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famiglia grembo dell`io
FAMIGLIA
GREMBO DELL’IO
12 Settembre 2013
Teatro Auditorium Manzoni - Bologna
FAMIGLIA
GREMBO DELL’IO
12 Settembre 2013
Teatro Auditorium Manzoni - Bologna
Questo documento raccoglie gli interventi presentati al Seminario di apertura dell’anno scolastico 2013-2014 rivolto a docenti di scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado.
Redazione e stampa a cura del Centro di Documentazione della FISM di Bologna.
In copertina: Marc Chagall, La Famiglia, olio su tela, 1975-1976
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INDICE
Introduzione
Rossano Rossi – Presidente della FISM di Bologna
Mirella Lorenzini – Dirigente scolastico “Ist. San Domenico – Farlottine” di Bologna
Verità e bontà della coniugalità
Lectio Magistralis di S. Em. Card. Carlo Caffarra – Arcivescovo di Bologna
Maschio e Femmina, a Sua immagine li creò
Costanza Miriano – moglie, mamma e scrittrice
Testimonianza
Alessandra Barattini e Valter Brugiolo – famiglia affidataria e gestore di una scuola
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INTRODUZIONE
Rossano Rossi – Presidente della FISM di Bologna
In veste di Presidente della Fism di Bologna e in rappresentanza delle Associazioni che
hanno organizzato e promosso quest’incontro, saluto e do il benvenuto a tutti voi,
ringraziandovi per la vostra partecipazione.
Un grazie particolare ai relatori: al nostro Cardinale, sempre vicino e disponibile alle
nostre iniziative, alla dott.ssa Costanza Miriano e alla famiglia Brugiolo-Barattini.
Le ragioni alla base di quest’iniziativa possono essere sintetizzate attorno a tre temi:
1) il desiderio e l’impegno di testimoniare una comunione ecclesiale.
Che numerose e diverse Associazioni cattoliche del mondo della scuola si coordinino e
lavorino per progettare e promuovere un iniziativa come questa e che lo facciano in
collaborazione e sintonia con gli organismi pastorali della Chiesa locale, non è così
scontato.
Come docenti di scuole, statali e paritarie di ogni ordine e grado, nella consapevolezza
della nostra responsabilità educativa, ci ritroviamo in comunione con il nostro Pastore per
consolidare e vivificare la missione educativa della Chiesa bolognese.
2) abbiamo ritenuto di declinare questo impegno educativo dando particolare risalto
al tema della famiglia.
Accanto a questioni ricorrenti, come la necessità di costruire un’alleanza educativa tra
scuola e famiglia, le situazioni di fragilità che investono un numero crescente di famiglie
ci toccano e ci interrogano. Dobbiamo confrontarci con “nuove visioni culturali” che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia.
Segnalo a tale proposito tre iniziative che evidenziano l’attenzione al tema della famiglia:
 proprio oggi si apre a Torino la 47° Settimana sociale dei cattolici sul tema “La
famiglia, speranza e futuro per la società italiana”;;
 ricordo inoltre il “Pellegrinaggio a Roma sulla Tomba di Pietro” a cui sono
invitate tutte le famiglie del mondo il prossimo 26 e 27 ottobre 2013;
 ma, in particolare, le famiglie della Chiesa bolognese andranno in pellegrinaggio a
Roma, insieme al Cardinale e a tutta la Diocesi, il 19-20 ottobre 2013.
3) Per il terzo tema/argomento alla base di questa iniziativa, cedo la parola alla
dott.ssa Mirella Lorenzini, che illustrerà il legame con il percorso IECI.
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Mirella Lorenzini – Dirigente scolastico “Ist. San Domenico – Farlottine” di Bologna
La collaborazione tra le associazioni della scuola e la Chiesa bolognese ha portato alla
nascita del percorso IECI (Itinerario di Educazione Cattolica per Insegnanti), un percorso
di formazione rivolto soprattutto agli insegnanti, ma utile a tutte le persone che vivono
l’impegno educativo.
Siamo al secondo anno di questa bella esperienza nata dalle esigenze espresse dalla
“Carta Formativa della Scuola Cattolica dell’Infanzia” che il nostro Cardinal Arcivescovo ha donato alla Chiesa Bolognese per indicare aspetti imprescindibili dell’opera educativa nelle scuole cattoliche.
Nel corso di un triennio, l’Itinerario di Educazione Cattolica presenta le tematiche
essenziali della dottrina della fede, con particolare attenzione alla natura e alla dignità
della persona umana.
All’interno del piano di studi si prevedono moduli di approfondimento su argomenti di
attualità particolarmente significativi.
In questo secondo anno, 2013-2014, si è deciso di dare spazio al tema della famiglia.
La particolare attenzione alla famiglia è motivata non solo, come detto, dall’emergenza che la caratterizza ai nostri tempi, ma anche dal fatto che chiunque si occupa
dell’educazione della persona non può prescindere dalla famiglia, dato che l’essere umano non può essere concepito senza la famiglia; e questo sia nel senso che non può
aver origine e vedere la luce, sia nel senso che non può essere pensato e conosciuto in
profondità.
L’iniziativa di oggi è il primo contributo del percorso di approfondimento proposto
quest’anno, a cui seguiranno altre iniziative già calendarizzate (vi invito a prendere
visione del programma IECI 2013-2014 anche visitando il sito www.ieci.bo.it).
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VERITÀ E BONTÀ DELLA CONIUGALITÀ
Lectio Magistralis di S. Em. Card. Carlo Caffarra – Arcivescovo di Bologna
Vorrei intrattenermi con voi su una questione che spero il corso della riflessione
dimostrerà essere una questione importante.
Sullo sfondo del nostro discorso dimora una domanda alla quale non risponderò
direttamente, ma che ci accompagnerà. La domanda è la seguente: il matrimonio è una
realtà a totale disposizione degli uomini oppure ha in sé uno "zoccolo duro"
indisponibile? Poiché sappiamo, senza essere studiosi di logica, che la definizione e.g. di
A è la risposta alla domanda "Che cosa è A?", potremmo riformulare la domanda di fondo
nel modo seguente: la definizione del matrimonio - ciò che il matrimonio è - è
esclusivamente dipendente dal consenso sociale? E' il consenso sociale che decide che
cosa è il matrimonio?
Se io ora comincio a parlarvi della verità della coniugalità, lo posso fare in quanto penso
che la definizione del matrimonio, la sua intima natura, non è esclusivamente frutto del
consenso sociale. Non avrebbe altrimenti senso tutta la riflessione che stiamo facendo.
Alla domanda "Che cosa è la coniugalità?" tutto si risolverebbe, alla fine, nel rispondere:
ciò che il consenso sociale decide che sia.
1.
La verità della coniugalità
Partiamo pure dal fatto attuale: è stata introdotta in molti ordinamenti statuali il
riconoscimento di una "coniugalità omosessuale". Cioè: la differenziazione sessuale è
irrilevante in ordine alla definizione della coniugalità. I coniugi che stabiliscono il patto
coniugale possono essere anche dello stesso sesso.
