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La concorrenza sleale: la responsabilità del terzo interposto
Elena Orsi
1/4/2010
Sommario:
I – Cenni sulla fattispecie di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.: i soggetti della concorrenza sleale; II – La
responsabilità dell’imprenditore per il fatto del terzo interposto; III - I profili di responsabilità in capo al terzo non
imprenditore e non concorrente
Il presente articolo si propone di analizzare brevemente alcuni aspetti della concorrenza sleale ed in particolare come
si configura la responsabilità dell‟imprenditore in relazione alle condotte illecite poste in essere da soggetti terzi.
Tale aspetto, oltre a rivestire notevole interesse sotto il profilo teorico, ha rilevantissime conseguenze pratiche, in
quanto amplia in modo significativo i margini entro i quali l‟imprenditore è tenuto a rispondere di concorrenza sleale
e, di riflesso, in quanto richiede di verificare entro quali termini comporti l‟insorgere di uno specifico - maggior obbligo di vigilanza da parte dell‟imprenditore in relazione ai soggetti che operano a suo favore.
I – Cenni sulla fattispecie di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.: i soggetti della
concorrenza sleale
I.1 – Prima di affrontare specificamente il tema della responsabilità dell‟imprenditore per gli atti di concorrenza sleale
compiuti da terzi e per evidenziare quali siano il fondamento e le peculiarità della questione, è utile premettere
brevemente alcuni cenni generali sulla materia della concorrenza sleale.
L‟art. 2598 c.c. è norma generale che, facendo salve le specifiche disposizioni in materia di segni distintivi e di
brevetti, costituisce lo strumento di tutela residuale per il caso in cui sia posto in essere qualsiasi tipo di violazione
riconducibile alla cosiddetta concorrenza sleale.
Tale norma ha una struttura bipartita: essa prevede infatti, da un lato, alcune ipotesi tipiche (la confusione e
l‟imitazione servile dei prodotti dell‟altrui azienda, la denigrazione dell‟impresa o dei prodotti del concorrente;
fattispecie elencate ai numeri 1 e 2 dell‟art. 2598 c.c.), dall‟altro una disposizione di chiusura che censura in generale i
comportamenti di chi “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della
correttezza professionale e idoneo a danneggiare l‟altrui azienda” (art. 2598 n. 3 c.c.).
Quest‟ultima previsione è una norma a struttura aperta: i comportamenti posti a suo fondamento sono infatti
identificati con una formulazione volutamente generica, cosa che consente, dal punto di vista oggettivo (vale a dire
delle condotte integranti la fattispecie) di applicare tale previsione in una molteplicità di ipotesi pratiche attinenti la
distorsione del corretto funzionamento del mercato concorrenziale.
Ciò che più interessa, al fine di introdurre il tema di questo scritto, è tuttavia quali siano i requisiti soggettivi per
l‟applicabilità della norma.
I.2 – In primo luogo si deve rilevare che l‟evoluzione giurisprudenziale è oggi nettamente orientata a ritenere che
presupposto per l‟applicabilità degli artt. 2598 c.c. e sgg. sia la qualifica di imprenditore (nel senso di cui all‟art. 2082
c.c.i) dei soggetti coinvolti.
Nonostante paia infatti perfettamente ipotizzabile che una situazione di concorrenza possa sussistere anche tra
soggetti che imprenditori non sono (si pensi alle associazioni di professionisti che oggi sovente assumono connotati e
dimensioni facilmente assimilabili al concetto di aziendaii piuttosto che a quello tradizionalmente identificato come
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professionista), il dettato dell‟art. 2598 c.c n. 3) c.c., che parla specificamente di “azienda”, ha suscitato
l‟interpretazione orami prevalente della norma nel senso che essa sia applicabile solamente nel campo della
concorrenza tra impreseiii.
Peraltro la limitazione dell‟applicabilità delle norme in tema di concorrenza sleale ai soli imprenditori è parsa coerente
con la ratio della norma.
In proposito, la dottrina ha formulato diverse teorie a proposito di quale sia il bene protetto dalle norme repressive
della concorrenza sleale: in alcuni casi l‟oggetto della tutela è stato individuato nella clientelaiv, in altri nell‟avviamento
o ancora nella “impresa” in senso latov. Tali impostazioni sono tuttavia state superate a favore di un‟altra e differente
opinione, vale a dire che la funzione degli articoli 2598 – 2601 c.c. sia quella di fornire una adeguata tutela per
assicurare il funzionamento regolare del mercato.
