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DÈI ED EROI - Palazzo Reale

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DÈI ED EROI - Palazzo Reale
IL SOPRINTENDENTE PER I BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI
PER LE PROVINCE DI TORINO,ASTI, CUNEO, BIELLA E VERCELLI
Luca Rinaldi
IL DIRETTORE DEL PALAZZO REALE DI TORINO
Maria Carla Visconti
presentano
DÈI ED EROI
CAPOLAVORI DI PALAZZO REALE
a cura della Direzione dei Servizi educativi
Dei ed eroi
Palazzo Reale di Torino
PRESENTAZIONE
E’ con molta soddisfazione che la Direzione di Palazzo Reale presenta al pubblico, scolastico e non, il
primo dei percorsi tematici promossi dalla nostra Soprintendenza e curati da Jennifer Celani, responsabile dei
Servizi Educativi, che coordina lo staff degli Assistenti di Palazzo specificatamente dedicato all’accoglienza e alla
didattica. L’attività in convenzione con un gruppo di scuole piemontesi avviata nel passato anno scolastico
2012-2013 ha dato ottimi risultati che sono stati presentati in occasione del workshop organizzato lo scorso
25 settembre e 2 ottobre nella Sala della “piglia” dell’Appartamento del Re a Palazzo Reale. Da questo è nata
l’iniziativa di predisporre il materiale scientifico elaborato mettendolo a disposizione di tutti sul nostro sito
informativo.
Pur nelle difficoltà che caratterizzano in genere tutte le istituzioni culturali del nostro Paese, ma in
particolare quelle statali, dovute alla difficile situazione contingente, Palazzo Reale ha inteso offrire uno
strumento “speciale” per stimolare le nuove generazioni ad un sempre più cosciente approccio al nostro
infinito e meraviglioso patrimonio culturale fornendo anche agli “educatori” intesi in senso lato – dai genitori
agli insegnanti – un piacevole, ma assolutamente affidabile sotto il profilo storico-artistico, “strumento di
lavoro” per l’avvicinamento alle varie sfaccettature “narrative” che la nostra Residenza propone. Una
Residenza la cui storia si è dipanata nel corso di oltre quattro secoli e che è diventata un grandioso palinsesto
di eccezionali forme artistiche che la dinastia sabauda ha commissionato e aggiornato secondo il gusto dei vari
tempi e dei numerosi sovrani che si sono avvicendati.
Il Palazzo, infatti, sorto alla fine del Cinquecento nell’angolo nord-est della quadrata cinta romana, è andato
sviluppandosi e accrescendosi fino a raggiungere nel pieno Settecento la sua connotazione precipua di “città in
forma di palazzo” in un indissolubile legame con la città magistralmente condotto dagli architetti di corte: da
Ascanio Vittozzi ai due Castellamonte, Carlo e Amedeo, da Carlo Morello a Carlo Emanuele Lanfranchi per
arrivare alla genialità di Filippo Juvarra e Benedetto Alfieri che operarono principalmente nelle raffinate
trasformazioni interne. L’Ottocento vede Pelagio Palagi interprete delle intenzioni carloalbertine mentre gli
ultimi aggiornamenti interni e l’aggiunta della nuova manica su via XX Settembre si devono ancora a Emilio
Stramucci all’inizio del Novecento. Insieme agli architetti, generazioni di artisti hanno contribuito ad arricchire
gli ambienti di segni preziosi: dagli stucchi – opere di sapienti famiglie perlopiù luganesi – ai sontuosi soffitti
lignei dorati seicenteschi, dalle volte affrescate – due nomi su tutti: Daniel Seiter e Claudio Francesco
Beaumont – alle tele e tavole, dipinte da pittori come Jean Miel, Charles Dauphin, inserite come gemme
preziose – dalle sculture (Francesco Ladatte, i Martinez e i Collino, a campione) alle eccezionali opere
ebanistiche sulle quali primeggiano certamente i lavori di Pietro Piffetti ma anche l’opera di Gabriele Capello
nell’aggiornamento ottocentesco degli arredi. Appunto questa grande varietà di arti decorative è una delle
ricchezze del Palazzo che dà agio allo studio ed elaborazione di percorsi tematici “speciali” che si è inteso
fornire al pubblico come atout particolare per percorsi di visita mirati e per sollecitare curiosità e
approfondimenti ulteriori.
Come si è già detto, questo non è che il primo passo in questa direzione e a breve seguiranno altri temi
già sperimentati con successo dal team didattico, nella concreta speranza di poterne presentare tanti altri
ancora che il nostro Palazzo generosamente racchiude.
Maria Carla Visconti
Direttore di Palazzo Reale
Gennaio 2015
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Palazzo Reale di Torino
Dei ed eroi
INTRODUZIONE
Il percorso Dèi ed eroi è stato ideato per gli adulti nel loro compito di avvicinare i giovani alla conoscenza
della prima residenza sabauda attraverso le opere d’arte che riprendono i grandi miti e le figure eroiche. Le
opere d’arte individuate nel percorso (dipinti su tela e affreschi, arazzi e statue, arredi) offrono occasioni di
lettura sia sul piano simbolico, sia sul piano della narrazione. Intesi come elementi conoscitivi e rassicuranti
dell’Uomo antico, gli déi e gli eroi furono ‘riusati’ dai Savoia per celebrare il loro potere e il prestigio del loro
dominio.
Soffermandosi nel Salone degli Svizzeri, salito lo Scalone d’onore (realizzato nel periodo dell’Unità d’Italia),
lo sguardo è catturato dal grandioso ciclo di affreschi sulle pareti in alto: illustra la discendenza sassone dei
Savoia, un mito promosso verso la fine del Seicento per testimoniare legami con la stirpe dell’imperatore del
Sacro Romano Impero, figura egemone in Europa accanto a quella del Papa, e vantare una supremazia rispetto
ad altre famiglie nobili italiane.
La grande tela dai colori scuri e dalla scena convulsa posta sulla parete di fronte al massiccio camino è
intitolata La Battaglia di San Quintino (1580-1585) e rappresenta Emanuele Filiberto rivolto verso il pubblico col
bastone di comando in mano e pennacchi bianchi sull’elmo. Il dipinto fu commissionato dopo la sua morte
(1580) al pittore Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane (Venezia, 1544 o 1548 – 1628), dal figlio Carlo
Emanuele I. Fra assalitori e assaliti, appena leggibile sullo sfondo scuro del terreno in primissimo piano, la firma
“JACOBUS PALMA F(ECIT).” Il duca è ritratto sul destriero rampante in una splendida armatura che potrete
ammirare poi nell’Armeria Reale. Il titolo di “battaglia” probabilmente usato nel periodo risorgimentale non
rappresenta esattamente la scena dipinta: è piuttosto la presa di San Quintino ormai assediata e la vittoria
ottenuta in quell’occasione segnerà l’inizio del legame fra la dinastia e Torino, giacché nel 1563 Emanuele
Filiberto qui farà trasferire la capitale del suo ducato dall’antica Chambéry.