Nello stesso tempo, tuttavia, l'amicizia coniugale è pur sempre un'affezione che ha una
dimensione sessuale. E' questo che distingue l'amicizia coniugale da ogni altra forma di
amicizia.
Oggettivamente – cioè: lo si pensi o non lo si pensi; lo si voglia o non lo si voglia – la
definizione di coniugalità, implicata nel riconoscimento della coppia omosessuale,
sconnette totalmente la medesima coniugalità dall'origine della persona umana. La
coniugalità omosessuale è incapace di porre le condizioni del sorgere di una nuova vita
umana. Pertanto delle due l'una: o non possiamo pensare la coniugalità nella forma
omosessuale o l'origine di nuove persone umane non ha nulla a che fare colla coniugalità.
Proviamo a riflettere su questa sconnessione. Essa sembra contraddetta dal fatto che gli
stessi ordinamenti giuridici che hanno riconosciuto la coniugalità omosessuale, hanno
riconosciuto alla medesima il diritto all'adozione o al ricorso alla procreazione artificiale.
Pertanto delle due l'una. O questo diritto riconosciuto fa sì che ciò che è stato cacciato
dalla porta, entri dalla finestra. Cioè: esiste una percezione indistruttibile, un'evidenza del
legame procreazione-coniugalità. Oppure è ritenuto eticamente neutrale il modo con cui
la nuova persona umana viene introdotta nella vita. E' cioè indifferente che essa sia
generata o prodotta.
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Fermiamoci un momento, per riflettere sul cammino fatto. La nostra riflessione ha fatto il
seguente percorso. Mentre fino a pochi anni orsono, il termine "coniugalità" era univoco,
aveva solo un significato, e veicolava la rappresentazione di una sola realtà, l'affezione
sessuale fra uomo e donna, oggi il termine è diventato ambiguo, perché può significare
anche una coniugalità omosessuale. Da questa ambiguità deriva una totale ed oggettiva
sconnessione dell'inizio di una nuova vita umana dalla coniugalità. Questo è il percorso
fatto dunque finora: (a) il termine coniugalità è stato reso ambiguo; (b) l'origine di una
nuova persona umana è stata sconnessa dalla coniugalità. Riflettiamo ora un momento su
questa sconnessione.
Essa è un vero e proprio sisma nelle categorie della genealogia della persona. E' una cosa
molto seria. Sono costretto dal tempo ad essere breve.
Scompare la categoria della paternità-maternità, sostituita dalla generica categoria della
genitorialità. Scompare la dimensione biologica come elemento [non unico!] costitutivo
della genealogia, mentre la genealogia della persona è inscritta nella biologia della
persona. Il concepimento – l'evento che ti costituisce in relazione ontologica con padre e
madre – può essere un fatto puramente artificiale. La categoria della generazione diventa
opzionale nel "racconto della genealogia".
Che ne è allora della persona umana che entra nel mondo? E' una persona intimamente
sola, perché privata delle relazioni che la fanno essere.
L'avere percorso il cammino che molte società occidentali stanno percorrendo, ci conduce
ad una conclusione. La seguente: ritenere che la coniugalità sia un termine vuoto di senso,
al quale il consenso sociale può dare il significato che decide, è la devastazione del
tessuto fondamentale del sociale umano: la genealogia della persona.
E' in questo contesto culturale che dobbiamo interrogarci sulla vera natura della
coniugalità; scoprire la verità della coniugalità.
La mascolinità e la femminilità sono diversificazioni espressive della persona umana.
Non è che esista una persona umana che ha un sesso maschile o femminile, ma esiste una
persona umana che è uomo o donna.
Non possiamo dimenticare neppure per un momento che il corpo non è semplicemente
qualcosa di posseduto, un possesso della persona. La persona umana è il suo corpo: è una
persona-corpo. Ed il corpo è la persona: è un corpo-persona.
La femminilità/mascolinità non sono meri dati biologici. Esse configurano il volto della
persona; ne sono la "forma". La persona è "formata", edificata femminilmente o
mascolinamente.
Perché esistono due "forme" di umanità, la forma maschile e la forma femminile? La S.
Scrittura, che trova per altro conferma nella nostra esperienza più profonda, risponde nel
modo seguente: perché ciascuno dei due possa uscire dalla sua "solitudine originaria", e
realizzarsi nella comunione con l'altro [cfr. Gen 2].
Essendo radicati nella stessa umanità, uomo e donna sono capaci al contempo di costituire
una comunione di persone e di trovare in questa comunione la pienezza di sé stessi in
quanto persone umane.
Questa capacità, caratteristica dell'uomo in quanto persona, la capacità del dono di sé, ha
una dimensione spirituale e corporea assieme. E' anche attraverso il corpo che l'uomo e la
donna sono predisposti a formare quella comunione di persone, nella quale consiste la
coniugalità. E' il corpo maschile/femminile il linguaggio non solo espressivo, ma anche
performativo della coniugalità.
Nella coniugalità così intesa è radicata, inscritta la paternità e la maternità. E' solo nel
contesto della coniugalità che la nuova persona umana può essere introdotta nell'universo
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dell'essere in modo adeguato alla sua dignità. Non è prodotta, ma generata. E' attesa come
dono, non esigita come un diritto.
Prima di terminare la nostra riflessione sulla verità della coniugalità, vorrei sottoporre alla
vostra attenzione tre conclusioni. Esse meriterebbero di essere lungamente riflettute. Le
enuncio solamente.
La prima. Solo una tale visione della coniugalità rispetta tutta la realtà della nostra
umanità; essa cioè ci introduce in una vera antropologia adeguata. Non riduce il corpo ad
una realtà priva senso, che non sia quello liberamente attribuitogli dal singolo. Ma vede la
persona umana come persona-corpo ed il corpo come corpo-persona, e quindi come
persona-uomo e come persona-donna.
La seconda. Una tale visione della coniugalità afferma al contempo la più alta autonomia
dell'Io nel dono di sé, e l'intrinseca relazione al "diverso", nel senso più profondo del
termine. La "coniugalità" [si fa per dire] omosessuale in fondo trasmette oggettivamente
questo messaggio: "di metà dell'umanità non so che farne; in ordine alla più intima
realizzazione di me stesso è superflua".
La terza. Una tale visione della coniugalità radica la socialità umana nella natura stessa
della persona umana: prima societas in coniugo. Prima, non in senso cronologico, ma
ontologico ed assiologico. Ed impedisce la riduzione del sociale umano al contratto.
2.
Il bene della coniugalità
Visto che cosa è la coniugalità, ora ci chiediamo quale è il suo valore, la sua propria e
specifica preziosità. In una parola: la sua bontà.
Prima di addentrarci nella seconda parte della nostra riflessione, devo fare una premessa
assai importante. Esiste una verità sul bene della persona, che è condivisibile da ogni
persona ragionevole. Che cosa significa "verità sul bene"? Non significa in primo luogo
ciò che devi/non devi fare. E' la percezione del valore proprio di una realtà [nel nostro
caso la coniugalità].
