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Ennio Serventi Il ragazzo e la sarta che cantava

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Ennio Serventi Il ragazzo e la sarta che cantava
Ennio Serventi
Il ragazzo e la sarta che cantava
« J’aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au cœur...»
Jean-Baptiste Clément
Ennio Serventi
Il ragazzo e la sarta che cantava
Era grata a chi, invece che alla filanda, dopo la scuola elementare l’aveva indirizzata a
quel laboratorio (“ho fatto anche la sesta” diceva con orgoglio).
La bottega del signor Emilio Faia – sarto prestigioso, ciclista, sportivo appassionato,
fondatore con altri e primo presidente della Unione Sportiva Cremonese – apriva la sua
vetrina in quella strada che è adesso corso Matteotti, proprio a lato della antica
farmacia del dott. Leggeri che ancora esiste.
La natura era stata prodiga con il signor Emilio, fornendolo di padiglioni auricolari di
dimensioni tali che fino a qualche anno fa ancora se ne parlava. Nel laboratorio
prestavano la loro opera una decina di lavoranti, uomini e donne in una, per lei
assolutamente nuova, promiscuità. Il giorno che fece il suo ingresso in quella sartoria,
accompagnata da una istitutrice del collegio, uno di quei lavoranti la salutò anche con
un sorriso. Lei si accorse più tardi che era claudicante. Veniva tutti i giorni con la
bicicletta dal suo paese, Castelvetro Piacentino. Una volta ebbe una piccola discussione
con il signor Emilio e lei, “la piccinina del collegio” come lui la chiamava, l’aveva
sentito rispondere ai quei rimbrotti del principale con una ben scandita, per lei
misteriosa frase: “verrà il giorno della riscossa”.
Le pareti del laboratorio, contornate verso l’alto dalle geometrie di una greca e dipinte
con un bel colore di paglia doravano, riflettendola in un obliquo fascio, la luce che un
ampia vetrina lasciava passare. Imperativa, non addolcita dall’eleganza della grafia,
una scritta attraversava tutta la stretta parete di fondo sovrastando e pesando sulle
teste chine dei lavoranti intenti a cucire: SILENZIOSI ED OPERANTI. Nonostante
quell’ingiuntivo monito, durante il lavoro era ammesso scambiarsi sottovoce qualche
parola. Quando le parole si facevano più alte un perentorio, lungo e strascicato “ssss!!!”
imponeva il silenzio e la moglie del signor Emilio, deposto l’ago, puntava un dito
indice ad indicare la quasi francescana regola impressa sul muro di fondo. Come tutti,
anche il sarto piacentino approfittava dell’opportunità di scambiare qualche parola con
i compagni di lavoro, ma molto spesso se ne stava in disparte.
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La “piccinina del collegio” s’accorse che durante questo silente lavoro il sarto
piacentino muoveva in continuazione le labbra come se stesse pregando. Non pregava
il sarto piacentino ma recitava poesie. Erano le liriche di Stecchetti, vietatissime dalle
orsoline, ma che qualche collegiale “delle grandi” raccontava con fare misterioso alle
più giovani. Come era in uso, ne era stato dato alle stampe un volumetto censurato,
“per signorine” precisava, evidenziato in neretto, il sottotitolo. In quel laboratorio la
“piccinina del collegio” conobbe integralmente quelle rime che raccontavano come “la
sua carne fremea fra le mie braccia / eravam sulla riva e mi fermai, / e la mal chiusa veste apria
la traccia / di candidi misteri e li guardai, / fin che mi vinse amor...”
Mai aveva sentito parlare con tanto entusiasmo del peccato: “chiudete il libro mio
scomunicato / che vi potrebbe dir come son belli / maggio, le peccatrici ed il peccato...”
Ma in quelle liriche c’era anche dell’altro. Socialista di quei tempi, Stecchetti non aveva
ancora scoperto né il proletariato né la rivoluzione e s’attardava a parlare di rivolta
delle plebi, ma il messaggio era chiaro: “giù dai monti, dal mare, da aspri boschi / che
l’aquilon flagella / innumeri, feroci e disperati, / noi plebe maledetta / incontro a voi /
discenderemo armati / di odio e di vendetta...”
