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Il dibattito post-cartesiano

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Il dibattito post-cartesiano
Il dibattito post-cartesiano
Dopo Cartesio: il razionalismo di
Malebranche e l’empirismo di
Gassendi
Il canone cartesiano
• La filosofia cartesiana diventa nel Seicento il centro di un
grande dibattito filosofico, soppiantando le questioni
della tradizionale filosofia scolastica arroccata nelle
università. La nuova idea di razionalità, fondata sul
metodo della chiarezza e della distinzione, alla ricerca di
una certezza fondata sull’evidenza diviene ciò su cui
ogni filosofo è chiamato a confrontarsi. Per questo di può
dire che la filosofia cartesiana rappresenta un nuovo
canone (cfr. C. Esposito, P. Porro, Filosofia moderna, p.
220) , cioè un nuovo modello, in base al quale riflettere e
discutere.
La lotta per la ragione
• N. Abbagnano sostiene che l’efficacia storica
della filosofia cartesiana è dovuta al fatto di
essere un episodio (forse il primo e più
importante) di una lotta per la ragione che si
pone due obiettivi:
1) Far prevalere la ragione e la sua autonomia in
ogni campo: oltre a quello specificamente
cartesiano della scienza, quello della morale,
della politica e della religione.
2) Chiarire il concetto di ragione
Il concetto della ragione: due
modelli a confronto
•
1)
2)
Su questo tema – data il comune ideale geometrico
di ragione e il comune accordo sul precedente punto 1
- si confrontano due impostazioni:
Una più schiettamente cartesiana e razionalistica che
la intende come forza infallibile e quasi onnipotente,
bastante di per sé a fondare il mondo e a dare conto
del posto dell’uomo in esso (cfr. Spinoza, Leibniz,
Malebranche, tutti legati a Cartesio, pur con sensibili
differenze di vedute).
L’altra concepisce la ragione come una forza finita e
condizionata e intende rivalutare i dati dell’esperienza
sensibile. Tra i suoi sostenitori, in opposizione a
Cartesio, vi sono Gassendi e gli altri libertini eruditi,
Hobbes, Locke e gli altri empiristi.
Occasionalismo
• Uno dei problemi sollevati dalla filosofia di Cartesio era
quello dell’interazione tra res cogitans e res extensa
(quindi tra anima e corpo), dato il presupposto della loro
eterogeneità. La soluzione, proposta dopo la morte del
filosofo di La Haye, ruotò attorno al perno della
distinzione tra causa principale e causa occasionale.
Tutto ciò che nel mondo noi attribuiamo a cause, siano
esse fisiche o spirituali (il movimento di un corpo che ne
causa un altro, oppure la volontà umana che causa un
cambiamento nel mondo fisico) non sono che cause
occasionali, cioè non le vere cause di ciò che
osserviamo, bensì l’occasione che Dio coglie per
intervenire quale unica e autentica causa di tutto ciò
che succede (cfr. Louis e la Forge, Trattato dello spirito
dell’uomo, 1666).
Arnold Geulincx
• All’occasionalismo diede sostegno
imprescindibile il Geulincx che elaborò il
principio secondo cui
l’uomo non fa ciò che non sa come si fa
Dunque di tutto ciò che faccio, ma non so come si
fa, io in realtà sono semplice spettatore.
La mia volontà, per quanto riguarda gli effetti da
me prodotti, o i fenomeni naturali, o anche le
sensazioni e le idee che mi faccio in base alle
sensazioni, non sono altro che il prodotto
dell’agire di Dio, quale unica causa reale, a
fronte delle mille diverse cause occasionali.
Nicolas Malebranche (1638-1715)
• Nella congregazione dell’Oratorio, fondata
da un amico di Cartesio, cardinal Berulle,
egli approfondisce la spiritualità
agostiniana, mentre nel 1664 la lettura del
Trattato sull’uomo di Cartesio lo folgora
letteralmente e lo avvia alla filosofia e alle
scienze. Queste due tradizioni, l’antico
agostinismo e il nuovo cartesianesimo,
sono il duplice binario su cui si instrada la
sua filosofia.
Una ragione cartesiana al servizio
della fede
• “La ragione di cui parlo è infallibile,
immutabile, incorruttibile. Essa deve
essere sempre la padrona. Dio stesso la
segue” (Trattato di morale, 1683). Questa
idea di ragione, dalle chiare matrici
cartesiane, guida la ricerca di
Malebranche, che anzitutto si concentra
sul problema gnoseologico
domandando: “Come avviene la
conoscenza?”
