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Ripensare la scuola con le indicazioni
RIPENSARE LA SCUOLA CON LE INDICAZIONI Carlo Petracca 1 Il contributo di Carlo Petracca, già dirigente generale del MIUR, ritorna sul tema della riflessione da fare sulle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo (scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola secondaria di primo grado), in ordine al ripensamento della scuola italiana. L’autore sostiene che l’emanazione di questi documenti non deve rimanere nel circuito burocratico ministeriale, ma deve diventare invece un’occasione di evoluzione della cultura educativa e delle pratiche didattiche. Le nuove Indicazioni contengono infatti molti elementi in grado di stimolare il dibattito e l’innovazione, in particolare per quanto riguarda l’orizzonte antropologico e pedagogico proposto, la promozione dell’“approccio per competenze”, l’assunzione della categoria di “ambiente di apprendimento” e la reimpostazione del curricolo in un’ottica di “verticalità” e “continuità” educativa, in grado di riconsiderare la prescrittività dei traguardi di competenze e favorire la trasversalità e l’aggregazione tra le discipline. Premessa Quelli che una volta venivano chiamati Programmi ed ora Indicazioni Nazionali (primo ciclo e Licei) e Linee Guida (istituti tecnici e professionali) hanno sempre suscitato un grande fermento innovativo, teso a ripensare la scuola nella sua funzione e nelle pratiche didattiche. I programmi del 1985 dell’allora scuola elementare e quelli del 1979 della scuola media hanno generato “stagioni pensanti” sulla scuola ed hanno formato generazioni di docenti. I documenti però non hanno una forza propulsiva autonoma, rischiano di rimanere nell’ombra, poco conosciuti oppure completamente ignorati. Per evitare questo rischio è necessario che l’amministrazione centrale e periferica, le associazioni professionali e disciplinari, le riviste e l’editoria scolastica, tutti i soggetti che direttamente o indirettamente si occupano di educazione e di scuola non lascino cadere nel vuoto questa occasione che può contribuire a “ripensare” e quindi a migliorare la scuola. Con questo non vogliamo dire che le nuove Indicazioni siano tanto rilevanti storicamente da rappresentare un’attesa messianica per la salvezza della scuola. Siamo consapevoli che la qualità della scuola non discende direttamente dai “Programmi ministeriali” (ora Indicazioni), ma non si può negare che essi possono essere strumento di ricerca di innovazioni migliorative. Con questa prospettiva, pur accennando agli aspetti critici che indubbiamente si possono cogliere nelle Indicazioni 2012, ci concentriamo su quei punti che, a nostro avviso, dovrebbero essere oggetto di riflessione da parte dei docenti che vogliono migliorare il proprio agire educativo e didattico. 1 Già ispettore tecnico e direttore generale Miur. Componente del Comitato Scientifico Nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali. 1 1. Cultura scuola persona La Premessa delle Indicazioni è un documento molto alto che aiuta a rifocalizzare l’orizzonte di senso verso cui la scuola nel nostro tempo deve muovere. Si può cogliere fin dal primo paragrafo il rapporto che si suggerisce di stabilire tra scuola e società: una scuola che voglia essere viva e parlare ai ragazzi non può ignorare le caratteristiche del proprio tempo. Si tratta –si dice- di una società dinamica con molteplici cambiamenti e discontinuità, di una società ambivalente in cui si moltiplicano i rischi e le opportunità, di una società in cui il paesaggio educativo è diventato estremamente complesso in quanto: “vi è un’attenuazione della capacità adulta di presidio delle regole e del senso del limite … sono mutate le forme della ‘socialità spontanea’…”. Se il paesaggio educativo è diventato complesso l’orizzonte territoriale e quindi culturale si allarga fino a comprendere: globalizzazione dei stili di vita, sovrabbondanza di informazioni, presenza di culture diverse, necessità dell’intercultura, riconoscimento delle differenze, diversità delle persone (disabili, stranieri, DSA). Di conseguenza: La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle diverse forme di diversità, di disabilità o di svantaggio…La scuola è perciò investita da una domanda che comprende, insieme, l’apprendimento e il “saper stare al mondo”. E per poter assolvere al meglio le sue funzioni istituzionali, la scuola è da tempo chiamata ad occuparsi di altre delicate dimensioni dell’educazione... La scuola affianca al