Labirintolitiasi: la forma più frequente di vertigine, spesso non
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Labirintolitiasi: la forma più frequente di vertigine, spesso non
Labirintolitiasi: la forma più frequente di vertigine, spesso non diagnosticata Dott.ssa Cristina Brandolini Specialista in Audiologia e Foniatria Specialista in Otorinolaringoiatria Prof. Giovanni Carlo Modugno Professore Associato di Otorinolaringoiatria Dipartimento di Scienze Specialistiche Chirurgiche ed Anestesiologiche- Università di Bologna I disturbi dell’equilibrio rappresentano una frequente richiesta di consulto al medico di base, in particolare da parte di pazienti anziani, nei quali le vertigini possono influire significativamente sulla qualità della vita quotidiana provocando cadute ed eventuali lesioni traumatiche. L’iter diagnostico-terapeutico del paziente vertiginoso può risultare altamente complesso come pure sostanzialmente semplice nel caso del quadro morboso di più frequente riscontro, che oggi viene più propriamente denominato Labirintolitiasi ma che in passato è stato definito anche vertigine parossistica posizionale benigna, canalolitiasi, cupololitiasi, vertigine posizionale, ecc. La labirintolitiasi è oggi considerata la forma in assoluto più frequente di vertigine isolata (in assenza di sintomi neurologici e/o uditivi), che affligge tutte le età ed incide forse con una maggiore prevalenza nel sesso femminile. L’ipotesi causale più accreditata si basa sulla dislocazione di materiale inorganico (otoliti), normalmente posizionato sulla macula dell’utricolo (che rappresenta uno dei 2 sensori di accelerazione lineare del labirinto vestibolare), all’interno dei canali semicircolari potendo depositarsi sulla sostanza cupolare dei recettori ampollari (cupolo-litiasi) o rimanere flottante nel loro interno (canalo-litiasi). La causa del distacco è comunque sconosciuta. La malattia si caratterizza essenzialmente per l’insorgenza di crisi vertiginose di notevole intensità e breve durata indotte da variazioni della postura del soggetto; solitamente si associa l’instabilità posturale cronica che spesso rappresenta la fase tardiva del quadro clinico. L’esordio della vertigine è scatenato da movimenti rapidi sia del corpo (passaggio dal clino all’ortostatismo e viceversa, piegamenti, flessioni, ecc.) che della sola testa (rotazione ed estensione del capo, ecc.). I pazienti riferiscono solitamente le vertigini al momento di coricarsi o di alzarsi dal letto, al momento di allacciarsi le scarpe, nel sollevare e/o volgere bruscamentente il capo (girandosi nel letto da un fianco all’altro, …). La crisi vertiginosa è spesso molto intensa ed accompagnata da un corteo sintomatologico neuro-vegetativo importante (nausea, vomito, sudorazione profusa, raramente diarrea, ecc.) che contribuisce a spaventare se non terrorizzare il paziente. E’ per questo motivo che spesso il malato riferisce erroneamente una vertigine di lunga durata (anche giorni) e tende a mantenere la posizione supina per paura di rivivere le sensazioni vertiginose. L'evidente natura posizionale della sintomatologia rappresenta quindi un elemento che dovrebbe in ogni caso far scaturire la necessità di uno specifico iter diagnostico semeiologico (effettuazione delle manovre diagnostiche per VPP). Purtroppo, non sempre questa caratterizzazione qualitativa della vertigine emerge con chiarezza anche da un interrogatorio anamnestico ben condotto: alcuni pazienti, infatti, dopo la fase di esordio clinico, evitano (prima volontariamente, poi inconsciamente) specifiche posture o l'effettuazione di movimenti rapidi per 1 limitare al massimo l’insorgenza della crisi. Spesso, questi pazienti descrivono principalmente una condizione di instabilità posturale subcontinua (e non la vertigine posizionale!) che li porta ad “irrigidire” il collo, ad eseguire i movimenti con notevole cautela, a dormire in posizioni “viziate”. Purtroppo, tale condizione, per le peculiari caratteristiche funzionali del sistema vestibolare, favorisce un circolo vizioso per il quale la sintomatologia vertiginosa, seppure qualiquantitativamente differente, tende a persistere nel tempo. La rigidità nucale, per contro, induce quasi costantemente una cefalea gravativa subcontinua, elemento che può far erroneamente interpretare la vertigine nell’ambito delle forme propriocettive (leggasi vertigine “da cervicale”), che per i neuro-otologi rappresentano oggi, in contrasto al pensiero purtroppo ancora dominante e diffuso in ambito non specialistico, una causa assolutamente rara di vertigine. La diagnosi della Labirintolitiasi è basata sull’effettuazione di alcuni specifici test semeiologici, le cosiddette “manovre diagnostiche di posizionamento”, che nella cosiddetta “fase attiva” (di durata variabile da giorni a settimane) permettono l’evocazione del patognomonico nistagmo parossistico