francesco petrarca: il rapporto con le corti e la politica
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francesco petrarca: il rapporto con le corti e la politica
INTELLETTUALI E CITTA’ LA CITTA’ HA BISOGNO DI CULTURA A partire dall’anno Mille nell’Italia centro-settentrionale si assiste alla formazione dei comuni, ovvero città-stato autonome sul piano politico ed economico, che si distaccano dal potere dell’Impero tedesco, ma sono molte volte in lotta tra di loro. Tale esigenza di autonomia era dovuta alla ripresa economica che aveva comportato la nascita di una nuova classe sociale, la borghesia. Quest’ultima ambiva al potere politico all’interno del comune e ciò faceva nascere un bisogno crescente di cultura, sia per le esigenze pratiche di questa classe sociale (conoscere le leggi, saper leggere e far di conto…), sia per l’egemonia politica cui essa aspirava, in quanto era necessario saper gestire l’uso della parola per affermare le proprie idee e difendere i propri diritti. IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE È all’interno di questo scenario politico che si afferma la figura dell’intellettuale-cittadino. Egli partecipa alla vita politica, vive con passione le tensioni e i conflitti all’interno della sua città e nello stesso tempo ha bisogno di affermarsi e di distinguersi dalle masse proprio grazie al suo sapere: inserisce se stesso all’interno di una élite di persone colte, che danno lustro al comune, il quale, a sua volta, ad esse fa riferimento per compiti amministrativi e politici. IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE L’intellettuale può essere semplicemente un chierico che, attraverso le omelie in volgare durante le celebrazioni liturgiche, trasmette una cultura religiosa al popolo di ogni ceto sociale, ma può essere anche un laico, un clericus vagans ad esempio, che ha rinunciato per qualche motivo alla vita monastica, ma possiede una buona cultura e così vaga di città in città intrattenendo la popolazione con prediche, discorsi, racconti di ogni genere: giullari e cantastorie sono figure d’intellettuali che esercitano la loro arte nelle piazze comunali, affrontando temi profani e rivolgendosi in volgare ad un pubblico anch’esso laico. Un ruolo importante lo rivestono anche gli artisti che abbelliscono i luoghi di culto con le loro opere pittoriche e scultoree (Biblia pauperum), attraverso cui un pubblico per lo più analfabeta è in grado di conoscere le verità di fede. IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE Gli intellettuali possono anche essere semplici borghesi che hanno imparato a leggere e a scrivere per le loro necessità, ma che non conoscono il latino, come mercanti e bottegai, oppure sono uomini di legge come giudici e notai, dotati di una solida preparazione giuridica, ma anche retorica; in altri casi esercitano professioni pubbliche, come quella di insegnante o precettore. La loro produzione è destinata per lo più a trasmettere un sapere pratico, indispensabile alla vita comunale, ma mira anche ad un fine edonistico, quello di intrattenere e dilettare il pubblico. I GENERI LETTERARI I generi letterari più diffusi sono testi specifici, di carattere didattico o enciclopedico, satire, novelle che trasmettono esempi edificanti ai cittadini, poemi cortesi-cavallereschi o liriche amorose, testi politici da cui si desumono la passione e l’attaccamento alle vicende della propria città. I CENTRI DI PRODUZIONE E DI DIFFUSIONE DELLA CULTURA I luoghi di produzione della cultura all’interno del comune sono molteplici e in essi l’intellettuale svolge un ruolo fondamentale. La città è il luogo delle occasioni, del dibattito, dello scambio di idee, un ambiente aperto e stimolante. Un centro di cultura sono le “copisterie”, dove vengono trascritti a mano i testi, destinati successivamente alle “biblioteche” private o pubbliche, prevalentemente di proprietà della Chiesa. Quest’ultima pertanto conserva un ruolo di primaria importanza nella diffusione e nella produzione della cultura. I CENTRI DI PRODUZIONE E DI DIFFUSIONE DELLA CULTURA Con la nascita di intellettuali laici nel nuovo contesto urbano, si creano tuttavia anche altri centri di cultura, come le scuole e soprattutto le università: si affermano in questo periodo non solo scuole private, ma anche pubbliche, aperte a tutti coloro che hanno la possibilità di frequentarle; le università, in particolare, nascono come libere associazioni