 Jacopo Palma il Giovane, Battaglia di San Quintino, 1582-1585,
olio su tela.
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Dei ed eroi
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Avvicinandosi ora ai busti in marmo presenti in sala si trova quello del re
Carlo Alberto (1798 - 1849), un sovrano che lascerà una cospicua serie di
modifiche al Palazzo grazie alla genialità dell’artista bolognese Pelagio Palagi
(1775 - 1860), architetto di corte dagli anni Trenta dell’Ottocento.
Faremo riferimenti a miti, leggende, armi e guerre, e spesso anche alla
raffinatezza del gusto di Carlo Alberto che fu sensibile collezionista e grande
intenditore d’arte. Farà rimodernare le sale di rappresentanza – oggetto di
questo percorso di visita – secondo la propria sensibilità artistica senza
annullare del tutto le testimonianze più antiche ma integrandole nel nuovo
arredo. Come avrete capito, i sovrani sabaudi hanno sempre avuto una
passione per le antichità. Bisogna infatti ricordare che fu proprio un Savoia – il
re Carlo Felice – a acquistare (1824) la collezione che renderà la nostra città
celebre, quella del Museo Egizio.
Perché il mondo classico o quello dei cavalieri e non quello del loro
tempo? Quale fascino esercitavano sui frequentatori delle sale sontuose le
 Giuseppe Albertoni, Carlo
figure di Ercole o di Enea, dei Crociati a Gerusalemme o uno stuolo di belle
Alberto, 1850, marmo.
danzatrici vestite alla moda etrusco-romana? Perché Carlo Alberto si fece
ritrarre nelle vesti di un imperatore di Roma? Una risposta c’è, fra le tante, e
non è legata solamente alla storia del gusto. Possiamo dire che tale scelta risponde ad una esigenza più
profonda: si usa il repertorio del mondo antico per esprimere precisi concetti attraverso il linguaggio dei
simboli e delle allegorie. Per allegoria si intende una rappresentazione figurativa che corrisponde ad un’idea. È
come se il sovrano avesse voluto dire al suo popolo che dietro la figura di quell’eroe mitologico in realtà c’era
lui. Di conseguenza, il popolo capiva che, proprio come un eroe, il sovrano avrebbe avuto nei suoi obiettivi il
benessere, la sicurezza e la pace del suo regno. Un concetto di superiorità ‘traslata’ per mantenere forte il
sentimento patriottico e l’obbedienza popolare. In pratica, attraverso l’immagine si realizzava un dialogo
continuo fra sovrano e suddito. Ma anche fra i Savoia e le altre corti che, in continua gara fra loro, usavano
l’arte figurativa per aumentare il proprio prestigio sulla cosiddetta “scacchiera internazionale”.
Cosa c’è di meglio che rifarsi agli déi e ai grandi eroi che tutti conoscevano a quei tempi, abitanti di un
mondo lontano ma felicissimo? E anche oggi non amiamo ricordarli attraverso libri, films e, perché no, video
giochi? Con loro i virtuosi vincono e i malvagi perdono.
Scopriamoli insieme, allora, con i Servizi educativi statali di Palazzo Reale!
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Dei ed eroi
GUIDA AL PERCORSO
PARTE 1
1. SALA DELLA GUARDIA SVIZZERA
Dalle grandi finestre del Salone ci si affaccia
sulla Piazzetta Reale dove si erge la grande
cancellata in bronzo ideata da Pelagio Palagi per
separare l’area del Palazzo da Piazza Castello:
come in altre occasioni, Palagi recupera nella
realizzazione dell’opera elementi propri della
mitologia.
È il caso delle grandi statue in bronzo che
Pelagio Palagi e Abbondio Sangiorgio, Medusa e Dioscuro
sormontano la cancellata, disegnate – su (part.), 1835-1862.
ispirazione di Palagi – dallo scultore milanese
Abbondio Sangiorgio (Milano, 1798 – 1879) a rappresentare i Dioscuri (dal greco Dios 'di Giove' e Kouros
'fanciullo, figlio'): come narra il mito, nati da Zeus, Castore e Polluce presero parte alla spedizione degli
Argonauti nella Colchide per recuperare il vello d’oro. Già in epoca romana sono protettori degli equites
(l’iconografia infatti li vuole a cavallo) e probabilmente la loro presenza a Palazzo si spiega perché sono
collocati a distinguere la piazza pubblica dalla piazza d’armi, destinata ovviamente anche alle truppe a cavallo.
La grande cancellata in bronzo, poi, si arricchisce di un ulteriore elemento ispirato dalla classicità: essa infatti è
adornata con teste dorate di Medusa, il mostro dallo sguardo pietrificante sconfitto da Perséo (secondo l’uso
antico, l’effigie della testa della Gorgone veniva applicata sui pettorali degli antichi condottieri per scongiurare
la morte ed intimorire i nemici).
2. PRIMA ANTICAMERA - SALA DEI CORAZZIERI
Attraversato il Salone si accede alla prima anticamera
detta dei Corazzieri: qui, dove gli ospiti attendevano di
essere ricevuti, domina, sulla parete sinistra verso il
Salone, una tela di notevoli dimensioni. È opera del pittore
veneziano Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882)
e rappresenta La sete patita dai primi Crociati sotto
Gerusalemme.
L’opera (altezza cm 363; larghezza cm 589) è
realizzata da Hayez a partire dal 1833; solo successivamente, nel 1838, Carlo Alberto la commissiona al pittore
veneziano destinandola specificamente per la prima
anticamera di Palazzo Reale. Il tema storico – caro
all’Ottocento – è in parte tratto dalla Gerusalemme
Liberata del Tasso (canto XIII), dalle fonti storiche (ad
 Francesco Hayez, La sete patita dai primi
Crociati sotto Gerusalemme, (part.), 1833-1850, olio
esempio Guglielmo di Tiro) e dal poema di Tommaso
su tela.
Grossi I Lombardi alla prima Crociata (pubblicato nel 1826,
ispirerà l’omonimo melodramma di Verdi del 1843): non è un caso che Hayez e Grossi frequentino a Milano la
cerchia di Manzoni, particolarmente ricettiva sulle potenzialità del “riuso della Storia”, spesso reinterpretata in
chiave metaforica alla luce delle coeve guerre d’Indipendenza. Di questa stessa cerchia fa parte anche Massimo
d’Azeglio il quale nel 1833 pubblica, con intenti affini a quelli che mossero Hayez e Grossi, l’Ettore Fieramosca.
La tela di Hayez arriva a Palazzo solo nel 1849 e viene collocata nel 1850, quando ormai Carlo Alberto è
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morto in esilio.