Quello dell’anno 1919 o del ‘20 fu il suo primo “primo maggio”. La mattina di quel
giorno al laboratorio si presentarono, oltre lei, quattro o cinque lavoranti, circa la metà
dei dipendenti. Non c’era il sarto piacentino. Alla sua domanda le venne data una
risposta misteriosa, era il “primo maggio”. Cominciò il lavoro, il signor Emilio
sembrava essere in agitazione ed invece di starsene al suo bancone di lavoro dove,
aiutandosi con gesso, riga e squadra, ritagliava dalla stoffa le parti che poi sarebbero
state cucite ed assemblate dai lavoranti, faceva e rifaceva nervosamente il tragitto fra la
sua stanza e la porta di ingresso verso il corso. Senza scendere dallo scalino che
rialzava il piano di calpestio del negozio da quello stradale, tendendo il collo, avendo
cura di non sporgersi eccessivamente quasi per paura di essere visto, guardava in
direzione di porta Venezia. La leggera curva della strada in corrispondenza del palazzo
dei Cavalcabò gli impediva di vedere cosa stava succedendo verso la piazza. Non
particolarmente noto per prodigalità, avrebbe forse pagato qualche cosa pur di riuscire
a guardare oltre a quel gomito. Sembrava in preda ad una impaziente agitazione che
gli impediva di stare fermo, era un continuo rifare quel tragitto nella penosa attesa di
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un evento che, fatalmente, sarebbe avvenuto. Provenienti dalla strada cominciavano a
sentirsi canti e grida “Vengono! vengono! arrivano!” esclamò a se stesso ma tutti nel
laboratorio udirono e tutti alzarono la testa puntando gli sguardi oltre la vetrina a
scrutare la striscia di strada che si intravedeva. Un coro di voci femminili, nel canto,
sovrastava le altre. Lei, la “piccinina del collegio” che sempre si vantò di avere
“l’orecchio fino” sentì chiaramente ed intese le parole di quella canzone che raccontava
come “la povera fanciulla della strada / sul marciapiede il corpo trascinò / la vile sensuale
borghesia / con un pezzo di pane la comprò”. II ritornello preannunciava la venuta di un
certo Lenin che avrebbe redento la fanciulla, punito la voluttuosa borghesia e fatto in
modo che le ragazze del popolo non fossero costrette a prostituirsi a causa delle
miserevoli condizioni della loro vita: “si Lenin verrà... perché Lenin soltanto... la legge di
Lenin trionferà”. Nel laboratorio seguirono sospesi attimi di silenzio, poi con un tono
deciso che parve liberatorio, il signor Emilio esclamò: “Eccolo! Eccolo là, è in prima fila
vicino alla bandiera!” “Canta, ha la bocca spalancata, dietro ci sono le filatrici con le
pertiche, urlano contro il signor avvocato Alessandro [Groppali] e Lanfranchi!” Era la
cronaca perfetta di quanto stava vedendo. “Tira giù, tira giù”, gridò il signor Emilio e
in più di uno si precipitarono a prendere il bastone uncinato con il quale, una volta
agganciata, la saracinesca sarebbe stata fatta scendere a chiusura del vano della vetrina.
“Andate via, andate via” ed i lavoranti si squagliarono dalla porta interna, verso il
cortile. Il corteo che si avvicinava, lo si capiva dai canti, dalle grida di gioia e di
minaccia che venivano dalla strada, parve arrestarsi nei pressi del laboratorio ed il
canto si fece corale, immenso: “su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera / sulla
libera bandiera / splende il sol dell‘avvenir / nelle pene e nell’insulto / ci stringemmo in mutuo
patto / la gran causa del riscatto / niun di noi saprà tradir!” “Avanti popolo alla riscossa...”
“Rivoluzione, rivoluzione!...”