tra studenti e docenti, sorte intorno alla figura di intellettuali prestigiosi e rappresentano il massimo grado di formazione culturale. Essendo il comune una realtà aperta e dinamica, anche la piazza diventa centro di cultura, preposta non solo a scambi di natura commerciale, ma anche di idee e di informazioni, ai dibattiti e, soprattutto, luogo in cui “giullari” e “cantastorie” possono esercitare la loro arte. I GRANDI E LA CITTA’ Nella realtà del comune l’Italia può vantare le “tre corone”, tre dei più grandi scrittori del nostro panorama letterario: Dante, Petrarca e Boccaccio. Non solo essi si sono formati nel contesto cittadino, da questo hanno ricevuto stimoli ed esperienze umane e intellettuali importanti, ma contemporaneamente alla città hanno offerto cultura, ciascuno secondo il proprio contributo, personale ed originalissimo, che ha fatto compiere un balzo decisivo al nostro sapere e alla nostra civiltà. I GRANDI E LA CITTA’ Il loro rapporto con la città è stato ovviamente diverso, perché diverso è stato il contesto in cui sono vissuti; tutti e tre inoltre hanno fatto esperienza della città non solo in quanto comune, ma anche come spazio della corte nascente, di cui però hanno avuto una maggiore o minore consapevolezza. DANTE ALIGHIERI OVVERO L’INDISSOLUBILE LEGAME CON FIRENZE DANTE ALIGHIERI OVVERO L’INDISSOLUBILE LEGAME CON FIRENZE La città e la sua politica erano per l’intellettuale la base e la sua primaria fonte di ispirazione. Egli non era soltanto un osservatore critico e uno spettatore passivo, ma parte integrante della sua città. Questo fu il legame che unì Firenze e il suo più illustre concittadino: Dante Alighieri. Il poeta, nato nel 1265, fece convergere gran parte del suo interesse verso la città, impegnandosi su più fronti nella complessa situazione dell’epoca: se fuori di dubbio senza Firenze Dante non sarebbe Dante, senza di lui neppure Firenze potrebbe essere la stessa. FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300: IL CONTESTO STORICO FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300: IL CONTESTO STORICO La Firenze di Dante era un comune dei più potenti, ma anche dei più agitati. La presenza di banche numerose e molto attive la rendeva ricca ed ambita. La sua economia era organizzata secondo la suddivisione in Arti, associazioni di mestiere che tutelavano gli interessi della borghesia cittadina e ne garantivano la rappresentanza nel parlamento. Ma la vita comunale, anche se ben organizzata e fiorente sul piano economico, era animata da forti tensioni e da continue rivalità. Erano quotidiani gli scontri tra le varie famiglie nobili (i magnati), tra nobili e borghesi e tra popolo grasso e popolo minuto, ulteriori stratificazioni della borghesia. FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300: IL CONTESTO STORICO In più Firenze, a causa delle sue notevoli risorse economiche, era anche vittima di attacchi esterni e di mire espansionistiche, che vedevano spesso la Chiesa come protagonista. A ciò si aggiungeva la lotta fra i due schieramenti politici più diffusi dell’epoca: i guelfi e i ghibellini, sostenitori rispettivamente del Papa e dell’imperatore. A Firenze la tensione politica si complicava ulteriormente a causa della divisione dei guelfi in Bianchi e Neri. I primi sostenevano il potere del pontefice solo sul piano spirituale ed erano capeggiati dalla potente famiglia dei Cerchi, mentre i secondi, capeggiati dai Donati, sostenevano sia il potere spirituale che quello politico del Papa. FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300: IL CONTESTO STORICO Tra i Bianchi emergevano Dante ed un altro concittadino illustre, suo amico personale: Guido Cavalcanti. Le due fazioni governarono Firenze, alternandosi, fra esili e problematici ritorni. Nel 1301 il Papa Bonifacio VIII, alleandosi con i Neri e con Carlo di Valois, rovesciò con forza il governo dei Bianchi e condannò Dante, che ricopriva allora la carica di priore, all’esilio e alla confisca dei beni. L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE Il cammino di Dante, contrassegnato dall’amore per il sapere e per la sua città, difficilmente avrebbe imboccato la strada della politica. Nel 1293 infatti erano stati emanati a Firenze gli “Ordinamenti di giustizia” di Giano della Bella che escludevano la nobiltà dalle cariche pubbliche, in quanto richiedevano che si fosse iscritti ad un’Arte, ovvero ad una delle associazioni riservate