Il dipinto si carica delle istanze risorgimentali del patimento dei Regni preunitari sotto la dominazione
straniera, sebbene non venga accolto da unanime consenso. Ad esempio, il contemporaneo Giuseppe Rovani,
autore dei Cento anni (1859-1864), scriverà in merito alla Sete: «c’è mancanza assoluta di un concetto generale.
La grande tela si riduce a una raccolta di moltissime figure che fanno quello che vogliono senza che lo
spettatore ne comprenda bene la ragione; si direbbe anzi che un committente bizzarro abbia detto all’artista:
fatemi una cinquantina di figure eseguite con meravigliosa potenza, ma delle quali nessuno dà un esatto indizio
della sete del campo cristiano» (G. Rovani, Francesco Hayez, in P. Barocchi,Testimonanze e polemiche figurative in
Italia. L'Ottocento: dal bello ideale al Preraffaellismo, Firenze, D'Anna, 1974, p. 350). La tela presenta però la figura
di un eroe che troverà piena risonanza nell’Ottocento: la folla, in particolare la folla che si ribella ad un
oppressore. Del resto notevole rilevanza hanno nelle tragedie manzoniane (il Carmagnola del 1820, l’Adelchi del
1822) i cori, in cui l’autore dà spazio alla propria voce: particolarmente significativo il coro dell’atto terzo
dell’Adelchi, dove si esprime il lamento dei popoli sottomessi per le invasioni subite: «Dagli atrii muscosi, dai
fori cadenti, / Dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / Dai solchi bagnati di servo sudor, / Un volgo disperso (= i
Latini, cui è rimasta solo l’antica gloria del passato) repente si desta; / Intende l’orecchio, solleva la testa /
Percosso da novo crescente romor (la prossima invasione dei Franchi)».
3.TERZA ANTICAMERA - SALA DEI PAGGI
Entrando nella terza anticamera, si scorgono tre tele alle pareti,
accomunate a quelle già viste nella prima anticamera da temi e
suggestioni squisitamente romantico-risorgimentali, secondo un
percorso per immagini voluto da Carlo Alberto.
Sulla parete verso la seconda anticamera si trova L’Imperatore
Federico Barbarossa, durante il lungo assedio di Alessandria, avendo
tentato d’impadronirsi per sorpresa della città, ne viene cacciato dal
popolo. La tela (altezza cm 310; larghezza cm 510) viene realizzata da
Carlo Arienti (Arcore, 1801 – Bologna, 1873) a partire dal 1845,
dietro commissione di Carlo Alberto, ma è collocata in Palazzo
soltanto nel 1851. Il tema è dichiaratamente patriottico e recupera –
come è proprio del gusto dell’epoca – un episodio di storia
medievale, piemontese in specifico, con la cacciata dell’invasore
straniero, il tedesco imperatore Barbarossa nelle sue lotte contro i
Comuni. Il soggetto è perfetto per alimentare un forte sentimento
nazionale all’indomani della Prima guerra di Indipendenza. All’epoca
desta invece qualche perplessità l’autoritratto dell’autore nella tela,
che si rappresenta con berretto frigio di colore rosso sul capo, in
atto di passare pietre a un caporivolta: sospettato di essere filomazziniano con tale autorappresentazione, non viene ricevuto da
Vittorio Emanuele II quando l’opera è collocata in Palazzo,
nonostante l’ampio consenso suscitato.
 Carlo Arienti, L’Imperatore Federico
Barbarossa, durante il lungo assedio di
Alessandria, avendo tentato d'impadronirsi per sorpresa della città, ne
viene cacciato dal popolo (part.), 18451851, olio su tela.
Davanti alla figura centrale dell’imperatore e del suo destriero, esplode la mischia fra i soldati e i popolani:
«nello sguardo del Barbarossa trapela la paura insieme all’incredulità di vedersi aggredito e sconfitto dal
semplice popolo, mentre nell’occhio del cavallo, a stento trattenuto, brilla il terrore. Al gruppo centrale, che
termina con il primo piano dell’autoritratto dell’autore, fanno da contrappunto gli altri due gruppi sui lati della
tela che rappresentano le donne che accorrono e le altre difese col pugnale dalla più coraggiosa» (da P.
Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830-1865, Torino 2001, p. 168). Ancora una
volta l’eroe è la folla entro la quale addirittura si colloca l’autoritratto del pittore, evidentemente mosso e
coinvolto dal messaggio che il soggetto reca con sé. Nella folla poi, come si è detto, si distinguono le donne. La
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letteratura coeva, del resto, è ricca di numerose eroine femminili che lottano e “patiscono” sofferenze in nome
di un ideale (l’amore, la patria, la fede): ancora una volta facile è il rimando a Manzoni, con Ermengarda o Lucia.
Nella stessa sala si colloca poi, tra le finestre, l’opera di Francesco Gonin
(Torino, 1808 – 1889), Gli abitanti di Aisone in Val di Stura assalgono valorosamente i
Francesi capitanati dal Principe di Conti e ne incendiano le tende. La tela (altezza cm
300; larghezza cm 219) richiama, come la tela di Arienti, un episodio in cui
protagonista è ancora una volta una popolazione piemontese, gli abitanti di Aisone
nei pressi di Vinadio. Costoro si ribellano nel 1746 ai francesi che in Aisone hanno
il loro quartier generale (il contesto è quello della guerra di successione
dell’Austria nella quale Carlo Emanuele III si schiera contro le truppe francoispaniche): i popolani danno fuoco all’accampamento straniero mettendo in fuga il
Principe di Conti, rappresentato sulla sinistra, sconfitto e soccorso da alcuni
soldati.
È possibile individuare un singolo eroe nel condottiero del popolo che guida
la rivolta: egli è delimitato anche spazialmente nella tela, la folla infatti è divisa e
lascia spazio al personaggio rappresentato in primo piano. Egli gesticola, si dimena,
ha lo sguardo del ‘posseduto’ dal furore del coraggio e si sente invincibile, mentre
la sua sofferenza è già annuncio della gloria successiva. Il pittore mette in scena la
rivolta, a significare la ribellione dei piemontesi contro un usurpatore: l’eroe pare
quindi incarnare un sentimento assai vivo negli anni in cui la tela è realizzata, il
1846 (siamo a ridosso della Prima guerra di Indipendenza).
 Francesco Gonin, Gli
abitanti di Aisone in Val di
Stura assalgono
valorosamente i Francesi
capitanati dal Principe di
Conti e ne incendiano le
tende 1746 (part.), 1846,
olio su tela.
4. SALA DEL TRONO
La meraviglia che si può provare entrando in questa sala quasi impedisce di trovare quelli che sono gli
elementi iconografici legati alla simbologia del potere e della regalità. Il colore rosso che predomina, insieme
all’oro sfavillante, richiama al colore usato sin dall’antichità per il potere civile, ma anche si rifà al sangue del
martirio e del sacrificio. È il colore della passione ma anche della santità. I richiami decorativi del leone e della
corona rimandano più direttamente alla regalità del sovrano, mentre le iniziali CA presenti negli originali parati
ottocenteschi indicano in Carlo Alberto il committente del rinnovamento della Sala.