compito di ‘insegnare ad apprendere’ quello di ‘insegnare ad essere’. Con questo incipit alla scuola si chiede di svolgere in modo molto esplicito la funzione inclusiva e quella educativa ricollocando all’angolo le tentazioni degli ultimi tempi che, dietro una allarmante constatazione degli scarsi risultati negli apprendimenti dei nostri alunni nelle prove Invalsi e Ocse-Pisa, nascondono una malcelata istanza di ritorno alla funzione istruttiva e selettiva. Prospettare una scuola che, nell’attuale scenario storico, svolga una funzione inclusiva ed educativa significa anche ricollocare la barra al centro e fugare tentazioni e disorientamenti che il dibattito recente ha suscitato e prodotto. All’interno di tale funzione appare nitido il riferimento alla centralità della persona che attutisce il miraggio di un efficientismo che talvolta oscura la dimensione antropologica dell’essere e dell’educare: Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e le aperture offerte dalla rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e della complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. In che modo la scuola educa? Le Indicazioni forniscono una risposta chiare a tale interrogativo: attraverso la cultura racchiusa nelle discipline scolastiche e quindi attraverso l’istruzione. Non si tratta quindi di una astratta e evanescente invocazione dell’educazione che si ponga in alternativa all’istruzione, bensì del riconoscimento del nesso inscindibile tra i due concetti e le azioni che essi esprimono. I due termini (educazione e istruzione), quindi, non sono posti in alternativa. Sembra attuale una riflessione che A. Agazzi aveva già espresso a suo tempo: non c’è vera educazione che 2 non passi attraverso l’istruzione come non c’è vera istruzione che non porti all’educazione. Anche il concetto di persona non si racchiude in una astratta teorizzazione poiché si coniuga con l’idea di una nuova cittadinanza che aiuti i giovani a saper stare nella comunità e nel mondo, a saper convivere con gli altri, a saper partecipare in modo critico e consapevole alla vita sociale della propria nazione, dell’Europa e del mondo. La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il nostro continente e l’umanità tutta intera non possono essere affrontati e risolti all'interno dei confini nazionali tradizionali, ma solo attraverso la comprensione di far parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Quale cultura quindi? Una cultura che sappia aiutare i bambini e gli adolescenti a costruirsi una propria identità e a saper stare nel mondo, che sappia interconnettere i saperi disciplinari e non ponga steccati tra le discipline, che persegua e realizzi un maggiore equilibrio e una più concreta integrazione tra area umanistica, area scientifica, e nuovi saperi emergenti nel nostro tempo: è un cambiamento necessario per realizzare nelle nostre scuole quello che viene definito un nuovo umanesimo: A questo scopo il bisogno di conoscenza degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici interconnessioni. È quindi decisiva una nuova alleanza tra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo. La Premessa, dunque, può rappresentare un testo da cui partire per “ripensare” la scuola nelle sue funzioni e nella sue azioni educative e didattiche, per individuare dei punti fermi da difendere contro le tentazioni di un ritorno al passato, per tracciare un sentiero da percorrere in mezzo alle confusioni e incertezze che caratterizzano l’educativo. Sarebbe opportuno partire dal testo per suscitare dibattiti e riflessioni in seminari, convegni, riviste e soprattutto all’interno dei collegi dei docenti. 2. Approccio per competenze È indubbio che l’aspetto più innovativo delle nuove Indicazioni rispetto ai programmi del passato è rappresentato dall’impianto disciplinare centrato sulle competenze. Forse si poteva approfittare per rivedere i traguardi di sviluppo delle competenze previsti per ogni disciplina che, a nostro parere, risultano talvolta generici e di numero elevato. Si poteva anche eliminare l’espressione “traguardi di sviluppo”, utilizzata nel 2007 quando le riserve sulle competenze erano maggiori, e allinearsi maggiormente con il testo in vigore nei due anni dell’obbligo delle scuole superiori, che prevede conoscenze, abilità e competenze, e con i curricoli di altri Paesi non solo europei. Non è escluso che in una revisione finale, dopo alcuni anni di rodaggio se non di sperimentazione, si possano apportare delle modifiche in tal senso, ma è indubbio che il testo