alla borghesia. Allora Dante, di origini presumibilmente nobili, entrò a far parte dell’Arte dei medici e degli speziali. Da questo momento cominciò la sua diretta esperienza politica, che lo portò a ricoprire cariche importanti, ma lo condusse anche alla traumatica esperienza dell’esilio. Dante diventò priore nel 1300 in una situazione critica per Firenze. L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE Il suo amore per la città, il senso profondo della giustizia e la ricerca incessante della pace tra i concittadini, fece si che si adoperasse con ogni mezzo per garantire l’ordine e la serenità. Mandò in esilio anche il suo amico e compagno di partito Guido Cavalcanti, poiché aveva attentato alla vita di Corso Donati, capo della fazione avversa. Nel 1301 cominciò forse il periodo più buio della sua vita: con i guelfi neri al potere, sostenuti dal papa Bonifacio VIII e da Carlo di Valois, fu mandato in esilio e fu costretto a cercare rifugio ed appoggio nelle principali corti d’Italia. Tuttavia, seppure testimone di questa realtà emergente, Dante non era ancora consapevole della svolta decisiva e senza ritorno che la nascita delle Signorie avrebbe costituito per la storia d’Italia ed era completamente immerso nell’ottica della realtà comunale e dei particolarismi cittadini, che egli pensava ancora di superare inserendoli nel contesto di una monarchia universale, dal potere fortemente accentrato. L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE Nelle Epistole e nel De Monarchia troviamo dunque i suoi accorati appelli affinché si favorisse la discesa in Italia di Arrigo VII, l’imperatore tedesco, che nel 1310 avrebbe potuto trasformare in realtà il suo sogno universalistico, ma il progetto fallì tre anni dopo. Anche la possibilità di tornare a Firenze, offertagli dai concittadini a condizione di pubbliche scuse, non ebbe seguito. L’orgoglio di Dante, exul immeritus, prevalse sul desiderio del ritorno, costringendolo quindi a trascorrere il resto della vita da ospite illustre nelle varie corti d’Italia, ma sempre con la potente nostalgia dell’“ovile”. Dante morì nel 1321 presso i Da Polenta a Ravenna, ma Firenze fu condannata a dolersi in eterno della lontananza del proprio figlio più celebre, se è vero che in Santa Croce edificò per lui una tomba che, pur vuota, testimonia perennemente l’unione indissolubile tra il sommo poeta e la città natale. LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA Il tema politico è dominante in tutta la produzione di Dante e in qualunque prospettiva esso venga posto, il poeta finisce sempre per tornare a discutere di Firenze. Alla politica egli dedica un intero trattato: il De monarchia. Nell’opera, scritta in latino nel 1310, in occasione della discesa di Arrigo VII, è contenuto tutto il suo pensiero. Egli prende in considerazione la situazione dell’Italia del 1300, dilaniata dai continui contrasti interni ai comuni e dalle guerre tra le signorie. LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA Dante sostiene che la causa di tutto ciò sia la mancanza di un potere accentrato e universale, l’unico che possa eliminare i particolarismi cittadini, causa prima di lutti e ingiustizie; la discesa di Arrigo VII gli appare così come un disegno provvidenziale, un’occasione da non perdere ed è nell’urgenza di questo evento che scrive di getto il trattato e alcune lettere appassionate, rivolte ai signori d’Italia, ad Arrigo e agli “scellerati” fiorentini, affinché non ostacolino, ma favoriscano, la discesa dell’imperatore tedesco, nell’interesse comune e nel rispetto della volontà divina. LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA Ma il binomio indissolubile tra il problema politico e Firenze raggiunge il vertice poetico nella Commedia, a cui tra l’altro egli affida segretamente il compito di aprirgli nuovamente le porte della sua città. Già nel primo canto dell’Inferno il poeta parla tra le righe di politica. Le tre fiere che incontra all’inizio del suo cammino, quando tenta di salire il colle, e cioè la lonza, il leone e la lupa, oltre a simboleggiare tre peccati capitali, possono rispettivamente essere l’allegoria di Firenze, attraente ed ambita come la lonza, ma fonte di perdizione, della casa reale di Francia, che aspirava superbamente a primeggiare in Europa e della curia romana, sempre insoddisfatta del proprio potere e avida fino alla rovina di sé e dell’intero universo