La tela ovale incastonata come una gemma preziosa nel
soffitto in legno intagliato e dorato è una composizione allegorica
commissionata al pittore fiammingo Jan Miel (Beveren-Waas, 1599
– Torino, 1663) dal duca Carlo Emanuele II, secondo uno stile di
tipo monumentale e dinamico promosso a corte. La figura
femminile in bianco rappresenta la pace, completa di rami d’olivo e
guarda la figura bifronte (uomo-donna) che sta per la Prudenza che
tiene legato con grosse catene colui che simboleggia il ‘furore
guerriero’. Dietro queste due figure si trovano l’Abbondanza
(spicchi di grano) e la Verità (nuda) e sotto di loro un Mercurio
che pare pronto a portare il messaggio pacifico in terra, dove giace
un uomo addormentato: è Ercole (riconoscibile dalla pelle del
leone di Nemea, poco visibile) che per ora ha riposto le sue armi e
la forza.
 Jan Miel, L’allegoria della Pace, 1660,
olio su tela.
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Dei ed eroi
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La scena è paragonabile ad un’altra allegoria, quella della
celebre sala consigliare decorata dai fratelli Ambrogio e
Pietro Lorenzetti prima della peste del 1348 per il Comune di
Siena: la veste è sempre candida, il ramo d’ulivo c’è e la
giovane donna è adagiata su alcune armature. Nel particolare
a fianco riportato la si vede in compagnia della Fortezza e
della Prudenza, grandi consigliere per un governante.
 Ambrogio e Pietro Lorenzetti, Il buon governo (part.), 1334
ca., affresco, Palazzo Comunale di Siena.
5. SALA DI UDIENZA
Il trionfo cui veniva preferita la Pace nella sala
precedente è il tema conduttore dell’apparato
decorativo ottocentesco di questo ambiente,
realizzato su progetti di Pelagio Palagi tra il 1837 e
l’anno successivo. La preziosa boiserie in legno
dorato degli sguinci delle finestre è divisa in tre
registri, di cui il superiore e l’inferiore sono ornati
da panoplie, cumuli di armi che nell’antica Roma
venivano sottratte agli avversari per essere portate
come trofei durante il trionfo, ovvero la cerimonia
in cui veniva celebrato il generale vittorioso con la
sfilata delle legioni e l’esposizione dei bottini di
guerra. Altre armi di età imperiale elmi, spade
(gladii), corazze anatomiche (loricae) e scudi
rotondi (parmae) sono portate dai putti scolpiti da
Francesco Somaini a «tre quarti di rilievo» nel
fregio del camino in marmo bianco di Carrara.
 Armi classiche negli sguinci delle finestre (Gabriele
Capello e Giovanni Boggio, 1838, legno intagliato e dorato).
 Armi classiche nel fregio del camino (Francesco Somaini, 1838, marmo).
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Al trionfo è dedicata anche la decorazione delle consolles: le gambe sono costituite dall’emblema delle
legioni romane, caratterizzato da un’aquila dalle ali spiegate ed un serto d’alloro, che in battaglia fungeva da
punto di riferimento per i soldati che combattevano alla sua ombra e lo difendevano a costo della vita. Questo
è affiancato ai lati da due cariatidi, ovvero sculture effigianti figure femminili che in architettura e, come in
questo caso, nelle arti applicate, fungono da elementi di sostegno: tristi e inginocchiate, esse raffigurano donne
assoggettate in schiavitù. Era frequente nell’antica Roma la raffigurazione scultorea dei nemici vinti, ispirati ai
prigionieri di guerra che venivano esposti insieme ai bottini durante il trionfo, dai fieri daci del Foro Traiano
(112 d. C., reimpiegati nell’Arco di Costantino, 315) alla pensierosa Thusnelda (I sec. d. C., Firenze, Loggia dei
Lanzi). Non è da dimenticare inoltre che le cariatidi già in origine raffiguravano donne in condizione di cattività:
secondo Vitruvio (De Architectura, Libro I, 4) esse erano ispirate alle matrone di Caria, città traditrice
dell’alleanza greca, che vennero schiavizzate dagli ateniesi e raffigurate in atto di portar pesi sulla testa, perché
«cariche di vergogna sembrassero pagare la colpa della loro città» - in realtà i pesi servivano come raccordo
per l’architrave da esse supportato. Come elemento architettonico le cariatidi ebbero una solida fortuna:
utilizzate già nel VI secolo a.C., esse trovarono una codificazione figurativa nella celebre Loggia delle Cariatidi
dell’Eretteo (Acropoli di Atene, 406 – 421 a.C.) e da allora vennero riproposte in forme più o meno aderenti
agli originali classici.
 Loggetta delle Cariatidi, Eretteo, Acropoli di Atene, 421-406
a.C.
 Tesoro dei Sifni, Delfi, 525
a.C.
 Jean Goujon, 1550, Parigi, Palazzo
del Louvre, Sala delle Guardie.
 Giuseppe Piermarini e Gaetano
Callani, Sala delle Cariatidi, 17741776, Milano, Palazzo Reale.
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 Cariatidi del camino (Francesco Somaini, 1838, marmo).
Le prigioniere che reggono la mensa delle consolles, ripetute come
stipiti del camino, vestono abiti classici e portano sulla testa, invece di
un copricapo o un cesto, un particolare tipo di corona ornata di torri
stilizzate, la corona turrita, simbolo di autorità comunale ed attributo
delle figure allegoriche rappresentanti le città: si può vedere una simile
corona in questo stesso Palazzo, nella Sala dei Corazzieri, cingere il
capo delle figure femminili in stucco dorato raffiguranti Chambéry e
Torino (1847, Luigi Cauda e Giuseppe Gaggini); la capitale sabauda è
coronata anche in un ovale dei fratelli Collino che campeggia nella
Galleria della Regina, oggi Armeria Reale, La città di Torino riceve dalla
Fama le insegne della pace e del commercio (1767).
 Cariatidi delle consolles
(Francesco Rueff, Pietro Monelli e
Giuseppe Collenghi 1838, legno dorato).
 Luigi Cauda, Giuseppe Gaggini,Allegorie civiche, 1847,Torino,
Palazzo Reale, Sala dei Corazzieri, stucco dorato.