Conoscere è conoscere idee
Secondo M. conoscere è conoscere idee: “Credo che
tutti siano d’accordo sul fatto che noi non vediamo
gli oggetti che sono fuori di noi stessi. Vediamo il
sole, le stelle e un’infinità di altri oggetti che sono
fuori di noi e non è verosimile che l’anima esca dal
corpo e vada, per così dire, a passeggiare nei cieli
per contemplarvi tutti questi oggetti. Essa non li
vede dunque per se sessi e l’oggetto immediato
della nostra mente, quando per esempio vede il
sole, non è il sole ma qualcosa che è intimamente
unito alla nostra anima, ed è ciò che chiamo idea”
(La ricerca della verità, 1674-5).
Qual è l’origine delle idee
Noi conosciamo con la nostra mente qualcosa di mentale: le
idee. Così è risolto il problema del rapporto tra res
cogitans e res extensa: la loro eterogeneità è mantenuta
sotto il profilo ontologico, ma cancellata sotto il profilo
gnoseologico.
Quale origine hanno queste idee. Qui M. sostiene che le idee
non possono
A) essere state prodotte dalle cose esterne, poiché
eterogenee - in quanto reso extensa rispetto all’anima
che è res cogitans - né dalla nostra anima cui non
appartiene il potere di CREARE dal nulla qualcosa;
B) essere innate perché Dio avrebbe dovuto riempire la
nostra mente di tutte le idee possibili, trasgredendo il
fondamentale principio di economia, per il quale Dio
sceglie sempre, nella sua creazione, la via più semplice.
Dio è causa delle nostre idee
Escluse queste due possibilità, non rimane
che una terza: Dio è causa di tutte le nostre
conoscenze. Ciò significa che
DIO È CAUSA DI TUTTO CIÒ CHE
CONOSCIAMO CIRCA NOI E LA REALTÀ
ESTERNA, poiché egli rende a noi
manifeste le idee corrispondenti alle cose
nella sua mente e ci rende capaci di vederle
in LUI.
Dio ci illumina
• In Dio vi sono gli archetipi di tutto ciò che esiste
ed è possibile. Tutto ciò che conosciamo lo
conosciamo guardando questi archetipi che ci
sono stati resi disponibili da Dio stesso il quale,
proprio a tale scopo, ha illuminato la nostra
mente.
• In tale concezione sono perfettamente fusi il
cartesianesimo per cui ogni conoscenza è
conoscenza di idee e l’agostinismo per cui la
conoscenza è effetto di un’illuminazione divina.
Che cosa vediamo di Dio in Dio?
• Dio ci rende manifesto qualcosa di sé, ma la
conoscenza che abbiamo di lui è relativa
esclusivamente a ciò che egli fa vedere
illuminandoci: la sua essenza profonda ci rimane
nascosta.
“L’essenza di Dio è il suo essere assoluto, e gli
spiriti non vedono la sostanza divina presa
assolutamente, ma solo in quanto relativa alle
creature o in quanto partecipabile da esse”
(Ricerca della verità, 1674-5).
Dio è causa di ciò che accade
• Parallelamente a quanto avviene nella
conoscenza, nella realtà Dio è causa di
tutto ciò che vediamo accadere. Non
bisogna scambiare ciò che vediamo come
effetto di una causa esterna: la palla da
biliardo che vedo colpire e mettere in
movimento il pallino non è causa di quel
movimento, è bensì Dio che è causa reale
dell’occasionale movimento successivo
delle due cose che vediamo muoversi.
Dio è causa di ciò che vogliamo
che accada
• Così anche per il movimento del nostro braccio: la
nostra volontà di muoverlo è causa occasionale che
Dio utilizza per “mandare ad effetto” il suo decreto e
far sì che il braccio si muova: “non vi è nessuna
relazione di causalità tra un corpo e uno spirito; che
dico? Non ve n’è alcuna tra uno spirito e un
corpo…”. Ciò che determina il movimento volontario
di un corpo per mezzo della sua anima è dato dal
fatto che Dio ha associato sempre le mozioni
dell’anima ai movimenti del corpo e vuole sempre
che sia così.
Come una mente può conoscere?
La conoscenza di Dio
• Una mente conosce in 4 possibili modi.