cristiano. LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA Dante profetizza anche un simbolico veltro che ucciderà la lupa e che potrebbe essere, se interpretato in chiave morale, o Dante stesso (missionario in quanto poeta prescelto da Dio) o il papa Benedetto XI, successore di Bonifacio VIII, mentre in chiave politica o il già citato Arrigo VII, oppure Cangrande della Scala, suo protettore ed estimatore. Anche nel canto sesto si torna a parlare di Firenze, nel girone dei golosi, quando il poeta incontra Ciacco, suo concittadino. Questo dannato, oltre a predire gli avvicendamenti politici al governo della città, la dipinge come luogo moralmente corrotto, a causa della superbia, dell’invidia e dell’avarizia che dividono gli animi; di uomini onesti ce ne sono molto pochi e non vengono ascoltati. LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA Ma il dibattito politico raggiunge il culmine nel decimo canto, tra le tombe infuocate degli eretici. Qui Dante incontra il capo dei ghibellini di Firenze, Farinata degli Uberti. I due sono protagonisti di un’appassionata discussione su meriti e difetti dei rispettivi partiti, accesa al punto da cancellare qualunque altro sentimento umano; quando però arrivano a toccare il delicato tasto dell’amore per la patria, i due avversari, entrambi esuli per motivi politici, si sciolgono, mostrandosi leali e fedeli al punto da anteporre al proprio interesse la salvezza della città. FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL MONDO FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL MONDO Francesco Petrarca nacque ad Arezzo, il 20 luglio 1304 e morì la notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374. Per tutta la sua vita fu diretto spettatore della cattività avignonese, lo spostamento della sede papale da Roma ad Avignone. Interessi politici ed economici, seguiti al “braccio di ferro” tra Filippo IV il Bello, re di Francia, e papa Bonifacio VIII, spinsero nel 1309 il papa Clemente V, fedelissimo al sovrano francese (e non intenzionato a lasciarsi coinvolgere nelle innumerevoli lotte presenti in Italia), a trasferirsi in Provenza. Questo evento durò circa settant’anni ed espose la Chiesa a critiche severe, favorendo il degrado politico e morale di Roma e dell’Italia, nonché il disorientamento della cristianità tutta. Ad Avignone, e precisamente alla corte papale, Petrarca osserva con occhio attento i mutamenti storici, se ne fa portavoce e ne critica contemporaneamente i rischi e le storture. FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL MONDO Ormai però egli non è più l’intellettuale cittadino che partecipa attivamente alla vita politica del suo Comune, come Dante o, addirittura, come Boccaccio per una parte della sua vita: Petrarca guarda con maggior distacco allo svolgersi dei fatti; al contrario di Dante è cosciente che il sogno di un impero universale è ormai tramontato per sempre sotto i colpi delle monarchie nazionali e, per quanto riguarda l’Italia delle Signorie; non rimpiange quel sogno, anche se non rinuncia a dare giudizi e consigli, ma oramai riflette tutte le caratteristiche tipiche di un intellettuale cortigiano, non però legato ad un preciso ambiente cittadino, ma cosmopolita. FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA POLITICA Il poeta proveniva da una famiglia benestante: il padre, Ser Petracco, svolgeva l’attività di notaio a Firenze, poi, in cerca di stabilità economica, si trasferì presso la corte papale ad Avignone. Subito il giovane Petrarca entrò a contatto con una realtà nuova e più aperta: l’arrivo di scrittori e dotti provenienti da tutta Europa presso la curia papale favoriva il confronto e il dibattito, unito alla conoscenza che si accumulava nelle numerose biblioteche private e al fiorente mercato letterario. Questi elementi portarono il poeta lontano dalla scuola e dalle università, più orientato sull’interscambio personale all’interno di circoli selezionati e sul contatto diretto con i libri. FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA POLITICA Sotto la spinta influente del padre, Petrarca intraprese gli studi giuridici che lo portarono prima a Montpellier e poi a Bologna; infine, capita la propria “vena letteraria”, egli si dedicò completamente alla ricerca di testi classici, che lo impegnò per tutta la vita. Infatti, nel corso degli anni vagò per le diverse corti d’Italia, come Milano, dove lavorò per i Visconti, Venezia, Padova, Parma. Per