Le differenti tesi sopra menzionate sono infatti state sottoposte ad aspra criticavi: in particolare in passato è stato
autorevolmente rilevato che, posto che il naturale operare del meccanismo della concorrenza prevede che le imprese
tentino di aumentare i propri affari, e che ciò avvenga tramite l‟acquisizione di nuova clientela a discapito dei
concorrenti, risulterebbe arduo distinguere quando tale attività sia lecita (in quando fisiologica del mercato) e quando
invece debba essere considerata illecita e perciò sanzionata dalle norme in tema di concorrenza sleale, tenuto conto
che in entrambi i casi il bene “clientela, impresa, avviamento” sarebbe intaccato dall‟attività dei concorrenti.
Tali considerazioni hanno portato al superamento della concezioni sopra descritte e che individuavano la ratio delle
norme in tema di concorrenza sleale nella difesa del diritto del singolo imprenditore; si è invece affermata
l‟impostazione per la quale l‟oggetto della tutela è il mercato stesso ed il rispetto delle regole che ne sovrintendono il
regolare e corretto funzionamento.
I.3 – In secondo luogo, requisito per l‟applicazione delle norme in esame che tra il soggetto danneggiato e quello
danneggiante sussista un rapporto di concorrenza.
Il concetto di concorrenza dev‟essere in particolare individuato nel rapporto che intercorre tra le imprese che
insistono sullo stesso bacino di clientela. A tal proposito tre sono gli elementi che possono essere presi in esame,:
l‟incidenza territoriale (le imprese per essere concorrenti devono operare in aree almeno parzialmente coincidentivii);
il settore merceologico (le tipologie di beni e servizi prodotti devono essere le stesse o, almeno, deve trattarsi di
prodotti succedanei gli uni rispetto agli altriviii); l‟ambito temporale (a tal proposito si evidenzia che il rapporto di
concorrenza è stato ravvisato anche tra imprese operative ed altre in liquidazione o anche in relazione ad imprese
falliteix, nonché in relazione imprese operative e società di futura costituzione ma non ancora formalmente costituite,
nel caso di ad atti inequivocabilmente preordinati all‟attività del futuro soggettox).
Tale concetto deve essere peraltro inteso in un‟accezione piuttosto ampia: affinché infatti tale requisito sia integrato
non è strettamente necessario che i clienti cui gli imprenditori si rivolgono siano specificamente ed individualmente i
medesimi, né che gli imprenditori concorrenti si collochino nella stessa posizione nell‟ambito della catena di
produzione destinata a sfociare in un determinata tipologia di bene.
In particolare si rilevi che la giurisprudenzaxi ha ritenuto ipotizzabile la concorrenzialità anche tra imprese delle quali
l‟una operi a monte del processo produttivo di cui l‟altra costituisce l‟ultimo anello (e dunque ad esempio tra
produttore e grossista o tra produttore del prodotto principale e produttore di beni accessori)xii.
In conclusione l‟uguaglianza della clientela va intesa nel senso che le due imprese devono meramente rivolgersi alla
medesima tipologia di utenza, devono cioè produrre beni o servizi atti a soddisfare le stesse esigenze del mercato.
I.4 – In conclusione, dunque, il soggetto danneggiato ed il danneggiante devono essere imprenditori e devono essere
concorrenti. In mancanza di tali requisiti non possono trovare applicazione le sanzioni ed i rimedi previsti dagli artt.
2598 – 2601 c.c.
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Ecco che dunque si pone il problema specifico oggetto del presente articolo: i predetti limiti soggettivi, laddove
interpretati in senso rigoristico, comporterebbero un rischio rilevante: ed infatti essi consentirebbero che quegli stessi
atti sleali, che se compiuti da un soggetto imprenditore sono oggetto di sanzione ai sensi delle norme in tema di
concorrenza sleale, non sarebbero invece perseguibili („a sensi delle stesse disposizioni) se posti in essere da un
soggetto privo di tali caratteristichexiii.
Al di là dunque della problematica circa le modalità con le quali perseguire un soggetto non imprenditore che compie
atti professionalmente scorretti, si pone anche e soprattutto il problema di come sanzionare quell‟imprenditore che si
valga (volutamente) dell‟attività di un soggetto terzo, privo di tale qualifica, per aggirare i divieti e le conseguenze
sancite dalla legge.