presenti già ora tutti gli elementi per innovare l’azione didattica dei docenti. L’approccio per competenze, come sappiamo, vuole fare uscire la scuola dalla didattica trasmissiva di informazioni e nozioni che l’alunno deve incamerare in un atteggiamento 3 di pura ricezione per spostare l’apprendimento verso il costruttivismo e la cognizione situata e distribuita. Il costruttivismo viene a costituire un nuovo quadro di riferimento che vede il soggetto che apprende quale reale protagonista del processo di costruzione della propria conoscenza. Ebbene la natura e la qualità di tale costruzione da quali fattori dipendono? Essi sono molteplici: variabili riferibili al soggetto che apprende (dotazioni genetiche e influenze socio-familiari); variabili riferibili a chi propone l’apprendimento (preparazione culturale e dimensione affettiva); variabili riferibili alle tecnologie dell’apprendimento; variabili riferibili al clima di classe, ecc. Oggi sappiamo dalle teorie dell’apprendimento che si aggiunge un’altra variabile importante: un apprendimento risulta efficace non solo se chiama l’alunno a una attività di costruzione della conoscenza, ma soprattutto se viene situato in un contesto problematico, il più vicino al mondo reale. I compiti di realtà, ossia situazioni problematiche che si si possono riscontrare nella vita quotidiana e che gli alunni sono chiamati a risolvere utilizzando conoscenze e abilità apprese a scuola, non sono solo strumenti di accertamento e verifica delle competenze, ma rappresentano anche, come del resto avviene per altri strumenti di valutazione, modalità di sviluppo delle stesse competenze. In fondo anche la valutazione autentica persegue lo scopo di coinvolgere gli studenti in compiti che richiedono di applicare le conoscenze nelle esperienze del mondo reale. Secondo Wiggins, la valutazione autentica, che in fondo vuole superare l’uso di prove standardizzate, si ha: quando ancoriamo il controllo al tipo di lavoro che persone concrete fanno piuttosto che solo sollecitare risposte facili da calcolare con risposte semplici. La valutazione autentica è un vero accertamento della prestazione perché da essa apprendiamo se gli studenti possono in modo intelligente usare ciò che hanno appreso in situazioni che in modo considerevole li avvicinano a situazioni di adulti e se possono rinnovare nuove situazioni (Wiggins, 1998, p.21) 2. L’apprendimento, inoltre, è efficace se è distribuito, ossia se avviene in un contesto in cui si instaurino relazioni tra più persone (l’insegnante, i compagni, esperti), si utilizzino più strumenti e materiali (cartacei, tecnologici), si confrontino esperienze, idee e giudizi. È evidente che in questa prospettiva l’apprendimento cooperativo, le comunità di pratica, le esperienze di peer education sono metodologie che, se non sostituiscono la lezione espositiva, devono certamente integrarla. Oggi sulle competenze abbiamo curato la testa e la coda: sappiamo quali sono perché i documenti ministeriali finalmente le hanno stabilite, diversamente da quanto avvenuto in prima applicazione della legge 53/2003 in cui si richiedeva alle scuole di definire le competenze, mentre il centro stabiliva solo conoscenze e abilità (Indicazioni nazionali Moratti); sappiamo anche che devono essere certificate secondo disposizioni fornite con il DPR 122/2009; sappiamo poco purtroppo su come svilupparle, quali cambiamenti apportare nella progettazione didattica, quali esperienze di apprendimento proporre agli alunni. Certamente le Indicazioni non possono sbilanciarsi sul come per non cadere nel rischio del prescrittivismo didattico e per non mortificare l’autonomia e lo spirito di ricerca che devono caratterizzare il lavoro dell’insegnante, ma rappresentano indubbiamente una occasione per promuovere una ricerca nelle scuole che produca 2 M. Comoglio, Portfolio degli studenti, in Voci della scuola, 2004, p. 297. 