui pertanto in cella, con la febbre alta,
ma riuscii a superare indenne il punto critico della malattia. Una
tosse persistente mi accompagnò però per tutto l’inverno /…/
I nostri carcerieri si dettero invece un gran daffare per evitare malanni al nostro apparato digerente. Ci nutrirono perci, non
più di una volta al giorno, di un po’ d’acqua calda nella quale
poteva capitare di pescare qualche foglia di verdura o persino un
pezzetto di patata /…/. Insomma ci nutrirono talmente ‘bene’ che,
io perlomeno, non fui più in grado, grazie a quell’alimentazione,
di distinguere il giorno dalla notte, perché non facevo che sbarrare in continuazione gli occhi sulle tenebre. Ignoravo quale fosse il
37
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
mio aspetto, non essendo il carcere provvisto di un solo specchio.
Potei intuirlo appena nel mese d’aprile del 1941, quando fui trasferito al Coroneo e mi imbattei, in cortile, in miei fratelli. A quella
vista scoppiarono a piangere come dei bambini, commiserandoci
a vicenda: ‘Ma come sei ridotto, ma come sei ridotto!’. Compresi
allora che dovevo presentare un aspetto poco rassicurante, poiché
scorgevo negli occhi degli altri lo stupore che si prova di fronte ad
un fantasma.
Le carceri del Coroneo mi apparvero – in confronto a quelle
di Capodistria – un vero e proprio albergo. A Trieste potei udire il
chiacchiericcio di persone libere salire dalla strada sia di giorno
che di notte, mentre a Capodistria non ero riuscito ad intercettare
dall’ambiente circostante il minimo segno di vita /…/ e mi sentii
pertanto ancor di più un murato vivo. Tanto più, avendo passato,
nella fase degli interrogatori, quaranta giorni in cella d’isolamento, senza poter scorgere anima viva, fatta eccezione per il secondino ed il famigerato commissario Perla ed i suoi due agenti che
assistevano all’interrogatorio.
I miei interrogatori iniziavano circa alle dieci di sera e si concludevano sempre ad un’ora tarda che volgeva ormai al mattino,
per quanto riesco a ricordare. Oltre ad una descrizione particolareggiata di una serie di dettagli, all’esatta biografia di tutti i membri della famiglia, il commissario Perla pretendeva che confessassi
i contatti con Pino Tomažič, il quale era stato effettivamente varie
volte a casa nostra, nel corso degli anni 1939 e 1940. Non avendo
ottenuto da me tale confessione, gli ultimi due interrogatori si conclusero, per me, con la perdita dei sensi. Circa otto giorni più tardi
fui chiamato a firmare il verbale che Perla mi avrebbe letto. Fatte
salve alcune imprecisioni di poco conto, il verbale riportava quanto avevo dichiarato. Mi sentii un po’ sollevato e tranquillizzato ma
senza poter sperare nella liberazione /…/«.37
37 Testimonianza scritta, 12/10/1959, Archivio del MRC.
38
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Franc Vatovec (Famlje, 1917),
comunista d’anteguerra dal 1936, arrestato nel 1940 durante il servizio militare, rinchiuso dapprima nelle carceri triestine del Coroneo,
quindi in quelle di Capodistria, ritradotto, nel marzo del 1941, alle
carceri del Coroneo e da lì richiamato nuovamente alle armi.
»/…/ A Trieste rimasi per 14 giorni in cella d’isolamento, e subii per sei giorni interrogatori conditi di ricatti e sevizie. Fui quindi trasferito alle carceri di Capodsitria e precisamente nella cella
no 6, nella quale scontavano la pena a 25– 30 anni di carcere dei
condannati per reati comuni, nonostante io fossi un detenuto politico. Dopo un mese fui trasferito alla cella no 7, condivisa con sei
detenuti politici: Jože Hreščak da Škoflje, Franc Kavs da Čezsoča in
quel di Caporetto, Sosič, uno studente di Opicina, Janez da Vipava
e Ukmar da Miramare alle porte di Trieste.
In carcere non si doveva parlare ad alta voce. Il pasto veniva
distribuito una volta al giorno (della minestra e del pane). Qui
non subimmo percosse e sevizie, ma fummo sottoposti costantemente ad una stretta vigilanza. I detenuti in attesa di giudizio erano separati dai detenuti che scontavano condanne. I detenuti che
scontavano la pena si distinguevano da noi per il fatto di dover
fornire prestazioni lavorative all’officina carceraria, mentre noi
non potevamo uscire di cella, se non per la quotidiana ora d’aria.
Nel marzo del 1941 fui riassociato, per insufficienza di prove, alle
carceri del Coroneo a Trieste /…/«.38
Karel Prihavec (Famlje, 1916),
antifascista d’anteguerra, arrestato nell’agosto del 1940, durante il
servizio militare a Cuneo, e tradotto in una cella d’isolamento delle
carceri triestine.
38 Testimonianza scritta, ottobre 1978, Archivio del MRC.
39
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
»Subii ogni giorno interrogatori che durarono, ciascuno, da
quattro a cinque ore, sevizie, volevano sapere se conoscessi il Dujc,
il Gašperšič e gli altri. /…/ Venivo svegliato la notte e mi si impediva di dormire. Alle continue angherie si accompagnava una nutrizione misera e disgustosa.
Il 14/8/1940 fummo tradotti collettivamente alle carceri di Capodistria. A me fu assegnata la cella no. 3. Vi rimasi isolato per
due giorni, poi vi condussero altri due detenuti politici (Silvo da
Santa Croce di Trieste e Franc da Aurisina, dei quali purtroppo non
ricordo più i cognomi). Rimanemmo assieme per due mesi, quindi
fummo trasferiti alla cella no. 10. La condividemmo in undici – sei
detenuti per reati comuni e cinque detenuti politici, fra i quali Ivan
Ivančič da Bovec ed Ivan Vadnjal da Žeje nei pressi di Postumia.
Gli ultimi due erano stati torturati e percossi; lo si capiva dalle
piaghe alle mani ed al viso. Al secondo dei due processi triestini
dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’Ivančič fu
più tardi condannato alla pena capitale.
In carcere vigeva una rigorosa disciplina e gli agenti ci angariavano. Due volte al giorno venivano controllate le inferriate
alle finestre. Si perquisivano anche le pareti adiacenti alle brande,
ed in quelle occasioni ciascuno doveva assistere ritto accanto alla
propria branda. Spesso osservavano le nostre mosse. Il cibo era
pessimo, distribuito una volta al giorno. Le stesse condizioni igieniche erano deplorevoli, un pagliericcio per letto, le pareti sudice,
pullulanti di cimici.
Il 17/1/1941 fui ricondotto alle carceri di Trieste, dove rimasi
per altri due giorni. Fui quindi condotto, sotto scorta, a Roma, e da
lì in Sardegna, dove fui assegnato ad un battaglione speciale del
59° Reggimento di fanteria, di stanza a Tempio Pausania.«39
39 Testimonianza scritta, ottobre 1978, Archivio del MRC.
40
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Semedella – durante il Regno d’Italia, nell’edificio che aveva ospitato in precedenza
una pensione, vi era, sulla destra, la stazione dei carabinieri, nella quale furono torturati gli imputati al primo megaprocesso triestino dinanzi al Tribunale Speciale per
la Difesa dello Stato, fra essi i quattro fucilati al poligono di Basovizza del 1930.
Roman Pahor (Trieste, 1903),
organizzatore del movimento giovanile sloveno a Trieste; nel 1928
subì un primo provvedimento di confino per cinque anni sull’isola
di Ponza, nel 1936 un secondo, durato un anno abbondante; fu nuovamente arrestato nel giugno del 1940 ed internato ad Istoni Marino
(Chieti), donde fu trasferito, nel settembre del 1940, dapprima alle
carceri di Capodistria, poi a quelle di Trieste; nel dicembre del 1941
fu condannato, al secondo dei due megaprocessi triestini dinanzi al
Tribunale Speicale per la Difesa dello Stato, a 12 anni di detenzione
(che iniziò a scontare a San Gimignano); nel febbraio del 1944 fu
41
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
rilasciato, su intercessione della Croce Rossa.40
Sua figlia, Sonja Pahor Tomović, annotò dei ricordi personali
sulla visita che, lei ancor una bambina di soli sei anni, prestò, accompagnata dalla zia, al padre, detenuto presso le carceri di Capodistria.
»Ripercorro con la memoria quella ormai remota e fredda
giornata d’inverno, spazzata da impetuose raffiche di bora, quando a bordo di un vaporetto cullato da brusche ondate salpammo
da Trieste alla volta di Capodistria. All’epoca non vi erano collegamenti autoviari di linea fra Trieste e Capodistria. La gioia che mi
animò durante il viaggio, al pensiero di poter presto rivedere mio
padre, fu più grande e più potente di tutte quelle ondate spumeggianti che si schiantavano senza posa sullo scafo. Avevo ingenuamente deciso che avrei cantato a mio padre la canzoncina ‘Barčica
po morju plava’ che a casa tanto amava sentire dalla mia bocca.
Dopo un’ora abbondante di viaggio disagevole sbarcammo finalmente a Capodistria. Udii lo sferragliare delle chiavi nell’atrio delle carceri di Capodistria. Comparve, fra gli stipiti, una figura alta e
capii che con la zia saremmo dovute ritornare più tardi. Vagammo
per le calli cittadine, cercando riparo dalla bora. Faceva freddo.
Quando avrei potuto rivedere mio padre? Ci ripresentammo sulla
soglia del carcere di Capodistria e quella volta fummo ammesse
all’atrio e da lì in un vano più piccolo, una specie di saletta d’attesa. Le pareti grigie e nude incutevano una strana sensazione di
gelo. Entrò un secondino. ‘Come ti chiami?’ mi chiese in italiano.