II – La responsabilità dell’imprenditore per il fatto del terzo interposto
II.1 – La dottrina ed in gran parte l‟applicazione giurisprudenziale hanno tuttavia individuato le modalità per ovviare
a tale pericoloso (ma apparente) vuoto di tutela.
Ed infatti è principio ormai consolidato quello per cui l‟imprenditore è tenuto a rispondere non soltanto per gli atti di
concorrenza sleale che gli sono direttamente imputabili, ma anche per quelli che egli ha perpetrato, indirettamente,
tramite i propri dipendenti o altri soggetti comunque in qualche modo ad esso collegati.
La giurisprudenza, in particolar modo, è alquanto costante sul punto: nel caso in cui un soggetto che non abbia la
qualifica di imprenditore e che non versi in un rapporto di concorrenzialità con il soggetto danneggiato, ma che
agisca in qualche modo nell‟interesse di un imprenditore ponendo in essere comportamenti illeciti ai sensi dell‟art.
2598 c.c., e ciò in danno di un concorrente, sia l‟imprenditore sia il terzo interposto sono solidalmente tenuti a
rispondere per concorrenza sleale.
II.2 – Se si vuole individuare quale sia il fondamento di tale declinazione della responsabilità, si devono tenere in
considerazione due differenti norme. Da un lato è necessario spendere qualche parola in relazione alla norma che
prevede, in via generale in tema di responsabilità extracontrattuale, l‟imputabilità al preponente degli atti illeciti
compiuti dal preposto.
Ci si riferisce in particolare all‟art. 2049 c.c., il quale - come noto - sancisce la responsabilità (di natura oggettiva) dei
padroni e dei committenti per i danni cagionati dai loro “domestici e commessi” nell‟esercizio delle incombenze e
delle mansioni loro assegnate.
L‟estensione dell‟art. 2049 c.c. alla fattispecie di concorrenza sleale è stata sostenuta da alcuni autorixiv sulla base della
tesi per la quale la concorrenza sleale viene considerata una delle esplicazioni della più ampia categoria dell‟illecito
aquiliano, con il quale vi sarebbe un rapporto di specie a generexv. Per tale ragione anche a tale specifica materia
sarebbero applicabili i principi generalmente validi in tema di responsabilità extracontrattuale.
A tal proposito pare necessario rammentare che il fondamento della previsione dell‟art. 2049 c.c. è da ravvisarsi nel
concetto del “cuius commoda eius incommodaxvi” il che si traduce, specie nel caso dell‟impresa, nella volontà del legislatore
di far ricadere esternalità negative ed costi, anche sociali, dell‟impresa sull‟imprenditore medesimo (fornendo altresì al
danneggiato un debitore tendenzialmente più solvibile rispetto al lavoratore dipendente).
Per quanto attiene ai soggetti il cui comportamento determina la responsabilità del datore di lavoro – e partendo dal
presupposto che il momento determinante per individuare la sussitenza del rapporto tra preposto e preponente è
quello della commissione del fatto illecito – essi sono innanzi tutto ed indiscutibilmente i lavoratori dipendenti: il
lavoro subordinato costituisce infatti l‟ambito di applicazione d‟elezione della norma in questione.
Qualche riflessione in più è necessaria per stabilire se tale previsione sia applicabile anche ai lavoratori autonomi ed ai
soggetti che operano per conto altrui in forza di meri rapporti di cortesia.
Quanto ai rapporti di lavoro autonomo, la dottrina è tendenzialmente ferma nell‟escludere l‟applicabilità dell‟art. 2049
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c.c.
La giurisprudenza, tuttavia, ha individuato alcune ipotesi in cui, a causa della presenza di un rapporto di direzione
particolarmente pregnante, in ragione del quale il lavoratore autonomo agisce dietro precise ed indiscutibili istruzioni
del preponente, la responsabilità dei padroni e dei committenti può essere ugualmente estesa.
Alla luce di tale interpretazione è stato talvolta ritenuto responsabile il mandante per il fatto illecito compiuto dal
mandatarioxvii (in tal caso però il rapporto di preposizione è stato ricollegato più che alla vincolatività delle istruzioni
ricevute, all‟apparenza ingenerata nei terzi che il secondo agisse dietro istruzioni e per volontà del primo).
