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Relazione di don Cesare Pagazzi

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Relazione di don Cesare Pagazzi
EDUCARE: L’IMPEGNO DEGLI ADULTI (*) di don Giovanni Cesare Pagazzi La parola “impegno” richiama un’energia prolungata per compiere un’azione, dedizione, generosità, l’essere solleciti e diligenti nell’educare, attivi in una maniera interessata; indica ancora profusione energica di tempo e di qualità. Di per sé la parola “impegno” ha un significato originario che deriva da “pegno”. Im‐pegno: indica una cosa data in‐pegno. Il pegno è qualcosa di valore che viene dato come una specie di promessa della capacità del debitore di assolvere il suo debito. Nella parola impegno non c’è solo l’idea di anticipo o caparra. Io posso dare in pegno un oggetto che economicamente non vale niente, ma affettivamente per me debitore vale molto: perciò è un oggetto di grande valore affettivo per me. Il creditore sa questo e ciò a lui serve come incoraggiamento per sostenere l’attesa, la fatica di aspettare il compimento del pegno. L’impegno educativo degli adulti ha sullo sfondo questa dinamica, ha un senso di debito, un debito da onorare nei riguardi della persona che devo educare. Un debito di che cosa? Del senso della vita: la figura più originaria dell’educatore che da sempre viene richiamata è quella del papà e della mamma, i quali di fatto impongono la vita ai loro figli. Certo, avere un figlio è gesto di grande generosità, di amore e anche di fede, ma di per sé per chi riceve la vita è anche un’imposizione: nessuno di noi ha scelto di nascere (cfr. Giobbe e Geremia che maledicono il giorno della loro nascita, perché sembra una condanna loro inferta, non oggetto di loro libera scelta). All’inizio della nostra vita sta un’imposizione, e per questo la vita ci risulta un po’ ambivalente e anche un po’ violenta, un peso che non abbiamo chiesto di sopportare (cfr. I fratelli Karamazov). Nell’idea di impegno, letto in questa maniera, sta ‐ da parte dell’educatore ‐ un senso di debito: ti ho imposto la vita, quindi ti devo la capacità o la propiziazione o un aiuto perché tu possa cogliere che ciò che non hai scelto valga la pena di essere vissuto; ti devo l’aiuto iniziale e continuativo che permetta di trasformare ciò che ti pare soltanto un’imposizione in una grazia, che vale un ringraziamento, cioè qualcosa per cui vale la pena ringraziare. Questo pegno ha anche un’analogia con l’origine della vita cristiana, secondo l’antichissima pratica di battezzare i bambini: come ti ho dato la vita senza chiederti il permesso, perché per me vale la pena di essere vissuta e quindi la do anche a te e mi prendo l’impegno di aiutarti a capire come vale la pena di viverla, così, siccome ritengo valevole e buona la mia pratica del Vangelo, allora te la impongo, perché così è stato per tutte le volte che abbiamo scelto il battesimo per i nostri figli. Mi (*) Il testo riflette il carattere parlato dell'intervento. impegno a far sì che quello che per te è stato un’imposizione sia percepito da te come una grazia ricevuta. Il tempo e le energie che dedico a te fanno vedere ai miei occhi che tu vali e probabilmente questa piccola esperienza di valore percepita dall’esterno viene interiorizzata e fa prima o poi scoprire a te che tu vali, farà capire a te il tuo valore. Se l’educazione è un altro modo di dire l’amore, amandoti ti faccio capire che sei amabile e proprio perché te lo faccio capire – questo è il mio pegno – ti libero dalla terribile paura di non esserlo, una terribile paura che ti impedisce poi di amare. Amando qualcuno, propizio la sua capacità di cogliersi come amabile e quindi la sua capacità di amare. L’educazione come pegno non crea debitori, ma crea persone autonome, adulte, capaci di stare in piedi. Anche da parte dell’educatore, se l’educazione è un pegno, essa non crea una continuità indefinita, perché