questo motivo il poeta rappresentò una nuova figura d’intellettuale, non più legato ad una sola città. FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA POLITICA Nelle corti con cui venne a contatto, non ebbe rapporti istituzionali con il signore, ma restò più che altro un ospite illustre, il quale aveva cara la sua libertà e la sua indipendenza, conquistate anche attraverso la decisione di farsi chierico, prendendo i voti minori che non lo obbligavano a prendersi cura delle anime. Questo gli permetteva di beneficiare delle rendite ecclesiastiche, senza problemi di natura economica e gli dava la possibilità di dedicarsi pienamente al suo amatissimo otium letterarium. FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA POLITICA L’esercizio letterario fu comunque per lui uno strumento per fare politica; infatti, anche se non si occupò direttamente di essa, come Dante, scrisse delle denunce destinate soprattutto alla Chiesa, come testimoniano i sonetti antiavignonesi contenuti nel Canzoniere e la raccolta di lettere Sine nomine, in cui critica aspramente la corruzione della Curia presso la quale era stato ospite per molti anni. FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA POLITICA Altro impegno politico molto a cuore al poeta, fu l’approvazione data a Cola di Rienzo, incaricato dal Papa nel 1347 di ristabilire la pace tra le nobili e potenti famiglie romane e l’ordine in città, compromesso dallo spostamento della Curia. Il poeta ispirato dagli stessi ideali e dallo stesso culto della Roma classica, inviò varie lettere a Cola, esortandolo a perseverare nel suo intento. Si mise anche in viaggio per raggiungere Roma e per porsi al suo fianco, ma la notizia della trasformazione in tirannide del suo governo, lo portò a desistere dai suoi propositi. FRANCESCO PETRARCA: L’AMORE PER L’ITALIA Pur essendo vissuto molti anni in Francia, Petrarca provò un amore costante per quell’Italia che gli diede i natali e la cultura; infatti, dedicò importanti considerazioni alla sua patria nella famosa lettera (contenuta nelle Familiares) indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, meglio nota come “L’ascesa al monte Ventoso” in cui confessa di provare nostalgia per quella nazione che lo ha ripagato con la massima onorificenza data allora ai poeti: l’incoronazione avvenuta in Campidoglio nel 1341. L’Italia di cui parla il Petrarca non è una entità politica, che allora sarebbe stato impensabile, ma una entità culturale, la culla di quella classicità alla quale egli fa costante riferimento. E’ pertanto l’universalità del sapere il basamento su cui poggia e che permette il cosmopolitismo del Petrarca. FRANCESCO PETRARCA: CITTA’ E CAMPAGNA Lo spirito irrequieto del poeta e la sua ansia di viaggiare si contrappongono tuttavia alla necessità di chiudersi nella propria interiorità. I suoi frequenti ritiri in Valchiusa, negli anni successivi alla sua crisi spirituale, esaltano il bisogno della solitudine, consumata al cospetto della natura e delle sue bellezze, nelle conversazioni con pochi amici e nella costante lettura dei suoi libri. Nel sonetto Solo e pensoso i più deserti campi (contenuto nel Canzoniere) la natura diventa “schermo” (protezione), nella quale il poeta si rifugia per allontanarsi dalla gente e quindi dal clamore e dalla confusione della città, luogo di corruzione morale e politica; sceglie così la campagna, idealizzata come locus amoenus, con cui stabilisce un rapporto intimo e confidenziale. BOCCACCIO: CITTA’ REALE E CITTA’ IDEALE BOCCACCIO: CITTA’ REALE E CITTA’ IDEALE Boccaccio vive un doppio rapporto con la realtà cittadina, in relazione ai due momenti fondamentali della sua vita: la permanenza a Napoli e il ritorno a Firenze. La città, dunque, vissuta come corte, in quanto coincide con la stagione della giovinezza e della spensieratezza, viene ad essere per lo scrittore una idealità, sempre rimpianta e vagheggiata nelle sue opere, mentre la città comunale, in quanto coincide con la maturità, le avversità della vita e l’assunzione delle proprie responsabilità, si delinea come realtà effettiva, piena di rischi, ma anche di occasioni, dove l’uomo mette alla prova le sue capacità. BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA Nato nel 1313 a Certaldo, Boccaccio vive tutta la sua vita in un contesto cittadino; compie infatti i suoi studi a Firenze e nel 1327, ancora adolescente, si trasferisce a Napoli, in quanto il padre