Faccio un esempio. Vedendo la Pietà di Michelangelo, noi "vediamo" una bellezza
sublime, la quale fa sì che quel pezzo di marmo sia unico: ha in sé un suo proprio valore.
In questo caso: un valore estetico.
Alla domanda che cosa è il bene/che cosa è il male, la risposta non è semplicisticamente:
ciò che ciascuno pensa sia bene/sia male, senza possibilità di una condivisione
ragionevole di una stessa risposta da parte di più persone. Esiste invece una verità sul
bene, che può essere scoperta e condivisa da ogni persona ragionevole.
Noi ci chiediamo quale è il valore proprio della coniugalità, la sua preziosità specifica, la
sua bellezza inconfondibile. Il bene che è la coniugalità ha due aspetti fondamentali.
Il primo. La coniugalità è una communio personarum (una comunione di persone). La
bontà propria della coniugalità è una bontà comunionale. Vorrei ora farvi notare alcune
dimensioni.
(a) Una tale relazione può darsi solo tra persone, e la base è la percezione della bontà,
della preziosità propria della persona. I coniugi sono l'uno per l'altro persone.
(b) La comunione di persone che costituisce il bene della coniugalità non è basata su
emozioni, su mera attrazione psico-fisica: di legami basati su questi fatti sono capaci
anche gli animali. Solo le persone sono capaci della seguente promessa: «prometto di
esserti fedele sempre, … tutti i giorni della mia vita». Solo le persone sono capaci di vivere in comunione, perché sono capaci di scegliersi in modo libero e consapevole.
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(c) Solo la persona è capace di fare dono di se stessa e solo la persona è capace di
accogliere il dono. La persona – e solo la persona – è capace di autodonazione, perché è
capace di auto-possesso, in forza della sua libertà. E' evidente che non puoi donare ciò
che non possiedi, e la persona può possedere se stessa in forza della sua libertà. Ma la
persona può anche rinunciare alla sua libertà, e mantenersi al livello di chi ultimamente si
lascia condurre o dal mainstream sociale o dalle proprie pulsioni. La coniugalità è
particolarmente esposta a questa insidia.
(d) La comunione di persone coniugale – autodonazione ed accoglienza reciproca –
scende fino all'intimità della persona: al proprio Io. E' la persona come tale che viene
donata/accolta. Si ha qui forse il mistero più profondo della coniugalità. Voi sapete bene
che la S. Scrittura indica il rapporto sessuale uomo-donna col verbo "conoscere". Si vive
una rivelazione di uno all'altro nella loro intima identità.
E' in questo evento che può introdursi una sorta di indolenza, di pigrizia spirituale che
impedisce ai coniugi di compiere quell'atto che può nascere solo dal loro centro spirituale
e libero. A questo punto la comunione della persona si intorpidisce.
Il secondo aspetto della preziosità etica che è propria della coniugalità, è la capacità
intrinseca ad essa di dare origine ad una nuova persona umana.
La possibilità di dare inizio alla vita di una nuova persona è inscritta nella natura stessa
della coniugalità. E' questa, nell'universo creato, la più alta capacità e responsabilità che
l'uomo e la donna hanno. E' uno dei "punti" dove l'azione creatrice di Dio entra nel nostro
universo creato. Il tempo a disposizione non mi consente di prolungare la riflessione su
questo tema sublime.
Conclusione
Due semplici riflessioni conclusive.
La prima. Avete notato che mi sono ben guardato dall'usare la parola amore. Come mai?
Perché è avvenuto come… uno scippo. Una delle parole chiavi della proposta cristiana, appunto amore, è stata presa dalla cultura moderna ed è diventata un termine vuoto, una
specie di recipiente dove ciascuno vi mette ciò che sente. La verità dell'amore è oggi
difficilmente condivisibile. «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore
diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E' il fatale rischio dell'amore in una
cultura senza verità» [Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate 3].
La seconda. I testimoni della verità della coniugalità avranno vita difficile, come non
raramente accade ai testimoni della verità. Ma questo è il più urgente compito
dell'educatore.
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Rossano Rossi, Card. Carlo Caffarra, Costanza Miriano
Alessandra Barattini e Valter Brugiolo
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MASCHIO E FEMMINA, A SUA IMMAGINE LI CREÒ1
Costanza Miriano, moglie, mamma e scrittrice
Ovviamente il tono della mia riflessione è molto più basso, non perché mi sforzi di essere
più bassa, ma proprio perché io lo sono.
Io sono qui in qualità di moglie, di mamma e di una che ha osservato sul campo queste
cose bellissime che il Cardinale ci ha detto, soprattutto la prima delle conclusioni: “la
coniugalità come relazione intrinseca a ciò che è più diverso”.
Io soprattutto ho riflettuto sulla diversità tra uomo e donna, maschile e femminile. La mia
riflessione è partita da una difficoltà che ho vissuto all’inizio, nei primi anni di
matrimonio, come moglie. Essendomi formata in parrocchia, sono cattolica da sempre; mi
sono abbeverata al Magistero della Chiesa, al pensiero della Chiesa; però il pensiero
dominante ci condiziona più di quanto crediamo, quindi, pur essendo preparatissima sulla
teoria sul matrimonio, in realtà mi sono trovata a vivere quasi con stupore le differenze
con mio marito.
Quello che ci dice il mondo è che uomo e donna sono fondamentalmente uguali: lo
sostengono le teorie di genere. So che il sindaco di Verona è stato accusato di omofobia
per aver criticato le teorie di genere. Comunque la Chiesa ufficialmente non le accoglie.
Sono delle teorie e quindi uno può anche non essere d’accordo, almeno finché non passa
la legge. Le teorie di genere dicono appunto che uomini e donne sono fondamentalmente
uguali, che devono competere negli stessi campi, fuori e dentro casa, che devono dividere
le cose alla pari dentro e fuori casa... quindi le quote rosa. In Norvegia adesso ci sono le
quote azzurre per difendere gli uomini!
Anche se ero preparata, avevo letto le cose giuste, quando mi sono sposata ho visto che
invece mio marito apparteneva a un altro pianeta.
L’uomo pensa una cosa alla volta. Io la considero una cosa buona, positiva perché mio
marito, per esempio, arriva sempre all’obiettivo, e ci arriva puntuale, perché se deve fare
una cosa, fa quella.
Gli uomini fanno una cosa per volta, però la fanno bene, di solito. Il mio limite è che
faccio sempre tante cose insieme, sempre in ritardo. Anzi, per me arrivare puntuale è
proprio contro i miei principi, perché vuol dire che non ho fatto una cosa in più che avrei
potuto fare. Arrivo puntuale solo agli aerei e ai treni, perché in quel caso generalmente
non mi aspettano. Però per il resto... Ieri ho portato le bambine a scuola e ho detto:
“Quest’anno cominciano alle 8,30”. Mi hanno risposto: “Guarda che sono anni che cominciano alle 8,30, sei tu che sei sempre in ritardo”. Neanche lo sapevo. Per me
l’orario è così. Invece mio marito è puntualissimo!