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Oltre ad indicare l’entità urbana la corona turrita è attributo dell’Italia
già dall’epoca dell’imperatore Antonino Pio (138-161): tale serto venne
riutilizzato in modo sistematico in epoca moderna fino alla celeberrima Italia
piangente sulla tomba di Alfieri (1810) di Antonio Canova, collocata nella
Basilica di S. Croce a Firenze, che ebbe in epoca risorgimentale uno
strepitoso successo iconografico, al punto di diventare icona di un’Italia
sofferente per la divisione e la dominazione straniera. È forse da vedere
anche in questa sala, oltre che un riferimento alle città conquistate,
un’allegoria dell’Italia oppressa in attesa di un riscatto da parte di Carlo
Alberto e della sua discendenza?
 Antonio Canova,Tomba di Vittorio Alfieri, particolare
dell’Italia piangente,1810, Firenze, Santa Croce, marmo.
Il campo centrale degli sguinci è invece dominato da una
figura femminile ripetuta ben quattro volte ad affiancare i lati delle
due finestre: una donna alata identificabile in Nike, dea della
Vittoria, che poggiando il piede sul Mondo incide su uno scudo la
gloria delle imprese belliche per tramandarla ai posteri e renderla
immortale. Tale raffigurazione costituisce l’allegoria della Storia:
essa ha svariati precedenti, ed il suo archetipo appare sulla
Colonna Traiana a separare la narrazione delle due campagne
daciche di Traiano del 101 e del 105 d.C. Nella boiserie la Nike
registra sugli scudi ovali la memoria di quattro battaglie vittoriose
di Casa Savoia: da sinistra a destra si incontrano Amedeo VI libera
l’imperatore di Costantinopoli nell’anno MCCCLXVII, Gli Imperiali battuti
a Guastalla da Carlo Emanuele III nell’anno MDCCXXXIV,Vittoria di S.
Quintino ottenuta da Emanuele Filiberto nell’anno MDLVII e Torino
liberata da Eugenio lì V sett. MDCCVI.
 Gabriele Capello e Giovanni Boggio,
sguinci delle finestre, 1838, legno
intagliato e dorato.
 La Storia registra le Vittorie. Roma,
Colonna Traiana, 113 d.C.
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6. SALA DEL CONSIGLIO
L’iconografia classica continua
ad essere spiegata nella sala in cui
Carlo Alberto riuniva il Consiglio
dei Ministri: segno dell’autorità
delle civiltà greca e romana e dei
valori di integrità morale, di
bellezza ideale e di monumentalità
che in esse erano visti, aggiunti alla
preziosità dello Stile Impero, stile
sorto nell’epoca napoleonica che
sarebbe rimasto in voga per tutta la
prima metà dell’Ottocento. Gli
arredi bronzei, fusi dalla ditta
Viscardi verso il 1840, sono ispirati
all’architettura ed alla scultura
greca: il tavolo al centro, su cui
Carlo Alberto firmò lo Statuto, è
retto da quattro Vittorie alate ed i
candelabri in bronzo sono ornati
da fanciulle (in greco Korai) in
chitone e putti alati. Sulle basi di
questi sono effigiati i partecipanti
ad un sacrificio dedicato al dio
greco del vino, Dioniso: il sacerdote
si presenta con una corona d’alloro
ed un tirso (il bastone dei seguaci
del dio, ornato da pampini di vite) e
due offerenti, una velata ed una
portatrice di fiaccola che porta un
cofano all’ara sacrificale. I tre
personaggi
ricorrono
sul
controfornello del camino della
Sala da Ballo e sono ispirati ad un
rilievo
neoattico
perduto,
conservato all’epoca di Carlo
Alberto presso le collezioni del
Castello di Pollenzo.
 Progetto di Pelagio Palagi, arredi della Sala del Consiglio, 1838-1840.
 Ditta Viscardi (Milano), tavolo e candelieri, parti, 1840, bronzo dorato.
 Ditta Viscardi, su disegno di Pelagio Palagi, candelieri (parti) 1840.
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 Gabriele Capello (su disegno di Pelagio Palagi), controfornello, Sala da
Ballo, 1842.
I braccioli delle sedute che circondano il tavolo sono retti da centauri marini: questa figura mitica era
l’accompagnatore di Nettuno, incaricato di suonare il corno per controllare le tempeste marine. Anche
l’apparato ornamentale è ispirato alla pittura vascolare greca, dai meandri alle palmette, già presenti nella
pittura vascolare greca del VI sec. a.C, poi adottate in Magna Grecia e dagli Etruschi: riscoperte dal gusto
neoclassico, vennero impiegate in modo massivo da Pelagio Palagi, ed il suo Gabinetto Etrusco del Castello di
Racconigi ne fornisce un valido esempio.
 Francesco Rueff e Pietro
Monelli, Giuseppe Collenghi,
seggioloni, 1837, legno dorato.
 Gabriele Capello (su disegno di Pelagio Palagi), arredi del Gabinetto
Etrusco, 1834, Castello di Racconigi, legni intarsiati (ebano, cedro, noce,
pero ed agrifoglio).
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Dei ed eroi
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Anche l’immagine di Carlo Alberto viene rivisitata alla luce
dell’antico: il busto in marmo scolpito da Benedetto Cacciatori
(Carrara, 1794 – 1871) lo ritrae infatti in veste di imperatore romano
(1839). La precisione con cui i tratti fisici del re di Sardegna sono
indagati deriva dal naturalismo della ritrattistica romana e
l’imperturbabilità che ne pervade il volto veicola un’idea di gravezza e
dignità. La toga e la spilla che ne ferma il panneggio sulla spalla sono
iscritte con il motto sabaudo «FERT».
 Benedetto Cacciatori, Busto di Carlo Alberto, 1839, marmo.
7.ARMERIA REALE
Da sempre le armi sono associate al mondo mitologico e, spesso, sono le armi a identificare i singoli eroi.
Nell’Armeria, sotto la volta affrescata da Claudio Francesco Beaumont (Torino, 1694 – 1766) con episodi del
mito di Enea, si possono ammirare spade, pugnali, scudi, armature, armi da fuoco di varie epoche, perlopiù
utilizzate in parate o con funzione esclusivamente ornamentale. Acquistate da Casa Savoia o donate al Casato
da potenze e da sovrani stranieri, le armi presentano spesso raffinati decori mitologici: ne sono esempio lo
scudo “a rotella” presente nella vetrina 36 (il pezzo è il n. 5) con, nel comparto centrale, Nettuno e la sua
sposa Anfitrite; nella vetrina 37 lo scudo “a rotella” ove sono effigiate le fatiche di Ercole (n. 4), il piccolo scudo
“a placchetta” (n. 9) con al centro la testa di Medusa e, infine, la targhetta da pugno con Marte e Venere
sorpresi da Vulcano (n. 11); nella vetrina 40 lo scudo con al centro il trionfo della ninfa Galatea.