era socio della prestigiosa banca dei Bardi, che nel capoluogo campano aveva una sua filiale. Qui entra in contatto con la corte angioina che egli frequenta come ospite, continuando comunque a vivere la realtà concreta della società borghese da cui proviene. L’ambiente cortigiano è molto stimolante sul piano culturale e gli trasmette valori (liberalità, magnanimità, misura) e stili di vita (culto della raffinatezza e delle belle maniere). Resta però pur sempre un mondo ideale con cui Boccaccio non si identifica mai del tutto. BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA Quando poi nel 1340 egli è costretto a tornare a Firenze a causa del fallimento della banca dei Bardi, sperimenta un ambiente dove la liberalità della corte lascia il posto al culto del denaro, all’invidia, alla superbia, all’avarizia. Patisce le ristrettezze economiche, deve cercare appoggio presso vari signori, assumere incarichi per il Comune e nel 1360 prova perfino l’amarezza di essere sospettato d’aver congiurato contro le istituzioni cittadine e viene sollevato dalle missioni affidategli. La fortuna, che tanta parte avrà nel Decameron, mette così alla prova il suo valore e la sua tenacia. BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA Due città, due ambienti, due modi diversi di vivere, eppure questo dualismo è lui stesso, è il tratto qualificante della sua esperienza e Boccaccio cerca di mettere d’accordo questi due mondi apparentemente così distanti; lo fa conciliandone i valori di fondo: l’ideale cortese e la masserizia (tipica di una società mercantile). Ammira infatti la liberalità , la magnanimità e la misura che contraddistinguono la società di corte, ma si pone un problema fino ad ora ignorato: la necessità di basi materiali per l’attuazione di quegli stessi valori. Egli infatti conosce bene l’incidenza del denaro nella vita reale. L’unica soluzione è quella di accordare la “generosità disinteressata nel donare” con l’oculata amministrazione dei propri beni, senza i quali l’esercizio della liberalità risulta impossibile. BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA Federigo degli Alberghi, protagonista di una famosa novella del Decameron (V, 9), è il perfetto rappresentante di questa fusione degli ideali cortesi e dei valori della borghesia urbana. Innamorato “di una gentil donna”, Monna Giovanna, Federigo sperpera per lei tutto il proprio denaro, ma proprio quando si trova di fronte all’occasione di onorarla, non può farlo, perché, portato all’estremo paradosso il suo ideale cortese, è rimasto povero. La novella appartiene però alla giornata che ha per tema le storie d’amore a lieto fine e si conclude con il matrimonio di Giovanna e Federigo (divenuto grazie a lei “miglior massaio”), che simboleggia l’avvenuta fusione dei due ideali. BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA Come Federigo, anche Cisti fornaio (Decameron, VI, 2) incarna la possibilità di conciliare questi diversi valori, anche se vive questo evento nel modo inverso rispetto a quello del nobile fiorentino: Cisti è infatti un borghese che però possiede le belle maniere e le virtù cortesi. Lo dimostra nel voler offrire a Messer Geri Spina, ambasciatore del Papa a Firenze, il suo miglior vino. Il fornaio è rispettoso nei confronti del nobile, perché consapevole della differenza di classe sociale e così non lo invita direttamente, ma con uno stratagemma spinge lui a farlo. Questa novella evidenzia un altro aspetto dello stesso problema: la conciliazione di questi due mondi può avvenire solo su un piano ideale, ma non nella realtà effettiva dove classi superiori e classi subalterne non possono fondersi, in quanto la società rimane anche per Boccaccio sostanzialmente statica, com’è nella mentalità medievale alla quale lo scrittore è ancora profondamente ancorato. IMPORTANZA DELLA CITTA’ NEL DECAMERON Fortemente legata alla realtà medievale è anche l’importanza che ha per Boccaccio la città; la corte è ancora e solo il luogo dell’idealizzazione e della perfezione, mentre l’ambiente cittadino comunale-mercantile è il vero protagonista del Decameron; lo dimostra il fatto che nella “cornice” l’allegra brigata di giovani si rifugia in campagna e in una bella villa signorile vive secondo lo stile della corte, mentre Firenze è battuta dalla peste che miete vittime e distrugge la socialità. La città ideale è isolata nel locus amoenus della campagna, mentre la città reale vive