Improvvisamente la porta verso il cortile si aprì e preceduto da un “permesso? si può?”
comparve lui, il sarto piacentino. La “piccinina” lo salutò, lui le sorrise toccandole,
affettuosamente, la spalla con la mano. Aveva un fiore rosso con il gambo infilato
nell’asola del “rever”, sembrava felice. Con voce allegra ed un tantino mordace rivolse
un saluto al principale che gli si era fatto incontro: “signor Emilio buon giorno, come
va?” “Oggi i padroni siamo noi!” e lo puntò fisso negli occhi. Lui, il padrone vero, non
riuscì ad articolare parola. “Vedo che tutti sono rimasti a casa, c’è solo la piccinina del
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collegio. Bene, bene”. Con espressione irosa il sarto piacentino fissò lo sguardo sul
bancone dove giacevano ancora, con gli aghi infilati, parti di giacche e gilè frettolosamente abbandonati.
Ho ragione di credere che quel sarto piacentino si chiamasse Vittorio Pompini, invalido
di guerra. I fascisti lo bastonarono due volte nel 1922, la seconda volta alla presenza di
Farinacci 1.
Lei uscì dal collegio, alla sera dopo cena cominciò a fare dei lavoretti per conto suo.
Lavorava alla luce di una lucerna che bruciava petrolio ed in breve inondava la stanza
di fumo. Una infinità di punti fatti a mano e con una macchina da cucire funzionante a
manovella. La manovella andava girata con la mano destra, mentre con l’altra si dava
la giusta dirittura alla stoffa che veniva presa fra “el pedèen” e “la griffàa”. A volte era
la sorella a girarla e la sarta si concentrava unicamente sul giusto avanzamento della
stoffa in modo che la cucitura riuscisse ben diritta. Ma anche così non era facile. La
manovella doveva essere girata con la giusta velocità, né troppo forte né
eccessivamente piano, altrimenti tutto il sincronismo sarebbe andato fuori “giro”, se
succedeva volavano parole vivaci.
Da quando era uscita dal collegio, il sarto piacentino aveva cominciato a prestarle dei
libri, altri li comprava lei con una parte dei proventi di quel lavoro serale sottratta ai
risparmi destinati all’acquisto di una più moderna macchina per cucire a pedale. Dopo
la seconda guerra mondiale partecipò ad una inchiesta, indetta dal Calendario del
Popolo, su quali fossero gli orientamenti di lettura degli italiani. Ebbe il piacere di una
piccola citazione. Lesse, fra gli altri, La valle della luna, Martin Eden, Il tallone di ferro,
Libertà, Il padrone delle ferriere, La madre, Nana, Germinal, La strage degli ugonotti, Cime
tempestose, La fossa, I Malavoglia. Cari vecchi libri trasportati e sopravissuti ad
innumerevoli traslochi, contenuti in una grande valigia di fibra giallina, sottoposti
negli anni a periodiche sofferte cernite, fino a che rimasero solo memoria.
Il sarto piacentino le prestò anche La città del sole, scritto dal frate Tomaso Campanella a
suo tempo in odore di scomunica. Quella lettura non era del tipo a lei congeniale ed il
sarto piacentino ne fu contrariato.
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Il cognome è nel ricordo, il nome frutto di successive indagini. La notizia delle aggressioni è
tratta da uno studio di Giuseppe Azzoni.
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Non fu mai una lettrice di saggistica, ma sicuramente in anni più avanzati lesse Il
manifesto dei Comunisti. Ne conservo quella che forse è una rarissima copia data alle
stampe dalla Società Editrice Avanti; non porta la data ma è certamente collocabile
negli anni 1945-’46, messa in vendita al prezzo di lire 25. Con un tratto di matita
copiativa sono sottolineati
quasi tutti i paragrafi riguardanti la abolizione della
proprietà privata. C’è pure una curiosità. Nella introduzione dove si parla del
comunismo come di uno “ spettro” che si aggira per l’Europa, la parola “spettro” è, per
entrambe le volte che ricorre, cancellata con vistosi, ripetuti e ben calcati tratti di
matita. Correggeva gli autori, per lei il comunismo era ormai realtà e non più “spettro”.
Sicuramente travisava un po’.