Risposi: ‘Sonja’. Guardò esterrefatto prima me, poi la carta che reggeva in mano, ed avvertii d’un tratto il dolore di uno schiaffo sulla
guancia. ‘Il tuo nome è Sofia, piccola sciava, ignori persino il tuo
nome!’ tuonò la sua voce nella stanza. Nel frattempo s’era aperta
un’altra porta, e sulla sua soglia scorsi mio padre che mi rivolgeva uno sguardo al tempo stesso mesto e severo. Rimasi sorpresa,
alla vista della sua uniforme a strisce e degli zoccoli grossolani
40 Primorski slovenski biografski leksikon, op. cit. II. volume, Gorica 1982–1985, pag. 566–567.
42
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
che calzava. Sentii scorrere le lacrime sulla guancia, arsa dallo
schiaffo. Capii che non avrei potuto cantargli ‘Barčica po morju
plava’ perché avrei dovuto farlo in una lingua che all’epoca non
si doveva parlare, se non fra le pareti domestiche. La visita durò
soltanto 10 o forse 15 minuti; papà me ne dedicò la metà. Mi risuonano ancora nelle orecchie le parole con le quali cercò di consolarmi, rassicurandomi che non dovevo temere nulla e che un giorno
tutto si sarebbe risolto per il meglio. ‘Che cosa fai qua?’ gli chiesi,
‘c’e qualcuno con te?’. ‘Sai, ogni giorno viene a farmi visita un topolino. Ormai siamo diventati amici e l’ho addestrato a starsene
tranquillo in un angolino. A volte facciamo persino la colazione
assieme – quando trovo un fagiolo nella minestra, glieglo porgo.’
Quel racconto mi parve allora una favola. Fu in realtà l’amara favola del soggiorno in una cella d’isolamento delle carceri di Capodistria, conclusosi con il secondo dei due processi triestini dinanzi
al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, quello del dicembre
del 1941, per sfociare, più tardi, in quella, più amara di un calice
d’assenzio, della detenzione nelle carceri di San Gimignano.
Son questi i miei ricordi sulle carceri di Capodistria.
Aggiungo che negli anni 1940/1941, a mio padre era stato
attribuito, nelle carceri di Capodistria, il numero di matricola
4865.«41
Franc Dobrinja (Lopar, 1908),
comunista d’anteguerra, ripetutamente incarcerato per manifestazione di sentimenti antifascisti – la prima volta nel 1928, infine il
2/8/1941, assieme agli altri compaesani arrestati nel suo villaggio ed
in quello vicino.
» /…/ In carcere facemmo conoscenza con persone di svariata
provenienza geografica (dall’Istria, dalla zona di Fiume, dalla Slo41 Testimonianza scritta, marzo 1983, Archivio del MRC.
43
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
venia). Quattro provenivano dalle carceri di Trieste, uno di essi si
chiamava Bobek; più tardi furono ritrasferiti a Trieste, condannati
a morte e fucilati al poligono di Opicina. Da quelle carceri transitarono detenuti allo stremo delle loro forze, mentre noi, originari
del luogo, disponevamo almeno del cibo che le donne ci portavano
due volte alla settimana. Condividemmo le nostre provviste con
loro. Nella nostra cella eravamo in venti, in corridoio in 18. C’incontravamo durante l’aria oppure nello scrittoio, intenti a comporre lettere ai congiunti.
In carcere subimmo vessazioni e non ci fu concesso di prender
sonno. Dormivamo sulla paglia, il pasto, immangiabile, un vero
avanzo di cucina, veniva distribuito una volta al giorno. Pullulavano inoltre i pidocchi. Da casa le donne ci portavano, una volta
la settimana, della biancheria pulita, e si riprendevano quella infestata dai pidocchi.
Alla caduta del fascismo mi detti alla pazza gioia. Perciò fui
convocato dal direttore del carcere. Mi investì di contumelie e mi
sbatté per tre giorni in cella di rigore. /…/
Dopo 13 mesi fummo trasferiti, il 23/8/1943, al campo di Cairo
Montenotte. Vi giunsero, assieme a me: mio fratello Jože, Ivan Dobrinja, Ivan Kodarin, Franc Jerman, Jože Lovrečič, Roko Kocjančič,
Franc Babič, Ivan Vergan - Očas, Avgust Štemberger, Franc Glavina,
Ivan Petruci e Matej Pribac. Vi trovammo i compagni: Franc Oblak
e Renato Kocjančič da Risano, Lazar Purger da Gabrovica e Mario
Pobega - Ždron da Pobeghi. /…/«.42
Il Dobrinja fu deportato dai tedeschi, assieme agli altri internati,
l’8/10/1943, al campo di concentramento tedesco di Mauthausen,
dove sopravvisse agli orrori concentrazionari e donde, a guerra finita, fece ritorno a casa.
42 Testimonianza scritta, febbraio 1983, Archivio del MRC.
44
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Ivan Gašperčič (Salcano, 1913),
appartenente ad una famiglia di commercianti, aderì, da liceale, all’organizzazione clandestina »Črni bratje« (»I Fratelli neri«, NdT),
subì perciò, nel 1930, carcerazione e sevizie, nel 1940 evitò un nuovo arresto, riparando a Maribor, ma fu, al ritorno, immediatamente arrestato ed associato, dapprima, alle carceri goriziane, quindi, a
quelle di Capodistria. Da lì fu assegnato ad un battaglione speciale,
dove a seguito dell’armistizio fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato a Dachau. Sua figlia, Tatjana Malec, ha così ricostruito e pubblicato la vicenda paterna, sulla scorta dei racconti del padre nonché
di fonti d’archivio ed orali.
» /…/ Nel corso di alcuni mesi di detenzione mio padre aveva
limato le barre dell’inferriata, deciso ad evadere dal carcere (di Gorizia, NdR), ma fu scoperto dal sorvegliante nel corso di un controllo
con la barra di ferro e mio padre fu punito, dopo trenta giorni di
cella d’isolamento a pane ed acqua, con il trasferimento alle carceri
di Capodistria, dove vigeva un regime carcerario ancor più severo,
aggravato da condizioni ambientali peggiori di quelle nel carcere
goriziano. Mio padre s’era sentito tremendamente mortificato nel
carcere Goriziano, quasi fosse stato murato per l’eternità dietro ad
un’enorme porta di ferro che non lasciava trapelare il minimo raggio di speranza. Assolveva come fosse un automa, le incombenze
quotidiane di ogni carcerato, quella cioè di deporre sul corridoio il
bugliolo in presenza del secondino e di spazzare la cella condivisa
assieme agli altri detenuti. In carcere avrebbe fatto conoscenza anche con lo scrittore France Bevk, cui confidò le imprese della confraternita clandestina dei ‘Fratelli neri’, che più tardi il Bevk intrecciò
in un racconto per ragazzi. A causa di quei precedenti, mio padre si
sentiva ancor più bollato a fuoco, persuaso che i fascisti non gliela
avrebbero fatta passar liscia. Era conscio di dover pagare anche per
tutto quanto la questura aveva registrato sul suo conto, quando,
non ancora maggiorenne, aveva agito da ‘fratello nero’. /…/
45
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
In carcere cercarono di estorcere a mio padre l’ammissione di
aver collaborato all’imbrattamento di una targa fascista e fu pertanto sottoposto a torture a causa dei suoi precedenti da ‘fratello
nero’. Nonostante professasse la propria innocenza e si dicesse del
tutto ignaro del fatto addebitatogli, fu trattenuto in carcere per un
tempo irragionevolmente lungo, senza che venisse condannato in
base delle prove. /…/ Mio padre fu tradotto dalle carceri goriziane
a quelle di Capodistria. Fu condotto al Belvedere, al luogo in cui
sorgeva, al posto dell’odierna scuola elementare e degli uffici postali, un enorme penitenziario. Fu scortato attraverso un cortile,
oltre una soglia sbarrata da un grande portone di ferro. All’ingresso del carcere scorse sulla parete il Crocefisso e fu d’un tratto
assalito dal pensiero che dio lo avesse abbandonato. Entrò quindi
nel penitenziario, attraversato da un lungo corridoio che costeggiava celle prive di finestre. Aria e luce penetravano in cella dal
corridoio oscuro, attraverso le feritoie delle porte. Al primo piano
si trovavano le celle d’isolamento. Poiché mio padre era stato trasferito al carcere di Capodistria con l’imputazione di tentata evasione, vi fu sistemato in una buia cella d’isolamento, nella quale
rimase per trenta giorni a pane ed acqua. Fu sistemato in una cella
d’isolamento al pianterreno, un vano di piccole dimensioni, più
sorvegliata ancora di quelle al primo piano. La cella era protetta
da una fitta inferriata. Dal lato esterno aveva uno spioncino sbarrato da un battente. Dalla cella s’udivano in lontananza, di tanto
in tanto, i versi degli asinelli istriani che la mattina tiravano i carri con i quali le contadine del circondario giungevano in città. Mio
padre giaceva in cella su una branda di ferro, su di un tavolaccio.
Essa era fissata alla parete mediante una catena e fermata da un
lucchetto. I detenuti politici erano sottoposti in carcere anche a
sevizie. Più di qualcuno non le resse e preferì togliersi la vita. Le
condizioni carcerarie di quel penitenziario erano insopportabili.
Ai piedi della branda vi era, murata nella parete, una mensola,
per deporvi la ciotola ed il recipiente dell’acqua, simili in ciò al
carcere di Gorizia. Nell’angolo sotto la finestra, il detenuto dispo46
Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Cartolina postale inviata nel 1943 alle carceri femminili.
neva, per i bisogni corporali, del bugliolo e di una ramazza. Sul
lato destro, quello in cui fu rinchiuso mio padre, c’erano sei celle.