Talaltra la responsabilità ex art. 2049 c.c. è stata ascritta al committente per i danni cagionati dall‟appaltatore nel
compimento dell‟incarico ricevuto, quando la direzione da parte dell‟appaltante era talmente incisiva da ridurre
l‟esecutore a mero nudus minister.
Per quanto poi attiene ai meri rapporti di cortesia, pare che tali casi debbano essere esclusi dall‟applicazione dell‟art.
2049 c.c., in quanto in essi è del tutto assente un rapporto di natura prepositoria tra il soggetto che agisce ed il
soggetto a beneficio del quale si svolge la sua condottaxviii.
In buona sostanza si ritiene che l‟elemento che determina l‟esclusione di alcune fattispecie dall‟applicazione di tale
norma debba essere individuato tendenzialmente nella mancanza di un rapporto di direzione e controllo da parte
dell‟imprenditore nei confronti di chi ha operato in suo favore.
Sotto il profilo oggettivo, affinché il preponente sia responsabile per gli atti illeciti compiuti dal preposto, si ricorda
che deve sussistere un rapporto di cosiddetta “occasionalità necessaria” tra la condotta dannosa e l‟attività cui il
preposto era assegnato nell‟adempimento del proprio incarico.
Occorre dunque che l‟evento lesivo e l‟attività del dipendente si pongano tra loro in una relazione di collegamento
funzionale o strumentale; ciò vale a dire che l‟incombenza affidata al lavoratore deve aver costituito una situazione
tale da determinare, agevolare o rendere possibile la condotta illecita del dipendente.
Si esclude dunque che quando il danno deriva dall‟attività privata del lavoratore (posta in essere per assolvere ad un
suo altrettanto privato scopo), esso possa in alcun modo essere ribaltato sul datore di lavoro.
Ciò tuttavia non significa che il datore di lavoro vada esente da responsabilità per qualsiasi attività che il dipendente
compia, ci si consenta l‟espressione, “di testa propria”: ed infatti la giurisprudenza ha talvolta ravvisato la
responsabilità del preponente anche quando il danno si era verificato a causa del mancato rispetto, da parte del
preposto, degli ordini e delle direttive impartite dal datore di lavoro ed anche quando il lavoratore aveva ecceduto i
limiti delle proprie incombenzexix.
In sostanza pare che il criterio distintivo tra i danni che ricadono in capo al datore di lavoro e quelli che rimangono a
carico del danneggiante sia l‟assoluta mancanza di interesse del datore di lavoro nei confronti dell‟attività posta in
essere dal dipendente; interesse che deve però essere considerato sotto un profilo oggettivo, vale a dire che la
condotta lesiva dev‟essere del tutto estranea all‟attività svolta dal preposto per conto del datore di lavoro, non
essendo invece rilevante l‟indifferenza del datore di lavoro che derivi da sue considerazioni individuali.
L‟attività del preposto è dunque privata quando è del tutto sconnessa dalla possibilità di vigilanza e controllo del
datore di lavoro, quando cioè esorbita completamente dall‟area del rischio tipico connessa con l‟attività assegnata dal
preponente al lavoratorexx.
Al di là delle accennate interpretazioni – di natura estensiva – talvolta proposte dalla giurisprudenza, l‟art. 2049 c.c.
consente in sintesi di individuare la responsabilità dell‟imprenditore solo nel caso in cui gli atti di concorrenza sleale
siano posti in essere da suoi dipendenti, oppure da soggetti allo stesso legati da rapporti di subordinazione o che
agiscono sotto sue vincolanti direttive ed ordini.
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II.3 – In realtà il fondamento della responsabilità indiretta dell‟imprenditore per gli atti compiuti dal terzo è ravvisato
anche e soprattutto nell‟ utilizzo dell‟avverbio “indirettamente” di cui all‟art. 2598 c.c.
Tale norma consente di sanzionare la condotta sleale dell‟imprenditore, che si esplichi in via indiretta attraverso
l‟azione di un terzo, anche nei casi in cui non è possibile ravvisare un rapporto di preposizione tra tali soggetti,
consentendo così un applicazione della tutela contro tali atti anche oltre i limiti imposti dall‟art. 2049 c.c.
In tal modo i confini della responsabilità dell‟imprenditore si ampliano notevolmente, e l‟evoluzione
giurisprudenziale ha contribuito in modo rilevante ad creare un‟ampia e dettagliata casistica in relazione alla portata
della fattispecie.