Tra le varie curiosità presenti in Armeria si segnalano, nell’ultima sala verso Piazza Castello, la spada e la
sciabola riposte nell’ultima vetrina (n. 5) a sinistra guardando la Piazza donate a Vittorio Emanuele II dagli
italiani di California per celebrare il neonato regno d’Italia: queste recano il simbolo dell’Italia, ancora una volta
nelle vesti di una donna che reca sul capo la corona turrita (sono numerate T27 e T34)
8. SALA DELLA COLAZIONE
Il Grande Gabinetto dell’Appartamento di Carlo Emanuele II, divenuto camera d’Udienza per il figlio
Vittorio Amedeo II, è noto come la Sala del Tempo per i decori pittorici incassati nella volta (1662-1663): nei
quattro tondi che circondano lo spazio centrale vuoto (già occupato da un perduto dipinto raffigurante un
orologio con il motto «A suo tempo») sono rappresentate le allegorie del Giorno e della Notte. Il Giorno è
un giovane con una stella in fronte, seduto sul globo del mondo, reggente con entrambe le mani un corpo
celeste splendente, il sole; la Notte, una fanciulla coperta dal manto stellato, coronata di stelle con la luna nelle
mani, è insolitamente accompagnata dal gallo: animale denominato da Plinio il Vecchio «sentinella della notte»
(Naturalis historia, X, 46-47), esso allude al mito di Alettrione, soldato al servizio di Marte trasformato in gallo e
condannato ad annunciare lo spuntare del giorno per aver svolto in modo negligente il compito di guardia
notturna.Verso le finestre è rappresentato l’Anno nelle vesti del Tempo, un vecchio con la falce seduto presso
il Circolo dello Zodiaco, «Re, e Signore dell’Anno, e delle Stagioni» secondo Cesare Ripa, autore dell’Iconologia
(Roma 1593), il testo che codificò le caratteristiche e gli attributi delle figure allegoriche, fornendo un manuale
asservito alle esigenze di letterati ed artisti. In direzione dell’adiacente Camera Orba si trova l’Eternità, una
donna coronata d’alloro, reggente nella sinistra l’ouroboros, il serpente che si morde la coda creando un
cerchio senza inizio né fine, simbolo della ciclicità infinita del tempo.
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 Sala della Colazione,
volta, 1663 ca.
 Gian Lorenzo Bernini, La Verità scoperta dal
Tempo, 1645-1652, Roma, Galleria Borghese.
Sulla specchiera che sovrasta il camino, l’orologio dalla cassa in
bronzo dorato illustra un effetto positivo dell’entità protagonista
della sala: Il Tempo scopre la Verità, eseguito dal bronzista di corte
Francesco Ladatte e datato 1775. La nuda Verità tiene nella mano
destra il sole, alla luce del quale essa splende, appoggiata al mondo
su cui regna e seduta tra cumuli di armi, libri che infondono scienza
e le onorificenze sabaude quali il Collare dell’Annunziata e la
doppia croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Un putto allontana da essa
una maschera, attributo dell’Inganno e del Tradimento, ed il Tempo
solleva in alto un serto di alloro, la pianta mediterranea
sempreverde utilizzata come simbolo di immortalità, indicando la
propria tensione verso la gloria e l’eternità.
 Francesco Ladatte, Il tempo scopre la
Verità, 1775 ca., bronzo dorato.
 Jean-François De Troy, Il tempo scopre
la Verità, 1733, Londra, National Gallery.
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Lo stesso tema iconografico è raffigurato anche
sulla volta dell’ambiente di passaggio tra la Galleria del
Daniel e la Sala del Caffè, questa volta interpretato dal
pennello dall’austriaco Daniel Seiter: in questa versione
vediamo il Tempo reggere in luogo del serto l’ouroboros
e l’aggiunta di una terza figura, l’orrenda vecchia con i
serpenti tra i capelli che fugge alla vista della bellezza
della Verità: l’Invidia.
 Daniel Seiter, Il tempo scopre la Verità, 1690,
Gabinetto di Passaggio tra la Galleria e la Sala
del Caffè, affresco
9. GALLERIA DEL DANIEL
La volta di questo ambiente, tra i più sfarzosi
del Palazzo, presenta un affresco realizzato tra il
1690 e il 1694 dal primo pittore di corte,
l’austriaco Daniel Seiter (Vienna, 1642/1647 –
Torino, 1705) per il giovane duca Vittorio
Amedeo II: esso costituisce una narrazione per
immagini tesa a condensare il significato del
potere e la celebrazione della figura del sovrano.
Negli stucchi dorati negli angoli, si scorgono
incrociati lo scettro, simbolo del potere politico,
ed il bastone di comando, simbolo dei vertici
della gerarchia militare, nella cooperazione delle
due facce dell’azione di un governante:
l’amministrazione della cosa pubblica e la difesa
della nazione. Nell’affresco, al di sopra della
porta appena varcata, si può quindi scorgere
l’effetto di un buon governo: le due donne
abbracciate
rappresentano
la
Pace,
accompagnata dal putto con il ramo d’ulivo, la
 Daniel Seiter, La Pace, la Giustizia e l’Abbondanza, 1690cui importanza è celebrata nella Sala del Trono, e
1694, affresco
la Giustizia. Il suo attributo è il fascio, una scure
tenuta stretta da verghe che nell’antica Roma
veniva portata dai littori, i funzionari che proteggevano il magistrato incaricato di amministrare appunto la
giustizia.
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 Washington D.C., United States
Congress. Come si può vedere ai lati
della Bandiera a Stelle e Strisce, i due
fasci littori continuano a fungere da
simbolo di Giustizia ancora nei giorni
nostri.
 Corrado Giaquinto, La Pace e la Giustizia, 1759-1762,
Madrid, Museo del Prado, olio su tela.
 Pietro da Cortona, La Pace e la Giustizia, 1646
Firenze, Palazzo Pitti, Sala di Marte, affresco.
L’appaiamento di Pace e Giustizia è un riferimento biblico, come si legge nel libro dei Salmi, 84: «Pax et
Iustitia osculatae sunt» ed è un tema che ritorna frequentemente nella Storia dell’Arte.
Attraversa il cielo Iris, la messaggera divina che appariva sull’arcobaleno, per annunciare al mondo le due
virtù ed in questo clima sereno fioriscono le attività artistiche ed economiche: di spalle, con le spighe in mano,
è rappresentata l’Abbondanza, una condizione che è descritta da Cesare Ripa: «madre, e figliuola della Pace [...]
terrà un fascio di Spighe di Grano [...] sono segno di Pace, essendo questi frutti in abondanza solo dove la Pace
reca a gli uomini commodità di coltivar la terra, la quale per la guerra rimane infeconda, e disutile».