Sul lato sinistro vi era invece l’obitorio con una finestrella protetta
da una grata. I cadaveri di quanti soccombevano alle torture o al
suicidio, erano deposti in quest’obitorio. Il decesso clinico non era
certificato da un medico, bensì, per grossolana esclusione, mediante un campanello appeso ad una cordicella tesa dagli arti inferiori
del cadavere attraverso la finestra. Se il corpo, muovendosi, dava
segni di vita, il campanello segnalava che il detenuto, giacente ormai in obitorio, era in realtà ancora in vita. Un metodo di cui
può recar vivida testimonianza chiunque sia passato attraverso le
carceri fasciste di Capodistria, poiché tutti temevano di dover subire, a seguito delle sevizie, quella sorte. Se il detenuto martoriato
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
riprendeva i sensi, veniva riportato dall’obitorio, affranto da uno
spavento mortale, alla cella d’origine. In conseguenza delle sevizie subite alcuni persero il senno, al punto che, ritornati in cella,
ruggivano ed urlavano facendosi sentire in un vasto raggio. Mio
padre non riusciva a prender sonno. Vagava su e giù per la cella.
Per impedirgli di limare le barre e preparare un’evasione, come
già aveva fatto nelle carceri di Capodistria, egli era sottoposto ad
una sorveglianza rafforzata. Il personale di vigilanza provvedeva,
per così dire, a ‘svagare’ i detenuti, facendo rintronare le barre
delle inferriate, incastonate negli stipiti in pietra. Mio padre chiese
al secondino, se poteva procurargli qualche libro. Un secondino
gentile gli portò un dizionario italiano-inglese, e fu così che mio
padre imparò in carcere l’inglese piuttosto bene. Sempre in carcere
usava modellare dei manichini con la mollica del pane. Ciò però
era vietato ed un secondino lo ammonì. Mio padre però se ne fece
un’abitudine, al punto che anche in seguito continuò a strofinare
fra i polpastrelli delle dita dei fusi o delle pallottole di mollica per
trarne dei manichini. Dopo diversi mesi, a mio padre fu concessa
l’aria. I suoi passi in cortile furono malfermi anche per le vertigini
di cui soffriva, essendo in carcere notevolmente dimagrito a causa
della pessima alimentazione. Mi raccontò che il peggio avveniva
la notte, quando il tempo non voleva saperne di trascorrere per
lasciare il passo al mattino. Aveva con sé la mia immagine in fotografia, quella di una bimba di quattro anni, che ricopriva di baci.
Conservo ancora quella fotografia a ricordo di quella vicenda, nonostante sia ormai davvero logora. Me la consegnò nel 1960, quando lo rividi a Roma per la prima volta dalla sua partenza da casa,
e mi confidò che essa lo aveva confortato nei frangenti più difficili
della vita, infondendogli la speranza di ritornare alla famiglia.
Mio padre riceveva lettere da casa, ogni lettera però, che inviava a casa, veniva censurata e quindi non era in grado di comunicare a casa come si sentisse davvero. Il cibo era misero, l’acqua
tiepida, stantia e disgustosa; specie durante i mesi estivi era impossibile dissetarsi con quel liquame. /…/
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Alcuni detenuti politici furono trasferiti da Capodistria ad altre carceri italiane, i carcerati politici di una certa levatura direttamente alle carceri romane di Regina Coeli, per scontarvi condanne a lunghi anni di carcere.
A seguito della capitolazione dell’Italia mio padre fu deportato al campo di concentramento di Dachau, dove fece da cavia
umana per esperimenti medici. Rientrato a casa, subì vessazioni
da parte dei servizi di sicurezza partigiani; riparò in Italia, dove
fu sottoposto a sei anni e mezzo di terapia presso l’ospedale militare di Roma. Morì nel 1969 a Roma all’età di 56 anni ed è lì che
è sepolto.«43
Alojz Smrdelj (Trnje nei pressi di Pivka / San Pietro del Carso, 1904),
antifascista, attivista dell’Osvobodilna Fronta:
»Nel marzo del 1942 il compagno Branko (Anton Dolgan, NdR)
mi ordinò di recarmi a San Pietro del Carso (oggi Pivka, NdR) ad
un incontro in cui avremmo dovuto negoziare con un sottufficiale
italiano la consegna di una considerevole partita di armi (fucili,
pistole, munizioni, bombe). Non era nuovo a quel genere d’affari. Le armi sarebbero dovute essere fornite quella notte stessa alla
compagnia di partigiani sull’altipiano dei Brkini. Quella notte
stessa tuttavia ci fu tesa un’imboscata e fummo arrestati: Franc
Kavčič da Slovenska vas, Karlo Puš, Vinko Brozina, Anton Frank
ed io. Dopo quattro mesi di carcere giudiziario a Fiume fui trasferito, nel mese di giugno, assieme al gruppo dei detenuti politici,
alle carceri di Capodistria. Fummo sparpagliati in diverse celle in
modo da impedire ogni contatto fra i coimputati. Fui assegnato ad
una cella popolata da soli condannati per reati comuni. Soggetto
43 Fonte in rete: www.pozitivke.net , appunto della figlia Tatjane Malec, gennaio 2006.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
a regime d’isolamento, non mi fu concesso alcun colloquio con i
famigliari. Anche per l’uscita all’aria ci assegnavano delle apposite
aree, una volta al giorno, per un quarto d’ora. La posta dei famigliari doveva passare al setaccio della censura a Roma, per cui la
ricevevo con un mese, un mese e mezzo di ritardo. Dopo sei mesi
ebbe anche per me termine il regime di carcerazione giudiziaria e
mi fu concesso il primo colloquio con i famigliari.
Interrogato dal giudice inquirente, negai ogni ammissione
estortami dalla questura. Egli si limitò ad osservare che per i capobanda della mia risma disponevano di piombo sufficiente a Roma.
Assieme a tredici compagni fui da lì trasferito, nel mese di ottobre
del 1942, a Roma, dove subii, dinanzi al Tribunale Speciale per la
Difesa dello Stato, una condanna a 30 anni di detenzione e fui deportato sull’isola d’Elba.«44
Franc Kavčič (Slovenska vas nei pressi di Pivka /
San Pietro del Carso, 1916),
attivista dell’Osvobodilna Fronta dal 1941 (insignito dell’onorificenza riservata ai resistenti della prima ora »Spomenica 1941«).
»Iniziai a lavorare per il Movimento Nazionale di Liberazione il 10/8/1941 in qualità di attivista clandestino sul territorio.
Il 25/3/1842 partecipai ad un incontro di attivisti e di partigiani
in cui concertammo l’assalto alla caserma dei carabinieri a San
Pietro del Carso. Più tardi comprendemmo che eravamo rimasti
vittima della delazione di un italiano (Ercole Cosmina da Genova)
il quale ci aveva, in precedenza, fornito armi e munizioni. Quello
stesso giorno la questura italiana aveva arrestato Alojz Smrdelj da
Trnje nei pressi di Pivka, Ivan Simčič da Matulje, Vinko Brozina da
Jelšane ed altri 18 compagni. Fummo tradotti al carcere triestino
44 Testimonianza scritta, 13/10/1959, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
sotto la questura nei pressi di San Giacomo. Vi rimasi 9 giorni e per
tutto quel tempo subii percosse e torture atroci. Fui quindi condotto a Fiume alle carceri della questura e sottoposto nuovamente ad
interrogatori e sevizie perché negavo ogni addebito. Il 25/5/1942 fui
trasferito alle carceri di Capodistria; vi rimasi fino al 3 novembre,
quando fui tradotto a Roma, dove in capo ad una settimana fui
condannato, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a 30 anni di carcere. Trascorsi la carcerazionie a Capodistria
in un’apposita cella d’isolamento, completamente solo. Anche gli
altri che erano stati arrestati assieme a me si trovavano in quel
penitenziario, ma non potei allacciare con loro alcun contatto. Gli
interrogatori che vi si svolsero di notte e di giorno furono particolarmente feroci, le percosse assai dolorose, ed un colpo infertomi
con il calcio della pistola mi estirpò i denti.«45
Roza Gombač – Špela (Trieste, 1915),
aderì all’OF nell’inverno del 1941/1942 a Lubiana, fu membro del
comitato dell’OF per il quartiere cittadino di Rožna dolina; nella primavera del 1943 si recò a Zagabria presso la sorella dove fu arrestata,
tradotta alle carceri di polizia a Lubiana e condannata, al processo
tenutosi verso la fine di agosto del 1943, a 10 anni di carcere; il 4
settembre fu associata ad un convoglio di deportande in Italia.
»Quel giorno (il 4/9/1943, NdR) fummo tradotte in treno, scortate dai carabinieri, fino a Trieste e da lì con un battello a Capodistria. Durante il tragitto dalla stazione ferroviaria al porto di Trieste fummo bersaglio di contumelie e di sputi, quasi fossimo le più
feroci fra le delinquenti. Ricordo, fra le sorveglianti nelle carceri di
Capodistria, una donna in età piuttosto avanzata, in abito civile.
Dopo che ci fu sottratto ogni bagaglio, ci sistemarono in qualche
modo. Giungemmo così in un ‘camerone’ al pian terreno con le in45 Testimonianza scritta, 14/10/1959, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
ferriate alla finestra, che ospitava 4 o 6, o forse anche più brande
di ferro. Spossate dalla fatica di un giorno intero di spostamenti, ci
coricammo e ci addormentammo. La mattina però non riuscimmo
ad aprire gli occhi. L’intera faccia, ma in particolare le palpebre,
erano completamente tumefatte a causa delle punture di zanzara,
mentre la pelle del corpo era tempestate dalle punture delle cimici.
Riuscimmo infine a scorgere il soffitto, pullulante di zanzare. Sotto
la finestra c’era, infatti, un vero e proprio letamaio, un autentico
brodo di cultura per gli insetti, mentre le brande erano infestate
dalle cimici.
