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laboratorio per l`esame
laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 57-59 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Il Graal tra leggenda, letteratura e storia» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 57-59. • Chrétien de Troyes, La processione del Graal (• T3) • Ranieri Polese, Il Graal e l’immaginario letterario (• D1) Schedatura dei documenti •T3 Chrétien de Troyes, La processione del Graal Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Al centro della sala […] è seduto un valent’uomo di bell’aspetto, i capelli già quasi bianchi […] Davanti a lui, tra quattro colonne, arde un gran fuoco vivace di ciocchi secchi, così grande che quattrocento uomini almeno avrebbero potuto riscaldarvicisi e ciascuno vi avrebbe trovato posto. Le colonne alte e solide che sostenevano il camino erano di bronzo massiccio […] Testo narrativo destinato al ristretto pubblico della corte di Maria di Champagne (Francia del nord), si propone di intrattenere e al tempo stesso educare ai valori della cavalleria e alle virtù cortesi. Romanzo cavalleresco in versi in lingua d’oil (periodo storico prima del 1190) Occorre ampliare le informazioni sull’autore, Chrétien de Troyes, creatore del nuovo genere letterario del romanzo cavalleresco; proprio nel Perceval egli propone per la prima volta il motivo del Graal, oggetto della ricerca avventurosa del cavaliere, riletta ora in termini cristiani. Nella tradizione medioevale la quête del Graal costituisce da un lato un percorso di formazione e di crescita individuale e spirituale, dall’altro la conquista di un potentissimo strumento, in grado di combattere il male che si trova in ogni uomo. Mentre parlano […] un valletto viene da una camera, e tiene una lancia […] Una goccia di sangue colava dalla punta di ferro” Il giovane ospite vede tal meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perchè rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che mai si deve parlare troppo? Porre domanda sarebbe villania. Non dice parola.” Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come le stelle quando si leva il sole o la luna […] Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o sulla terra. Nessuna potrebbe paragonarsi alle pietre che cingevano il graal. Ha desiderio di saperlo, ma pensa che avrà tempo di domandarlo domani […] Ma invano: porte chiuse, e ben chiuse! Chiama, bussa con gran forza e ancor di più, ma nessuno gli apre o risponde”. Fin dal primo istante il narratore pone in evidenza la sontuosità del castello e la cortesia del misterioso ospite (un valent’uomo), in un’atmosfera magica e fiabesca. Quindi inizia la processione degli oggetti, ricca di significati simbolici e allegorici che rimandano alla figura di Cristo: ad esempio, la lancia con la punta intrisa di sangue allude alla Passione di Gesù e al sacrifico del sangue versato per la redenzione dell’umanità. Idea centrale Il Graal è un oggetto misterioso, carico di sacralità, del quale si intuiscono poteri straordinari. Egli è in attesa dell’eroe destinato a ritrovarlo. Messaggio La letteratura esalta l’aspetto misterioso e leggendario del Graal, facendone l’oggetto per eccellenza della quête, ovvero la ricerca avventurosa. Benché il protagonista non comprenda il significato della processione, egli non fa domande, memore dell’educazione ricevuta. Il cavaliere è tale non sol per l’appartenenza a un ordine militare, ma soprattutto per una condotta improntata alla cortesia: fare domande indiscrete sarebbe motivo di villania. Si deve, inoltre, ricordare che negli stessi anni in cui si sviluppa il romanzo cavalleresco la cristianità è impegnata nella grande impresa delle Crociate, nel tentativo di liberare il Santo Sepolcro dal dominio degli infedeli. Il misterioso e preziosissimo Graal, che compare più volte nel corso della cena, attira l’attenzione del giovane fin dall’inizio. Alla fine Perceval rimanda al giorno seguente la richiesta di spiegazioni, che sarà, però, destinata a restare disattesa. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D1 Ranieri Polese, Il Graal e l’immaginario letterario Testo La parola “graal”, secondo l’opinione più diffusa, deriverebbe dal latino gradalis, che significa “piatto”, “coppa”. Non citato nei vangeli e negli Atti degli Apostoli, questo oggetto carico di sacralità appare fra il XII e il XIII secolo nei poemi del ciclo di re Artù. Delle molte versioni della leggenda, due sono le più importanti, Perceval di Chretien de Troyes (prima del 1090) e il Parzival del tedesco Wolfram von Eschenbach (1170 – 1220 ca.). Quest’ultimo introduce una variante: il Graal sarebbe stato una gemma preziosa […] Robert de Boron aggiunge un dettaglio: il vaso di Giuseppe d’Arimatea è il calice dell’Ultima Cena. […] Nel 1920, l’antropologa inglese Jessie Weston ha definito il Graal come il lascito di antichi riti pagani della fertilità che nel Medioevo si sarebbero mescolati con elementi cristiani. Nella seconda metà del Novecento, grazie a due importanti ritrovamenti archeologici […] si affermò l’idea di un Cristo diverso dalla tradizione della Chiesa […] Gesù ha […] tratti più umani, mentre Maria Maddalena ha un’importanza maggiore. […] Nel 1982, gli inglesi Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln hanno pubblicato un libro intitolato Il Santo Graal, nel quale usano alcuni di questi testi […] per avanzare tesi tutt’altro che fondate sotto il profilo scientifico, ma di sicuro impatto sull’opinione pubblica. […] il Graal non sarebbe una coppa o una gemma, ma un segreto che la Chiesa avrebbe cercato di occultare: Cristo sposò Maria Maddalena, ne ebbe una figlia, non morì sulla croce ma si trasferì con la famiglia in Provenza, e da lui sarebbero discesi i re Merovingi […]. Sei anni dopo […] Umberto Eco ha pubblicato il romanzo Il pendolo di Foucault […] in cui riprende questi temi. Nel 2003 è uscito negli Stati Uniti Il Codice da Vinci di Dan Brown che […] in un solo anno […] si è affermato come bestseller mondiale numero uno. Laboratorio per l’esame 2 Schedatura L’autore ricostruisce l’etimologia del termine. L’oggetto non è menzionato nel Nuovo Testamento; è, tuttavia, al centro di una leggenda dalle molteplici versioni, alla quale paiono fare riferimento i poemi del ciclo bretone. Tra XII e XIII secolo, la leggenda del Graal subisce un’evoluzione: inizialmente rappresentato come coppa, il Graal dapprima diventa gemma preziosa, poi è identificato con il calice dell’ultima cena. L’autore illustra quindi alcune delle più accreditate interpretazioni del Graal proposte dagli storici del Novecento. Ci si sofferma in particolare sulle tesi di Baigent, Leigh e Lincoln, dalle quali la letteratura più recente ha tratto ispirazione. Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo di giornale (periodo storico 26 aprile 2004) Occorre fare riferimento all’opinione diffusa secondo la quale non fu Chrétien a creare ex novo il Graal, che egli avrebbe invece ripreso dalla tradizione celtica, nella quale sono frequenti leggende su oggetti miracolosi a forma di vaso o coppa. Idea centrale Nel corso dei secoli si sono susseguite molteplici interpretazioni di carattere storico e letterario: da un punto di vista archeologico, il Graal può essere studiato come oggetto dalle precise caratteristiche fisiche, legato alla figura di Cristo, del quale si cerca di individuare l’esatta collocazione; in una dimensione prettamente letteraria, il Graal è indagato come topos particolarmente fortunato e ricorrente, del quale si studiano le origini e la progressiva evoluzione attraverso i testi e gli autori. Messaggio Indagine storica e interpretazione letteraria sul Graal si intrecciano e si influenzano reciprocamente, dall’origine del mito fino ai giorni nostri. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Saggio breve Stesura Struttura Il Graal, cuore pulsante della cultura occidentale Titolo Sintetizza la tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Vi sono molteplici prospettive secondo le quali il Graal può essere studiato: da un punto di vista storico e archeologico, esso costituisce un oggetto dalle precise caratteristiche fisiche, legato alla figura di Cristo; in una dimensione leggendaria, il Graal è interpretato come simbolo dal significato universale, presente sotto varie forme in numerose tradizioni mistico – religiose; infine, da un punto di vista prettamente letterario, esso rappresenta un topos particolarmente fortunato e ricorrente, del quale si studiano le origini e la progressiva evoluzione attraverso i testi e gli autori. Nel corso dei secoli, queste tre prospettive si sono spesso incrociate e influenzate, alimentandosi a vicenda e facendo dell’oggetto della loro indagine uno dei cuori pulsanti della cultura occidentale. Ma che cos’è il Graal? Da un punto di vista etimologico, il termine deriva dal latino gradalis, che significa piatto, coppa. L’epopea del Graal ha inizio in ambito letterario, nella Francia del Nord alla fine del XII secolo. Qui il termine fa la sua prima apparizione in un romanzo cavalleresco appartenente al ciclo bretone, il Perceval di Chrétien de Troyes, nel quale indica un oggetto dalle precise caratteristiche fisiche, legato alla figura di Cristo; esso costituirebbe, infatti, il calice entro il quale fu raccolto sul Golgota il sangue del Redentore. Non esistono, tuttavia, prove a sostegno della tesi per cui Chrétien de Troyes avrebbe creato ex novo il mito del Graal; pare, invece, più probabile che egli abbia attinto alla tradizione celtica, ricca di oggetti a forma di vaso o coppa dotati di misteriosi poteri. La leggenda del Graal si sviluppa quindi nei grandi cicli di romanzi cavallereschi che caratterizzano l’ultimo periodo del Medioevo, i quali costituiscono al tempo stesso la massima celebrazione del mito del cavaliere e la testimonianza del suo definitivo tramonto. È proprio questa tradizione letteraria a dare impulso agli studi storico – archeologici e ai tentativi di identificazione del luogo in cui l’oggetto sarebbe conservato: intorno al 1200 nel Roman de l’Estoire du Graal il francese Robert de Boron identifica il Graal con il calice utilizzato da Gesù durante l’Ultima Cena, nel quale in seguito Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto e conservato il sangue versato da Cristo sul Calvario; la coppa sarebbe quindi stata misteriosamente trasportato in Francia, dove secondo la tradizione si sarebbe trovata in età medioevale, custodita dal Re Pescatore. In quegli stessi anni, dunque, letteratura e storia si intersecano. Occorre, inoltre, ricordare che al tempo del Perceval la cristianità è impegnata nella grande impresa delle Crociate: cavalieri e pellegrini si recano in Terra Santa per liberare il Sepolcro di Cristo dal dominio degli infedeli, riportandone sovente numerose reliquie. Proprio la ricerca dei resti sacri, particolarmente importante in quel periodo, esprime l’esigenza di stabilire un legame diretto con l’esperienza terrena di Gesù Cristo e dei primi apostoli, attraverso il ritrovamento e il recupero delle tracce materiali che essi hanno lasciato alle spalle. La ricerca corrisponde, a livello spirituale, alla volontà di recuperare quel legame unico e irripetibile che si stabilisce tra la dimensione umana e terrena di Cristo e gli uomini stessi, tra il Dio che si fa uomo e l’umanità. In tale percorso di fede, la ricerca del Graal manifesta il desiderio di avvicinarsi con maggior intensità alla passione e alla resurrezione di Cristo, con il mistero del sacrifico totale di sé e della rinascita, che si attua nella figura di Cristo e nella sua Passione, e che si rinnova costantemente nell’Eucarestia, di cui il calice è simbolo. Quindi, la caccia alle reliquie riscrive in termini cristiani il concetto di quête, la ricerca avventurosa del cavaliere, che tradizionalmente aveva come oggetto la conquista della donna amata o della gloria in battaglia e di cui il Graal diviene ora il massimo coronamento spirituale. La quête diviene, così, un percorso di formazione e di crescita spirituale dell’individuo che la compie; il calice trasmetterebbe, inoltre, un potere misterioso, in grado di combattere il male che si trova in ogni uomo e innanzitutto in se stessi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Introduzione Si individuano le molteplici prospettive secondo le quali il Graal può essere studiato. Tesi Si esprime l’opinione secondo la quale tali prospettive si sono influenzate e alimentate a vicenda nel corso dei secoli. 1° Argomento a favore della tesi Si illustrano le origini del mito del Graal, ponendo in evidenza il fatto che prospettiva storica, letteraria e spirituale si fondono fin dal Medioevo. Laboratorio per l’esame 3 Quindi, la caccia alle reliquie riscrive in termini cristiani il concetto di quête, la ricerca avventurosa del cavaliere, che tradizionalmente aveva come oggetto la conquista della donna amata o della gloria in battaglia e di cui il Graal diviene ora il massimo coronamento spirituale. La quête diviene, così, un percorso di formazione e di crescita spirituale dell’individuo che la compie; il calice trasmetterebbe, inoltre, un potere misterioso, in grado di combattere il male che si trova in ogni uomo e innanzitutto in se stessi. 2° argomento a sostegno della tesi Si dimostra che ancora oggi le diverse prospettive di studio del Graal si intersecano e sovrappongono, influenzandosi a vicenda. Le tre prospettive di indagine continuano ancora oggi a intersecarsi e ad alimentarsi reciprocamente: sono, infatti, due importanti ritrovamenti archeologici, avvenuti nella prima metà del Novecento, a dare impulso a una rilettura in chiave più umana della figura di Cristo. I papiri di Nag – Hammadi e i Rotoli del Mar Morto, testi prodotti fra I e II secolo d. C. in ambiente eretico, sono fra le fonti più significative utilizzate dagli storici inglesi Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln per avanzare, nell’opera Il Santo Graal (1982), alcune tesi innovative sull’esistenza terrena di Gesù. È loro opinione che da secoli la Chiesa si sforzi di mantenere segreti alcuni episodi della vita di Cristo, la cui conoscenza da parte della comunità dei fedeli determinerebbe la perdita del proprio ruolo di intermediaria fra Dio e gli uomini. Ci si riferisce, in particolare, al matrimonio tra Gesù e Maria Maddalena, dalla quale nacque una figlia, da identificarsi con il Graal, la cui etimologia deriverebbe non da gradalis, ma da Sang Real, ovvero sangue reale. Cristo, inoltre, non sarebbe morto sulla croce, ma si sarebbe trasferito in Provenza con la famiglia, dalla quale avrebbero avuto origine la dinastia dei Merovingi, sovrani ai quali la tradizione attribuiva il potere di guarire. Benché non pienamente fondate sotto il profilo scientifico, tali teorie hanno suscitato una forte impressione presso l’opinione pubblica e hanno reso nuovamente attuale il mito del Graal: la storia ha di nuovo ispirato la letteratura, che della quête ha fatto ancora una volta il motivo al centro di opere quali Il pendolo di Foucault, pubblicato da Umberto Eco nel 1998, e il bestseller mondiale Il Codice da Vinci di Dan Brown, edito nel 2003 e dal quale è stata tratta una fortunatissima pellicola cinematografica. Quale significato si può attribuire al fatto che la vicenda del Graal sia riemersa, alimentando una discussione storico – teologica che pare destinata a non esaurirsi in tempi brevi? La risposta può leggersi ancora una volta su vari livelli. I grandi cicli di romanzi cavallereschi che determinano la nascita e la diffusione del mito del Graal si inseriscono, da un punto di vista storico e spirituale, in un momento di crisi dell’ortodossia cattolica, quando alcuni movimenti ereticali mettono in dubbio la presenza di Cristo nell’Eucarestia; a tali attacchi la Chiesa rispose con il culto delle reliquie, prime fra tutte il Graal, prove tangibili dell’esistenza terrena e dell’esperienza di passione e resurrezione di Cristo, strumenti attraverso i quali i fedeli potevano stabilire un forte legame con Dio. È possibile che ancora oggi il Graal eserciti la medesima funzione: in tempi di analoga incertezza, in cui l’uomo moderno ha visto progressivamente affievolirsi la propria spiritualità a vantaggio della dimensione concreta e terrena, ha perduto la capacità di sentirsi in contatto con una dimensione più alta dell’esistenza, il Graal rappresenta di nuovo un mito in cui credere, un mistero dal quale lasciarsi affascinare, un misterioso simbolo nel quale leggere quell’oscuro significato di cui ciascuno ha maggiormente bisogno. Laboratorio per l’esame 4 Conclusione Si ribadisce la tesi, sottolineando che anche nell’individuazione delle cause del millenario successo del Graal storia, letteratura e spiritualità si confondono. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 116-117 Analisi del testo Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 116-117. • Cino da Pistoia, Vedete, donna, bella creatura (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1.Comprensione del testo Vedete, o donne, una bella creatura che si trova straordinariamente in mezzo a voi! Avete mai visto una figura così nuova o una giovane donna così saggia e piacente? Ella certamente nobilita la natura umana e tutte voi allo stesso modo; prestate attenzione ai suoi gesti piacevoli, che suscitano meraviglia in tutti quanti. Fate a gara nel renderle onore quanto più è possibile, o donne che avete esperienza d’amore, perché nobilita voi tutte colei di cui ovunque si parla. Ora si paleserà chi ha in sé nobiltà d’animo, poiché io vedo Amore in persona che la venera e la riverisce, tanto gli piace. 2.Analisi del testo 2.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito da quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la successione a rime alterne ABAB ABAB, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto. Il sonetto rappresenta il passaggio per via della donna amata e registra l’ammirazione che la sua perfetta bellezza suscita in chi la incontra; si tratta di una situazione tipica dello Stilnovo. 2.2Il sonetto è caratterizzato dalla ripetizione del verbo “vedere”, che compare in posizione iniziale ai vv. 1, 3 e 13, nel quale è anche riecheggiato nell’aggettivo affine “visibil”; il verbo esprime l’ammirazione suscitata dalla visione della donna amata, la cui bellezza è innanzitutto fisica, soggetta alla percezione visiva. Nel codice poetico dello Stilnovo lo sguardo è la via di accesso al cuore del poeta: l’amore è una ferita inferta nell’animo dell’innamorato proprio attraverso gli occhi, che costituiscono lo strumento principale della seduzione. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Il termine gentile acquista presso la generazione stilnovista nuovi significati: il concetto feudale e cavalleresco di gentilezza intesa come nobiltà ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue, è rielaborato dallo Stilnovo in senso borghese e comunale; il vocabolo viene ora a definire la nobiltà d’animo, conquistata per merito individuale attraverso l’esercizio delle virtù morali e spirituali. La gentilezza diventa, inoltre, requisito indispensabile per poter accedere all’esperienza amorosa: si sviluppa così il motivo dell’identità fra amore e cor gentil. Dunque, le donne a cui Cino si rivolge invitandole a onorare l’amata sono coloro le quali, essendo dotate di animo nobile, hanno esperienza d’amore. 3.2Manca, a mio parere, a Cino da Pistoia la profondità filosofica di poeti come Guinizzelli o Cavalcanti, i quali spiritualizzano e idealizzano la donna e l’esperienza d’amore, sottraendole a qualunque connotazione fisica e sensuale e attribuendo loro funzioni salvifiche e beatificanti. Per i due Guidi, così come per Dante Alighieri, la donna è creatura angelicata, dotata di virtù e qualità morali tali da suscitare nell’innamorato e in chiunque le si avvicini l’impulso a una ricerca di perfezionamento intellettuale e spirituale. Nel sonetto Vedete, donne, bella creatura la bellezza di Selvaggia, la figura femminile celebrata da Cino nel suo vasto canzoniere, è connotata in termini prevalentemente umani e terreni. La contemplazione dell’amata è interamente incentrata sulla perfezione dell’aspetto esteriore, mentre la sua apparizione pare suscitare in chi la osserva una generica meraviglia. Ben poco spazio è concesso agli effetti psicologici e interiori, sui quali si concentrano invece i maggiori rappresentanti dello Stilnovo: così, nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare Guinizzelli elabora il motivo della donna-angelo, la cui apparizione non distoglie l’innamorato dalla fede, al contrario lo avvicina al cielo manifestando tra gli uomini la potenza di Dio. Analogamente Guido Cavalcanti valorizzata l’interiorità dell’innamorato, la cui vita psichica è interamente coinvolta nell’esperienza amorosa: nel sonetto Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira… egli dichiara l’ineffabilità della visione dell’amata e riconosce la propria inadeguatezza a comprendere e rappresentarne le qualità spirituali. Infine, nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare Dante compie la lode di Beatrice che passa per via attraverso riferimenti non realistici, in un clima che può dirsi ultraterreno; nel componimento di Cino, al contrario, la celebrazione dell’amata è calata in una dimensione tutta terrena, nei luoghi della realtà concreta; si veda in proposito il v. 11. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 La stesura del testo Commento Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario Guittoncino dei Sigibuldi, detto Cino, nacque a Pistoia nel 1270; conseguita a Bologna la laurea in diritto, esercitò a lungo la professione di giurista, dedicandosi anche all’attività letteraria. Amico di Guido Cavalcanti e di Dante Alighieri, aderì al movimento dello Stilnovo del quale ricalca nel suo vasto canzoniere motivi e stilemi; la sua morte, avvenuta nel 1370, fu celebrata da Francesco Petrarca nel sonetto Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Epigono del movimento, Cino vive il declino del codice poetico dello Stilnovo, al quale pure aderisce fedelmente nei temi e nello stile; non manca, tuttavia,una rivisitazione originale dei motivi e delle modalità espressive della scuola. Nel suo vasto canzoniere egli canta la propria vicenda d’amore secondo i temi e i modi del movimento, non più accolti però nei loro valori eterni, ma calati in un’atmosfera più terrena e individuale. È, infatti, diffuso il giudizio per cui Cino rappresenti l’anello di congiunzione fra l’esperienza ancora duecentesca dello Stilnovo e la lirica del Trecento e costituisca la premessa alla poesia di Petrarca. Lo Stilnovo è un movimento poetico che nasce a Firenze e a Bologna tra il 1280 e il 1310: ne sono promotori intellettuali e poeti per lo più di estrazione borghese, legati non solo dal sodalizio artistico, ma anche da rapporti personali di amicizia. Il movimento emancipa la donna e l’esperienza amorosa dalla dimensione puramente fisica e sensuale conferita loro dall’amore cortese e ne privilegia gli aspetti intellettuali e spirituali. I suoi esponenti idealizzano la figura femminile, la trasfigurano e ne teorizzano il culto, attribuendole un ruolo di superiorità rispetto all’innamorato, che le deve obbedienza: tipico, in questo senso, il ricorso al termine “donna”, che nel linguaggio poetico di fine Duecento significa “padrona del cuore dell’innamorato”. L’amata è ora celebrata principalmente per le sue qualità morali, le quali suscitano nell’animo dell’uomo pensieri puri e danno impulso a una ricerca individuale di perfezionamento morale, intellettuale e spirituale. Ne risulta valorizzata anche l’interiorità dell’innamorato, la cui vita psichica è interamente coinvolta nell’esperienza amorosa. La poetica del movimento viene definendosi nei nuclei tematici e nelle modalità espressive attraverso l’opera dei suoi maggiori esponenti. A Guido Guinizzelli, “padre” della generazione stilnovista, si deve l’elaborazione del motivo dell’identità fra amore e “cor gentil”, ossia nobile: egli rielabora in senso borghese e comunale i valori dell’etica feudale-cavalleresca e concepisce la gentilezza non più come nobiltà ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue, ma come nobiltà d’animo, conquistata per merito individuale attraverso l’esercizio delle virtù morali e spirituali. In questo senso, Guinizzelli sostiene la tesi dell’identità fra animo nobile e animo innamorato, già affermata da Andrea Cappellano nel De amore. Nella medesima duplice valenza il termine “gentile” è utilizzato da Cino da Pistoia nel componimento in analisi: le “donne gentili” a cui si rivolge sono coloro le quali sono dotate di animo nobile e hanno esperienza d’amore. Nei componimenti di Guinizzelli trova, inoltre, teorizzazione la concezione dell’esperienza d’amore come contemplazione e lode della donna amata, la quale ha le sembianze di un angelo: nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare la perfezione estetica e morale dell’amata la rende degna di essere assimilata alle più perfette creature dell’universo e ne fa l’oggetto della lode del poeta. Il saluto della donna dissolve nell’innamorato e in chiunque la incontri orgoglio Laboratorio per l’esame 2 La struttura Il metodo applicato Indicazioni biografiche utili a delineare il percorso artistico dell’autore e il contesto in cui ha operato. Notizie fornite dalla traccia integrate con alcune conoscenze personali. Precisazione del contesto poetico nel quale l’autore ha operato. Dati contenuti nella risposta 3.2 e integrazioni personali. Dati relativi alla risposta 3.1 e integrazioni personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 e pensieri malvagi, dona beatitudine e salvezza; la sua apparizione non distoglie l’innamorato dalla fede, al contrario manifesta la potenza di Dio tra gli uomini e avvicina al cielo. La perfezione estetica e morale della donna che passa per via genera sgomento e angoscia negli astanti, spesso vinti da stupefatto mutismo, e induce l’io lirico a riconoscere la propria inadeguatezza nel rappresentarla: motivo ripreso e accentuato da Guido Cavalcanti nel sonetto Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira…, in cui l’innamorato dichiara l’ineffabilità della visione, l’impossibilità di comprendere e descrivere le qualità spirituali dell’amata. Le tematiche amorose sono espresse dagli stilnovisti in uno stile “dolce”, ossia con un linguaggio musicale, che evita i suoni aspri, e attraverso una sintassi semplice e lineare. L’analisi del significato Ben diversa è la rappresentazione della figura femminile nel componimento in analisi. Il sonetto propone una situazione tipicamente stilnovista: l’apparizione della donna amata e gli effetti che la sua perfetta bellezza suscita in quanti la incontrano. Il suo aspetto e i suoi gesti sono tali da nobilitare l’intero genere umano e da indurre persino Amore a venerarla; per questo, il poeta invita le donne che hanno esperienza d’amore a lodarla e onorarla. Tuttavia, i numerosi topoi della lirica stilnovista sono riletti alla luce della sensibilità poetica dell’autore. Così, la figura femminile è rappresentata in termini prevalentemente umani e terreni, ponendo in secondo piano il significato o la funzione superiore dell’esperienza amorosa: l’amata è una “bella creatura”, “piacente” nell’aspetto e nei gesti. L’unico accenno alle qualità spirituali della donna è costituito dall’aggettivo “savia”, al v. 3, il quale però è immediatamente attenuato dal “piacente”, che riconduce ancora una volta alla dimensione esteriore della figura femminile. Il sonetto è, inoltre, caratterizzato dalla ripetizione del verbo “vedere”, che compare in posizione iniziale ai vv. 1, 3 e 13, nel quale è riecheggiato nell’aggettivo affine “visibil”; il verbo sembra dunque ribadire la dimensione puramente fisica della bellezza femminile, soggetta alla percezione visiva. Nel codice poetico dello Stilnovo lo sguardo è, del resto, la via di accesso al cuore del poeta: l’amore è una ferita inferta nell’animo dell’innamorato proprio attraverso gli occhi, i quali costituiscono lo strumento principale della seduzione. Nel sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare…, la lode dell’amata è compiuta attraverso riferimenti non realistici, in un clima ultraterreno, celeste: Beatrice che passa per via manifesta e rivela la propria essenza e le proprie virtù (gentilezza, onestà, umiltà). La sua bellezza è privata di qualunque connotazione concreta e sensuale, mentre gli stessi dati fisici acquistano un valore puramente spirituale: così, lo sguardo infonde dolcezza nel cuore di chi la osserva, il volto emana una soave ispirazione amorosa. Nel componimento di Cino la contemplazione della donna amata è, al contrario, prevalentemente incentrata sulla percezione visiva dell’aspetto esteriore, la cui straordinaria unicità è sottolineata al v. 2 dall’avverbio “maravigliosamente”, a sua volta ripreso al v. 8 dall’espressione “fan maravigliar”, e dal ricorso al v. 3 all’aggettivo “nova”. Proprio la perfezione estetica rende l’amata degna di essere onorata non solo dalle donne gentili, ma da Amore in persona: si noti in proposito la ripetizione del verbo “onorare” in finale di verso (vv. 9 e 10), ripreso al v. 14 dall’espressione affine “falle reverenza”. Confronto con altri esponenti dello Stilnovo. Rielaborazione della parafrasi (risposta 1). Esplicitazione del messaggio, ponendo attenzione alle aree semantiche dominanti Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 Poco spazio sembra dunque essere concesso da Cino agli effetti psicologici che l’apparizione della donna suscita in chi la osserva: nessun cenno agli effetti beatificanti o salvifici della donna-angelo; il poeta pare piuttosto limitarsi a registrare una generica meraviglia. Contribuisce, infine, a calare la figura femminile in una dimensione tutta terrena l’affermazione del v. 11, che sembra collocare il componimento nei luoghi della realtà concreta. L’analisi del significante Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura assai antica costituita nella sua forma più classica da quattro strofe di versi endecasillabi, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Nato nell’ambito della Scuola Siciliana come breve poesia musicata (è questo il significato del termine provenzale sonet), fu ampiamente impiegato dai poeti del “dolce stil novo”, che vi affrontarono tematiche prevalentemente amorose; proprio allo schema tipico del sonetto stilnovista si rifà Cino nel presente componimento, adottando nelle quartine la successione a rime alterne ABAB ABAB, nelle terzine la combinazione CDE CDE, tre rime ripetute in ordine diretto. La presenza insistita nel sonetto di numerosi topoi della lirica stilnovista si traduce in campo lessicale in frequenti ripetizioni di vocaboli identici o appartenenti a campi semantici affini: si noti, per esempio, la ripetizione del verbo “vedere”, in posizione iniziale ai vv. 1 e 3, riecheggiato nell’aggettivo “visibil” al v. 13, che esprime l’invito alla contemplazione estatica della bellezza della donna amata, soggetta a percezione visiva (v. 4, “giovane piacente”; v. 7 “atti… piacenti”). Proprio il motivo della bellezza apre (v. 1, “bella”) e chiude la lirica (v. 14, “li abella”), conferendole una certa circolarità. La straordinaria unicità della donna amata, sottolineata dall’avverbio “maravigliosamente”, a sua volta ripreso dall’espressione “fan maravigliar”, la rende degna di essere onorata non solo dalle donne gentili, ma da Amore in persona: si noti in proposito la ripetizione del verbo “onorare” in finale di verso (vv. 9 e 10), ripreso dall’espressione affine “falle reverenza”. Il carattere monocorde del testo è, inoltre, realizzato attraverso una sintassi semplice e lineare; conferiscono, infine, alla lirica un ritmo monotono, ma non privo di musicalità, il ricorso a un lessico ripetitivo e le scelte metrico-retoriche: le rime, le frequenti assonanze e consonanze, i rimandi fonici fra parole chiave (v. 5, “adorna”; v. 10, “onora”; v. 13, “adora”). Laboratorio per l’esame 4 Metrica Risposta alla domanda 2.1 e integrazioni personali Il lessico Risposta alla domanda 2.2 e dati stimolati dalla parafrasi La sintassi Integrazioni personali Il ritmo Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 159-163 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Religioni e tolleranza attraverso i tempi e le culture» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 159-163. • Novellino, Il Sultano e il ricco giudeo (• T25) • Etienne de Bourbon, L’anello dalle virtù taumaturgiche (• D1) • Dante Alighieri, Incontro con Maometto (• D2) • Giovanni Boccaccio, Il Saladino e Melchisedech (• D3) • Voltaire, Tolleranza (• D4) • Gotthold Ephraim Lessing, La versione illuministica della parabola dei tre anelli (• D5) • Luce Irigaray, Come accogliere le differenze (• D6) Schedatura dei documenti •T25 Novellino, Il Sultano e il ricco giudeo Testo […] – Messere, elli fu un padre ch’avea tre figliuoli […] Il padre di sopra sa la migliore; e li figliuoli, ciò siamo noi, ciascuno si crede avere la buona […]. Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Il testo ha una precisa funzione educativa, subordinata all’intento di dilettare e intrattenere. Novella (periodo storico fine Duecento). Si deve accennare all’intento educativo del Novellino di insegnare comportamenti nobili e generosi alla borghesia cittadina, che negli ultimi anni del Duecento, in piena età comunale, cercava di fare propri i valori della civiltà cortese. La fiducia nella parola arguta ed elegante è proprio il tratto maggiormente distintivo del ceto dirigente borghese. Colui che professa una fede diversa è presentato come fratello, figlio del medesimo padre. Si sottolinea l’impossibilità degli uomini di giudicare la validità di una religione rispetto alle altre. Idea centrale Il brano propone il concetto di fratellanza fra tutte le religioni. Messaggio dell’autore Indirizzare il comportamento nei confronti delle altre religioni verso la tolleranza e il rispetto reciproco, denunciando la stolta arroganza degli uomini che pretendono di giudicare le altre confessioni. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Si deve, inoltre, fare riferimento alla fortuna letteraria avuta dalla novella dei tre anelli, che ha conosciuto numerose rivisitazioni. Nella sua versione originale il racconto, elaborato in ambiente culturale ebraico e noto fin dal XII secolo, proponeva una vera e propria lezione di tolleranza e di serena convivenza tra confessioni diverse. Laboratorio per l’esame 1 •D1 Etienne de Bourbon, L’anello dalle virtù taumaturgiche Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Aveva una sposa che gli diede una figlia legittima, ma più tardi, sedotta da lenoni, diede alla luce altre che passarono per figlie legittime di suo marito. […] E chiamò la figlia e le diede l’anello. Le altre, come lo seppero, si fecero fare altri anelli somiglianti […]. Però il giudice, uomo saggio, fece la prova della virtù degli anelli, e non trovandone alcuna negli altri, giudicò essere legittima quella il cui anello aveva dimostrato le sue virtù, e dichiarò le altre illegittime […]. Breve testo narrativo a intento educativo e moraleggiante. Parabola (periodo storico metà del Duecento). L’uomo ricco rappresenta Dio, la sposa è la comunità dei fedeli, i lenoni i falsi profeti e gli eresiarchi che seducono l’umanità generando false dottrine, le figlie illegittime. Idea centrale Le religioni diverse dalla cattolica sono associate al concetto di inganno e mistificazione. Si può sottolineare che nel Duecento si sono sviluppate e diffuse numerose eresie, le quali hanno generato per reazione un violento fanatismo religioso. Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figlie illegittime che tentano con l’inganno di appropriarsi dell’eredità lasciata da Dio alla figlia legittima, l’unica portatrice di virtù e verità. Messaggio dell’autore Indirizzare il comportamento verso la diffidenza nei confronti delle dottrine, poiché possono essere ingannevoli. •D2 Dante Alighieri, Incontro con Maometto Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] E tutti li altri che tu vedi qui, / seminator di scandalo e di scisma / fuor vivi, e però son fessi così […] (vv. 34-36). Il testo intende mostrare agli uomini i tre regni ultraterreni allo scopo di ricondurli sulla retta via. Poema sacro (periodo storico inizio del Trecento). Si deve ricordare che l’età di Dante è dominata dalla sfera religiosa che permea di sé ogni aspetto dell’esistenza terrena, il cui unico valore consiste nel preparare la vita ultraterrena. Si tratta, quindi, di un’epoca di intolleranze e fanatismi religiosi. Colui che in vita ha diviso la cristianità diffondendo false verità e seminando discordia ora è “diviso”, squarciato nel corpo eternamente, come duratura sarà la frattura religiosa da lui provocata nella comunità dei fedeli. Laboratorio per l’esame 2 Idea centrale Dio punisce con la dannazione eterna chi inganna i suoi figli. Messaggio dell’autore Indirizzare verso la condanna delle diverse fedi, legittimata da Dio. Si può fare un rapido accenno all’analoga sorte riservata nella Commedia agli eresiarchi, altrettanto simbolicamente condannati nel decimo canto dell’Inferno a bruciare per sempre nelle arche incandescenti entro le mura della città di Dite. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D3 Giovanni Boccaccio, Il Saladino e Melchisedech Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Avendo speso tutto il suo tesoro in guerra e in liberalità […], era un usuraio di Alessandria d’Egitto […], un discendente non sapeva a chi dei suoi tre figli darla poiché erano tutti e tre virtuosi e rispettosi. […] La stessa cosa, concluse Melchisedech, si può dire delle tre religioni, date da Dio ai tre popoli: ciascun popolo crede che la propria sia quella autentica, ma la questione è ancora irrisolta. […] Il Saladino fu colpito da tanta saggezza e rivelò il fine nascosto della sua domanda. […] Melchisedech fu colpito dalla lealtà del sovrano e gli prestò generosamente il denaro, che poi il Saladino restituì, aggiungendo ricchissimi doni e onorandolo per sempre come suo amico. Il testo intende dilettare e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili alla emergente classe borghese. Novella (periodo storico metà del Trecento). Occorre ricordare che la terza giornata del Decameron è dedicata a novelle che celebrano il motivo dell’intelligenza, o ingegno, o industria, virtù tipicamente borghese, intesa come l’abilità di sapersela cavare in ogni circostanza grazie anche a un utilizzo arguto della parola. Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figli ugualmente virtuosi e rispettosi, amati con la stessa intensità dal padre, il quale è l’unico in grado di riconoscere l’anello autentico, portatore di virtù. Idea centrale Le confessioni sono tutte ugualmente valide e legittimate da Dio. Messaggio dell’autore Indirizzare alla tolleranza e al rispetto reciproco. Si devono approfondire le informazioni relative all’affermarsi, nel Trecento, della civiltà comunale e al conseguente dilagare della mentalità e dei modelli culturali borghesi. Si può ricordare l’incoronazione morale ottenuta dal Saladino nella Commedia, dove è collocato nel Limbo, fra gli spiriti magni della classicità. •D4 Voltaire, Tolleranza Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Che cos’è la tolleranza? È la prerogativa dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura […]. È chiaro che chiunque perseguiti un uomo, suo fratello, perché questi non è della sua opinione, è un mostro. Questo è indiscutibile. Il testo si propone di divulgare il pensiero illuminista. Saggio (periodo storico 1764). Colui che professa una fede diversa è presentato come un uomo come tutti gli altri, e come tale ugualmente soggetto a debolezze ed errori; in virtù di questa fratellanza, nessuno può perseguitare un altro perché non ne condivide l’opinione. Idea centrale Si sottolinea l’impossibilità degli uomini di giudicare la validità di una religione rispetto alle altre. Occorre ricordare che l’Illuminismo è un movimento di pensiero impegnato in una strenua battaglia per l’affermazione del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini e, di conseguenza, per la difesa e la tutela delle libertà individuali, di pensiero, parola, coscienza. Messaggio dell’autore Indirizzare alla tolleranza reciproca, in nome della propria “fallibilità”. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •D5 Gotthold Ephraim Lessing, La versione illuministica della parabola dei tre anelli Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli, non poteva farne a meno, li amava tutti allo stesso modo […]. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno. Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della sua pietra nel suo anello. E aiuti la sua virtù con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio […]. Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figli virtuosi e rispettosi ugualmente amati dal padre. Novella (periodo storico Settecento). Occorre richiamare la lezione di tolleranza impartita secoli prima dall’Umanesimo, il quale valorizza la dimensione interiore dell’individuo e la responsabilità del singolo nella scelta e nell’adesione a una confessione (principio del libero esame). Tali principi verranno approfonditi dal filosofo inglese John Locke nella Lettera sulla tolleranza (1685). Questo amore incondizionato diventa ora per gli eredi modello di comportamento. Idea centrale Le fedi sono tutte uguali e ugualmente care a Dio; sono i fedeli a mostrarne la grandezza con il loro amore e il loro rispetto per il prossimo. L’atteggiamento che deve prevalere è imitare l’amore del padre, incorruttibile ed esente da pregiudizi. Messaggio dell’autore Annullata qualunque differenza fra le religioni, si esorta alla tolleranza in nome del comune amore di Dio per tutti gli uomini, a qualunque fede appartengano. •D6 Luce Irigaray, Come accogliere le differenze Testo Schedatura Per incamminarci nella via di questo futuro, essere attenti alla parte della strada percorsa da altri può esserci di aiuto, anche per capirci. Rifiutare l’apertura ad altre culture e tradizioni equivarrebbe a una diffidenza rispetto alla nostra, a una paura di scoprire che essa non sia valida […]. Certo, ci troviamo così sempre a un bivio, incrociando l’altro nel rispetto delle nostre differenze. […] Sarebbe augurabile condividerla con l’altro a ogni bivio del cammino, e portare insieme più avanti lo sbocciare della nostra umanità. Il futuro della nostra società è paragonato a un percorso disseminato di bivi, ciascuno dei quali corrisponde all’incontro con altre culture e tradizioni. Ognuno di essi genera indubbie difficoltà e incertezze, ma costituisce al tempo stesso un’occasione per consolidare la nostra determinazione ad andare avanti. Laboratorio per l’esame 4 Tipologia testuale Articolo d’opinione (cronologia 2005). Idea centrale Per costruire il nostro futuro dell’umanità, che è una, è indispensabile il confronto con l’altro. Integrazioni personali Si fa riferimento al processo di formazione dello Stato liberale e democratico che è accompagnato, fra Otto e Novecento, dal costituirsi di una pluralità di opinioni in campo etico, politico e morale. Messaggio dell’autore Invito al confronto con gli altri, indispensabile per comprendere noi stessi e per consolidare la fiducia nella nostra cultura, anche religiosa. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Saggio breve Stesura Struttura «Nessuno può dirsi cristiano se impone ad altri la sua religione con la forza e la violenza» (J. Locke) Titolo Si propone una frase d’autore ritenuta significativa ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Fra le sfide più impegnative che in questi anni siamo chiamati ad affrontare vi è la capacità di realizzare il processo di integrazione con culture diverse, alle quali appartiene un numero crescente di individui nel nostro Paese. Uno degli aspetti a cui occorre prestare particolare attenzione è certamente quello religioso: la mancanza di tolleranza in questo campo costituisce, infatti, un ostacolo a qualunque altro processo di integrazione culturale e sociale. Per affrontare con successo tale sfida è necessario abbandonare pregiudizi e anacronistici atti di intolleranza; la riflessione storico-filosofica e la letteratura possono aiutarci a trovare nuove strade. Per tolleranza si intende l’atteggiamento di rispetto o di indulgenza nei confronti di azioni o convinzioni altrui, anche se in contrasto con le proprie. Introduzione Si sottolinea che l’accettazione dell’altro costituisce per gli uomini del terzo millennio una condizione indispensabile. Si dà una definizione di tolleranza. Il confronto fra le religioni ha da sempre richiamato l’attenzione di artisti e intellettuali, i quali ne hanno dato ampia rappresentazione. Nell’affrontare questo complesso argomento ciascuno di loro ha inevitabilmente subito l’influenza del contesto storico, politico e sociale a cui apparteneva e si è rapportato con l’ideologia e i modelli culturali dominanti, decidendo se prenderne le distanze o divenirne espressione. La letteratura italiana, in particolare, ha saputo offrire sin dal XIII secolo importanti testimonianze in merito. Tesi Si esprime l’opinione che i punti di vista sulla tolleranza siano largamente influenzati nella letteratura e nella riflessione storicofilosofica dal contesto storico e sociale, dalla tradizione culturale e dai modelli di vita dominanti. Un esempio del legame tra il punto di vista espresso sulla tolleranza e il contesto culturale di appartenenza è fornito dalla condanna alla dannazione eterna riservata da Dante Alighieri a Maometto nel XXVIII canto dell’Inferno: colui che in vita ha diviso la cristianità diffondendo false verità e seminando discordia è ora eternamente squarciato nel corpo, così come duratura sarà la frattura religiosa da lui provocata. La pena attribuitagli simboleggia per contrappasso la ferita inferta alla comunità dei fedeli dai falsi profeti e dagli eresiarchi, altrettanto simbolicamente condannati a bruciare per sempre nelle arche poste lungo le mura della città di Dite (Inferno, canto X). L’atteggiamento di Dante nei confronti delle altre religioni pare corrispondere in toto alla mentalità culturale dominante: nel corso del Medioevo si va delineando nel Papato una forte volontà teocratica, concretizzata nell’acquisizione, in virtù del prestigio e dell’autorità spirituale di cui gode presso l’intera cristianità, di un crescente potere temporale, destinato nelle intenzioni a prevalere su quello di imperatori e sovrani. Il papato diventa dunque un’istituzione non solo religiosa, ma anche politica: in tale ottica la fede è utilizzata come un efficace strumento di controllo delle masse popolari; l’intolleranza diviene il metodo maggiormente impiegato per regolare i difficili rapporti fra confessioni differenti. 