Su queste cose all’inizio, appunto, io facevo fatica. Lui faceva un programma, io dicevo: “Se dobbiamo andare da “A” a “B”, nel frattempo passiamo qui, poi passiamo di là, poi
compriamo l’ombretto nero che l’ho finito... - per mio marito non è un’emergenza l’ombretto nero, però per me sì! - ... poi facciamo merenda, prendiamo un caffè...” e quindi sempre tutto in ritardo.
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L’intervento mantiene la forma colloquiale con la quale è stato presentato.
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Sembrano piccole cose, però in realtà è su questo alla fine che si gioca il quotidiano, sul
mettere a frutto, sull’entrare in relazione intrinseca con ciò che è più diverso, come diceva
il Cardinale, ma entrarci come una ricchezza, come una cosa buona che ci arricchisce a
vicenda. Noi, con mio marito, ormai su questo abbiamo superato lo scoglio dei primi anni
della diversità e ora sono quindici anni.
Qualche mese fa eravamo in macchina insieme, mio marito ha ricevuto una telefonata,
(aveva mal di testa e quindi guidavo io), e fa: “Pronto? Ah sì... Bene. Che giorno è? Va
bene. Ciao”. “Allora chi era?” gli chiedo. “Era mio cugino Paolo, si sposa” “Come si sposa? Ma dove? Come? In chiesa? Quando? E’ felice? Come si sente? Chi saranno i testimoni? Come si veste la sposa? Faranno dei figli? Quanti figli vogliono? Ma perché
hanno deciso?”. E lui mi ha risposto: “Mi ha detto solo che è martedì”. Neanche la data. Infatti adesso ogni tanto gli chiedo: “Ma che martedì è?” perché lui ha detto: “Se non è sabato o domenica devo prendere le ferie”. Quella era l’unica informazione essenziale. E quindi lui ha raccolto l’unica informazione pratica che serviva, e invece ovviamente io
con la mia rispettiva cugina sarei stata quattro ore. Però noi ormai su questo ci
scherziamo.
Ovviamente ci sono dei casi in cui la diversità pesa.
Pesa accogliere il punto di vista dell’altro. La mia riflessione, il mio primo libro si intitola: “Spòsati e sii sottomessa”. Non è un titolo ironico, ma è serio. Perché io ho
sperimentato su di me, e anche un po’ confrontandomi con le mie amiche, che il nodo di
peccato della donna, il punto su cui la donna deve lavorare è il desiderio di controllo.
Noi vogliamo sempre che le cose vadano come diciamo noi, in casa soprattutto:
nell’educazione dei figli, nella gestione della casa, nell’organizzazione familiare. Sicuramente è una dote di cui la Provvidenza ci ha fatto dono, perché noi siamo chiamate
ad accogliere la vita, ad educare, soprattutto nei primi anni. Mio marito usa “maestrina” come insulto (però non vi offendete perché io in realtà sono un caso proprio grave).
Vorrei sempre che tutto fosse ordinato, preciso, perfetto come l’ho pensato io. E ho capito appunto che era questo il punto su cui dovevo lavorare.
E quando andavo a confessarmi, i primi anni, dal mio padre spirituale, in realtà facevo
finta di confessarmi, ma mi lamentavo di mio marito. E il mio padre spirituale mi diceva:
“Sei tu che ti devi confessare: confessa i tuoi peccati non quelli degli altri” e mi diceva sempre che alla fine era colpa mia. E mi ha proposto come programma di vita
matrimoniale l’immagine della medaglia miracolosa, con la quale infatti ho fatto un
anello per averla sempre presente nel mio programma. E lui diceva che in
quest’immagine c’è la Madonna con le mani aperte, per distribuire le grazie. Nel mio caso
invece le mani aperte dovevano essere per accogliere quello che veniva, che mi veniva
donato da mio marito e anche dai figli. E sotto il piede la Madonna schiaccia il serpente
con la lingua fuori, e la lingua invece è la mia, non quella del serpente.
Devo dire che ho fatto un po’ di lavoro su di me, sto cercando di farlo, perché poi ogni
tanto mio marito mi ricorda le cose che ho scritto e dice: “C’è una che va in giro a dire: sii
sottomessa…” e io gli rispondo: “C’è chi predica e chi razzola”.
Ognuno ha un ruolo nella Chiesa, e veramente è questo il punto su cui lavorare.
E devo dire che su di me, ma anche su tante persone (che conoscevo prima, ma anche che
ho conosciuto dopo il libro) ho visto quali miracoli può fare l’accoglienza femminile nei
confronti dell’uomo;; cioè lavorare su questo desiderio di controllo, di formattare l’altro, di volerlo plasmare, cambiare, educare.
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Coi bambini in parte bisogna farlo (controllare ndr.), anche lì forse non sempre quanto
vorremmo noi. I miei figli oggi stanno festeggiando che sono finalmente liberi dopo tre
mesi di mamma a tempo pieno. Ho detto: “Preparo la cena?”, “No no, lascia stare”. Chissà, mangeranno patatine fritte, wurstel, saranno contentissimi ogni tanto senza
prediche.
Noi di solito sposiamo un uomo che mediamente pensiamo che ci possa andare
abbastanza bene e poi però vogliamo migliorarlo. E invece di solito l’uomo non vuole essere migliorato. Almeno, non dalla moglie e non con le prediche. Una volta l’ho chiesto a mio marito: “Qual è la cosa che ti dà più fastidio di me?” e mi ha detto: ”Quante ore ho?” “No, ho detto una, dimmi la prima”. E, appunto, lui mi ha detto questa cosa di sentirsi sempre questo guinzaglio di una che controlla, che brontola, che protesta.
Nella differenza con l’uomo c’è da dire però che anche l’uomo ha il suo nodo di peccato.
Nella Lettera di San Paolo apostolo agli Efesini che ho preso come punto di partenza per
i miei libri, per la mia riflessione, San Paolo invita l’uomo a morire per la sposa come
Cristo è morto per la Chiesa, e quindi sicuramente il nodo di peccato dell’uomo è un po’ l’egoismo (sempre esclusi i presenti ovviamente!).
Alla fine come dice anche la frase2 che avete scelto, bellissima, per questo incontro:
l’uomo e la donna sono due povertà che si donano. Cioè: occorre capire che abbiamo
davvero un nucleo di male, di peccato, qualcosa che non funziona - se vogliamo non
usare le parole della Chiesa - qualcosa che non va, e che ci mettiamo insieme proprio per
cercare di fare questo lavoro, che è il lavoro di tutti, che è la conversione.
Il punto cruciale è quello anche nel matrimonio, è quello il senso dello stare insieme: il
cammino di conversione. Quando qualcosa ci dà fastidio negli altri è sempre perché entra
in risonanza con il nostro male, con il nostro peccato, perché quando siamo in pace non ci
dà fastidio niente, neanche il peccato e il difetto dell’altro. E’ proprio quando entriamo in risonanza che vediamo i difetti degli altri, perché ci fanno da specchio, ci ricordano i
nostri. E invece, se si entra nella dinamica della conversione, dell’essere in relazione con
qualcosa di diverso, allora la differenza dell’altro, anzi, la differenza - come l’ha definita il Cardinale Scola - come “segnaposto del totalmente Altro” nella nostra vita, ci fa entrare
in una dinamica d’amore che rimanda alla dinamica trinitaria.
