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REVOCATORIA FALLIMENTARE DEI PAGAMENTI DEL TERZO E
REVOCATORIA FALLIMENTARE DEI PAGAMENTI DEL TERZO E DELEGAZIONE DI PAGAMENTO (Avv. Pietro Gobio Casali – Mantova E-mail: [email protected]) SOMMARIO: 1) Revocabilità dei pagamenti eseguiti dal terzo; 2) Pagamento con denaro del fallito e pagamento con mezzi propri; 3) La delegazione di pagamento. 1) L’azione revocatoria fallimentare permette, insieme a quella ordinaria, la ricostruzione del patrimonio del fallito allo scopo di realizzare la c.d. par condicio creditorum. La legge (R.D. 16.3.1942 n. 267, art. 67) consente, infatti, al curatore di ottenere la dichiarazione di inefficacia di determinati atti compiuti dall’imprenditore poco prima della dichiarazione di fallimento – allorché costui si trovava già, presumibilmente, in uno stato di crisi - e ciò a vantaggio della massa dei creditori. Appare dunque fisiologico che la revocatoria sia volta a paralizzare gli atti pregiudizievoli compiuti direttamente dal fallito; tanto è vero che l’art. 66 L.F., riguardante la revocatoria ordinaria esercitata nel fallimento, parla di “atti compiuti dal debitore”. A prima vista potrebbero quindi sembrare irrevocabili, ovvero non rientranti nella logica del sistema, tutti quegli atti che non sono stati compiuti personalmente dal debitore insolvente bensì da terzi. In realtà, basterebbe già un’esegesi attenta della legge fallimentare per comprendere che l’azione in questione non è limitata alle operazioni di stretta pertinenza del fallito. Si pensi solo all’art.67 n.4 L.F. che contempla la revoca delle ipoteche giudiziali, garanzie costituite addirittura contro la volontà dell’obbligato. Si consideri, d’altra parte, l’art. 68 L.F. che fa ricadere la revocatoria dei pagamenti cambiari sull’ultimo obbligato in via di regresso, anche se non è stato lui a ricevere la prestazione. Più in generale, se si limitasse la revocatoria alle sole operazioni compiute dal fallito, sfuggirebbero all’impugnativa numerosi atti comunque riconducibili allo stesso in quanto compiuti da suoi intermediari (per es. banche, gestori di carte di credito etc.). Ne conseguirebbe una notevole lesione della par condicio creditorum, con grave menomazione del meccanismo fallimentare predisposto dal legislatore. di reintegrazione del patrimonio Sulla base di tali osservazioni, si ritengono comunemente soggetti a revoca anche i pagamenti di debiti del fallito eseguiti da un soggetto terzo. L’assunto, ovviamente, non è valido in assoluto poiché l’azione revocatoria può colpire soltanto le prestazioni pregiudizievoli per la massa e, d’altro canto, è necessario che le stesse siano riferibili in qualche modo al patrimonio del soggetto divenuto insolvente. Ecco perché appare necessario effettuare delle distinzioni. 2) Anzitutto, la soggezione alla revocatoria risulta pienamente giustificata laddove il terzo provveda alla prestazione tramite denaro del fallito, quale suo incaricato o mero nuncius. In tal caso la prestazione è revocabile come se fosse stata eseguita direttamente dal debitore: la riconducibilità del pagamento a quest’ultimo è netta e l’accipiens dovrà subire l’impugnativa, posto che l’atto viene ad incidere sul patrimonio dell’imprenditore sottoposto alla procedura concorsuale. Così, ad esempio, se il terzo mutuante paga il creditore - “in nome e per conto“ del debitore mutuatario poi fallito, e con somme già divenute di proprietà di costui – l’accipiens sarà soggetto a revocatoria (è la fattispecie esaminata da Cass. 10.7.1999 n.7275 in Giur. it. 1999, 2315). Il tutto senza che possa rilevare la convinzione del creditore circa l’utilizzazione da parte del terzo di denaro proprio, posto che l’atto incide sul patrimonio fallimentare e che tale profilo non subisce limitazioni per stati soggettivi di buona fede diversi dalla scientia decotionis (cfr. Cass. 2.5.1996 n.4040 in Giust. Civ. Mass. 1996, 653; Cass. 13.4.1989 n.1785 in Fall. 1990, 18). Più complesso è il caso in cui il terzo saldi il debito del fallito con mezzi propri. Qui la prestazione non è automaticamente imputabile al debitore per cui la giurisprudenza effettua delle distinzioni secondo una casistica che può essere così riassunta: a) Il pagamento del terzo è revocabile se questi si è rivalso per intero nei confronti dell’obbligato prima del suo fallimento (tra le più recenti si veda Cass. 10.1.2003 n.142 in Giust. Civ. Mass. 2003, 40; Cass. 23.11.2001 n.14869 in Fall. 2002, 849). Se, infatti, il terzo ha ottenuto il rimborso della somma versata, il patrimonio dell’imprenditore decotto si depaupera, con conseguente pregiudizio per la massa dei creditori. b) Per converso, il pagamento non è revocabile se il terzo non ha esercitato la rivalsa (Cass. 4.8.2000 n.10269 in www.tuttalafinanza.it; Cass. 22.3.1991 n.3110 in Giust. Civ. 1991, I, 1306). In tal caso la massa non risente alcun danno poiché, se il terzo si insinua al passivo per il credito di rivalsa, l’ammontare dei crediti ammessi non viene modificato: semplicemente al posto dell’originario creditore viene ad insinuarsi il terzo per lo stesso ammontare e con i medesimi diritti (cfr. Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 380). c) Il pagamento è irrevocabile se il terzo ha adempiuto in vece del fallito per spirito di liberalità nei suoi confronti, dato che non verrà esercitata alcuna rivalsa (Cass. 29.11.85 n.5956 in Foro it. 1986, I, 451). d) Non è, infine, soggetto a revocatoria nemmeno il pagamento del terzo che dimostri di aver adempiuto quale fideiussore (Cass. 11.9.1998 n.9018 in Giur. comm. 2000, II, 412; Trib. Torre Annunziata 30.4.2002 in www.ilfallimento.it). E ciò posto che questi si limita ad attuare un diritto di garanzia che non osteggia le posizioni dei creditori concorsuali (cfr. Terranova, Commentario Scialoja-Branca sub art. 67 l.f.; Bologna-Roma, 2002, III, 129). L’armonioso quadro giurisprudenziale che risulta da tale schematizzazione non tiene però conto di un aspetto apparentemente banale e tuttavia trascurato: se il terzo ha effettuato la rivalsa è lui che riceve un pagamento preferenziale, alterando la par condicio, e non l’accipiens. In altri termini, la revocatoria potrebbe ragionevolmente essere indirizzata contro il terzo e non contro il creditore originario, dato che è la rivalsa del solvens e non il suo pagamento a creare un pregiudizio. La giurisprudenza, tuttavia, non dà risalto a questo aspetto, ritenendo che l’oggetto dell’azione debba essere sempre il pagamento effettuato dal terzo. Solo in un breve passo di una sentenza la Cassazione ha riconosciuto che “le numerose decisioni al riguardo non si danno per altro carico di spiegare la ragione per cui il pagamento eseguito dal terzo sia soggetto all’azione revocatoria, e non quello (più prossimo ovviamente alla dichiarazione del fallimento e dunque maggiormente sospetto, dal quale direttamente – e soltanto – deriva il depauperamento del patrimonio del debitore) dal terzo stesso ottenuto in via di rivalsa…” (Cass. 2.7.1998 n. 6474 in Giust. Civ. 1998, I, 2765). 3) Ora, un caso tipico in cui si verifica il pagamento di un debito del fallito da parte di un terzo è quello della delegazione di pagamento. Il delegato-terzo paga al delegatario-creditore un debito del delegante-fallito, secondo l’ipotesi contemplata dall’art. 1269 c.c. In generale, posto che tramite la delegazione il delegato estingue un debito del fallito, il pagamento al creditore viene sottoposto a revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F. L’enunciato non desterebbe attenzione, alla luce di quanto si è detto poc’anzi; se non fosse che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’utilizzo della delegazione di pagamento da parte dell’imprenditore insolvente - per estinguere un suo debito - configura una operazione anomala ai sensi del n.2 del citato articolo. In sostanza: tale fattispecie è ritenuta un mezzo anormale di pagamento. Trattasi di assunto ripetuto costantemente sia dalla giurisprudenza di legittimità che da quella di merito (Cass. 17.1.2003 n.649 in Foro it. 2003, I, 1078; Cass. 19.7.2000 n.9479 in Studium econom. 2000, 1095; Cass. 19.7.1980 n.4745 in Giust. Civ. Mass. 1980, fasc.7; Corte d’Appello Perugia 19.4.1994 in Rass. Giur. Umbra 1994, 599; Corte d’Appello Bologna 10.5.1990 in Giur.it 1991, I, 181). Da un lato, infatti, si sottolinea che mezzi normali di pagamento, oltre al denaro, sono solo quelli comunemente accettati in commercio: assegni circolari e bancari o cambiali; dall’altro si osserva che nella delegazione il denaro non entra in funzione quale strumento di mediata e diretta soluzione bensì in via indiretta quale effetto finale di altre forme negoziali. L’anormalità del pagamento va, dunque, individuata nella complessità del meccanismo satisfattorio posto in essere, estraneo alle comuni relazioni commerciali (così Cass. 9.12.1980 n.6358 in Giust. Civ. Mass. 1980, fasc.12; sul punto, più in generale, vedasi Bonsignori, Diritto fallimentare, Torino, 1992, 190). Tale interpretazione viene però contestata da una parte della dottrina nonché da qualche sentenza di merito (cfr. Trib. Milano 11.10.1973 in Dir. fall. 1974, II, 363). Ciò che si contesta è il fatto che la delegazione configuri una operazione atipica, dato che il pagamento è effettuato comunque con denaro (cfr. Maffei Alberti in Enc. Treccani, voce Effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori, 1989, 10). In quest’ottica, si ritiene che la prestazione sia un atto diretto del debitore ove il denaro costituisce mezzo