1° Argomento a favore della tesi Si sottolinea il legame fra il contesto storico e culturale e la concezione dantesca delle religioni diverse dalla cattolica. Significativa della medioevale concezione assolutistica della religione, intesa come strumento di controllo sulle masse, appariva, cinquant’anni prima della stesura della Commedia, la rielaborazione a opera di Etienne de Bourbon della tradizionale parabola sull’anello dalle virtù taumaturgiche. Nella sua versione originale, elaborata in ambiente culturale ebraico e nota fin dal XII secolo, il racconto proponeva una vera e propria lezione di tolleranza e di serena convivenza tra confessioni diverse, dimostrando inoltre la stolta arroganza degli uomini, ciascuno dei quali è erroneamente convinto di possedere quella verità che solo Dio conosce. Nella rielaborazione di Bourbon, al contrario, coloro che professano una confessione diversa, definita “illegittima” in quanto frutto della ingannevole seduzione dei “lenoni”, sono giudicati come mistificatori, destinati a essere inevitabilmente smascherati. 2° Argomento a favore della tesi Anche la versione duecentesca della tradizionale novella dei tre anelli è espressione della concezione assolutistica della religione. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 Il messaggio dell’originaria versione ebraica è, invece, ripreso dall’anonimo autore del Novellino alla fine del Duecento e ampliato alla metà del Trecento da Boccaccio, il quale ne propone l’ennesima versione nella terza giornata del Decameron, dedicata alla virtù tipicamente borghese dell’industria, come capacità di cavarsela in ogni circostanza. Boccaccio fa del tradizionale motivo dei tre anelli il fulcro di un’idea superiore di tolleranza e di rifiuto di ogni tipo di fanatismo, sottraendolo allo spazio generico e fiabesco del Novellino e degli altri antecedenti e calandolo in un preciso contesto spazio-temporale, entro il quale si caratterizzano il ricco giudeo che, come spesso accade nel Basso Medioevo, svolge l’attività di usuraio, e il Saldino. Proprio la presenza sulla scena di quest’ultimo, uno dei personaggi di maggior rilievo del XII secolo, simbolo delle più alte virtù cavalleresche (liberalità e prodezza) e già collocato da Dante fra gli spiriti magni del Limbo accanto ai grandi della classicità, conferisce alla novella una forza esemplare. Grazie all’utilizzo arguto della parola del giudeo e alla schiettezza del Saldino, che in conclusione confessa all’usuraio il tentato inganno, i due finiscono per diventare amici e soci in affari. L’insegnamento che ne deriva è che al di là delle differenze religiose gli uomini possono intendersi in nome di una schiettezza e di una sincerità laiche, che costituiscono l’esatto contrario del fanatismo religioso. Boccaccio riconosce, infatti, il valore di ciascuna delle tre religioni maggiori, ebraismo, cristianesimo, islamismo (i figli “erano tutti e tre virtuosi e rispettosi”), e sostiene la conseguente impossibilità di giudicare in terra le contese di fede. Alla metà del Trecento, del resto, l’affermarsi della civiltà comunale e la battaglia condotta dai Comuni per l’emancipazione dal controllo politico di papato e impero indebolisce la preesistente omogeneità ideologico-culturale e contribuisce ad attenuare il fanatismo religioso. Con il dilagare della mentalità e dei modelli borghesi, sulla dimensione puramente spirituale dell’esistenza comincia ad affermarsi una visione più concreta e terrena, che va di pari passo con il prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica. Diventa, pertanto, ammissibile la professione di principi religiosi, etici, politici diversi: l’“infedele” è ora tollerato in nome di necessità variamente motivate, quali per esempio l’interesse economico. 3° Argomento a favore della tesi Attraverso alcuni esempi letterari, si rileva l’influenza esercitata dall’affermarsi, fin dagli ultimi anni del Duecento, della mentalità borghese nella percezione delle religioni diverse. Una delle tappe più importanti nello sviluppo del principio della tolleranza è senza dubbio l’Umanesimo, il quale valorizza la dimensione interiore dell’individuo e la responsabilità del singolo nella scelta e nell’adesione a una confessione. La concezione umanistica della fede, che propone nel rapporto uomo-Dio il principio del libero esame, si scontra inevitabilmente con la visione assolutistica, che alla religione attribuisce una funzione ideologica e politica e nega all’individuo la possibilità di vivere con Dio un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni. L’adesione a confessioni diverse da quella cattolica viene, dunque, interpretata come un crimine contro la Chiesa e le sue istituzioni. Proprio ai principi promulgati da un campione dell’Umanesimo, Erasmo da Rotterdam, sembra ispirarsi la versione illuministica della parabola dei tre anelli: in essa è evidente l’influsso della teoria erasmiana, secondo cui il cristianesimo è innanzitutto impegno individuale di vita morale, pratica di carità, imitazione del modello di Dio (“sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizio”). è opinione di Lessing che nessuno sulla terra sia in grado di ergersi a giudice nelle contese di fede, per cui tutte le religioni devono essere considerate valide; pertanto, la difesa dell’ortodossia non può giustificare persecuzioni violente, ma deve essere subordinata al rispetto della dignità dell’uomo. 4° Argomento a favore della tesi La versione settecentesca della novella dei tre anelli, che riflette la lezione di tolleranza impartita dall’Umanesimo, è espressione dello spirito illuminista. Nel XVIII secolo, in un’Europa sconvolta dall’esperienza della Riforma protestante e da decenni di sanguinari conflitti religiosi torna ad affiorare il tema della tolleranza. I principi già sviluppati nell’età umanistica vengono innanzitutto ripresi e approfonditi dal filosofo inglese John Locke. Nella Lettera sulla tolleranza (1685) egli definisce “false chiese” le confessioni che tentano di imporre il proprio culto sulle altre; ad esse sono da preferire le “vere chiese”, che basano la propria azione sui principi di rispetto reciproco e di impegno individuale; il filosofo ribadisce, inoltre, la separazione fra Chiesa e Stato, il quale non può intervenire in materia di fede, e sancisce la libertà di coscienza individuale. 5° Argomento a favore della tesi In un periodo dominato dal più violento fanatismo religioso Locke si oppone all’ideologia dominante e torna a proporre la tolleranza. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La tolleranza religiosa trova piena affermazione nel secolo dei Lumi, grazie alla battaglia per l’affermazione del principio di uguaglianza di tutti gli uomini e delle libertà individuali, che ispirò tra l’altro il Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire: il filosofo francese evidenzia l’insensatezza del fanatismo religioso e dimostra con serrate argomentazioni la contraddizione che intercorre fra l’insegnamento di Gesù e gli atti di intolleranza che caratterizzano numerosi cristiani. L’anno seguente nel Dizionario filosofico Voltaire afferma che la tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana, è una “prerogativa” dell’umanità: poiché noi tutti siamo soggetti a fallibilità e inclini all’errore, non resta che riconoscere nelle debolezze dell’altro le nostre fragilità e perdonarci vicendevolmente. In questo senso, la tolleranza si configura come vera e propria legge di natura, fondamento di tutte le libertà e di tutti i diritti umani. Non a caso, tale principio sarà sancito nella Dichiarazione di indipendenza (1776) e nella successiva Costituzione federale degli Stati Uniti d’America (1791). 6° Argomento a favore della tesi La battaglia per l’affermazione della libertà di coscienza che caratterizza il “secolo dei Lumi” ispira l’opera e il pensiero di Voltaire. Fra Otto e Novecento si assiste, rispetto al passato, alla progressiva accettazione di una pluralità di opinioni in campo etico, politico e morale; nel faticoso costituirsi dello Stato liberale e democratico, la tolleranza concorre all’affermarsi del diritto alla libertà d’opinione e garantisce la coesistenza dialettica di posizioni ideologiche differenti. In questo senso, essa contribuisce alla ricerca della verità. Significativo, a questo proposito, il pensiero di Luce Irigaray, filosofa e psicanalista belga che nel 1930 invitava a riconoscere alla tolleranza una funzione assolutamente positiva: permettendo l’esistenza di una pluralità di opinioni in tutti i campi in cui è esercitata, essa contribuisce alla conoscenza e alla ricerca della verità. 7° Argomento a favore della tesi Nel Novecento, con l’affermarsi dei principi liberali e democratici, il valore morale e politico assunto dalla tolleranza trova espressione nel pensiero della Irigaray. Le testimonianze illustrate appaiono oggi estremamente attuali, sia nei luoghi in cui fanatismo religioso e intolleranza calpestano i diritti e le libertà altrui, sia laddove democrazia e libertà sembrano regnare. Troppo spesso, infatti, la tolleranza è concepita in termini riduttivi o addirittura negativi: in alcuni casi, la scelta del tollerare è considerata come il minore dei mali, nella convinzione che sia preferibile astenersi dal condannare posizioni morali o religiose giudicate riprovevoli per evitare i problemi certamente peggiori generati dalla repressione violenta; la diversità che si decide di tollerare, del resto, non giungerà mai a un’autentica e piena affermazione di sé. La tolleranza, in conclusione, anticipa e prepara il concetto di libertà politica, ma non coincide con il diritto alla libertà di coscienza: essa corrisponde piuttosto a una scelta individuale e come tale può essere revocata; viceversa, irrevocabile è la liceità tutelata dai diritti di libertà di pensiero, coscienza e opinione che le costituzioni liberali e democratiche garantiscono a ciascun cittadino. Essa si configura, in ogni caso, come fondamento di tutte le libertà e di tutti i diritti umani e come ineludibile obiettivo da raggiungere: come si affermava in apertura, la mancanza di tolleranza costituisce, soprattutto in campo religioso, un significativo ostacolo a qualunque processo di integrazione culturale e sociale. Conclusione Si fa un rapido accenno alla situazione attuale e si ribadisce l’opinione per cui la tolleranza sia imprescindibile obiettivo dei nostri tempi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 180-181 Articolo di giornale Componi un articolo sull’argomento: «Trovatori, giullari e goliardi» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 180-181. • Guglielmo d’Aquitania, Nella dolcezza della primavera (• T4) • Jaufré Rudel, Amore di terra lontana (• T5) • Dario Fo, La nascita del giullare (• Focus, p. 176) • Anonimo, Godiamo dunque (• D1) Schedatura dei documenti •T4 Guglielmo d’Aquitania, Nella dolcezza della primavera Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Nella dolcezza della primavera / i boschi rinverdiscono, e gli uccelli / cantano, ciascheduno in sua favella, / giusta la melodia del nuovo canto. / È il tempo, dunque, che ognuno prenda agio / di quello che più brama. Così detta perché accompagnata dalla musica, la canzone costituisce la forma metrica privilegiata della materia amorosa. Canzone in lingua d’oc (periodo storico inizio XII secolo). Dall’essere che più mi giova e piace / messaggero non vedo, né sigillo: / perciò non trovo posa né allegrezza, / né ardisco farmi innanzi / finché non sappia di certo se l’esito / sarà quale domando. È posto in evidenza il contrasto fra la rinascita primaverile, quando ogni creatura si predispone ad amare, e l’incertezza dell’innamorato, al quale non giungono segnali certi dalla donna amata. Del nostro amore accade / come del ramo di biancospino, / che sta sulla pianta tremando / la notte alla pioggia ed al gelo, / fino al domani, che il sole s’effonde / per il verde fogliame sulle fronde. La fragilità e la mutevolezza dell’esperienza amorosa sono espresse ancora una volta attraverso un’immagine tratta dal mondo naturale. È opportuno ampliare le informazioni su Guglielmo IX duca d’Aquitania, indicato dalla tradizione come il fondatore della lirica d’amore in lingua d’oc, fiorita nella Francia meridionale per opera dei trovatori (dal verbo trobar = comporre versi) e diffusa in tutta Europa dai giullari. La lirica provenzale viene definendosi in alcuni nuclei tematici proprio attraverso il canzoniere di Guglielmo, che elabora il motivo del servizio d’amore inteso come totale sottomissione dell’uomo alla donna (spesso indicata con l’espressione midons, il mio signore) e del vincolo del vassallaggio feudale come metafora del rapporto d’amore. Occorre, inoltre, descrivere l’ambiente sociale dei trovatori, le corti dei grandi castelli fortificati dei vassalli del re di Francia nei quali l’aristocrazia feudale elabora nuovi ideali e codici di comportamento. Ancora mi rimembra d’un mattino / che facemmo la pace tra noi due, / e che mi diede un dono così grande: / il suo amore e il suo anello. / Dio mi conceda ancor tanto di vita / che sotto il suo mantello possa metter le mani! Io non ho cura degli altrui discorsi / che dal mio Buon-Vicino mi distacchino: / delle chiacchiere so come succede / per picciol motto che si profferisce: / altri van dandosi vanto d’amore; / noi disponiamo di carne e coltello. Fa da sfondo alla vicenda amorosa una splendida natura. I vv. 22 e 24 alludono alla cerimonia dell’investitura, nella quale il signore donava l’anello al vassallo e lo copriva con il proprio mantello in segno di protezione; così è anche al v. 30, se si accoglie l’interpretazione del coltello come allusione al feudo concesso in uso al vassallo (l’espressione potrebbe anche alludere al rapporto sessuale). Il vincolo del vassallaggio diventa metafora del rapporto d’amore dei valori di fedeltà, lealtà, protezione e dedizione assolute. Idea centrale L’esperienza amorosa è celebrata in termini astratti e ideali, con il ricorso a numerosi elementi stereotipati: dal topos del locus amoenus al servizio d’amore, inteso come rispetto di precise regole desunte dal mondo feudale, al bon celar, l’esigenza di celare il nome dell’amata. Messaggio dell’autore La concezione dell’amore cortese come sublime e suprema avventura cavalleresca dell’animo, rigidamente codificata in un complesso e imprescindibile galateo. La donna amata è indicata attraverso un senhal, un soprannome per sottrarne il nome ai maldicenti (lauzengiers). Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •T5 Jaufré Rudel, Amore di terra lontana Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Quando il rivolo della sorgente / illimpidisce, così come suole, / e sboccia la rosa di macchia / e l’usignoletto fra i rami / modula, gorgheggia e fila / il suo dolce canto, e l’affina, / ben è ragione ch’io pure il mio gorgheggi. La canzone costituisce la forma metrica privilegiata della materia amorosa. Canzone in lingua d’oc (periodo storico inizio XII secolo). È posta in evidenza la corrispondenza fra la rinascita primaverile della natura e lo stato d’animo del poeta, che si predispone a cantare. Idea centrale L’amore è una forza irresistibile che affina l’animo del poeta innamorato, è tensione verso un’irraggiungibile perfezione spirituale e morale, che sola rende degni della grazia dell’amata, spesso lontana o inaccessibile. Occorre ampliare le informazioni su Jaufré Rudel, principe di Blaye (1125-1148), poeta e trovatore francese la cui produzione è dominata da un paradosso amoroso, l’innamoramento per una donna materialmente lontana o irraggiungibile (l’amor de lonh) perché sposata, che genera nell’amante un irrefrenabile impulso verso l’affinamento spirituale e intellettuale. È, inoltre, opportuno evidenziare il ruolo attribuito dai trovatori provenzali di elevata estrazione sociale ai giullari, divulgatori della poesia cortese ed elemento di unione con la cultura popolare. Amor di terra lontana, / per voi tutto il cuore mi duole. / E non posso trovarci medicina / se non corro alla sua esca. Seguendo il fascino d’un dolce amore / entro un verziere o sotto cortinaggi / con desiata compagnia. Poiché occasione ognora me ne manca / non meraviglio se n’ardo, / ché mai più bella cristiana / non fu, né Iddio permette che sia, / né giudea, né saracena: / ben si pasce di manna colui / che del suo amore conquista alcun poco. Di sospirare il mio cuore non cessa / a quella creatura che più di tutte io amo, / e credo che m’inganna il desìo / se la concupiscenza me la toglie, / ché più di spina è pungente / il duolo che con gioia risana, / onde non voglio che mi si compianga. Senza rotolo di pergamena / invio la composizione, che cantiamo / in semplice lingua volgare, / a don Ugo Bruno, per mezzo di Figlioccio: / mi piace che la gente pittavina / di Berry e di Guyenne / e di Bretagna se ne allieti. Laboratorio per l’esame 2 Il locus amoenus fa da sfondo al lamento del poeta, il quale celebra la dolorosa separazione dalla donna amata, che la tradizione identifica in Melisenda, principessa di Tripoli, in Terra Santa. Il poeta esalta la perfezione della bellezza dell’amata, che accresce la virtù dell’innamorato: il cibo divino della manna allude proprio al processo di perfezionamento cui è sottoposto l’amante. Messaggio dell’autore La concezione dell’amore cortese come suprema esperienza di perfezionamento spirituale e morale, anche se non ricambiato. L’amore è esperienza gratificante anche se non ricambiato; l’innamoramento si manifesta nell’alternarsi di gioia e dolore. Il giullare Figlioccio diffonderà la canzone, destinata non solo al nobile Ugo VII di Lusignano, ma anche al popolo, perché ne tragga piacere. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •Focus, p. 176 Dario Fo, La nascita del giullare Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Oh, gente, venite qui che c’è il giullare! Giullare son io, che salta e piroetta e che vi fa ridere, che prende in giro i potenti e vi fa vedere come sono tronfi e gonfi i palloni che vanno in giro a far guerre dove noi siamo gli scannati, e ve li faccio sfigurare, gli tolgo il tappo e… pffs… si sgonfiano. Venite qui che è l’ora e il luogo che io faccia da pagliaccio, che vi insegni. Faccio il saltino, faccio la cantatina, faccio i giochetti! Guarda la lingua come gira! Sembra un coltello, cerca di ricordartelo. Ma io non sono stato sempre… è questo che vi voglio raccontare, come sono nato. […] – Disgraziato! Giusto che hai tenuto la terra, giusto che non vuoi padroni, giusto che hai avuto la forza di non mollare, giusto… Ti voglio bene, sei forte, buono! Ma ti manca qualche cosa che è giusto che tu devi avere: qua e qua (fa segno alla fronte e alla bocca). Non rimanere qui attaccato a questa terra, vai in giro e a quelli che ti tirano le pietre digli, digli, fagli comprendere, e fai in modo che questa vescica gonfia che è il padrone tu la buchi con la lingua, e fai uscire il siero e l’acqua a sbrodolare marcio. Tu devi schiacciare questi padroni e i preti e tutti quelli che gli stanno intorno: i notai, gli avvocati, eccetera. Non per il bene tuo, per la tua terra, ma per quelli come te che non hanno terra, che non hanno niente e che devono soffrire solamente e che non hanno dignità da vantare. Campare di cervello e non di piedi! – Ma non capisci? Io non sono capace, io ho una lingua che non si muove […]. – Gesù Cristo sono io, che vengo a te a darti la parola. E questa lingua bucherà e andrà a schiacciare come una lama vesciche dappertutto e a dar contro ai padroni, e schiacciarli, perché gli altri capiscano, perché gli altri apprendano, perché gli altri possano ridere (riderci sopra, sfotterli). Che non è che col ridere che il padrone si fa sbracare, che se si ride contro i padroni, il padrone da montagna che è diviene collina, e poi più niente […]. Si ispira alla sacra rappresentazione medioevale allo scopo di reinterpretare le Sacre Scritture in modo grottesco. Opera drammaturgica in dialetto lombardoveneto (periodo storico 1969, 1976). Il giullare intende attirare il pubblico con salti e piroette per poi istruirlo, educarlo a ribellarsi ai potenti. Per questo egli racconta la propria vicenda: contadino rovinato dal signorotto locale, giunto sul punto di togliersi la vita, è miracolato da Gesù Cristo, che gli fa dono della parola. Idea centrale È compito del giullare denunciare le ingiustizie della società medioevale, rigidamente gerarchizzata, e dissacrare il potere. È importante precisare che l’operazione compiuta da Fo non va interpretata in senso strettamente storico: egli, infatti, attribuisce ai giullari una coscienza politica consapevolmente oppositiva al potere che forse nel Medioevo essi non ebbero mai. Gesù invita il contadino, divenuto giullare grazie al dono della parola, a rivelare agli ultimi fra gli uomini l’arroganza dei potenti. Egli dovrà opporsi a nobili ed ecclesiastici, scuotere i contadini, chiusi nell’immobilismo sociale e intellettuale, ed educarli ad assumere un atteggiamento fortemente critico nei confronti dei potenti. Messaggio dell’autore L’estensione dalle istituzioni medioevali a tutti i tempi, compresi quelli attuali, della denuncia dell’arroganza del potere. Attraverso il potere dissacrante e corrosivo del riso, il padrone perderà la propria forza e la capacità di incutere timore. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •D1 Anonimo, Godiamo dunque Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Godiamo dunque, / finché siamo giovani. / Dopo la gioconda gioventù, / dopo la fastidiosa vecchiaia, / ci sarà la terra. / Dove sono, quelli che prima di noi / furono nel mondo? / salite ai cieli, / scendete agli inferi, / dove loro sono già. / La nostra vita è breve, / in breve sarà finita, / la morte viene velocemente, / ci rapisce atrocemente, / nessuno è risparmiato. / Viva l’accademia! / Vivano i professori! / Viva qualunque membro! / Vivano tutte le membra! / Sempre in fiore! / Vivano tutte le vergini, / facili e belle! / Vivano anche le altre donne, / tenere, amabili, / buone, operose! / Viva anche il comune, / e chi lo regge! / Viva la nostra città, / la carità dei mecenati, / che qui ci protegge. / Muoia la tristezza! / Muoiano i nemici! / Muoia il diavolo, / chiunque ci avversi / e ci derida! Genere popolare diffuso tra gli studenti universitari. Canto goliardico (periodo storico XII-XIII secolo). È opportuno ampliare le informazioni sui Carmina Burana, raccolta anonima di canti goliardici in latino, tedesco, francese che deriva il proprio nome dal monastero benedettino di Benediktbeuern, presso Monaco di Baviera, nella cui biblioteca vennero rinvenuti nel 1803. Il manoscritto originale comprende trecento canti attribuiti ai cosiddetti chierici vaganti, studenti universitari che completavano la propria preparazione spostandosi attraverso l’Europa. Laboratorio per l’esame 4 Attraverso il recupero del motivo di tradizione classica del tempo che fugge, l’anonimo poeta invita a godere i piaceri della carne e dell’amore propri della gioventù, esaltando uno stile di vita libertino. Sono evidenti i riferimenti al mondo universitario e alla realtà comunale. I goliardi sono intellettuali in precarie condizioni economiche e di umile estrazione sociale, e spesso sopravvivono ponendosi al servizio di qualche ricco mecenate. Idea centrale L’anonimo configura un mondo opposto a quello tradizionale e ai valori sociali vigenti: all’ascetismo medioevale, egli contrappone la celebrazione di un’esistenza dedita ai piaceri della carne e ai beni terreni. Messaggio dell’autore La condanna dell’ipocrisia della morale tradizionale e l’esaltazione di uno stile di vita libertino. Motivo di turbamento e diffidenza per i ceti conservatori, sono dai benpensanti relegati ai margini della società. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 articolo di giornale Stesura Struttura La cultura europea dopo il Mille: trovatori, giullari, goliardi Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo, di cui si indica anche la destinazione editoriale. “Il Resto del Carlino”, Bologna “All’inizio furono i trovatori. Nobili, eleganti, profondamente immersi nella cultura cortese di cui furono i principali cantori. Poi vennero i giullari. Mendicanti dello spettacolo, artisti poliedrici che si guadagnavano da vivere esibendosi davanti a un pubblico. Della cultura cortese furono i maggiori divulgatori. E fu il tempo dei goliardi. Spiriti liberi tesi alla ricerca dei piaceri, feroci contestatori dell’ordine sociale costituito e di quella cultura cortese di cui furono i massimi dissacratori”. Introduzione Le prime righe, di forte impatto, sono volte a catturare l’attenzione del lettore. Così ha esordito ieri nell’Aula Magna di Santa Lucia, a Bologna, in occasione dell’apertura del nuovo anno accademico, il Magnifico Rettore professor Ivano Dionigi, che di fronte a un auditorio di non specialisti ha voluto rievocare tre figure emblematiche dei secoli immediatamente successivi all’anno Mille, evidenziandone la relazione con il nascente mondo universitario. Le coordinate dell’informazione Who: Ivano Dionigi. What: il discorso tenuto in occasione dell’apertura del nuovo anno accademico. Where: a Bologna, nell’Aula Magna di Santa Lucia. When: ieri, 18 dicembre 2010. Why: per rievocare le figure dei trovatori, dei giullari e dei goliardi e la loro relazione con il nascente mondo universitario medioevale. Ma quale di queste figure comparve per prima? Difficile stabilire una scansione cronologica netta: i tre ruoli finirono spesso col confondersi e sovrapporsi. Provenza, Sud della Francia, fine XI secolo: nei grandi castelli fortificati dei più potenti vassalli del re di Francia, il mondo aristocratico e feudale delle corti elabora nuovi rituali, codici di comportamento e regole morali, destinati a divenire ben presto modelli per la coeva società europea. Sui valori guerreschi del coraggio in battaglia e del desiderio di onore, retaggio dell’origine militare dell’ordine cavalleresco, si innestano qualità propriamente morali, quali gentilezza, liberalità, lealtà, rispetto e protezione verso la donna, che determinano una particolare raffinatezza dei costumi. L’esperienza amorosa viene idealizzata e codificata nelle medesime forme rituali che imprigionano ogni aspetto della vita sociale delle corti, dai tornei alle cerimonie di investitura. Guglielmo IX duca di Aquitania, potente feudatario della regione francese del Poitou, valoroso guerriero e spregiudicato libertino vissuto tra XI e XII secolo: a lui la tradizione attribuisce il merito di avere per primo celebrato in versi la fin’amor, l’amore cortese, cantato in termini non più fisici e concreti, ma astratti e idealizzati, codificato in raffinate norme che ricorreranno pressoché invariate nei trovatori successivi. Corpo principale dell’articolo Si spiega il “come” (how), soffermandosi sulla difficoltà di separare le tre figure, le quali finiscono per confondersi e sovrapporsi. Si insiste, in particolare, sul rapporto di ciascuna con la società e la cultura cortese dominanti. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 Nei secoli a venire, altri poeti provenzali celebreranno nei loro versi e nelle melodie destinate ad accompagnarli l’amore inteso come tensione verso un’irraggiungibile perfezione spirituale e morale, che sola rende degni della grazia dell’amata, spesso lontana o inaccessibile. A loro è dato il nome di trovatori. Essi provengono da contesti molto diversi: i più antichi sono di elevata estrazione sociale, nobili, cavalieri, perfino principi, come Jaufré Rudel; i più tardi appartengono alle classi inferiori, da quella borghese dei mercanti ad altre dedite ad attività manuali; alcuni di essi possiedono un’educazione clericale. Molti soggiornano a lungo in un luogo, sotto la protezione e il mecenatismo di un ricco signore o di una nobildonna; altri viaggiano in modo esteso, passando da una corte aristocratica all’altra. Furono, dunque, i trovatori a fare per primi la loro comparsa? Difficile dare una risposta. Le figure del trovatore e del giullare spesso si confondono e si sovrappongono. Benché fin dal XII secolo si affermi una netta distinzione tra trovatore, creatore originale di parole e musica, e giullare, semplice esecutore delle canzoni dei trovatori, non pochi poeti provenzali, come Marcabru, Peire Vidal, Raimbaut de Vaqueiras, hanno origine giullaresca e continuano a essere noti come giullari anche dopo avere iniziato a comporre poesia originale. La prima figura Il trovatore, originale cantore della cultura cortese. Mendicante dello spettacolo, il giullare è un uomo di media cultura, spesso chierico, che si guadagna da vivere esibendosi davanti a un pubblico, vagando per le corti o per le piazze, diffondendo notizie, idee, forme di spettacolo e di intrattenimento: egli costituisce il maggior elemento di unione tra la letteratura colta dei trovatori e quella popolare. L’indefinitezza del ruolo del giullare percorre tutto il Medioevo, insieme alla sua cattiva fama, come testimonia la proliferazione terminologica che accompagna la sua presenza e le sue attività pubbliche: nei secoli bui lo si vede affiancato a indovini e incantatori, in una sorta di lista di proscrizione sociale che lo qualifica come pericoloso per la morale cristiana, creatore di spettacoli che sovvertono spesso le leggi religiose. Al pari di ebrei e prostitute, condannati nelle città medievali a essere ben visibili tra la folla, egli indossa abiti colorati e preannuncia la propria presenza facendo ricorso a campanacci e strumenti a fiato che lo rendono ben individuabile anche da lontano. Un simile atteggiamento impedisce, di fatto, l’integrazione dei giullari e li relega ai margini del contesto sociale. La seconda figura Il giullare, elemento di unione tra letteratura colta e tradizione popolare. Analoga la sorte riservata dalla società coeva ai goliardi, la cui origine storica può essere rintracciata intorno al XII secolo, periodo in cui si assiste a una ripresa economica che favorisce un’ampia mobilità sociale. Cosa li distingue dai trovatori e dai giullari? Innanzitutto, il legame con il mondo universitario. Intellettuali ai quali le precarie condizioni economiche e l’umile estrazione sociale non consentono di intraprendere la carriera di maestro nelle università medievali, studenti poveri non in grado di frequentare con regolarità le lezioni universitarie, i goliardi vivono spesso di espedienti, al limite della legalità, ponendosi al servizio di qualche ricco mecenate, intraprendendo talvolta il mestiere del giocoliere e confondendosi con i giullari. Con i giullari condividono, del resto, la condizione di emarginati: naturalmente anarchici, si oppongono con ferocia a tutti coloro che si riconoscono nelle caste sociali medioevali, non solo nobili ed ecclesiastici, ma anche contadini, chiusi nel loro immobilismo sociale e intellettuale. Motivo di turbamento e diffidenza per i ceti conservatori, sono spiriti liberi alla ricerca dei piaceri propri della gioventù; come i trovatori, creano opere poetiche originali e melodie attraverso le quali esaltano uno stile di vita libertino e muovono pesanti critiche all’ipocrisia della morale tradizionale, alla corruzione dei costumi della Chiesa, alla vigente gerarchia sociale. I loro versi configurano un mondo opposto a quello tradizionale, ai valori sociali dominanti: all’esaltazione della vita contemplativa e della rinuncia ai beni terreni per quelli celesti essi contrappongono la celebrazione di un’esistenza dedita ai piaceri; antagonisti del nobile cavaliere dedito alla professione della guerra, alla gloria in battaglia preferiscono la gloria della conquista e della seduzione. E proprio la feroce critica ai valori e alle istituzioni dominanti, la scelta di una vita libera e libertina, l’incapacità di trovare una collocazione all’interno delle università condannano i goliardi a un ruolo marginale nella cultura dei secoli successivi, benché alcuni dei loro ideali riaffiorino in epoca umanistico-rinascimentale. La terza figura Il goliardo, anarchico contestatore della società feudale. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 I goliardi sono ancora presenti nelle nostre università: occorre, tuttavia, chiedersi se lo spirito sia il medesimo dei loro antenati o se la goliardia non sia oggi ridotta a semplice elemento di colore e di costume, privo ormai di quella corrosiva e dissacrante capacità critica nei confronti delle istituzioni e dell’autorità costituita che ne connotò la nascita. Tale spirito sembra, piuttosto, essersi conservato nella maschera del giullare resa celebre dal Mistero buffo di Dario Fo, che in essa si è identificato. Egli attribuisce ai giullari una coscienza politica consapevolmente oppositiva al potere che forse nel Medioevo essi non ebbero mai e che fu, invece, propria dei goliardi”. “Trovatori, giullari e goliardi furono certamente espressione di una società in evoluzione, della quale rappresentarono ora i vertici, ora i reietti, ora i dissacratori” ha concluso il professor Dionigi, cogliendo l’occasione per rivolgere un augurio di buon lavoro a docenti e studenti tutti. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Conclusione Si attualizza il tema con alcune considerazioni sulla realtà universitaria di oggi. Laboratorio per l’esame 7 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 236-237 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «La questione della lingua» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 236-237. • Dante Alighieri, Il volgare ideale (• T36) • Giuliano Procacci, La funzione sociale del volgare nell’Italia dell’età comunale (• D1) • Ignazio Buttitta, Lingua dei padri (• D2) Schedatura dei documenti •T36 Dante Alighieri, Il volgare ideale Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Mettiamo dunque ben in chiaro prima di tutto che cosa intendiamo coll’attributo di illustre, e perché diciamo illustre. Con questa parola illustre intendo appunto qualche cosa che illumini e che, illuminata, molto rifulga […]. Ed il volgare di cui parlo è sublimato da magistero e da potere, e sublima i suoi con onore e gloria […]. Né senza ragione onoro questo volgare illustre col secondo attributo, sì da chiamarlo cioè cardinale. Come infatti la porta tutta segue il cardine […] così anche la greggia tutta dei volgari municipali si volge e rivolge, si muove e sta, alla maniera di questo, che appare appunto essere il vero capofamiglia […]. Che se poi lo chiamo aulico questa è la ragione, che se noi Italiani avessimo la Reggia, esso apparterrebbe al Palazzo […]; né alcun’altra dimora è degna di cotanto abitatore […]; l’illustre nostro va peregrinando come forestiero e trova ospitalità in umili asili, poiché manchiamo di reggia. Deve anche essere meritatamente chiamato curiale […] essendo stato ponderato nella più eccelsa curia degli italiani […]. Il volgare ideale tratteggiato da Dante garantisce onore e gloria agli artisti che lo utilizzano (illustre); è cardine e modello a tutti i dialetti municipali (cardinale); è consono alle più alte ambizioni poetiche e retoriche, ma anche politiche, in quanto adatto alla corte e alla curia, al momento materialmente disperse (aulico e curiale). Trattato di retorica (periodo storico 13031305). È opportuno ampliare le informazioni sulla situazione politica dell’Italia del Trecento e sul pensiero politico di Dante. Dante allude alla curia ideale costituita dagli intellettuali che, benché dispersi in singole realtà municipali, sono tuttavia uniti dalla luce della ragione e concorrono all’unificazione linguistica. Idea centrale L’autore intende individuare la forma più nobile dei dialetti italiani, un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del latino. Messaggio dell’autore L’invito agli intellettuali, destinatari privilegiati dell’opera, a mediare tra ceti sociali profondamente diversi attraverso la creazione di una lingua volgare nobilitata, adatta a intellettuali e plebe. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Si deve fare riferimento all’evoluzione dei volgari, che hanno origine in Europa nei primi secoli del Medioevo dal disgregarsi del latino parlato in una moltitudine di lingue locali diverse, non affidate alla scrittura. A partire dal IX secolo, alcuni volgari diventano lingua letteraria, grazie al sorgere di una cultura non più limitatamente ecclesiastica, ma laica, diffusa e popolare. In Italia, l’assenza di un centro politico unitario e il persistere di una tradizione letteraria classico-latina fortemente consolidata ritarda al XIII secolo la nascita di una letteratura in volgare. Laboratorio per l’esame 1 •D1 Giuliano Procacci, La funzione sociale del volgare nell’Italia dell’età comunale Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali L’intellettuale italiano dell’età comunale presenta una doppia natura e una doppia funzione. Da un lato egli è un esponente “organico” della civiltà comunale e cittadina, dall’altro esso è un membro di una casta che, al di sopra dei municipalismi, si viene gradatamente costituendo come una nuova aristocrazia […] che, al di là delle frontiere, unisce i dotti e gli spiriti eletti […]. Il problema che gli si poneva innanzi tutto era perciò quello di mettere in comunicazione questi due circuiti dando vita ad una produzione letteraria che fosse accessibile sia al pubblico tradizionale dei dotti sia a quel più largo e differenziato pubblico che l’evoluzione e lo sviluppo della società comunale aveva creato […]. A costoro non ci si poteva rivolgere che in volgare, nella lingua cioè di tutti i giorni. Ma i volgari italiani erano molti […]. Una letteratura in volgare rischiava perciò di rimanere confinata nell’ambito della produzione minore lasciando al latino il privilegio di continuare a fungere da lingua letteraria delle classi colte […]. Occorreva trovare […] un anello di congiunzione […], un volgare nobilitato e illustre […]. Naturalmente questo processo di formazione di una lingua letteraria italiana non poteva essere che lungo e graduale. In età comunale gli intellettuali spesso partecipano attivamente alla gestione politica delle realtà municipali. Saggio storico (periodo storico 1971). È opportuno ampliare le informazioni circa la rinascita economica del Trecento e le importanti conseguenze sociali che la caratterizzano. Laboratorio per l’esame 2 A partire dalla fine del Duecento, e più ampiamente nel corso del Trecento, si viene delineando quella repubblica delle lettere, come la definisce Petrarca, che trascende municipalismi e regionalismi per unire spiritualmente e idealmente intellettuali e letterati italiani. I mutamenti sociali ed economici che caratterizzano l’Italia del XIV secolo rendono necessario adeguare la lingua della produzione letteraria alle competenze linguistiche del nuovo pubblico di estrazione medio e basso-borghese. Idea centrale L’importanza del ruolo svolto in età comunale dagli intellettuali, chiamati a mediare tra le classi colte che si esprimono in latino e le ristrette competenze linguistiche del nascente pubblico borghese. Messaggio dell’autore La dimostrazione che le origini del lungo e graduale processo di formazione della lingua letteraria italiana risalgono all’età comunale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D2 Ignazio Buttitta, Lingua dei padri Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Un populu, diventa poviru e servu / quannu ci arrubbano a lingua / addutata di patri: è persu pis simpri. Attraverso i soprusi compiuti ai danni di un generico popolo (mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca!), il poeta giunge alla conclusione che solo la perdita della lingua dei padri riduce in povertà una comunità di individui e la priva della libertà (diventa poviru e sirvu). Componimento in versi in dialetto siciliano (periodo storico 20 luglio 2007). Occorre richiamare il concetto di nazione, intesa come insieme di usi, costumi e tradizioni, lingua e cultura, storia e passato condivisi da un gruppo di individui che in essi si riconosce e trova la propria unità. Idea centrale L’unica vera ricchezza di un popolo è la tradizione linguistica, che lo rende unico e unito. Messaggio dell’autore L’importanza della lingua, l’unica vera ricchezza di un popolo, espressione più autentica del suo spirito e della sua storia. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 Saggio breve Stesura Struttura Da Dante a Facebook: settecento anni di questione della lingua Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del contenuto del saggio. La questione della lingua è un tema fondamentale della cultura italiana, che attraversa gli oltre mille anni di storia in cui l’Italia resta politicamente divisa e frammentata. Essa rappresenta il caparbio tentativo da parte degli intellettuali di conferire unità linguistica a un’infinita miriade di entità politiche autonome e indipendenti, città, regioni, staterelli la cui esistenza si compie in modo più o meno effimero entro i confini geografici dell’Italia. Introduzione Si afferma che il dibattito sulla lingua nazionale è stato ed è tuttora un tema fondamentale della cultura del nostro paese. Inaugurata dal padre della lingua italiana con il De vulgari eloquentia, trattato di retorica scritto intorno al 1304, la “questione” si alimenta attraverso i secoli dei contributi di grandi intellettuali e letterati fino a protrarsi, nell’Ottocento, oltre il compimento del processo di unificazione nazionale. In un componimento apparso qualche anno fa sul “Resto del Carlino” il poeta siciliano Ignazio Buttitta sostiene che la lingua è la ricchezza di un popolo, il quale può dirsi veramente povero solo quando gli viene sottratta la lingua dei padri. Il caparbio perseverare di intellettuali e letterati nell’intento di costruire e attribuire all’Italia una lingua unica e unitaria ha certamente contribuito alla nascita della “nazione Italia”, intesa come patrimonio comune di storia, cultura, tradizione, prima ancora del sorgere dello “stato Italia”. L’opportunità di riconoscersi in una tradizione letteraria e culturale che parlasse italiano ha concorso al Risorgimento nazionale tanto quanto i tre conflitti che l’hanno concretamente realizzato. Tesi Si esprime l’opinione secondo cui uno dei tratti costitutivi della questione della lingua è rappresentato dalle sue importanti implicazioni politico-sociali. Nell’inaugurare, all’inizio del 1300, la plurisecolare questione della lingua, Dante sceglie, all’apparenza paradossalmente, di esprimersi in latino, che in età medioevale si configura come antagonista linguistico del volgare: il monopolio ecclesiastico sulla cultura la allontana di fatto dal popolo e la costringe a esprimersi in una lingua “straniera”, il latino appunto, non più compresa dai parlanti, cristallizzata nella grammatica e conservata per ovviare all’assenza di un volgare unitario e alle difficoltà di comprensione tra le lingue naturali. Nella situazione di inconsapevole bilinguismo che si delinea in Italia fin dall’Alto Medioevo, si utilizza il latino come lingua sovranazionale della cultura, strumento della comunicazione scritta, ufficiale (dello Stato) e sacra (della Chiesa), mentre ci si serve del volgare come mezzo della conversazione orale, quotidiana e familiare; si crea dunque un profondo distacco fra le élites dotte e le masse degli analfabeti. È proprio agli intellettuali e agli specialisti che Dante, scegliendo di esprimersi in latino, intende rivolgersi, affinché con la loro opera essi ovvino all’assenza di una monarchia nazionale e di una corte, condizione che ha ostacolato in Italia la formazione di una lingua comune, e ha condannato la letteratura italiana a una cronica situazione di arretratezza. A partire dal IX secolo, e via via sempre più intensamente, in Europa i volgari diventano nuova lingua letteraria, che si affianca all’antica grazie a una cultura non più soltanto ecclesiastica, ma laica, diffusa e popolare: dopo il Mille, in ogni nazione europea uno o due fra i dialetti locali si impongono sugli altri grazie al prestigio politico e culturale di una corte o a grandi scrittori che diventano modello di stile e lingua. In Italia, all’assenza di un centro politico unitario si accompagna il persistere di una tradizione letteraria classico-latina fortemente consolidata, sostenuta dal ceto ecclesiastico e dagli intellettuali laici che frequentano le corti signorili e sono ben lontani dalle esigenze popolari. Per questo, solo a partire dal XIII secolo si assiste alla nascita di una letteratura in volgare. 1° Argomento a favore della tesi Si sottolinea il legame fra la frammentazione politica dell’Italia e il ritardo con cui nel nostro paese si è sviluppata una lingua letteraria diversa dal latino. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 In questo processo è determinante l’operato di alcuni uomini di cultura che per tutto il Medioevo tentano di ovviare all’inaccessibilità della produzione in latino con la creazione di un volgare “nobilitato”, più alto e raffinato, tradotto in segni grafici e adattato alla comunicazione scritta: predicatori, sacerdoti, notai, giullari, veri e propri mediatori culturali fra le élites dotte e le masse degli analfabeti, concorrono alla creazione di un volgare elevato alla dignità espressiva del latino, una sorta di “anello di congiunzione” (come lo definisce Giuliano Procacci nel saggio Storia degli Italiani) tra lingua colta e parlate popolari, adatto sia agli intellettuali che alle plebi. Dapprima molteplici volgari si contendono il ruolo di nuova lingua letteraria nazionale: dal cosiddetto linguaggio franco-veneto, soggetto agli influssi francesi e provenzali, che si afferma all’inizio del Duecento; al siciliano dei poeti della corte di Federico II, i quali usano come strumento linguistico di partenza il volgare dell’isola, perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellato sull’esempio del latino degli intellettuali e arricchito di termini provenzali. L’innovazione linguistica della scuola siciliana prosegue quindi nell’Italia centrale, dove si compiono le esperienze di Francesco d’Assisi, Jacopone da Todi, Guittone d’Arezzo, gli Stilnovisti. Nel Trecento, la ripresa economica e la conseguente mobilità sociale che accompagnano la nascita della civiltà comunale rendono necessario individuare un volgare che possa essere comunemente inteso; gradualmente, è il fiorentino a imporsi come nuova lingua letteraria. Ed è nell’opera di Dante e soprattutto di Petrarca che l’Italia trova il proprio modello di lingua poetica, mentre Boccaccio dà l’avvio alla prosa d’arte in volgare. Nei primi decenni del Cinquecento il fiorentino trecentesco di Petrarca e Boccaccio, arcaico e aristocratico, diventa la lingua letteraria unitaria e costituisce il principale strumento della letteratura nei secoli seguenti nonché la base della lingua nazionale, a scapito delle realtà linguistiche regionali. 