4 innovazioni didattiche in grado di rendere più efficaci e più motivanti gli apprendimenti: quando gli alunni sono chiamati a fare, la motivazione si accende maggiormente. Non è questa la sede per ipotizzare le modalità di sviluppo delle competenze che molte scuole stanno già costruendo e sperimentando, ma a titolo esemplificativo indichiamo le vie che possono essere percorse: 1.Rivisitazione dello statuto epistemologico delle discipline; 2.Essenzializzazione dei contenuti di apprendimento attraverso la selezione dei nuclei fondanti; 3.Problematizzazione dell’insegnamento/apprendimento; 4.Apprendimento come cognizione complessa e situata; 5.Compiti di realtà; 6.Comunità di apprendimento; 7.Pedagogia del progetto; Didattica laboratoriale; 8.Integrazione disciplinare/Collegialità; 9.Sviluppo processi cognitivi; 10.Rivisitazione lezione espositiva. Di tutti i punti sopraelencati quello più fertile risulta essere, anche per esperienze di ricerca-azione condotte direttamente con i docenti, lo sviluppo dei processi cognitivi che si basa sulla seguente argomentazione: se la competenza consiste nella capacità dell’individuo di risolvere situazioni problematiche complesse e inedite, il più possibile vicine al mondo reale, allora sono necessari schemi logici e processi cognitivi che permettano di affrontare situazioni nuove anche attraverso il transfer da un contesto noto a uno non noto. Schemi logici e processi cognitivi non si ereditano geneticamente, ma si sviluppano, come sostiene P. Perrenoud, con una azione intenzionale attraverso continue esercitazioni pratiche: La costruzione di competenze è dunque inseparabile dalla costruzione di schemi di mobilitazione intenzionale di conoscenze, in tempo reale, messe al servizio di un’azione efficace. Va da sé che gli schemi di mobilitazione di differenti risorse cognitive in una situazione d’azione complessa si sviluppano e si stabilizzano mediante la pratica. … Gli schemi si costruiscono a seguito di allenamento di esperienze rinnovate, ridondanti e strutturanti insieme, allenamento tanto più efficace quanto più viene associato ad un atteggiamento di riflessione 3. Lo sviluppo di processi cognitivi e di schemi logici di mobilitazione intenzionale di conoscenze rappresenta una condizione indispensabile per lo sviluppo delle competenze negli allievi. Abbiamo in questa direzione, come già detto, esperienze di ricerca che si stanno svolgendo positivamente nelle scuole. L’approccio per competenze richiede, inoltre, anche il superamento della progettazione per obiettivi in cui i contenuti vengono segmentati in sequenze (unità didattiche) che servono per raggiungere gli obiettivi fissati i quali sono intesi come comportamenti osservabili e misurabili (teoria comportamentista dell’apprendimento). Nell’approccio curricolare per competenze la novità consiste non tanto nella scelta dei contenuti, che vengono fatti apprendere quasi sempre in maniera decontestualizzata e staccati da un contesto reale, bensì nella proposta di situazioni ed attività problematiche e contestuali che si affrontano e si risolvono attraverso i contenuti disciplinari. 3. Ambiente di apprendimento In molti passaggi delle nuove Indicazioni si insiste sul concetto di “ambiente di apprendimento”, “gestione della classe”, “cura educativa”. Esistono due paragrafi specifici dedicati a questo aspetto: uno per la scuola dell’infanzia e uno per il primo ciclo. 3 P. Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma, p. 11. 5 Vengono forniti anche alcuni principi metodologici da utilizzare per creare ambienti di apprendimento efficaci. È da dire che il concetto di ambiente di apprendimento nasce quando in campo psico-pedagogico si sostiene il passaggio dalla scuola magistro-centrica a quella puero-centrica ossia dall’insegnamento all’apprendimento. L’ambiente di apprendimento oggi non coincide più, come nella concezione tradizionale, con lo spazio fisico dell’aula (banchi, sedie, cattedra, lavagna, ecc.) in cui c’è un soggetto che trasmette conoscenze ed altri che le immagazzinano. Dal momento in cui il costruttivismo ci dice che il vero apprendimento è quello che l’alunno si costruisce e non quello che incamera come in una fotocopia (il messaggio dell’insegnante viene fotocopiato dalla mente dell’alunno), non possiamo più fermarci allo spazio fisico (aula), ma prendere in considerazione tutti gli altri fattori che intervengono in un processo di apprendimento: l’insegnante, i compagni, gli strumenti (dai libri alle tecnologie), le relazioni interpersonali (costruttivismo sociale di Vygotskij), le relazioni affettive, uno spazio accogliente, caldo, curato, uno stile educativo improntato all’ascolto, alla cooperazione, alla fiducia. L’ambiente di apprendimento è un contesto strutturato intenzionalmente dall’insegnante che comprende le attività proposte, gli strumenti necessari, le relazioni sociali e affettive, diventa in poche parole uno “spazio d’azione” della mente che può essere fisico e virtuale nello stesso tempo. L’ambiente, dunque, non deve essere solo strutturato, ma anche regolato ed autoregolato. Possiamo riassumere dicendo che l’ambiente di apprendimento: - ha una forte