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Nei due campi ellittici, si hanno il carro del Sole e
l’Aurora che sparge fiori: due allegorie che mostrano la luce
del giorno allo spuntare ed al suo massimo splendore. Il sole è
personificato dal dio Apollo, di cui sono illustrate due vicende
a monocromo ai lati dell’ovato: Apollo con Dafne, la ninfa che
per sfuggire alle lusinghe del dio si trasformò in alloro, di cui
Apollo si cinse il capo, e Apollo uccide Pitone, il drago che aveva
perseguitato la madre Latona: l’uccisione del mostro è
metafora degli effetti benefici del Sole. Al di sotto del carro, la
donna con il manto stellato che fugge la luce è la Notte, ed il
neonato portato in braccio è suo figlio il Sonno. Nell’ovato
opposto al Sole l’Aurora sparge fiori colorando di rosa il cielo,
impersonata da Venere, dea della bellezza. Un’identificazione
insolita che trova le sue ragioni nelle scienze astronomiche: il
pianeta Venere, infatti, è il primo astro che spunta al mattino
ad annunciare il giorno, nell’affresco la stella portata in mano
dalla dea, la cui luce è altresì indicata dal putto che porta una
fiaccola (l’astro di Venere era anche detto Lucifero, «Portatore
di luce»: dal latino lucem «luce» e fero «io porto»). Anche
Venere è protagonista di due imprese a monocromo che
profetizzano una gloria futura:Venere con le armi di Enea, in
cui la dea commissiona a Vulcano lo scudo destinato al figlio,
su cui è incisa la futura grandezza di Roma e Venere aiuta Enea
a prendere il ramo d’oro, che permetterà all’eroe di scendere
all’Ade, dove conoscerà i gloriosi eventi di Roma.
 Daniel Seiter, L’Aurora sparge fiori, 16901694, affresco.
In tale occasione, dunque, non si ha in opposizione al Sole,
come nella sala precedente, la Luna, la cui presenza
implicherebbe un tramonto: in questo affresco esiste solo il
giorno eterno che spunta ed è destinato a non tramontare
mai. La metafora barocca favorisce l’assimilazione
dell’immagine del potere agli astri: ad esempio, Luigi XIV di
Francia, a ribadire il ruolo di fulcro attorno a cui ruotava la sua
corte, fu denominato il Re Sole, ed il suo appartamento presso
la Reggia di Versailles rispecchiava questa funzione:
l’Appartamento dei Pianeti (1671-1681) gravitanti attorno al
Salone d’Apollo, la Sala del Trono dove, tra raffigurazioni su
tela ed affresco di dei ed eroi antichi, il re appariva in tutto il
suo splendore. Le metafore cosmologiche di queste sale
possono essere confrontate con altri cicli, quali le Sale dei
Pianeti di Palazzo Pitti (1641-1655, lavoro iniziato da Pietro
Berrettini da Cortona, di cui è evidente l’influenza sull’opera di
Seiter, e terminato da Ciro Ferri) o la Sala dei Pianeti nel
castello di Eggenberg a Graz (Hans Adam Weissenkircher,
1678 - 1685).
 Daniel Seiter, ll Carro del Sole, 1690-1694,
affresco.
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In testa alla galleria verso nord troviamo l’ascesa di
Ercole all’Olimpo: l’eroe viene sottratto al Piacere Vano,
un angelo adolescente cinto di fiori e perle, adagiato su
un ricco letto accompagnato da un putto che suona
soavemente un’arpa su cui è scolpita una figura
femminile, la Sirena. Il Piacere Vano è adolescente,
poiché si trova nell’età in cui si inizia a “gustare i
piaceri”, è alato poiché il Piacere fugge in fretta e la
Sirena scolpita sull’arpa ricorda che il piacere è
ingannevole e pericoloso, come il bellissimo mostro
mitologico che attirava i naviganti con il suo canto per
condurli alla morte. Ercole è portato in cielo da
Minerva, dea della saggezza, mentre un putto che regge
la lancia della dea gli mostra la corona d’alloro
destinata ai vittoriosi. L’ingresso del semidio figlio di
Giove nell’Olimpo è metafora della glorificazione del
sovrano, destinato, grazie alle proprie virtù ed imprese
eroiche, a lasciare la condizione terrena per trovare il
suo luogo in un Pantheon di eroi.
Dei ed eroi
 Daniel Seiter, Ercole sale all’Olimpo, 1690-1694,
affresco
 Daniel Seiter,Apoteosi dell’Eroe, 1690-1694, affresco
Nell’ovato centrale si ha infine l’apice dell’omaggio reso al sovrano: l’Apoteosi dell’Eroe. Davanti a Giove, re
degli Dei, compare un “generale antico”: ai suoi piedi i putti reggono la sue armi, lo scudo ornato dalla testa di
Medusa (il cui capo reciso venne donato da Perséo a Minerva, che lo pose sullo scudo per atterrire i nemici in
battaglia), simbolo di saggezza, e l’elmo coronato che ne indica la nobiltà. In diagonale, nell’angolo opposto,
troviamo ulteriori armi che servono ad identificare l’eroe: la corona ducale, il collare dell’Ordine della
Santissima Annunziata, massima onorificenza sabauda, e uno scudo fregiato del monogramma V.A.: il nome
dell’eroe è dunque Vittorio Amedeo. Giove, con la mano aperta verso Vittorio, lo accoglie nel suo regno ed
egli, mentre i putti gli posano sul capo la corona stellata simbolo dell’Immortalità, presenta al re degli dei le
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virtù che gli hanno permesso l’ascesa all’Olimpo: l’Ardimento (la donna
a cavallo), la Provvidenza (con le chiavi ed il timone: secondo il Ripa «le
Chiavi mostrano, che non basta il provedere le cose, ma bisogna ancora
operare per essere perfetto […] la Providenza regge il Timone di noi
stessi, e dà speranza al viver nostro»), la Buona Fama (con l’alloro e la
tromba che diffonde ovunque le imprese degli eroi), una donna con le
folgori in mano, l’Ampiezza della Gloria (indossa il turbante perché è
un’allegoria di origine orientale: secondo il Ripa «gli Antichi Egitij
intendevano la fama per tutto il mondo distesa»), la Carità (che versa il
suo latte come una madre ed ha in fronte la fiamma dell’amore divino)
e la Magnanimità («Virtù che consiste in una nobile moderatione
d’affetti, e si trova solo in quelli degni d’esser honorati. Vestesi d’oro
[…] porta in capo la corona, e in mano lo Scettro, perché l’uno
dimostra nobiltà di pensieri, l’altro potenza d’esseguirli […] Al Leone
da’ Poeti sono assimigliati i Magnanimi, perché non teme questo animale
le forze de gli animali grandi, non degna esso i piccioli, e non mai si
nasconde da’ cacciatori»). Seduta all’angolo, la Storia, indicando le armi
di Vittorio Amedeo, scrive le gesta del duca sul suo libro, sottraendone
la memoria all’azione distruttiva del Tempo: al lato opposto, infatti, è
scacciato il Tempo con la falce, che inghiotte un putto, dal momento che
esso “divora i propri figli”, ossia fa perire le opere umane che con
impiego di mezzi e tempo vengono realizzate. I Titani, superbi rivali degli
dei e simbolo del Furore, sono incatenati nell’angolo opposto a quello
occupato dalle Virtù e vicino ad essi Marte, dio della guerra, si spoglia
dell’armatura, inutilizzata in tempo di pace.Vittorio è comparato anche
a Paride, poiché Mercurio con la destra ripete il gesto che eseguì
davanti all’eroe troiano offrendogli il pomo d’oro che egli avrebbe dovuto destinare “alla più bella”: l'oggetto che il dio tiene nella sinistra è
l'unione del caduceo, il bastone alato del messaggero divino, simbolo di
alleanza poiché circondato dai due serpenti da lui pacificati, e di una
tromba guerriera, dal momento che «il pomo sarebbe stato cagione di
guerra, e non di pace» (Giovanni Pietro Bellori, Le Vite de' Pittori, Scultori
ed Architetti moderni.Vita di Annibale Carracci, Roma 1672).