1) Conosce le cose in se stesse e non tramite idee. Noi
possiamo conoscere solo Dio in questo modo poiché egli
ci si rivela illuminandoci. Di Dio non abbiamo un’idea
chiara e distinta: ciò che conosciamo di Dio lo
conosciamo direttamente, ma non in modo distinto,
infatti non distinguiamo l’essenza di Dio da ciò che noi
vediamo in lui, perché la prima ci rimane ignota. Di Dio
possiamo inferire con certezza solo l’esistenza in base
alla presenza in noi dell’idea di infinito e di somma
perfezione (cfr. Cartesio e Anselmo).
Come una mente può conoscere?
La conoscenza dei corpi
• Conosciamo invece i corpi tramite le idee che la mente vede
in Dio. In particolare in Dio noi vediamo l’idea di
ESTENSIONE INTELLEGIBILE, cioè l’idea di una materia
che si differenzia infinitamente nelle infinite figure e forme che
può assumere.
Dall’idea generale di estensione noi arriviamo all’idea dei corpi
particolari associandovi la percezione sensibile che
singolarizza quell’idea. Ma anche la sensazione è causata in
noi da Dio come pure la corretta associazione dell’idea chiara
e distinta di estensione con le nozioni confuse della
sensazione a formare l’idea di questo o quel corpo. Dunque
ancora ciò che avviene nei nostri processi conoscitivi è
occasione per l’intervento di Dio che rende effettiva ogni
nostra conoscenza e ne causa chiarezza e distinzione.
Così conosciamo l’ESSENZA dei corpi, cioè che cosa essi sono.
E la loro esistenza?
Come una mente può conoscere?
La conoscenza dell’esistenza della realtà esterna
per fede
Le cose sono conosciute per quello che sono nella
mente di Dio: questo dovrebbe bastare, perché
nella mente divina c’è verità.
Ma come si esce dalla pura dimensione ideale
della conoscenza, verso l’esistenza concreta
della realtà esterna. Qui M. ripete l’argomento
cartesiano: se la realtà esterna non esistesse
Dio ci avrebbe ingannato. Ma Dio ci ha
garantito che gli oggetti della realtà esterna che
noi vediamo “sono stati effettivamente” creati da
lui? In ultima analisi ciò oggetto di fede, perché
è verità rivelata che Dio ha creato il mondo.
Come una mente può conoscere?
La conoscenza di sé per coscienza o sentimento
interiore
• Per quanto riguarda il soggetto, la sua esistenza è
certissima a causa della coscienza o del sentimento che
l’anima ha di se stessa, mentre, inversamente a quanto
succede per i corpi, non conosciamo la nostra essenza,
cioè chi veramente noi siamo. Infatti “il cogito per
Malebranche non è un’idea ma un’esperienza e se
esso è valido per assicurarmi dell’esistenza
dell’anima, non può farmi conoscere la sua natura”
(L. Verga, La filosofia morale di Malebranche, Vita e
Pensiero, Milano, 1964, p. 203): con Agostino,
Malebranche dice quindi che noi siamo fatti enigma a noi
stessi.
Come una mente può conoscere?
La conoscenza degli altri per analogia e
congettura
• Dell’esistenza di corpi esterni non vi è
certezza. Tantomeno vi è certezza
dell’anima che a questi corpi sarebbe
unita. Su tale piano vi è solo una sorta di
analogia possibile: sulla base della mia
certezza di avere un’anima, suppongo che
tale anima sia presente anche negli altri
soggetti che ho di fronte.
Un cartesianesimo religioso
• Nel complesso la filosofia di Malebranche può essere
intesa come un cartesianesimo con finalità religiose.
Si tratta per il nostro filosofo di acquisire alcuni elementi
fondamentali della filosofia cartesiana come
l’impostazione gnoseologica fondata sull’evidenza delle
idee, la distinzione res cogitans-res extensa, il
meccanicismo, per giustificare le verità della fede
cattolica. Sotto questo punto di vista, egli raggiunge con
la sua visione occasionalista lo scopo di esaltare nel
modo più marcato possibile la funzione di Dio nella
vita del mondo e degli uomini. Dunque possiamo
indicare la sua filosofia come una celebrazione
cartesiana del Dio cristiano.
Pierre Gassendi (1592-1655)
• Nel contesto generale dell’egemonia cartesiana si
colloca la voce “alternativa” di Gassendi, prete e
filosofo che, già durante la vita di Cartesio, ha modo di
interloquire criticamente con lui, facendo emergere per
contrasto la propria visione del mondo e in particolare
degli orizzonti della ragione umana. Gassendi si può
inserire in quella corrente seicentesca dei libertini
eruditi che con toni diversi, facendo leva sull’eredità
della filosofia scettica, sul materialismo antico e tardoantico e sul naturalismo rinascimentale, criticava la
tradizione religiosa, filosofica e morale dei suoi tempi.