caratterizzazione sociale nel senso che crea comunità di apprendimento in cui i bambini collaborano nella risoluzione di compiti e problemi, si scambiano pareri e punti di vista, imparano a confrontarsi e rispettare le opinioni di altri, a negoziare idee e concetti. In questo senso l’ambiente di apprendimento si ispira alla cognizione situata e distribuita; - ha una forte caratterizzazione metacognitiva nel senso che l’alunno mentre costruisce insieme ad altri il proprio apprendimento impara dal confronto a riconoscere i propri limiti e i propri pregi, gli errori che compie e le modalità per evitarli, apprende non solo contenuti, ma anche le modalità e le strategie per svolgere un compito, si abitua a riflettere sul proprio funzionamento mentale e a controllare la propria attività cognitiva; - ha una forte caratterizzazione emotiva e affettiva nel senso che esprime il gusto della scoperta della conoscenza, lo stupore e l’ammirazione per il nuovo che viene appreso, l’emozione del prodotto finito, l’orgoglio di una realizzazione riuscita, la fiducia in sé e negli altri. Per creare ambienti di apprendimento efficaci l’insegnante, secondo le Indicazioni, deve: • • • • • • Valorizzare l’esperienza e le conoscenze degli alunni, per ancorarvi nuovi contenuti. Attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità, per fare in modo che non diventino disuguaglianze. Favorire l’esplorazione e la scoperta, al fine di promuovere il gusto per la ricerca di nuove conoscenze. Incoraggiare l’apprendimento collaborativo. Promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere, al fine di “imparare ad apprendere”. Realizzare attività didattiche in forma di laboratorio, per favorire l’operatività e allo stesso tempo il dialogo e la riflessione su quello che si fa. 6 4. L’organizzazione del curricolo Rispetto alle Indicazioni del 2007 (Fioroni) questo paragrafo è stato ampliato e in un certo senso migliorato in quanto fornisce indicazioni utili agli insegnanti sul rapporto tra Indicazioni e progettazione curricolare delle scuole. Il percorso della progettazione curricolare viene tracciato in modo chiaro: 1. le Indicazioni costituiscono un quadro di riferimento da cui non si può prescindere, ma devono essere contestualizzate ossia adeguate ai bisogni degli alunni e del territorio. È stata sempre questa in effetti la canonica differenza tra “programmi” e “programmazione” fin dall’origine delle teorie curricolari; 2. il curricolo di scuola deve far parte del POF e deve fare riferimento al profilo dello studente al termine del primo ciclo di istruzione, ai traguardi per lo sviluppo delle competenze, agli obiettivi di apprendimento specifici per ogni disciplina. Non può essere diversamente, anzi è da rimarcare che il testo rende prescrittivi i traguardi di sviluppo delle competenze; 3. rimanendo fermi il profilo, i traguardi di competenze e gli obiettivi, gli insegnanti avranno cura di individuare le esperienze di apprendimento più efficaci, le scelte didattiche più significative, le strategie più idonee, con attenzione all’integrazione fra le discipline e alla loro possibile aggregazione in aree, così come indicato dal Regolamento dell’autonomia scolastica, che affida questo compito alle istituzioni scolastiche. I tre passaggi sopraindicati tracciano il cammino che le scuole devono compiere nella progettazione curricolare, ma hanno destato interrogativi e dubbi tra i docenti su due punti: la prescrittività dei traguardi di competenze e l’aggregazione in aree disciplinari. La prescrittività non è un vincolo troppo rigido che viene a contrastare con l’adeguamento delle Indicazioni ai bisogni degli alunni e del territorio? Se i traguardi sono prescrittivi significa che qualora non raggiunti gli alunni devono essere fermati? Questi interrogativi meritano un chiarimento teorico e pratico. Con la programmazione si è ricercato un “avvicinamento” degli obiettivi, dei contenuti e delle attività alle capacità/bisogni degli alunni. In alcuni casi è stato effettuato uno “sconto di obiettivi”, quasi a dire: a questi alunni chiedo di meno! Lo sconto di obiettivi però non è una benevolenza, come lo sconto in campo commerciale, anzi può essere una penalizzazione perché chiedere di meno può significare riconfermare il soggetto nelle condizioni di inferiorità in cui si trova. Questa argomentazione e la prescrettività dei traguardi, voluta dalle Indicazioni, possono indurre a recuperare un ritorno alla scuola severa e forse selettiva del passato, ma può essere così. I traguardi restano fissi e