È bene premettere che tra imprenditore e terzo deve in ogni caso sussistere una determinata tipologia di rapporto
affinché possa ritenersi che la condotta dannosa del soggetto terzo si riverberi nella responsabilità dell‟imprenditore
per violazione dei principi di correttezza professionale: in particolare la giurisprudenza ritiene costantemente che
l‟attività del terzo debba essere posta in essere nell‟interesse dell‟imprenditore.
La sussistenza dell‟interesse dell‟imprenditore alla condotta (sleale) del terzo, si badi, non richiede che tra tali due
soggetti sia ravvisabile una sorta di pactum sceleris o un accordo volto direttamente al compimento di determinate
azioni illecitexxi; l‟interesse imprenditoriale rispetto all‟attività del terzo è un dato quanto più possibile oggettivo, che
si riscontra ogni qual volta la condotta sleale del soggetto interposto (tra l‟imprenditore ed il concorrente
danneggiato) abbia procurato un beneficio a favore dell‟impresa.
Si deve tuttavia prestare attenzione ad una recente tesi della Cassazionexxii, la quale, fermo quanto sopra, ha tuttavia
recentemente precisato che oltre a detto vantaggio oggettivo (sottrazione di clientela, di personale qualificato,
indebolimento del concorrente sul mercato, le fattispecie possono essere le più varie) deve anche essere presente
un‟effettiva relazione di interessi idonea a legittimare il terzo a porre in essere condotte vantaggiose per
l‟imprenditore.
E dunque l‟attività sleale del terzo, affinché sia tale da far insorgere anche la responsabilità dell‟imprenditore che se
ne serve, dovrebbe essere a quest‟ultimo legata o da un incarico o, almeno, da un rapporto tale da permettere di
inferire che l‟attività del terzo fosse diretta proprio a soddisfare l‟interesse dell‟imprenditore al danneggiamento del
concorrente. In buona sostanza il rapporto tra il terzo e l‟imprenditore dovrebbe essere funzionalmente orientato alla
condotta di concorrenza sleale.
Nella pratica concreta, la giurisprudenzaxxiii ha spesso individuato in alcune situazioni di fatto il fondamento di una
presunzione (semplice) circa la sussistenza dell‟interesse dell‟imprenditore all‟attività del terzo: tale situazione in
particolare sussisterebbe allorquando il collegamento tra imprenditore e terzo è tale da rendere presumibile che detto
rapporto sia stato istituito allo scopo di realizzare la condotta di concorrenza sleale.
Il caso tipico di terzo interposto è in particolare quello del dipendentexxiv: in qualche modo in armonia con quando
detto a proposito dell‟art. 2049 c.c., la giurisprudenza individua nell‟attività del dipendente, posta in essere
nell‟ambito dell‟incarico lavorativo al medesimo assegnato, una presunzione di vantaggio a favore dell‟imprenditore
datore di lavoro; restano ovviamente esclusi dalla responsabilità dell‟imprenditore gli atti dannosi posti in essere dal
dipendente al di fuori delle sue mansioni, vale a dire quegli stessi atti privati che mandano indenne il preponente ai
sensi della generale disciplina della responsabilità extracontrattuale oggettiva di cui sopra si è detto.
Un‟altra ipotesi nella quale generalmente la giurisprudenza ritene che sussista l‟interesse dell‟imprenditore all‟attività
contraria alla correttezza professionale posta in essere ad opera del terzo, è quella dell‟agente. Anche in tale
situazione si considera infatti che lo stabile inserimento dello stesso nella struttura organizzativa dell‟imprenditore
determini la presunzione che le condotte dannose dell‟agente (ovviamente, anche in questo caso, compiute nello
svolgimento dei compiti allo stesso affidato) siano poste in essere per procurare un qualche vantaggio per il
preponente.
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Si registrano poi casi che non possono certo definirsi tipici, ma che tuttavia sono utili per comprendere ed
evidenziare quale sia il tipo di collegamento che viene generalmente ritenuto dalla giurisprudenza idoneo a
determinare la responsabilità di terzo interposto ed imprenditore. Si può in proposito segnalare un caso in cui detta
responsabilità ex art. 2598 c.c. era stata ravvisata a causa di condotte sleali poste in essere da un soggetto non
imprenditore, del tutto estraneo alla struttura organizzativa ed aziendale dell‟imprenditore beneficiario dei suoi atti,
ma ad esso legato da rapporti di parentelaxxv, ed anche in caso di attività poste in essere con modalità meramente
occasionali, purché riconducibili alla sfera di volontà dell‟impresa.