Il cibo era pessimo, un’acquetta nella quale galleggiavano pezzi di barbabietola, di carota, di rapa o qualche foglia di cappuccio.
Ricordo tuttavia che la nostra sorvegliante ci portò più volte, a
spese nostre, dell’uva.
Non ricordo più come apprendemmo che era intervenuto l’armistizio. So soltanto che cantavamo canzoni partigiane, tempestavamo la porta di colpi, esigendo la liberazione. Eravamo d’eccellente umore, nell’attesa che s’aprissero i battenti del carcere ossia
che i partigiani venissero a liberarci. Non ricordo con precisione
dopo quanti giorni la porta finì davvero per aprirsi. Mi sembra di
ricordare che ci accalcavamo in un atrio, mentre sulla soglia stavano i tedeschi con i fucili puntati. Non ricordo più cosa ci dissero,
so soltanto che in quel preciso istante capimmo che la libertà non
era dietro all’angolo. Ciononostante non ci perdemmo d’animo,
fiduciose che la libertà non poteva essere poi lontana. Si viveva in
una continua attesa, tessuta di congetture sulla sorte che ci sarebbe
spettata. Ci fu infine comunicato che avremmo dovuto prepararci
alla partenza, ma non per far ritorno a casa, bensì per proseguire oltre, verso l’interno dell’Italia. Il 17 settembre ci assieparono
nuovamente su un vaporetto che ci trasportò a Trieste. Credo che
ci condussero alle carceri dei Gesuiti. Fummo accolte dalle suore e
dopo aver assolto gli obblighi di rito giungemmo verso sera in un
vano dalla finestra con la triplice inferriata, mentre il pavimento
era coperto da della paglia marcescente, al punto che i nostri piedi
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
divennero improvvisamente neri per l’assalto delle pulci. Non ci
mancavano che le pulci, oltre alle cimici! Ebbe così inizio il peregrinaggio di un centinaio di donne slovene, il 21/9/1943, da Trieste
a Venezia, mentre il 19–20 ottobre proseguimmo il viaggio verso Firenze o rispettivamente Perugia. Su intercessione della Croce Rossa
slovena fu avviata, nel mese di dicembre, la procedura di rimpatrio /…/.«46
Alina Ćiković Smolčić (Drenova nei pressi di
Fiume, 1927)
»Fui catturata il 7/5/1943 a Sušak (Fiume) assieme ad un folto gruppo di giovani. Il processo si tenne il 7/7/1943 a Fiume e vi
fui condannata ad un anno di detenzione. Il 12/7 fui trasferita
al carcere femminile di Capodistria. Ebbi per compagne di cella
Nada Salopek, Nada Glažar ed altre due compagne, delle quali
non ricordo il nome. A seguito dell’8 settembre il carcere fu preda
di una grande agitazione. Fu in quella fase che i tedeschi deportarono gli uomini in Germania, mentre noi donne fummo trasferite,
il 15/9/1943, al carcere maschile di Capodistria, mentre il 17/9 all’alba fummo trasferite a Trieste, dove rimanemmo 5 giorni fino
alla partenza per Venezia il 21/9. Per aver fomentato dei disordini,
l’11/10 fummo sparpagliate in celle d’isolamento. Il 19/10 fummo
traferite a Firenze; il 2/12/1943 ci rilasciarono.«47
Mirko Markežič - Bus (Truscolo, 1924)
Fra le due guerre la sua famiglia migrò a Lubiana; divenne membro dello SKOJ (la Federazione Giovanile Comunista Jugoslava) nel
46 Testimonianza scritta, ottobre 1978, Archivio del MRC.
47 Testimonianza scritta, gennaio 1984, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
I ruderi delle carceri di Capodistria (foto Andrej Pagon - Ogarev).
rione cittadino di Šiška nel mese di settembre del 1941; alla fine di
agosto del 1942 rientrò in Istria per la visita di leva, ne aprrofittò per
farsi attivista clandestino e rionale dell’OF (nei ranghi della gioventù); assolse, fino alla fine della guerra, diverse funzioni anche presso
la sede distaccata per l’entroterra del Comando Città di Capodistria.
Fu arrestato dai carabinieri, assieme ad altri villici di Truscolo, Bočaji
e Zabavlje, verso la fine di luglio del 1943, per aver celebrato la caduta del fascismo ed aver cantato canzoni slovene.
»/…/ fummo caricati su di un camion e trasportati alla stazione dei carabinieri di Maresego /…/ e quindi alle carceri di Capodistria. In carcere fummo sistemati nell’ala sinistra del secondo
piano. La cella (no. 18 o 23) era molto spaziosa e dotata di una
porta bassa, pesante e corazzata, dai possenti battenti. La porta
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
era inoltre dotata di un apposito spioncino protetto da una grata, usato per il controllo diurno. La cella aveva una sola finestra,
sbarrata da una spessa inferriata, talmente alta sulla parete, da
impedire ogni visuale; essa era rivolta verso il cortile interno. La
finestra era controllata più volte, di giorno e di notte, saggiando le
inferriate con una barra di ferro, facendole rintronare di singolari
rintocchi. In occasione dei controlli dovevamo metterci in fila e
sugli attenti finché la ronda non se ne fosse andata.
A terra giacevano dei pagliericci, ognuno di noi aveva due
coperte – una superiore ed una inferirore che faceva le veci del
lenzuolo. Durante il giorno nessuno poteva sedere o giacere sul pagliericcio; tale infrazione che era punita con la cella d’isolamento.
La notte ci assalivano le cimici. Di notte scendevano dal soffitto, ce
ne difendevamo coprendoci con entrambe le coperte, ciononostante la mattina avevamo tutti il collo infiammato e punzecchiato,
alcuni persino tumefatto. Quell’incubo c’impediva di dormire, se
non per qualche oretta, verso l’alba, ma non per molto – che già
incombeva la ronda per il controllo delle inferriate. Nell’angolo
sinistro della cella, sotto la finestra, stava il bugliolo di legno, insufficiente per quella calca di carcerati. Lo svuotavamo una volta
al giorno nelle ore antimeridiane. Portavano a vuotarla due dei
compagni detenuti, designati in conformità a turni prestabiliti. La
cella ospitava più di trenta detenuti, perciò il bugliolo non tardava a riempirsi fino all’orlo, ed il liquame tracimava insozzando il
pavimento. Protestammo contro quel fetore, rivendicando il diritto a vuotare il bugliolo due volte al giorno, a scanso di epidemie.
Ci fu risposto, raccomandandoci di mangiar meno. Ricevevamo
una razione giornaliera, circa un litro di minestra, versato in una
ciotola, accompagnata da una minuscola pagnotta impastata di
farina nera e di mais – la pagnocca. La minestra era un’acquetta disgustosa; una volta vi pescai un sorcio. Protestai e per tutta
risposta mi fu detto che sostituiva la carne. Per ovviare a quella
grama alimentazione, organizzammo, con l’assenso dell’amministrazione carceraria, l’approvvigionamento da casa cui le mogli
dei detenuti provvidero due volte alla settimana. Ci dettero una
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
mano i sorveglianti Kocjančič ed altri due italiani, tutti di Capodistria. Furono essi inoltre ad informarci su quanto avveniva in
carcere ed all’esterno.
Tutti i detenuti dovevano recarsi obbligatoriamente all’aria
in cortile. Al centro del cortile sorgeva un muro alto, munito di
una garritta che fungeva da vedetta, dalla quale i secondini ci osservavano, ci ammonivano, richiamandoci all’obbligo di circolare
in cerchio in fila indiana, senza scambiar parola.
Durante l’aria incontrai per la prima volta gli zii Franc e Josip
Dobrinja. Si trattò di un breve saluto e di uno sguardo appena, non
certo di strette di mano e colloqui, un fuggevole riconoscersi, dopo
di che non li rividi più. Furono deportati in un campo di concentramento tedesco.
A coppie giunsero nella nostra cella anche i seguenti carcerati:
Egidio Apollonio da Bertocchi, Avgust Piciga da Villa Decani, Janez
Močnik da Lubiana - costui ci insegnò delle canzoni partigiane, la
prima delle quali fu ‘Nabrusimo kose’ - ed altri. Ben presto m’ammalai e fui inviato, febbricitante, all’astanteria del carcere. Vi conobbi il dottor Janez Kanoni e lo studente di medicina Ivan Matko.
Allacciai dei contatti con il dottor Kanoni – persona d’indole affabile, solidale, prodigo d’inziative, mentre il Matko era piuttosto
riservato. Ben presto tornai in cella. /…/ A seguito dell’armistizio
esigemmo la liberazione di tutti i carcerati. L’iniziativa fu innescata nel corso della regolare passeggiata all’aria. Concordammo la
formazione di una delegazione composta da due delegati per cella
(scelti esclusivamente fra i detenuti politici). La nostra cella delegò
Janez Močnik e Lazar Ražman. Il direttore del carcere non volle
saperne di ricevere la delegazione, perciò fu deciso che all’imbrunire sarebbe scattato il segnale per l’insurrezione. Il segnale fu dato
intonando la canzone ‘Nabrusimo kose’ che si levò dalla nostra
cella. A quel segno i detenuti tutti si misero a gridare ‘Liberateci!’
ed a menare un frastuono a suon di colpi di bugliolo sulla porta
della cella. Janez Močnik dette il ‘la’ per la canzone, quindi lui ed
io afferrammo il bugliolo e ci mettemmo a tempestare la porta. Il
carcere si sollevò come un sol uomo, riecheggiarono canti, grida,
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Gli ultimi residui delle carceri di Capodistria (foto Andrej Pagon - Ogarev).
colpi, in breve, un frastuono che sembrava di essere al fronte e che
scosse l’intero carcere.