Di poesie, altre a quelle di Olindo Guerrini, non ne sapeva molte: La spigolatrice di Sapri,
Sant Ambrogio, I pastori e forse qualche altra. Della Cavallina storna conosceva solo una
piccola iniziale parte. Quella di d’Annunzio le piaceva molto. A teatro, una volta,
l’aveva sentita recitare da Emma Gramatica, la grande Emma Gramatica, ma la
recitazione dai toni eccessivamente tesi ed alti non le era piaciuta. Lei preferiva una
cadenza più lenta, uno scandire intercalato da qualche piccola pausa che desse il senso
di un lento andare ed accentuasse il mistero attorno a quel “rinnovato hanno verga di
avellano” che non si riusciva bene a capire cosa fosse ed alla affascinante, segreta, mai
udita voce “che primamente conosce il tremolar della marina”. Imitava i toni della grande
attrice, poi recitava lei, omettendo l’ultimo verso. No, quell’ultimo verso proprio non le
piaceva, le sembrava falso ed appiccicato. Ed a quella retorica domanda urlava la sua
risposta: “perché sei andato con i ricchi!” Era al tempo stesso accusa e rimprovero; per
essere stato favorevole alla guerra (e quindi essere andato con i ricchi) e per avere
distrutto con quella non sincera domanda il fascino di una transumanza antica.
Era canterina e molto spesso durante il lavoro, quando questo andava per il verso
giusto e la mente restava libera, cantava. Erano le canzoni in voga in quel periodo,
quelle degli anni della sua gioventù e quelle di almeno una generazione che l’aveva
preceduta, imparate dalla gente che a quel tempo cantava nei cortili e nelle osterie, e
dalla lettura dei “canzonieri”, fogli volanti di canzoni diffusi dai cantastorie.
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A Cremona viveva uno di questi cantastorie, lo chiamavano Rampòon ed abitava in
fondo a via XI Febbraio. Nei giorni di mercato, in piazza Marconi vendeva canzonieri,
lamette e sapone da barba, stringhe, lucidi per scarpe e mille altre piccole cose.
Intratteneva la gente cantando storie di amori crudeli, raccontando fatti di forte
impatto popolare accompagnandosi con la fisarmonica.
Da lui sentii raccontare in musica la storia dell’attentato a Togliatti: “Alle ore undici / del
quattordici luglio / mentre Togliatti usciva dalla camera / quattro colpi gli furono sparati / da
uno studente vile assassin”. Il motivo musicale mi era noto perché con quelle note la sarta
cantava una canzone straziante invocante commiserazione: “de compiangete una povera
madre / che ha perso il figlio / sul far dell’età / de compiangete il vecchio suo padre / che anche i
turchi avrebber pietà!”
La sarta, i fogli volanti di canzoni li comprava anche da un vecchio alto e quasi ceco
che, negli anni trenta, teneva una bancarella per la vendita di libri usati e chincaglierie
antiquarie sotto il voltone di via Antico Rodano. Si chiamava Arturo Frizzi2 e spesso la
intratteneva, parlando con voce sonora e schietta, per raccontarle episodi della sua vita
vagabonda ed avventurosa, dei mille mestieri e veniali imbrogli messi in atto per
sbarcare il lunario. Fu, sempre da uomo onesto, strillone e direttore di giornali (diresse
Il Brustolin, giornale satirico che usciva a Mantova, dove lui era nato), fabbricante e
venditore di elisir, galoppino elettorale per i candidati più differenti, attore di teatro,
cavadenti e cento altre cose diverse. Quando uscì dall’istituto cremonese fondato e
diretto da don Ferdinando Manini, conosciuto dai cremonesi come “casa Archétàa”,
vero e proprio carcere minorile più che collegio, la sua filosofia di vita era racchiusa nel
motto “con l’arte e con l’inganno vivrò mezzo anno, con l’inganno e con l’arte vivrò
l’altra parte”.
Nel 1895 si iscrisse al Partito Socialista, dal partito venne candidato alle elezioni nel
collegio di Ivrea e successivamente nel collegio di Mantova; non mi risulta che fosse
stato eletto. Mori all’ospedale di Cremona nel 1940, povero come sempre lo era stato.