2° Argomento a favore della tesi Attraverso alcuni esempi letterari, si pone in evidenza la consapevolezza del ceto intellettuale del distacco fra parlanti e cultura e i conseguenti tentativi di ovviare a tale situazione, data anche l’evoluzione della società medioevale. Fin dai primissimi anni del Trecento, dunque, Dante fa propria l’esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali avvertono, anche prima di lui, in varie parti d’Italia. Se, infatti, come politico egli aspira all’unificazione del paese sotto la guida dell’imperatore, l’unico in grado di superare gli antagonismi fra staterelli e signorie e generare la pace sociale, come letterato egli non ignora il problema dell’unificazione linguistica, che il latino da tempo non è più in grado di garantire, se non al livello di ceti intellettuali molto ristretti. Dante, infatti, percepisce con forza il concetto di nazione italiana, le cui basi egli individua nella comune discendenza da Roma, nell’unità dei costumi, della cultura e della lingua, interpretata come espressione più autentica dello spirito e della storia di un popolo. Nel primo libro del De vulgari eloquentia egli si propone, pertanto, di individuare la forma più nobile dei dialetti italiani, un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del latino. Il volgare ideale tratteggiato da Dante sarà tale da garantire onore e gloria agli artisti che lo utilizzano (illustre); in grado di fungere da cardine e da modello a tutti i dialetti municipali (cardinale); consono alle più alte ambizioni poetiche e retoriche, ma anche politiche, in quanto adatto all’eventuale corte e alla curia, al momento materialmente disperse (aulico e curiale). Dante è conscio che questa lingua ideale non esiste in nessun luogo d’Italia; tuttavia, egli la percepisce potenzialmente in ciascuna delle lingue naturali e la vede realizzata nella lirica della Scuola Siciliana, nei più grandi fra gli Stilnovisti, nella propria stessa opera. Occorre sottolineare che la scelta di esprimersi in latino, l’antagonista linguistico del volgare, al fine di rivolgersi proprio agli intellettuali che utilizzano il latino come strumento della comunicazione scritta, lascia trasparire l’impostazione aristocratica della questione: ben lontano dall’idea che il volgo debba essere protagonista della propria emancipazione linguistica e culturale, Dante sembra implicitamente sostenere che il volgare parlato da artigiani, contadini, commercianti e operai potrà trovare una legittimazione letteraria solo se riconosciuto dagli intellettuali che si servono del latino proprio per tenersi lontano dal popolo. In passato, del resto, la questione della lingua non coinvolgeva l’intera popolazione italiana, bensì gruppi ristretti di individui, in grado di leggere e scrivere; ad essi veniva chiesto di confrontare la propria lingua d’uso con lingue scritte riconosciute e diffuse ed eventualmente abbandonarla in funzione di esse, relegandola al rango di linguaggio dialettale e di strumento della conversazione familiare e quotidiana. 3° Argomento a favore della tesi Si fa riferimento al pensiero politico di Dante e al suo progetto linguistico. Si compiono alcune considerazioni sull’impostazione della questione del volgare espressa nel De vulgari eloquentia. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 Oggi la situazione è profondamente mutata, nuovi fattori intervengono a modificare radicalmente l’impostazione del problema: i parlanti, tutti alfabetizzati, sono portatori di un proprio linguaggio, condiviso con un ampio numero di individui in grado di leggere e scrivere. Se in passato al centro della “questione” si poneva una lingua scritta dotata di tali qualità e prestigio da imporsi poco a poco sulle lingue parlate, relegandole al rango di dialetti, attualmente tale lingua deve fare i conti con altre lingue scritte, ampiamente diffuse attraverso quei complessi strumenti di comunicazione oggi in uso, delle quali non possono essere messe in dubbio la natura e la struttura linguistica, bensì le qualità sintattiche e semantiche. Pare essersi in un certo senso riprodotta quella condizione di bilinguismo inconsapevole che si era verificata a partire dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente: da un lato una lingua italiana che si è formata e arricchita attraverso secoli di storia e di cultura, caratterizzata da grande ricchezza lessicale, chiarezza e precisione nella codificazione grammaticale, impiegata come mezzo della comunicazione scritta; dall’altro una serie di linguaggi appresi e diffusi tramite telefonini, blog, chat, YouTube, Facebook, che assolvono brillantemente alle funzioni della conversazione orale e quotidiana, ma risultano estremamente poveri dal punto di vista sintattico e lessicale e non sempre in grado, all’interno del rapporto dialettico tra linguaggio e pensiero, di veicolare ragionamenti complessi, necessari a interpretare il mondo contemporaneo. 4° Argomento a favore della tesi Attraverso un rapido riferimento alla società attuale si sottolinea quanto l’alfabetizzazione e l’avvento di nuovi strumenti di comunicazione abbiano modificato i termini della questione della lingua. Ciò che risulta mutata è, dunque, l’impostazione stessa della questione della lingua: non più un modello linguistico imposto dall’alto come nei secoli precedenti, rigidamente codificato nei suoi aspetti semantici e sintattici, ma una lingua sensibile alle esigenze manifestate dal “basso”, maggiormente duttile e flessibile, in grado di adattarsi ai nuovi bisogni comunicativi dei parlanti di oggi. Ed è proprio di tali bisogni che la questione deve tenere conto, se non si vuole rischiare, così come è accaduto in passato, di scavare un solco profondo fra cultura e popolo, fra le élites dei dotti e le masse, questa volta alfabetizzate, dei parlanti. Conclusione Si ribadisce l’opinione per cui la questione della lingua è ancora attuale, seppur mutata in conseguenza dei cambiamenti sociali. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, p. 261 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Dalle Rime alla Commedia: stile e maniera trattata» utilizzando il dossier che si trova alla pagina 261. • Dante Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (• T31) • Dante Alighieri, Dante a Forese: Chi udisse tossir la malfatata (• T32) • Dante Alighieri, Così nel mio parlar voglio esser aspro (• T33) • Dante Alighieri, Epistola XIII – Lettera a Cangrande (• T38) Schedatura dei documenti •T31 Dante Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio; / sì che fortunal od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento, / anzi, vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio. / E monna Vanna e monna Lagia poi / con quella ch’è sul numer de le trenta / con noi ponesse il buono incantatore: / e quivi ragionar sempre d’amore, / e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come i’ credo che saremmo noi. Plazer, genere poetico di origine provenzale che consiste in un elenco di situazioni piacevoli desiderate o augurate ai destinatari del componimento. Sonetto (periodo storico 1283-1293). Occorre ricordare che il sonetto fa parte delle Rime (1283-1307), raccolta postuma della produzione lirica di Dante non inclusa dall’autore nella Vita nuova e nel Convivio. Il plazer appartiene, in particolare, alle liriche stilnoviste (1283-1293), componimenti di materia amorosa dedicati a Beatrice e ad altre figure femminili; nello stile, seguono la linea poetica cortese e siculo-toscana e si ispirano soprattutto all’opera di Guinizzelli e Cavalcanti, i maggiori rappresentanti dello Stilnovo. Il sonetto richiama le atmosfere fantastiche del romanzo cavalleresco francese. È indirizzato ai poeti stilnovisti Guido Cavalcanti e Lapo Gianni de’ Ricevuti. Il giovane Dante esprime il desiderio di compiere un’esperienza di incantata evasione insieme a pochi e ben selezionati amici, con i quali condivide idee e aspirazioni; saranno presenti anche le donne da essi amate: Giovanna per Guido, Lagia per Lapo, per il giovane poeta la donna da lui stesso collocata, in una perduta poesia di cui parla nella Vita nuova, al trentesimo posto fra le sessanta più belle di Firenze. Il buon incantatore è il Mago Merlino del ciclo arturiano, il vasel la nave incantata che, manovrata per magia da Merlino, conduce gli occupanti secondo i loro desideri. Idea centrale Il componimento intreccia il motivo poetico del viaggio con le favolose atmosfere dei romanzi cavallereschi ed esalta l’amicizia e il sodalizio artistico che legano il giovane Dante ai destinatari del plazer, in piena corrispondenza con il concetto aristocratico stilnovista di amicizia esclusiva fra animi nobili. Messaggio dell’autore L’invito a condividere l’incantata evasione e allo stesso tempo i sogni d’amore e le aspirazioni poetiche. L’amore, primo ispiratore della creazione poetica, sarà motivo dominante. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •T32 Dante Alighieri, Dante a Forese: Chi udisse tossir la malfatata Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Chi udisse tossir la mal fatata / moglie di Bicci vocato Forese, / potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata / ove si fa ’l cristallo in quel paese. / Di mezzo agosto la truovi infreddata; / or sappi che de’ far d’ogni altro mese! / E non le val perché dorma calzata, / merzé del copertoio c’ha cortonese. / La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia / no l’addovien per omor ch’abbia vecchi / ma per difetto ch’ella sente al nido. / Piange la madre, c’ha più d’una doglia, / dicendo: “Lassa, che per fichi secchi / messa l’avre’ ’n casa del conte Guido!”. Il primo dei tre sonetti danteschi che appartengono alla tenzone con Forese Donati, in cui i due poeti si scambiano insulti e si rinfacciano difetti e debolezze. Sonetto (periodo storico 1290-1296). Occorre ampliare le informazioni sulla tenzone, anch’essa compresa nelle Rime, costituita da tre coppie di sonetti che Dante e Forese Donati, fiorentino guelfo di parte nera, si scambiano rinfacciandosi difetti e debolezze, giungendo talvolta a sfiorare l’ingiuria. Laboratorio per l’esame 2 Il ricorso al soprannome (Bicci), le espressioni popolari, le allusioni grossolane e i doppi sensi di natura sessuale ne fanno un chiaro esempio di stile comico. Le accuse di incapacità ad assolvere i propri doveri coniugali mosse da Dante a Forese (si pensi alla rima ai vv. 2 e 8, che lega il nome di Forese all’aggettivo cortonese, ossia corto) si amplificano fino all’entrata in scena della suocera, descritta, così come la figlia, con tratti precisi e coloriti. Idea centrale L’esagerazione di difetti e debolezze dell’amico Forese, attraverso la deformazione grottesca e caricaturale e l’insistito ricorso a doppi sensi e allusioni grossolane a sfondo sessuale. Messaggio dell’autore La creazione di un rapporto di complicità, ai danni del vituperato Forese. È opportuno ricordare che la tenzone è un genere letterario piuttosto praticato in età medioevale, soprattutto fra XII e XIII secolo: si tratta di una disputa polemica e calunniosa che si sviluppa attraverso lo scambio di sonetti, nei quali i contendenti di norma si rispondono “per le rime”, riprendendo cioè lo schema metrico proposto dall’avversario. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •T33 Dante Alighieri, Così nel mio parlar voglio esser aspro Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è ne li atti questa bella petra, / la quale ognora impetra / maggior durezza e più natura cruda, / e veste sua persona d’un diaspro / tal, che per lui, o perch’ella s’arretra, / non esce di faretra / saetta che già mai la colga ignuda: / ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda / né si dilunghi da’ colpi mortali, / che, com’avesser ali, / giuncono altrui e spezzan ciascun’arme; / sì ch’io non so da lei né posso atarme. / Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi / né loco che dal suo viso m’asconda; / ché, come fior di fronda, / così de la mia mente tien la cima: / cotanto del mio mal par che si prezzi, / quanto legno di mar che non lieva onda; / e ’l peso che m’affonda / è tal che non potrebbe adequar rima. / Ahi angosciosa e dispietata lima / che sordamente la mia vita scemi, / perché non ti ritemi / sì di rodermi il core a scorza a scorza, / com’io di dire altrui chi ti dà forza? / Ché più mi triema il cor qualora io penso / […] che ogni senso / co li denti d’Amor già mi manduca; / ciò è che ’l pensier bruca / la lor vertù sì che n’allenta l’opra. / E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra / con quella spada ond’elli ancise Dido, / Amore, a cui io grido / merzé chiamando, e umilmente il priego; / ed el d’ogni merzé par messo al niego. / […] S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille: / e non sarei pietoso né cortese, / anzi farei com’orso quando scherza; / e se Amor me ne sferza, / io mi vendicherei di più di mille. / Ancor ne li occhi, ond’escon le faville / che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, / guarderei presso e fiso, / per vendicar lo fuggir che mi face; / e poi le renderei con amor pace. / Canzon, vattene dritto a quella donna / che m’ha ferito il core e che m’invola / quello ond’io ho più gola, / e dàlle per lo cor d’una saetta; / ché bell’onor s’acquista in far vendetta. La canzone costituisce la forma metrica privilegiata della materia amorosa. Canzone (periodo storico 1296-1298). Occorre ricordare che la canzone è l’ultima delle quattro petrose (12961298) contenute nelle Rime: due canzoni e due sestine che esprimono l’angoscia provocata dalla passione per una donna fredda e insensibile, che consuma la vita del poeta. Le caratterizza uno stile difficile, aspro nel linguaggio dominato da suoni consonantici duri e incalzante nel ritmo, che si ispira al trobar clus di alcuni trovatori provenzali del secolo precedente, primo fra tutti Arnaut Daniel. Il poeta esprime la volontà di adeguare l’espressione formale alla durezza del contenuto, l’amore violento e crudele per una donna fredda e insensibile. Ricorrono numerosi vocaboli che rimandano al campo semantico della durezza e della crudeltà. Il desiderio di sottrarsi a un amore impossibile è frustrato dal potere che la donna esercita sul cuore del poeta. Il pensiero amoroso corrode i sensi e le facoltà del poeta e ne consuma l’esistenza. Idea centrale La sofferenza, generata da una passione amorosa non ricambiata e la rappresentazione della donna amata come crudele e insensibile, e adeguando l’espressione formale all’angoscia da lei provocata. Messaggio dell’autore Indurre il lettore, reso partecipe delle sofferenze del poeta, a provare sentimenti di condanna e riprovazione per il crudele atteggiamento della donna. Il testo allude alla regola dell’amore cortese di tacere l’identità della persona amata o di celarlo sotto un senhal, qual è Petra. Il poeta esprime con durezza e crudeltà il proprio desiderio di vendetta. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •T38 Dante Alighieri, Epistola XIII – Lettera a Cangrande Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Il significato di un’opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato […] si dice letterale, il secondo […] allegorico o morale o anagogico. Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti […]. Si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi se s’interpreta allegoricamente […]; alla lettera lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale […] sul piano allegorico […] l’uomo in quanto, per i meriti e i demeriti acquisiti, con libero arbitrio ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina […]. Il titolo del libro è: “Incomincia la Comedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi”. Per capire il titolo […] è la comedìa un genere di narrazione poetica diverso […] dalla tragedìa per la materia in questo, che la tragedìa all’inizio è meravigliosa e placida e […] nella conclusione fetida e paurosa […]. La comedìa invece inizia dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene […]. Similmente tragedìa e comedìa si diversificano per il linguaggio che è alto e sublime nella tragedìa, dimesso e umile nella comedìa […]. Il fine di tutta l’opera […] consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità […]. Dante illustra i livelli di interpretazione testuale diffusi nel Medioevo e li esemplifica con alcuni versetti tratti dalla Bibbia. Epistola in latino (periodo storico 1319). È opportuno ampliare le informazioni sulle Epistulae (1304-1319), tredici lettere in latino che costituiscono un importante documento degli anni dell’esilio. La raccolta comprende numerose lettere di argomento politico-civile, le quali testimoniano l’aspirazione di Dante a una duplice guida per l’umanità, da identificarsi nell’autorità dell’imperatore in merito al conseguimento della felicità terrena, nell’autorità del pontefice in riferimento alla conquista della beatitudine eterna. Seguono, poi, alcune lettere di carattere personale. Di argomento letterario è, infine, l’Epistola XIII, inviata insieme ai primi canti del Paradiso a Cangrande della Scala, signore di Verona presso il quale il poeta trova ospitalità durante l’esilio: essa contiene la dedica della cantica e una sorta di guida alla lettura del poema. È opportuno precisare che la Divina Commedia non rientra pienamente nel genere a cui il titolo allude, per molteplici motivi: la coesistenza di tragedia, commedia, satira; la presenza di personaggi illustri, e non di umile estrazione sociale; la varietà dello stile, che spazia dall’umile e dimesso all’elevato e sublime; le finalità di carattere morale e religioso. Laboratorio per l’esame 4 L’autore applica, quindi, la lettura su molteplici livelli al soggetto della Commedia, del quale evidenzia significato letterale e allegorico. Successivamente Dante enuncia il titolo del poema e ne dà spiegazione riprendendo la classificazione medioevale dei generi e degli stili: egli sottolinea le diversità dell’opera rispetto alla tragedia. Il poema si chiama Comedia per la materia, orrida e spaventosa all’inizio, lieta alla fine, e per il linguaggio e lo stile, umili e dimessi. Dante illustra, infine, le finalità dell’opera, che si propone di contribuire al rinnovamento morale, spirituale e religioso dell’intera umanità. Idea centrale Fornire una guida alla lettura del poema, che illustri il rapporto tra interpretazione letterale e allegorica, il soggetto, il significato del titolo e le finalità. Messaggio dell’autore La lettura dell’opera richiede alcune indicazioni. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Saggio breve Stesura Struttura Dalle Rime alla Commedia: lo sperimentalismo dantesco Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. I termini plurilinguismo e pluristilismo indicano la mescolanza rispettivamente di più linguaggi e di più stili all’interno di un unico testo. L’opera dantesca fornisce di entrambi esempi significativi. Ciò che, a detta dei critici, rende Dante moderno è proprio il suo cimentarsi in modalità espressive e generi letterari estremamente diversi fra loro. Moderna è la sua capacità di infrangere la classificazione medioevale degli stili, che distingue tre livelli stilistici, a ciascuno dei quali corrispondono temi e generi precisi: allo stile alto si addicono temi nobili come amore, virtù, fede, gloria delle armi, da celebrarsi in tragedie e poemi epici; al livello stilistico medio argomenti tratti dalla vita quotidiana, cantati nelle commedie; allo stile basso vicende pastorali, vicine alla vita degli umili, rappresentate nelle elegie. Non è consentito mescolare tra loro gli stili, pena la disarmonia e l’ineleganza. Introduzione Si dà una definizione di pluristilismo e di plurilinguismo; si pone in evidenza come entrambi siano ampiamente praticati da Dante, del quale si sottolinea la modernità. Ebbene, se nel De vulgari eloquentia, trattato di retorica scritto intorno al 1304, Dante sembra abbracciare tale classificazione, nell’Epistola a Cangrande della Scala (1316-1317), signore di Verona che lo ospita tra il 1314 e il 1318 e a cui dedica il Paradiso, egli giustifica per il poema la mescolanza degli stili, in relazione allo scopo che si propone di raggiungere: contribuire al rinnovamento morale e spirituale dell’umanità attraverso la rappresentazione della storia dell’anima, dalla caduta nel peccato alla redenzione, dall’esperienza terrena fino all’ingresso nella dimensione ultraterrena, dove la vicenda umana, persino nei suoi aspetti più umili, acquista un significato autentico, una validità eterna e assoluta. Proprio la rappresentazione dell’intera esistenza dell’uomo e dell’universo, proiettata sullo sfondo della dimensione ultraterrena, richiede, per la sua mescolanza di umiltà e sublimità, il coniugarsi del livello stilistico alto con quelli medio e basso. Tesi Si esprime l’opinione secondo cui Dante subordina il rispetto delle norme retoriche medioevali alla necessità di adattare lo stile al contenuto, adeguamento che giustifica la mescolanza di stili e di linguaggi all’interno di un unico testo. L’idea che lo stile debba adeguarsi alla materia trattata, ai temi e ai personaggi rappresentati emerge con evidenza nelle Rime (1283-1307), raccolta postuma delle liriche dantesche non inserite dall’autore nelle opere maggiori. Esse si collocano cronologicamente fra la Vita nuova e la Commedia; ben lontane dal costituire un canzoniere organico e unitario, le Rime non delineano una biografia ideale del poeta, non ne tratteggiano l’evoluzione poetica. Esse registrano, piuttosto, alcuni tentativi di cimentarsi in esperienze letterarie diverse, talvolta persino contraddittorie, per materia e stile: dalla dolcezza sublime e soave dello Stilnovo, la scuola poetica di Dante e di pochi altri raffinatissimi poeti, le cui “nove rime” cantano l’esperienza amorosa come fonte di rinnovamento interiore e stimolo alla ricerca della virtù e del perfezionamento morale; alla violenza della deformazione grottesca e caricaturale della tenzone con Forese Donati, caratterizzata dalla rappresentazione colorita e realistica dei personaggi, disseminata di doppi sensi e allusioni grossolane, condotta in uno stile comico, che si avvale di un registro linguistico basso e popolare; al gusto, nelle rime “petrose”, per una poesia difficile, artificiosa, aspra nei suoni e incalzante nei ritmi, che si ispira ai più oscuri trovatori provenzali del secolo precedente (il trobar clus di Arnaut Daniel) e che adegua l’espressione formale alla durezza del contenuto, l’amore violento e crudele per una donna fredda e insensibile, celata dal senhal Petra, che consuma la vita del poeta. Se per le rime stilnoviste Dante individua i propri modelli di riferimento nella trepidante eleganza dei versi di Guinizzeli e nelle liriche raffinate e dolenti di Cavalcanti, nella tenzone con Forese predomina l’influenza della poesia comico-realistica di Rustico Filippi e Cecco Angiolieri. 1° Argomento a favore della tesi Si sottolinea il legame fra contenuto ed espressione formale e il conseguente adeguarsi dello stile ai temi affrontati attraverso alcuni esempi tratti dalle Rime. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 Diversi, dunque, i contenuti, lo stile, i modelli. L’apparente contraddittorietà delle esperienze dantesche raccolte nelle Rime trova superamento e composizione proprio nella Commedia, summa tematica e stilistica in cui Dante adegua le scelte formali alla materia, ai temi, ai personaggi. Dante sceglie di comporre il poema in uno stile comico, o medio, una sorta di sintesi tra il livello stilistico alto della tragedia e quello basso della parlata quotidiana, che mescola toni umili e grotteschi a modi elevati e sublimi. Proprio l’esigenza di rappresentare le molteplici tonalità dell’esistenza dell’uomo e dell’universo nella loro ambivalenza e contraddittorietà inducono il poeta a mettere in pratica modalità formali e di gestione della lingua che comportano la mescolanza di più registri espressivi, un lessico variato, toni e stili diversificati. La varietà degli aspetti e dei temi che Dante descrive e racconta conduce alla completa rottura degli schemi letterari e retorici della tradizione. Occorre impiegare tutti gli stili, dal più alto al più basso: proprio in questa scelta consiste il tratto più innovativo dell’opera di Dante. Nella successione delle tre cantiche è facile individuare un progressivo innalzamento del tono poetico; tuttavia, neppure per il Paradiso, per il quale Dante stesso conia la definizione di “sublime cantica”, si può parlare di unicità di stile e di linguaggio. Si pensi all’Inferno, nel quale il poeta rappresenta il peccato, la rinuncia dell’anima alla dimensione eterna per la materialità delle passioni terrene, il venir meno di ogni speranza di redenzione; alla dannazione corrispondono per contrappasso l’abbrutimento e la degradazione delle anime, eternamente raggelate nel proprio infamante peccato, immerse in una natura selvaggia, cupa e tenebrosa, soggette a pene spaventose. Anche all’interno di questa cantica, all’apparenza votata per i contenuti allo stile basso, Dante sperimenta il plurilinguismo e il pluristilismo, mettendo in pratica l’adeguamento dello stile alla materia trattata: così, nell’incontro con l’iracondo Filippo Argenti (canto VIII, vv. 31-42; 49-54) egli esprime il proprio disprezzo per l’arrogante fiorentino con i toni e il linguaggio propri dello stile comico e popolare, già sperimentato nella tenzone con Forese Donati. Ai suoni aspri e alle rime difficili delle liriche petrose sembra alludere la descrizione della selva dei suicidi (canto XIII, vv. 1-39), mentre risulta di evidente ispirazione stilnovista, caratterizzato da un linguaggio e da uno stile elevati, l’incontro con la lussuriosa Francesca da Rimini (canto V). La seconda cantica rappresenta la purificazione dell’anima, la conquista della libertà dal peccato, la nostalgia per la dimora celeste e la certezza della salvezza; anche sul monte del Purgatorio, simbolo della solitudine della meditazione e dello slancio mistico verso Dio, dove prevalgono il lessico soave, lo stile piano e lieve (si pensi, ad esempio, al canto VIII, che si apre con la descrizione della nostalgia del pellegrino nell’ultima ora della sera), trovano spazio nell’invettiva all’Italia i toni violenti e il linguaggio volgare della polemica (canto VI, vv. 76-126). Nel Paradiso, cantica sublime per eccellenza, non più dominata dalle vicende terrene dell’uomo, con i suoi peccati e le sue debolezze, ma interamente pervasa dalla presenza di Dio, in cui, annullata la dimensione spazio-temporale, il paesaggio celeste è costituito di luce e di musica, lo stile deve necessariamente innalzarsi, farsi a sua volta sublime, adeguarsi all’importanza dell’oggetto. Ecco, allora, susseguirsi sempre più numerose via via che ci si avvicina alla conclusione del poema le allusioni alla propria inadeguatezza, alla necessità di trascendere i limiti della condizione umana (canto I, vv. 70-71), o all’impossibilità di conservare nella memoria e quindi esprimere a parole la visione divina (canto XXXIII, vv. 58-66), il ricorso a latinismi, neologismi, citazioni da testi sacri e da autori classici. Uno stile alto e sublime, già sperimentato nelle canzoni morali o dottrinarie raccolte nelle Rime, per le quali Dante si ispira all’opera di Guittone d’Arezzo, che Boccaccio suppone destinate all’incompiuto Convivio (13061307). Tuttavia, neppure per l’ultima cantica si può parlare di unicità di stile e di linguaggio: per rendere concreto quel mondo ultraterreno che pare sempre più difficile da rappresentare, il poeta ricorre a similitudini tratte dal mondo naturale e familiare; nel XXX canto, ad esempio, il desiderio di Dante di potenziare le proprie capacità visive è espresso attraverso l’immagine quotidiana del lattante che si protende affamato verso il seno materno (vv. 82 e seguenti). Particolarmente significativo, a questo proposito, anche il XVII canto, cuore della Commedia, che ne chiarisce le finalità e conferma a Dante il ruolo di profeta di verità e giustizia presso i contemporanei e i posteri. In chiusura di canto il trisavolo Cacciaguida scioglie l’ennesimo Laboratorio per l’esame 6 2° Argomento a favore della tesi Si mostra come l’adeguarsi dello stile alla materia caratterizzi anche la Commedia, all’interno della quale è possibile individuare frequenti oscillazioni fra i diversi livelli stilistici e linguistici. Si propongono alcuni esempi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 dubbio del poeta, incerto se rivelare quanto ha visto nei tre regni ultraterreni e preoccupato per le conseguenze contingenti delle critiche e delle accuse mosse ai potenti nel corso del poema. Egli conferma al nipote la missione di rigenerazione morale dell’umanità affidatagli da Dio, la quale implica necessariamente l’assoluta fedeltà alla verità e alla giustizia, le uniche, per quanto scomode, in grado di garantire al poeta eterna fama presso i posteri. Ne deriva la necessità di rappresentare la vita dell’uomo e dell’universo nella sia interezza e il conseguente adeguarsi dell’espressione formale ai contenuti, il coniugarsi del livello stilistico alto con quelli medio e basso. A conferma della mescolanza di stili e di linguaggi che caratterizza la Commedia, anche in questi versi dal contenuto sublime irrompe un lessico crudo e popolare (lascia pur grattar dov’è la rogna), che insieme al ricorso al campo semantico del cibo (se la tua voce sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta) conferisce loro l’efficacia plebea del vituperium. Sotto questo aspetto la Commedia si presenta effettivamente come il risultato di tutte le esperienze precedenti, non solo di quelle liriche documentate nelle Rime, ma anche delle capacità espressive messe a punto nell’opera in prosa (De vulgari eloquentia, Epistole). Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Conclusione Si ribadisce l’opinione secondo cui Dante subordina il rispetto delle norme retoriche medioevali alla necessità di adattare lo stile al contenuto, mescolando, se necessario, stili e linguaggi all’interno di un unico testo. Laboratorio per l’esame 7 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 330-332 Analisi del testo Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 330-332. • Francesco Petrarca, La malattia dell’anima (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1.Comprensione del testo Dopo aver passato in rassegna gli altri peccati capitali, ai quali Francesco ammette di avere ceduto, benché in misura trascurabile, Sant’Agostino individua il peggiore dei mali che affliggono l’animo del protagonista nell’accidia, l’unico peccato che non procura alcun piacere e i cui attacchi, anziché brevi e momentanei, sono di lunga durata, al punto che quando cessano l’anima ne ricava una sorta di malinconica nostalgia, abituata com’è a nutrirsi di lacrime e dolori. Su invito di Agostino, Francesco tenta di individuare le cause della propria malattia, i cui sintomi egli descrive con straordinaria lucidità e precisione, in una progressione che lo vede inizialmente resistere con coraggio ai colpi della sorte, poi cedere gradualmente alla sfiducia nelle proprie forze, fino a scivolare in quell’oscuro e indistinto male di vivere che sempre si accompagna all’accidia. Incalzato dalle domande di Agostino, Francesco riconosce infine la causa prima del suo “umor nero” in un’indole rancorosa e poco incline a dimenticare le ingiurie ricevute dalla sorte. Per liberare il protagonista da questa terribile malattia, che si traduce nell’incapacità di compiere scelte definitive e gli impedisce di liberarsi dalla schiavitù del peccato, Agostino decide di agire in profondità nell’animo di Francesco, cominciando proprio da quell’acuto senso di insoddisfazione e inappagamento verso tutto ciò che riguarda gli altri e se stesso che da sempre lo affligge. 2.Analisi del testo 2.1 Introdotto dalla tradizionale rassegna dei peccati capitali che segue lo schema usuale della morale cristiana, il brano offre l’ennesima contemplazione lucida e sconsolata di sé e delle proprie debolezze; tutta nuova e insolita è, però, la sincerità con cui il protagonista indaga se stesso e il proprio animo, alla ricerca dei mali che ostacolano il processo di elevazione morale e spirituale al quale egli tende. Incalzato dalle domande di Sant’Agostino, alter ego di Francesco nonché sua coscienza religiosa, egli individua nell’accidia il peggiore dei mali che lo affliggono, vera e propria malattia morale, paralisi della volontà che gli impedisce di tradurre in atto l’aspirazione a Dio e al vero bene alla quale lo induce la sua formazione religiosa. 2.2Il protagonista descrive con grande lucidità i sintomi della propria malattia, la quale si manifesta in un profondo senso di disperazione e in un’irrefrenabile pulsione alla morte; gli attacchi dell’accidia durano così a lungo da assuefare l’anima al dolore, tanto che questa se ne distacca quasi a malincuore. Li accompagna, infatti, un’amara dolcezza, un sofferto autocompiacimento che tradisce l’incapacità di Francesco, continuamente combattuto fra sacro e profano, di rinunciare a quegli ideali mondani, l’amore per Laura e la gloria letteraria, che pure egli sa effimeri e falsi. 2.3Ascoltate le parole di Francesco, Agostino conclude che è soprattutto l’indole rancorosa del protagonista, poco incline a dimenticare le ingiurie ricevute dalla sorte, a fare di qualunque ferita ricevuta, per quanto lieve e lontana nel tempo, una fonte di grande dolore, che lo consegna ancora una volta alla sofferenza e all’angoscia. 2.4A partire dalla riga 22, l’autore rappresenta se stesso come un combattente incalzato dalla Fortuna, nemico implacabile i cui colpi sono metafora delle difficoltà e dei mali della vita quotidiana. L’immagine si fa via via più intensa e complessa: in toni sempre più drammatici e concitati, l’autore rappresenta la propria angoscia attraverso la descrizione dell’assedio a opera della Fortuna, al quale egli assiste incapace di reagire. La metafora bellica manifesta il senso di impotenza e di inquietudine che scaturisce dall’impossibilità di scorgere alcuna via di salvezza. I colpi della sorte sono ferite aperte, piaghe insanabili che la dimenticanza non può cancellare e il perdono non saprà mai cicatrizzare: l’accidia è un’erba infestante dalle radici profonde, che occorre estirpare in modo definitivo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti All’interno del Secretum è possibile individuare due tematiche costanti: in primo luogo l’indagine della propria coscienza, oscillante fra propositi di ascesa spirituale e tentazioni che la respingono verso il basso, entro la quale l’autore tende ad attribuire alla propria esperienza spirituale un significato universale, a riconoscervi le esperienze di tutti; in secondo luogo la tensione verso un ideale di vita che unisce l’aspirazione all’equilibrio interiore e al dominio razionale delle passioni, propria degli autori latini, al desiderio di salvezza eterna che caratterizza ogni cristiano. Petrarca sviluppa entrambe le tematiche in forma problematica, per nulla esente da dubbi e incertezze, come appare evidente nell’ascesa al Monte Ventoso (Epistole, Fam. IV, 1), la cui scalata diventa occasione per indagare la propria interiorità: l’autore confessa di non poter fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. Egli conclude l’analisi della propria conflittuale personalità senza prospettare alcuna possibilità di trasformare se stesso, accettando la complessità della propria natura umana, oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno. Tuttavia, l’accettazione non è indolore, ma provoca un profondo disagio interiore, come dimostrano numerosi componimenti del Canzoniere: si pensi, ad esempio, al dittico a dir poco contraddittorio dei sonetti LXI e LXII in cui il poeta ora letteralmente benedice l’amore terreno per Laura e la gloria letteraria che ne deriva (Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno), ora condanna ogni cedimento alle passioni terrene nella loro totalità (Padre del ciel, dopo i perduti giorni). Proprio l’approccio problematico all’indagine della coscienza e l’amara constatazione dell’impossibilità di mutare se stesso contribuiscono a rendere l’opera di Petrarca più vicina ai lettori moderni, coi quali, tuttavia, il poeta non condivide le finalità della propria autoanalisi. L’obiettivo del suo percorso introspettivo non si esaurisce, infatti, sul piano esclusivamente psicologico, bensì morale: egli non intende limitarsi ad alleviare un disagio di natura interiore, piuttosto aspira a conquistare la salvezza dell’anima. Non si può dimenticare che per Petrarca, uomo del Trecento, l’accidia è prima di tutto un peccato capitale, dal quale egli intende purificarsi, liberare l’anima, obbedendo a un profondo bisogno di conversione e di salvezza. La lacerazione dell’io, l’oscillare tra terra e cielo, tra peccato e redenzione è reso nel Secretum dalla forma dialogata, che, grazie alla presenza di un interlocutore, Sant’Agostino, consente all’autore di dare voce alle diverse aspirazioni e ai vari punti di vista, stabilendo fra loro un rapporto dialettico. La vivacità del dialogo è garantita dal ricorso a suggestive metafore, che conferiscono ritmo e intensità alla narrazione. In un autore che destina il volgare alla sola poesia d’amore, non deve stupire la scelta del latino, lingua esclusiva della prosa petrarchesca: si tratta, però, di un latino che si allontana da quello in uso nel Medioevo, giudicato inelegante, per ispirarsi alla lingua dei grandi autori dell’epoca classica, nei quali egli ricerca un modello di stile, oltre che di vita. Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La stesura del testo Commento Introduzione all’autore De secreto conflictu curarum mearum, «Il segreto conflitto dei miei pensieri»: questo il suggestivo titolo dell’opera in prosa latina che sviluppa in tre libri il dialogo immaginario fra Francesco e Sant’Agostino, il padre della chiesa caro a Petrarca per le Confessioni (397-401); allo scambio di battute fra i due personaggi, entrambi proiezioni letterarie dell’autore stesso, assiste in silenzio la Verità. Il dialogo, che si svolge nell’arco di tre giorni, uno per libro, si finge avvenuto nel 1342-1343; in realtà, la stesura dell’opera è certamente posteriore e concomitante con quella delle Familiari e del Canzoniere (1347-1353 circa). Fungono da modello al dialogo, genere letterario classico assai diffuso nell’antichità greco-latina, gli scritti di contenuto morale e filosofico di Platone e dei latini Cicerone e Seneca, nonché il più tardo Severino Boezio. Tuttavia, la scelta di Agostino come interlocutore e maestro di condotta morale indica la preponderante influenza delle Confessioni, nelle quali Petrarca leggeva il tormentato percorso di conversione del Santo dal peccato alla vita cristiana. Al centro del Secretum, inedito fino alla morte del Petrarca, vi sono i conflitti più segreti della complessa personalità del protagonista, indagati attraverso le domande di Sant’Agostino, sorta di doppio dell’autore che ne costituisce la coscienza religiosa, ne smaschera le debolezze e indica la via verso la purificazione morale e spirituale. Il dialogo si chiude con un proposito di conversione interiore, del quale rendono testimonianza anche molti componimenti del Canzoniere, soprattutto gli ultimi: infatti la raccolta termina con la preghiera alla Vergine, sorta di palinodia dell’amore profano per Laura. Nel Secretum, tuttavia, l’implacabile esame di coscienza di Petrarca è destinato a restare irrisolto: l’autore confessa la duplicità del proprio animo, continuamente combattuto fra sacro e profano, ma sembra escludere qualunque prospettiva di trasformazione di quel doppio uomo che è in lui. Il processo della scrittura si configura, in questo senso, come una sorta di terapia, l’unica che con la sua ricerca di armonia ed equilibrio formali possa aiutare il poeta a trovare finalmente tregua al disordine interiore e all’incoerenza morale. L’analisi del significato Nel brano in questione, dopo la tradizionale rassegna dei peccati capitali alla ricerca dei mali che ostacolano la conversione di Francesco, l’attenzione si concentra sull’accidia: il termine indica nella teologia medioevale uno stato d’animo di malinconia e tristezza, un misto di inquietudine e pigrizia che genera paralisi della volontà, irresolutezza e impotenza ad agire. Vera e propria malattia morale, l’accidia impedisce al protagonista di tradurre in atto l’aspirazione al bene, che pure egli razionalmente e in qualità di cristiano percepisce. Incalzato dalle domande di Agostino, che lo interroga sulle cause profonde del suo male, il protagonista si scruta e si confessa con sincerità e onestà intellettuale, smantellando una ad una le macchinose giustificazioni con le quali ciascuno di noi tenta di nascondere agli altri, e talvolta persino a se stesso, i propri vizi e le proprie colpe. Francesco individua con estrema lucidità i sintomi della propria malattia, la quale si manifesta in un profondo senso di disperazione e in un’irrefrenabile pulsione di morte; i suoi attacchi durano così a lungo da assuefare l’anima al dolore, tanto che essa se ne distacca quasi a La struttura Il metodo applicato Indicazioni utili a delineare le caratteristiche generali dell’opera e a collocarla all’interno della produzione letteraria dell’autore. Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni personali. Relazione con un’altra opera dell’autore. Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni personali. Enunciazione sintetica dell’argomento del brano. Rielaborazione della sintesi (domanda 1). Dati contenuti nella risposta 2.1 e integrazioni personali. Definizione dello stato d’animo prevalente e delle sensazioni dominanti all’interno del brano. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Dati contenuti nella risposta 2.2 e integrazioni personali. Laboratorio per l’esame 3 malincuore. A rendere ancora più subdola l’accidia è l’autocompiacimento nella sofferenza che di solito l’accompagna: al profondo senso di insoddisfazione che scaturisce dalla consapevolezza della precarietà dei valori terreni e della miseria della condizione umana, si unisce, infatti, un dolore compiaciuto che tradisce l’incapacità di rinunciare quegli ideali mondani che pure egli sa effimeri e mendaci. Ed è proprio la continua tensione verso questi falsi valori a impedire al protagonista di elevarsi moralmente: combattuto fra sacro e profano, egli non sa compiere una scelta e confessa la contraddittorietà del proprio animo. Alla ricerca dell’origine profonda del proprio “umor nero”, il protagonista descrive lucidamente il graduale insorgere della malattia: in un primo momento egli tenta di resistere ai mali e alle difficoltà della vita quotidiana cercando conforto nel ricordo dei passati trionfi e nella ragione; in seguito, di fronte all’inasprirsi degli attacchi della sorte egli comincia a perdere sicurezza e fiducia in se stesso, fino a cedere ancora una volta al dolore e all’angoscia. In conclusione, è soprattutto l’indole rancorosa di Francesco, poco incline a dimenticare le ingiurie della Fortuna, a fare di qualunque ferita ricevuta, per quanto lieve e lontana nel tempo, una fonte di grande dolore, che lo conduce inevitabilmente verso quell’oscuro e indistinto male di vivere che sempre si accompagna all’accidia. Una metafora tratta dall’ambito bellico consente all’autore di tradurre in immagini i propri stati d’animo: egli rappresenta se stesso come un combattente incalzato dalla Fortuna, descritta come un nemico implacabile i cui colpi sono metafora delle difficoltà e dei mali della vita quotidiana; l’esistenza di Petrarca è dunque in balia dell’imprevedibile crudeltà della sorte. L’immagine si fa via via più intensa: sferzato dai fendenti della Fortuna ma ancora padrone di se stesso, come testimonia il suo lento indietreggiare che nulla ha a che vedere con la fuga, l’autore cerca rifugio entro la rocca della ragione, intesa come razionalità e dominio di sé, che dovrebbe metterlo al riparo da stati d’animo angoscianti e irrazionali. Tuttavia, è proprio in quel luogo della mente e della coscienza che egli subisce l’assedio della Fortuna, la quale lo stringe dappresso con le sue macchine da guerra, le sue torri, le scale, i ponti, il fuoco. Chiuso nella fortezza della ragione, vedendo tutt’intorno il balenìo delle spade e i volti minacciosi dei nemici e sentendo prossimo l’eccidio, Francesco dispera di trovare alcuna via di fuga, né speranza di clemenza, né soccorsi. Ed è appunto l’angoscia dell’autore, rappresentata metaforicamente dall’assedio, che si traduce in una sorta di impotenza claustrofobica (la perdita della libertà sarebbe di per sé quasi insopportabile), di paralisi della volontà che finisce col trasmettersi al lettore stesso, così come la percezione del tempo, scisso in un passato dominato dagli affanni, un futuro pervaso dal terrore per i mali incombenti e un presente che pare negare ogni possibilità di salvezza. Ferite aperte sono i colpi della sorte, piaghe insanabili che la dimenticanza non può cancellare, che il perdono non saprà mai cicatrizzare. Il brano offre, dunque, un’approfondita analisi della conflittuale personalità del protagonista, che non prospetta alcuna possibilità di trasformare se stesso, ma culmina nell’accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante fra propositi di ascesa spirituale e tentazioni che la respingono verso il basso. Obiettivo finale dell’indagine della coscienza è la tensione verso un ideale di vita che Laboratorio per l’esame 4 Dati contenuti nella risposta 2.3 e integrazioni personali. Rappresentazione per immagini degli stati d’animo del protagonista. Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni personali. Esplicitazione approfondita del significato del brano. Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 unisca la saggezza, da identificarsi con il dominio razionale delle passioni di ispirazione classica, al bisogno di conversione e all’aspirazione alla salvezza eterna imprescindibili per un cristiano. Tradizione classica e cultura cristiana concorrono dunque alla conversione di Francesco, la quale è, tuttavia, destinata a restare un’aspirazione mai del tutto realizzata. Il passaggio dalla dimensione materiale a quella spirituale è infatti affrontato in forma problematica: come durante la salita al Monte Ventoso (Epistole, Fam. IV, 1), l’autore confessa di non poter fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. La modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto nella totale accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque prospettiva di trasformazione di quel doppio uomo che è in lui. L’accettazione, tuttavia, non è indolore, ma provoca un profondo disagio interiore, di un cupo senso di impotenza tra spinte divergenti, come dimostrano numerosi componimenti del Canzoniere: per esempio, in un dittico a dir poco contraddittorio il poeta ora letteralmente benedice l’amore terreno per Laura e la gloria letteraria che ne deriva (LXI, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno), ora condanna ogni cedimento alle passioni terrene nella loro totalità (LXII, Padre del ciel, dopo i perduti giorni). Proprio l’approccio problematico all’analisi della coscienza e l’amara constatazione dell’impossibilità di mutare se stesso contribuiscono a rendere l’opera di Petrarca più vicina ai lettori moderni, i quali condividono con il poeta il senso di insoddisfazione per la realtà che li circonda, l’incapacità di dare un senso alla propria esistenza, l’angoscia e gli atteggiamenti autodistruttivi che ne derivano. Occorre, tuttavia, precisare che l’obiettivo del percorso introspettivo di Petrarca non si pone su un piano prettamente psicologico, bensì morale: egli non intende limitarsi ad alleviare un disagio di natura interiore, piuttosto aspira a conquistare la salvezza dell’anima. Il male dell’accidia non va confuso con la moderna sindrome depressiva, con la quale pure condivide caratteristiche e sintomi: come per la teologia medioevale e per Dante, che colloca gli accidiosi nel fango della palude stigia (Inferno, canto VIII), l’accidia è prima di tutto un peccato capitale, dal quale Petrarca intende purificarsi, liberare l’anima, in risposta a un profondo bisogno di conversione e di salvezza. L’analisi del significante La lacerazione dell’io, il perenne oscillare tra terra e cielo, tra peccato e redenzione è reso nel Secretum dalla forma dialogata, che, grazie alla presenza di un interlocutore, Sant’Agostino per l’appunto, consente all’autore di dare voce alle diverse aspirazioni e ai vari punti di vista, stabilendo fra loro un rapporto dialettico. La vivacità del dialogo è garantita dal ricorso a suggestive metafore, che conferiscono efficacia e intensità alla narrazione. In un autore che riserva il volgare alla sola poesia d’amore, non deve stupire la scelta del latino, lingua esclusiva della prosa petrarchesca: si tratta, però, di un latino che si allontana da quello in uso nel Medioevo, giudicato inelegante, per ispirarsi alla lingua dei grandi autori dell’epoca classica, nei quali egli ricerca un modello di stile, oltre che di vita. Molto più fluido e armonioso, il latino petrarchesco appare maggiormente elaborato e sottoposto a quel lunghissimo processo di riscrittura che testimonia l’ansia di perfezione assoluta di Petrarca. Ansia che, del resto, tradisce la convinzione che la cura formale, la ricerca di un’espressione equilibrata e armoniosa non siano solo il frutto di grande perizia tecnica, quanto piuttosto la testimonianza della conquista del dominio di sé e delle proprie passioni. Dunque, contenuto e forma nel Secretum appaiono fra loro concordi e collaboranti a delineare quell’ideale di vita che il male dell’accidia impedisce all’autore di raggiungere. Confronto con altre opere dell’autore. Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni personali. Il genere letterario Le figure retoriche Dati contenuti nella risposta 2.4. Il linguaggio Dati contenuti nella risposta Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 378-380 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Il culto mariano in età medioevale» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 378-380. • Cimabue, Maestà (• D1) • Giotto, Madonna in maestà (• D2) • Dante, versi tratti dal canto XXXIII del Paradiso (• D3) • Petrarca, la prima strofa della lirica CCCLXVI del Canzoniere (• D4) Schedatura dei documenti •D1 Cimabue, Maestà Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Tradizionale composizione che raffigura la Madonna in trono col Bambino in braccio, circondata da angeli e santi. Maestà (periodo storico 1285-1286 ca.). Occorre ampliare le informazioni su Cimabue, maestro decisivo per gli sviluppi dell’arte italiana, considerato tradizionalmente il fondatore della scuola fiorentina: nelle sue composizioni monumentali (maestà, crocifissi, cartoni per mosaici), egli mette parzialmente in discussione gli schemi e le norme della pittura bizantina, attraverso una drammatica espressività e le ricerche sulla prospettiva e sul chiaroscuro. La Madonna e il Bambino sono circondati da profeti, rappresentati in dimensioni sproporzionate e ritratti in atteggiamenti stereotipati e ripetitivi. I panneggi degli abiti dei personaggi e il volto della Vergine, illuminato da un sorriso dolce e mite, appaiono molto più realistici. Idea centrale La rappresentazione del tradizionale tema della Maestà. Messaggio dell’autore L’esaltazione della grandezza e della santità della Madonna e al tempo stesso dei suoi tratti umani e materni, al fine di coniugare il rispetto e la devozione dei fedeli con la piena fiducia nella sua misericordia. È, inoltre, opportuno porre in evidenza che l’istituto del vassallaggio feudale, modello sociale dominante, condiziona fortemente le modalità con cui nel Medioevo i fedeli vivono la spiritualità mariana, sia nell’affidamento totale del vassallo al signore, sia nella garanzia di protezione e di difesa del signore nei confronti del vassallo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D2 Giotto, Madonna in maestà Testo Laboratorio per l’esame 2 Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali L’opera rientra nella tradizione toscana delle Madonne a fondo oro su tavola pentagonale. Giotto, però, sviluppa questo tema in modo innovativo, introducendo nel dipinto un nuovo senso dello spazio e della profondità. Le vesti lasciano intuire le forme dei corpi con naturalezza, i volti mostrano espressioni umane. Le figure della Vergine e del Bambino spiccano all’interno di un trono di architettura gotica, esile ed elegante, profondamente diverso dal massiccio trono della Maestà di Cimabue. Sono insoliti anche la disposizione dei santi ai lati del baldacchino e il gesto dei due angeli inginocchiati che reggono vasi di fiori. Maestà (periodo storico 1306-1310). Occorre ampliare le informazioni su Giotto, capostipite dei pittori italiani, creatore di un’arte che osserva e interpreta la realtà, della quale diventano protagonisti uomini e donne veri, che occupano un ruolo sociale e uno spazio fisico tangibile nello scenario quotidiano della città o della campagna. Per questi aspetti della pittura di Giotto e in netta opposizione all’arte bizantina, definita antinaturalista, si parla di “naturalismo”. Idea centrale L’accentuazione dei tratti umani e naturali dei personaggi raffigurati, rappresentati con maggiore realismo e vicini ai fedeli. Messaggio dell’autore La contemplazione della Vergine come la potente e santa Madre di Dio e al tempo stesso vicina all’umanità nel suo cammino terreno, così da favorirne la devozione dei fedeli. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D3 Dante, versi tratti dal canto XXXIII del Paradiso Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, Prima delle due parti in cui la retorica classica e cristiana suddivide le orazioni, a cui fa seguito la supplica vera e propria. La lode della Vergine è condotta attraverso forti antitesi concettuali e verbali, che ne esaltano le qualità umane e sovraumane: il mistero del concepimento di Cristo attraverso lo Spirito Santo (Vergine Madre); il suo essere figlia di Dio, come tutti gli uomini, e al contempo madre di Dio, nella persona di Gesù (figlia del tuo figlio); l’umiltà dimostrata nell’obbedienza al Signore e la sua nobiltà in quanto madre di Dio (umile e alta più che creatura). L’attenzione si concentra poi sul mistero della cooperazione della Vergine alla redenzione: grazie alla sua scelta di obbedienza si è riacceso l’amore, spento dal peccato di Adamo, fra Dio e gli uomini, ai quali sono state riaperte le porte del cielo. Il fiore di cui si parla è per l’appunto la candida rosa dei beati. L’orazione esalta infine il duplice ruolo di Maria, nell’Empireo fonte di carità, sulla terra sorgente di speranza nella misericordia divina. Il vocativo Donna, che deriva dal latino domina, ovvero signora, ripropone il motivo del vassallaggio spirituale che caratterizza la devozione mariana. La metafora nei versi conclusivi sottolinea l’impossibilità per gli uomini di ottenere la Grazia di Dio senza ricorrere all’intercessione della Madonna. Orazione (periodo storico inizio Trecento). È necessario precisare che a pronunciare la preghiera alla Vergine, con cui si apre l’ultimo canto della Commedia, non è Dante, bensì San Bernardo di Chiaravalle, che dal XXXI canto del Paradiso ha sostituito come guida Beatrice, tornata a occupare il suo seggio nella rosa dei beati. Monaco benedettino vissuto fra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo, fu un mistico particolarmente devoto al culto della Vergine Maria, nella quale vedeva l’incarnazione delle virtù cristiane di carità, misericordia, umiltà, castità, e che celebrava come modello da imitare nella vita quotidiana. A lui si deve in particolare la definizione dei tre atteggiamenti che riassumono la spiritualità mariana medioevale: la lode della Vergine, la preghiera, l’imitazione di Maria. È, inoltre, opportuno fare riferimento alla particolare devozione di Dante per la Madonna, come testimonia la diretta intercessione in suo favore della Vergine, che insieme a Santa Lucia incarica Beatrice di salvarlo dalla selva oscura. tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridiana face / di caritate, e giuso, intra ’mortali, / se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disianza vuol volar sanz’ali. Idea centrale L’orazione celebra da un lato la grandezza e la potenza della Vergine, dall’altra la misericordia e l’umiltà. Messaggio dell’autore Indurre i lettori a rivolgersi con fiducia a Maria, invocando protezione e soccorso da colei che è Madre di misericordia, Regina e Signora dell’universo, assisa in cielo alla destra del Figlio, cercandovi al contempo rifugio e consolazione. L’uomo non può nulla senza l’aiuto di Dio, le sue solo forze non sono sufficienti a consentirgli la salvezza. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •D4 Petrarca, la prima strofa della lirica CCCLXVI del Canzoniere Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sì, che ’n te Sua luce ascose, / amor mi spinge a dir di te parole; / ma non so ’ncominciar senza tu’ aita, / et di Colui ch’amando in te si pose. / Invoco lei che ben sempre rispose, / chi la chiamò con fede: / Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti volse, al mio prego t’inchina, / soccorri a la mia guerra, / bench’i’ sia terra, e tu del ciel regina. Preghiera in forma di continua invocazione alla Madonna: il vocativo Vergine è la parola iniziale del primo e del nono verso di ciascuna strofa. La fronte, o parte iniziale della strofa, contiene le lodi rivolte alla Madonna, della quale il poeta celebra la bellezza. È quindi nella sirma, o parte conclusiva, che egli rivolge alla Vergine la propria richiesta di aiuto: lacerato dal conflitto fra amore profano e amore per Dio, il poeta prega Maria di soccorrerlo perché possa liberarsi dal peccato, del quale è pienamente consapevole. Egli infatti insiste sull’antitesi fra la grandezza di Dio e la miseria della condizione umana. Canzone (periodo storico 1353 o 1368). È bene precisare che si tratta del componimento con cui si chiude il Canzoniere, al cui interno costituisce una sorta di palinodia: il poeta ritratta il suo canto d’amore per Laura, quell’amore profano per una creatura terrena che lo ha distolto da Dio e dall’aspirazione ai beni eterni. Ora, all’approssimarsi della morte, egli torna a cantare l’amore per una creatura celeste, la Madonna, alla quale si affida come guida sicura per raggiungere Dio. Laboratorio per l’esame 4 Idea centrale Il poeta loda la bellezza della Vergine, riconosce pentito la propria miseria spirituale e chiede perdono e salvezza, certo di ottenere l’aiuto della Madonna. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a riconoscere i propri errori e a farne ammenda affidandosi alla pietà divina e all’intercessione di Maria. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Saggio breve Stesura Struttura Il culto mariano in età medioevale: tra arte e letteratura Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Durante il Basso Medioevo, in Europa si diffonde il culto mariano, che si espande all’interno della cristianità coinvolgendo monaci e teologi, artisti e poeti, volgo e gente comune e raggiungendo il suo più alto sviluppo tra i secoli XII e XIV. È questa l’epoca in cui nella devozione popolare si diffonde la pratica delle “Passioni”, celebrazioni di piazza che in occasione del Venerdì Santo portano in scena il dramma della Vergine, la quale assiste impotente al supplizio del Figlio. Accanto alle pratiche popolari, che talvolta sfociano in esagerazioni superstiziose, si sviluppano lunghe e complesse controversie dottrinarie e teologiche legate al culto della Vergine, destinate ad approdare a conclusione solo molti secoli più tardi. L’approfondimento della spiritualità mariana trova espressione anche nell’arte e nella letteratura. La venerazione di Maria, assisa nell’alto dei cieli eppure vicina a tutti coloro che sulla terra aspirano all’incontro con Dio, non è testimoniata soltanto dagli inni della liturgia ufficiale o dalle preghiere comunitarie e private: artisti e letterati contribuiscono a delineare i tratti salienti della venerazione mariana, senza costituirsi in élite colta e lontana dal volgo, anzi incontrando con le proprie opere piena risposta popolare. Introduzione Il culto mariano conosce una straordinaria e capillare diffusione all’interno della società medioevale. Con il popolo intellettuali e uomini di cultura condividono l’atteggiamento con cui vivono e propongono la spiritualità mariana, condizionati dal modello sociale dominante: l’istituto del vassallaggio, che lega in un vincolo personale intenso ed esclusivo il vassallo al suo signore, in una relazione di dipendenza e di fedeltà quasi illimitate su cui si modella il rapporto tra il cristiano e la Vergine. Si pensi alla cerimonia dell’omaggio, atto costitutivo del vassallaggio, il cui momento fondamentale, il gesto con cui il vassallo pone le mani giunte fra le mani del signore per affidarsi interamente a lui, è passato nella ritualità cristiana ad accompagnare il momento della preghiera. L’instaurarsi di un “vassallaggio” spirituale nei confronti della Vergine determina importanti conseguenze sulle modalità con cui nel Medioevo i fedeli vivono la spiritualità mariana: da un lato, il devoto si pone sotto la protezione di Maria, alla quale rivolge lodi, suppliche e l’impegno a compiacerne il Figlio, Gesù Cristo; in cambio la Madonna, Regina dell’universo, Signora assisa in cielo alla destra del Figlio, offre al fedele protezione e mediazione, ne assume con tenerezza materna la difesa e intercede presso Dio per ottenerne perdono e grazie. Questa tipologia relazionale si diffonde rapidamente dai monasteri e dagli altri luoghi di culto al popolo il quale cerca rifugio, aiuto e consolazione nella Madre di Dio, percepita come diversa e lontana per santità e al tempo stesso vicina nel cammino terreno, fonte di sostegno e di speranza. Tesi Il rapporto fra la Madonna e i devoti appare fortemente condizionato dal modello sociale dominante, il vassallaggio: ne deriva un duplice aspetto della spiritualità mariana, caratterizzata ora dall’esaltazione della regalità di Maria, ora dalla celebrazione della Madonna come madre universale. È alla luce di questo duplice aspetto, ascendente e discendente, della spiritualità mariana che Cimabue nel penultimo decennio del Duecento e Giotto trent’anni dopo reinterpretano il tradizionale tema pittorico della Maestà, composizione tipicamente medioevale che raffigura la Madonna in trono col Bambino in braccio, circondata da angeli e santi. Nelle opere dei due padri della pittura italiana il superamento, appena accennato in Cimabue, più significativo in Giotto, degli schemi e delle norme dell’arte bizantina, che rappresenta in atteggiamenti fissi e stereotipati figure dalle dimensioni sproporzionate, avviene a vantaggio di una maggiore espressività e naturalezza delle immagini. Così, se nella Maestà di Cimabue i panneggi delle vesti e il volto della Vergine, illuminato da un dolce sorriso appaiono molto più realistici, Giotto introduce nel dipinto un senso più naturale della profondità e dello spazio, le vesti lasciano intuire le forme dei corpi e i volti mostrano espressioni più umane. Fra le finalità di tali scelte pittoriche vi è certamente l’intento di esaltare i tratti materni, la dolce tenerezza e l’umanità della Vergine: la maternità della Madonna spinge il devoto ad affidarsi con totale fiducia alla 1° Argomento a favore della tesi Attraverso esempi tratti dalla pittura del Basso Medioevo si pone in evidenza l’influenza esercitata dal modello feudale sulla spiritualità mariana. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 sua misericordia e alla sua intercessione presso Dio. D’altro canto, la natura gerarchica della società medioevale implica, come sottolineato in precedenza, l’esaltazione della regalità mariana, che non attenua i tratti più umani della figura della Madonna, al contrario si fonde con essi a costituire quella sorta di vassallaggio spirituale che lega i devoti alla Vergine. Veicolano alla coscienza dei fedeli l’impressione della grandezza e della santità di Maria proprio quei tratti tipici dell’arte bizantina ai quali Cimabue e Giotto restano legati, a cominciare dalla concezione simbolica dell’immagine: si pensi alla prospettiva gerarchica della maestà, per cui la Madonna e il Bambino hanno dimensioni maggiori rispetto agli altri personaggi, fissati in gesti di omaggio e devozione. L’età di Dante e Petrarca segna, come si è detto, il culmine della venerazione mariana: non stupisce, pertanto, che entrambi i poeti concludano le loro maggiori opere in volgare con un componimento dedicato alla Vergine. Potenza e grandezza, misericordia e umiltà sono i tratti che Dante attribuisce alla Madonna nell’orazione con la quale, per voce di San Bernardo, mistico particolarmente devoto al culto della Vergine vissuto fra XI e XII secolo, si apre il XXXIII canto del Paradiso, l’ultimo dell’intera Commedia. La lode alla Vergine è condotta attraverso forti antitesi concettuali e verbali, che ne esaltano le qualità umane e sovraumane: il mistero del concepimento di Cristo attraverso lo Spirito Santo (Vergine Madre); il suo essere figlia di Dio, come tutti gli uomini, e al contempo madre di Dio, nella persona di Gesù (figlia del tuo figlio); l’umiltà dimostrata nell’obbedienza alla chiamata divina e allo stesso tempo la nobile superiorità che le deriva dall’essere madre di Dio (umile e alta più che creatura). Dante esalta in particolare il mistero della maternità divina e della cooperazione della Vergine all’opera redentrice del Figlio, Gesù Cristo, che deve suscitare nei credenti un atteggiamento di lode, sia verso il Salvatore, sia verso colei che lo ha generato. Il poeta sottolinea il ruolo importante che Maria ha esercitato sul destino eterno dell’umanità: grazie alla sua scelta di obbedienza si è riacceso l’amore fra Dio e gli uomini e sono state riaperte le porte del cielo, dove è sbocciata la candida rosa dei beati. L’orazione esalta poi la duplice funzione di Maria, nell’Empireo fonte di carità, sulla terra sorgente di speranza nella misericordia divina: ella funge da mediatrice fra le preghiere degli uomini e la grazia di Dio, presso il quale intercede in soccorso dell’umanità. Il vocativo Donna, che deriva dal latino domina, ovvero signora, ripropone il motivo del vassallaggio spirituale che caratterizza la devozione mariana; i cattolici, del resto, si rivolgono alla Vergine con l’appellativo di Madonna, mea domina, ossia mia signora. Particolarmente devoto al culto mariano, Dante si rivolge alla Vergine perché, avendolo in precedenza soccorso nel traviamento della selva oscura, possa ora assisterlo nella preparazione alla visione divina, con la quale culmina quel viaggio nell’aldilà che il poeta ha compiuto proprio per volontà di Maria. È diversa la preghiera con cui si conclude il Canzoniere di Petrarca, unica raccolta profana a chiudersi con un componimento sacro, al cui interno la canzone alla Vergine costituisce una sorta di palinodia, di ritrattazione di quell’amore per una creatura terrena che ha a lungo distolto il poeta da Dio e dai valori spirituali. Ora, all’approssimarsi della morte, Petrarca torna a cantare l’amore per una creatura celeste, la Madonna, alla quale si affida con fiducia per raggiungere Dio. In forma di continua invocazione, come evidenzia il vocativo Vergine con cui si aprono il primo e il nono verso di ciascuna strofa, la canzone nella prima parte di ogni stanza, o fronte, innalza lodi alla bellezza di Maria, qualità che pare averla resa degna di divenire la madre di Dio. Nella sirma, o parte conclusiva di ciascuna strofa, rivolge alla Vergine un’accorata richiesta di aiuto: lacerato dal conflitto fra amore profano e purificazione morale e spirituale, il poeta prega Maria di soccorrerlo perché possa liberarsi da quel peccato del quale ha piena consapevolezza, come evidenzia l’antitesi fra grandezza di Dio e bassezza della condizione umana. Petrarca condivide con l’Alighieri l’attenzione riservata alla bellezza della Vergine e al mistero dell’incarnazione, del quale però Dante pare cogliere le implicazioni più ampiamente legate al destino ultraterreno dell’umanità; Petrarca sembra, invece, maggiormente interessato alla sorte individuale della propria anima. Accanto alla celebrazione della bellezza della Vergine Dante pone, inoltre, l’accento sulle virtù cristiane mirabilmente incarnate in Maria, che celebra come modello da imitare nella vita quotidiana. Laboratorio per l’esame 6 2° Argomento a favore della tesi Attraverso esempi tratti dai più grandi poeti del Basso Medioevo si ribadisce l’influenza esercitata dal modello feudale sulla spiritualità mariana. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Nel corso del tempo, i mutamenti avvenuti all’interno della società, nella sensibilità degli individui, nelle forme di comunicazione, nei modi di espressione dell’arte e della letteratura hanno esercitato una forte influenza sulle manifestazioni del sentimento religioso. Alcuni culti in passato ampiamente diffusi e particolarmente adatti a esprimere il sentimento religioso dei singoli individui e delle comunità dei fedeli, appaiono oggi inattuali, in quanto legati a schemi sociali e culturali oramai superati. Nell’ambito della devozione mariana, il mistero della maternità divina suscita ancora oggi nei credenti un atteggiamento di lode e di gratitudine nei confronti di colei che ha cooperato all’opera di redenzione dell’umanità a opera di Gesù Cristo. Tuttavia, maggiormente sentita è probabilmente la maternità universale della Vergine, madre di tutti gli uomini, della quale si apprezzano particolarmente la divina tenerezza, la dolce indulgenza e la misericordiosa sollecitudine nei confronti dei fedeli di tutte le epoche. Ad animare un intenso turismo religioso, fatto di pellegrinaggi e visite a santuari mariani e luoghi di apparizioni, a indurre migliaia di persone a riunirsi per la recita del Santo Rosario e per la celebrazione del mese di maggio è proprio la fiducia nella capacità di mediazione e intercessione della Vergine presso Dio, quel Dio che gli uomini di oggi, in un momento di profondo disorientamento religioso, faticano sempre più a sentire vicino. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Conclusione Si attualizza l’argomento, evidenziando l’evolversi del culto mariano attraverso i secoli in seguito ai mutamenti sociali. Laboratorio per l’esame 7 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 330-332 Analisi del testo Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 381-382. • Francesco Petrarca, Padre del ciel, dopo i perduti giorni (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo Padre del cielo, dopo i giorni sprecati (a coltivare una passione traviante), dopo le notti inutilmente perdute nel colpevole sogno di piaceri vani, in preda a quell’implacabile desiderio d’amore che mi divampò nel cuore nel contemplare i gesti (di Laura) così aggraziati per mia sventura, concedi che con l’ausilio della tua grazia io possa volgermi a una vita diversa, e a opere più lodevoli, così che il mio ostinato nemico, avendomi inutilmente teso trappole per fare di me una sua preda, ne esca sconfitto. È trascorso, o mio Signore, l’undicesimo anno da quando fui sottomesso alla spietata schiavitù dell’amore, che è tanto più crudele quanto più la vittima è soggiogata. Abbi pietà del mio vergognoso tormento; riporta i miei pensieri che inseguono seduzioni vane verso una meta migliore (il cielo); ricorda loro come in questo giorno (Venerdì Santo) tu fosti posto in croce. 2. Analisi del testo 2.1 I tre piani temporali si intersecano e si alternano lungo tutto il componimento, a segnare ciascuno una tappa del percorso sentimentale e morale del poeta. Il passato, dominato dall’implacabile passione per Laura e dal conseguente allontanamento da Dio, è il tempo del peccato, della colpa e del traviamento morale. Ad esso si collega, attraverso l’occasione dell’anniversario, la dimensione presente, pervasa da un profondo senso di stanchezza nei confronti delle passioni terrene: è il tempo della lucida e consapevole introspezione di sé, della sincera confessione delle proprie debolezze, dell’umiltà nella preghiera; al pentimento e al dolore subentra il desiderio di purificazione. La sincera richiesta di perdono rivolta a Dio troverà risposta nel futuro, il tempo in cui il poeta intraprenderà finalmente ben altra vita, ben altre opere. L’avvicendarsi dei piani temporali è all’origine di una lunga serie di contrasti tra Bene e Male, che percorrono l’intero componimento e ne costituiscono un vero e proprio tema-guida: così, ai perduti giorni e alle notti vaneggiando spese si contrappone l’aspirazione ad altra vita et a più belle imprese; al vagare dei pensieri si sostituisce il loro indirizzarsi a miglior luogo. 2.2Il sonetto si apre con il rinvio a una delle più suggestive preghiere della tradizione cristiana, il Padre nostro, e conserva poi un tono religioso, come sottolineano i vocativi (Padre del ciel e Signor mio) e gli esortativi (piacciati, Miserere, reduci e rammenta): Petrarca riesce a calare in una formula di ascendenza religiosa un proprio evento autobiografico, l’undicesima ricorrenza del primo incontro con Laura, presentandolo come momento culminante di un’esistenza consumata in modo indegno. 2.3La serie di contrapposizioni tra Bene e Male culmina nel contrasto tra Dio, “armato” di grazia e di misericordia, e il Demonio, l’ostinato nemico del poeta che lo tenta con le armi della seduzione tradizionalmente attribuite ad Amore. Inutili si riveleranno le trappole della seduzione, con l’aiuto di Dio egli riuscirà a sconfiggerlo. La passione amorosa si identifica, quindi, con il male, dal quale Petrarca chiede di essere liberato. È particolarmente significativa la contrapposizione con cui si chiude il sonetto, che vede coincidere in maniera stridente l’occasione dell’innamoramento con il giorno più doloroso del calendario cristiano, quello che rievoca la Passione di Cristo: l’irruzione di un evento profano entro una ricorrenza così sentita dalla collettività ora è profondamente condannato. 2.4Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito nella sua forma più classica da quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto. Grazie anche all’ampio ricorso a sinalefe e sineresi, i versi sono tutti endecasillabi piani, ossia accentati sulla penultima sillaba. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti Nell’undicesimo anniversario dell’innamoramento, il poeta dà voce allo smarrimento e alla stanchezza spirituale che lo affliggono e si rivolge a Dio con fervido slancio perché lo liberi dall’implacabile passione amorosa. È impossibile interpretare correttamente il testo senza accostarlo al componimento che lo precede all’interno del Canzoniere, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, un plazer che celebra ogni elemento dell’incontro con Laura, dal tempo al luogo ai sintomi dell’innamoramento, fino ai componimenti ad esso ispirati. La lettura comparata dei due sonetti, i quali Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 compongono un dittico contraddittorio, evidenzia l’ambiguità della condizione sentimentale del poeta, combattuto fra la violenta intensità della passione sensuale e l’aspirazione a liberarsi dalla catena amorosa per approdare alla purificazione morale e spirituale, ostacolata dall’amore per Laura. Il sonetto in analisi conferma, inoltre, la condanna morale della passione d’amore, insieme al proposito di pentimento e di elevazione spirituale espressi fin dal sonetto proemiale, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, che introduce il lettore alla materia amorosa oggetto della poesia e ne propone al contempo un bilancio a posteriori, offrendo così la chiave per interpretarla: il poeta pronuncia sull’innamoramento un severo giudizio, definendolo traviamento morale e folle vaneggiare, conseguenze del quale sono la vergogna e il pentimento. In seguito a un lungo percorso di conversione, egli è divenuto un uomo nuovo, diverso almeno in parte rispetto al passato. Proprio la raccolta poetica si delinea come lo strumento di riscatto dall’amore per Laura, l’espressione della lacerazione interiore del poeta innamorato e il mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale. Al centro del Canzoniere sta infatti il tortuoso conflitto interiore tra desiderio amoroso e profondo senso del peccato. Benché il poeta sia consapevole che la vita terrena, con le sue seduzioni, è solo un inganno, e nonostante la sua formazione religiosa imponga di cercare la felicità nei valori trascendenti della fede, egli si sente profondamente e inevitabilmente attratto da quegli ideali terreni, amore, passione, gloria letteraria, di cui Laura è l’emblema. Estremamente moderna appare, dunque, la sensibilità di Petrarca, combattuto fra l’aspirazione alla salvezza eterna, la fiducia nei valori religiosi, e l’incapacità di viverli come consolatori e rassicuranti, di avvertirli come totalmente appaganti. Il percorso dalla dimensione materiale a quella spirituale è infatti affrontato in forma problematica, tormentato da dubbi e incertezze. Il poeta riconosce di non poter fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. La modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto nella totale accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque prospettiva di trasformazione. Caratterizzano il Canzoniere un lessico medio e uniforme, che evita il ricorso ad arcaismi e a termini ricercati tanto quanto l’uso di vocaboli bassi e popolari; una struttura metrico-sintattica lineare e simmetrica, che vede il prevalere della coordinazione, delle coppie di sinonimi, le antitesi, i parallelismi. Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La stesura del testo Commento Introduzione all’opera Rerum vulgarium fragmenta («Frammenti di cose in volgare») è il titolo originale in lingua latina della raccolta di poesie in volgare nota fin dal XVI secolo come Canzoniere: opera organica, essa comprende 366 liriche composte da Francesco Petrarca nell’arco dell’intera esistenza, dagli anni della giovinezza fino alla morte, avvenuta nel 1374. La raccolta, risultato di costanti modifiche e revisioni, costituisce il diario lirico del poeta che, attraverso la vicenda autobiografica dell’amore non corrisposto per Laura, ricostruisce l’itinerario morale di un’anima alla ricerca della verità e dell’eterno. Concepito dopo la morte dell’amata, il Canzoniere è incentrato sul rapporto esistente tra l’assenza della donna e la creazione poetica: le rime sparse che il lettore si accinge ad ascoltare sono, infatti, scaturite dall’amore non ricambiato per Laura, al quale egli ha saputo trovare conforto solo attraverso la scrittura. Fin dal sonetto proemiale la poesia esprime la lacerazione interiore del poeta innamorato, combattuto fra passione e senso del peccato, e al tempo stesso diviene strumento di riscatto dall’amore per Laura, mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale. Al centro della raccolta sta, infatti, un lacerante conflitto interiore, che contrappone il desiderio di Laura e la passione d’amore al profondo senso di colpa e alla coscienza del peccato che inevitabilmente li accompagna. Benché il poeta sia consapevole che la vita terrena, con le sue seduzioni, è solo un inganno, nonostante la formazione religiosa gli imponga di cercare la felicità nei valori trascendenti della fede, egli si sente profondamente e inevitabilmente attratto da quegli ideali terreni, amore, passione, gloria letteraria, di cui Laura è l’emblema. Nel nome dell’amata convivono, infatti, due livelli simbolici, che consentono a Petrarca di coniugare ambito sentimentale e aspirazione poetica: come Dafne, la ninfa amata da Apollo, di cui Ovidio racconta il mito nel primo libro delle Metamorfosi, così Laura è la donna che fugge l’innamorato, è l’oggetto del desiderio irraggiungibile; come la pianta di alloro, in cui il padre trasforma la ninfa per sottrarla ad Apollo, così Laura è simbolo della poesia e della gloria letteraria, sorta di consolatoria ricompensa per l’innamorato. Estremamente moderna appare, dunque, la sensibilità di Petrarca, combattuto fra l’aspirazione alla salvezza eterna, la fiducia nei valori religiosi, e l’incapacità di viverli come consolatori e rassicuranti, di avvertirli come totalmente appaganti. Il percorso dalla dimensione materiale a quella spirituale è infatti affrontato in forma problematica, tormentato da dubbi e incertezze: il poeta riconosce di non poter fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. Caratterizzano il Canzoniere una tonalità media e raffinata, che evita tanto il registro basso e comico quanto l’aulico e sublime; il lessico, medio e uniforme, lontano dalla lingua comune e quotidiana, esclude elementi realistici e concreti e ricerca una certa generalità e astrattezza; una struttura metrico-sintattica lineare e simmetrica, che vede il prevalere della coordinazione, delle coppie di sinonimi, di antitesi e parallelismi. La struttura Il metodo applicato Indicazioni utili a delineare le caratteristiche generali dell’opera. Rielaborazione delle informazioni contenute nella risposta 3. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Informazioni contenute nella risposta 3. Informazioni contenute nella risposta 3. Laboratorio per l’esame 3 L’analisi del significato Nell’undicesimo anniversario dell’innamoramento, il poeta dà voce allo smarrimento e alla stanchezza spirituale che lo affliggono e si rivolge a Dio con fervido slancio perché lo liberi dall’implacabile passione amorosa. Il sonetto si apre, infatti, con il rinvio a una delle più suggestive preghiere della tradizione cristiana, il Padre nostro, e conserva poi un tono religioso, come sottolineano i vocativi (Padre del ciel e Signor mio) e gli esortativi (piacciati, Miserere, reduci e rammenta): Petrarca riesce dunque a calare in una formula di ascendenza religiosa un evento autobiografico, l’undicesima ricorrenza del primo incontro con Laura, presentandolo come momento culminante di un’esistenza consumata in modo indegno. Tre piani temporali si intersecano e si alternano lungo tutto il componimento, a segnare ciascuno una tappa del percorso sentimentale e morale del poeta. Il passato, dominato dall’implacabile passione per Laura e dal conseguente allontanamento da Dio, è il tempo del peccato, della colpa e del traviamento morale. Ad esso si collega, attraverso l’occasione dell’anniversario, la dimensione presente, pervasa da un profondo senso di stanchezza nei confronti delle passioni terrene: è il tempo della lucida e consapevole introspezione di sé, della sincera confessione delle proprie debolezze, dell’umiltà nella preghiera; al pentimento e al dolore subentra il desiderio di purificazione. La sincera richiesta di perdono rivolta a Dio troverà risposta nel futuro, il tempo in cui il poeta intraprenderà finalmente ben altra vita, ben altre opere. L’avvicendarsi dei piani temporali è all’origine di una lunga serie di contrasti tra Bene e Male, che percorrono l’intero componimento e ne costituiscono un vero e proprio tema-guida: così, ai perduti giorni e alle notti vaneggiando spese si contrappone l’aspirazione ad altra vita et a più belle imprese; al vagare dei pensieri si sostituisce il loro indirizzarsi a miglior luogo. La serie di contrapposizioni culmina nel contrasto tra Dio, “armato” di grazia e di misericordia, e il Demonio, l’ostinato nemico del poeta che lo tenta con le armi della seduzione tradizionalmente attribuite ad Amore. La passione amorosa si identifica, quindi, con il male, dal quale Petrarca chiede di essere liberato: con l’aiuto di Dio egli riuscirà a sconfiggerlo. È particolarmente significativa, in questo senso, la contrapposizione con cui si chiude il sonetto, che vede coincidere in maniera stridente l’occasione dell’innamoramento con il giorno più doloroso del calendario cristiano, quello che rievoca la Passione di Cristo: l’irrompere di un evento profano entro una ricorrenza così sentita dalla collettività appare profondamente condannato. È evidente il rinvio al terzo componimento del Canzoniere, Era il giorno ch’al sol si scoloraro, nel quale il poeta fornisce al lettore precise indicazioni circa le circostanze in cui avviene il primo incontro con Laura: egli afferma di essersene innamorato in occasione di un’importante ricorrenza liturgica, il Venerdì Santo, commemorazione della morte di Cristo. È invece un altro sonetto, il componimento CCXI del Canzoniere (Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge…), a proporre la data esatta dell’innamoramento: 6 aprile 1327, un lunedì secondo il calendario, un Venerdì Santo per Petrarca, che forza la cronologia reale per sottolineare come il nascere della passione amorosa si compia all’insegna del peccato. Laboratorio per l’esame 4 Enunciazione sintetica del contenuto del sonetto. Rielaborazione della parafrasi. Informazioni contenute nelle risposte 2.2 e integrazioni personali. Definizione dello stato d’animo prevalente e delle sensazioni dominanti all’interno del brano. Informazioni contenute nelle risposte 2.1, 2.3 e integrazioni. Collegamento con un altro componimento della medesima raccolta. Informazioni contenute nella risposta 3. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Impossibile interpretare correttamente il testo in esame senza accostarlo al componimento che lo precede all’interno del Canzoniere, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, un plazer in cui, attraverso l’anafora della formula benedicente, il poeta celebra ogni elemento dell’incontro con Laura, dal tempo al luogo ai sintomi dell’innamoramento, fino ai componimenti ad esso ispirati. La collocazione dei due sonetti, composti in momenti diversi e assai lontani nel tempo, eppure inseriti l’uno di seguito all’altro in un dittico contraddittorio, induce a una lettura continuata e unitaria dei testi, favorita anche dalle riprese lessicali e tematiche: si pensi alla rima fortemente evocativa anno / affanno, il cui significato, celebrativo nel plazer, è completamente rovesciato nel secondo componimento, dove suona come definitiva condanna. Allo stesso modo, il trionfo di Amore celebrato nel primo sonetto si trasforma in amara sconfitta in quello seguente; ai testi poetici ispirati dall’amore per Laura e alla gloria da essi procurata, le benedette […] carte con cui Petrarca acquista fama, sono ora preferite più belle imprese. In conclusione, i lunghi anni dedicati al dolce affanno dell’amore profano sono interpretati a posteriori come tempo inutilmente sprecato in non degno affanno, in futili vaneggiamenti. La lettura comparata dei due sonetti, voluta dallo stesso Petrarca, evidenzia dunque la contraddittorietà della condizione sentimentale del poeta, combattuto fra la violenta intensità della passione sensuale e l’aspirazione a liberarsi dalla catena amorosa per approdare alla purificazione morale e spirituale, ostacolata dall’amore per Laura. Tuttavia, in una sorta di azzeramento dello scorrere del tempo, del progredire naturale degli eventi nell’ambito della relazione amorosa, si susseguono – all’interno della raccolta – componimenti che ora sottolineano come nulla della passione duratura ed esclusiva per Laura muti nel tempo, ora ne confermano la condanna morale, insieme al proposito di pentimento e di elevazione espressi fin dal sonetto proemiale, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Sorta di prefazione alla raccolta, il primo componimento assolve alla duplice funzione di introdurre il lettore alla materia amorosa oggetto della poesia e di proporne al contempo un bilancio a posteriori, offrendo così al lettore la chiave per interpretarla: il poeta pronuncia sull’innamoramento un severo giudizio, definendolo traviamento morale e folle vaneggiare, conseguenze del quale sono la vergogna e il pentimento. In seguito a un lungo percorso di conversione, egli è divenuto un uomo nuovo, diverso almeno in parte rispetto al passato; all’interno di questo profondo cambiamento esistenziale, la raccolta poetica si delinea come lo strumento di riscatto dall’amore per Laura, l’espressione della lacerazione interiore del poeta innamorato e il mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale. Dunque, nulla sembra mutare attraverso la raccolta nel lacerante conflitto che dilania l’animo del poeta; nonostante l’invadenza del tema amoroso, che deborda dalle rime volgari fin nelle Epistole e nel Secretum, e i propositi di conversione morale, la contraddittorietà con cui Petrarca lo vive e il continuo e implacabile esame di coscienza che l’accompagna restano irrisolti. La modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto nella totale accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque prospettiva di trasformazione. Esplicitazione approfondita del significato del brano, attraverso il confronto con altri componimenti della medesima raccolta. Informazioni contenute nelle risposte 2.1 e 3 e integrazioni. Collegamento con altre opere dell’autore. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 L’analisi del significante Petrarca pare piuttosto realizzare i propri propositi di armonia ed equilibrio attraverso l’espressione formale, frutto di un lunghissimo e intenso processo di riscrittura che testimonia l’ansia di perfezione assoluta che lo anima. Ansia che, del resto, tradisce la convinzione che la cura formale, la ricerca di un’espressione equilibrata e armoniosa non sono solo il frutto di grande perizia tecnica, quanto piuttosto la testimonianza della conquista del dominio di sé e delle proprie passioni. Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto. Grazie anche all’ampio ricorso a sinalefe e sineresi, i versi sono tutti endecasillabi piani, ossia accentati sulla penultima sillaba. Il componimento presenta una evidente corrispondenza fra struttura tematica e struttura sintattica. Da un punto di vista sintattico il sonetto è suddiviso in due blocchi distinti: le quartine costituiscono un unico periodo, scandito dall’invocazione iniziale rivolta a Dio, alla quale si lega direttamente il verbo della principale, piacciati. Due periodi distinti compongono invece le terzine, nelle quali è comunque ripresa la disposizione in parallelo del contenuto proposto nelle quartine: Signor mio / Padre del ciel, piacciati / Miserere. Il linguaggio è semplice e non artificioso, in corrispondenza con il desiderio di purificazione espresso nel contenuto, che riceve, così, maggiore evidenza. Prevalgono le dicotomie, ossia l’accostamento di vocaboli due a due: i perduti giorni, le notti vaneggiando spese; ad altra vita, et a più belle imprese. Da rilevare, infine, la presenza insistita di metafore amorose, quali reti indarno tese, dispietato giogo, a ribadire la forza di quella passione terrena a cui il poeta tenta invano di sottrarsi. Laboratorio per l’esame 6 Relazione fra espressione e contenuto. La metrica Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni. La sintassi Il linguaggio Le figure retoriche Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 479-481 Articolo di giornale Componi un articolo di giornale sull’argomento: «Personaggi del Decameron: modelli a confronto» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 479-481. • Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65) • Giovanni Boccaccio, Andreuccio da Perugia (• T61) • Carlo Brambilla, Il manoscritto scoperto all’Ambrosiana di Milano (• D1) • Gerald Kamber, Le fonti nel Decameron di due episodi di Pinocchio (• D2) Schedatura dei documenti •T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Avea frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco; il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: «Il fante mio ha in sé nove cose tali, che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove!»; e essendo alcuna volte domandato quali fossero queste nove cose e egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubbidiente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle […]; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino e, essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia. È vero ch’egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico 1348-1351). Si può fare riferimento al concetto di “brigata”, un sistema sociale che nasce in ambiente preborghese e si afferma al tempo di Boccaccio: il termine indica un gruppo di amici riuniti con intenti prevalentemente ludici. All’interno della brigata assume un ruolo decisivo il “motto”, ovvero la capacità di esprimere l’intelligenza attraverso la parola. La fiducia nella parola arguta ed elegante diventa l’emblema della nuova civiltà mercantile, che non punta più sui valori tradizionali (la nobiltà di nascita), ma opera in una società in movimento, in cui la concorrenza produce il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia. Guccio è goffo, sudicio, grasso, come annota con compiacenza divertita Boccaccio elencando i nomignoli a lui affibbiati. La beffa delle false reliquie si sviluppa all’interno dell’ambiente sociale della brigata, di cui il frate stesso fa parte. La spassosissima filastrocca con cui frate Cipolla mette in rima la descrizione del servo presenta alcuni caratteri tipici della prosa d’arte medioevale: l’uso di parole con terminazioni simili, allitterazioni, giochi fonici e bisticci verbali. Idea centrale All’immagine del servo sono associate caratteristiche fisiche, morali e psicologiche tali da farne il perfetto rovesciamento delle qualità esaltate dall’emergente civiltà mercantile, rappresentate da frate Cipolla. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere l’ironico distacco da Guccio Imbratta e la bonaria complicità verso l’astuto frate. Fra le raffinate e molteplici qualità di Guccio decantate con ironia da frate Cipolla non manca la presunzione: convinto di essere un buon oratore, egli tenta con l’arte della parola di corteggiare la Nuta, una serva altrettanto sconcia e deforme. Il corteggiamento amoroso, scena consueta nella tradizione della letteratura duecentesca, è qui interpretato in chiave ironica e parodica, grazie anche al ricorso intenzionale a strumenti che appartengono alla letteratura alta: l’autore rappresenta Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 Testo Schedatura prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga». […] Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta e con un paio di poppe che parevan due cestoni da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò […]. l’insolita scena disseminandone la narrazione di armoniosi endecasillabi, i quali fanno risaltare per contrasto la natura disarmonica dei due partners. Tipologia testuale Integrazioni personali •T61 Giovanni Boccaccio, Andreuccio da Perugia Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Fu […] in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto […], per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide […]. «Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri». Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato […]. Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico 1348-1351). Si può fare riferimento ai mutamenti economici e sociali che caratterizzano la civiltà del Trecento, la quale imprime nuovo slancio agli scambi commerciali ed è quindi caratterizzata da una maggiore mobilità. Nei loro itinerari i mercanti italiani oltrepassano abitualmente i confini dell’Italia per spingersi in alcune regioni europee. Benché siano più frequenti, gli spostamenti all’interno della penisola e dell’Europa restano comunque rischiosi, fonti di insidie e pericoli. Laboratorio per l’esame 2 La novella ha al centro la tematica del viaggio, tipica della emergente civiltà mercantile. Prevale il gusto per l’intreccio, interamente dominato dalle bizzarrie del caso, dal gusto per l’avventura intesa come scoperta di cose nuove. Andreuccio è inizialmente descritto come ingenuo e sprovveduto, ma anche presuntuoso. Idea centrale Rappresentare l’evoluzione del giovane Andreuccio, che attraverso incredibili e sorprendenti avventure egli approda infine alla conquista del buon senso. Messaggio dell’autore L’intelligenza, la capacità di volgere gli eventi a proprio vantaggio, è la virtù più importante. Le sorprendenti avventure di Andreuccio sono ambientate in luoghi storicamente riconoscibili e si sviluppano lungo un asse verticale: esse conducono il protagonista attraverso improvvise cadute e brusche risalite. Dal vicolo della contrada di Malpertugio alla porta della ciciliana, all’affacciarsi dello scarabone Buttafuoco, figura orchesca di mafioso dalla Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Testo Schedatura contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa […]. Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava. […] Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio […] subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba […]; se n’andò quindi giuso […], ma tutto della bruttura della quale il luogo era pieno s’imbrattò. […] E tardi dello inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un muretto […], all’uscio della casa […] se n’andò […]. Uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?». Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender poté, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi […]. Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via […]. Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé; […] a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato. barba nera e folta che emerge da una finestra dell’abitazione della Ciciliana, preannunciata da una voce grossa, orribile e fiera. Tipologia testuale Integrazioni personali Proseguono le cadute e le risalite: dal pozzo in cui lo calano i due ladri al ritorno in superficie ad opera dei gendarmi; dalla tomba dell’arcivescovo alla spettrale apparizione che gli consente di uscire all’esterno. Attraverso queste incredibili avventure si compie il percorso di formazione di Andreuccio, che da giovane ingenuo e sprovveduto si trasforma in mercante accorto e previdente. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •D1 Carlo Brambilla, Il manoscritto scoperto all’Ambrosiana di Milano Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali La straordinaria scoperta, del tutto casuale, si deve a un giovane ricercatore dell’Università Cattolica di Milano, Marco Petoletti. Una settimana fa lo studioso, scartabellando tra i preziosi volumi sulla tradizione dei classici latini della Biblioteca Ambrosiana, viene attratto da un manoscritto medioevale con gli Epigrammi di Marco Valerio Marziale, ricco di note e corredato da quattro piccoli disegni. […] Un epigramma del nono libro di Marziale ricorda un personaggio un po’ squallido che si chiamava Filomuso, abituato a raccontare fanmdonie. E a fianco appare una postilla di Boccaccio, quasi invisibile, che ricorda il suo personaggio di “frate Cipolla”. È molto probabile che Boccaccio abbia recuperato il modello […] dalla biblioteca di Montecassino, durante il soggiorno napoletano del 13621363. […] Breve trafiletto di cronaca, fornisce le coordinate dell’informazione: Articolo (periodo storico 18 febbraio 2006). È necessario ampliare le informazioni su Marco Valerio Marziale (nato nel 40 d.C. a Bilbilis, in Spagna, dove muore nel 102), maestro nel genere dell’epigramma: breve componimento in esametri o distici elegiaci. Originariamente impiegato per epigrafi e dediche votive, l’epigramma diventa in seguito, ampliati i temi, il genere della poesia d’occasione per eccellenza, adatto a celebrare l’amore e a pungere con la satira i personaggi della vita pubblica. Marziale vi si dedica in modo esclusivo, popolando i propri versi di personaggi, circostanze e occasioni tratte dall’esistenza quotidiana. L’obiettivo del poeta latino è divertire il pubblico rappresentando con ironia i vizi, la mancanza di valori e la povertà morale della società romana del I secolo d.C. È emblematica la figura di Filomuso, scaltro parassita che, inventando fandonie, è in grado di procurarsi una cena. chi: Marco Petoletti, giovane ricercatore universitario; cosa: la scoperta di un manoscritto autografo di Boccaccio contenente gli Epigrammi di Marziale, corredato di annotazioni e postille; dove: a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana; quando: una settimana prima della pubblicazione dell’articolo; perché: obiettivo dell’autore è inserire il Filomuso di Marziale fra i modelli del frate di Boccaccio; come: per caso. Il personaggio boccacciano in questione è l’astuto frate questuante protagonista della decima novella della sesta giornata del Decameron, dedicata ai motti. L’autore chiarisce le circostanze spazio-temporali della ricopiatura del codice. Idea centrale Indicare fra i modelli a cui Boccaccio si sarebbe ispirato per la creazione del personaggio di frate Cipolla un certo Filomuso, un parassita bugiardo cui Marziale accenna negli Epigrammi. Messaggio dell’autore Informare il lettore sull’importanza del ritrovamento del prezioso Marziale autografo di Boccaccio. Occorre inoltre ampliare le notizie sul rapporto di Boccaccio con la tradizione letteraria latina, alla quale si accosta dopo la stesura del Decameron, grazie all’influenza di Petrarca. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D2 Gerald Kamber, Le fonti nel Decameron di due episodi di Pinocchio Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali (B) […] una notevole analogia fra Andreuccio imbrattato e Pinocchio successivamente annaffiato, bagnato, fradicio e impillaccherato […]. Prendendo Guccio come punto di partenza, crediamo di aver dimostrato come gli elementi tanto fisici quanto morali o psicologici del personaggio sono stati spartiti in modo sempre più attenuato, prima fra Andreuccio e Buttafuoco, e poi fra Pinocchio e Mangiafuoco. […] Delle due parti della personalità di Guccio, la parte brutale e prepotente (quella parte ereditata dal doppio mostro Butta / Mangiafuoco) morirà con l’invecchiare degli eredi. La parte giovanile però, questa fame e sete insaziabili per le soddisfazioni elementari, per l’esperienza nuova insomma (in parte ereditata da Andreuccio e da Pinocchio) sarà salva quando […] i due eroi riprenderanno i loro panni e, ricoperta la loro nudità, saranno rivestiti dai drappi della dignità umana. […] La prima parentela individuata riguarda Andreuccio e Pinocchio, i quali condividono la brutale esperienza dell’imbrattamento notturno. Saggio (periodo storico 1969). Occorre ampliare le informazioni su Pinocchio, personaggio dell’omonimo romanzo di Carlo Lorenzini, più conosciuto con lo pseudonimo di Collodi (1826-1890); nel 1883 pubblicò in volume Le avventure di Pinocchio, il romanzo per ragazzi più letto al mondo. La seconda riguarda la figura di Guccio Imbratta, il servo goffo e sgraziato di frate Cipolla, le cui caratteristiche positive e negative sarebbero rintracciabili in altri personaggi boccacciani della seconda giornata, attraverso i quali sarebbero passati a protagonisti del Pinocchio di Collodi. Idea centrale Evidenziare la somiglianza fra il servo di frate Cipolla e altri due personaggi boccacciani, Andreuccio da Perugia e Buttafuoco, le cui caratteristiche fisiche e morali sarebbero state utilizzate da Collodi nella creazione di Pinocchio e del burattinaio Mangiafuoco. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a riconoscere in Andreuccio e Buttafuoco, Pinocchio e Mangiafuoco gli eredi letterari di Guccio Imbratta. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 articolo di giornale Stesura Struttura Collodi copia Boccaccio Dal Decameron a Pinocchio: tra rozzi prepotenti, scaltri bugiardi e ingenui creduloni Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo. Febbraio 2006 - Milano, Biblioteca Ambrosiana: un giovane ricercatore dell’Università Cattolica si imbatte per caso in un codice medioevale contenente gli Epigrammi del poeta latino Marziale (40-102 d.C.) e riconosce in alcune note la grafia di Giovanni Boccaccio. L’autore del Decameron non si sarebbe limitato a copiare le poesie latine, forse durante il soggiorno napoletano del 1362, ma ne avrebbe corredato i margini con annotazioni e postille, alcune particolarmente vivaci, che ne registrano le sensazioni. È particolarmente interessante la nota al trentacinquesimo epigramma del nono libro di Marziale, in cui il poeta latino ritrae in pochi ironici versi un personaggio tratto direttamente dall’esistenza quotidiana, degno rappresentante della mancanza di valori e della povertà morale della Roma del I secolo d.C.: si tratta di Filomuso, scaltro parassita in grado di procurarsi una cena inventando fandonie. La mente di Boccaccio corre rapida al Decameron, alla decima novella della sesta giornata. A margine dei versi latini annota: “Frate Cipolla”. Le coordinate dell’informazione chi: un giovane ricercatore; cosa: scoperta di un marziale autografo di Boccaccio, corredato di note e postille; dove: a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana; quando: nel febbraio 2006; perché: per caso. Autunno 1969: sulla rivista Italica il critico Gerald Kamber rintraccia le caratteristiche fisiche e morali di Guccio Imbratta, servo del frate Cipolla protagonista di una delle più spassose novelle del Decameron, in altre figure boccacciane, nonché in alcuni personaggi del Pinocchio di Collodi. Kamber afferma che gli elementi fisici, psicologici e morali che in Guccio Imbratta costituiscono un carattere unitario sarebbero stati scomposti e attribuiti in modo sempre più attenuato prima ad alcuni protagonisti della sesta giornata, Andreuccio e Buttafuoco, poi ai personaggi collodiani di Pinocchio e Mangiafuoco. chi: Gerald Kamber; cosa: pubblicazione di un saggio; dove: sulla rivista Italica; quando: nell’autunno 1969; perché: per proporre il risultato dei propri studi su alcuni personaggi del Decameron. Ma quale relazione esiste fra un astuto frate questuante del Basso Medioevo e uno scaltro parassita della Roma imperiale? E cosa ha a che fare il burattino di legno più celebre della letteratura per l’infanzia con il servo a dir poco grottesco di un monaco del Milletrecento? Per trovare una risposta occorre partire proprio dalla nota novella del Decameron, la decima della sesta giornata, che porta sulla scena la figura di Guccio. Essa celebra la prontezza di spirito e la spassosissima abilità oratoria di un astuto frate questuante dell’ordine di Sant’Antonio abate, frate Cipolla, il miglior brigante del mondo; vero professionista dell’elemosina, egli è disposto a spacciare per reliquia qualsiasi oggetto pur di far leva sulla superstiziosa credulità degli abitanti di Certaldo e battere cassa. Pronto a offrire alla venerazione degli sciocchi niente meno che una penna dell’agnolo Gabriello (in realtà la piuma di un pappagallo), è a sua volta vittima di una burla messa in atto dai suoi compagni di brigata, che alla penna sostituiscono del carbone; con una predica mirabolante e vertiginosa egli convince i fedeli accorsi che si tratta delle braci che arrostirono San Lorenzo e riesce, così, a beffare non solo gli amici burloni, ma anche i contadini di Certaldo, i quali danno migliori offerte che usati non erano. Spregiudicatezza, scarso senso morale e grande abilità di parola caratterizzano anche il personaggio di Marziale, quel Filomuso di cui poco apprendiamo dai versi del poeta latino. Ciò che certo non può sfuggire è l’atteggiamento dei due autori: Boccaccio e Marziale sembrano condividere la medesima complicità verso l’astuzia dei personaggi e il senso di disprezzo per le masse beffate. A essere giudicata negativamente non è l’immoralità dell’inganno, bensì la stupidità di chi si lascia ingannare. Corpo principale dell’articolo Si spiega il come, soffermandosi sulla difficoltà di individuare con certezza le molteplici fonti di un’opera letteraria. Ci si sofferma, in particolare, sul confronto fra alcuni personaggi del Decameron e di Pinocchio. Laboratorio per l’esame 6 Il primo confronto Il frate predicatore e il parassita Filomuso. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Torniamo al Decameron: complice involontario di beffa e contro beffa è l’improbabile servo di frate Cipolla, Guccio, il cui ritratto campeggia al centro della novella: goffo, sudicio, sgraziato, come annota con compiacenza divertita Boccaccio elencando i nomignoli a lui affibbiati. È lo stesso frate a mettere in rima la descrizione del servo, in una divertente filastrocca per la quale scomoda persino alcuni caratteri della prosa d’arte medioevale, introducendo parole con terminazioni simili, allitterazioni, giochi fonici, bisticci verbali: Guccio è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubbidiente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. E avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino. Fra le raffinate e molteplici qualità di Guccio non manca dunque la presunzione! Convinto di essere un buon oratore quanto il suo padrone, tenta invano (la stoffa non è quella del frate) con l’arte della parola di corteggiare la Nuta, una serva altrettanto sconcia e deforme, grassa e grossa e piccola e mal fatta e con un paio di poppe che parevan due cestoni da letame, tutta sudata, unta e affumicata. L’autore sceglie la vena parodica e carnevalesca dell’anti-idillio per mettere in scena l’insolito corteggiamento tra due esemplari di umanità non certo dotati di bellezza e di grazia, facendo ricorso a una serie di armoniosi endecasillabi – era più vago di stare in cucina / che sopra i verdi rami l’usignuolo – che ne fanno risaltare la natura disarmonica, in una scena grottesca. Brutalità e prepotenza da un lato, fame e sete insaziabili dall’altro sono le caratteristiche che Guccio avrebbe spartito con alcuni personaggi boccacciani e trasmesso indirettamente ad altri protagonisti della letteratura. L’erede diretto della fame di nuove esperienze di Guccio sarebbe secondo Kamber rintracciabile all’interno di una fra le più note novelle del Decameron, la quinta della seconda giornata, la quale racconta con ritmo incalzante le sorprendenti avventure di Andreuccio da Perugia, un giovane e sprovveduto mercante di cavalli, più cupido che consigliato, alla ricerca di facili guadagni in una Napoli inquietante: attraverso sorprendenti avventure egli approda infine alla conquista del buon senso, quella “industria” che caratterizza l’emergente borghesia italiana. Una serie di cadute e successive risalite lo proiettano dal paradiso dell’amore inaspettatamente trovato nella casa della bella ciciliana all’abisso infernale e maleodorante del vicolo, fino alla risalita sulla via e all’incontro col demoniaco scarabone Buttafuoco; quindi di nuovo giù a precipizio in un pozzo, dal quale riaffiora come un’apparizione infernale, per poi sprofondare nuovamente nella tomba dell’Arcivescovo di Napoli, da dove riemerge ancora una volta con sembianze spettrali, avendo finalmente recuperato i propri averi. Con il servo di Frate Cipolla Andreuccio condivide non solo l’ingenuità e il desiderio di compiere nuove esperienze, ma anche la presunzione: parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli. Il secondo confronto Il rozzo servo e l’ingenuo mercante. Non è tutto: possiamo riconoscere l’adolescente ingenuo e sprovveduto che, spogliato non solo degli averi, ma persino dei vestiti, riconquista infine denari, abiti e dignità umana, in una strana notte in cui le aspettative più incredibili acquistano la consistenza della realtà, nel burattino Pinocchio, che attraverso numerose esperienze da semplice pezzo di legno si trasforma in bambino in carne e ossa; con il bugiardo più simpatico della letteratura Andreuccio condivide persino l’esperienza della nudità e del brutale imbrattamento notturno. Il terzo confronto Andreuccio da Perugia e il burattino Pinocchio. Allo stesso modo, la figura orchesca di mafioso dalla barba nera e folta che emerge da una finestra dell’abitazione della ciciliana, preannunciata da una voce grossa, orribile e fiera, e che risponde al fantasioso nome di Buttafuoco, non può non richiamare alla memoria un altro orco dell’immaginario infantile, il burattinaio Mangiafuoco, un omone così brutto che emetteva paura soltanto a guardarlo, dalla barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra, la bocca larga come un forno, gli occhi come due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, tra le mani una grossa frusta. Ed ecco l’altra anima di Guccio, la prepotente brutalità che lo caratterizza. Il quarto confronto Lo scarabone Buttafuoco e il burattinaio di memoria collodiana. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 In realtà, risulta piuttosto difficile sostenere la teoria dell’esclusività del modello interno al Decameron: un’opera letteraria si nutre di molteplici fonti, alle quali la creatività dell’autore aggiunge elementi nuovi e originali, diventando a sua volta modello per le opere successive. In questo caso, barba incolta, occhi di fuoco, voce potente potrebbero forse trovare un antecedente illustre nel traghettatore di anime di memoria dantesca: nel terzo canto dell’Inferno irrompe sulla scena Caronte, un vecchio, bianco per antico pelo […] con gli occhi bragia e le lanose gote, che si scaglia minaccioso contro i dannati negando loro ogni speranza di salvezza, così come Buttafuoco con Andreuccio, il burattinaio con Pinocchio. Anche questo personaggio condivide caratteristiche fisiche e morali con il già citato bizzarro personaggio del Decameron. Difficile, dunque, stabilire quali siano i modelli che hanno ispirato la creatività del Boccaccio, il quale peraltro dopo la composizione del Decameron si dedica con passione allo studio dei classici e alla ricerca filologica di antichi manoscritti, incentivato anche dall’amicizia stretta con Petrarca fin dal 1350. La realizzazione del codice autografo contenente gli Epigrammi dovette, inoltre, avvenire durante il soggiorno napoletano del 1362-1363, che potrebbe aver consentito a Boccaccio di recuperare il modello per il proprio Marziale dalla biblioteca di Montecassino. Appare, dunque, improbabile che per frate Cipolla egli abbia fatto riferimento al Filomuso del poeta latino, risalendo la stesura del Decameron alla metà del Trecento, mentre la copiatura degli Epigrammi dovette avvenire dieci anni più tardi. Confutazione Si propongono alcune considerazioni sulla teoria di Kamber; si propone un’ipotesi diversa. Dunque, la novella dell’astuto frate e del servo sciocco si trova al centro di una fitta rete di parentele che la collegano a molteplici e diverse esperienze artistiche e letterarie e che la arricchiscono di memorie e di richiami. Essi inevitabilmente si presentano alla mente del lettore, così come dovette essere per Boccaccio di fronte all’epigramma di Marziale, nel quale si riconobbe. Conclusione Si conferma l’ipotesi alternativa. Laboratorio per l’esame 8 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 490-492 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Lapaccio, Frate Cipolla e Calandrino: la superstizione» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 490-492. • Franco Sacchetti, Lapaccio a letto con il morto (• T42) • Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65) e Calandrino e l’elitropia (• T66) • Alberto Asor Rosa, La “semplicità” di Calandrino (• D1) • Giuseppe Petronio, La saviezza degli amici più cinici (• D2) • Marina Montesano, La cultura magica in Boccaccio e in Sacchetti (• D3) Schedatura dei documenti •T42 Franco Sacchetti, Lapaccio a letto con il morto Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Fu a’ miei dì, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui, però che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: “Il tale è morto”, e avesselo ritocco con la mano, subito volea ritoccare lui; e se colui si fuggia, e non lo potea ritoccare, andava a ritoccare un altro che passasse per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona, averebbe ritocco o un cane, o una gatta; e se ciò non avesse trovato, nell’ultimo ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso vivea, che se subito, essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per certo di far quella morte che colui per cui era stato tocco, e tostamente […]; e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono grandissimo diletto. Avvenne per caso che […] da l’una proda era un Unghero, il quale il dì dinanzi s’era morto. Lapaccio, non sapiendo questo (ché prima si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), vedendo che dall’altra proda non era persona, entrò a dormire in quella. […] E stando tutta notte in questo affanno e in pena, […] Lapaccio, che parea più morto che ’l morto, […] studiossi d’uscir fuori più tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l’oste se ne avvedesse; la seconda Il testo si propone di divertire il ceto borghese medio-basso, narrando vicende comiche e paradossali. Novella (periodo storico 1392-1397). È opportuno ampliare le informazioni sull’autore, Franco Sacchetti (13301400), il maggior novelliere dopo Boccaccio. La sua opera principale, Trecentonovelle, nasce sotto l’influsso del Decameron, dal quale però si discosta per struttura, destinatari e stile: l’assenza della cornice concede ampio spazio all’autore, il quale esprime la propria visione della realtà nelle “morali”, commenti conclusivi talvolta banalmente moralistici che svelano il senso del racconto. Destinataria e al tempo stesso protagonista del Trecentonovelle è la media e bassa borghesia di Firenze, alla quale Sacchetti offre una rappresentazione riconoscibile della realtà quotidiana e della quale riproduce il linguaggio, caratterizzato da una sintassi elementare e da un lessico aderente al parlato. Le caratteristiche psicologiche del protagonista emergono dai suoi comportamenti e stati d’animo; egli è oggetto di scherno e derisione per il suo terrore della morte. Per una bizzarria del caso, Lapaccio si trova a pernottare durante un viaggio in una locanda nella quale, a sua insaputa (ché prima si sarebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), viene messo a dormire con uno sconosciuto morto il giorno prima. Idea centrale L’eccezionalità della bizzarria del caso e della smisurata paura superstiziosa del protagonista. Messaggio dell’autore Sollecitare la riflessione sulla paradossale vicenda di Lapaccio e sul ruolo del caso. Convinto, dopo averlo spinto a terra con un calcio, di averlo ucciso, trascorre l’intera nottata combattuto fra il timore delle conseguenze del suo gesto e il terrore superstizioso di condividere la stanza con un morto. Scoperto infine l’accaduto, Lapaccio ne esce così profondamente colpito che in breve si ammala e muore. Nella morale l’autore spiega il significato profondo della novella: per Sacchetti, tutti gli individui hanno manie e credenze; a rendere eccezionale e degno di Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Si può, inoltre, ricordare che alla fine del Trecento si affermò la cultura umanistica, caratterizzata da una ritrovata attenzione per la dimensione umana e terrena Laboratorio per l’esame 1 Testo Schedatura per dilungarsi dal morto, e fuggire l’ubbia che sempre si recava de’ morti. […] Veggendo l’oste quanto costui era semplice, dice: – Doh, sventurato! che Dio ti dia gramezza; non vedestù lume iersera? O tu ti mettesti a giacere con un Unghero che morì ieri dopo vespro. Quando Lapaccio udì questo, […] poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto e preso un poco di spirito e di sicurtà, cominciò a dire all’oste: – […] Se tu me l’avessi detto, non che io ci fosse albergato, ma io sarei camminato più oltre parecchie miglia, se io dovessi essere rimaso nelle valli tra le cannucci; ché m’hai dato sì fatta battisoffia che io non sarò mai lieto, e forse me ne morrò. […] E ’l detto Lapaccio si partì, andando tosto quanto potea, guardandosi spesso in drieto per paura che la Ca’ Salvadega nol seguisse, portandone uno viso assai più spunto che l’Unghero morto, il quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell’animo, che non gli fu piccola […]. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenze, ebbe una malattia che ne venne presso a morte. Io credo che la fortuna, udendo costui essere così obbioso e recarsi così il ritoccare de’ morti in augurio, volesse avere diletto di lui per lo modo narrato di sopra, che per certo e’ fu nuovo caso, avvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma quanto sono differenti le nature degli uomeni! […] e cosí di molte altre cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro. essere raccontato il caso di Lapaccio è l’intensità della superstizione, quell’esasperata paura della morte che alla morte finisce per condurlo. Laboratorio per l’esame 2 Tipologia testuale Integrazioni personali dell’esistenza a scapito di quella ultraterrena; ne deriva un minor interesse per la cultura magica in genere e per la superstizione in particolare. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Certaldo […] è un castello di Valdelsa […] nel quale, per ciò che una buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla […]. Era questo frate Cipolla […] il miglior brigante del mondo; e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano […]. «Di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne a annunziare in Nazarette». […]. «Il venerabile padre Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Ierusalem. Il quale […] volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; […] ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a San Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fàtti-alle-finestre e de’ vestimenti della santa Fé cattolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, e un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di San Lazzaro e altre. […] E donommi […] la penna dell’agnol Gabriello, […] e de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire San Lorenzo arrostito […]. E poi che così detto ebbe […] mostrò i carboni: li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione riverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla, e migliori offerte dando che usati non erano […]. Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico 1348-1351). Si può fare riferimento al culto delle reliquie, il quale si sviluppa in Europa soprattutto dopo il Mille, in un momento di crisi dell’ortodossia cattolica, attaccata da numerosi movimenti ereticali. La venerazione dei resti sacri si trasforma, però, ben presto in una credenza superstiziosa, ampiamente favorita da predicatori e frati, che spesso fanno mercato delle reliquie, procurando ingenti donazioni e grande fama ai propri conventi e monasteri. La devozione del popolo è rappresentata non come virtù cristiana, ma come espressione della sua stupidità. La beffa è concepita dal narratore come un inganno messo in atto da personaggi dotati di astuzia e intelligenza ai danni di singoli individui o di gruppi privi di queste qualità; nel nostro caso, Frate Cipolla si fa gioco dei Certaldesi. Idea centrale L’intelligenza del frate contrapposta alla stupidità del popolo di Certaldo, oggetto passivo dello spirito di iniziativa e di intraprendenza di Cipolla. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere la complicità nei confronti dell’astuto protagonista e il senso di disprezzo per le masse beffate. La beffa delle false reliquie si sviluppa ai danni di una folla anonima, inebetita dalla mirabolante predica di frate Cipolla, vittima della propria superstiziosa credulità prima ancora che della cinica astuzia del predicatore. L’elenco delle improbabili reliquie vedute da frate Cipolla in Gerusalemme è esilarante. La credulità dei certaldesi è tale che al termine della predica essi donano all’astuto frate più di quanto fossero abituati a fare. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •T66 Giovanni Boccaccio, Calandrino e l’elitropia Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Nella nostra città […] fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un dì […] pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. E […] insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre […]. Fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce […]. Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l’aveva per vere; «[…] in queste contrade […] due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l’una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virtù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina […]. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è». […] Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d’avere altro a fare,si partì da Maso. Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico 1348-1351). È opportuno ampliare le informazioni sui lapidari medioevali, opere di carattere didascalicomoralistico che attribuiscono alle pietre virtù proprie, in grado di operare effetti straordinari, paragonabili a quelli compiuti dalle reliquie dei santi. Laboratorio per l’esame 4 La novella presenta da un lato Calandrino, noto per la sua semplicità e per la sua disposizione a credere a qualunque fandonia, dall’altra gli amici burloni, i quali si accordano con l’astuto mercante per beffare l’ingenuo credulone. Con la complicità del caso i burloni preparano la beffa. Maso mette alla prova la semplicità di Calandrino descrivendo un mirabolante paese di Bengodi. Calandrino non comprende il gioco di parole di Maso. In Calandrino la credulità è accompagnata dalla presunzione di prendersi gioco degli altri, i quali invece si divertono alle sue spalle. Il movente che spinge il protagonista alla ricerca dell’elitropia è la cupidigia, il desiderio di arricchirsi rapidamente con mezzi illeciti. Il narratore non perde occasione per porre in evidenza la stupidità del protagonista. Idea centrale Il testo associa all’immagine del protagonista il concetto di semplicità ingenua e superstiziosa, che assume maggior rilievo in virtù della contrapposizione all’astuzia dei compagni Bruno e Buffalmacco e all’intelligenza di Maso del Saggio. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere con gli astuti burloni il divertito e cinico disprezzo per il protagonista beffato: Boccaccio non giudica negativamente la cinica immoralità dell’inganno, bensì la stupidità di chi si lascia ingannare. In base a quanto stabilito con Maso, Bruno e Buffalmacco fingono di non vedere Calandrino e di essere stati beffati da lui. Calandrino crede di aver trovato l’elitropia; l’assurda presunzione lo spinge a ritenere di poter beffare gli astuti compagni. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Testo Schedatura «[…] Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e tôrcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente […]. A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente […]. Secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?» […] «Deh come egli ha ben fatto» disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?» Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire. […] E in brieve in cotal guisa, or con una parola e or con una altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando […]; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto […]; la moglie di lui, […] veggendol venire, cominciò proverbiando a dire […]. Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «[…] Io, sventurato! avea quella pietra trovata; […] giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa […]. La moglie di Calandrino, ignara della beffa, spezza inevitabilmente l’incantesimo, in quanto fa mostra di vederlo; il protagonista, così ingenuo, ma anche presuntuoso, da non pensare neppure per un istante di essere stato beffato, attribuisce la colpa della perdita di potere dell’elitropia all’ignara monna Tessa. Tipologia testuale Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Integrazioni personali Laboratorio per l’esame 5 •D1 Alberto Asor Rosa, La “semplicità” di Calandrino Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Il comico della pura beffa nasce dalla contrapposizione stupidità / astuzia, che viene praticata senza esclusione di colpi. Questo rapporto è crudele, perché Calandrino è uno svantaggiato, che, oltre ad essere di corto comprendonio, ha una capacità immaginativa superiore al comune, poiché è disposto a vedere cose che gli uomini normali riterrebbero inverosimili […]. Il “semplice” non è dunque propriamente lo “sciocco”: è colui che è illuminato da una illimitata luce interna di auto persuasione e di fiducia che la realtà puntualmente s’incarica di smentire (perciò Calandrino è un immortale personaggio poetico, contraddistinto da disillusioni sublimi). La semplicità di Calandrino non è pura stupidità: essa scaturisce da un’insolita capacità immaginativa, che lo induce a credere a ciò che agli altri appare inverosimile. Egli ha dunque in sé un lato poetico, che ha origine dal contrasto fra le sublimi illusioni di cui è capace e il duro scontro con la realtà. Saggio (periodo storico 2007). Si può fare riferimento al culto delle reliquie, il quale si sviluppa in Europa soprattutto dopo il Mille, in un momento di crisi dell’ortodossia cattolica, attaccata da numerosi movimenti ereticali. La venerazione dei resti sacri si trasforma, però, ben presto in una credenza superstiziosa, ampiamente favorita da predicatori e frati, che spesso fanno mercato delle reliquie, procurando ingenti donazioni e grande fama ai propri conventi e monasteri. Laboratorio per l’esame 6 Idea centrale Il testo individua nelle novelle-beffa del Decameron il meccanismo comico della contrapposizione fra stupidità e astuzia, entro cui il concetto di semplicità non va necessariamente inteso come pura stupidaggine, ma come frutto di una straordinaria capacità immaginativa. Messaggio dell’autore Convincere il lettore che il meccanismo comico della beffa cela l’ideologia del Boccaccio, che lo induce ad anteporre il culto dell’intelligenza e il disprezzo della stupidità a qualunque valutazione di carattere morale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D2 Giuseppe Petronio, La saviezza degli amici più cinici Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] La saviezza può trovarsi negli animi più nobili e in quelli più cinici, può generare il mondo del senso e quello della tragedia, e senso e spirito, beffa e tragedia, possono coesistere […]; questo mondo ha bisogno di atteggiarsi in atto come mondo dell’intelligenza e, per celebrare il proprio ha bisogno dei pecoroni da metter nel sacco. Novelle perciò di intelligenza ed è proprio l’intelligenza a salvare questo mondo che sarebbe orribile, se lo si spogliasse di questa sua veste intellettuale. […] L’unica passione perciò che il Boccaccio porti in questo suo mondo è l’ammirazione per i savi e nella composizione del racconto, nel ritmo del periodo, nella conclusione dell’avventura, palpitano sempre questa gioia di veder coronari di vittoria gli sforzi e la superiorità di questi suoi eroi, l’infinito disprezzo, che solo raramente si vela un po’ di pietà, per i pecoroni e i gonzi. Nel mondo creato da Boccaccio l’intelligenza non è valutata in termini etici o morali: essa è piuttosto presentata come la sola capacità dell’uomo di dare un senso alla propria esistenza. Saggio (periodo storico 1938). Si può sottolineare come l’intelligenza, espressa soprattutto attraverso la parola arguta ed elegante, diventi la virtù fondamentale all’interno della nuova civiltà mercantile, che non punta più sui valori tradizionali, ma sancisce il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia. I personaggi intelligenti hanno bisogno di antagonisti sciocchi e creduloni sui quali imporre la propria superiorità intellettuale. Dunque, i protagonisti del Decameron si dividono in astuti e sciocchi; per questi ultimi solo raramente l’autore mostra compassione. Idea centrale Le novelle di Boccaccio sono dominate dalla contrapposizione fra stupidità e intelligenza, ora nobile ora cinica; in esse l’autore parteggia sempre per gli astuti. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere tale tesi, prendendo come esempio la novella di frate Cipolla. •D3 Marina Montesano, La cultura magica in Boccaccio e in Sacchetti Testo Schedatura Tipologia testuale […] Il Sercambi e il Sacchetti testimoniano appieno […] l’estraneità verso qualunque forma di pensiero e d’azione che esuli dalle certezze della società borghese e di un cristianesimo privo di slanci o di curiosità intellettuali: l’universo di maghi o postulanti, di monaci, preti e predicatori dall’incerta fama, è guardato con sospetto e, se possibile, ridicolizzato; al pari di coloro – in genere si tratta di “rustici” – che, vittime della superstizione e della stupidità, sono facilmente preda dei raggiri. Ancor più significativamente, la magia “dotta” che aveva trovato spazio ormai da almeno un secolo nelle corti europee, non viene mai neppure presa in considerazione […]. Sacchetti guarda con sospetto alla superstizione popolare, che ridicolizza nella sua totalità. Il disprezzo dell’autore colpisce indistintamente vittime e carnefici, astuti mistificatori e beffati creduloni. Saggio (periodo storico 2000). Integrazioni personali Idea centrale Sottolineare il totale disinteresse di Sacchetti, organico alla cultura borghese oramai dominante sul finire del Trecento, per il mondo della cultura magica in generale, e in particolare della superstizione popolare. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere tale tesi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 Saggio breve Stesura Struttura La superstizione medioevale nei novellieri del Trecento: tra pietre magiche e false reliquie Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del contenuto del saggio. L’età medioevale è dominata da una cultura teocentrica, all’interno della quale la fede religiosa è la chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura e dell’uomo. L’intero universo è percepito come espressione della potenza di Dio, della quale tutte le creature conservano impressa una traccia. La presenza divina nel creato si manifesta costantemente all’uomo attraverso il linguaggio della realtà sensibile, l’unico che egli possa comprendere durante la sua esistenza terrena. All’uomo medioevale l’universo appare come un grande sistema di simboli, che egli è chiamato a interpretare alla ricerca di un significato più alto, che appartiene all’ordine divino; realtà terrena e dimensione ultraterrena sono in continua comunicazione tra loro, legati da rapporti di tipo simbolico. Ecco allora fiorire per tutto il Medioevo una ricca produzione di repertori di carattere didascalico-moralistico, bestiari, erbari e lapidari che attribuiscono ad animali, piante e pietre precise valenze simboliche e ne precisano particolari virtù positive e negative. Tra le molte credenze superstiziose che si diffondono nei secoli bui, una delle più irrazionali è senza dubbio quella che attribuisce alle pietre virtù proprie, che le rendono in grado di operare effetti straordinari, paragonabili a quelli compiuti dalle reliquie dei santi. Altrettanto diffusa e al limite della superstizione è la pratica del culto delle reliquie, fenomeno che, da un punto di vista storico e spirituale, si inserisce nella crisi dell’ortodossia cattolica, minacciata da movimenti ereticali che ne mettono in dubbio i fondamenti. A tali attacchi la Chiesa risponde proponendo la venerazione dei resti sacri, che testimoniano l’esistenza terrena di Cristo, degli apostoli e dei primi santi. Il ritrovamento delle tracce materiali che essi si sono lasciati alle spalle e la conseguente venerazione corrispondono, a livello spirituale, alla volontà di recuperare e vivere con maggiore intensità quel legame unico e irripetibile che l’esperienza terrena di questi campioni della fede stabilisce tra la dimensione umana e quella ultraterrena, tra l’umanità e Dio. Tuttavia, proprio il sentimento che ispira tale culto finisce ben presto per confondersi con una primitiva forma di feticismo: la reliquia viene percepita non più come uno strumento della potenza divina, quanto come un amuleto in grado di proteggere, difendere, aiutare o salvare da ogni sorta di pericolo chiunque ne sia in possesso, come un talismano dotato di una sua propria connaturata virtù, che può esercitarsi anche se il possessore non è in grazia di Dio. La diffusione di questa forma di superstizione, che contravviene ai principi fondamentali del cristianesimo, è ampiamente favorita nei secoli bui da predicatori e da frati, che spesso fanno mercato delle reliquie, vere o presunte che siano, procurando ingenti donazioni e grande fama ai propri conventi e monasteri. A partire dal Trecento, in seguito all’affermarsi della civiltà comunale e al dilagare della mentalità e dei modelli culturali borghesi, fanatismo religioso e credenze superstiziose, che spesso si alimentano a vicenda, cominciano ad attenuarsi: sulla dimensione puramente spirituale dell’esistenza si afferma una visione più concreta e terrena, che si diffonde insieme al prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica borghese. Presso gli uomini di cultura del Trecento ecco allora venir meno l’interesse per la cultura magica in generale, e per il suo livello più popolare, la superstizione, in particolare: numerosi autori ne fanno oggetto di scetticismo o addirittura di scherno. Introduzione Si pone in evidenza il dilagare nel Medioevo di credenze superstiziose, le quali trovano ampio consenso anche presso alcuni uomini di cultura del Duecento. Di fede e credenze superstiziose parlano in particolare alcune novelle che portano la firma di Giovanni Boccaccio e Franco Sacchetti. Boccaccio, in particolare, riprende nelle sue opere alcune delle superstizioni diffuse ai suoi tempi; tuttavia, risulta più che evidente che ad esse non presta alcun credito. Ce ne offre un’eloquente testimonianza la terza novella della Terza giornata del Decameron, in cui si tratta dell’elitropia, magica pietra alla quale è attribuita la capacità di rendere invisibili. Il protagonista è Calandrino, un personaggio ispirato a un pittore fiorentino vissuto nella prima metà del Trecento assai noto per la sua ingenuità, del quale anche altrove, nel Decameron, Boccaccio Tesi A partire dal Trecento gli uomini di cultura come Sacchetti e Boccaccio mostrano di non condividere più tale fede superstiziosa, in virtù dei mutamenti culturali e sociali avvenuti. Laboratorio per l’esame 8 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 esalta l’insuperabile stupidità, contrapponendogli scaltri burloni che si fanno beffe di lui. Udendo un giorno l’astuto Maso del Saggio celebrare le virtù delle pietre preziose, Calandrino chiede dove sia possibile trovarne. Il mercante risponde che esse si trovano per lo più in una lontana contrada che ha nome Bengodi; tuttavia, ve ne sono anche nei pressi di Firenze, dove è possibile imbattersi nell’elitropia, che rende l’uomo invisibile. Desideroso di trovare tale pietra, Calandrino ne va dunque alla ricerca con i compagni di brigata Bruno e Buffalmacco nel letto del torrente Mugnone, dove gli amici, d’accordo con Maso, fingono di non vederlo e con autentica cattiveria lo prendono a sassate come per caso. Convinto di avere trovato l’elitropia e di essere diventato invisibile, Calandrino si affretta verso casa, dove la moglie, ignara della beffa, rompe l’incantesimo facendo mostra di vederlo; non comprendendo di essere stato ingannato dai compagni, il marito incolpa la donna di aver privato l’elitropia della magica virtù e la pesta a sangue. Il fatto che all’interno della novella la superstiziosa credenza nelle virtù delle pietre sia posta in stretta relazione con la sciocchezza di Calandrino, l’unico così ingenuo da credere a simili fandonie, sembra autorizzarci a ritenere che l’autore, spirito scettico e beffardo, non presti alcuna credibilità a simili convinzioni. Egli si mostra poco convinto di una fede religiosa dai tratti superstizioni anche nella decima novella della Sesta giornata, al centro della quale è il culto delle reliquie. Vi è narrata la vicenda di frate Cipolla, questuante di Sant’Antonio abate che è solito recarsi ogni anno in Valdelsa a raccogliere donazioni approfittando della devozione del popolo, interpretata da Boccaccio come espressione di stupidità. Vero professionista dell’elemosina, egli è disposto a spacciare per reliquia qualsiasi oggetto pur di far leva sulla superstiziosa credulità degli abitanti di Certaldo. Pronto a offrire alla venerazione degli sciocchi niente meno che una penna dell’agnolo Gabriello (in realtà la piuma di un pappagallo), è a sua volta vittima di una burla messa in atto dai suoi compagni di brigata, che alla penna sostituiscono del carbone; con una predica mirabolante e vertiginosa egli convince i fedeli accorsi che si tratta delle braci che arrostirono San Lorenzo, riuscendo, così, a farsi beffe non solo degli amici burloni, ma anche dei contadini di Certaldo, i quali danno migliori offerte che usati non erano. L’autore sembra, dunque, poco propenso a prestare fede ai poteri attribuiti alle reliquie: è straordinario, a questo proposito, l’esilarante elenco degli improbabili resti sacri veduti da frate Cipolla in Gerusalemme: un dito dello Spirito Santo; il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco; un’unghia dei Cherubini; una delle costole del Verbo; le vesti della Santa Fede cattolica; alcuni raggi della Stella cometa; un’ampolla del sudore di San Michele impegnato nel combattimento col diavolo; la mascella della Morte che colpì San Lazzaro; un dente della Santa Croce; un’ampolla contenete il suono delle campane del tempio di Salomone; la penna dell’arcangelo Gabriele e le braci che martirizzarono San Lorenzo. Boccaccio appare divertito dalla beffa, messa in atto da personaggi dotati di astuzia e intelligenza ai danni di gruppi assolutamente privi di queste qualità, e solidale nei confronti dell’astuto protagonista, con cui condivide il disprezzo per le masse beffate. Come ha correttamente affermato il critico letterario Giuseppe Petronio in un saggio sul Decameron, l’unico interesse di Boccaccio è l’ammirazione per gli individui astuti e intelligenti: egli gioisce sinceramente per le loro vittorie, mentre riserva infinito disprezzo, che solo raramente si vela di un po’ di pietà, per i pecoroni e i gonzi, vittime della loro stupida credulità prima ancora che dei beffatori. A essere giudicata negativamente non è l’immoralità dell’inganno, bensì la stupidità di chi si lascia ingannare. 