Sorveglianti e carabinieri, aiutati dai rinforzi ricevuti da Isola e Pirano, circondarono il penitenziario e lo sottoposero ad una
forte sorveglianza, quindi si misero a sparare, mirando alle finestre delle celle. Il tutto durò per un bel pezzo della notte. Il giorno
successivo ci minacciarono di consegnarci ai tedeschi, se non ci
fossimo acquietati. Il regime carcerario fu ulteriormente inasprito,
il controllo durante l’aria fu rafforzato. Ciascuna cella veniva ormai avviata all’aria singolarmente /…/
Ci era concesso di scrivere lettere una volta al mese su una
cartolina fornita da loro, sotto controllo. Si scriveva in corridoio,
tutti i detenuti assieme, circondati da secondini.
Nelle ore antimeridiane del 12 settembre irruppero in cella
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
dei secondini armati e dei carabinieri, ci misero in riga e chiunque
fosse stato chiamato per nome fu mandato in corridoio. Chiamarono anche me. Fummo quindi scortati in fila per due al cortile.
Ero teso, preoccupato di cosa avrebbero fatto di noi. Ci avrebbero mica condotti dinanzi ad un plotone d’esecuzione a causa dell’ammutinamento? Forse ci consegneranno ai tedeschi, oppure ci
trasferiranno ad un altro carcere, che so, alle prigioni triestine del
Coroneo. Ce ne stavamo in silenzio a meditare. Non c’erano fra di
noi Janez Močnik e gli altri. Soltanto noi, quelli di Truscolo, Bočaji
e Zabavlje. Chiedemmo dove fossimo diretti e per tutta risposta
ricevemmo un brusco ordine – ‘Fuori!’. Ci scortarono attraverso il
cortile fino all’ingresso principale, fecero segno alla sentinella di
aprire il pesante portone, su entrambi i lati del varco una nutrita
sorveglianza in armi. Ci fermammo. Qualcuno dell’amministrazione carceraria si presentò dinanzi a noi, disse alcune parole in
italiano, dopo di che si udì un gran vociare – ‘Liberi, andiamo
a casa!’ Rimanemmo per un attimo attoniti, increduli, se prestar
fede all’ordine. Ce ne andammo in silenzio, disperdendoci per le
calli capodistriane e ci dirigemmo, senza fermarci, verso Vanganel.
/…/«.48
Giovanni Tiepolo-Athos (Muggia, 1923),
partigiano della Brigata Triestina, del GAP muggesano (Gruppo d’Azione Patriottica), quindi del battaglione italiano »Alma Vivoda« (commissario politico di una sua compagnia), fu catturato il 25/11/1944,
assieme ad altri commilitoni, in zona Topolovec–Kučibreg in Istria,
tradotto nelle carceri di Capodistria, quindi alle carceri triestine del
Coroneo ed infine, verso la metà di dicembre del 1944, in campo di
concentramento tedesco (dapprima a Flossemburg Komenz, poi a
Dachau), donde fece ritorno nel giugno del 1945.
48 Testimonianza scritta, aprile 1983, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
»/.../ Preso, assieme ad altri miei compagni, ci portarono con le
mani legate con filo di ferro, all’interno dell’Istria e precisamente
a Villanova, dove ci rinchiusero nelle aule della scuola locale. Il
mattino seguente fummo trasferiti a Capodistria; lì ci fecero sfilare
per le vie del centro, accompagnati da ingiurie e sputi da una parte
dei passanti raccolti a vederci sfilare.
Fummo portati al Comando fascista locale, dove fummo oggetto di minacce e percosse. Un sottotenente fascista si distinse per la
sua brutalità: ci percosse con il caricatore del suo mitra e al povero
compagno Marsetich – che portava una bella barba – cominciò a
straparne violentemente i peli. Tra insulti e bastonamenti passarono circa due ore, indi fummo trasferiti alle carceri di Capodistria,
dove ci rinchiusero tutti in una grande cella nel pianterreno. Questo tra il sabato e la domenica. Nel frattempo si era sparsa la voce
del nostro arresto e le nostre famiglie ci fecero pervenire dei pacchi
di viveri, che ci dividemmo tutti assieme. La mattina del giovedì,
mentre eravamo seduti in cella a semicerchio, vedemmo aprirsi
ripetutamente lo spioncino e dopo qualche tempo la porta della
cella venne spalancata ed entrarono alcuni fascisti in divisa. Ci
misero in fila per due (capì che dovevano identificare qualcuno),
coll’indice puntato verso di me, mi fecero uscire dalla fila e con me
il compagno Dobrigna Ermete. Ci legarono insieme col filo di ferro
e ci portarono alla locale casa del fascio, dove incominciarono i
primi interrogatori. Iniziarono subito con il maltrattamenti, poi
anche il compagno Dobrigna ebbe la sua parte perché era capodistriano. L’interrogatorio durò fino al tardo pomeriggio. Si distinse
per la sua brutalità il famigerato maestro Zetto. Quando terminò
lui cominciò un’altro fascista. Volevano sapere chi fossero gli organizzatori dei gruppi clandestini di Muggia e dintorni, volevano
anche il mio nome di battaglia. Io dicevo di chiamarmi Salvatore (che sapevo nome di un compagno caduto), ma venni smentito
perché si presentò un ragazzo che mi aveva conosciuto in un paese
dell’Istria e mi riconobbe. Poi mi presentarono un elenco completo
del Battaglione ‘Alma Vivoda’ dove figurava anche il mio nome.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
Venni scaraventato fuori dall’ufficio e rimasi li piantonato fino
a sera, quando mi portarono nuovamente al carcere, assieme al
compagno Dobrigna, legati. Arrivati, il graduato dei fascisti disse
al direttore del carcere: ‘Questi due devono essere rinchiusi separati perché domenica saranno impiccati in piazza’.
Usciti i fascisti chiesi al direttore di slegarci, il che fece ed anche ci mise assieme agli altri compagni.
Passarono altri due giorni ed il sabato pomeriggio vennero i
militi delle SS tedesche e ci tradussero alle carceri del Coroneo a
Trieste /.../«.49
49 Testimonianza scritta, aprile 1984, Archivio del MRC.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
TERZA PARTE
LA TESTIMONIANZA LETTERARIA
Ebbe esperienza delle carceri di Capodistria anche lo scrittore
e traduttore sloveno giuliano Ciril Kosmač (Slap ob Idrijci 1910–Lubiana 1980). Ancora minorenne subii il carcere per la sua partecipazione all’organizzazione clandestina TIGR. Nell’1931 fu rilasciato
e riuscì a riparare in Jugoslavia. Da lì a poco pubblicò una testimonianza letteraria, sulla sua vicenda carceraria, sull’organo della Lega
degli emigrati jugoslavi dalla Venezia Giulia »Istra«, edito a Zagabria.
Fu così che nel 1932 uscì dapprima un breve racconto dal titolo
»Božično pismo iz celice 589« (»Una lettera natalizia dalla cella
589«, NdT)50 in cui riferisce del suo soggiorno nel famigerato carcere romano di Regina Coeli, nel 1933 infine la “Velika nedelja” (»La
Domenica di Pasqua«, NdT),51 una testimonianza in forma letteraria
sulla sua permanenza nelle carceri di Capodistria.
Ciril Kosmač: LA DOMENICA DI PASQUA
Lungo il candido Isonzo, lo Iudrio azzurro, l’impetuosa Tolminka e la Bacia spumeggiante, lungo tutti i turgidi ruscelli dal mesto
gorgoglio del Tolminotto. Nelle gole sonore e nei burroni roboanti,
attraverso i campi e lungo gli appezzamenti, accanto alle polle irruenti, si mossero i salici, i salici bianchi e neri, fragili ed umorosi.
Nessun bimbo del Tolminotto va in cerca del salice bianco per ricavarne uno zufolo, la sua corteccia è troppo fragile; è al salice nero
che egli tende la mano. – Gli amenti si sono inerpicati sui polloni e
una volta salitivi si sono abbarbicati saldamente alle gemme. Sorridono all’alba ai primi raggi di sole e con la minuta, grigia peluria in50 Istra, glasilo Zveze jugoslovanskih emigrantov iz Julijske krajine, Božič 1932 (Natale 1932,
NdT), op. cit. n. 51–52.
51 Istra, Uskrs 1933, op. cit. n. 14-15-16, pp. 14–15.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
tercettano l’Ave Maria mattutino che scende dalle chiese, cadenzato
dal canto delle zappe che risuona dalle zolle, dal muggito dei buoi
nei campi, chini sotto il giogo di pesanti aratri, dalle gioiose strida
dei pastori sopra i prati ondeggianti. – Gli amenti sono saldamente
abbarbicati alle gemme. Al punto che persino i bimbi al pascolo ne
provano compassione, quando, dovendo sbucciare i fusti per ricavarne degli zufoli, si ritrovano costretti a raschiarli dalla corteccia.
Pasqua. La domenica di Pasqua è ormai prossima.
Al mattino non c’è più sui campi la brina assassina; la rugiada
dalle gocce gonfie ricopre i prati.
Ed i salici, i salici bianchi e neri, i salici fragili ed umorosi, gravidi di pesanti amenti, chinano le fronde sopra le acque.
Pasqua. La domenica di Pasqua è ormai prossima.
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
***
Tutto s’era spento o dormiva ormai da un pezzo. Vladimir però
era ancora desto. Gli occhi sbarrati sul buio. Cercavano un barlume
al quale appoggiarsi, magari per un solo istante. Ma non trovarono
nulla. Non vi era all’orizzonte il pur minimo raggio di sole, una pur
sottile falce di luna, non una minuscola stellina. Nessun barlume era
trapelato in quel luogo desolato. Ovunque solo tenebre imperscrutabili. E Vladimir giaceva da qualche parte nel bel mezzo di quelle
tenebre, in quello spazio vuoto, solo soletto, sul freddo cemento,
avvolto nel suo pastrano, su di un esile tavolaccio.