Alcune di quelle canzoni che la sarta cantava, affondavano la loro storia nella corsa
all’oro della metà dell’ottocento., Ricordo bene quella della “piccola Minié vago fior
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Vedi: Arturo Frizzi, Il ciarlatano, Ed. Avanti 1953; Arturo Frizzi, Vita e opere di un ciarlatano,
Silvana, 1981 (Mondo popolare in Lombardia 8, a cura di Andreina Bergonzoni)
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d’ogni minator”, innamorata del bandito che rubò l’oro scavato dai minatori. Scoperto,
costretto a fuggire ed inseguito dai cercatori d’oro, il giovanotto confessò le sue malefatte alla ragazza che gli rispose “Son la tua Miniè e fuggirò con te”. “Odette bella pupa di
Parigi” non resistette all’invito del “bruno messican” e lo seguì nel “Messico d’or fra le
pampas in fior” dove il “sole infiamma e brucia il cor d’amor”. Non poteva essere taciuta la
bellezza sensuale delle “donne dell’Avana” che “hanno il sangue torrido dell’equator”.
Raccontava la sarta che dalle orsoline questo verso non si poteva cantare se non
tramutando il “sangue” in “febbre” annegando la sensualità di quel “sangue torrido”
in una delle tante misteriose anonime febbri tropicali sicché, da quel canto, “le donne
dell’Avana” risultavano essere tutte ammalate (è antico il vezzo di censurare le
canzoni, cambiando una parola viene stravolto tutto il senso di un racconto. Avanti
negli anni, la stessa sorte toccò alla “bandiera” ed alla “primavera” che da “rossa” che
erano una divenne “italica” e l’altra “bella”). Lamentoso il rampognare di una madre
che rimprovera il figlio per non avere ascoltato i suoi consigli, se lo avesse fatto
certamente non si sarebbe trovato “a regina Coeli rinserrato” né sarebbe “stato trasportato
per santo Stefano e per Lampedusa” dove, preconizzava la madre, “lavorerai con le catene
a lato / la tua sarà una vita dolorosa”.
A parte quello della “piccola Miniè” e quello della “bionda Odette”, nelle canzoni che lei
cantava mai compariva un amore vissuto con felicità. A volte era “un torvo bandolero”
apparso improvvisamente “al chiarore di una lampada” a troncare con un colpo di
pugnale l’amore e la vita “del pallido torero”. Più spesso era il destino avverso che si
accaniva sempre contro le donne che quando non morivano “colte da un sottile mal”,
incappavano in malattie celtiche, o mal francese. Insomma morivano di tubercolosi, “ho
la tisi e non son nata per l’amore” confessava una “da un letto d’ospedal” all’amato ritrovato. Morivano di sifilide e gonorrea, infezioni, queste ultime, notoriamente trasmissibili
per via sessuale, ma non si poteva dire ed era peccato il solo chiamarle con il proprio
nome.
Sapeva, ed a volte cantava, sonetti ironici e licenziosi che raccontavano bonarie storie
di preti e frati gaudenti sempre puniti con legnate e bastonate da mariti traditi.
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Da alcuni canti e dalle spiegazioni che lei dava alle mie domande conobbi cose e fatti
dei quali nessuno parlava. “Lavoratori a voi è diretto il canto / di questa mia canzon che sa di
pianto / racconta del baldo giovin forte / che per amor di voi / sfidò la morte / donando al mondo
/ in una feral mattina / i suoi vent ‘anni / dalla ghigliottina”. Sante Caseario, anarchico
italiano di Motta Visconti, nel giugno del 1894 pugnalò a morte il presidente francese
Carnot per vendicare i ghigliottinati di Parigi: “Carnot non ebbe pietà per Vaillant e
Caserio, il vendicatore, non ebbe pietà di lui”.