posizionale (NyPP). L’esame semeiologico non strumentale del paziente in fase acuta, o in vicinanza di questa, è un momento di fondamentale importanza poiché permette di rilevare segni che possono non essere più apprezzabili in momenti successivi. L’osservazione tardiva del paziente può condizionare un più complesso e costoso iter diagnostico strumentale che spesso si limita ad escludere altre forme di vertigine piuttosto che ad avvalorare l’ipotesi diagnostica di labirintolitiasi. La terapia della Labirintolitiasi è costituita da un trattamento riabilitativo specifico che prevede l’effettuazione di particolari manovre di posizionamento del paziente (le cosiddette “manovre liberatorie”), rivolte a ripristinare una corretta dinamica funzionale dei recettori canalari. L’impostazione di un corretto trattamento terapeutico non può che basarsi su una preliminare fase diagnostica rivolta ad identificare il tipo di coinvolgimento canalare (caratterizzazione clinica della labirintolitiasi) condotto da personale medico adeguatamente esperto nelle diverse forme di labirintolitiasi. Solitamente il trattamento riabilitativo, soprattutto se effettuato nella fase acuta della malattia, risulta efficace in più dell’80% dei casi, sebbene spesso possano essere necessarie più sedute terapeutiche. Sia durante la fase diagnostica che quella terapeutica, può scatenarsi la crisi vertiginosa, addirittura a volte più intensa di quella registrata dal paziente durante l’esordio della sintomatologia. E’ sempre prudente, prima di ogni manovra diagnostico-terapeutica, valutare attentamente il livello di ansia del paziente e la presenza di condizioni morbose pre-esistenti (soprattutto cardiopatie gravi) e informare adeguatamente il paziente sul significato e sulle possibili conseguenze del trattamento stesso. Nell’evoluzione naturale della Labirintolitiasi si identifica una “fase attiva” ed una “fase inattiva”, di durata imprevedibile, in cui può persistere una vaga sintomatologia vertiginosa subcontinua e/o una instabilità posturale con tendenza alla risoluzione spontanea. In caso di pazienti anziani, patologie neurologiche, patologie osteo-muscolari, ecc. la fase tardiva può protrarsi a lungo. Poiché la disfunzione vestibolare nell’anziano può associarsi a quella cervicale e/o multisensoriale (riduzione dell’acuità visiva e della motilità oculare, artrosi, osteoporosi, interazioni farmacologiche, disturbi cognitivi e dell’affettività), è importante tentare di abbreviare il più possibile sia la fase attiva che quella tardiva della VPP con un approccio terapeutico multidisciplinare (trattamenti riabilitativi fisiatrici e farmacologici di supporto) per evitare cadute accidentali dalle conseguenze mediche e socio-economiche importanti. In una minoranza di pazienti, il trattamento riabilitativo della labirintolitiasi risulta totalmente inefficace o si assiste alla ricorrenza ravvicinata di fasi attive che rispondono al trattamento riabilitativo solo per una breve periodo temporale (anche pochi giorni). In questo caso, può essere opportuno verificare giornalmente l’efficacia del trattamento terapeutico 2 (trattamento intensivo), tentare una riabilitazione strumentale e attivare un iter diagnostico di approfondimento laboratoristico e neuroradiologico. La diagnosi differenziale, soprattutto con patologie della sfera vestibolare centrale, si impone, infatti, nei confronti dei casi che non rispondono al trattamento riabilitativo. La diagnosi ed il trattamento della VPP può coinvolgere pertanto numerose figure professionali (medico di famiglia, otologo/otoneurologo, neurologo, oculista, internista, medico d’urgenza, geriatra, fisiatra, ecc.) ed assorbire rilevanti risorse in termini di costi e tempo. La Labirintolitiasi è una malattia nel 40-50% dei casi ricorrente, ovvero fasi di benessere si alternano ad episodi di VPP. Non sono ancora attualmente noti fattori di rischio o scatentanti la recidiva e pertanto non è ipotizzabile alcun trattamento preventivo. Più della metà delle forme di Labirintolitiasi deve essere considerata idiopatica; una causa presunta può essere individuata in caso di una pre-esistente degenerazione dell’utricolo (malattia di Ménière, processi infiammatori dell’orecchio medio ed interno, neurolabirintiti virali, ecc.). Solo per le forme post-traumatiche in cui esista un rapporto temporale certo di causaeffetto (come per i traumi cranici minori e maggiori, colpo di frusta, interventi di otoneurochirurgia, interventi odontoiatrici, barotraumi, ecc.), l’eziologia può considerarsi nota. La Labirintolitiasi si è infine dimostrato avere una stretta correlazione epidemiologica (e forse eziologica) con alcune patologie quali l’emicrania e la tiroidite autoimmune, Considerate l’elevata incidenza e la frequente ricorrenza del quadro morboso, è molto probabile che altri fattori possano rappresentare degli elementi concausali. 3