Non sapeva se attendere qualcosa o meno. Aveva abbandonato
ormai quasi ogni speranza, che per lui vi fosse un futuro, purchessia. Sognare. Voglia di sognare. Ma di sognare provava vergogna di
fronte a se stesso. Aveva ormai diciott’anni. Sì, diciott’anni. Eppure,
mai in quei giorni di quella sua prima esperienza carceraria aveva
pensato agli ultimi mesi, all’ultimo anno della sua burrascosa vita
da liceale. Aveva pressoché dimenticato quella vita, le riunioni clandestine, tutte quelle discussioni, tutti gli spostamenti notturni, tutta
quella stampa proibita. Non ricordava quasi più persino le ragazze,
o assai di rado. S’era risvegliato in lui completamente il bimbo contadino d’un tempo. Riandava con la memoria, schivando gli anni del
liceo, i viaggi in Italia ed il primo amore, agli anni remoti dell’infanzia, ai pascoli, agli zufoli, alla scuola elementare, per affacciarsi infine allo sfavillio delle pasque fiorite. Anche quella notte era rimasto
immerso nei propri pensieri. Sentiva freddo, e ce ne volle perché
potesse prender sonno. Soltanto dopo che furono scoccate le dodici
e la mezzanotte aveva preso il largo per l’infinita rotta della notte,
s’addormentò. Ma fu bruscamente rapito ai sogni. O s’era svegliato
da solo? Vladimir stesso non avrebbe potuto precisarlo. Aveva sognato. Era a casa. Aveva appena dodici anni. Pascolava le vacche oltre
la Vrtačna, le aveva avviate ai Rejcovi lazi, mentre lui aveva deviato verso il mulino che gorgogliava sulle rive dello Skopičnik. S’era
appollaiato sulla staccionata, aveva estratto la roncola dalla tasca e
s’era ritagliato, da un salice, un grosso vinco. Ne raschiò gli amenti
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Vlasta Beltram
CARCERI CAPODISTRIANE
e ne ricavò uno zufolo. Ma lo zufolo non volle saperne di suonare.
Doveva essere fesso. Riprovò; soffiò a pieni polmoni: nulla. Dal campanile di Roče s’udì il rintocco delle sette e mezza, bisognava affrettarsi a scuola. Se la prese con lo zufolo, brandì la roncola e menò un
fendente. Ma fallì la mira – e si ferì alla mano. Si fece male. Lanciò un
grido ed aprì gli occhi. Trovò accanto a sé il secondino che gli intimava: »Alzatevi, alzatevi!« (le frasi virgolettate in corsivo ricorrono,
nell’originale, in italiano, NdT)
Vladimir rimase di stucco. Non sapeva se sognava o fosse desto.
Come? Dov’era? Se ne avvide subito, non appena scorse accanto a
sé l’occhio temerario del carceriere e mancò poco che provasse profonda vergogna del suo sogno infantile. S’alzò e si guardò attorno.
Appena allora s’accorse che non era ancora giorno e che in cella ardeva un lume. »Dove andiamo a quest’ora?«, chiese. »Presto, presto«,
fece il carceriere tagliando corto: »Prendete tutte le vostre cose.«
Vladimir raccolse in fretta e furia i propri beni, i libri, le carte,
gli indumenti e ne fece un fagotto. Non s’era neppure accorto di
aver già raccolto tutto, che non avrebbe saputo dire con precisione,
quando era germogliata in lui una speranza strana ed incredibilmente audace: chissà, forse sarebbe ritornato a casa? Benché in genere
i detenuti non venissero rilasciati a quelle ore antelucane, in fondo
non era neppure sorta ancora l’alba. Chissà, forse, lui, l’avrebbero
rilasciato. E proprio adesso, per le feste di Pasqua, si rallegrò, e già
si vedeva a casa. Camminava lungo lo Iudrio intento a scorticare un
vinco per ricavarne uno zufolo. I salici erano chini sopra le acque,
colse un mazzolino di amenti e si recò a deporlo sulla tomba della
mamma. E poi, a casa …
Chissà dove l’avrebbe condotto quel fantasticare, quand’ecco
che entrò nel corridoio. Vide, appoggiati agli stipiti della porta dell’ufficio del secondino, due agenti. Li riconobbe. Chiesero al secondino se il detenuto avesse raccolto tutte le sue cose, quindi presero
Vladimir sotto le ascelle: »Andiamo!«
S’immersero nella notte. Il pensiero di Vladimir s’arruffava in
una miriade di domande e di risposte: forse mi conducono a qual64
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che confronto. No, questa è da scartare. Oppure mi conducono ad
Idria? E chi dei nostri vi si trova? Zorko! Sì, Zorko. No, no, non mi
conducono colà, così di buon mattino. Forse a Gorizia? A Gorizia,
in carcere, quel pensiero lo stravolse. Di carcere in carcere, da Tolmino a Gorizia, lontano da casa. Ma si consolò: forse mi conducono
semplicemente dal giudice e poi mi rilasceranno. No, no, si vide di
rimando confutare quell’ipotesi. Dal giudice a quell’ora, dove mai?
Fu scortato oltre la soglia del portone del cortile. Nel viale l’attendeva un’automobile. Vi salirono, e sul tetto in tela dell’automobile caddero delle turgide gocce di rugiada. Per il resto regnava un
silenzio mortifero. Ebbe l’impressione che a quell’ora da qualche
parte qualcuno stesse per esalare l’anima. E fu quasi lieto, quando il
motore ruggì e la vettura si mosse.
Decise subito fra sé e sé: se svoltiamo verso Zalog, vado a casa,
oppure … oppure verso Santa Lucia, al treno, si rattristò di colpo. Se
prendiamo la strada per Volče … addio … si va a sud … a Gorizia.
Fatti e congetture si accavallarono precipitosamente e si fusero
in una sola domanda: »Dove si va? «, chiese. »In vacanza di Pasqua«,
rispose l’agente, sprofondando in un pervicace silenzio. Anche Vladimir tacque, e quando la vettura svoltò in direzione di Volče, scrollò
fra sé e sé le spalle: Tanto, fa lo stesso. Perché mai mi illudo, nutrendomi d’incredibili speranze. Cominciava ad albeggiare e fissò il
grigiore oltre i vetri appannati. Sfrecciarono, attraverso il villaggio di
Volče, sulla piana di Čiginj, e da lì, attraversato Ušnik, raggiunsero
l’Isonzo. Sotto Avče avvistò, spumeggiante fra le rocce, l’Isonzo. Lungo la riva crescevano dei salici. I loro amenti erano gravidi di turgide
gocce che appesantivano e curvavano i polloni. Lungo la strada fiorivano i peschi e dai fusti della vite erano ormai spuntate le gemme
pasquali.
Nel tragitto da Dolga njiva fino a Solkan, Vladimir s’era immerso
col pensiero nella propria sorte e meditava sulla vita che lo attendeva a Gorizia. Alle soglie della città si riprese, adirato con se stesso,
e si disse: »Sarà quel che sarà«. Ma quando l’automobile sfrecciò attraverso la città, senza fermarsi, tornò a chiedersi: ma dove diamine?
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Per l’amor del cielo, dove stiamo andando? Penò a fugare i pensieri
più bui. Volse uno sguardo interrogativo ai due agenti che continuarono, imperterriti, a tacere. Poi il suo pensiero si disperse per i prati
ed i campi in fiduciosa attesa del sole imminente. Accanto a lui volarono le lande, fuggirono le vigne ormai verdeggianti, i contadini venivano risucchiati dalle prime ore del mattino. Qua e là qualcuno si
fermava a inseguire con lo sguardo l’automobile. Fiorivano i peschi
ed i mandorli. L’aria era tersa e fresca. Vladimir taceva con lo sguardo rivolto al paesaggio che sorgeva e tramontava senza posa. Assorto
com’era, neppure s’accorse delle case e delle strade di Trieste. Solo
quando la vettura s’arrestò sul molo e poté scorgere di fronte a sé il
mare, si sgranchì nello scendere dall’automobile. Torno ad ergersi di
fronte a lui quell’enorme interrogativo: Dove siamo diretti?
Salirono sulla nave costiera »Andrea Doria«. La sirena sibilò, fu
tratto a bordo il ponticello. La nave affrontò le onde. Non vi era più
salvezza. Vladimir vide di fronte a sé il carcere: il penitenziario di
Capodistria.
***
L’»Andrea Doria« attraccò. Traballò leggermente. Il suono della
sirena sibilò acuto, spaventoso. Il marinaio a riva imprecò: »Per il
diavolo, getta bene«, non essendo riuscito ad agganciare la corda
dell’ormeggio. Gliene scagliarono di nuovo la cima e quegli la tirò a
sé. Calarono la passerella, la gente prese a sbarcare. Le donne istriane tornavano da Trieste con le gerle vuote, con i cesti e la merce
acquistata. Salirono in groppa agli umili asinelli che erano rimasti ad
attenderle sulla riva e scomparvero cantando fra le vigne. Vladimir
non badò a quel viavai. Poggiava sul passamano con lo sguardo fisso
al mare. Fu la sua prima navigazione in mare. E ad onta della penosa
condizione nella quale versava, ne trasse piacere. Un piacere per
certi versi inconsapevole. Tutto era grigio, il mare grigiastro, i monti
e le lontananze sconfinate e, lì dietro, Trieste. Tutto quel grigiore
che aveva pervaso ed inondato quel paesaggio, quasi un’impalpabile
coltre di mestizia e di malinconia, era sgorgato dagli occhi azzurri di
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Vladimir. Vladimir meditava. Paragonò lo scorrere del tempo a quel
mare grigio e sé stesso ad un otre vuoto in balia delle onde.