Allora, se si dà un senso a questa dinamica, si capisce anche perché ad esempio rimandare
una protesta. Invece nel caso dell’uomo è l’alzarsi dal famoso divano sul quale tende a
rifugiarsi, di solito, quando le cose si fanno impegnative.
Si entra nella famiglia non solo come luogo ovviamente di rifugio, di consolazione, di
gioia, ma anche come il luogo del nostro lavoro di conversione, che è il senso della vita
qui sulla terra.
Invece quello che ci dice il mainstream, la mentalità dominante, è che se si stabiliscono
delle buone regole le cose funzioneranno, perché l’uomo fondamentalmente funziona con
le regole. Invece quello che ci viene a dire Cristo con la sua redenzione è che noi non
funzioniamo da soli e quindi la vita familiare diventa un lavoro di conversione per questo.
Abbiamo, dicevo, due ruoli completamente diversi in questo lavoro.
La donna deve tornare ad essere accogliente.
Programmaticamente oggi si ribadisce una dinamica di conflitto: afferma i tuoi diritti,
fatti valere, non ti far mettere i piedi in testa. Invece se c’è una possibilità di, non dico 2
Si riferisce alla frase di Rainer Maria Rilke presente nella locandina dell’incontro: “Questo è il paradosso
dell’amore fra un uomo e una donna: due infiniti si incontrano con due limiti;; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare…”
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cambiare l’uomo perché questo lavoro lo fa solo Dio con noi, nessuno può fare questo lavoro, però di aiutare l’uomo a vedere la sua vera bellezza - perché questo alla fine è
amare, mostrare all’altro la bellezza che anche lui per primo non vede. Se c’è una speranza per la donna di aiutare l’uomo, e anche i figli, a vedere la propria bellezza, è la
possibilità di fare da specchio buono, di rimandare all’uomo un’immagine positiva di sé, di sottolineare sempre il bene che ha fatto, quello che ci ha dato e non quello che manca
(che è quello che faccio invece io, non sempre, ma quasi...).
Magari mio marito ha preso i figli, ha lavorato, ha fatto veramente mille cose per la casa e
io: “Però ti sei dimenticato di passare in farmacia” e questa cosa lo manda in bestia,
giustamente, perché noi donne spesso siamo un po’ perfezioniste e vediamo sempre quel pezzettino che manca alla perfezione. Invece la donna deve imparare a partire da un
pregiudizio positivo nei confronti dell’uomo.
Qualcuno mi ha chiesto: “Ma perché spetta a me per prima fare questo lavoro?”. Io penso che Dio, come scriveva Giovanni Paolo II nella “Mulieris Dignitatem”, affidi l’umanità alla donna. Questo compito di risvegliare il bene nelle relazioni personali, nel quotidiano,
è nostro, e spetta alla donna essere sede dell’alleanza con l’uomo.
E poi posso dire veramente che quando la donna impara a fare questo lavoro di essere
accogliente e non puntigliosa, all’uomo spesso viene il desiderio di dare di più, di morire,
di dare la vita giorno per giorno, perché è così, funzioniamo così. Abbiamo bisogno di
questo specchio positivo.
Per venire al tema dell’educazione, non so se sono titolata a parlarne perché sono
all’inizio dell’adolescenza del primo figlio, quindi non so che lavoro ho fatto con lui,
perché anche lì ho letto un sacco di libri, ero preparatissima sulla teoria...
(Adesso volevo anche provare, come mi ha chiesto qualcuno, a scrivere un libro su questo
tema, però come uscirà in libreria i miei figli faranno sicuramente qualcosa di terribile,
non lo so, minacciare l’amico col coltello... Per cui non lo faccio perché non so che lavoro
ho fatto!)
Io penso che il problema dell’educazione sia anche lì un problema di conversione personale. Cioè: quando i figli vedono noi per primi impegnati in un lavoro di
conversione su noi stessi, penso che quello valga più di ogni predica.
Perché, per esempio, mostro con la mia vita ai figli che, con tutti i miei difetti, i miei
limiti, per me il rapporto con Dio è decisivo. Quindi, se alla mattina non mi sveglio per la
messa devo andare al pomeriggio, e se vado il pomeriggio mi devo portare le piccole. E
loro mi dicono: “Ma perché? Anche se un giorno la salti…”, cercano di dissuadermi,
perché vogliono continuare a giocare e io, lo ammetto, me le compro, prometto caramelle,
cioccolata. Però dico: “Lo dovete capire che per me è importante, se no poi non sono così
allegra, non sono così felice, perché è da lì che parte tutto”.
Quindi penso che anche nel caso dell’educazione sia molto meno un discorso di tecnica educativa e molto più un discorso di sostanza, di come siamo noi: se i bambini vedono
due genitori che prima di tutto cercano di diventare santi, perché questo è il senso della
vita dei cristiani. E anche che si divertono e che c’è un clima allegro in casa.
Certo, per mia madre - che ogni volta che li vede sono tutti impataccati, spettinati - non
sono mai perfetti. Però sono allegri e non si può avere tutto. Ho dei figli allegri ma
spettinati, pazienza.
Però l’importante nell’educazione è il progetto, e il progetto è la vita eterna per noi.
Quindi tutto il resto si mette in fila secondo questi criteri e credo che questo aiuti
moltissimo il discorso educativo; poi non so noi che lavoro stiamo facendo.
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L’altro giorno mio figlio mi ha detto: “Figura materna - perché lui mi chiama così
(“Oppure” gli ho detto “forse adesso mi devi chiamare figura genitoriale, se no ci dicono
che siamo omofobi”) – allora, mi ha detto: “Quando sarò grande aprirò una gelateria afrovegana al Pigneto”, che è un quartiere di Roma un po’ alternativo. E mio marito gli ha risposto: “No, ti prego, drogati come fanno tutti!”. A quel punto a me è scappato un: “Ehi,
io giovedì devo andare a Bologna a parlare di educazione. Adesso che gli racconto?”. Spero che scherzasse...
Per quanto riguarda l’educazione, il nostro principio-guida almeno all’inizio è stato: noi siamo più grandi di voi e questa è casa nostra.
Perché ad un certo punto erano in maggioranza, quindi abbiamo stabilito qualche regola.