rappresentano le terminalità educative e didattiche verso cui tendere, quali diritto di tutti e di ciascuno al massimo di istruzione e di educazione possibile, mentre dove si registrano situazioni particolari occorre differenziare l’offerta formativa: bisogna offrire di più a chi ha di meno perché fare parti uguali tra disuguali, come diceva don Milani, è la più grande ingiustizia. Offrire di più significa fare ricorso alla differenziazione dell’azione didattica nelle classi adottando tutte le strategie di individualizzazione (apprendimento cooperativo, peer education, relazioni di aiuto, comunità di pratiche, ecc.); significa fare ricorso alla quota di curricolo riservata alle istituzioni scolastiche per differenziare e integrare l’offerta formativa con attività aggiuntive obbligatorie o facoltative e opzionali; significa fare ricorso all’ampliamento dell’offerta formativa prevista dall’art. 9 del Regolamento sull’autonomia (DPR 275/99). L’avvicinamento degli obiettivi all’alunno o lo “sconto di 7 obiettivi” è possibile e anzi doveroso solo di fronte ad alunni con certificazione di disabilità o difficoltà specifiche di apprendimento e non per tutti gli altri alunni che presentano situazioni particolari provvisorie o permanenti tali da non comportare certificazioni specifiche. È chiaro che per tale ultima categoria di alunni si possono anche rendere più accessibili i traguardi di competenza, seppur prescrittivi, attraverso una gradualità progressiva nelle tappe intermedie dell’azione didattica, senza perdere mai di vista però i traguardi finali che rappresentano il diritto di ciascuno al successo formativo e nello stesso tempo la garanzia dell’unità del sistema nazionale e della qualità del servizio: uguaglianza nei risultati dell’apprendimento! Nelle Indicazioni del 2007 (Fioroni) le discipline erano state raggruppate in tre aree: linguistico-artistico-espressiva; storico-geografica; matematico-scientifico-tecnologica. Nelle Indicazioni 2007 tale raggruppamento scompare dietro argomentazioni in verità non del tutto convincenti presenti nel testo: Nelle Indicazioni le discipline non sono aggregate in aree precostituite per non favorire un’affinità più intensa tra alcune rispetto ad altre, volendo rafforzare così trasversalità e interconnessioni più ampie e assicurare l'unitarietà del loro insegnamento. Sul piano organizzativo e didattico la definizione di aree o di assi funzionali all'ottimale utilizzazione delle risorse è comunque rimessa all'autonoma valutazione di ogni scuola. Il testo esprime il timore che l’aggregazione in aree avrebbe finito con il far rimanere nell’ombra tutte le altre possibili aggregazioni tra le discipline. Si vuole affermare che esistono aggregazioni fertili anche tra discipline appartenenti ad aree diverse quali geografia e tecnologia, musica e matematica, arte e scienze. Questo è indubitabile, ma non si può non riconoscere che esistono aggregazioni più naturali tra discipline che hanno maggiori affinità epistemologiche: in questo caso siamo nel campo della pluridisciplinarità, mentre l’aggregazione tra discipline con minore affinità epistemologica porta alla multidisciplinarità che è meno ricorrente e in un certo senso anche meno fertile dal punto di vista didattico. Oltretutto non si riesce a comprendere come mai le aree disciplinari scompaiano nel primo ciclo, mentre nel biennio dell’obbligo delle superiori permanga l’aggregazione delle discipline in quattro assi: dei linguaggi; matematico; scientifico-tecnologico; storico-sociale. Anche per ragioni di continuità l’aggregazione in aree poteva rimanere. È da dire però che le Indicazioni rimettono tale operazione ai docenti, nel rispetto dell’autonomia, e molti sono i passaggi in cui si denuncia la inopportuna separazione tra le discipline e si richiama la necessità della loro integrazione: Le discipline, così come noi le conosciamo, sono state storicamente separate l’una dall’altra da confini convenzionali che non hanno alcun riscontro con l’unitarietà tipica dei processi di apprendimento… Oggi, inoltre, le stesse fondamenta delle discipline sono caratterizzate da un’intrinseca complessità e da vaste aree di connessione che rendono improponibili rigide separazioni. Le Indicazioni asseriscono che le rigide separazioni tra discipline sono improponibili, ma E. Morin ne ha esplicitato in modo chiaro le ragioni: a)I saperi, frazionati e suddivisi in discipline, sono inadeguati ad affrontare realtà e problemi che sono multidimensionali. L’iperspecializzazione impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) così come l’essenziale (che dissolve); 8 b)Le discipline consentono un approccio riduzionista ai problemi in quanto ci ingiungono di ridurre il complesso al semplice, cioè di separare ciò che è legato, di scomporre e non di comporre; c) Le discipline non sono in grado di dare risposte all’entità globali che “erano state affettate come salami ed alla fine disintegrate, nella convinzione che derivassero dall’ingenuità prescentifica, ma in realtà perché comportavano al loro interno una complessità insostenibile per il pensiero disgiuntivo” 4. Conclude Morin, il vero pensiero è quello che interconnette. Partendo da quanto asseriscono le Indicazioni e lo stesso Morin un aspetto da curare per ripensare la scuola è senza dubbio la trasversalità ossia il raccordo il più possibile tra le discipline nell’insegnamento. In che modo è possibile realizzare nella didattica tale raccordo? Suggeriamo sinteticamente alcune tipologie di trasversalità realizzabili dai docenti: 1. Trasversalità pedagogica che si ottiene quando tutte le discipline, ciascuna con la propria specificità e senza snaturarsi, convergono su obiettivi formativi comuni, quali quelli indicati nel Profilo di uscita dello studente e nel POF di istituto; 2. Trasversalità didattica che si ottiene quando tutte le discipline, ciascuna con la propria specificità e senza snaturarsi, convergono su obiettivi didattici comuni (molti obiettivi specifici di una singola disciplina appartengono anche ad altre discipline); 3. Trasversalità per omologia materiale quando discipline diverse sono chiamate a trattare lo stesso argomento. Su questo tipo di trasversalità abbiamo avuto esperienze nel passato. Basti pensare alle scuole nuove, con l’attivismo in primo piano, alla «scuola su misura» di Claparéde, alla scuola centrata sui bisogni del fanciullo proposta da Decroly, ai «Centri d’interesse» e ai «Nuclei tematici». Sappiamo però che questa tipologia di trasversalità contenutistica ha prodotto anche collegamenti forzati ed esteriori quando si sceglie un argomento che deve essere affrontato da tutte le discipline. Per evitare questo rischio e consigliabile prendere un problema, e non un argomento, e chiamare solo quelle discipline che possono portare un contributo concreto alla sua risoluzione; 4. Trasversalità per omologia formale. C. Scurati 5 già all’epoca dei Programmi di scuola media del 1979 sosteneva che l’interdisciplinarità a livello didattico può essere meglio assicurata attraverso l’omologia formale che deriva dall’applicazione dei principi dello strutturalismo. L’omologia formale privilegia il momento metodologico e logico rispetto a quello meramente contenutistico. Spesso, in effetti, la stessa metodologia viene utilizzata da discipline diverse: la generalizzazione, ad esempio, è una procedura che appartiene alle scienze, alla matematica, alla storia, ma anche all’italiano in quanto per poter riassumere occorre saper generalizzare, ossia condensare e sussumere più informazioni di dettaglio in una espressione più sintetica. La relazione causa-effetto si riscontra in storia, ma ricorre anche in scienze, in matematica, ecc.; 5. Trasversalità operativa. Per la realizzazione di una qualsiasi delle forme di trasversalità finora indicate abbiamo bisogno di un’ altra tipologia di cui si parla poco: quella operativa che la scuola non attua in modo adeguato e che viene a coincidere con la collegialità. L’insegnante nella nostra epoca storica non è più 4 E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 92. Cfr. C. Scurati, Interdisciplinarità e didattica: fondamenti, prospettive, attuazioni in M. Mencarelli (a cura), Valutazione e interdisciplinarità, Editrice La Scuola, 1979. 5 9 una figura solitaria, quasi sacrale, che celebra il proprio rito al riparo delle mura scolastiche, all’interno della propria aula in un rapporto individualistico con i suoi allievi e con il suo sapere, ma è colui che fa vivere ai suoi alunni le interconnessioni delle conoscenze che portano di norma ad una più profonda comprensione. Le discipline non si incontrano se i docenti non si incontrano: ecco l’importanza della collegialità da ricercare nella progettazione, nell’azione didattica concreta, nei gruppi di ricerca, nei comitati scientifici e nei dipartimenti, previsti nel secondo ciclo, ma molto fertili anche nel primo ciclo. L’aggregazione delle discipline è uno degli altri aspetti utili che può aiutare a ripensare la scuola, a migliorare la didattica e di conseguenza gli apprendimenti degli alunni. 10