Si voltò per dirigersi verso l’uscita. Ma i due agenti lo bloccarono e gli dissero: »Aspettate ancora!«
Aspettò, e quando la nave era stata ormai evacuata, lo afferrarono sotto le ascelle e gli dissero: »Avanti, andiamo!«
Superata la passerella, si trovarono in terra ferma. Oltre il mare,
si perdevano in lontananza le cime dei monti. Lo spiazzo dinanzi alla
nave era pressoché vuoto. Vladimir non avvistò alcun volto noto.
D’un tratto però sentì accanto a sé il riso del giudice inquirente e
del verbalizzante.
»E, ci siamo«, disse il giudice. »Siete venuto nel regno dei cieli.
E proprio per la Pasqua! Conducetelo nel paradiso!«, disse il giudice
e soggiunse, rivolto verso Vladimir. »Vedremo se qui ci dirà la verità, birbante!«
Il giudice si voltò. I due agenti riafferrarono Vladimir. Salirono
per una strada lastricata in pietra. Vladimir si imbatté in case in pietra dalla foggia inusitata. Neppure si accorse, quando ebbero varcato
la soglia di uno stretto cortile e quando dietro a lui si rinchiuse con
fracasso un pesante portone in ferro.
***
»Figliolo, ci siamo«, disse l’anziano ispettore con una voce stranamente addolcita ma distaccata, sprofondando nella poltrona. Con
gli occhietti neri e rugosi squadrò Vladimir, ritto di fronte a lui, piccolo ed inerme come un bimbo cui fosse morta la mamma, i capelli
arruffati e pallido, con un fagottino in grembo, legato a mo’ di camicia. I suoi occhi azzurri apparivano vagamente acquosi e vuoti, sottolineati da due vaste, livide occhiaie. Essi fissavano il sorvegliante. La
sua uniforme azzurra. La foglia di quercia cucita con un filo dorato al
colletto. Il sorvegliante era anziano. Prese un foglio di carta e chiese:
»Da dove vieni?« »Da Tolmino.« »Nome?« »Vladimir Hribar.« »Età?«
»Compio i diciotto in autunno.« »Padre?« »France.« »Madre?« »Maria.« »Professione?« »Studente.« »Segni particolari?« »Questo«, disse
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Vladimir, indicando una cicatrice al pollice della mano sinistra.
Il verbalizzante compilò, poi s’adagiò sullo schienale e disse:
»Così, dunque, vi ha spinto oltre ogni segno, la vostra impudenza.
Invece di celebrare la Pasqua nella cerchia dei vostri cari, la festeggerete qui da noi. Non vi impietosisce la vostra povera madre?«
Vladimir fu percorso da un brivido, quando disse: »Non ho più la
mamma.« »Avrete il padre?« »Ce l’ho.« »Vedete, dunque, vostro padre
allora, non vi fa pena. Eh, già, è proprio così. Diventano dei duri sin
da piccoli, da queste parti. Non gliene importa nulla, del padre e della madre. Sono un popolo primitivo, barbaro, balcanico«, bofonchiò
l’ispettore fra sé e sé. Poi s’alzò e suonò. Entrarono due secondini.
Attraversarono il cortile verso il grande portone. Sovrastava il portone un Crocefisso dalle dimensioni inaudite. Vi era ostesa, enorme,
la figura del Cristo. Un tempo quell’effigie doveva essere dorata, ma
ora era ormai corrosa dalla ruggine. La pioggia, che per anni lo aveva
investito, vi appendeva pesanti gocce che persistevano alla stregua di
macchie di sangue oblunghe. Ai piedi del Crocefisso si leggevano i
versi di Dante: »Lasciate ogni speranza voi che entrate!«
A quella vista Vladimir si scosse. Pensò involontariamente all’enorme Cristo, uomo e dio, misericordioso ma arrugginito. Era arrugginito in maniera così triste ed impietosa che Vladimir non ce la
fece più a prestarvi fede. Ed ai piedi del Cristo non vi era la promessa
del Regno dei Cieli, bensì quella dell’inferno.
S’udi lo sferragliare della chiave nella toppa. Entrarono in un
corridoio buio. Le pareti emanavano un fetore di muffa. Sotto la
pesante, grigia volta in pietra spiravano le aperture delle finestre.
Vladimir seguì l’ispettore. Alle sue spalle, i secondini. Fu condotto,
attraverso lunghi corridoi, a destra e a manca, su e giù per delle scale
in pietra, al punto che, alla fine, Vladimir non sapeva più dove si trovasse. S’arrestarono in un lungo corridoio in cui, dinanzi a ciascuna
cella, stava una sentinella, armata di fucile con il colpo in canna.
Vladimir fu gettato nella cella no 39. L’ispettore ed i secondini lo
seguirono. Gli ordinarono di spogliarsi. Rimasto, di fronte a loro,
vestito della sola camicia, si risvegliò in lui una specie di pudore infantile. Rivolse uno sguardo al secondino, il quale inveì: »Toglietevi
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tutto!« Si levò anche la camicia e stette di fronte a loro, tutto bianco
e sottile. Le braccia gli pendevano ai fianchi, come fossero morte.
L’ispettore in persona frugò e perquisì ogni capo dei suoi indumenti, gettandoli sulla branda. Gli perquisirono i capelli, l’inguine e le
ascelle e se ne andarono. Sbatterono la porta dietro a sé.
***
Vladimir ristette in mezzo alla cella. Era spaziosa e solitaria, simile alla sala d’un castello abbandonato da tempo. La volta del soffitto
era incredibilmente alta. Essa parve a Vladimir come un cielo gravido di tempesta. Dalla volta pendeva in lontananza una minuscola feritoia che lasciava trapelare, attraverso la penombra, un sottile fascio
di luce diurna. Al centro della cella, sul pavimento in pietra, c’era
una branda di ferro. Vladimir si rivestì, vi si sedette e chinò il capo.
Il suo sguardo s’immerse nel pavimento in pietra … Rimase a lungo
così seduto e prese uno spavento a sentirsi chiamare: »Fuori!« Lo
trascinarono nuovamente su e giù per delle scale e qua e là per dei
corridoi. Infine fu spinto attraverso un vasto cortile fino al giudice.
***
Dopo un’ora abbondante, la porta dell’ufficio del giudice inquirente s’aprì. Sulla soglia apparve Vladimir, barcollò e cadde sul selciato del cortile. Il giudice gli urlò dietro: »Non confessa! Mostrate a
quel cane la sala del supplizio e poi gettatelo nel sotterraneo!«
Sopraggiunsero i due secondini a sollevare Vladimir; da solo
non ce la faceva più a camminare. Sanguinava dalla bocca e dal naso.
I secondini lo sorressero e lo trascinarono. Aprirono la porta che
dava su una grande sala e si fermarono con lui sulla sua soglia. Vladimir non vide nulla, al di fuori di un ampio raggio di sole che da
sotto la volta irrorava il pavimento grigio…
Quando la chiave risuonò nella toppa e si spalancò l’uscio che
conduceva al sotterraneo, Vladimir fu scosso da un senso di vuoto.
Null’altro che tenebre. Uno strano alito vacuo spirava dallo scantinato ed il ragazzo fu scosso da un brivido. S’aggrappò spasmodicamente ai due secondini e sbarrò gli occhi su di loro. Avrebbe voluto
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parlare, dire qualcosa, ma si limitò a balbettare a bassa voce qualcosa
d’incomprensibile. I due secondini si fermarono per un istante. A
Vladimir non parvero per nulla lieti di quell’incombenza. »Pazienza«, fece un gesto, uno di loro, lo sguardo a terra, per rimuovere da
sé le mani tremanti di Vladimir. Lo sospinsero pian piano oltre la soglia e rinchiusero la porta. Vladimir si ritrovò immerso nella solitudine. Non avvertì nulla né accanto a sé, né sotto di sé. Soltanto dopo
che sentì del freddo ai piedi, ed il fango tracimargli nelle scarpe, si
riprese. Ebbe difficoltà a muovere un passo, brancicò fino alla parete. La parete era gelida, viscida e bagnata. Vi si appoggiò, affranto da
un’ineffabile stanchezza … »Oh, la facciano finita, una buona volta.
Mi condannino, mi uccidano, mi fucilino, piuttosto. Non ce la faccio
più, sto per impazzire. Oh, mamma!«
Riprese a fantasticare sui salici. Avvertì il dolore delle botte subite, soltanto nel subconscio. Lentamente s’accasciò, lambendo la
parete, sul pavimento fradicio.
Passò un tempo interminabile. Un’eternità. Giaceva privo di
sensi. Quando si riebbe gridò dallo spavento. Tremava tutto. Aveva i
piedi gelati, gli occhi cercarono un approdo sul giorno, ma non c’era
giorno. Volle alzarsi, ma non ce la fece. »Sono condannato. Morirò«,
fu preso dallo sconforto. L’eternità intanto scorreva. Aguzzò l’udito.
Gli parve che da qualche parte in lontananza giungesse il rintocco
delle campane. Tese nuovamente l’orecchio, più assorto ancora, e
nulla. Le pareti erano troppo spesse, il luogo sotterraneo. Nessuna
voce trapelava fino a lui. Se avesse urlato, qualcuno avrebbe mai potuto udirlo? No, nessuno, mai! Fu assalito da un indicibile spavento,
un sudore freddo gli bagnò la fronte. Aveva le mani madide e sporche di sangue. Aveva sete. Nessuno si faceva vivo, eppure era pervaso
da un terribile senso d’attesa. Soltanto il suono di uno stillicidio, da
qualche parte, di gocce d’acqua che precipitavano di vuoto in vuoto,
di buio in buio, da uno spazio infinito all’altro. Ma l’uomo sospeso
in uno spazio sconfinato si sente trafiggere da dolori lancinanti. Nulla ha più un inizio e nulla una fine. Egli nasce e muore in qualche insterstizio. Passò un’altra eternità. Vladimir si riebbe nuovamente. Di
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punto in bianco gli capitò di chiedersi: Che giorno è oggi? Che sia il
venerdì di Pasqua, o forse il sabato, o addirittura la Domenica di Pasqua stessa. Rifletté, rifletté e contò, ma non giunse in capo a nulla.