Io, per esempio, sono un po’ fissata con il discorso della tecnologia, che secondo me sta
portando un impoverimento della capacità di pensare, di concentrarsi, di speculazione e di
attenzione. Quindi abbiamo messo delle regole un po’ severe su questo. I miei figli
avevano due giorni soli alla settimana in cui potevano giocare, poi abbiamo convertito in
un monte ore, devono segnarle su un foglietto: tutta una cosa ufficiale. Mi prendo un
sacco di insulti proprio ogni giorno praticamente. Sono chiamata “la madre più cattiva del
pianeta” e però penso che bisognerebbe riflettere sulle conseguenze di questo che è un
fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi. Io ho chiesto ai miei figli riguardo a
questo tema: “Ma i vostri amici che fanno?” Giocano quando vogliono, nessuno dei loro
amici ha limiti di tempo, nessuno ha un controllo dei siti visitati. Parlo dell’adolescenza: chiaramente non sono problemi che riguardano i bambini delle materne, però secondo me
su alcune cose è importante vigilare, perché è vero che l’importante è lavorare su di sé,
sulla propria conversione, però ci sono alcune cose da tenere ovviamente sotto controllo.
Sicuramente di cosa si cibano intellettualmente i nostri figli, quella è una delle prime cose
da controllare.
Noi non abbiamo potuto scegliere le scuole private perché non so qui, ma a Roma sono
costosissime, sono proprio inaccessibili. Quando sono nati tutti e quattro i figli io ero
precaria, e quindi alcuni mesi senza stipendio, alcuni con uno stipendio basso rispetto alla
qualità della vita a Roma. All’inizio proprio non ce lo siamo neanche posti il problema di
dove mandarli. Quando poi il grande doveva fare le medie e io finalmente ero stata
assunta, sono andata in giro a vedere le scuole private del quartiere, perché Roma è molto
complicata negli spostamenti e non si può andare lontano.
E devo dire che ho trovato, appunto, che le scuole private a Roma sono le scuole dei
ricchi, dove non c’è una grande attenzione alla formazione spirituale, alla formazione culturale e cattolica, ma sono soprattutto scuole di élite. Ci sono delle eccezioni che
conosco anche a Roma, però purtroppo non nel mio quartiere. Per esempio la “Junior
International” che è la scuola dell’Opus Dei a me ha fatto un ottima impressione però è
troppo lontana. Quando sono andata in una scuola una volta una suora mi ha detto: “No,
non si preoccupi, noi qui non li facciamo pregare”. Allora io ho detto: “Vabbè, allora
risparmio”, che ce li mando a fare?
Possiamo permetterci di mandarli alla pubblica anche perché siamo molto presenti a fare
un lavoro di contro-informazione a casa: tipo comprare libri di storia che non facciano
propaganda massonica e cose del genere. Per esempio al più grande in terza media hanno
fatto una lezione sul preservativo. Io sono rappresentante di classe, sono andata a chiedere
prima chi sarebbe venuto e in che modo ne avrebbero parlato e ho espresso il mio parere
contrario. Ed ho anche passato la voce agli altri venticinque genitori, cioè venticinque
coppie, e nessuno era contrario, tutti tranquilli perché per loro l’importante è che i figli non abbiano problemi e quindi gravidanze o malattie sessualmente trasmissibili. Così
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hanno fatto una lezione sull’uso del preservativo e della pillola a dei ragazzini di 13 anni. E questo finanziato dal Ministero della Pubblica Istruzione. Lì ho potuto dare il mio
parere negativo, ma ero isolata. E mio figlio mi ha supplicato di non esonerarlo da quella
lezione perché avrebbe fatto una figura tremenda, era l’unico, e allora, insomma, con
grandi sofferenze e dibattiti, alla fine l’abbiamo lasciato andare. Poi però abbiamo cercato
di spiegare la verità, perché c’è una verità oggettiva, è un bene riconoscibile. Su questi
argomenti credo proprio che alla pubblica ci sia un’omologazione anticattolica totale, è
una realtà. Comunque mio figlio è anarchico, quindi mi ha detto: “Mamma stai tranquilla, più vado a scuola e più sono cattolico”. Speriamo bene.
Tornando al tema della diversità tra maschile e femminile, che è la cosa su cui ho lavorato
di più, penso che tanti matrimoni finiscano perché ci sono delle aspettative irreali
sull’amore. Questa parola che ci hanno scippato, come ha detto il Cardinale.
Quest’idea dell’amore come simbiosi, come corrispondenza quasi gratuita, senza lavoro,
senza fatica. Questa corrispondenza di amorosi sensi, col suono di violino in sottofondo e
le farfalle nello stomaco, è l’idea dell’amore che passa nei film. E’ talmente dato per scontato che l’amore sia quello che anche nella fiction, nel cinema, ovunque è così.
E poi, non c’è una fiction dove non ci sia una famiglia allargata, coi figli della prima
moglie e del primo marito che si rimettono insieme, poi ritornano con l’amico gay simpatico, perché l’amico gay è sempre simpatico e intelligente.
L’immagine dell’amore è appunto questa cosa tutta emotiva e l’immagine della famiglia è che la famiglia alla fine è una cosa triste e noiosa e quindi è divertente solo se ci si
mischia un po’. Questa è l’immagine che ci propongono.
Quando invece ci si confronta con la realtà, con il dentifricio lasciato aperto, insomma...
Leggevo una volta che una delle cause di lite più frequente è come si carica la
lavastoviglie. Cioè, è su queste piccole cose che alla fine poi ci si infrange nel quotidiano.
Anche lì è necessario assolutamente sapere che c’è davvero una differenza profonda, una
diversità.
Al corso prematrimoniale ad Assisi, mi ricordo che una volta ci dissero di abbracciare il
disgusto del quotidiano. Io dicevo: “Mamma mia, che cosa tremenda. Ancora non mi sono sposata e già il disgusto. Insomma, aspettiamo”. Invece poi credo di aver capito il senso. Accogliere quello che ti scomoda, quello che ti dà fastidio in qualche modo.
San Francesco diceva: “Quello che ti fa soffrire sia per te più caro dell’eremo”. Lo diceva
a un frate che aveva chiesto di potersi ritirare nell’eremo delle carceri a pregare. E lui gli
ha detto praticamente: “E’ troppo comodo ritirarsi, devi stare in mezzo ai fratelli che sono
pieni di difetti esattamente come te”.
Credo che quando nella vita familiare si fa questo passaggio di cominciare ad amare i
difetti dell’altro, si fa davvero un passaggio ad un amore preterintenzionale, come l’ha definito una volta un sacerdote. Un amore che non ha più niente a che fare con quello
gratuito, emotivo, che fa veramente un salto di qualità, è veramente volere il bene
dell’altro, volere quello che fa felice lui, più di quello che fa felici noi. E’ proprio davvero
una maturazione.
Quando noi amiamo così, che poi è amare in scala ridotta come ama Dio, perché noi
siamo a sua immagine e somiglianza, noi diventiamo convincenti sia per gli altri, quelli
che ci vedono, ma soprattutto diventiamo convincenti per Dio, perché quando amiamo
così convinciamo Dio che non dobbiamo credere noi in lui, è Lui che deve credere in noi,
nell’uomo. E allora Dio ci fa dono dello Spirito Santo in questi casi e si entra in una
dinamica di amore diverso.
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Santa Teresa d’Avila diceva che quando entriamo in questo passo di vita, in questo rapporto fiduciario con Dio, Lui ci “tira dietro” i miracoli. Non li dobbiamo più neanche
chiedere, perché diventiamo suoi alleati nell’amare nel quotidiano le differenze dell’altro.