Tutto ciò è efficacemente riassunto da una recente la giurisprudenza che si ritiene di citare in estratto: “Il collegamento
tra l’imprenditore concorrente ed il terzo non imprenditore necessario affinché entrambi rispondano a titolo di concorrenza sleale può essere
istituito direttamente allo scopo di realizzare il comportamento illecito, come nei casi in cui il terzo opera su ispirazione o specifico incarico
dell’imprenditore, ovvero può consistere in un rapporto in virtù del quale il terzo è inserito stabilmente o anche solo occasionalmente
nell’organizzazione – quanto meno economica se non giuridica – dell’impresa, ma può essere ravvisato in qualsivoglia situazione nella
quale, pur non ricorrendo un vero e proprio rapporto di ausiliarietà, il terzo sia vincolato o anche solo legittimato a svolgere un’attività
comunque geneticamente riconducibile alla volontà dell’imprenditore ed in concreto destinata a risolversi in profitto dell’impresa e non
nell’interesse autonomo dell’agente dal quale è stata materialmente posta in essere”xxvi.
Ciò che può dunque affermarsi a contrario è che sono invece condotte inidonee a far emergere la responsabilità
dell‟imprenditore per la condotta del terzo interposto, quelle in cui è totalmente carente il collegamento funzionale
tra la condotta del terzo e l‟imprenditore.
Emblematico, in proposito, un recente caso giunto alla cognizione della Corte di Cassazione xxvii: la Telecom Italia
S.p.a. era stata convenuta unitamente ad un‟impresa, alla quale la compagnia telefonica aveva assegnato una
numerazione telefonica che, in precedenza, era invece stata attribuita ad altra impresa operante nello stesso settore.
La responsabilità della Telecom Italia S.p.a. è stata in questo caso esclusa, da un lato in quanto era evidentemente
carente il rapporto di concorrenzialità tra l‟azienda telefonica e l‟azienda attrice e, dall‟altro, per quanto qui in
particolare interessa, in quando era risultato del tutto indimostrato che la condotta della Telecom potesse essere
funzionalmente collegata sia al beneficio arrecato all‟impresa asseritamene danneggiante sia al danno cagionato alla
concorrente attrice.
III – I profili di responsabilità in capo al terzo non imprenditore e non concorrente
Da ultimo e brevemente ci si deve dunque chiedere che cosa accada o, meglio, quali siano i rimedi esperibili nel caso
in cui l‟attività sleale sia posta in atto da un soggetto terzo rispetto all‟impresa concorrente, di per sé non qualificabile
come imprenditore e che non versi in una rapporto di concorrenza con il danneggiato.
L‟inapplicabilità delle norme in tema di concorrenza sleale è evidente, e dunque la responsabilità del terzo dovrà
essere ricondotta all‟ordinaria azione di illecito aquiliano.
Così stando le cose l‟imputabilità di un fatto dannoso a tale soggetto seguirà le differenti regole, segnatamente in
termini di onere probatorio, che sovrintendono all‟accertamento della responsabilità di cui all‟art. 2043 c.c. (senza che
sia applicabile la presunzione di colpa prevista all‟art. 2600 c.c.), sicché in relazione a tale condotta dovrà essere
dimostrato, da parte del soggetto danneggiato, il comportamento illecito, il danno che da esso è derivato nonché il
nesso causale tra comportamento e danno.
Vale pur sempre in ogni caso, la conclusione che quando l‟atto del terzo è stato posto in essere con il concorso
causale dell‟imprenditore (perché l‟imprenditore stesso partecipa al compimento dell‟atto o anche solo perché l‟atto è
posto in essere nel suo interesse), allora l‟imprenditore ed il terzo risponderanno entrambi in solido di tale fatto; se
invece l‟atto compiuto dal terzo non è voluto dal datore di lavoro, né è posto in essere nel suo interesse, ma
comunque è compiuto nell‟adempimento o comunque nell‟occasione dello svolgimento dell‟incarico del terzo, allora
l‟imprenditore sarà tenuto a rispondere ex art. 2049 e 2043 (e ciò specie se la condotta non si può inscrivere tra quelle
di cui all‟art. 2598 c.c.xxviii).