il pegno ad un certo punto va riscattato. Se questo pegno non venisse riscattato, c’è il rischio di vivere l’educazione, da parte dell’educatore, come quella terribile esperienza di chi ha bisogno che qualcuno abbia bisogno di lui. Il pegno va riscattato, adesso il valore tuo è acquisito, vivi all’altezza del tuo valore. Cosa vuol dire amare? È una domanda importante, perché visto che, per la Rivelazione, il Dio in cui crediamo è amore, a seconda di come noi rispondiamo a questa domanda, noi definiamo Dio e descriviamo anche lo stile della nostra sequela. Per noi amore ha molti significati: donare, aiutare, servire, accompagnare, perdonare, far spazio all’altro. Queste parole possono fungere da grande costellazione dell’educazione, per cui dire che Dio è amore significa dire che Dio dona, perdona, serve, accompagna, promuove… E se l’educazione è equivalente all’amore, vuol dire che educare è fare un po’ così. Ma di per sé le cose non stanno esattamente così, o, meglio, non stanno così all’inizio, nel loro più originario sfondo. La parola che il Nuovo Testamento ci consegna per indicare l’amore è agàpe (sostantivo) e agapào (verbo): questo termine non significa dedizione, perdono, misericordia, far spazio agli altri, non vuol dire onorare i loro bisogni… ma indica la sorpresa di fronte ad un valore inaspettato, per il quale si è disposti a pagare (torna l’idea del pegno). All’inizio non c’è “pagare”, all’inizio c’è lo stupore per un valore scoperto in maniera inaspettata. Qualcosa di “caro” nel senso doppio del termine: qualcosa che mi è caro e, ancora, qualcosa che è caro perché costa. Allora amare qualcuno, nel senso più originario nel NT vuol dire “rendere l’onore dovuto a chi mi sta davanti”: onoro l’onorabilità che c’è in te! Non me l’aspettavo, me ne stupisco, perciò mi inchino! Amare significa dare a qualcuno l’onore che merita: questo è il senso più originale del significato di amore nel Nuovo Testamento. Riassumendo ed abbreviando, si può dire che agapao significa stimare, pesare qualcuno, soppesare qualcuno e accorgersi della sua stimabilità. In questo senso, l’immagine di Dio cambia da così a così! Se io considero l’amore come dono, misericordia, aiuto… e affermo in questo senso che Dio è amore, significa dire che Dio è ricco ed aiuta me che sono un poveraccio: poteva starsene da solo con la sua ricchezza, ma poiché Lui è buono, aiuta me che sono un poveraccio. Dire invece che Dio è amore, nel senso originario, vuol dire che Dio mi stima. Dio mi ama perché stima questo poveraccio che sono io. Un commento meraviglioso a tutto questo è in Mt 13 nella parabola della perla preziosa: Dio è così. Noi invece abbiamo sempre descritto Dio come colui che è buono, vede il poveraccio per terra e dà i soldi al poveraccio. Non è così! Dio è un gioielliere, vede una perla di grande valore, capisce il valore della perla, vende tutto quello che ha per avere la perla. E un commento meraviglioso a questa parabola è dato dalle parole restituite da Gesù in Gv 3: “Dio ha tanto amato/stimato il mondo…”, ha visto un valore così grande nel mondo – non si capisce proprio perché – da dare tutto ciò che aveva, il suo Figlio unigenito. Dire che Dio ama il mondo non è dire che l’infinito aiuta il finito, ma significa dire – non si capisce il perché – che Dio ha una stima incrollabile nei riguardi del mondo; dire che Dio ama Israele, la Chiesa, tutti gli uomini, me, il più terribile dei peccatori significa dire innanzitutto – non si capisce il perché – che Dio stima e si stima tutto quando pensa al mondo e quando pensa a me. Questo è il pegno: sentire la stima, perchè prima o poi farà risultare me ai miei stessi occhi stimabile e magari mi farà decidere di vivere all’altezza della mia stima, del mio onore, all’altezza della mia profondità. In principio c’è la stima. Se uno dona, ma non stima colui a cui dona e la sua donazione non è la conseguenza di una