Sappiamo accogliere i figli anche quando non ci rimandano una bella immagine di noi perché li vorremmo sempre perfetti, bravissimi, figli di successo. E invece occorre
permettere ai figli di essere a volte anche brutti, sporchi e cattivi, perché anche quello è
loro diritto. Devono anche loro fare questo cammino della vita.
Quando riusciamo ad amare così, tutta la vita della famiglia assume un altro passo, un
altro respiro. Credo che ci sia un grande potere in questo.
Io ho fondato in tutta Italia le “truppe delle mogli di Gudbrando”, ma non lo racconto più
perché c’è qualcuno che è venuto altre volte a sentirmi e lo sa già. Comunque
brevemente: “Gudbrando il montanaro” è la storia di una moglie che approva tutto quello
che fa il marito anche quando sembra fare cose non azzeccate. Lei è sempre più contenta
di qualunque cosa lui faccia e quando lo vede lo abbraccia sempre.
E’ una storiella che c’è nel mio secondo libro e così si stanno diffondendo dappertutto. Io
ho fondato queste “truppe delle mogli di Gudbrando”, e un po’ quando vado a presentare il libro, e un po’ perché mi arrivano delle volte delle lettere di mariti o anche di mogli, mi
sento dire e tutti mi raccontano che questa dinamica di accoglienza cambia davvero il
clima in famiglia. Ci sono donne che mi dicono: “Erano vent’anni che chiedevo a mio marito di fare una cosa, ora ho smesso di chiedergliela. Lui all’inizio si è preoccupato…”.
Effettivamente anche mio marito all’inizio mi diceva: “Dai, su, dillo che c’è qualcosa che non ti va bene”. E io: “No, no, va tutto bene”. “Allora mi nascondi qualcosa? C’è qualcosa che non mi vuoi dire”. “No, no, va tutto benissimo”.
Mi hanno scritto, appunto, delle donne che dicono: “Erano vent’anni che chiedevo questa cosa a mio marito e lui svicolava, scappava…”, perché è dall’epoca primitiva che l’uomo si rifugia nella caverna - oggi è la stanza del computer, però insomma alla fine sempre
una caverna è. Invece quando si sente accolto, davvero valorizzato in quello che fa... E
tante donne mi hanno scritto che questa accoglienza alla Gudbrando ha fatto dei miracoli.
Ha creato davvero un nuovo clima familiare in casa.
Credo che partire non solo dall’accettazione rassegnata, ma dalla valorizzazione della
differenza tra uomo e donna sia davvero il modo per renderla feconda e fruttuosa.
L’ultima cosa sulla differenza: volevo dire che mio marito mi ha pregato di dirvi che
quando un uomo guarda un buco nel muro e sta in silenzio svariati minuti non è che sta
pensando di lasciare la moglie, cambiare vita... lui veramente non pensa a niente. Io ogni
tanto mi preoccupo, dico: “Guarda che se mi lasci, mi rovini l’immagine”. “No, ma
guarda che se sto zitto e guardo il muro, guardo il muro”. Magari guarda il buco e pensa:
“Devo dare una mano di stucco” e quindi dobbiamo rassegnarci.
Anzi, mi ha detto: “Consiglierei anche a te di stare un po’ più zitta, perché magari così gli
altri pensano che sei intelligente, se taci pensano che stai riflettendo sul futuro
dell’umanità”. E invece no, pensavo al buco nel muro.
Grazie.
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TESTIMONIANZA3
Alessandra Barattini e Valter Brugiolo – famiglia affidataria e gestore di una scuola
Alessandra Barattini
Noi siamo i coniugi Brugiolo: Alessandra e Valter. A giugno abbiamo festeggiato il
nostro venticinquesimo anniversario di matrimonio e in questi anni abbiamo ricevuto il
dono di 5 figli grazie all’affido e all’adozione.
La nostra storia insieme è stata “tracciata”, segnata da due verbi, forse meglio dire da una
chiamata: accogliere ed educare.
Ancora prima di sposarci abbiamo incontrato, nell’itinerario per fidanzati, l’affido
famigliare e... ce ne siamo innamorati, tanto che appena sposati ci siamo resi disponibili
presso i servizi sociali e... subito è arrivato un bambino di 4 anni, che da due e mezzo
stava in un istituto e sul quale c’era il forte timore che si chiudesse nell’autismo. Per
fortuna non è stato così, in realtà il piccolo aveva solo bisogno di una mamma ed un papà.
Con noi un po’ di rischi lui li ha corsi: eravamo molto giovani e inesperti e ci siamo
trovati dalla sera alla mattina a fare da genitori ad un bambino di 4 anni ferito.
Non pensavamo di cominciare così ad essere una famiglia, eravamo convinti di iniziare
con figli neonati, “fatti in casa”... magari una femmina... Col senno di poi abbiamo capito
che, mentre noi ci preoccupavamo di educare quel bambino, un Altro in realtà stava
educando noi, insegnandoci che la vita non si progetta, non si possiede, la si può solo
accogliere ed accompagnare nel suo percorso.
Questa lezione è stata sempre più evidente nel corso degli anni, soprattutto quando, come
risposta all’incessante preghiera di richiesta di un figlio naturale (dopo che era arrivata
una seconda bambina, stavolta in adozione), siamo stati convocati dal tribunale dei minori
per un bambino, piccolo fra i piccoli, di cui il giudice ci disse che non si sapeva se
avrebbe mai parlato e camminato. Che botta è stata quella! Soprattutto per me, che mi
sentivo responsabile di quella fragile vita. Il giudice ci disse che avevano scelto noi per la
mia qualifica di psicomotricista, per cui mi sono sentita addosso tutto il peso della sua
salvezza.
Ma il Padre, che vede nel profondo dei nostri cuori, mi ha sostenuta attraverso le parole di
un “angelo”, la dottoressa Luisa Leoni Bassani, neuropsichiatra infantile. “Non sta a te,
non sta a voi, salvare questo bambino. Solo Colui che l'ha voluto su questa terra può
farlo! A voi è chiesto solo di fare un pezzetto di strada con lui”. Che sollievo, che potere
che ha la Verità! Ho buttato via la mia zavorra e insieme a mio marito abbiamo detto sì,
non solo a Lorenzo, ma anche a quel disegno grande che il Signore ha avuto sulla nostra
coppia: chiamati ad educare, grembo per la costruzione dell’Io.
Che la famiglia sia davvero grembo dell’Io noi l’abbiamo verificato nel quotidiano. Il
nostro quarto figlio è arrivato alla tenera età di 2 anni e mezzo, e fino a quel momento
non aveva mai avuto una mamma e un papà che si prendessero cura di lui per un tempo
superiore ai 3 mesi. Il suo Io, che a quell'età è nominato spesso dalla parola me, che i
piccoli dicono mentre si toccano il petto con la manina, era sostituito dal “no”, tanti urli e
molta rabbia. Se non fossimo stati così preparati dalle esperienze precedenti, e soprattutto
così numerosi in famiglia da passarcelo nei momenti di esasperazione, avremmo
3
L’intervento mantiene la forma colloquiale con la quale è stato presentato.