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Da ultimo vale la pena di fare un minimo accenno alla possibilità che, nel frequente caso in cui il terzo che compie
un‟attività contraria alla correttezza professionale sia un lavoratore, un collaboratore od un ex dipendente del
soggetto danneggiato, non si può escludere una responsabilità ex 2105 c.c. o di natura contrattuale per violazione di
eventuali patti di non concorrenzaxxix.
*****
In conclusione, esaurita questa breve sintesi circa il problema dei limiti entro i quali l‟imprenditore può essere tenuto
a rispondere per concorrenza sleale anche in relazione ad atti compiuti da suoi dipendenti o da soggetti ad esso
comunque collegati, ed anche alla luce del fatto che può immaginarsi un‟applicazione dei principi esposti a proposito
dell‟art. 2049 c.c. anche alla specifica materia della concorrenza (in particolare per quanto riguarda la responsabilità
del datore di lavoro anche per gli atti che il dipendente ha compiuto in violazione degli ordini impartiti), si ritiene che
la vigilanza dell‟imprenditore in tale settore debba essere quanto mai attenta.
L‟adibire un dipendente ad una mansione che costui precedentemente svolgeva presso un‟azienda concorrente,
l‟affidare ad esso le medesime attività che prima vi ricopriva sono condotte che sono state pacificamente inquadrate
in quel rapporto di connessione funzionale che sta alla base dell‟estensione della responsabilità del terzo
all‟imprenditore.
Analogamente è considerato un comportamento determinante della responsabilità dell‟imprenditore quello di
assumere dipendenti altrui in violazione degli obblighi di non concorrenza su di essi gravanti; è dunque evidente che
la scelta dei propri collaboratori, specie laddove si tratti di personale particolarmente qualificato, deve essere
circondata di notevoli cautele e deve essere improntata a criteri di correttezza professionale, onde scongiurare il
rischio, laddove detti collaboratori commettano violazioni riconducibili alla concorrenza sleale, che la responsabilità
di tali condotte si estenda anche all‟imprenditore che ne sia inconsapevole.
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[1] Sul punto in ogni caso è opportuno dar conto del fatto che, in dottrina, vi sono stati autori che hanno sostenuto la tesi contraria, non ravvisando quale
requisito per l‟applicazione delle norme in questione, la necessità che il soggetto attivo fosse inquadrabile nella categoria dell‟imprenditore. In tal senso si
sono espressi, in particolare, P.G. Jaeger, in Riv. Dir. Ind., 1971, I, 193 sgg, G. Florida, Riv. Dir. Civ., 1968, II, 360; E. Bonasi Benucci, Riv. Trim. dir. e proc. Civ.,
1957, 599.
[2] Per l‟inapplicabilità delle ipotesi di concorrenza sleale agli studi di avvocati si veda Cass. 13 gennaio 2005 n. 560, Giust. Civ. Mass. 2005, f, 1, che ribadisce
l‟inapplicabilità del concetto di azienda a tale categoria di professionisti, anche sulla scorta del dettato dell‟r.d.l. 1578 /1933, art. 3 comma 1, a proposito del
divieto per l‟avvocato di esercitare un‟attività commerciale.
[3] Autorevole dottrina ha tuttavia ammesso l‟applicabilità di tali norme anche ad alcuni casi in cui i soggetti in interessati non erano imprenditori: tra questi
il caso dell‟imprenditore senza azienda (W. Bigiavi, Giur. It. 1947, IV, 52), gli enti pubblici e i concessionari di pubblici (V. Mangini, Riv. Soc. 1974, 445 e T.
Ascarelli, Teoria della concorrenza, Giuffré, 1969, p. 202), servizi, i lavoratori autonomi (M. Franzosi, Riv. Dir. Ind. 1962, II, 99), i professionisti intellettuali (G.
Minervini, Concorrenza e consorzi, Trattato di diritto civile diretto da Giuseppe Grosso e Francesco Santoro-Passarelli – vol.6 – fasc. p. 16).
[4] cfr. M. Ghidini, Lineamenti del diritto dell’impresa,Giuffré, 1978.
[5] Cfr. Nicolò, Riv. Dir. Comm. 1959, I, pag. 177 sgg.