Prendendo spunto dal quell’evento molti governi europei presero misure restrittive nei
confronti dei movimenti anarchici e socialisti. Lo fece in Italia il governo Crispi e molti
degli appartenenti a qui gruppi politici si rifugiarono nel Canton Ticino ma le autorità
cantonali li espulsero. Pietro Gori trasse spunto da quell’esodo e scrisse i versi di Addio
a Lugano che ancora si canta. A me piaceva quel canto che parlava di “sfruttati” e delle
“bianche di neve / montagne ticinesi”, su di me esercitava un fascino un tantino mesto e
nostalgico, come quello che può dare il vago senso di aver perso una cosa che non si ha
provato, che adesso non c’è più ma che prima c’era. Avrei voluto andare con loro, con
quelli anarchici che cacciati, costretti “ad andare via / partivano cantando / con la speranza
in cuor”.
“Guarda giù dalla pianura / le ciminiere non fanno più fumo / i padroni dalla paura / son
compagnati dai carabinier, dai carabinier” è un bel canto proletario. Lei cantava mentre era
intenta al lavoro, seduta sul tavolo, le gambe accavallate con un piede appoggiato ad
una sedia.
Rimarcava con la voce la doppia ripetizione dell’ultima parola di ogni quartina
accompagnandola con un deciso movimento della testa quasi a volere dare più forza
alla azione descritta dal canto: “per sconfiggere il capital, IL CAPITAL” e scuoteva con
forza la testa.
Noi la cantavamo come canto per la rivoluzione, come invocata in un verso, quando il
cantarla era ancora proibito. Il significato di molte delle proposizioni di quel canto
nonostante i miei ed i suoi sforzi, mi rimase oscuro per molto tempo. Fu dura capire
cosa significasse “abbattere il capital, il capital”. Anche negli anni postbellici la lotta
politica fu sempre contro i capitalisti e non contro il capitale. A metà degli anni
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sessanta ricevetti un severo rimbrotto da un prestigioso dirigente locale del partito che
mi ricordò come il capitale esistesse “anche in Russia”.
In quegli anni ci fu una riscoperta e rivalutazione culturale degli antichi canti di lotta e
del lavoro. Lei cantò e Sergio Lodi di Piadena registrò Laurina a la filanda, e Guarda giù
dalla pianura. Una casa discografica incise e riprodusse le canzoni che entrarono anche
nel repertorio del Duo di Piadena. Più recentemente gli Stormy Six chiamarono Guarda
giù dalla pianura una loro raccolta di canti politici e di protesta di tutto il mondo.
Si discute ancora quale sia l’origine e l’autore di questo antico canto piemontese del
quale si conoscono diverse lezioni tutte in dialetto e tutte raccolte in quell’area
regionale. La lezione cantata dalla sarta è l’unica, finora trovata, cantata in italiano.
Ignoto rimane anche l’autore della traduzione che non si limitò a riscriverla in italiano
ma aggiunse e tagliò alcune preposizioni mutandone e radicalizzandone il senso.
L’aggiunto verso “per sconfiggere il capital, il capital” seguito dall’imperativa invocazione
“fate in fretta, fate in fretta” sfociante nel grido “rivoluzione rivoluzione”, rafforzata dalla
quartina di Bandiera Rossa curiosamente non cantata sul tradizionale motivo musicale,
trasforma il canto da sociale-descrittivo e di denuncia in politico-rivoluzionario.
Questo appare essere il vero scopo di quella traduzione.
Ovviamente qui non c’è spazio per la strofa delle “sartoriette e modestine” che parla di
tutt’altra cosa e che la sarta, pur conoscendo il fatto narrato, non sapeva e quindi non
cantò mai3.
Lei, la sarta, conosceva a memoria molti degli epitaffi scolpiti sulle lastre di marmo
poste sotto i portici del Comune. Raramente andavamo in centro insieme, ma quando
capitava ci fermavamo a rileggerle. Io facevo domande e non mancavano le spiegazioni. Seppi di Porta Pia e di quel “combattimento che fu ultimo”, della inquisizione (la
parola non mi era completamente nuova; in casa aveva un libro che si chiamava, non
ricordo bene, L’inquisizione di Spagna o L’Inquisizione spagnola). Imparai che cosa fosse
“il municipale consiglio” e cosa significasse essere “deputato di questa città”. Non
mancava il ricordo di antichi benefattori, fra questi ne spiccava uno il cui lascito fu
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Sull’argomento, un bel saggio di Cesare Bermani.