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sicuramente fatto come la famiglia individuata dal tribunale per occuparsi di lui prima di
noi, famiglia che dopo una settimana l’ha restituito al “mittente”. Invece abbiamo
resistito, e con pazienza quell'Io ha cominciato a formarsi, facendo venire fuori una
bellezza inaspettata.
Così anche nel primo bambino che ci era stato affidato, ora nostro figlio adottivo, il
timido Io che si stava creando nei primi 2 anni passati con i genitori (genitori molto in
difficoltà, incapaci di prendersi cura di lui, ma non “abbandonici”) si era come bloccato
quando era stato messo in un istituto vecchio stampo, dove “tu” sei uno fra tanti, e quindi
sembrava rinchiudersi nella spirale dell’autismo. Come ben saprete, i bambini autistici
che parlano non dicono “io” parlando di sé, ma usano il proprio nome in terza persona:
“Paolo vuole mangiare”, “Paolo è stanco”... Si tratta infatti di una patologia in cui l’Io
non prende forma.
Nell’ultimo bambino arrivato in affido, il quinto, l’Io era già ben strutturato e, mi
verrebbe da dire, anche ben “pompato” da un padre che quando non era ubriaco lo
metteva sempre sul podio. Tempo fa questo bambino ci ha detto: “Delle volte papà mi
tratta come uno straccio e delle volte sono il suo trofeo. Avete presente come quelle teste
di animali appese al muro?”. In tante situazioni sembra molto sicuro di sé, ma ci siamo
resi conto ben presto che il suo Io e le sue sicurezze si basavano sulla falsità, sull'evasione
dal reale. Un giorno torna a casa nostra dopo il fine settimana passato con i suoi genitori,
e in quei due giorni il papà aveva picchiato la mamma tanto forte da lasciarle segni molto
evidenti sul volto – e noi lo avevamo saputo. Il bambino sembrava molto tranquillo, e alle
mie domande rispondeva imperterrito che non era successo niente. Poi dopo un po’ mi dice: “Sai Ale, la mamma mangia tutto quello che c’è nel frigo...”. Rimango attonita e gli
chiedo: “Mi stai dicendo che papà ha riempito di botte la mamma perchè lei mangiava
troppo? E questo ti sembra giusto? Questa cosa non è possibile chiamarla giusta, non c’è
nessun motivo che deve giustificare quello che papà ha fatto alla mamma! Questa cosa si
chiama violenza”. Il bambino si è messo a piangere a dirotto e io gli ho detto che aveva
proprio ragione a piangere, che anch’io al suo posto avrei fatto lo stesso. Credo che un
compito a cui, sia i genitori che tutti gli educatori, non possono venire meno è quello di
mettere coloro che sono stati loro affidati di fronte alla realtà, chiamandola per nome. Poi
di fronte alla fatica o al dolore si fa loro compagnia, si tengono per mano, si sostengono,
ma consapevoli che un Io che fugge di fronte al reale è come la “casa costruita sulla
sabbia”, non resiste. Anche questo è essere grembo per l’Io.
Valter Brugiolo
Essere grembo dell'Io è fondamentale per lo sviluppo della persona.
È come l’embrione che senza uno solo degli elementi presenti nell’utero materno soffre e
a volte muore. Passati 9 mesi, il bambino viene alla luce, viene messo al mondo. Così è
anche per la famiglia grembo dell’Io: dopo i primi anni di vita in cui l’Io inizia ad
abbozzarsi, viene il momento di dare il proprio bambino al mondo, cioè inizia per lui
l’avventura della scuola. Questo però non deve per la famiglia essere un abbandono o un
abdicare ad altri educatori il proprio ruolo. Le redini dell'educazione sono e restano in
mano ai genitori, che quindi devono poter scegliere la scuola più in linea con il proprio
modo di educare.
Succede allora che con la nostra famiglia ci troviamo a vivere in una realtà di paese dove
all’ingresso della primaria termina questa possibilità di scelta, c’è solo una scuola. Per
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diverso tempo culliamo il sogno di una scuola che non c’é! Una scuola cattolica,
soprattutto nel senso che, sull’esempio del vero Maestro, mette il bambino al centro e con
lui la sua famiglia, non che lo scrive semplicemente nel POF. Una scuola con l’insegnante
unico o almeno prevalente, non con presenti in una prima ben sette figure di riferimento.
Una scuola con il tempo corto, non un tempo pieno obbligatorio per tutti. Una scuola
immersa nel reale, non chiusa ermeticamente dentro quattro mura e fatta solo di un sapere
artificiale...
Insomma, come dicevo, ci siamo trovati per parecchio tempo a desiderare la scuola che
non c’è, stimolati anche dall’esperienza di Alessandra che lavora da anni in una scuola
dell’infanzia parrocchiale, e dal bisogno di attenzioni speciali dei nostri figli (per esempio
da Lorenzo - il terzo - che durante le elementari ha avuto bisogno del sostegno e ha
cambiato dieci insegnanti in 5 anni; oppure dal nostro quarto figlio, il più difficile da un
punto di vista relazionale, che al primo anno di scuola primaria ci ripeteva sempre due
frasi: “Io non voglio morire. Io non voglio andare a scuola”).
Questa la situazione quattro anni fa, finchè irrompe nella vita lo straordinario, e
incontriamo altre due famiglie che condividono questo desiderio sulla scuola. E così
abbiamo deciso di “fare” una scuola: un progetto pazzesco da realizzare, soprattutto in
questi tempi di crisi, ma noi sappiamo bene che questa crisi, prima che economica, è crisi
della persona. Quindi, nonostante le difficoltà e le “montagne da scalare” abbiamo cercato di dare risposta a questo bisogno senza scoraggiarci e chiedendo per questo a tutti aiuti e
consigli.
I primi e più preziosi sono stati quelli del nostro Cardinale, che ci ha fin da subito
sostenuti, incoraggiati e ha intercesso per noi con la sua preghiera.
Altro grande aiuto siamo sicuri di averlo avuto in Mariele Ventre (la piccola grande
maestra del “Piccolo Coro” dell’Antoniano di Bologna) a cui abbiamo intitolato la scuola
e per la quale è iniziato il processo di beatificazione.
Poi, non possiamo non dire grazie alla parrocchia di San Pietro in Casale e al parroco, don
Dante Martelli che ci ha messo a disposizione i locali dove fare scuola e… a tutti gli
“angeli” che abbiamo incontrato sulla nostra strada!
Attualmente la nostra scuola primaria ha tre classi (abbiamo integrato una classe all’anno)
e il nostro progetto educativo è condiviso con le famiglie che vi hanno aderito e con le
quali abbiamo un feedback continuo, proprio perchè deve essere chiaro per tutti che i
primi responsabili dell’educazione sono i genitori: la scuola, gli insegnanti devono
semplicemente collaborare con loro alla piena realizzazione dell’Io dei loro figli.
Grazie.
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