È Pasqua, è Pasqua, sentiva rimbombargli alla tempia. È Pasqua e lui
è lì, solo, abbandonato, umiliato e condannato, espulso dal mondo
… »Sì, è Pasqua«, cantava il silenzio che lo circondava. »È Pasqua ed
io sono solo«. Quel pensiero lo pervase con una tale insistenza da
infondergli un’arcana forza che lo sollevò e lo indusse a scattare ed
a tempestare di pugni il muro urlando: »Eeeehi, udite«.
Non ricevette risposta. Ovunque intorno lo schernirono le tenebre. Di là dal muro non c’era vita. S’accasciò accanto alla parete.
***
Passarono una notte ed un giorno prima che la porta della cella
di Vladimir tornasse a riaprirsi. Fu trovato privo di sensi, adagiato
alla parete, accosciato. Fu sollevato ma non dette segno di vita. Si
riebbe soltanto quando fu trascinato alla scala del primo piano. Inspirò dell’aria più fresca ed aprì gli occhi. Lo sguardo gli cadde su
un raggio di sole che filtrava da una lato del soffitto. Il suo sguardo
fu attratto da quella fonte di luce. Oltre l’inferriata vide oscillare nel
vento un salice piangente. La scena gli apparve incredibilmente bella
e si augurò di poter essere trascinato così per l’eternità.
Al secondo piano fu spinto verso il muro. Gli fu intimato di rivolgere lo sguardo alla parete. Qualcuno veniva trascinato giù per le
scale. Vladimir non riuscì a dominarsi e si voltò a guardare. L’uomo
trascinato dai secondini era giovane, magro e longilineo. Sulla fronte gli si erano appiccicati i capelli castani, le labbra erano madide di
sangue. Vladimir stava quasi per gridare: »Dreja, dove ti stanno portando!« E quasi a farlo apposta, i due secondini che lo trascinavano
si cambiarono qualche battuta. »Questo se ne andrà fra poco«, disse
il primo. »Tisico«, sentenziò l’altro.
In cella fu gettato sulla branda, gli dettero una pagnotta e se
ne andarono. »Che giorno è oggi?«, pensò. »Dev’essere Pasquetta«,
concluse.
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Attraverso la feritoia splendeva il sole. Sul pavimento, sulle pietre scomposte, giaceva una chiazza di sole, ampia, gialla, lacera. Vladimir si levò dalla branda, cercò dell’acqua, e se ne tersa il viso. Poi
cercò il fazzoletto. Era insanguinato. Lo sciacquò ma non riuscì a
lavar via il sangue. Lo strizzò per bene per poi stenderlo sulla pietra
rischiarata dalla chiazza di sole. Ristette per un attimo, poi si coricò
sulla branda. Volse gli occhi al fazzoletto e per poco non sorrise a
quelle rose pallide e traslucide sulla chiazza di sole: »Fiori di Pasqua,
amenti, uova di Pasqua istoriate …«, pensò. Si udirono i rintocchi
delle campane. »Le campane«, disse, »Pasqua se n’è andata ormai.«
Le campane continuarono a suonare, il sole andò spegnendosi.
Alla feritoia fecero capolino dei colombi. Tubavano nella sera che
calava, tubavano mesti e lamentevoli, quasi che in cortile qualcuno
gemesse sopraffatto da pesanti colpi. A sentire quel suono si scosse.
Tornatogli in mente Dreja, sentì una lama trafiggergli il cuore. Tese
l’orecchio ma non riuscì a distinguere. Forse sentiva tubare dei colombi, o forse … no … no, Dreja non avrebbe pianto.
Il suo turbamento fu allagato dalla notte; dalla notte e dalla
fame. Da un pezzo non aveva ingerito nulla. A terra, accanto alla
branda, giaceva la pagnotta. La sollevò e l’addentò. Una fitta gli avvinghiò la mandibola, dolorante per le botte ricevute. Crollò tramortito sul guanciale rigido …
***
Si risvegliò ch’era l’alba. La feritoia era chiara. Pendeva dal soffitto e rideva. Vladimir si ricordò di casa sua. Avrebbe chiesto di poter
scrivere a casa, nonostante le feste fossero ormai passate. Suonata la
sveglia, si levò e bussò all’uscio. Giunse il secondino, scostò lo sportellino e chiese: »Eee …«. »Desidero scrivere a casa.« »Di qui non si
scrive«, rispose il secondino e sbatté lo sportellino.
Vladimir rimase allibito. Mosse alcuni passi incerti per la cella,
si chinò sul fazzoletto e lo raccolse. Poi lo stese verso la luce e agli
angoli della bocca gli si disegnò un sorriso melanconico quando si
disse: »Mi son fatto un tappeto di rose«.
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»A papà però non posso scrivere«, gli sovvenne dopo qualche
istante. Eppure, come avrebbe voluto, scrivergli. Tutto, gli avrebbe
scritto, le pene e speranze. Che c’é sì, il Venerdì di Pasqua, ma anche
la Domenica di Pasqua, che il Venerdì di Pasqua doveva precedere
la Domenica di Pasqua. Gli avrebbe scritto, raccomandandogli di baciare al posto suo il Cristo che giace sul pavimento dinanzi all’altare
della Comunione della chiesa di Roče. Che lui, peraltro, vedeva la
sua fede vacillare, non riusciva più a nutrirne. Ebbene, sì, in fondo al
cuore un barlume ardeva ancora, ma dopo tutto ciò che gli avevano
fatto, be’, per lui non c’era più Cristo che tenesse. Come avrebbe
potuto, del resto, quando gli infliggono sevizie, lo condannano al
cospetto di Cristo stesso, senza che costui muova un solo dito. Oh,
ma che colpa poteva averne lui, povero Cristo; lui, Vladimir, non lo
sapeva. Né era più in grado di ragionare. Ed avrebbe ancora scritto
raccomandando che la sorella Dragica, non essendovi più la mamma, la mattina di Pasqua, nello spartire, a tutti, il pane benedetto,
ne ritagliasse un pezzo anche per lui. Glielo portasse sul tavolino
nella sua stanza, perché al ritorno non avrebbe certo mancato di
chinarsi amorevolmente su di esso. Lui non sarebbe certo ritornato
per quella Domenica di Pasqua, perché la sua Domenica di Pasqua
non apparteneva a quell’anno. Ma un giorno sarebbe sicuramente
tornato …
***
Poco prima di mezzogiorno la porta si riaprì. Vladimir prese
spavento, pensò al giudice. »Che c’è? «, chiese. »Del vino«, rispose
il secondino. Vladimir si meravigliò. Mosse un passo verso la porta
e chiese: »E perché? « »È Domenica di Pasqua«, rise il secondino
con fare strafottente. Do-me-ni-ca di Pas-qua, sillabò Vladimir. »Oggi,
prendi, bevi«, gli ordinò il secondino.
Vladimir prese il bicchiere di latta. La mano gli tremava. Il bicchiere gli parve pesante, incredibilmente pesante. Vi spumeggiava il
vino nero istriano. »Forse è veleno«, gli passò per la mente, ma fu un
istante solo. »E bevi, al diavolo«, sbottò il secondino. Vladimir levò il
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bicchiere. Accostatolo alle labbra n’ebbe una sensazione di freddo.
Lo inclinò. Il vino era acido. Serrò le labbra. La vista gli si annebbiò.
»La Domenica di Pasqua«, sussurrò.
Appoggiò le spalle al muro. S’accasciò lentamente. La mano
lasciò cadere il bicchiere che ruzzolò sferragliando sulla soglia in
pietra.
***
La domenica di Pasqua è ormai prossima. Ed i salici, i salici bianchi e neri, i salici fragili ed umorosi, gravidi di pesanti amenti, chinano le fronde sopra le acque …
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IL CONTENUTO
Prima parte
LA CASA DI PENA DI CAPODISTRIA DALLA SUA ISTITUZIONE
ALLA SUA DEMOLIZIONE................................................................ 5
Seconda parte
L’ESPERIENZA CARCERARIA – TESTIMONIANZE INDIVIDUALI ....19
Avgust Primožič ...............................................................................20
Ernest Vatovec - Amedej ..................................................................23
Jože Vergan ......................................................................................24
Vekoslav Španger .............................................................................25
Vladimir Štoka .................................................................................25
Zorko Jelinčič ..................................................................................29
Ivo Marinčič .....................................................................................31
Angel Segulin ...................................................................................36
Franc Vatovec ..................................................................................39
Karel Prihavec ..................................................................................39
Roman Pahor ...................................................................................41
Franc Dobrinja .................................................................................43
Ivan Gašperčič .................................................................................45
Alojz Smrdelj ...................................................................................49
Franc Kavčič .....................................................................................50
Roza Gombač - Špela .......................................................................51
Alina Ćiković Smolčić ......................................................................53
Mirko Markežič - Bus .......................................................................53
Giovanni Tiepolo - Athos ................................................................58
Terza parte
LA TESTIMONIANZA LETTERARIA ..................................................61
Ciril Kosmač: La Domenica di Pasqua .............................................61
LE CARCERI CAPODISTRIANE
Testo
Vlasta Beltram
Editore
Associazione antifascisti, combattenti per i valori
della LLN e veterani di Capodistria
Per l’editore
Maks Vezovnik
Redattrice
Vlasta Beltram
Lettore
Ines Cergol
Traduzione italiana
Ravel Kodrič
Materiale fotografico
Museo Regionale di Capodistria
Archivio Regionale di Capodistria (p. 33)
Impaginazione e stampa
Tiskarna Stražar
Tiratura
500
Capodistria, settembre 2008
Supporto finanziario
Mestna občina Koper / Comune città di Capodistria
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