Tale critica nel caso di Gassendi, non voleva per nulla
intaccare il nucleo della fede cristiana, bensì le tradizioni
filosofiche stoiche e aristotelico-scolastiche con cui era
stata rielaborata la dottrina di fede.
Una ragione limitata
• Per quel che riguarda l’idea gassendiana
della ragione, per il nostro filosofo la
ragione ha dei precisi limiti, che
un’analisi corretta della tradizione scettica
aiuta ad individuare. Una volta compresi
tali limiti, sarà più facile affidarsi a Dio,
atto che solo può permettere di conseguire
la più piena realizzazione della nostra vita.
Filosofia e religione
• Anche Gassendi, dunque, persegue lo stesso
scopo religioso di Malebranche, ma lungo una
via diversissima. Se in Malebranche possiamo
indicare uno dei primi esponenti del
razionalismo cartesiano, in Gassendi possiamo
vedere invece uno dei primi esponenti della
corrente empiristica della filosofia moderna. E’
infatti a partire dai limiti della ragione, legata
indissolubilmente all’esperienza, che emerge
la necessità della fede, come avevano detto,
prima di lui, Charron (1541-1603), e con lui,
l’amico scettico La Mote Le Vayer (1588-1672).
Conoscenza delle essenze e dei
fenomeni (contro Aristotele e Cartesio)
• L’errore di Aristotele e di Cartesio è secondo
Gassendi, quello di aver creduto che la nostra
ragione potesse estendersi al di là
dell’esperienza, cioè al di là dei fenomeni
sensibili e corporei che abbiamo sottomano.
Essi hanno, su tali basi costruito un sapere
deduttivo, che non essendo fondato su una
conoscenza diretta di ciò di cui tratta (cioè le
essenze e le sostanze delle cose), finisce per
essere vuota e inconsistente.
Solo chi ne è autore può conoscere
le essenze
• Noi conosciamo essenzialmente i nostri
artefatti, oppure ciò che possiamo
scomporre o ricomporre come i teoremi
matematici. Tutto il resto ci è precluso.
Riguardo alla natura, noi possiamo
conoscere solo i fenomeni che appaiono
alla nostra sensibilità e non la sostanza
essenziale che vi starebbe dietro.
Il miele
• “Se mi chiedi […] se io so che il miele mi appare
dolce o che degustando io ho esperito la
dolcezza del miele, risponderò che lo so, e in
questo modo posso concedere che si abbia
scienza di questa data cosa. Ma se tuttavia poi
mi chiedi se so che il miele di propria natura, in
se stesso e realmente è dolce, questo allora è
proprio quello che confesso di non sapere”
(Esercitazioni in forma di paradossi contro
Aristotele, 1624).
Contro Cartesio
La critica contro Cartesio (Disquisizione metafisica, ossia dubbi e
repliche contro al metafisica cartesiana, 1644) è importante perché
stabilisce una diversificazione INTERNA alla filosofia moderna, che
avrà notevoli ripercussioni sul suo sviluppo successivo.
• La conoscenza cartesiana è, per Gassendi, deduttiva ed
essenzialistica
• Egli critica in particolare il passaggio cartesiano dal cogito, cioè
da un’operazione di cui si può avere esperienza, alla res
cogitans ossia una sostanza impossibile da conoscersi.
• Inoltre critica l’innatismo dell’idea di Dio:nella nostra mente non vi
sono idee che non provengano dai sensi, e l’idea dell’infinito divino
non è pensabile se non come negazione dell’idea di corpo finito che
noi attingiamo dall’esperienza.
• Dimostrare l’esistenza di Dio non è possibile a priori, bensì solo
attraverso la contemplazione dell’ordine e del fine della natura, da
cui si ricava la necessità di una mente perfetta che lo abbia
concepito.
Ripresa di Epicuro
E’ proprio questo il centro della filosofia
gassendiana.Dopo aver sgombrato il
campo dall’aristotelismo e dal
cartesianesimo, bisogna risalire alle
correnti più genuine della filosofia greca
per vederne, da un lato, la perfetta
conciliabilità con la nuova scienza,
dall’altro la coerenza, una volta apportate
le necessarie correzioni, con le verità della
fede cristiana.