la drammaticità della storia. IMPORTANZA DELLA CITTA’ NEL DECAMERON Quest’ultima è però il vero centro dell’interesse, perché questa è per il Boccaccio il luogo della vita effettiva, dove si svolgono gli scambi, gli incontri, le occasioni positive o negative dispensate dalla fortuna; per Andreuccio da Perugia, altro personaggio famoso del Decameron (II, 5) la “grande” città di Napoli diventa il luogo della formazione, mentre la “piccola” Perugia è solo il luogo di partenza e quello in cui si fa ritorno dopo aver imparato dai propri errori, in un processo lungo e accidentato. Egli è infatti inesperto ed imprudente al suo arrivo, ma l’industria lo porta a terminare con successo il viaggio, nonostante gli ostacoli incontrati lungo il cammino. All’interno della città è poi la piazza, come punto di ritrovo e di confronto, il simbolo prevalente della socialità che assume in Boccaccio un’importanza fondamentale. L’INTELLETTUALE E LA CORTE L’INTELLETTUALE E LA CORTE Nel '400 e nel '500 il centro per eccellenza di produzione e diffusione della cultura è la corte: siamo ancora in città, ma le istituzioni repubblicane hanno lasciato il posto ad un potere accentrato nelle mani del signore. La partecipazione dei cittadini alla vita politica, il dibattito, il confronto che avevano caratterizzato la vita comunale si sono spenti e ogni decisione, ogni iniziativa, ogni forma di cultura prendono vita per volere e per necessità del signore. L’INTELLETTUALE E LA CORTE Intellettuali, artisti, amministratori, consiglieri diventano funzionari della corte, in essa trovano protezione e lavoro e il signore a sua volta si fa mecenate, si compiace di circondarsi di nomi prestigiosi che rendono illustri lui e le sue imprese, conferendogli addirittura prestigio politico. Gli intellettuali con le loro opere hanno il compito di esprimere in forma compiuta e perfetta gli ideali dell’élite colta che si raccoglie nella corte. La città a sua volta si arricchisce, grazie al mecenatismo del signore, di opere d’arte straordinarie, che la rendono unica nella sua bellezza e che testimoniano nei secoli il fervore culturale di un’epoca che ha segnato come non mai la storia della nostra civiltà. LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE Il pubblico a cui lo scrittore si rivolge è composto principalmente da cortigiani, quindi la cultura di corte è a circolo chiuso, in quanto prodotta da un intellettuale per altri intellettuali. Questi, di conseguenza, tendono ad isolarsi dalla realtà e a disprezzare il mondo esterno e ciò determina il loro progressivo allontanamento dalla società effettiva e la distanza dei valori che essi elaborano da quelli delle masse. LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE Quella di corte si presenta come una società perfetta e alquanto idealizzata: infatti è questa la tendenza prevalente del classicismo del tempo. Un esempio di ciò è rappresentato dalla letteratura di carattere comico-parodico nella quale si cimenta anche una delle voci più significative nel panorama storico-artistico del secondo Quattrocento: Lorenzo de’Medici, “ago della bilancia” nell’Italia dell’epoca, grande mecenate e poeta egli stesso . Scrive tra l’altro la Nencia da Barberino che riproduce le lodi cantate da un contadino alla pastorella di cui è innamorato, con l’intento di ridicolizzare la convenzionale figura del pastore innamorato e quindi la realtà popolare. Ciò è presente anche nei Beoni, in cui il Magnifico ritrae alcuni famosi bevitori della Firenze contemporanea. Il tutto è espresso con gusto parodico e grottesco. LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE Alla corte di Lorenzo passano intellettuali come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Luigi Pulci ed anche Michelangelo Buonarroti e Leonardo da Vinci; lavorano per lui pittori come Antonio Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, e poi scultori, come Andrea del Verrocchio e architetti, come Giuliano da Sangallo. A testimonianza della magnificenza e della centralità della cultura toscana, Lorenzo il Magnifico, con la collaborazione di Angelo Poliziano, produce la Raccolta Aragonese, un insieme di liriche nate nell’area toscana dal '200 in avanti, inviata apparentemente come dono, ma in realtà con un fine politico, agli Aragonesi dominatori dell’Italia meridionale. LA CULTURA DI CORTE Nella cultura umanistico-rinascimentale trionfa una concezione edonistica: si ricercano