[6] T. Ascarelli, Teoria della concorrenza, Giuffré, 1969, pag. 188 sgg.
[7] Cfr. Cass. 14 febbraio 2000 n. 1617; Cass. 28 ottobre 1987 n. 7958; Cass. 15 febbraio 1999 n. 1259.
[8] Cfr. Cass. 1 marzo 1986 n. 1310.
[9] Cfr. Cass. 21 febbraio 1958 n. 571; Cass. 5 settembre 1966, n. 2320.
[10] Cfr. Cass. 6 maggio 1980 n. 2996; Trib. Torino 14 settembre 2006.
[11] Cfr. Trib. Rimini 14 febbraio 2007 in Corr. Merito, 2007, 6, 731.
[12] In proposito, in dottrina, si vedano P. Auteri, Concorrenza sleale, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, XVIII, p. 350; P.G. Jaeger, Riv. Dir. Ind.
1971, I, 239; T. Ascarelli, Teoria della concorrenza Giuffré, 1969, pag. 199.
[13] Rileva in particolare il fatto che l‟applicabilità delle norme in tema di concorrenza sleale consente di beneficiare del regime probatorio di cui all‟art. 2600
c.c. in relazione al risarcimento del danno subito; permette cioè di valersi della presunzione di colpa che la norma fa discendere dall‟accertamento degli atti
di concorrenza sleale. Diversamente le condotte connotate da illiceità e produttive di danno potranno ben sempre essere perseguite a norma dell‟art. 2043
c.c., ciò che tuttavia comporta il differente onere probatorio richiesto da tale norma in capo al danneggiato (vale a dire la dimostrazione della condotta
illecita, del danno subito e del nesso di causalità).
[14] Cfr. P.G. Jaeger, I soggetti della concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind., 1971, I, p. 284; Pinnarò, Profili della concorrenza sleale, Giuffré, 1976, p. 137.
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[15] Sul punto si veda ad esempio M. Ghidini, La concorrenza sleale, in Giurisp. Sistematica di dir. Civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, UTET, 1982, p.41.
[16] In realtà la dottrina non é priva di interpretazioni differenti a proposito della ratio della norma in questione. Non si ritiene in ogni ca so di approfondire
in questa sede le varie tesi che sono state in proposito sostenute, ciò che porterebbe ad esulare oltre il necessario dai limiti che ci si è prefissati.
[17] Si noti che a favore della soluzione positiva si sono espressi F. Santoro Passarelli, Status familiae, in Saggi di diritto Civile, I, Napoli, 1961, pag. 1093 ss.
[18] In ogni caso in dottrina si è rilevato che escludere tale ipotesi dal novero dell‟art. 2049 c.c. dovrebbe portare alla conclusione che la ratio di tale norma
non possa essere ravvisato nel principio cuius commoda eius incommoda, dal quale dovrebbe discendere per lo meno l‟irrilevanza della tipologia del legame che
ha legato il danneggiatore ed il soggetto nell‟interesse del quale ha operato. Per tali considerazioni si veda P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di
diritto civile, diretto da Rodolfo Sacco, UTET, 1998, p.984.
[19] Cfr. Cass. 11.1.1982 n. 100 e la più recente Cass. 12/3/2008 n. 6632
[20] Cfr. veda P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da Rodolfo Sacco, UTET, 1998, p. 1002.
[21] È comunque evidente che sussistendo tale tipo di accordo non potrebbe escludersi la responsabilità dell‟imprenditore in concorso con quella del terzo.
[22] Cfr. Cass.8/9/2003 n. 13071.
[23] Cfr. App. Genova, 22/9/2006, in Juris Data.
[24] In particolare sono estremamente frequenti i casi di ex dipendenti che passino sotto un nuovo datore di lavoro in concorrenza con il primo, portando
nel nuovo impiego oltre che il bagaglio di conoscenze acquisite, anche specifiche informazioni in ordine al mercato ed alle sue condizioni.
[25] Cfr. Trib. Bologna, 9/11/2007, in Juris Data.
[26] Cfr. App. Genova, 22/9/2006, in Juris Data.
[27] Cfr. Cass. 30 marzo 2006 n. 6117.
[28] Cfr. M. Franzoni, L’illecito, Giuffrè, 2004, p.751-752.
[29] Cfr., tra le altre, Cass. 18 agosto 2004 n. 16156.
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