di immediata soluzione. Sul punto è bene fare delle precisazioni. Nessuno dubita che anche un assegno bancario configuri una delegazione di pagamento: in tal caso è la banca ad essere delegata a pagare nelle mani del creditore, sulla base di una provvista appositamente creata a tale fine. E nessuno, parimenti, dubita che tale operazione costituisca un procedimento assolutamente fisiologico di pagamento, tanto da meritare il trattamento revocatorio più blando ex art. 67 comma 2 L.F. Tuttavia, se dietro la delegazione si nasconde una operazione più complessa - volta ad estinguere il debito del delegante – si può effettivamente verificare un pagamento anomalo. Si consideri il caso di un creditore che pignora presso un terzo un credito, vantato dal debitore verso il terzo, e che in seguito abbandona la procedura a fronte dell’impegno del debitore di disporre che il terzo pignorato paghi il suo debito (è il caso esaminato da Cass. 649/2003 cit.). Qui si verifica una operazione completamente diversa rispetto a quella originaria, per cui risulta arduo sostenere l’insussistenza dell’anomalia. Pare quindi cogliere nel segno l’osservazione di chi ritiene che l’anormalità vada riferita più al procedimento che al mezzo di pagamento (cfr. Terranova op.cit., 72 ss.). In effetti, comunque, non è così scontata l’astratta qualifica della delegazione quale mezzo anormale, tanto è vero che uno dei più autorevoli studiosi del diritto fallimentare (Pajardi) ha dapprima sostenuto la tesi della normalità (cfr. Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, 386) rilevando, però, in seguito che “…troppo sovente le varie forme di delegazione, compresa quella passiva, sono in concreto una indicazione sufficientemente sintomatica di una patologia dell’evolversi del rapporto contrattuale” (op.cit. 1993, 406). Propendere per l’una o l’altra tesi non è senza conseguenze dato che l’inquadramento della delegazione quale mezzo anormale ha un peso notevole ai fini dell’azione revocatoria. Infatti, seguendo la tesi della giurisprudenza, il curatore – invocando l’applicazione dell’art. 67 I° comma n.2 L.F. – otterrà due vantaggi decisivi: potrà ottenere la revoca dei pagamenti eseguiti nei due anni anteriori al fallimento; sarà esonerato dall’onere della prova della scientia decotionis in capo al delegatario. Ad ogni modo, lasciando da parte il dilemma attinente l’anormalità o meno della fattispecie in esame, va detto che nella delegazione si ripresenta il problema della rivalsa a cui si è accennato in precedenza. E’ vero, infatti, che può verificarsi una delegatio solvendi in cui il delegato adempie con denaro dell’imprenditore insolvente; ma può anche darsi che il pagamento venga effettuato dal solvens con mezzi propri, per cui si versa nella seconda delle ipotesi descritte al punto 2 (c.d. delegazione allo scoperto). Ebbene, se il delegato ha pagato “allo scoperto” ossia con denaro proprio, e non riesce a rivalersi sul fallito, l’atto non arreca alcun pregiudizio alla massa dei creditori e dunque sarebbe irrevocabile (così Portale, Delegazione “allo scoperto” e revocatoria fallimentare in Giust. Civ. 1984, II, 451 ss.; cfr. anche Bottiglieri in Enc. Treccani, voce Delegazione, 1988, 24 ss.). Tesi, peraltro, non condivisa da chi ritiene ingiustificato subordinare l’impugnativa al soddisfacimento dell’azione di regresso, considerato che tale ultima azione attiene ai rapporti interni tra debitore e terzo e quindi non può interferire sulla posizione dell’accipiens (cfr. Maffei Alberti op.cit. 10; Terranova op.cit., 126 ss.). Il punto è che anche nel caso particolare della delegazione si rispecchiano le diverse concezioni della revocatoria fallimentare. Secondo l’ottica che privilegia l’astratta idoneità dell’atto ad arrecare danno ai creditori - cfr. gli autori appena citati – il problema della rivalsa non ha alcun rilievo ai fini della revoca. Ciò anche perché l’art. 67 L.F. sarebbe volto ad indurre il soggetto in relazione col debitore a rifiutare qualunque vantaggio relativo al suo rapporto con lo stesso (cfr. Trib. Monza 20.11.2001 in Fall. 2002, 1251). Secondo la ricostruzione giurisprudenziale prevalente, invece, quello che conta è il danno effettivo alla par condicio, per cui il regresso – come si è detto al punto 2 – è il presupposto fondamentale della revocabilità della prestazione effettuata dal terzo (sul requisito del danno nella revocatoria si veda, di recente, Tedeschi op.cit., 342 ss.). In definitiva, pure in una fattispecie come la delegatio solvendi si riaffaccia il problema del “danno” nella revocatoria, ovvero la questione della funzione che tale istituto riveste all’interno del fallimento, tema ancora attuale a più di sessant’anni dalla emanazione della legge fallimentare. Mantova, novembre 2003