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devoluto alla istituzione di una borsa di studio per un giovane studente cremonese alla
condizione che venisse “esclusa ogni ingerenza clericale”.
In una aiuola del lato rivolto ad est dei giardini di piazza Roma una fioriera a forma di
coppa (la fioriera esiste ancora) portava sul gambo una scritta: “Dove furono convento e
tempio della inquisizione domenicana volle amenità di piante e fiori il municipale consiglio”.
Segue una data. La sarta era fiera di quel “municipale consiglio”che aveva deciso di
demolire quello che era rimasto di un’epoca buia.
Discutemmo, tanti anni dopo, della opportunità o meno di quella distruzione che io
consideravo fosse stata forse il primo degli insulti che quell’area continua a subire. Lei
no, parlava di quei picconatori come fossero stati sans culotte all’assalto della Bastiglia,
rimaneva convinta che ridurre in macerie quella chiesa e quel convento non fosse stato
che un atto di giustizia postuma, una specie di risarcimento degli uomini e della storia,
un monumento a quanti, solo per le loro idee, erano passati fra le mani di quei monaci.
Caduto il fascismo venne l’epoca dei comizi, ne ricordo tantissimi.
Alla fine degli anni quaranta passò da Cremona anche Angelica Balabanof, la
socialdemocratica russa amica di Lenin con il quale fu poi politicamente in disaccordo.
La ricordo già vecchia ed un tantino incurvata. Si raccontava che avesse avuto una
storia anche con Mussolini. Parlò al teatro “Filodrammatici” presentata da Francesco
Guzzini, che parlando arrotava la “erre” come i francesi e fu vice direttore del
settimanale Avvenire, organo del Fronte della Gioventù dei partigiani e dei reduci,
quando il direttore ne era Fiorino Soldi. Lo conobbi al Partito Socialista Italiano prima
che se ne andasse seguendo una delle tante scissioni che periodicamente svuotavano il
partito. Sul giornale dei socialisti cremonesi “Eco del Popolo”, Emilio Zanoni dedicò
all’oratrice un articoletto feroce titolandolo La befana balabanova.
Tutti gli anni, il 20 settembre la sarta insieme ad altre donne del movimento femminile
socialista, portava fiori alla lapide che ricorda “Giacomo Pagliari ucciso a Porta Pia nel
combattimento che fu ultimo ad atterrare una dominazione sacerdotale non voluta da Cristo e
dalla storia”.
Voglio ricordarne alcune di quelle donne, oscure e dimenticate militanti socialiste delle
quali nessuna storia del socialismo parlerà mai.
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Saffo Serafini, maestra elementare, romagnola mangia preti con nonno “garibaldino,
difensore della Repubblica Romana, ferito da piombo papalino” come sembra recitasse
l’epitaffio. Il pensiero della compagna Saffo Serafini affondava nel repubblicanesimo
mazziniano, seguiva le teorie educative riconducibili a Francisco Ferrer, fondatore
della “Escuela Moderna”. Saffo fu la prima a parlarmene. Francisco Ferrer fu
giustiziato nel 1909, non gli venne perdonato il suo ribellarsi, in campo educativo, al
predominio della chiesa.
Dirce Sala, maestra elementare, incubo di diverse generazioni di scolari, crocerossina
volontaria al fronte nella guerra 1915-18, bissolatiana ed anticomunista feroce ma di
questi attiva collaboratrice nel Movimento dei Partigiani della Pace.
Giocasta Anselmi Malinverno, maestra elementare, figlia dello scultore Adamo che
portava la cravatta alla Levalier e scolpì i monumenti a Ferruccio Ghinaglia ed Attilio
Boldori, oltre a belle figure femminili. (“Ha riempito il cimitero di donne nude” era il
rimprovero della sarta.)