stima, prima o poi si rivelerà che la sua donazione altro non è che la scena sulla quale egli deve recitare la propria superiorità, più o meno camuffata; se uno aiuta, ma non stima chi aiuta ed il suo aiuto non nasce innanzitutto dalla stima, prima o poi si scoprirà che quella persona, anche volendo educare, aveva bisogno di qualcuno che aveva bisogno di lui. Se qualcuno – anche educando – perdona, ma il suo perdono non nasce dalla stima, prima o poi si scoprirà che questo perdono è un raffinatissimo – ecclesialmente e socialmente molto onorato – modo con il quale io mostro la mia insicurezza di non essere buono. Ho bisogno di qualcuno meno buono di me che rafforzi la mia sicurezza di essere buono. Credo che nel mondo ci siano tante persone, nonostante tutto, capaci di aiutare anche nella forma dell’educazione, di perdonare, ma credo che non ci siano tante persone capaci di stimare! Se tu doni, aiuti, perdoni, ma non stimi non dai un pegno, crei un debitore, uno che ti starà sempre al guinzaglio. Se noi sentissimo o imparassimo a sentire – è che, accidenti, non ci crediamo – la stima che Dio ha verso di noi, quanti pesi inutili smetteremmo di portare e quanti guai eviteremmo agli altri! E se noi fossimo raggiunti non da un dono o un perdono o un aiuto, ma dalla stima, ci accorgeremmo davvero di essere stimabili e, liberati dalla paura (cfr. la Lettera agli Ebrei, cap. 2: paura è lo strumento prediletto del diavolo per farci fare quello che vuole) di non essere stimabili, saremmo in grado a nostra volta di stimare gli altri. L’adulto come educatore deve dare il pegno della stima alla persona educata, perché questo pegno sia come una promessa ed un anticipo che facilita alla persona educata il cogliere la propria stimabilità, per poter imparare a stimare gli altri. Un adulto educatore – discepolo e credente in siffatto Dio – è innanzitutto uno che è capace di stimare il mondo, le cose del mondo e le persone. Stimare non vuol dire portare un mazzo di rose a chi parla male di me, ma significa dire: “hai fatto di tutto perché io non veda in te alcun valore, ma non ci sei riuscito; io cerco e vedo il tuo valore, forse nascosto, e tu non riesci a convincermi che tu non vali niente”. Talvolta la cattiveria potrebbe far dire: “Voglio dimostrare a me e agli altri che non valgo niente, così sono esentato dall’impegno di vivere all’altezza del mio valore”. No, non riesci a dimostramelo! Ci sono, tra gli altri, due luoghi, due palestre in cui noi adulti ci esercitiamo alla stima. Il primo luogo sono le “esperienze elementari della vita” – così le definisce il documento La sfida del primo annuncio dei Vescovi lombardi – come soglia di accesso alla fede. Nascere, mangiare e bere, lavorare, abitare, generare, soffrire, invecchiare, morire e piangere sono esperienze che accomunano tutti, credenti e non credenti. In ciascuna di queste esperienze c’è una buona notizia, c’è un Vangelo che freme ed è disponibile a cristiani e non. Nelle esperienze elementari della vita noi ci riconosciamo stimabili: la gioia di fronte alla nascita di un figlio è la stessa che provo io e un non credente. Stimo, apprezzo, colgo il valore di quello che stai vivendo e del Vangelo difficile che entra e freme in esso, perché l’ho provato o lo proverò. Il secondo luogo è la stima nei riguardi della stagione temporale, sociale, culturale, ecclesiale in cui viviamo: stimare questa stagione, questa Chiesa, questa società, e non per un semplice atto di buona educazione, ma per un atto di fede, speranza ed amore. Allora se questo stile di stima e di pegno che viene dato alla persona che da noi dev’essere educata, quindi resa consapevole della propria stimabilità, diventerà uno stile educativo, le persone che incontreremo saranno più disposte a vivere all’altezza di quel valore che in ciascuno di noi scopre quel mercante di pietre preziose. 
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