infatti l’eleganza e la raffinatezza nei costumi e le belle forme del vivere. A tal fine lo stesso Poliziano nella ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino tende a suscitare piacere in chi legge, tramite la descrizione della primavera, della donna e del colore dei fiori: verde, rosso, azzurro e giallo sono quelli evocati, gli stessi usati di preferenza dai pittori dell’epoca. Ciò che inserisce inequivocabilmente il testo nella cultura di corte è l’esaltazione del giardino, simbolo di piacere, di bellezza e di svago, ma allo stesso tempo di chiusura. Infatti esso è emblema dell’élite di cui si è discusso ed è anche metafora della vita, nella quale è bene non farsi sfuggire nessuna delle occasioni di gioia e di diletto, visto che il tempo inesorabilmente se ne va. LA CULTURA DI CORTE La cultura nella corte ha anche un fine encomiastico: ciò che gli intellettuali cercano di fare è anche celebrare la grandezza del signore, per renderla visibile (e temibile) all’esterno. Le opere commissionate all’artista esaltano le imprese, specie quelle militari, la famiglia, le gesta del signore, sia agli occhi dei sudditi per ottenerne il consenso e l’obbedienza, sia agli occhi degli altri potenti a fini politici. Tale aspetto è chiaro nel poemetto Stanze per la giostra del magnifico Giuliano scritto da Angelo Poliziano il quale intendeva cantare la vittoria di Giuliano de Medici, fratello di Lorenzo, in una giostra d’armi. AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE A corte l’intellettuale può dedicarsi a tempo pieno alla propria arte, senza preoccupazioni di natura economica. Ciò che fa gli può dare fama e prestigio ed anche ricchezza, tuttavia il suo rapporto con il signore può anche essere molto ambiguo. La dipendenza economica può costituire un’arma a doppio taglio, perché da un lato lo libera da preoccupazioni pratiche, ma dall’altro lo vincola e lo rende vulnerabile. Inoltre a lui il signore spesso affida compiti di carattere amministrativo, incarichi diplomatici o altro e anche questo finisce poi per limitare il suo otium e per distrarlo dalla sua prevalente occupazione. AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE Infine, proprio in quanto la cultura di corte ha un fine encomiastico, l’intellettuale non può permettersi la piena libertà di pensiero e di espressione, ma deve stare attento a non offendere chi lo protegge e a non urtarne la suscettibilità. Per questo spesso troviamo opere convenzionali, che ricalcano le orme già tracciate da altri sia sul piano stilistico che contenutistico e si alienano ogni forma di originalità. AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE A ciò si deve aggiungere che, se fino alla prima metà del Cinquecento l’intellettuale ha ancora un margine di libertà dentro la corte, a partire dalla seconda metà si trova ridotte molte delle sue prerogative, per effetto di eventi storici di rilievo, quali la crisi economica che si farà sentire in Italia come nel resto dell’Europa e che convincerà principi e sovrani a ridurre le spese (la cultura ne risentirà per prima), e l’avvento della Controriforma che imporrà un severo controllo su ogni espressione culturale e renderà gli intellettuali nelle corti ancor meno liberi di esprimersi e ancora più cauti nella elaborazione delle loro opere. AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE Se un Ariosto nel primo Cinquecento poteva ancora rivolgersi agli Estensi suoi protettori con un tono ironico e distaccato e stabilire con fermezza quali fossero i limiti dei suoi servigi entro la corte (ciò gli era consentito anche dal fatto che egli, essendo chierico, aveva delle rendite personali che non lo rendevano del tutto dipendente sul piano economico), un grande poeta come Torquato Tasso fu addirittura ossessionato dall’idea che il suo capolavoro, La Gerusalemme liberata, non fosse conforme alla morale controriformistica e alle regole compositive dettate dalla Poetica di Aristotele. Così, da nome illustre egli finì per diventare un ospite scomodo per la corte degli Estensi che esercitavano il loro potere come “gonfalonieri della Chiesa” e non potevano permettersi di alloggiare e proteggere un sospettato di eresia. Da qui il triste peregrinare del poeta che dovette vivere la sconfortante esperienza del carcere e dell’ospedale psichiatrico, finché non suscitò la pietà del Papa Clemente VIII che lo sostenne nell’ultimo, tristissimo periodo della sua vita.