Fisica e gnoseologia epicuree
Di Epicuro Gassendi accoglie anzitutto la fisica atomistica
di derivazione democritea (Syntagma philosophiae
Epicuri, 1649). Il mondo è costituito da aggregati di
atomi, infiniti, indivisibili, impenetrabili, che si distinguono
solo per grandezza e forma e che si muovono nel vuoto.
A determinare il loro movimento è il loro peso (gravitas).
Il movimento dovuto al loro peso avviene però in tutte le
direzioni (è rifiutata la particolare idea epicurea di una
caduta verso il basso e del clinamen) e il loro interagire
si manifesta secondo precise leggi fisiche che la scienza
può indagare. Noi conosciamo il mondo attraverso gli
idola, effluvi emessi dai corpi, che si imprimono sulla
parte corporea della nostra anima.
Cristianizzazione di Epicuro
•
Bisogna però, secondo Gassendi, accogliere
l’epicureismo con sensibilità cristiana, e quindi
emendarlo da tutto quanto non è conciliabile
con la fede. In particolare:
1) Gli atomi che Epicuro considerava ingenerati e
incorruttibili, sono stati creati da Dio.
2) Il movimento degli atomi è stato impresso
originariamente da Dio.
Cristianizzazione di epicuro: il
finalismo
Epicuro spiegava la natura in modo esclusivamente
meccanicistico. Gassendi condivide il meccancismo,
ma non esclude che l’ordine meccanico del mondo sia
tale perché così è stato voluto da Dio e che Dio lo
governa in modo provvidenziale infatti “l’ordine e
l’armonia dell’universo suggeriscono l’idea di Dio, la
quale è quindi il risultato di un ragionamento istintivo che
ci obbliga a supporre che l’universo abbia una causa
intelligente e perfetta” (A. Del Noce, s.v. Gassendi,
Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano, 2006, p.
4572).
Cristianizzazione di Epicuro:
l’anima
• Per Epicuro l’anima era composta, come tutte le
cose, da atomi, e dunque era corporea e
mortale. Per Gassendi, solo una parte di essa,
quella vegetativa e sensitiva possiede tali
caratteristiche. Ma alla parte vegetativa e
sensitiva si associa una parte razionale libera,
autocosciente e immortale, capace di
esercitare nella fede quell’elevazione dell’uomo
verso il sovrasensibile che è ultimo traguardo
della vita umana.
Etica
• Anche in ambito etico Gassendi vuole tornare ad
Epicuro, che secondo lui rappresenta il modo migliore
per depurare il cristianesimo dalle incrostazioni di un
ascetismo di matrice stoica e pertanto non
autenticamente cristiano.
• Fine naturale dell’uomo è la felicità, la quale si
raggiunge attraverso il conseguimento di un piacere
catastematico, cioè connesso non ad un movimento di
ricerca di soddisfazioni sempre più grandi, ma al
godimento “stabile” di ciò che si può possedere senza
timore di perdere. Tale voluptas, consistente nell’
“assenza di dolore” è di per sé un bene.
Tranquillità e movimento
• “Tuttavia Gassendi, (nel suo Syntagma philosophicum,
postumo 1658, n.d.r.) va anche oltre l’edonismo
eminentemente statico di Epicuro sostenendo che il
piacere vero si colloca in una via di mezzo tra il piacere
statico e quello violento, assumendo la caratteristica di
un «placido movimento da un bene già acquisito
verso un altro da ottenere » che si configura «come
l’acqua di un fiume che scorre placido e senza
rumore.» Restiamo qui sostanzialmente nella sfera
dell’etica edonistica epicurea, pur rivedendone i termini
in senso più dinamico” ( C. Tamagnone, L’illuminismo e
la rinascita dell’ateismo filosofico, Clinamen, 2008 in
http://gassendi.bravehost.com/gassendi.htm )
Una felicità materiale-spirituale
• Vera felicità rimane quindi quiete e tranquillità
dell’animo, conseguibile attraverso la virtù,
ossia “il controllo dei diversi tipi di desiderio che
si formano nel cuore” (ibidem). Tutto ciò ha inizio
in un contesto fisico-materiale e
spontaneamente sbocca nello spirituale, verso
l’idea di una felicità liberata dall’ossessione
ascetistica per il peccato, alla quale
sovrintende “un Dio la cui bontà esclude ogni
tratto oscuro e pauroso” (Del Noce, cit.).
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