Lina Canesi Manfredi, animatrice della Cooperativa Artigiana Femminile; Valeria
Morandi Tajé, (veniva da Torricella del Pizzo con la “littorina” delle tranvie provinciali
i cui binari correvano a lato della via Giuseppina. Dopo la deposizione dei fiori non
mancava di dire, scotendo leggermente il capo come a volere sottolineare il rimpianto
per la morte dell’eroe, i primi versi del Cinque Maggio: “Ei fu. Siccome immobile, / dato il
mortal sospiro”. In anni successivi, nella sua casa, incorniciate, teneva appese ad un
muro liriche d’amore – Cet amour, Dejeuner du matin, Pour toi mon amour – che una voce
sparse per lei in un giorno di primavera); Alba Camozzi, (forse operaia all’A.T.A.Pirelli, con Pietro Giazzi, Gip, e Cabrini il socialista che proveniva dall’Azione
Cattolica. Morì giovanissima, quando tornai da militare non c’era più. “Vieni con me”
mi disse Alba quella sera, dopo la riunione nella cooperativa allora sotto i portici della
frazione Gera, tenuta in preparazione della festa per l’otto marzo); Rita Scagliola
Sterzati, moglie del musicista, Maria Lazzari, Luigina Antoniazzi, Adelia Larini,
Emilietta Rossi, che abitava in via Carso, Adelina Maggi (figlia del calzolaio Dismo,
uomo di profonda spiritualità e grande bestemmiatore, il pittore cremonese noto come
“Cavour” gli aveva dedicato un graffito ed alcuni versi pubblicandoli sul giornale
umoristico-satirico cremonese Padus). Lei, la Adelina, si definiva socialista umanitaria,
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prediligeva Ignazio Silone. Dal nome della protagonista di un bella canzone argentina
presi a chiamarla Adelita.
Angela Balzi, operaia alla Ceramica Gosi si salvò dalla silicosi, abitava alla cascina
Carbonera sulla strada per Porcellasco. Io uscivo dall’adolescenza lei aveva qualche
anno in più. Dopo il lavoro veniva in bicicletta alla storica sede del Partito Socialista
Italiano in via Manzoni 2, dove si parlava di politica e non di affari. Poi, innamorato
come solo può esserlo un adolescente o chi si sente portare via il tempo, a piedi
l’accompagnavo verso casa.
Camminavamo affiancati percorrendo sempre le stesse strade, sfiorando i muri delle
stesse case, lei spingeva la bicicletta con le mani camminando al margine
dell’acciottolato. All’osteria del Bersagliere, passato il ponte sul canale, giravamo a
sinistra per quello spazio, oggi irriconoscibile, che fu anche di Padre Cristoforo. Largo
e sterrato si apriva fra il Cavo Cerca, che scorreva al fondo di una profonda fenditura
sottopassando la via per Mantova, ed il più lontano colatore Pippia, entrambi
scomparsi, come è scomparsa l’antica fornace per la cottura dei mattoni. Del primo
monastero cremonese dei frati minori cappuccini rimane chissà ancora per quanto, un
tratto di muro d’angolo ed un tetto.
Ci lasciavamo oltre i binari di via Persico, alla santella che esiste ancora come esiste
ancora, chiusa ed abbandonata in attesa di diventare un’altra cosa o di scomparire per
sempre, la cascina Carbonera. La santella era piantata ai margini della via in luogo
solitario, fra la strada ed il fosso, toccata dai rami bassi dei platani giganti. A quel
limitare arrivavo prostrato, soffocato dal pudore che in tutto quell’andare mi aveva
impedito e ancora mi impediva di mettere nelle parole quel che sentivo.
Una sera d’estate al momento di lasciarci, Angela improvvisamente mi abbracciò con
un abbraccio che ricordo infinito, appoggiò la guancia alla mia dicendomi: “lo so che
mi vuoi bene”. Fu la prima ed unica volta, come uniche furono le parole affettuose di
quella sera che lei solo disse e che io non riuscii a pronunciare. Poi, chissà il perché, ci
perdemmo di vista. Mi rimane di Angela la sua immagine in una fotografia di gruppo
dove a malapena si intravede, fatta ad una manifestazione di partito, e il ricordo che
conservo nel cuore.
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