 Annibale Carracci, Mercurio e
Paride, 1597, Roma, Galleria
Farnese.
L’apoteosi viene annunciata al mondo intero, rappresentato nei suoi
elementi territoriali e naturali, riassumendo il cosmo in una sola stanza,
 Niccolò Lapi, Mercurio e
così come avveniva nella reggia del Sole, il palazzo in cui «l'arte eclissava
Paride, 1707, Firenze, Palazzo
la materia, perché il dio del fuoco [Vulcano, n.d.r.]/ vi aveva cesellato i
Capponi.
mari che circondano la terra,/ l'universo intero e il cielo che lo
sovrasta» (Ovidio, Le Metamorfosi, 2, 15). Nelle partizioni laterali appaiono infatti, tra i comparti in testata e gli
ovati, i Fiumi ed ai lati del campo centrale i Quattro Elementi. Le otto figure fluviali sono di difficile
riconoscimento poiché non presentano attributi: uno solo, a fianco della Pace, è affiancato dal toro e il cigno:
l’uccello ricorda Cicno, mitico re della Liguria, regione che all’epoca dell’imperatore Augusto indicava la parte
dell’Italia del Nord-Ovest a sud del Po, mentre il bovino evoca il fiume dallo scroscio sordo che quasi
“muggisce” e che attraversa la città il cui animale-simbolo è il toro. Ovviamente il riferimento va a Torino ed al
Po: egli regge in mano una cornucopia piena di frutti come augurio di fertilità e abbondanza per il territorio
governato da Vittorio Amedeo.
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 Daniel Seiter, Allegoria
fluviale, 1690-1694, affresco.
I quattro elementi rappresentati sono il Fuoco, identificato nella fucina di Vulcano, il dio che forgiava le armi
degli eroi e degli abitanti dell’Olimpo abitante nelle viscere della terra; l’Acqua, effigiata nel trionfo della ninfa
marina Galatea seduta su una conchiglia e ornata di perle; la Terra con Bacco, il dio del vino, vestito della pelle
di un leopardo accompagnato da un satiretto che suona il cembalo, e Cerere, dea dei raccolti e delle messi,
simboli dei prodotti dell’agricoltura e dell’avvicendarsi delle stagioni tra il rigoglio dell’estate ed i freddi
autunnali, e l’Aria, Giunone matrona con lo scettro, vestita con abiti cangianti come il tempo atmosferico,
portata in trionfo da Borea, il vento invernale figurato come un vecchio scontroso e Zefiro, il vento primaverile
coronato di fiori.
 Daniel Seiter, I
quattro Elementi,
1690-1694, affresco.
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PARTE 2
 Pelagio Palagi, La festa degli dèi, 1845 ca., olio su tela.
INDOVINA CHI?
Nella Sala da Ballo allestita da Palagi per Carlo Alberto si colloca, nella volta del soffitto, una grande tela
centrale opera dello stesso Palagi in cui sono rappresentate numerose divinità dell’Olimpo.
Si riconoscono, da sinistra verso destra:
- in alto:Aurora, i Dioscuri a cavallo, lo Zodiaco (Ariete,Toro);
- nella fascia centrale: Pan (con zampe di capra), Mercurio,Vulcano, Marte,Venere, Anfitrite (è la sposa di
Nettuno, qui non è contraddistinta da alcun attributo), Nettuno, Giove, Giunone, Cibele (riconoscibile
dalla corona turrita), Prosèrpina (come Anfitrite non è distinta da alcun attributo ma è identificabile dalla
vicinanza dello sposo), Plutone, Minerva, Ercole, Diana (l’identificazione è resa possibile dall’arco), Giano,
Ganimede, Ebe (coppieri degli dei);
- nella fascia sottostante: Calliope (musa dell’epica, regge la tavoletta e lo stilo), Urania (musa
dell’astronomia, è resa riconoscibile dal globo), Clio (musa della storia, regge la tromba), Apollo, Euterpe
(musa della lirica, reca il flauto aulos),Talia (musa della commedia, è rappresentata con la maschera che gli
attori della commedia classica indossavano e dal lituo, il bastone augurale dell’antica Roma); Melpòmene
(musa della tragedia, regge una spada e, come Talia, una maschera), Erato (musa della poesia amorosa, è
effigiata con la cetra e accanto Cupido) Tersicore (musa della Danza, regge la lira), Polimnia (con
l’orchestica, il bastone della danza), le tre Grazie.
- al centro: le Ore (custodi della regolarità del tempo) danzano attorno al Tempo. Non hanno gli attributi
propri, ma simboleggiano il tempo che passa in modo spensierato grazie alla musica (il Tempo regge infatti
la lira), in riferimento alla funzione della Sala.
Quale attività conclusiva del percorso, si può proporre agli studenti di riconoscere le divinità più facilmente
identificabili, specificando gli attributi attraverso i quali l’identificazione è stata resa possibile: Dioscuri / Marte /
Nettuno / Minerva / Apollo / le tre Grazie / il Tempo. Infine si può riflettere sul valore della scritta che cinge la
tela in relazione all’uso della Sala.
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Referenze fotografiche:
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Dei ed eroi
Palazzo Reale di Torino
Ideazione del percorso e redazione:
Testi e ricerche scientifiche:
Jennifer Celani, responsabile per i Servizi educativi di Palazzo Reale
Introduzione e paragrafo 4 - Jennifer Celani
paragrafi 1, 2, 3 e 7 - Fabio Uliana, Palazzo Reale
paragrafi 5, 6, 8, 9 e Indovina chi? - Francesco Speranza, Palazzo Reale
Impaginazione e grafica:
Walter Ragnini
Contatti: Palazzo Reale, piazzetta Reale 1 - piazza Castello 10122 Torino - tel 011 4361455
fax 011 4361557 - email [email protected] - sito web: www.ilpalazzorealeditorino.it
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