1° Argomento a favore della tesi Attraverso l’analisi di alcune novelle del Decameron si afferma lo scetticismo di Boccaccio nei confronti di alcune superstizioni popolari. Il maggior novelliere dopo Boccaccio è Franco Sacchetti, la cui raccolta, intitolata Trecentonovelle, nasce alla fine del Trecento sotto l’influsso del Decameron, dal quale però si discosta per struttura, priva di cornice, destinatari, i cittadini che appartengono alle Arti minori, stile, che riproduce il linguaggio del popolo minuto nella sintassi elementare e nel lessico anche dialettale, aderente al parlato. Al centro della novella intitolata Lapaccio a letto con il morto la superstiziosa paura (l’ubbia che sempre si recava de’ morti) del protagonista, le cui caratteristiche psicologiche emergono dal racconto dei suoi comportamenti e dall’analisi dei suoi 2° Argomento a favore della tesi Attraverso l’analisi di un racconto del Trecentonovelle si afferma lo scarso interesse di Sacchetti per la superstizione popolare, Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 9 stati d’animo: letteralmente terrorizzato dalla morte, è condotto da una bizzarria del caso a pernottare durante un viaggio in una locanda nella quale, a sua insaputa (ché prima si sarebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), viene messo a dormire con uno sconosciuto morto il giorno prima. Trascorsa la notte nel timore di averlo ucciso e scoperto infine l’accaduto, Lapaccio ne esce così profondamente colpito che in breve si ammala e muore. È la morale, luogo deputato all’opinione dell’autore, a metterci a parte del significato profondo della novella: per Sacchetti, tutti gli individui hanno manie e superstizioni, cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro; a rendere del tutto eccezionale il caso di Lapaccio e degno di essere raccontato è l’intensità di tale superstizione, l’esasperata paura della morte che alla morte lo ha infine condotto. Come sostiene Marina Montesano in un saggio sulla cultura magica nelle novelle toscane del Trecento, Sacchetti, intellettuale organico alla classe borghese, pragmatica e dotata di buon senso, disprezza profondamente la cultura magica popolare: egli guarda con sospetto all’universo di maghi, monaci, predicatori di incerta fama, e se possibile li ridicolizza; analogo trattamento sarebbe riservato a coloro che, vittime della superstizione e della stupidità, sono facili prede di raggiri. fatta oggetto di scherno e derisione. Le novelle di Boccaccio e Sacchetti appena analizzate attribuiscono il tema della superstizione a soggetti fra loro diversi: nella prima e nella terza novella campioni di credulità sono due singoli individui, i cui processi psicologici e comportamentali emergono nel corso della narrazione; nella novella di fate Cipolla è invece l’intero gruppo dei certaldesi, una folla anonima e inebetita dalla predica del frate, a cadere vittima della propria ingenuità. Calandrino e Lapaccio evidenziano numerosi elementi in comune: entrambi sono individui propensi alla credulità, alimentata da false credenze superstiziose; tuttavia, l’ossessiva superstizione di Lapaccio ha origine da una profonda paura della morte e del malocchio, che si accompagna a una certa ingenuità (era piacevole e assai semplice uomo); al contrario, come osserva il critico letterario Asor Rosa, la credulità di Calandrino ha origine da una scarsa intelligenza ed è alimentata da una capacità immaginativa superiore al comune, una illimitata luce interna di auto persuasione e di fiducia che lo porta a rovesciare l’interpretazione della realtà, a credere in ciò che è fantastico e immaginario e a negare l’evidenza oggettiva degli avvenimenti. Entrambi i personaggi sono vittime del caso, che appare propizio alla beffa nel Decameron (Calandrino non incontra nessuno sulla strada che lo riporta a casa, per cui si rafforza in lui la convinzione di essere invisibile), crea le bizzarre condizioni che portano alla morte di Lapaccio. I due protagonisti hanno, tuttavia, diversa indole: se Calandrino è, come sostiene Asor Rosa, un personaggio profondamente poetico per la straordinaria capacità immaginativa che lo contraddistingue, la quale è però destinata ad essere puntualmente smentita dalla realtà, l’ossessiva paura della morte fa di Lapaccio una figura tragica, come testimoniano l’angoscia della notte trascorsa nel duplice timore delle conseguenze dell’omicidio che egli crede di aver commesso e della vicinanza del morto, la tragica scoperta della realtà dei fatti e il conseguente dramma della morte. Circa la relazione dei personaggi con la superstizione, Lapaccio la subisce tragicamente, ne è preda e vittima; in Calandrino la credulità è accompagnata dalla cupidigia, dall’aspirazione ad arricchirsi con mezzi illeciti: la sua comicità consiste per l’appunto nella presunzione di prendersi gioco degli altri, i quali invece si divertono alle sue spalle. Frate Cipolla padroneggia la superstizione altrui e la strumentalizza per trarne più ricche elemosine. Nel mondo di savi e pecoroni che Boccaccio rappresenta nelle sue novelle, il frate è la cinica saviezza che mette nel sacco gli sciocchi, previa legittimazione dell’autore. 3° Argomento a favore della tesi Anche dal confronto fra i testi dei due novellatori emerge l’assoluta mancanza di fede di entrambi nella superstizione. In conclusione, le novelle analizzate ci permettono di affermare che né Boccaccio né Sacchetti sembrano dare credito alla superstizione popolare, che diventa anzi oggetto di scetticismo o addirittura di scherno. Organici alla civiltà comunale e alla mentalità e ai modelli culturali borghesi, essi danno voce a una visione più concreta e terrena dell’esistenza, che si diffonde insieme al prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica borghese. Fanatismo religioso e credenze superstiziose, che pure vengono da essi rappresentate, sembrano oramai non avere più credito. Conclusione Si ribadisce la tesi. Laboratorio per l’esame 10 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 552-553 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «La rappresentazione del monaco nella letteratura medioevale» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 552-553. • Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65) • Jacopone da Todi, O amore de povertade (• D1) • Anonimo, Invettiva contro i frati (• D2) • Geoffry Chaucer, Il ritratto della monaca Eglantina (• D3) • Gianni Celati, Gli inganni dei frati (• D4) Schedatura dei documenti •T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla. […] Era questo frate Cipolla […] il miglior brigante del mondo; […] niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era; […] quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benevogliente. […] Erano […] due giovani astuti molto, […] li quali […], ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa. […] E poi […] mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione riverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla […]. Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico metà del Trecento). Si può fare riferimento al concetto di “brigata”, un sistema sociale che nasce in ambiente preborghese e si afferma al tempo di Boccaccio: il termine indica un gruppo di amici riuniti con intenti prevalentemente ludici. All’interno della brigata assume un ruolo decisivo il “motto”, inteso come capacità di esprimere l’intelligenza attraverso la parola. La fiducia nella parola arguta ed elegante diventa l’emblema della nuova civiltà mercantile, che non punta più sui valori tradizionali (la nobiltà di nascita), ma opera in una società in movimento, in cui la concorrenza produce il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia. La devozione del popolo è interpretata da Boccaccio non come virtù cristiana, ma come espressione della sua stoltezza. La beffa è concepita dal narratore come un inganno messo in atto da personaggi dotati di astuzia e intelligenza ai danni di singoli individui o di gruppi assolutamente privi di queste qualità: Frate Cipolla ordisce la beffa ai danni dei Certaldesi, i suoi compagni di brigata ingannano il servo del frate. La beffa delle false reliquie si sviluppa all’interno dell’ambiente sociale della brigata, di cui il frate stesso fa parte. Idea centrale Il testo associa all’immagine del frate i concetti di intelligenza e di astuzia (il miglior brigante del mondo, ottimo parlatore e pronto), la cui esaltazione assume maggior rilievo proprio perché contrapposta alla stoltezza del popolo di Certaldo (gli sciocchi, la stolta moltitudine), oggetto passivo dello spirito di iniziativa e di intraprendenza del frate. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere con l’autore la complicità nei confronti dell’astuto protagonista e il senso di disprezzo per le masse beffate. Ciò che conta per Boccaccio non è la moralità, quanto l’intelligenza: a essere giudicata negativamente non è l’immoralità dell’inganno, bensì la stupidità di chi si lascia ingannare. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D1 Jacopone da Todi, O amore de povertade Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali O amore de povertate, / regno de tranquillate! / Povertate, via sicura, / non ha lite né rancura, / de’ latron non ha paura / né de nulla tempestate. / Povertate muore en pace, / nullo testamento face, / lassa el mondo come iace / e le gente concordate. L’amore per la povertà è lodato come garanzia in terra di tranquillità e di serenità nei rapporti con gli altri, nei confronti dei quali rende esenti da motivi di lite, odio, invidia. Lauda, componimento poetico di ispirazione religiosa sullo schema metrico della ballata (periodo storico seconda metà del Duecento). Si deve accennare alla nascita, nella prima metà del XIII secolo, di due nuovi ordini monastici, Francescano e Domenicano, di ispirazione evangelico-pauperistica, i quali, pur senza mettere in discussione i dogmi della Chiesa e l’obbedienza al papa, contrappongono alla ricchezza e al potere temporale della curia pontificia il valore della povertà e il ritorno agli ideali morali e spirituali del Vangelo. Idea centrale Il poeta celebra la scelta della povertà, tipica dell’ordine mendicante fondato da San Francesco, esaltata come via certa per la conquista della serenità in terra. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a condividere con l’autore la lode della povertà come scelta di vita, in contrapposizione agli aspetti mondani e terreni della realtà, dei quali sono denunciate la caducità e la vanità. Laboratorio per l’esame 2 Occorre, inoltre, ricordare l’appartenenza di Jacopone da Todi all’ordine francescano e la sua sincera adesione agli Spirituali, corrente interna caratterizzata dalla volontà di rigorosa obbedienza all’originaria regola di San Francesco, delineatasi fin dalla morte del fondatore in contrapposizione ai Conventuali, propensi a mitigarne l’asprezza. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D2 Anonimo, Invettiva contro i frati Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali I’ sì mi sto con que’ religiosi, / religiosi no, se non in vista, / che fan la cera lor pensosa e trista / per parer a le gentii più pietosi; / e sì si mostran molto soffre tosi / e ’n tapinando ciascheduno acquista […]. / E queste son le lor grandi astinenze! / Po’ van la povertà altrui abbellendo. Il testo si ispira alla tradizione toscana comico-realistica, della quale propone i toni. Sonetto (periodo storico fine Duecento). È opportuno citare l’attribuzione del Fiore, rimaneggiamento toscano del celebre romanzo allegorico francese Roman de la Rose, a Dante Alighieri; inevitabile, pertanto, fare riferimento all’atteggiamento di profonda condanna nei confronti della corruzione della Chiesa e del clero che percorre l’intera Commedia. In particolare, si possono citare i frati gaudenti collocati nella bolgia infernale degli ipocriti (sesta bolgia, ottavo cerchio, canto XXIII). Con sarcasmo e ironia l’anonimo pone l’accento sul contrasto fra l’attenzione riservata alle apparenze dai frati, i quali si preoccupano di mostrarsi religiosi, pietosi, soffrettosi, e la loro reale natura, propensa all’inganno e al vizio della gola più che all’astinenza, all’ipocrisia più che al buon esempio. Idea centrale L’anonimo evidenzia, attraverso le parole di Falsembiante, l’ipocrisia di alcuni frati, il cui comportamento è assolutamente lontano dagli ideali morali e spirituali del Vangelo e tradisce la regola della povertà. Messaggio dell’autore La sarcastica polemica contro la corruzione dei costumi dei monaci intende suscitare la riprovazione del lettore soprattutto nei confronti dell’ipocrisia di chi tenta di celare, con falsi sembianti, le proprie mancanze e debolezze. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •D3 Geoffry Chaucer, Il ritratto della monaca Eglantina Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Una monaca, una priora [sic], dal sorriso semplice e modesto; […] e si chiamava madre Eglantina. Cantava il servizio alla perfezione, intonandolo con un leggiadro accento nasale, e parlava francese speditamente e con eleganza […]. Le belle maniere erano la sua gioia più grande. S’asciugava sempre il labbro superiore così bene, che nella sua coppa […], e si serviva dei cibi con moltissimo garbo. […] Si sforzava d’imitare le maniere di corte e d’aver modi dignitosi per essere stimata degna di reverenza. La monaca ha di semplice e modesto solo il sorriso; ogni altro atto o atteggiamento è studiato al fine di apparire perfetto. Il prevalere dell’apparenza (le buone maniere) sulla sostanza (la sincerità della fede e della vocazione) è sottolineato dagli avverbi e aggettivi che evidenziano la cura e l’attenzione della monaca per le belle maniere. Novella (periodo storico fine Trecento). Si può fare riferimento al fatto che nei Racconti di Canterbury Chaucer muove dal modello boccacciano del Decameron, per offrire una fotografia della società inglese di fine Trecento, dando vita a un vero e proprio microcosmo sociale rappresentato con grande realismo. Idea centrale Rappresenta con ironia il desiderio di mondanità dei membri degli ordini monastici, impegnati nell’imitare con affettazione i modi educati e il fare cerimonioso delle corti aristocratiche: le belle maniere sono la principale e unica fonte di gioia e di rispetto. Messaggio dell’autore L’intenzione dell’autore non pare quella di condannare con forza la mancanza di contenuti che caratterizza la monaca Eglantina, né di suscitare la conseguente riprovazione del lettore; a prevalere è l’intento di rappresentare con realismo e ironia un fenomeno ricorrente nella società inglese della fine del Trecento. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D4 Gianni Celati, Gli inganni dei frati Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Puccio si consuma in digiuni, mentre il monaco in un’altra stanza prende piacere con sua moglie […]. Lo spirito della novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su un generale inganno: l’inganno delle parole per spacciare come dogmi le rimasticature di ciarle, i castelli di panzane, i panegirici di frottole, le prediche dei preti per inebetire le folle o le invenzioni dei frati per sfogare le voglie carnali. […] Si sottolinea l’uso spregiudicato delle parole. Saggio di critica letteraria (cronologia 20062007). Si possono menzionare i modelli letterari delle due novelle, i quali rimandano alla letteratura goliardica europea, caratterizzata dal rovesciamento parodico dei miti e dei riti della religione dominante: si pensi al motivo tradizionale delle false reliquie o al topos delle prediche mistificatorie, in cui l’uso spregiudicato delle parole è finalizzato a ingannare un pubblico di sciocchi. Idea centrale Oggetto di studio sono le vicende e il significato di due novelle della terza giornata del Decameron: entrambe aventi per protagonisti due astuti e disonesti frati, pronti a sfruttare la propria astuzia e la dabbenaggine dei mariti per godersi le mogli (righe 6-10). Messaggio dell’autore Il critico intende mostrare al lettore i meccanismi narrativi e l’ideologia che caratterizzano le novelle di Boccaccio, il quale antepone il culto dell’intelligenza e il disprezzo della stupidità a qualunque valutazione di carattere morale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta Introduzione Si illustrano le origini del monachesimo e se ne delinea l’evoluzione attraverso i cosiddetti “secoli bui”, soffermandosi in particolare su due avvenimenti: • la nascita della monarchia papale e il progressivo allontanamento della Chiesa dalla povertà e dallo spirito evangelico delle origini; • il manifestarsi, fra XII e XIII secolo, di un intenso spirito di rinnovamento di ispirazione evangelico-pauperistica, che si concretizza nella violenta contestazione a opera dei movimenti ereticali e nel tentativo di rinnovamento dall’interno condotto dai nuovi ordini francescano e domenicano. Problema Quale atteggiamento sviluppano gli autori della letteratura medioevale in merito alla figura del monaco e alla sua evoluzione attraverso i secoli? Tesi L’immagine che la letteratura medioevale propone del monaco varia al mutare della mentalità e dei modelli culturali dominanti. • Quando è prevalente la dimensione spirituale dell’esistenza e la vita terrena continua a essere percepita come preparazione alla vita eterna, la letteratura da un lato esalta la scelta di vita monastica, dall’altro condanna severamente il monaco che, corrotto dalla brama di potere e di beni terreni, tradisce gli ideali e lo spirito evangelico della Chiesa delle origini. 1° Argomento a sostegno della tesi Attraverso alcuni esempi letterari, che denunciano ora la corruzione, ora l’ipocrisia del monaco, si rileva l’influenza esercitata sulla rappresentazione della figura del monaco dalla mentalità medievale, interamente incentrata sulla fede. • In seguito, quando la dimensione terrena dell’esistenza comincia a essere rivalutata e la responsabilità individuale assume un ruolo sempre più importante nel modo di vivere e interpretare le proprie scelte di fede, la condanna si attenua a vantaggio di un atteggiamento sempre più ironico e sarcastico: all’invettiva o all’accesa polemica subentra ora una sorta di comicità più o meno involontaria. Jacopone da Todi, appartenente all’ordine mendicante dei Francescani e sostenitore della corrente rigoristica degli Spirituali, contrappone alla caducità e alla vanità dei beni terreni la pace spirituale della scelta della povertà. 2° Argomento a sostegno della tesi Con toni ironici e sarcastici l’anonimo autore del Fiore, che alcuni critici hanno identificare in Dante Alighieri, denuncia l’ipocrisia di alcuni frati, il cui comportamento è assolutamente lontano dagli ideali morali e spirituali del Vangelo e tradisce la regola della povertà; a prevalere sulla sarcastica polemica contro la corruzione dei costumi dei monaci è so- prattutto la condanna dell’ipocrisia di chi tenta di celare, con false apparenze, le proprie mancanze e debolezze. Significativi in questo senso i frati gaudenti collocati da Dante nella bolgia infernale degli ipocriti (sesta bolgia, ottavo cerchio, canto XXIII). 3° Argomento a sostegno della tesi Ben diverso l’atteggiamento di Boccaccio, organico al ceto mercantile di cui rappresenta la mentalità, il quale contrappone al giudizio morale la lode dell’intelligenza e l’abilità di parola del frate; il saggio di Celati consente di ampliare le osservazioni ricavate dalla novella di Frate Cipolla fino a individuare nel Decameron un vero e proprio topos del monaco astuto il quale, in virtù della propria intelligenza anche verbale, è in certo qual modo legittimato a farsi beffe della stupidità altrui. 4° Argomento a sostegno della tesi Nel racconto di Chaucer, autore inglese di fine Trecento, il realismo prevale su qualunque intento morale; il desiderio di mondanità della monaca Eglantina e la sua cura nell’imitare con affettazione i modi educati e il fare cerimonioso delle corti aristocratiche ne fa la portatrice di una comicità certamente involontaria. All’invettiva o all’accesa polemica subentra ora una sorta di bonario distacco. Conclusione Si ribadisce la tesi. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 554-555 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «I limiti della scienza medioevale» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 554-555. • Brunetto Latini, Il basilisco (• D1) • San Bonaventura da Bagnoregio, La manifestazione della potenza di Dio (• D2) • Piero de’ Crescenzi, L’influenza degli astri sulla semina (• D3) • Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, La questione della formazione della terra (• D4) Schedatura dei documenti •D1 Brunetto Latini, Il basilisco Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Basilisco […] corrumpe l’aria e guasta gli arbori, e ’l suo vedere uccide gli uccelli per l’aria volando, e col suo vedere attosca l’uomo quando lo vede […]: tutto che gli uomini anziani dicono che non nuoce a chi lo vede in prima. […] E con tutto ch’egli sia così fiero, si lo uccide la bellula. Il brano è tratto da un bestiario, repertorio di animali, veri o favolosi, di cui indica le virtù, il potere segreto e il significato morale. Voce di enciclopedia (periodo storico 12601266). È opportuno ampliare le informazioni sui bestiari medioevali, opere di carattere didascalicomoralistico che attribuiscono agli animali caratteristiche fisiche e comportamentali ricavate da repertori fantastici, le quali non hanno alcun rapporto con la realtà; a tali qualità sono conferiti significati simbolici, mentre gli animali diventano emblema di vizi e virtù. Frequente è il rimando alle Sacre Scritture. Modello di riferimento per tutti i bestiari del Basso Medioevo è il Fisiologo, trattatello in greco del I-II secolo d.C. Sulla base del racconto biblico, il suo autore presenta il serpente come simbolo della tentazione del male e del demonio, dal quale solo Dio può liberare l’uomo. L’autore rappresenta il basilisco come monstrum, creatura prodigiosa dalle caratteristiche straordinarie e poco verosimili. Egli pone in particolare evidenza la pericolosità di questo favoloso serpente, dotato della capacità di contaminare e infettare tutte le creature che entrano in contatto con lui. Del basilisco sono svelati anche i punti deboli: non arreca danno a chi lo guarda per primo, può essere ucciso dalla donnola. Idea centrale Le straordinarie caratteristiche del basilisco hanno un preciso significato simbolico e vanno interpretate in senso morale; egli rappresenta la tentazione del male e del demonio. Messaggio dell’autore La tentazione del male e di Satana è potente, ma può essere neutralizzata o addirittura sconfitta con l’aiuto di Dio. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D2 San Bonaventura da Bagnoregio, La manifestazione della potenza di Dio Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali L’origine delle cose […] rivela la potenza di Dio che ha prodotto il tutto dal niente, la sua sapienza che ha sì ben distinto tutti gli esseri, la sua bontà […]. La grandezza delle cose […] ci manifesta chiaramente l’immensità della potenza, della sapienza e della bontà di Dio, che è uno e trino nel medesimo tempo, e che esiste in tutte le creature colla sua potenza, la sua presenza e la sua essenza senza essere circoscritto da nessuna di esse. La creazione dell’universo è frutto della potenza, della sapienza e della bontà di Dio, principio di tutte le cose create, nelle quali egli si manifesta senza esserne circoscritto. Trattato di teologia (periodo storico 1259). Si può fare riferimento ad alcune metafore assai diffuse in età medioevale per rappresentare l’intrusione dell’aldilà nella dimensione terrena: il mondo è sovente paragonato (Ugo di San Vittore, Dante Alighieri) a un libro scritto da Dio, il quale si serve della realtà materiale per parlare all’uomo nell’unico linguaggio comprensibile durante la sua esistenza terrena. Altrettanto diffusa la metafora del mondo terreno come specchio del divino. Idea centrale L’intero universo è espressione di Dio, del quale tutte le creature conservano impressa una traccia; il mondo terreno e quello ultraterreno costituiscono due realtà in continua comunicazione. Messaggio dell’autore L’universo non ha valore in sé, ma per ciò a cui allude e rimanda, un significato più profondo che appartiene all’ordine divino. •D3 Piero de’ Crescenzi, L’influenza degli astri sulla semina Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] È da attendere […] che il seme si sparga […], quando dal Cielo ha maggiore ajutorio: e questo è allora, ch’egli è ajutato dal caldo e dall’umido, e dal vivifico lume del Sole e della Luna insiememente: perciocché la Luna, perché la terra è prossimana, regge e governa tutte le cose della terra, e ajuta a pullulare e a mettere […]. Il trattato si propone un chiaro intento didattico e pratico. Trattato di agricoltura (periodo storico fine Duecento-inizio Trecento). È possibile ampliare le informazioni facendo riferimento alla convinzione, assai diffusa nel Medioevo e ben rappresentata nella Divina Commedia, della forte influenza esercitata dalle sfere celesti sulla natura e sull’indole degli uomini. L’autore insiste sul potere vivificante dei due corpi celesti; in particolare, attribuisce alla Luna la capacità di favorire la germogliazione dei semi. Idea centrale Le sfere e i corpi celesti possono esercitare un’influenza sugli avvenimenti terreni. Messaggio dell’autore Tra i fenomeni naturali è possibile individuare legami magico-intuitivo, dei quali l’uomo deve avere consapevolezza al fine di sfruttarli a proprio vantaggio. Laboratorio per l’esame 2 Si può ricordare che non solo il mondo animale, ma anche quello vegetale e minerale sono indagati in età medioevale come insieme di simboli divini, dei quali si propone l’interpretazione in Erbari e Lapidari. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D4 Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, La questione della formazione della terra Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Il peso della tradizione si avverte nell’idea che gli scienziati medievali ebbero della terra e dell’universo e che fu esemplificata da Dante nella Divina Commedia. Dante credeva che la terra […]. La spiegazione di questa credenza deve essere cercata nella convinzione degli scienziati medievali che l’universo fosse formato da quattro elementi, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco […]. Gli autori intendono indagare le ragioni per cui gli scienziati medioevali non considerano l’universo come insieme di elementi e fenomeni da indagare nella loro dimensione concreta, fisica e oggettiva, bensì come sistema di segni da interpretare in chiave allegorica. I due storici individuano in Dante il paradigma della mentalità medioevale e indicano nell’eccessivo peso attribuito alla tradizione i limiti della sua concezione della terra e dell’universo. Saggio (periodo storico 2007). Si possono ampliare le informazioni sul rapporto fra Medioevo e tradizione classica citando i Padri della Chiesa e il loro tentativo di reinterpretare la cultura pagana in chiave allegorica, alla luce della rivelazione cristiana; la Bibbia diventa il testo cardine che al tempo stesso integra e dà senso ai testi della cultura antica. Dante riprende il sistema dei quattro elementi primari, fuoco, aria, acqua e terra, elaborato dal filosofo e matematico greco Empedocle nel V secolo a.C. Idea centrale La concezione della terra e dell’universo esemplificata da Dante nella Commedia è emblematica dell’influenza esercitata dalla tradizione classica sulle scienze medioevali. Messaggio dell’autore I limiti della conoscenza scientifica medioevale hanno origine dall’eccessiva importanza attribuita alla tradizione, da un patrimonio di convinzioni e conoscenze ereditato dagli antichi che la cristianità ha assimilato acriticamente. La scienza medioevale appare dominata dal principio di autorità piuttosto che da quello della libera ricerca. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta Introduzione La cultura medioevale è teocentrica: la fede religiosa è la chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura e dell’uomo; la conoscenza non può trovare verità se non in Dio. Problema Quale concezione della scienza sviluppano gli uomini del Medioevo? Quali sono le ragioni di tale interpretazione dell’indagine scientifica? Tesi L’universo è concepito come un grande sistema di simboli divini, che l’uomo è chiamato a interpretare. Il mondo naturale non ha valore in sé, ma per ciò a cui allude e rimanda: un significato più alto, che appartiene all’ordine divino, e che Dio comunica all’uomo attraverso il linguaggio dell’esperienza sensibile, il solo che egli possa comprendere durante la vita terrena. La natura non obbedisce a leggi proprie, ma alla volontà di Dio; manca, quindi, nel Medioevo un’indagine autonoma e concreta dei fenomeni naturali, concepiti piuttosto come oggetto di studio della teologia. Occorrerà attendere il Rinascimento perché si possa assistere a una rivalutazione della natura per se stessa e al conseguente sviluppo di un’indagine autonoma dei fenomeni naturali, affidata dapprima alla magia e all’alchimia, poi alla scienza vera e propria. 1° Argomento a sostegno della tesi San Bonaventura sostiene che l’intero universo è espressione della potenza di Dio, delle quali tutte le creature conservano impressa una traccia; la presenza divina si manifesta costantemente all’uomo attraverso il linguaggio della realtà sensibile. Mondo terreno e mondo ultraterreno sono, dunque, in continua comunicazione tra loro: il Trattato di agricoltura di Piero de’ Crescenzi evidenzia come tra i fenomeni naturali sia possibile individuare legami di tipo magico-intuitivo. Si approfondisce il concetto facendo riferimento alle metafore tipicamente medioevali del mondo terreno come specchio di Dio e dell’universo come libro scritto dalla mano divina. 2° Argomento a sostegno della tesi Attraverso alcuni esempi letterari si pone in evidenza l’influenza esercitata sulla visione del mondo naturale e sull’indagine scientifica dalla mentalità teocentrica medievale: • il brano di Brunetto Latini evidenzia la tendenza dei “secoli bui” a indagare il mondo animale non in termini realistici e concreti, ma come insieme di simboli divini, dei quali si tenta di cogliere il significato spirituale e morale; • inoltre è tipica del Medioevo la compilazione di Lapidari ed Erbari, repertori di pietre ed erbe i quali, oggetto di un’indagine puramente simbolica, sono associati a vizi e virtù interpretati a scopi esclusivamente morali; • la Commedia di Dante, disseminata di similitudini tratte da essi (Inferno, Canto I) testimonia la notevole fortuna dei bestiari per tutto il Medioevo. 3° Argomento a sostegno della tesi Studi più recenti riconducono i limiti della scienza medioevale all’eccessiva importanza attribuita alla tradizione classica greco-latina, un patrimonio di conoscenze ereditato dagli antichi che la cristianità assimilò senza verificarne la concretezza e la validità. È emblematica la concezione della terra e dell’universo di matrice aristotelico-tolemaica applicata da Dante all’architettura della Commedia; altrettanto significativo è il Libro della composizione del mondo (1282), trattato di cosmologia in cui Ristoro d’Arezzo indaga i diversi aspetti dell’universo rifacendosi principalmente ad Aristotele. 4° Argomento a sostegno della tesi A partire dal Trecento si assiste a una progressiva emancipazione della cultura scientifica dall’autorità degli antichi e dalla teologia a vantaggio di una maggiore attenzione all’osservazione diretta dei fenomeni naturali, indagati nella loro dimensione oggettiva al fine di individuare le leggi che li regolano e li controllano. Il precursore di questa tendenza è Francesco Bacone, che nell’Opus maius individua come basi del metodo di indagine scientifica della realtà l’osservazione e l’esperienza: alla Bibbia e alle opere classiche si sostituisce il libro della natura. Conclusione Si ribadisce la tesi. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, p. 658 Articolo di giornale Componi un articolo di giornale sull’argomento: «Il paese di Cuccagna» utilizzando il dossier che si trova alla pagina 658. • Giovanni Boccaccio, Il paese di Bengodi (• D1) • Anonimo, Piacevole viaggio di Cuccagna (• D2) • Luigi Pulci, Morgante e Margutte (• T85) • Teofilo Folengo, L’invocazione alle muse (• T88) Schedatura dei documenti •D1 Giovanni Boccaccio, Il paese di Bengodi Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali In Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, […] si legano le vigne con le salsicce, ed avevavisi una oca a denajo ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; ed ivi presso correva un fiumicel di vernaccia della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. Il testo si propone di divertire e al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente classe borghese. Novella (periodo storico 1348-1351). È opportuno fare riferimento alla scarsa qualità della vita della maggior parte della popolazione nel Trecento, la quale rende più comprensibile il sogno di un paradiso degli appetiti. La novella, la terza dell’Ottava giornata, contrappone la semplicità di Calandrino, capace di credere a qualunque fandonia, all’astuzia degli amici burloni Bruno e Buffalmacco, i quali si accordano con lo scaltro sensale Maso del Saggio per beffare l’ingenuo credulone. È proprio Maso a mettere alla prova la semplicità di Calandrino descrivendogli il mirabolante paese di Bengodi. Idea centrale La rappresentazione di un luogo le cui caratteristiche soddisfino finalmente l’atavica fame del popolo del Basso Medioevo. Messaggio dell’autore La condanna della sciocca credulità di Calandrino, destinatario della vertiginosa e mirabolante descrizione. •D2 Anonimo, Piacevole viaggio di Cuccagna Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali ’Ntrai in un bel giardino: / con salsicce le vigne son legate; / un fiume c’è, ch’è di perfetto vino! / io n’ho bevuto certe scorpacciate! / E cappon cotti van per quel confino; / montagne v’è di cacio grattugiato, / e una donna che fa maccheroni, / e favvisi laggiù di gran bocconi. Il componimento costituisce parte del più ampio resoconto in versi di un viaggio tra osterie in cui si mangia e si beve senza spendere nulla. Il topos del locus amoenus, il bel giardino che fa da sfondo alle sublimi esperienze cantate dalla poesia “alta”, è sovvertito in nome della materialità e della insaziabile voracità. Componimento in versi (periodo storico 1558) È opportuno segnalare gli spunti tratti dal Decameron: la descrizione boccacciana del paese di Bengodi sembra essere stata letteralmente messa in versi dall’anonimo cesenate. Idea centrale La rappresentazione di un luogo le cui caratteristiche soddisfino finalmente i bisogni primari di un popolo abituato a combattere quotidianamente con la fame. Messaggio dell’autore L’eccezionalità del paese di Cuccagna. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •T85 Luigi Pulci, Morgante e Margutte Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Rispose allor Margutte: «A dirtel tosto, / io non credo più al nero ch’a l’azzurro, / ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; / e credo alcuna volta anco nel burro, / nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto, / e molto più nell’aspro che il mangurro; / ma sopra tutto nel buon vino ho fede, / e credo che sia savio chi gli crede; Protagonista di questa a dir poco bizzarra professione di fede è Margutte, mezzo gigante irriverente e materialista, che sopperisce alle proprie carenze fisiche con l’astuzia e l’abilità della parola. Furfante senza scrupoli, si dichiara privo di valori religiosi, ai quali sostituisce un credo materialistico e gastronomico, come testimoniano le irriverenti allusioni ai misteri della fede. Le sue parole rimandano a un mondo alla rovescia, in cui i più alti e nobili ideali cedono il passo a un’istintività elementare, che si manifesta nel bisogno smodato di cibo e nella ricerca della soddisfazione immediata della propria voracità, ottenuta con il ricorso all’astuzia e, se necessario, alla violenza. Poema cavalleresco (periodo storico 1478). È possibile porre in evidenza il legame che unisce l’irriverente e materialista professione di fede di Margutte alla poesia comico-realistica del Due-Trecento, in particolare ai versi di Cecco Angiolieri, nonché alla tradizione carnevalesca, che rovescia beffardamente quanto vi possa essere di serio e sacro. e credo nella torta e nel tortello: / l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; / è ’l vero paternostro è il fegatello, / e posson esser tre, due ed un solo, / e diriva dal fegato almen quello. […]» Laboratorio per l’esame 2 Idea centrale La parodia popolaresca del cavaliere medioevale attraverso la bizzarra coppia cavalleresca di Morgante e Margutte. Messaggio dell’autore La condivisione con il lettore del capovolgimento e della dissacrazione dei più nobili valori e ideali, abbassati a una dimensione materiale e corporea. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •T88 Teofilo Folengo, L’invocazione alle muse Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Ma prima bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che scodellate l’arte macaronica. O che potrà forse la mia gondola districarsi in mezzo agli scogli del mare, se non l’avrà protetta il vostro aiuto? Non Melpomene, non Talia minchiona, non Febo che gratta il chitarrino mi dettino i carmi; se infatti considero la cavità della mia pancia … non si conviene alla nostra poesia il chiacchiericcio del Parnaso. Soltanto le Muse panciute […] vengano ad imboccare di macaroni il loro poeta e gli diano da cinque a otto vassoi di varie polente. Queste sono le famose dee grasse, le ninfe che colano unto, la cui residenza, il paese, il territorio loro proprio è nascosto in un remoto angolo del mondo […]. Colà si innalza fino alle scarpe della Luna una montagna: […] montagne fatte di formaggio tenero, duro e mezzano. […] Là scorrono a valle profondi fiumi di brodo, che fanno un lago di zuppa, un mare di sugo. Vi si vedono andare e venire zattere, barche, grippi maneggevoli tutti fatti di pasta per torte; in essi le Muse manovrano lacci e reti, reti di salsicce, intrecciate di trippe di vitello e pescano gnocchi, frittelle e gialle polpette. […] Ci sono là pendii di burro fresco e tenero, sui quali fumano fino alle nubi caldaie piene di casoncelli, di macaroni e di tagliatelle. Le Muse abitano sulla cima dell’alto monte e grattugiano in continuazione formaggio […]. Nel rispetto della tradizione epica classica e cavalleresca, il Baldus si apre con un Proemio: fin dal primo verso, tuttavia, appare evidente che esso non corrisponde alle convenzioni. Anziché rivolgersi alle Muse, le nove figlie di Zeus, protettrici delle arti e delle scienze, Folengo invoca le grasse Camene, affinché riempiano la pancia del loro protetto di maccheroni e polenta. Poema epico-cavalleresco in lingua maccheronica (periodo storico prima metà del Cinquecento). È opportuno porre in evidenza la funzione consolatoria del mito della dimora delle Camene creato da Folengo, nuovo Parnaso senza leggi né governo nel quale penuria, carestia, fatica e violenza quotidiana sono bandite in nome di una totale soddisfazione dei più elementari appetiti. Inoltre, la descrizione di questo mondo alla rovescia ricorda le meraviglie boccacciane della contrada di Bengodi. All’immagine di Apollo che suona la cetra si contrappone ora quella di Febo armato di chitarrino; alla navicella dell’ingegno di dantesca memoria si sostituisce la folcloristica gondola. Persino la dimora delle Camene sovverte la tradizionale immagine dell’Olimpo: non più eteree divinità serafiche e distanti, nutrite di ambrosia, ma montagne di formaggio, fiumi di brodo, reti di salsicce, tortelli e maccheroni cucinati su pendii di burro fresco sui quali le Muse panciute grattugiano formaggio senza sosta. Idea centrale L’originalità trasgressiva del Proemio che agli schemi e alle immagini della letteratura alta sostituisce la cultura popolare, attraverso il continuo riferimento al mondo del cibo e della digestione. Messaggio dell’autore La condivisione con il lettore di tale capovolgimento, cogliendone al contempo la funzione consolatoria. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 articolo di giornale Stesura Struttura «Re: Qual è il più lungo giorno che ci sia? Bertoldo: Quel che no se magna!» Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo. (G.C. Croce, Le sottilissime astuzie di Bertoldo) Periferia di Milano, qualche giorno fa: un grosso ipermercato di una nota catena commerciale promuove “a volantinaggio battente” la vendita a prezzo di costo del più ambito iPhone di ultima generazione. Unico limite all’offerta promozionale l’esiguo numero dei pezzi in vendita. Sabato mattina, pochi minuti primi dell’apertura del centro commerciale: decine e decine di persone si ammassano e si accalcano a ridosso degli ingressi, nella speranza di accaparrarsi almeno uno degli ultraconvenienti iPhone. Ore 9, si aprono le porte: fra urti, spintoni e gomitate, imprecazioni e liti scatenate dalla precedenza nella fila, un indistinto e concitato flusso di agguerriti consumatori si riversa all’interno del centro commerciale e procede veloce e deciso in direzione del reparto nel quale è venduto l’ambito oggetto del desiderio. Rapidità d’azione e spregio dei diritti di precedenza altrui consentono infine a pochi fortunati di conquistare l’ultratecnologico iPhone. Agli altri non resta che avviarsi all’uscita, che varcano un po’ malconci, delusi e abbattuti, non senza aver prima consultato l’elenco delle future offerte e promozioni. Le coordinate dell’informazione who: una folla di agguerriti consumatori; what: l’offerta promozionale di un iPhone di ultima generazione; where: alla periferia di Milano, presso un grande centro commerciale; when: qualche giorno fa; why: per accaparrarsi almeno uno degli scontatissimi iPhone. Già, perché in una società del benessere e dell’abbondanza, in cui l’unica preoccupazione di natura alimentare non è riempire la pancia, bensì mantenerla tonica e piatta, è un ipermercato a incarnare il mito del paese di Bengodi, un centro commerciale a farsi mitico luogo di delizie, dove non mancano sconti, saldi e offerte promozionali che trasformano oggetti superflui nel sogno proibito delle masse. Ben diversa la fisionomia e il significato culturale assunti dal paese di Cuccagna nel passato: il mito nasce in età medioevale in un’Europa travagliata da miseria, fame e carestie ricorrenti. Nei primi secoli del secondo millennio, nonostante le innovazioni introdotte nel settore agricolo (utensili in ferro, rotazione delle colture), la produzione alimentare resta scarsa, facilmente compromessa da eventi atmosferici e da conflitti tra potenti, avvenimenti frequenti e improvvisi che contribuiscono a spiegare come l’uomo medioevale sia continuamente ossessionato dall’incertezza e dallo spettro della penuria di cibo. Il sogno più diffuso fra la gente comune, afflitta da una cronica precarietà alimentare, diventa allora una sorta di paradiso sulla terra, un mitico luogo di delizie dove non mancano mai buon cibo e abbondanti libagioni, un mondo alla rovescia in cui sono soprattutto le esigenze del corpo a farsi sentire e a trovare appagamento. Mito nato dalle frustrazioni collettive generate da un sistema economico e sociale basato sui privilegi di pochi, il paese di Bengodi si caratterizza come un grande banchetto popolare, destinato soprattutto a poveri e affamati, che possono trovarvi appagamento a ogni bisogno e appetito animalesco. Corpo principale dell’articolo Si sottolinea la differenza fra la società dei consumi di oggi e quella dei bisogni di ieri, ricostruendo l’origine e l’evoluzione del mito del paese di Bengodi così come è documentata all’interno della letteratura italiana fra Medioevo e Rinascimento. Ce ne fornisce una mirabile descrizione Giovanni Boccaccio, in una nota novella del Decameron: l’astuto sensale Maso di Saggio racconta all’ingenuo Calandrino del mitico paese di Bengodi, in una vertiginosa serie di trovate verbali e di giochi di parole che hanno come unico intento quello di inebetire il povero credulone. Per stuzzicare l’acquolina di Calandrino, Maso sostiene che in questo favoloso luogo le viti sono legate da ghiotte e grasse salsicce; con pochi denari si può comprare un’oca, con l’aggiunta di un papero, da arrostire e gustare; su un’enorme collina di parmigiano grattugiato innumerevoli cuochi cucinano senza sosta ravioli e maccheroni, che cuociono in brodo di cappone e poi gettano al popolo, perennemente animato da atavica fame; a soddisfare la sete, un fiume di autentica vernaccia. La prima testimonianza Il paese di Bengodi in una novella del Decameron di Boccaccio. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 È però in età Umanistico-Rinascimentale che l’immagine del mitico paese di Bengodi si afferma e si diffonde: la sua fortuna è in qualche modo connessa alla nuova sensibilità che caratterizza il periodo storico. La società medioevale è dominata da una cultura fortemente teocentrica, all’interno della quale il destino dell’uomo trova piena realizzazione solo nella dimensione ultraterrena. A partire dal Trecento, tuttavia, tale sensibilità è messa in discussione dalle esperienze letterarie di autori come Petrarca e Boccaccio, i quali anticipano la progressiva rivalutazione della dimensione terrena dell’esistenza e la nuova mentalità umanistica, che pone l’uomo al centro dell’universo: agli ideali della fede si contrappongono, ora, i più alti valori dell’individuo, la libertà, la dignità, l’intelligenza, la capacità di dominare la fortuna. Guida indispensabile alla nuova società, caratterizzata dalla celebrazione dei valori terreni e dallo sviluppo armonico delle capacità e dei bisogni dell’uomo, sono i classici, lontani dall’ascetismo medioevale e concentrati sull’uomo e sulle sue attività mondane, dai quali intellettuali e uomini di cultura ricavano il culto dell’armonia, dell’equilibrio e della misura. Gli umanisti procedono quindi alla rivalutazione della dimensione corporea dell’uomo, all’elogio della bellezza e della ricerca del piacere, non più demonizzati come fonte di dannazione spirituale, ma celebrati come parte integrante e ineludibile dell’individuo; anche la natura, emancipata dall’autorità degli antichi e dalla teologia, è ora indagata nella sua dimensione oggettiva. A una società e a una ideologia ufficiali, che esaltano nell’individuo i valori ideali e i sentimenti più nobili, la cui sede sono l’intelletto e il cuore, che si ostinano a ignorare l’aspetto “basso”, che sublimano le pulsioni nella misura in cui ne reprimono la libertà, la rivelazione della corporeità capovolge letteralmente l’uomo. Il motivo della pancia, del cibo e della sua digestione ricorda che l’essere umano è in primo luogo una realtà sede di processi biologici i quali, poiché assicurano la sopravvivenza e il benessere di ogni individuo e dell’intera specie, non possono essere ignorate. La seconda testimonianza Il mitico paese di Cuccagna diventa, in età umanisticorinascimentale, l’emblema di una cultura popolare che, rivalutando la dimensione materiale e corporea dell’uomo, si contrappone alla cultura alta e ufficiale. Proprio l’intento parodico anima le più significative opere i cui autori hanno affrontato il tema del paese di Bengodi. Ricordano per alcuni tratti le atmosfere del Decameron i personaggi di Morgante e Margutte, fra i più noti e originali protagonisti del poema epico-cavalleresco di Luigi Pulci, parodia popolaresca delle canzoni di gesta ben note al pubblico della corte medicea alla quale l’autore si rivolge alla fine del Quattrocento, in cui si intrecciano in toni comici e bizzarri tradizione carolingia e materia bretone. Morgante, il gigante ingenuo e bonario dalla forza bruta e primitiva che dà il nome al poema e il mezzo gigante Margutte, irriverente e materialista, che sopperisce alle proprie carenze fisiche con l’astuzia e l’abilità della parola: i due sono protagonisti di un mondo alla rovescia, in cui gli ideali nobili ed eroici della cavalleria e del galateo cortese cedono il passo a un’istintività elementare, che si manifesta nel bisogno smodato di cibo e nella ricerca della soddisfazione immediata dei propri appetiti, ottenuta con il ricorso all’astuzia e, se necessario, alla violenza. Proprio la smisurata voracità di questa bizzarra coppia cavalleresca, mirabilmente narrata nell’episodio dell’osteria, richiama alla memoria del lettore la novella del Boccaccio in cui Maso del Saggio ammalia Calandrino decantando le infinite delizie della contrada di Bengodi. Le boccacciane meraviglie del mitico paese sono riprese quasi alla lettera e messe in versi da un anonimo poeta cesenate, il quale alla metà del Cinquecento racconta il mirabolante viaggio compiuto attraverso alcune osterie nelle quali si mangia e si beve senza spendere nulla. In particolare, nel riferimento al bel giardino, trasformato immediatamente nel paese di Cuccagna, è possibile riconoscere l’intento parodico: il tradizionale topos del locus amoenus, ricorrente nella lirica del Trecento e ripreso dal petrarchismo cinquecentesco, è ora sovvertito e rovesciato in nome della materialità e della voracità, sulla scorta dell’esempio di Boccaccio. Il Baldus di Teofilo Folengo, opera in cui il paese di Cuccagna è descritto con una originalità maggiore rispetto ai testi precedentemente citati, è un poema epico-cavalleresco in lingua maccheronica della prima metà del Cinquecento, in cui la vena parodistica e dissacratoria dell’autore raggiunge gli esiti più significativi: Folengo vi rappresenta un mondo privo di regole, sottratto a qualsiasi logica, deformato e caotico, in cui agli alti ideali dell’intelletto e del cuore si contrappongono i bassi istinti corporali del ventre e della pancia. Anche la lingua del La terza testimonianza Le interpretazioni del paese di Bengodi in alcune opere letterarie del Cinquecento. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 poema, frutto di una profonda contaminazione fra volgare, dialetto e latino, rafforza i risultati dell’intento comico e parodico. Particolarmente significativo in questo senso il Proemio con cui, nel pieno rispetto della tradizione epica classica e cavalleresca, il poema si apre: fin dal primo verso, tuttavia, appare evidente al lettore che ciò che sta leggendo non corrisponde affatto alle convenzioni. Anziché rivolgersi alle Muse, le nove figlie di Zeus che la tradizione classica venera come protettrici delle arti e delle scienze, Folengo invoca le panciute Camene, le famose dee grasse, le ninfe che colano unto, affinché riempiano la pancia del loro protetto di maccheroni e polenta. Persino la dimora delle Camene sovverte la tradizionale immagine dell’Olimpo, che è ora ribaltata in un mondo alla rovescia la cui descrizione ricorda le meraviglie boccacciane della contrada di Bengodi: non più eteree divinità, serafiche e distanti, nutrite di ambrosia, ma montagne di formaggio, fiumi di brodo, reti di salsicce, tortelli e maccheroni cucinati su pendii di burro fresco sui quali le Muse grattugiano senza sosta formaggio. All’immagine di Apollo che suona la cetra si contrappone quella di Febo armato di chitarrino; alla navicella dell’ingegno di dantesca memoria si sostituisce una folcloristica gondola. In conclusione, l’azzardato paragone suggerito in apertura tra il paese di Bengodi e alcuni aspetti del consumismo odierno ci consente di compiere alcune riflessioni: come il mito, anche la caccia al saldo e la corsa spietata all’offerta promozionale hanno origine da frustrazioni collettive. È però evidente che tali frustrazioni non sono generate, come in passato, da un sistema economico e sociale basato sui privilegi di pochi, che condanna molti all’incertezza e alla precarietà economica. Esse nascono, al contrario, da una condizione di benessere generalizzato al cui interno, garantito il soddisfacimento delle necessità primarie, la società dei consumi crea falsi bisogni e vacue necessità per appagare le quali si è disposti a tutto. Ben diverso per spessore culturale e letterario il tradizionale paese di Cuccagna, definitivamente privato nella rilettura in chiave moderna da noi suggerita di quella corrosiva e dissacrante capacità critica nei confronti della cultura ufficiale che lo aveva caratterizzato in età umanisticorinascimentale. Laboratorio per l’esame 6 Conclusione Si attualizza il tema con alcune considerazioni sulla società dei consumi di oggi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 694-695 Analisi del testo Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 694-695. • Gaspara Stampa, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo O voi, che ascoltate in queste tristi rime, in questi tristi e malinconici toni il suono dei miei lamenti d’amore e delle mie sofferenze, le più intense fra tutte, se ci sarà qualcuno che ne apprezzi e ne giudichi il valore, spero di trovare fra le genti nobili non solo perdono ma gloria, per i miei lamenti, poiché la loro motivazione è così elevata (l’amore per il conte di Collalto). E spero anche che qualche donna sia indotta a dire: «Fortunatissima lei, che sopportò per una così nobile ragione un così nobile tormento! Oh, perché non mi è toccata la fortuna di un amore così grande per un signore tanto nobile, che mi porrebbe alla pari di una simile signora (l’autrice dei versi)?». 2. Analisi del testo 2.1 La poetessa si abbandona ai sentimenti e alle fantasie del proprio mondo interiore, che confida a un pubblico ristretto, come emerge fin dalla prima strofa del sonetto: l’infelice passione amorosa, la più intensa delle sofferenze dell’io lirico, genera lamenti dal cui suono hanno origine i componimenti poetici; meste sono le rime ispirate al tormento d’amore, mesti e oscuri gli accenti e i toni che ad esso danno espressione. Gli amorosi lamenti alludono all’infelice passione per il Conte Collatino di Collalto, il nobil signor incontrato a Venezia frequentando gli ambienti mondani della città: con lui la poetessa padovana intraprese una relazione sentimentale infelice e tormentata, che descrisse in numerosi componimenti raccolti dalla sorella e pubblicati postumi in un canzoniere, sorta di diario d’amore dalla struttura dichiaratamente petrarchesca, che comprende trecentoundici liriche. 2.2La poetessa rivolge le proprie rime al selezionato uditorio mondano, circoli letterari e case signorili, con il quale condivide l’ideale di una vita sociale e culturale improntata all’armonia formale, ed elabora nuovi ideali e raffinati codici di comportamento che regolano ogni aspetto della vita sociale, inclusa l’esperienza amorosa. La società aristocratica alla quale l’io lirico si rivolge è l’unica in grado di apprezzare il valore delle rime e di attribuire alla poetessa la gloria letteraria che potrebbe in parte compensare l’intensità della sofferenza d’amore. 2.3La forza del sentimento che anima Gaspara e la nobiltà dell’amato potranno essere presso il pubblico femminile fonte di invidia e impulso a emulare la spregiudicata condotta della poetessa innamorata, il suo abbandonarsi alla passione. 2.4Il chiasmo al verso 11 è interamente giocato sull’area semantica della nobiltà, intesa, in termini feudali e aristocratici, come nobiltà ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue: alla sublimità della causa delle sofferenze amorose, quel sì nobil signor citato al v. 13, corrisponde la nobiltà del tormento stesso. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto e adotta nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto, come nel sonetto petrarchesco Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, utilizzato apertamente come fonte. Tuttavia, alla lirica cinquecentesca manca l’interiorizzazione del dissidio tra passione amorosa e pentimento morale, che in Petrarca si traduce nella sublimità dei versi e nell’accurata selezione delle parole: in proposito, si noti la straordinaria capacità evocativa degli accostamenti delle parole poste in rima fra loro, per cui ad esempio core (cuore) rima con errore, dolore con amore. 3.2Nel sonetto della Stampa mancano soprattutto la conflittualità della coscienza, la lacerazione psicologica e morale che accompagnano la tormentata vicenda sentimentale di Petrarca, a cui allude l’espressione rime sparse: combattuto fra l’intensità della passione per Laura, la vanità di quel lungo e colpevole amore e il desiderio di innalzarsi dai beni terreni alla conquista di valori eterni, l’io lirico approda all’ineluttabile sentimento della labilità di ogni vicenda umana, inclusi gli affetti (il giovenile errore), le speranze, il dolore che un tempo ebbero il potere di colmare di sé l’esistenza e l’anima del poeta (quanto piace al mondo è breve sogno). La poetessa, invece, non interpone una distanza temporale fra sé e l’amore per il conte Collatino, mai superato, anzi sempre attuale; non ne mette in dubbio la liceità morale e spirituale, non mostra alcun segno di pentimento o di vergogna per l’essersi abbandonata alla passione. Al contrario, fa della sofferenza amorosa un motivo di orgoglio e di successo in società, uno strumento di conquista della gloria letteraria: un’esperienza così fortunata non potrà non suscitare presso le altre donne invidia e desiderio di emulazione. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 La stesura del testo Commento Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario Gaspara Stampa nacque a Padova intorno al 1523 da una famiglia milanese di estrazione borghese, con cui nel 1531 si trasferì a Venezia, dove si compì la sua educazione letteraria e musicale. Donna colta e raffinata, divenne in breve una figura di spicco della vita culturale e mondana della città, in cui condusse un’esistenza libera e spregiudicata: fra i suoi amori occupò un posto di rilievo la passione per il conte Collatino di Collalto, che si protrasse dal 1548 al 1551 e si concluse bruscamente con l’abbandono della poetessa. All’infelice e tormentata relazione sentimentale è dedicata la maggior parte delle liriche della Stampa, trecentoundici componimenti di modello petrarchesco raccolti nelle Rime e pubblicati a cura della sorella lo stesso anno della sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1554. Il Canzoniere della Stampa mostra l’evidente adesione ai modelli del petrarchismo cinquecentesco, del quale ricalca motivi e stilemi, semplificati e resi meno aridi e ripetitivi dalla sincerità tutta nuova con cui la poetessa rivela ai lettori il proprio mondo interiore, un universo femminile mai confessato prima con tanto coraggio. La raccolta, pervasa da un accentuato autobiografismo, esprime la forza dei sentimenti e del tormento della passione amorosa, che l’autrice fa rivivere nel testo con autenticità. Tuttavia, proprio questa sincerità che conferisce originalità ai versi finisce col costituirne il limite primo: la confessione dei moti dell’animo tende, infatti, a esprimersi in forme immediate e prosastiche, quasi discorsive, escludendo una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico. Alla forza del sentimento non corrisponde, dunque, un efficace dominio degli strumenti espressivi. È diffuso il giudizio per cui il valore della poesia della Stampa consista nell’aver saputo rifiutare l’arida e la ripetitiva esperienza retorica dei contemporanei in nome dell’originalità di una vicenda umana confessata con immediatezza e passione sincere. L’adesione al linguaggio e ai moduli di Petrarca si risolve nell’uso piacevole e tenue di motivi petrarcheschi alti e spirituali, che Gaspara però non riesce ad adeguare alla propria ispirazione e a esprimere pienamente. Il termine petrarchismo indica il fenomeno di imitazione della poetica di Francesco Petrarca che interessa il Basso Medioevo e i primi secoli dell’Età Moderna. Tendenza di costume letterario, prima ancora che movimento poetico, si sviluppa in Italia fin dal Quattrocento per raggiungere il suo culmine nel secolo successivo, quando assume carattere nazionale e unificante presso i letterati italiani, che si riconoscono in un codice e in uno stile condivisi. Non richiedendo un’educazione letteraria particolarmente complessa, comporre versi alla maniera di Petrarca consente a categorie di individui e a classi sociali fino ad allora escluse dalla gloria letteraria di cimentarsi nella poesia con discreto successo di pubblico, come accade appunto ad alcune figure femminili. Dopo la morte di Petrarca e per circa un secolo non emergono personalità poetiche di spicco. Tuttavia, è proprio in questo periodo che il Canzoniere comincia ad affermarsi come modello tematico e stilistico dominante, seppur non esclusivo, presso i letterati che si cimentano nel genere poetico. In realtà, nessuna opera del Quattrocento giunge a eguagliare la ricchezza espressiva e psicologica e la perfezione formale del Canzoniere, limitandosi piuttosto a esasperarne gli artifici retorici, all’interno di un consumo galante e mondano della poesia Laboratorio per l’esame 2 La struttura Il metodo applicato Indicazioni biografiche utili a delineare il percorso artistico dell’autore e il contesto in cui ha operato. Notizie fornite dalla traccia integrate con alcune conoscenze personali. Dati contenuti nella risposta 2.1. Confronto con il contesto poetico cinquecentesco. Dati contenuti nella risposta 3.2 e integrazioni personali. Precisazione del contesto poetico nel quale l’autore ha operato. Integrazioni personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 d’amore: è l’esperienza della lirica cortigiana quattrocentesca. Nel secolo successivo, l’imitazione del modello petrarchesco si fa più esclusiva e rigorosa grazie all’opera di Pietro Bembo (1470-1547), che nelle Prose della volgar lingua (1525) riconosce a Petrarca i requisiti di una moderna classicità e lo indica come modello da imitare nei contenuti e nello stile. Come già detto, il petrarchismo è un fenomeno di costume letterario, prima ancora che movimento poetico: a fare dell’adesione al petrarchismo una vera e propria moda, un segno di appartenenza alla raffinata ed elitaria società cortigiana cinquecentesca è la perfetta corrispondenza fra le precise convenzioni e norme comportamentali che regolano la vita mondana del tempo, incluse le relazioni sociali e amorose, e la raffinatezza formale dell’opera di Petrarca, che di quei cerimoniali si rivela un ideale strumento comunicativo. L’analisi del significato Il diario lirico di Gaspara Stampa ha una struttura dichiaratamente petrarchesca, per cui si apre con un sonetto proemiale che costituisce una vera e propria rilettura del corrispondente componimento del Canzoniere, e si chiude, come il modello di riferimento, con poesie di pentimento e di conversione morale e spirituale. Rispetto al modello petrarchesco, tuttavia, le differenze si mostrano più rilevanti delle evidenti riprese. L’incipit ricalca esplicitamente quello del sonetto petrarchesco nel vocativo iniziale, Voi ch’ascoltate, che in entrambi i componimenti esprime una richiesta al lettore di partecipazione diretta. Tuttavia, in Petrarca egli è chiamato in causa dall’io lirico, che si confessa e soffre per quella vicenda sentimentale in cui tende a riconoscere la storia del lettore, attribuendo alla propria esperienza spirituale un significato universale. Nella poetessa padovana, al contrario, il romanzo d’amore resta fortemente autobiografico, unico e individuale: Gaspara si aspetta di suscitare nel lettore invidia e desiderio di emulazione, non pietà, ossia comprensione e immedesimazione. La ricerca nei casi effimeri e individuali del senso profondo e universale dell’esistenza umana che percorre l’intera opera petrarchesca appare, dunque, del tutto assente nel sonetto cinquecentesco. Nel componimento della Stampa mancano soprattutto la conflittualità della coscienza, la lacerazione psicologica e morale, che accompagnano la tormentata vicenda sentimentale di Petrarca, a cui allude l’espressione rime sparse: combattuto fra l’intensità della passione per Laura e la vanità di quel lungo e colpevole amore, unita al desiderio di innalzarsi dai beni terreni alla conquista di un bene stabile ed eterno, l’io lirico approda all’ineluttabile sentimento della labilità di ogni vicenda umana, inclusi gli affetti (il giovenile errore), le speranze, il dolore che un tempo ebbero il potere di occupare l’esistenza e l’anima del poeta (quanto piace al mondo è breve sogno). Nella poetessa, invece, le rime sono meste, mesti e oscuri gli accenti, a esprimere una maggiore attenzione alla sofferenza piuttosto che alla conflittualità della coscienza. In proposito è significativo anche l’uso del dimostrativo, che in Gaspara indica la vicinanza nel tempo, l’attualità della passione amorosa (queste […] rime, questi mesti […] questi oscuri accenti); mentre in Petrarca, insieme alla scelta dei tempi verbali (ond’io nudriva), colloca le sofferenze d’amore in un passato oramai lontano (quei sospiri), superato attraverso il pentimento, che ha scavato un solco fra il se stesso di ieri e quello presente (quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono). Il poeta si rivolge all’emotività dei lettori per chiedere comprensione, alla loro coscienza morale per ottenerne il perdono; dal suo pubblico si aspetta solo la disponibilità ad ascoltare, avendo esso a sua volta sperimentato le sofferenze d’amore. Rielaborazione informazioni e conoscenze contenute nella risposta 3.2. Confronto con il modello petrarchesco. Dati contenuti nella domanda 3.2. Esplicitazione del messaggio. Dati contenuti nelle risposte 2.2 e 2.3 e dati stimolati dalla parafrasi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Risposta 3.2 e integrazioni personali. Dati contenuti nella risposta 2.1 e dati stimolati dalla parafrasi. Laboratorio per l’esame 3 La poetessa, al contrario non mette mai in dubbio la legittimità morale e spirituale della propria vicenda sentimentale, avanzando tenui e immotivate richieste di perdono; al contrario, indica la passione amorosa come strumento di elevazione sociale e tramite verso la gloria letteraria, che ella ricerca presso un pubblico aristocratico in grado di apprezzare appieno i suoi versi. Per Gaspara i lamenti d’amore hanno una sublime motivazione, la sofferenza amorosa, che la poetessa si augura sia motivo di onore e susciti desiderio di emulazione presso il pubblico femminile, fino a voler condividere la medesima tormentata ma sublime esperienza; per Petrarca la loro causa, l’amore per Laura, è un errore giovanile, frutto di disorientamento spirituale e morale, motivo di giusta vergogna e pentimento, desolata scoperta della natura illusoria ed effimera dei valori terreni. L’analisi del significante La poetessa si rifà allo schema tipico del sonetto petrarchesco adottando nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, tre rime ripetute in ordine diretto. La struttura tematica e sintattica del sonetto è assai simile a quella del modello petrarchesco: si pongano a confronto il v. 5 (ove fia chi valor apprezzi e stime) con il v. 7 del modello (ove sia chi per prova intenda amore), o il v. 7 (spero trovar fra le ben nate genti) con il v. 8 (spero trovar pietà, nonché perdono). Evidente anche la riproposizione di situazioni psicologiche ricorrenti nel Canzoniere, come la sofferenza per i tormenti dell’amore, la tirannia della passione che imprigiona l’io lirico, la poesia come espressione del proprio dolore. La presenza insistita nel sonetto di numerosi topoi della lirica petrarchesca si traduce in campo lessicale in frequenti ripetizioni di vocaboli identici o appartenenti a campi semantici affini: si noti, ad esempio, la ripetizione degli aggettivi mesto e questo, spesso accostati, e del sostantivo lamenti, che esprimono insieme il tormento d’amore e la duratura immutabilità della passione per il nobil Signor, la cui unicità e sublimità è esaltata dal chiasmo al v. 11 e dal ripetersi nell’ultima strofa dell’aggettivo tanta (tant’amor, tanta fortuna […] tanta Donna). È tipicamente petrarchesco anche il ricorso alla figura retorica della dittologia sinonimica, come evidenziano le coppie di termini di significato identico (lamenti e […] pene; apprezzi e stime). La presenza del discorso diretto trasmette al componimento un andamento prosastico. Il ricorso a un lessico fortemente ripetitivo e le precise scelte metriche e retoriche conferiscono, infine, alla lirica un ritmo musicale: le rime, le consonanze, assonanze e allitterazioni (ben nate genti), i rimandi fonici fra parole chiave (queste meste […] / questi mesti […] / stime). Laboratorio per l’esame 4 Dati contenuti nelle risposte 2.2 e 2.3 e dati stimolati dalla parafrasi. Metrica Risposta alla domanda 3.1 e integrazioni personali. La struttura tematica e sintattica Il lessico Le figure retoriche Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni personali. Il ritmo Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, p. 771 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Il rapporto tra virtù e fortuna» utilizzando il dossier che si trova alla pagina 771. • Niccolò Machiavelli, La conquista dei principati con armi proprie e virtù (cap. VI) (Il Principe • T102) • Niccolò Machiavelli, L’agire politico e la simulazione (cap. XVIII) (Il Principe • T104) • Niccolò Machiavelli, Il potere della fortuna e lo scontro con la virtù (cap. XXV) (Il Principe • T105) Schedatura dei documenti •T102 Niccolò Machiavelli, La conquista dei principati con armi proprie e virtù (cap. VI) Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che imiti aggiungere, debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare […]. Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano. Era dunque necessario a Mosè trovare il populo d’Israel, in Egitto, stiavo e oppresso dagli Egizii, acciò che quelli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capissi in Alba, fussi stato esposto al nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ Persi mal contenti dello imperio de’ Medi, e li Medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non posseva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi. Queste occasioni, pertanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù loro fece quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima. […] Il trattato si propone di definire le norme per la conquista, la gestione e la difesa del Principato. Trattato politico (periodo storico 1513-1516). Occorre ampliare le informazioni circa l’interesse per il mondo classico che Machiavelli eredita dall’Umanesimo, insieme all’idea della centralità della storia nel presente (la istoria è maestra delle azioni nostre). Si sottolinea l’importanza dell’imitazione dei grandi esempi del passato, pur nella consapevolezza che essi non potranno mai essere eguagliati. Per occasione si intende la circostanza storica oggettiva offerta dalla fortuna durante la quale il Principe può esercitare la propria abilità politica. Senza l’occasione la virtù non potrebbe realizzarsi; senza l’intervento della virtù l’occasione a sua volta non darebbe frutti e si sarebbe presentata invano. Idea centrale Le relazioni che si instaurano tra la coppia oppositiva virtù-fortuna e l’elemento intermedio dell’occasione. Messaggio dell’autore La fortuna può offrire l’occasione favorevole, ma spetta all’individuo coglierla esercitando la virtù. Le espressioni che indicano necessità evidenziano questo rapporto di reciproca dipendenza. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 È, inoltre, opportuno evidenziare la dimensione dinamica e pratica dell’interesse per i classici: l’analisi critica della letteratura classica e della storia antica forniscono strumenti immediati per intervenire sulla realtà e migliorarla. Dall’Umanesimo Machiavelli ricava anche l’impostazione antropocentrica, come evidenzia l’ideale di un uomo protagonista e artefice del proprio destino. Laboratorio per l’esame 1 •T104 Niccolò Machiavelli, L’agire politico e la simulazione (cap. XVIII) Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Dovete dunque sapere coma sono due generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie […]. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo […]; bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile. […] Bisogna dunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. […] E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro […]. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore: […] colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. […] A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili; […] uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro all’umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e, come sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. […] E gli uomini in universale iudicano più agli occhi che alle mani […]. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; […] e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda Nel definire le norme per la conquista, la gestione e la difesa del Principato, il trattato analizza dei comportamenti che il principe deve assumere. Trattato politico (periodo storico 1513-1516). È bene evidenziare la visione fortemente pessimistica della natura umana che caratterizza il pensiero e l’opera di Machiavelli. Laboratorio per l’esame 2 La virtù del politico è estranea alle regole morali: l’innata malvagità degli uomini rende più utili della lealtà e della fedeltà il tradimento e la violenza. Il principe deve, dunque, fondere in sé qualità umane e qualità proprie delle bestie, esercitando in particolare l’astuzia della volpe e la forza del leone. Idea centrale L’affermazione dell’indipendenza dei comportamenti politici dalla morale comune. Messaggio dell’autore La politica è una scienza di fatti, e non di principi ideali e astratti, autonoma dalla morale e dalla religione. Occorre che egli sappia adattare l’azione politica ai mutamenti prodotti dalla fortuna nella situazione reale. Alla flessibilità deve, inoltre, accompagnarsi la capacità di simulare, ossia di fingere di possedere le qualità che il volgo giudica moralmente positive, e di dissimulare, cioè di nascondere la propria vera natura: non è necessario possedere le virtù morali; è di gran lunga preferibile fingere di averle. La vera virtù non consiste dunque nell’esercitare qualità morali, bensì nel simularle. Il popolo, apostrofato con disprezzo, è così ingenuo da lasciarsi facilmente ingannare, perché maggiormente propenso a credere alle apparenze che alla realtà. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo […]. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 •T105 Niccolò Machiavelli, Il potere della fortuna e lo scontro con la virtù (cap. XXV) Testo Schedatura Tipologia testuale […] Molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possono correggerle, anzi, non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iuducare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte. […] A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella loro opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. […] Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, senza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che si appoggia tutto sulla fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. […] Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da Alla domanda se l’uomo sia in grado di realizzare i propri scopi, orientando il corso della storia con gli strumenti dell’intelligenza e della volontà, l’autore dà inizialmente una risposta fatalista e rassegnata, che pare ricondurlo all’idea cristiana medioevale di una fortuna ministra imponderabile e incontrastabile della volontà divina. Trattato politico (periodo storico 1513-1516). Laboratorio per l’esame 4 La congiunzione avversativa introduce, tuttavia, un mutamento di rotta e l’intento di riformulare la propria risposta: l’autore assegna ora alla fortuna l’arbitrio su metà delle azioni umane, mentre la restante è attribuita all’uomo. La similitudine del fiume in piena che porta distruzione e morte afferma, inoltre, la possibilità dell’uomo di attenuarne i devastanti effetti con l’industria e la previdenza, predisponendo argini e canali di deflusso: il giudizio sul quesito iniziale sembra ora propendere per la virtù dell’uomo. Integrazioni personali Idea centrale L’indagine sulle possibilità dell’uomo, e del principe in particolare, di determinare gli eventi storici. Messaggio dell’autore La necessità di assumere un atteggiamento previdente e combattivo verso la fortuna. Nell’affrontare la questione del destino individuale di un principe, tuttavia il verdetto muta nuovamente: Machiavelli afferma che la qualità necessaria per il successo è la capacità di adeguarsi al mutare delle condizioni esterne, modificando non solo le proprie strategie politiche, ma anche il proprio temperamento, così da assecondare le occasioni offerte dalla fortuna. Tuttavia, questa duttilità è pressoché impossibile per l’uomo, incapace di assecondare i tempi storici e le occasioni. Questa perentoria affermazione risolve il quesito iniziale in favore della fortuna: l’uomo avrà successo indipendentemente dalla propria vir- Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Testo Schedatura quello a che la natura lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella […]: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna. […] Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici, mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo; perché la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano. tù, solo se i tempi asseconderanno le sue inclinazioni. Tipologia testuale Integrazioni personali Giunto alla conclusione, Machiavelli sposta il discorso dal piano logico a quello irrazionale con una seconda similitudine, che paragonando la fortuna a una donna restituisce all’uomo e alla virtù la possibilità di governare la storia e il proprio destino. Non si tratta, però, di una risposta logica, quanto piuttosto di uno scatto della volontà, che non sembra rassegnarsi al pessimismo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 Saggio breve Stesura Struttura L’umanità tra passato e presente: dalla cultura della virtù alla cultura della fortuna Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Il rapporto fra virtù e fortuna, con particolare attenzione alla possibilità dell’uomo di mutare il corso degli eventi, ha da sempre richiamato l’attenzione di intellettuali e letterati, i quali ne hanno dato ampia rappresentazione, dall’antichità ad oggi. Introduzione Si sottolinea l’importanza della dialettica virtù-fortuna in ambito letterario. Nell’affrontare questo complesso argomento ciascuno di loro ha inevitabilmente subito l’influenza del contesto storico, politico e sociale e si è rapportato con l’ideologia e i modelli culturali dominanti, decidendo se prenderne le distanze o divenirne espressione. La letteratura italiana ha offerto sin dall’Alto Medioevo importanti testimonianze in merito: con la progressiva affermazione della fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di costruire il proprio destino, nello scontro fra virtù e fortuna intellettuali e letterati hanno cominciato a propendere per il primo termine, con il conseguente attenuarsi del fatalismo e del provvidenzialismo cristiano. Tesi Si esprime l’opinione che i punti di vista sul rapporto virtù-fortuna siano largamente influenzati nella letteratura e nella riflessione storico-filosofica dal contesto storico e sociale, dalla tradizione culturale e dai modelli di vita dominanti. Il termine “virtù” deriva dal latino virtus, che presso gli antichi indica il valore individuale, l’insieme di doti intellettuali, morali e pragmatiche innate nell’uomo e indispensabili per agire nella realtà, per compiere grandi azioni. La virtù è contrastata dalla fortuna, forza esterna, terrena e imponderabile, che può essere favorevole o contraria alle doti innate dell’individuo. Il termine deriva dal latino fortuna (= sorte), che della sorte esalta l’incertezza, i capricci e l’imprevedibilità, così come il sostantivo e avverbio fors, a cui è legato, dal quale ha origine il nostro “forse”. Nella lontana antichità la fortuna è concepita come un’entità imprevedibile, una divinità crudele e irrazionale, superiore persino agli dei, in grado di arrecare danni e sofferenze agli uomini; una lunga serie di testimonianze le attribuisce le sembianze di una dea bendata il cui operato non obbedisce ad alcuna logica apparente. Nella questione del rapporto fra virtù e fortuna gli antichi propendono decisamente per l’assegnare il primato alla virtù ed esaltano il valore e le qualità individuali. 1° Argomento a favore della tesi Si sottolinea il legame fra il contesto culturale e il punto di vista degli antichi. Nei secoli successivi, la cultura cristiana affronta la questione del rapporto tra virtù e fortuna svalutando la dimensione terrena a vantaggio del vero fine dell’esistenza umana, la conquista della felicità eterna; in relazione a questo scopo, il concetto di virtù muta, indicando ora l’insieme di comportamenti morali e religiosi che consentono all’uomo di meritare la beatitudine. La letteratura tardo-medievale documenta, infatti, in alcuni autori la tendenza a scorgere, dietro l’imprevedibile operato della fortuna, i segni di una volontà superiore, da identificarsi con la provvidenza divina; a tale fortuna-provvidenza l’uomo deve sottomettersi con fiducia, anche quando arreca dolore e sofferenza. L’interpretazione medioevale del concetto di fortuna trova concreta realizzazione nella Commedia: in opposizione alla tradizione pagana, nel canto VII dell’Inferno Dante propone un’immagine completamente rinnovata della sorte, presentata come general ministra della provvidenza divina e paragonata alle intelligenze angeliche, che nella cosmologia generale sono demandate alla rotazione dei cieli: essa presiede per conto di Dio alle vicende umane e si occupa di distribuire i beni materiali. Benché le azioni della fortuna non siano comprensibili agli uomini, in quanto rispecchiano i misteriosi disegni divini, Dante ne afferma la razionalità: al servizio della volontà divina, ella svolge un ruolo ben preciso nell’architettura dell’universo. Tuttavia, la fede dantesca nella fortuna-provvidenza non corrisponde alla passiva e serena 2° Argomento a favore della tesi Attraverso alcuni esempi letterari, si evidenzia l’influenza esercitata nel Medioevo dalla mentalità cristiana sull’analisi del rapporto tra virtù e fortuna. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 rassegnazione degli eventi, soprattutto se ritenuti ingiusti: Dante denuncia più volte e in toni accorati la propria difficoltà nello scorgere la volontà di Dio dietro le sofferenze e i mali del suo tempo, dalle guerre interne all’Italia fino al proprio destino individuale. La difesa del libero arbitrio induce il sommo poeta a mantenere viva la volontà di intervenire sul presente per renderlo più giusto e umano; Dante sa che Dio ha concesso alla virtù dell’uomo ampia libertà di azione, e che i mali del mondo non sono di origine divina, ma nascono dalle colpe e dagli errori della stessa umanità. Il giudizio di Dante sulla coppia antinomica virtù-fortuna pare, dunque, corrispondere in toto alla mentalità dominante nel suo tempo, che percepisce l’intero universo come espressione della potenza divina, la cui presenza si manifesta proprio attraverso quell’ordine che Dio vi ha impresso. Qualche decennio più tardi Giovanni Boccaccio propone nel Decameron un’immagine della fortuna che, allontanandosi in parte da quella dantesca, pare piuttosto rileggere in senso critico la tradizione antica: i protagonisti delle novelle boccacciane contrappongono alle forze irrazionali del caso l’industria, ossia l’ingegno, la capacità di costruire, anche a dispetto della fortuna, il proprio destino, riuscendo in conclusione ad assumere il controllo della realtà, a diventare artefici della propria felicità. Alla metà del Trecento, del resto, l’affermarsi della civiltà comunale indebolisce la preesistente omogeneità ideologica e culturale e contribuisce ad attenuare il teocentrismo. Con il dilagare della mentalità e dei modelli culturali borghesi, sulla dimensione puramente spirituale dell’esistenza comincia ad affermarsi una visione più concreta e terrena, che va di pari passo con il prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica. Anche il concetto di fortuna è riletto in chiave laica, all’interno di una civiltà mercantile che non punta più sui valori tradizionali, ma opera in una società in movimento, in cui la concorrenza produce il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia. In questo senso, il tardo Medioevo anticipa e precorre l’affermarsi della cultura umanisticorinascimentale, che nei secoli successivi, su imitazione degli antichi, riproporrà la tradizionale rappresentazione della fortuna: sottratta a implicazioni teologiche e nuovamente identificata con il caso, essa si presenta come entità irrazionale e potenzialmente ostile all’uomo il quale, facendo ricorso alle proprie risorse morali e intellettuali, deve affrontarla e cercare di vincerla. Homo faber fortunae suae: l’esaltazione dell’ingegno umano si traduce nella convinzione che la felicità dell’uomo dipenda, in ultima analisi, dalle sue capacità individuali. L’Umanesimo non sembra, dunque, avere alcun dubbio sulle capacità della virtù umana di sconfiggere e dominare le avversità della sorte. 3° Argomento a favore della tesi Attraverso alcuni esempi letterari, si evidenzia l’influenza esercitata dall’affermarsi, fin dalla metà del Trecento, della mentalità borghese nella percezione del rapporto fra virtù e fortuna. La posizione di Machiavelli è più problematica. Egli è personalmente coinvolto negli eventi storici che determinano il tramonto dei maggiori Stati italiani e preparano l’avvento dell’egemonia delle potenze straniere. In linea con lo spirito del Rinascimento sostiene che l’uomo debba realizzare se stesso in questo mondo, impiegando l’intelligenza e la forza e ribellandosi all’ideologia cristiana, causa prima della decadenza della civiltà: il Cristianesimo, infatti, avendo posto il sommo bene nella umiltà, […] e nel dispregio delle cose umane (Discorsi, II, 2), ha consegnato il mondo a un’umanità più preoccupata di guadagnarsi il Paradiso che di contrastare le avversità della fortuna. Tuttavia, dal Principe emerge un atteggiamento che oscilla fra l’analisi scientifica della realtà effettuale e l’ideale antropocentrico ereditato dall’Umanesimo, fra considerazioni logiche votate al pessimismo e conclusioni ottimistiche dettate dalla volontà. Da un lato Machiavelli manifesta una visione fortemente negativa dell’uomo, portato per sua natura a compiere il male: gli uomini non sono buoni, afferma nel trattato, sono tristi, ossia malvagi, incapaci di mantenere fede alla parola data, propensi a lasciarsi ingannare dalle apparenze; nello scontro fra fortuna e virtù, sono pochi i virtuosi in grado di dominare la realtà effettuale. D’altro canto, egli eredita dalla cultura umanistica l’affermazione della dignità umana e la fiducia nella capacità dell’individuo di costruire il proprio destino, mutando il corso degli eventi storici con il ricorso a intelligenza e forza coniugate insieme. Machiavelli interpreta il concetto di virtù in senso ormai lontano da quello cristiano-medioevale, come l’insieme delle risorse interiori che consentono all’individuo di valutare una situazione, decidere come agire 4° Argomento a favore della tesi Si pone in evidenza la connessione tra il pensiero di Machiavelli e il contesto storico entro il quale si trova a operare. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 e realizzare i propri progetti. Si tratta, dunque, di una virtù essenzialmente politica, rivolta ai beni pratici e terreni, che non sempre coincide con l’uso della razionalità o con la giustezza della causa che si persegue. A garantire il successo è, piuttosto, la capacità di cogliere l’occasione creata dalla sorte, ovvero la circostanza storica oggettiva offerta dalla fortuna nella quale il principe, e più in generale l’individuo, può imprimere la propria forma, esercitare la virtù politica. Occasione e virtù sono fra loro complementari: senza l’occasione la virtù non può essere messa in pratica, realizzarsi concretamente e con successo; senza l’intervento della virtù l’occasione non può dare frutti. Dunque, la virtù suprema è la duttilità che consente all’individuo di modificare se stesso e il proprio comportamento al fine di adeguarsi alla mutevolezza del caso e dominare la realtà effettuale. Eppure, in alcuni passaggi del trattato Machiavelli pare inclinare verso il fatalismo e guardare indietro, all’idea antica e medioevale di una fortuna imponderabile e incontrastabile; egli è indotto a farlo, come afferma nel XXV capitolo del Principe, dall’incomprensibile gravità delle devastazioni e dei rivolgimenti politici prodotti dalle recenti guerre d’Italia, un’ininterrotta catena di conflitti fuora di ogni umana coniettura che seguono alla discesa di Carlo VIII nella penisola nel 1494. Del resto, constata con amarezza, l’unica vera virtù umana che sarebbe in grado di contrastare gli imponderabili mutamenti generati dal caso nella realtà effettuale, la duttilità appunto, è anche quella che appare assolutamente preclusa agli individui: Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina (cap. XXV). Machiavelli non entra nel merito di una spiegazione razionale, la sua è una affermazione categorica senza possibilità di appello. Tuttavia, come si legge nello stesso capitolo del Principe, la fortuna e la virtù incidono in pari misura sul destino dell’uomo: iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. La famosa similitudine del fiume in piena che porta distruzione e morte afferma, inoltre, la possibilità dell’uomo di attenuare i devastanti effetti dell’inondazione, di fronte alla quale ciascuno fugge […], ognuno cede all’impeto […] sanza potervi in alcuna parte ostare, con il ricorso all’industria e alla previdenza, predisponendo, quando sono tempi queti, argini e canali di deflusso, per prevenire le piene e ridurne almeno gli effetti quando si verificheranno: il giudizio dell’autore sembrerebbe dunque propendere in favore della virtù dell’uomo. Nell’affrontare la questione del destino individuale di un principe, però il verdetto muta nuovamente: Machiavelli afferma che la flessibilità e la duttilità necessarie al successo sono precluse all’uomo, incapace di modificare se stesso per assecondare i tempi storici e le occasioni. L’uomo, dunque, avrà successo indipendentemente dalla propria virtù, solo se i tempi asseconderanno le sue inclinazioni: la tanto perentoria quanto amara considerazione risolve ora il quesito iniziale in favore della fortuna. In conclusione di capitolo, tuttavia, Machiavelli sposta il discorso dal piano logico a quello irrazionale con una seconda similitudine, che paragonando la fortuna a una donna finisce con il restituire all’uomo e alla virtù la possibilità di governare la storia e il proprio destino: il successo, come osserva più volte Machiavelli, arride più spesso e contro ogni ragione agli impetuosi, a chi è animato da una volontà risoluta e tenace. Non si tratta, tuttavia, di una risposta logica e razionalmente motivata, quanto piuttosto di uno scatto della volontà, che non si rassegna al pessimismo. In conclusione, la visione di Machiavelli, manifesta ancora fiducia nella capacità umana di opporsi alla fortuna e, in qualche caso, di vincerla. Dunque, l’etica personale e collettiva dell’Europa si è costruita, attraverso i secoli che vanno dall’antichità greco-latina all’avvento del Cristianesimo fino al Rinascimento, sulla convinzione che la felicità e il successo dipendano dalla capacità di coltivare le virtù, dal nostro impegno e dalla nostra volontà: la virtù vince la cattiva sorte. Nella società attuale, viceversa, vessata da una profonda crisi economica e finanziaria, la dialettica tra virtù e fortuna pare propendere sempre più per la fortuna: la ricerca della felicità e del successo sono sempre meno legati al valore individuale, alle doti intellettuali, morali e pragmatiche di un individuo. Proliferano Laboratorio per l’esame 8 Conclusione Si attualizza l’argomento e si ribadisce la tesi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 trasmissioni televisive basate su promesse di arricchimenti facili, gratta e vinci, slot machine, lotterie; si tentano le speculazioni in borsa, alla ricerca dell’investimento fortunato. È la cultura della fortuna, oggi in forte crescita, ad allontanarci dall’idea delle virtù e del lavoro, a prometterci, illudendoci, che ci si possa arricchire senza sforzo, che si possa ottenere il successo senza grande impegno, per un bizzarro e felice gioco del caso. Così facendo, però, rimandiamo il tempo della responsabilità individuale e collettiva, delle virtù pubbliche e dei progetti comuni, continuando ad attenderci la salvezza dall’esterno, da una forza a noi estranea. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 9 laboratorio per l’esame Volume 1, p. 869 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Erasmo e Ariosto: il tema della pazzia» seguendo la Traccia di lavoro che si trova alla pagina 869. • Erasmo da Rotterdam, La follia funesta e la follia benefica (• T83) • Ludovico Ariosto, La pazzia di Orlando (• T114) • Ludovico Ariosto, Astolfo sulla luna (• T115) Schedatura dei documenti •T83 Erasmo da Rotterdam, La follia funesta e la follia benefica Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Vi sono due specie di follia: la prima è quella che dall’inferno mandano di nascosto le furie vendicatrici ogni volta che […] gettano nel cuore umano furor di guerra, sete insaziabile di oro, passioni immonde e scellerate, parricidi, incesti, sacrilegi e delitti di tal fatta; […] tormentano di rimorsi chi sa d’aver commesso gravi colpe. Ma esiste un’altra forma di follia […] che ha origine da me, ed è la cosa più desiderabile che si possa immaginare. E questa si ha ogni volta che un giocondo errore, una specie di alienazione mentale, non solo libera l’animo dallo stringimento di quegli affanni, ma lo inonda di varia, inesauribile voluttà. È questa forma di alienazione che augurava a se stesso Cicerone […]! Né la pensava male quel Greco […]. Vero è però che non ho ancor ben stabilito se chiamar follia ogni errore della mente e dei sensi […]; se uno invece si sbaglia non solo nella sensazione, ma anche nel giudizio dell’intelligenza, e ciò di continuo e contro l’usanza generale, questi sì che partecipa di me, cioè della pazzia […]. Tal genere di follia però, nel caso che, come avviene comunemente, inclini al piacere, è di spasso straordinario non solo per chi ne è preso, ma anche per quelli che stanno a contemplarlo, e non per questo sono pazzi! Tal genere di follia infatti abbraccia un numero di casi molto maggiore che non creda la gente. Il trattato è in forma di monologo di un personaggio fittizio, la Follia appunto, la quale tesse il proprio elogio, non essendosi presentato nessun altro disposto a farlo. Trattato (periodo storico 1511). È bene ricordare le difficoltà di interpretazione insite nell’operetta erasmiana, che nascono dall’impossibilità di comprendere se quanto afferma la Follia, la quale tesse da sé il proprio elogio, debba essere interpretato alla lettera o se, essendo l’asserzione di un folle, vada piuttosto rovesciato nel suo significato Erasmo distingue tra una follia funesta, che nasce dalle profondità dell’inconscio e alimenta le passioni più turpi e gli istinti delittuosi, e una follia benefica, che sottrae l’animo dalle costrizioni e dalle convenzioni sociali e procura un inesauribile piacere. A conferma dei benefici effetti di questa pazzia positiva, la Follia chiama in causa l’autorità dei classici latini, citando Cicerone e Orazio. Idea centrale La distinzione fra due tipi di follia, il primo funesto e negativo, il secondo positivo e benefico. Messaggio dell’autore L’invito a distinguere tra follia funesta e follia benefica, sfuggendo la prima e accogliendo con piacere la seconda. La pazzia benefica non va identificata con un errore prodotto dai sensi o dall’interpretazione della mente: essa consiste piuttosto in un rovesciamento nella percezione della realtà, uno strumento di lettura dell’universo che genera gioia e piacere non solo in chi lo vive in prima persona, ma anche in chi vi assiste. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •T114 Ludovico Ariosto, La pazzia di Orlando Testo […] Fu allora per uscir del sentimento, / sì tutto in preda del dolor si lassa. / Credete a chi n’ha fatto esperimento, / che questo è ’l duol che tutti gli altri passa. […] Poi ch’allargare il freno al dolor puote / (che resta solo e senza altrui rispetto), / giù dagli occhi rigando per le gote / sparge un fiume di lacrime sul petto: / sospira e geme, e va con spesse ruote / di qua di là tutto cercando il letto; / e più duro ch’un sasso, e più pungente / che se fosse d’urtica, se lo sente. […] L’accese sì, ch’in lui non restò dramma / che non fosse odio, rabbia, ira e furore; / né più indugiò […]. Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, / e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. / Senza cibo e dormir così si serba, / che ’l sole esce tre volte e torna sotto. / Di crescer non cessò la pena acerba, / che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. […] E cominciò la gran follia, sì orrenda, / che de la più non sarà mai ch’intenda. Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali La prima parte dell’episodio si concentra sull’analisi degli eventi, degli stati d’animo di Orlando e degli autoinganni per celare a se stesso una verità crudele. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). Occorre ricordare il legame dell’Orlando furioso con la precedente tradizione letteraria cavalleresca: Ariosto sceglie, in particolare, di proseguire la narrazione della vicenda di Orlando là dove Matteo Maria Boiardo, letterato attivo alla corte ferrarese nella seconda metà del Quattrocento, l’aveva interrotta nell’Orlando innamorato. Il tema centrale del poema è la pazzia, come preannuncia il titolo dell’opera definendo il protagonista furioso, e come conferma la collocazione dell’episodio dell’uscita di senno del paladino a metà dei quarantasei canti del poema. Nel corso della narrazione sono, inoltre, descritte le “follie” di molti altri personaggi: si pensi alla disperazione di Rinaldo, alla gelosia di Bradamante, all’ira smisurata di Rodomonte. Neppure il poeta si sottrae alla generale e dilagante pazzia, come conferma la seconda ottava del Proemio, in cui si dichiara vittima di un’insania amorosa assai simile a quella di Orlando. In prima battuta il poeta, mosso dalla sincera partecipazione al dolore del protagonista, stabilisce un confronto con la propria esperienza d’amore, per la quale ha rischiato anch’egli di perdere il senno. Nella seconda parte domina, invece, il motivo della follia di Orlando: simile a una belva, perduto l’uso della parola, egli vaga nudo per le selve, dorme sotto le stelle, infuria contro piante, animali e uomini. Le manifestazioni della follia di Orlando sono descritte utilizzando le figure retoriche dell’iperbole e dell’enumerazione, che scandiscono l’esplosione della pazzia di Orlando, il susseguirsi di pensieri e di azioni sempre più irrazionali e incontrollate. Nell’animo del poeta e del lettore subentra un crescente distacco, che si traduce in disagio, pena e infine derisione: le folli gesta di Orlando sono ora ironicamente definite eccelse. Idea centrale La presentazione della pazzia di Orlando, il più valoroso paladino del ciclo carolingio. Messaggio dell’autore La passione è un sentimento positivo, il quale deve però esprimersi in armonia con la ragione; quando prevalgono l’istinto e l’irrazionalità, cultura e convivenza civile sono perdute. In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in ogni senso. […] Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse, / ch’un alto pino al primo crollo svelse; / e svelse dopo il primo altri parecchi, / come fosser finocchi, ebuli o aneti […]. Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •T115 Ludovico Ariosto, Astolfo sulla luna Testo […] Da l’apostolo santo fu condutto / in un vallon fra due montagne istretto, / ove mirabilmente era ridutto / ciò che si perde o per nostro difetto, / o per colpa di tempo o di Fortuna: / ciò che si perde qui, là si raguna. […] Lungo sarà, se tutte in verso ordisco / le cose che gli fur quivi dimostre; / che dopo mille e mille io non finisco, / e vi son tutte l’occurenzie nostre: / sol la pazzia non v’è poca né assai; / che sta qua giù, né se ne parte mai. […] Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, / che mai per esso a Dio voti non ferse; / io dico il senno: e n’era quivi un monte, / solo assai più che l’altre cose conte. Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Il mondo lunare descritto da Ariosto è il regno delle cose vane, che il poeta concentra in un solo luogo e si dilunga a elencare allo scopo di evidenziare, con spirito polemico, la vanità dei desideri, delle speranze, dei progetti degli uomini. L’opposizione tra la follia, che non lascia mai la Terra, e il senno, che spicca per quantità fra le cose perdute e ammassate sulla Luna, induce a concludere che la pazzia è la condizione universale dell’umanità: tutti gli uomini sono folli, persino coloro che sono considerati saggi e sapienti. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). Si può precisare che anche il paladino Astolfo d’Inghilterra non è un’invenzione ariosteca, ma un personaggio ripreso dalla precedente tradizione dei cantari quattrocenteschi e reso celebre dal poema del Boiardo. Idea centrale La vanità e la follia sono le principali caratteristiche del mondo terreno e dell’umanità. Messaggio dell’autore L’invito ad agire con moderazione, razionalità e consapevolezza dei propri limiti. Dalla follia si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo: l’incoerenza e l’irrazionalità dell’esistenza sono per Ariosto l’unica prospettiva reale. […] Del suo gran parte vide il duca franco; / ma molto più maravigliar lo fenno / molti ch’egli credea che dramma manco / non dovesse averne, e quivi denno / chiara notizia che ne tenean poco. […] Astolfo tolse il suo; che gliel concesse / lo scrittor de l’oscura Apocalisse. […] E par che […] / Turpin da indi in qua confesse / ch’Astolfo lungo tempo saggio visse; / ma ch’uno error che fece poi, fu quello / ch’un’altra volta gli levò il cervello. […] Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 Saggio breve Stesura Struttura La follia, tra furia e saggezza Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Cosa ha a che fare la pazzia con il Rinascimento, età dell’armonia, dell’equilibrio, del dominio razionale delle passioni? Eppure, per una sorta di attrazione degli opposti, è proprio la riflessione sulla follia ad assumere nella cultura umanistico-rinascimentale un’importanza straordinaria, come testimoniano due opere in questo senso fondamentali: l’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam e l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Quale significato assume nel Rinascimento il termine follia, cui alludono esplicitamente i titoli appena citati? Problema Quale concezione della follia si afferma nel Rinascimento? La sua definizione ha inevitabilmente subito nel corso dei secoli l’influenza dei modelli culturali e delle convenzioni sociali dominanti, al punto che in un determinato contesto si è ritenuto folle qualcosa o qualcuno che in un tempo e in un luogo diverso è invece apparso come normale, e viceversa. Nella lontana antichità, la follia rappresenta un tramite verso gli dei, un mezzo per entrare in comunicazione con il divino, e come tale riceve ascolto e attenzione. Anche nel Medioevo essa conserva un forte legame con il trascendente: il folle continua a essere colui che, oltrepassando i limiti della logica terrena, entra in contatto con una diversa dimensione del reale per scoprirvi segreti misteriosi o rivelazioni religiose. All’interno di una cultura fortemente cristiana, il folle è considerato l’immagine terrena di una realtà ultraterrena, quella di Cristo inviato dal Padre sulla terra per cancellare il peccato originale, ed è accolto nella società come parte costitutiva di essa. Il concetto di pazzia assume, inoltre, fin dal Medioevo, una connotazione duplice e ambivalente: nell’accezione positiva, essa rappresenta la maggiore propensione e apertura all’incontro mistico con Dio, il rifiuto della razionalità e della logica terrena in nome dell’insondabile mistero divino, il quale comunemente sfugge alla comprensione umana. Nell’accezione negativa, la follia diventa il simbolo delle passioni irrazionali e degli istinti più bestiali, che privano l’uomo della dignità della ragione e lo conducono alla perdizione; chi ne è preda deve, dunque, esserne liberato ed esorcizzato, persino con la morte sul rogo. Introduzione Soggetto all’influenza dei modelli culturali e delle convenzioni sociali dominanti, il concetto di follia ha assunto nei secoli diversi significati. Il laicismo che caratterizza la cultura rinascimentale modifica per alcuni aspetti la visione medioevale e segna una frattura con il passato: ora la pazzia, privata del suo significato ultraterreno, diventa espressione del disordine umano e terreno. Della concezione precedente sopravvivono, piuttosto, duplicità e ambivalenza: nell’accezione tragica del termine, attraverso la deformazione grottesca e l’abbrutimento animalesco che privano il folle della dignità della ragione umana, la pazzia dà espressione ai mali, alle ansie e alle angosce che caratterizzano l’esistenza degli individui in ogni tempo. In un’accezione positiva, la pazzia, detentrice di un sapere superiore, si fa satira morale e si accanisce come punizione derisoria e sbeffeggiante nei confronti delle convenzioni e delle costrizioni sociali. Tesi Nel periodo storico considerato, è possibile individuare due fondamentali interpretazioni della follia: una di tipo tragico, l’altra di tipo critico e satirico. È emblematica della concezione rinascimentale della follia la distinzione proposta da Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della pazzia (1511), monologo di un personaggio fittizio e di dubbia attendibilità, la Follia appunto, la quale tesse il proprio elogio, non essendosi presentato nessun altro disposto a farlo per lei. È proprio la Follia a distinguere fra un’insania tragica e funesta, che dall’inferno mandano di nascosto le furie vendicatrici, la quale nasce dalle profondità dell’inconscio e alimenta le più turpi passioni e gli istinti delittuosi dell’individuo, per poi gettarlo in pasto ad atroci rimorsi; e una follia positiva e benefica, un giocondo errore, una specie di alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzione e alle costrizioni sociali, libera l’animo dallo stringimento di quegli affanni e lo inonda di varia, inesauribile voluttà. Questa seconda forma di pazzia, conclude la Follia, è senza dubbio la cosa più desiderabile che si possa 1° Argomento a favore della tesi Attraverso l’opera di Erasmo da Rotterdam si pone in evidenza la duplicità del concetto di follia. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 immaginare, come confermano le parole di Cicerone, che augurava a se stesso una simile insania, o l’aneddoto del greco uscito di senno narrato nelle Epistole di Orazio. Questa benefica follia, precisa Erasmo, non va tuttavia identificata con un errore prodotto dai sensi o dall’interpretazione della mente: essa consiste piuttosto in un rovesciamento nella percezione della realtà, uno strumento di lettura dell’universo che genera gioia e piacere non solo in chi lo vive, ma anche in chi vi assiste. Parte integrante della realtà dell’uomo, la follia ne migliorerebbe la qualità della vita. La follia si fa portatrice di una capacità critica straordinaria, segno di una conoscenza e di una consapevolezza razionale in grado di rivelare la demenza del mondo “normale” il quale, spinto dalle convenzioni sociali e morali, rincorre falsi ideali e valori rinunciando ad assecondare in modo più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni. La vera mancanza di senno, pare dirci la Follia, è da ricercare piuttosto tra i cosiddetti savi, coloro che, dotati di certezze incrollabili e di punti di vista unilaterali, rinunciano a sperimentare questa suprema forma di saggezza. Sulla linea della contraddizione e del paradosso sta anche l’interpretazione della follia proposta da Ariosto nell’Orlando furioso. Il titolo del poema, che con il riferimento a Orlando sottolinea il collegamento con la tradizione cavalleresca, evidenzia fin da subito il tema della “furia”, della follia cieca e rabbiosa che trasforma le vicende del più grande paladino di Francia in paradigma della generale pazzia umana. Tema centrale del poema è proprio la follia, come confermano la collocazione dell’episodio dell’uscita di senno a metà dei quarantasei canti che compongono il Furioso e la descrizione delle insane gesta di molti altri personaggi: si pensi alla disperazione di Rinaldo, alla gelosia di Bradamante, all’ira smisurata di Rodomonte. Neppure il poeta si sottrae alla generale e dilagante follia, come conferma nella seconda ottava del Proemio, in cui si dichiara vittima di un’insania amorosa simile a quella di Orlando. Alle radici della furia del paladino stanno, infatti, il desiderio per Angelica e la gelosia scatenata dalla tragica scoperta del tradimento: la passione è un sentimento positivo, pare dirci Ariosto, che deve però esprimersi in armonia con la ragione; quando a prevalere sono l’istinto e l’irrazionalità, cultura e convivenza civile sono perdute. Il senno di Orlando, finito sulla Luna nel vallone dove si raccoglie tutto ciò che gli uomini comunemente perdono sulla Terra, viene recuperato da Astolfo e restituito al paladino nel canto XXXIX. Il mondo lunare descritto da Ariosto è il regno delle cose vane elencate per evidenziare, con spirito polemico, la vanità dei desideri, delle speranze e dei progetti degli uomini. In particolare, è significativa l’opposizione tra la follia, che non abbandona mai la Terra ed è dunque assente sulla Luna, e il senno, che spicca per quantità fra le cose perdute e ammassate nel cielo-deposito lunare. Il lettore è dunque indotto a concludere che la pazzia è la condizione universale: tutti gli individui sono pazzi, chi più chi meno, inclusi coloro che sulla Terra sono ritenuti saggi e sapienti. Dalla follia si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo il quale, recuperato il proprio senno sulla Luna, finirà in seguito per perderlo nuovamente. Incoerenza e irrazionalità, sembra concludere il poeta, sono l’unica condizione reale sulla Terra. Ariosto pare, dunque, considerare la follia un’abituale compagna di vita e di avventura, imprescindibile dalla natura umana: in linea con la mentalità laica del Rinascimento, egli ritiene che essa non abbia nulla di divino o di diabolico, ma costituisca piuttosto una modalità esistenziale dell’uomo. Accade, però, che talvolta l’individuo oltrepassi il limite della “normale pazzia” e venga trascinato dal sentimento, dalle furie vendicatrici di cui parlava Erasmo, diventando “furioso”: ciò avviene soprattutto quando egli è incapace di accettare che non potrà raggiungere l’oggetto del suo desiderio, quando non riesce ad adeguarsi alle folli bizzarrie del caso, che conduce gli eventi verso un esito diverso da quello sperato. Al manifestarsi, nel poema, di una simile follia, funesta e negativa, l’iniziale e sincera partecipazione al dramma di Orlando cede il campo, nell’animo del poeta così come in quello del lettore, a un crescente distacco, che si traduce in pena, disagio e infine derisione. Proprio nell’ironia di Ariosto è possibile riconoscere il lato positivo della follia, la sua capacità critica e dissacrante nei confronti delle regole morali e delle convenzioni sociali che imprigionano l’individuo in un ruolo innaturale, che non gli corrisponde. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 2° Argomento a favore della tesi Attraverso esempi tratti dall’opera di Ariosto si evidenzia il persistere della concezione ambigua e paradossale della follia attraverso il Rinascimento. Laboratorio per l’esame 5 In conclusione, l’età rinascimentale eredita dai secoli precedenti la compresenza nel concetto di pazzia di due aspetti contrastanti e contraddittori: l’esperienza tragica della follia, la furia cieca che si manifesta nella deformazione grottesca e nell’abbrutimento dell’individuo, privato della dignità della ragione; l’esperienza critica della follia, detentrice di un sapere superiore da cui hanno origine forme di satira pungente nei confronti delle convenzioni e delle costrizioni sociali che impediscono all’uomo di assecondare in modo più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni. A partire dal Rinascimento, tuttavia, le due esperienze della follia cominceranno lentamente a separarsi, generando una frattura che non sarà mai più colmata e che l’età moderna contribuirà a esasperare, tentando di ignorare il lato tragico dell’insania e valorizzando in forma sempre più esclusiva quello critico. Laboratorio per l’esame 6 Conclusione Si ribadisce la tesi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 875-877 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Ariosto: intellettuale cortigiano» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 875-877. • Roberto Pazzi, Ariosto e il cardinale Ippolito (• D1) • Ludovico Ariosto, Se avermi dato onde ogni quattro mesi (• D2) • Ludovico Ariosto, La dedica encomiastica (• D3) • Ludovico Ariosto, I versi adulatori (• D4) Schedatura dei documenti •D1 Roberto Pazzi, Ariosto e il cardinale Ippolito Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Il cardinale Ippolito, […] uomo quanto meno poco portato per la carriera ecclesiastica, se in un attacco di gelosia per rivalità d’amore non esitò a far accecare in un agguato notturno il fratellastro Giulio, […] era maniaco dell’artiglieria, costretto alla porpora per motivi politici dal padre […]. Dunque il poco mistico cardinale, dopo aver ascoltato in una delle sale del Castello Estense alcuni episodi dell’Orlando furioso, eccolo uscire con un’incredibile domanda: «Messere Ludovico, dove mai siete andato a trovare tante coglionerie?». Al cardinale garbava più del Lodovico poeta, il segretario particolare, che doveva sfilargli gli stivali la notte, prepararlo a coricarsi togliendogli la casacca, scrivergli le lettere. […] L’impertinente domanda rivela in sostanza […] il terribile potere dell’Immaginazione di scardinare i pilastri della realtà, rivelando forze della creatività che il Potere non sa controllare […]: reazione che non saprei definire se più stolta o impaurita. L’articolo ritrae le caratteristiche psicologiche e morali del mecenate di Ariosto, Ippolito d’Este, uomo crudele e vendicativo, cardinale per ragioni esclusivamente politiche. Incapace di riconoscere il valore poetico del Furioso, il cardinale apprezza maggiormente Ariosto come segretario particolare, impegnato in umili mansioni, anziché nel ruolo di scrittore di corte. Articolo (periodo storico 15 novembre 2005). Occorre ampliare le informazioni sul modello di intellettuale che si afferma tra Quattro e Cinquecento presso le maggiori corti italiane, illustrando, in particolare, le condizioni di vita e di lavoro di artisti e letterati cortigiani. L’autore prospetta, tuttavia, una seconda interpretazione, secondo la quale la rozza reazione dell’estense alla lettura del Furioso sarebbe scatenata non tanto dal disprezzo, bensì dalla paura: il cardinale avrebbe forse intuito nel poema la forza dirompente ed eversiva della parola e dell’immaginazione che nessuna autorità, nessun potere è in grado di controllare. Idea centrale Il difficile rapporto di Ariosto con il cardinale Ippolito d’Este, suo mecenate e protettore. Messaggio dell’autore L’incapacità del cardinale di riconoscere e apprezzare il talento poetico di Ariosto e il valore del suo capolavoro letterario. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 È, inoltre, opportuno evidenziare la natura ambivalente del rapporto che si stabilisce tra mecenate e uomini di cultura: se la vita a corte da un lato garantisce benessere economico, la possibilità di frequentare un ambiente, raffinato e ricco di stimoli creativi e rapporti culturali, dall’altro comporta condizionamenti e pressioni ideologiche, pretese di controllo assoluto, richieste di prestazioni pratiche. Occorre, infine, fare riferimento all’esperienza personale di Ariosto in qualità di intellettuale cortigiano, dapprima al servizio del cardinale Ippolito d’Este (dal 1504 al 1517), poi alle dipendenze del duca Alfonso (dal 1517 fino alla morte). Laboratorio per l’esame 1 •D2 Ludovico Ariosto, Se avermi dato onde ogni quattro mesi Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Se avermi dato onde ogni quattro mesi / ho venticinque scudi, né sì fermi / che molte volte non mi sien contesi, / mi debbe incatenar, schiavo tenermi, / ubligarmi ch’io sudi e tremi senza / rispetto alcun, ch’io moia o ch’io me ’nfermi, / non gli lasciate aver questa credenza; / ditegli che più tosto ch’esser servo / torrò la povertade in pazienza. / Uno asino fu già […] / gli disse un topolino […]. / Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro / Cardinal comperato avermi stima / con li suoi doni, non mi è acerbo et acro / renderli, o tor la libertà mia prima. Indirizzata al fratello minore Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, entrambi al servizio di Ippolito d’Este, la satira giustifica il rifiuto di Ariosto di seguire il cardinale in Ungheria a causa della situazione familiare e della salute del poeta. Satira (periodo storico 1517). È opportuno ampliare le informazioni sulle Satire, sette componimenti in terzine dantesche indirizzati fra il 1517 e il 1525 ad amici e conoscenti: esse traggono ispirazione da situazioni o avvenimenti autobiografici, dai quali ricavano considerazioni morali, su vizi e virtù degli uomini. Lo stipendio e i benefici economici non sono sufficienti a comprare la libertà e la dignità di Ariosto, il quale non esita a dirsi pronto a rinunciarvi in nome della propria indipendenza. La polemica denuncia delle umiliazioni e dei compromessi imposti dalla condizione di intellettuale cortigiano (incatenar, far schiavo, sudi e tremi senza rispetto alcun) è in parte attenuata dalla favola, ispirata a Fedro, dell’asino ingordo (l’avido cortigiano) e del topolino saggio (il ravveduto intellettuale), dalla quale emerge la morale di Ariosto. Laboratorio per l’esame 2 Idea centrale La rivendicazione della dignità e libertà personali contro i vincoli e il servilismo dell’ambiente di corte. Messaggio dell’autore È preferibile un’esistenza modesta, ma libera da vincoli agli agi economici della vita a corte. La prima satira, in particolare, si ispira alle delicate circostanze verificatesi a corte nell’agosto 1517 in seguito al rifiuto del poeta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, sede del suo vescovado. Ne deriva un polemico resoconto dell’esperienza personale di Ariosto presso la corte estense e, più in generale, dei compromessi che ciascun cortigiano è costretto ad accettare. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D3 Ludovico Ariosto, La dedica encomiastica Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Piacciavi, generosa Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro, / Ippolito, aggradir questo che vuole / e darvi sol può l’umil servo vostro. / Quel ch’io vi debbo, posso di parole / pagare in parte, e d’opera d’inchiostro; / né che poco io vi dia da imputar sono; / che quanto io posso dar, tutto vi dono. La dedica encomiastica, terza parte del Proemio al Furioso dopo protasi e invocazione, mette a fuoco il rapporto esistente fra Ariosto, intellettuale cortigiano che compone versi in onore e per diletto del proprio mecenate, e il Signore, il quale a sua volta deve protezione e rispetto al poeta, la cui opera contribuisce a rendergli eterna fama. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). È bene ricordare la presenza all’interno del Furioso del motivo encomiastico-celebrativo della famiglia d’Este, le cui origini sono ricondotte da Ariosto ai personaggi di Ruggero e Bradamante, dei quali narra la vicenda d’amore. L’ottava è pervasa di una velata ironia, rivolta sia alla pratica cortigiana dell’adulazione, sia a Ippolito d’Este, le cui qualità sono celebrate attraverso iperboli (Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro). Idea centrale La dedica del poema al proprio mecenate. Messaggio dell’autore Il poema è un dono di grande valore, più che adeguato a ricambiare quanto il poeta ha ricevuto dal suo mecenate. Il poeta pare, inoltre, oscillare fra dichiarazioni di umiltà (l’umil servo vostro) e affermazioni sul valore dei propri versi. •D4 Ludovico Ariosto, I versi adulatori Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Ami d’oro e d’argento appresso vede / in una massa, ch’erano quei doni / che si fan con speranza di mercede / al re, agli avari principi, ai patroni. / Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, / et ode che son tutte adulazioni. / Di cicale scoppiate imagine hanno / versi ch’in laude dei signor si fanno. Gli oggetti osservati da Astolfo sulla Luna alludono metaforicamente e con ironia a un ideale o una speranza effimera inutilmente perseguita sulla terra dall’umanità: così, gli ami rappresentano i doni offerti invano ai potenti nella speranza di riceverne una ricompensa; le adulazioni sono trappole nascoste in ghirlande; le cicale scoppiate alludono ai versi adulatori dedicati dai poeti cortigiani ai loro protettori. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). Occorre ampliare le informazioni sull’episodio del viaggio ultraterreno compiuto nel XXXIV canto del Furioso dal paladino Astolfo d’Inghilterra: giunto sulla Luna alla ricerca del senno di Orlando, egli vi scopre una sorta di deposito dove si accumula tutto ciò che gli uomini perdono sulla Terra. Idea centrale La denuncia ironica del servilismo, dell’avidità, dell’adulazione che dominano nella vita di corte. Messaggio dell’autore La distinzione fra vera poesia e mera adulazione. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 Saggio breve Stesura Struttura Ariosto: saggio topolino o cicala scoppiata? Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del contenuto del saggio. Ludovico Ariosto incarna forse più di qualunque altro letterato dell’età umanistico-rinascimentale il modello dell’intellettuale cortigiano: la sua carriera letteraria si svolge, infatti, interamente all’interno dell’ambiente di corte di Ferrara, sede della famiglia estense presso la quale egli presta la propria opera, dapprima alle dipendenze del cardinale Ippolito d’Este, quindi al servizio del duca Alfonso. Introduzione Si sottolinea il legame fra la carriera letteraria di Ariosto e l’ambiente della corte. Quali sono le condizioni di vita e di lavoro che lo accolgono alla corte estense? Quale atteggiamento assume il poeta nei confronti dell’ambiente cortigiano? Problema Ricostruire le reali condizioni di vita e di lavoro del poeta presso la corte estense. Ariosto è consapevole delle regole che vigono a corte, e sembra pienamente accettarle. Egli non ignora la duplicità della propria posizione di intellettuale cortigiano, della quale riconosce privilegi e limiti: la vita a corte da un lato garantisce tranquillità economica, la possibilità di frequentare un ambiente colto, raffinato, ricco di stimoli creativi e di contatti con altri intellettuali; dall’altro comporta condizionamenti e pressioni ideologiche, limitazione della libertà personale, richieste di prestazioni pratiche. Se, infatti, nella sua opera non mancano critiche alla vita di corte, all’interno della quale predominano servilismo, adulazione e invidie, appare altrettanto evidente che egli ritiene pressoché inevitabile per un uomo di cultura del Cinquecento porsi a servizio presso un Signore, esperienza dalla quale cerca di ricavare i massimi vantaggi. Tesi Si afferma la piena consapevolezza, da parte di Ariosto, dei vincoli e dei privilegi che la condizione di intellettuale cortigiano implica, che egli pare accettare. Fra XV e XVI secolo entra, infatti, definitivamente in crisi la realtà politica del comune, le cui istituzioni si sono rivelate incapaci di assicurare la pace ai cittadini, impedire le lotte interne fra fazioni e classi sociali, porre fine alle guerre con i comuni vicini. Ad essa subentra la Signoria, forma di governo che attribuisce un potere vitalizio ed ereditario a una singola persona. L’accentramento dei poteri e la conseguente necessità di controllare ogni aspetto della vita dello Stato crea nuove strutture di governo e dà vita a un nutrito numero di funzionari, consiglieri e uomini di cultura, i quali diventano strumento di espressione del volere del signore. Nasce, così, la nuova realtà della corte, un selezionato gruppo di prestigiosi artisti e intellettuali al servizio del Signore il quale produce atteggiamenti e interventi volti a ottenere il consenso dei sudditi e a guadagnare il favore del popolo. Il mecenatismo dei principi sopperisce, in tal modo, alla crisi delle istituzioni municipali e al conseguente declino della figura dell’intellettuale comunale, che partecipa attivamente alla gestione dello Stato e si dedica alla letteratura solo saltuariamente e per diletto personale. Il legame che dal Quattrocento unisce gli uomini di cultura al principe favorisce la nascita di un nuovo modello di intellettuale, quello cortigiano: ora sono i Signori i principali datori di lavoro di artisti e letterati. Ma quali sono le condizioni di vita e di lavoro degli intellettuali presso le più importanti corti d’Italia? Per alcuni di loro il prestigio è tale da giustificare la generosità del mecenate. Per altri, la vita a corte implica, nonostante il riconoscimento del loro valore di letterati, la richiesta di svolgere prestazioni pratiche più o meno impegnative e saltuarie: Ariosto appartiene appunto a questo gruppo. A corte vive, infine, un ampio numero di funzionari stipendiati, che solo marginalmente si dedicano all’attività letteraria. In che modo e in quale misura la dipendenza dal principe mecenate condiziona il pensiero dell’intellettuale? Da un alto, è indubbio che il regime signorile orienti l’attività della corte verso la difesa degli interessi delle oligarchie dominanti, condizionando ideologicamente gli intellettuali; dall’altro, la corte rinascimentale offre agli uomini di cultura opportunità economiche e protezione che altrove, nel contesto politico-istituzionale dell’epoca, difficilmente potrebbero trovare. Va, poi, ricordato che scrittori e artisti provengono di norma dalle file dell’aristocrazia, per cui non faticano a condividerne l’ideologia. 1° Argomento a favore della tesi Si pone in evidenza come la corte rappresenti in età umanistico-rinascimentale l’unica valida alternativa al declino della realtà comunale e costituisca, pertanto, per gli uomini di cultura una scelta inevitabile. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Negli anni trascorsi al servizio degli Este i versi delle Satire e del Furioso ci mostrano un Ariosto all’apparenza integrato nel sistema di corte, impegnato, tra mansioni pratiche e attività letteraria, a consolidare il proprio ruolo sociale e a garantirsi la tranquillità economica. Egli pare accettare e rispettare le norme che regolano la vita presso la corte ferrarese: le sue opere esaltano l’istituzione monarchica e la società rigidamente gerarchizzata del Cinquecento, condividono i valori della classe dominante, celebrano le gesta di eroi di estrazione aristocratica, si rivolgono al pubblico di corte, nobile e selezionato. Ariosto non manca, tuttavia, di sollevare una polemica sulla mancanza di libertà personale, sull’adulazione ipocrita ed esagerata dei cortigiani, sull’aspirazione all’otium letterario che stipendio e benefici economici non gli garantiscono. È significativa la prima Satira, la quale coincide con un momento difficile della carriera cortigiana del poeta: Ariosto si è rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito, il quale lo ha minacciato di privarlo dei benefici e delle rendite in precedenza procurate. Ispirandosi a questi avvenimenti autobiografici, il poeta rappresenta in tono realistico e polemico le umiliazioni e i compromessi impostigli dalla condizione di intellettuale cortigiano, non senza rivendicare il proprio diritto alla dignità e alla libertà personale. Ai vincoli e al servilismo della vita a corte egli dichiara di preferire un’esistenza ben più modesta ed afferma di essere pronto a rinunciare ad agi e benefici in nome dell’indipendenza. La polemica risulta, tuttavia, smorzata nei toni dall’apologo ispirato alle favole di Fedro, che racconta in termini allegorici la storia dell’asino ingordo, simbolo dell’avidità dei cortigiani, e del topolino saggio, figura dell’intellettuale ravveduto, che suggerisce al primo di rinunciare all’abbondanza di cibo trovata in prigione, l’ambiente di corte, per ritornare “magro” e riconquistare la perduta libertà. Obiettivo del bonario attacco polemico sembra, quindi, essere il desiderio di ottenere dal proprio mecenate un trattamento privilegiato, in virtù delle straordinarie capacità letterarie di cui Ariosto ha dato continue dimostrazioni. Del resto, più volte nei suoi versi il poeta mette in dubbio l’effettiva capacità del proprio Signore di riconoscere il vero talento poetico, di distinguere i poeti dagli adulatori, quelle cicale scoppiate che sulla superficie lunare rappresentano agli occhi del paladino Astolfo i versi lusinghieri dedicati ai potenti nella speranza di una ricompensa (Orlando Furioso, XXIV, LXXVII), secondo l’arte che più tra i cortigiani si studia e cole, l’adulazione (Satira I, vv. 7-8). Ariosto è pienamente consapevole del disprezzo che il cardinale manifesta verso la sua attività letteraria, alla quale preferisce i servizi e le mansioni pratiche a cui costringe il poeta: S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, / dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; / più grato fora essergli stato appresso (Satira I, vv. 106-108). Quindi, si comprende la sottile ironia che percorre la dedica del Furioso a Ippolito d’Este, oscillante fra dichiarazioni di umiltà (l’umil servo vostro) e sicure affermazioni del valore della propria poesia (Quel ch’io vi debbo […] / tutto vi dono): nella terza ottava del Proemio Ariosto chiede a un mecenate immerso in alti pensier, che ne impegnano continuamente l’attenzione, di concedere un po’ di spazio ai propri versi. 2° Argomento a favore della tesi Attraverso esempi tratti dall’opera di Ariosto si evidenzia come l’oscillare fra polemica e celebrazione costituisca un espediente per migliorare la propria condizione a corte. Tuttavia, finché fu in vita Ariosto non ottenne mai il riconoscimento agognato, nonostante il talento poetico e il successo decretato dal pubblico al poema. Come suggerisce Roberto Pazzi in un articolo apparso sul “Resto del Carlino” qualche anno fa, furono forse la paura e il risentimento che dovettero cogliere il suo mecenate, così come i potenti dell’epoca, di fronte all’insopprimibile libertà della fantasia e della scrittura poetica a impedirgli di attribuire al poeta un degno riconoscimento. Conclusione Si propone un bilancio della carriera cortigiana di Ariosto. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 921-922 Analisi del testo Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 921-922. • Torquato Tasso, Qual rugiada o qual pianto (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo Quale rugiada o quale pianto, quali lacrime erano quelle che vidi cadere dalla volta del cielo notturno e dal luminoso volto delle stelle? E perché la bianca luna ha disseminato una pura nube di gocce cristalline in grembo all’erba fresca? Perché nell’aria oscura della notte si udivano le brezze, simili a lamenti, spirare tutt’intorno fino al sorgere del giorno? Furono forse presentimenti della tua partenza, o vita della mia vita? 2. Analisi del testo 2.1 Forma di poesia per musica, il madrigale nasce nel Trecento come genere di argomento per lo più amoroso, al quale Petrarca per primo riconosce dignità letteraria, inserendolo nel Canzoniere. Nel Cinquecento esso presenta forme radicalmente diverse ed è caratterizzato da una grande libertà metrica, sia nell’alternanza di endecasillabi e settenari, sia negli schemi delle rime. Tasso impiega numerosi strumenti metrici e retorici per infondere al madrigale in esame una musicalità languida e malinconica, in pieno accordo con lo stato d’animo a cui egli intende dare voce: in una struttura che si fa innanzitutto musica, il contenuto, pur sempre omogeneo, passa spesso in secondo piano rispetto al susseguirsi delle immagini e dei suoni. I dodici versi del componimento in esame, endecasillabi e settenari variamente alternati e rimati, sono caratterizzati dallo schema metrico abABCDdcEeFf: la rima baciata collega sempre un endecasillabo a un settenario, generando un effetto di eco. Ricorre spesso l’enjambement (vv. 2-3, 8-9, 9-10), che spezzando la frase crea una temporanea sospensione nel fluire dei versi, rallentandone il ritmo. Alla musicalità dolce e malinconica concorrono, inoltre, le ripetizioni lessicali (qual ai vv. 1 e 2; perché ai vv. 5 e 8; intorno al v. 9; vita al v. 12) e sonore: frequente l’iterazione della consonante liquida l, come al verso 6, dove le cristalline stille richiamano per paronomasia le stelle del verso 4. La coppia aggettivo-sostantivo, ricorrente nella prima parte de madrigale (notturno manto, candido volto, bianca luna, cristalline stille, puro nembo), è rovesciata nella seconda parte, dove prevale l’accostamento sostantivo-aggettivo (erba fresca, aria bruna). Diffusa l’inversione dell’ordine abituale degli elementi all’interno della frase, per cui il predicato verbale precede spesso il soggetto (seminò la bianca luna), il complemento di specificazione anticipa il termine a cui si riferisce (di cristalline stille un puro nembo). 2.2La struttura sintattica, nel susseguirsi di frasi interrogative la cui lunghezza decresce per quantità di versi (rispettivamente 4, 3, 3 e 2), contribuisce a creare un effetto musicale trasognato e malinconico. Alle domande che percorrono il componimento pare dare risposta l’interrogativa finale, la quale suggerisce la partecipazione del paesaggio notturno al malinconico presagio dell’io lirico: l’identificazione fra scenario naturale e stato d’animo non è, tuttavia, affermata con certezza, bensì presentata come dubbio (forse). 2.3È segni la parola-chiave che pone in evidenza il legame fra la vicenda di separazione dall’amata vissuta dal poeta e una natura partecipe e fortemente umanizzata: così, la rugiada si trasforma in pianto e lacrime, le brezze notturne in sospiri e lamenti di dolore; la natura addolorata pare annunciare la partenza dell’amata. Sono soprattutto le scelte lessicali e le metafore (il manto della notte, il candido volto delle stelle, il grembo dell’erba fresca) a sottolineare questo processo di identificazione tra io lirico e paesaggio naturale. La partecipazione della natura alle vicende del poeta è tradotta in termini visivi grazie a un sapiente uso dei colori: il poeta tratteggia, infatti, un paesaggio in bianco e nero, dominato dal contrasto fra luce e ombra, fra chiaro e scuro, che suggerisce atmosfere crepuscolari, pervase di malinconia; al notturno manto del cielo si contrappone il candido volto delle stelle, alla bianca luna l’aria bruna della notte. Alle sensazioni visive si mescolano, inoltre, percezioni uditive (i sospiri delle brezze e i suoni malinconici della lirica) e tattili (la freschezza dell’erba). 2.4Il madrigale propone una situazione tipicamente petrarchesca: esso descrive l’intimo e solitario colloquio dell’io lirico con il paesaggio naturale, il quale funge da “specchio” all’interiorità del poeta. Il dolore per la partenza della donna amata è, così, trasferito allo scenario naturale: i fenomeni notturni diventano segni della commossa partecipazione della natura alla malinconica nostalgia del poeta. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Tra i motivi che muovono più profondamente l’ispirazione del Tasso vi è senza dubbio la partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. Si pensi, ad esempio, all’episodio della fuga di Erminia con cui si apre il canto VII della Gerusalemme liberata, all’interno del quale lo scenario naturale costituisce lo strumento di espressione privilegiato per l’interiorità fragile e tormentata dell’eroina pagana. In fuga da Gerusalemme, in preda alla sofferenza causata dall’amore non ricambiato per Tancredi, ella si lascia condurre dal suo cavallo fra gli alberi ombrosi dell’antica selva, vagando senza meta in preda al proprio dolore, finché al tramonto ella giunge sulle rive del Giordano, dove si addormenta. Il paesaggio idilliaco che la principessa pagana scopre al suo risveglio, ritratto secondo i canoni della tradizione e denso di echi letterari, assume un carattere immediatamente rasserenante, che si contrappone all’atmosfera violenta e crudele della guerra dalla quale ella fugge. Analoga la funzione simbolica del paesaggio naturale nell’Aminta, dramma pastorale che ambienta la vicenda d’amore del pastore Aminta per la ninfa Silvia in una cornice naturale la quale è, nelle intenzioni dell’autore, la trasposizione idealizzata della brillante vita di corte. La storia di Aminta è un invito a evadere dalle ansie del presente per rifugiarsi in un modo fantastico, in cui sia possibile vivere in armonia con la natura, aspirando alla felicità e alla bellezza. In un simile contesto, il locus amoenus che fa da scenario alle vicende, un paesaggio idealizzato fatto di cieli limpidi, prati fioriti, limpidi ruscelli, alberi generosi di ombre, uccelli canterini e brezze fresche e leggere, si configura come luogo incontaminato di idilliaca pace, la cui quiete e serenità si contrappongono all’atmosfera violenta e crudele della storia. Lo scenario pastorale incarna, in questo senso, il mito dell’età dell’oro, stagione del mondo in cui l’umanità viveva in pace e serenità, in sintonia con la natura. Emblematica celebrazione di questo paradiso perduto è il coro con cui si chiude il primo atto, pervaso della medesima nostalgia che caratterizza il madrigale in analisi. 3.2Inoltre, è tipicamente petrarchesco il ricorso alla tecnica provenzale del senhal, impiegato, come già nel Canzoniere, al duplice scopo di celare l’identità dell’amata e al tempo stesso suggerirne il nome nei versi: l’espressione l’aure proietta infatti nel paesaggio naturale la bellezza femminile di Laura Peperara, oggetto della passione amorosa di Tasso. Analoga la tecnica messa in atto nel madrigale Ecco mormorar l’onde, nei cui versi risuona in forma di pseudonimo il nome della donna amata (v. 3: […] a l’aura mattutina […]; v. 13: […] l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura […]). Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La stesura del testo Commento Introduzione all’opera e al contesto letterario L’esperienza lirica accompagna l’intera esistenza di Tasso, che compone oltre millesettecento poesie, ispirate alle più diverse occasioni ed espresse nel linguaggio del petrarchismo. Tasso ne avvia la sistemazione in una raccolta organica, progettata secondo un criterio di tipo tematico, che avrebbe dovuto comprendere tre volumi; riuscì a far stampare solo i primi due, le liriche d’amore (1591) e le rime di encomio (1593). Fin dalle prime esperienze giovanili Tasso dimostra la capacità di calare la propria esperienza personale entro i temi e i modi di una tradizione lirica consolidata: i suoi modelli di riferimento sono i classici latini, Petrarca e i maggiori petrarchisti del Cinquecento, che egli tenta comunque di rinnovare e interpretare con originalità, attraverso forme pervase di intensa musicalità esperienze e sentimenti personali e soggettivi. È soprattutto nella predilezione per il genere del madrigale, meno logorato e assai più libero da schemi e convenzioni rispetto al sonetto, che la personalità di Tasso esprime la propria unicità. In nessun altro genere egli avrebbe potuto riconoscere il proprio spazio poetico: nato nel Trecento come poesia per musica di argomento per lo più amoroso, il madrigale riceve proprio da Petrarca, che lo inserisce nel Canzoniere, la prima consacrazione letteraria; esso acquisisce poi nel Cinquecento una maggiore libertà metrica, sia nell’alternanza di endecasillabi e settenari sia negli schemi delle rime, all’interno di una struttura che privilegia rispetto al contenuto il susseguirsi di immagini e di suoni. La produzione madrigalistica del Tasso propone quasi tutti i più ricorrenti topoi della lirica amorosa di tradizione petrarchesca: spiccano, in particolare, i paesaggi naturali delicatamente tratteggiati, in grado di esprimere emozioni e stati d’animo sfumati e complessi, protagonisti privilegiati delle più belle liriche tassiane. Tra i motivi che muovono più profondamente l’ispirazione del Tasso vi è infatti la partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. La capacità di fondere natura e sentimenti arricchisce di sfumature tenui e delicate entrambe le componenti: fugaci attimi di felicità, lievi turbamenti dell’animo, languide malinconie trovano così espressione attraverso la musicalità di cui Tasso sapientemente pervade i propri versi. L’analisi del significato Il madrigale Qual rugiada o qual pianto propone una situazione tipicamente petrarchesca, l’intimo e solitario colloquio dell’io lirico con il paesaggio naturale, che funge da “specchio” alle emozioni del poeta. Di ritorno da un incontro amoroso con colei che sola dà senso alla sua esistenza, immerso in un suggestivo scenario notturno, il poeta presagisce la partenza dell’amata nei fenomeni naturali, pervasi della medesima struggente malinconia che domina il suo animo. Il dolore per la separazione dalla donna che ama, quella Laura Peperara il cui nome riecheggia ne l’aure del verso 10, è così trasferito al paesaggio notturno, all’interno del quale egli crede di leggere i segni di una commossa partecipazione alla propria sofferta nostalgia: la rugiada si trasforma in pianto e lacrime, le brezze notturne in sospiri e lamenti di dolore; la natura addolorata pare annunciare la partenza dell’amata. La struttura Il metodo applicato Indicazioni utili a delineare le caratteristiche generali dell’opera. Notizie ricavate da conoscenze personali. Precisazione del contesto poetico nel quale l’autore ha operato. Enunciazione sintetica del contenuto del sonetto. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Rielaborazione della parafrasi. Informazioni contenute nelle risposte 2.4 e 3.2. Laboratorio per l’esame 3 Protagonisti del madrigale sono, dunque, le emozioni e gli stati d’animo dell’io lirico, che una natura partecipe e fortemente umanizzata riesce a vivere e ad esprimere attraverso un fluire di immagini acustiche, visive e tattili, dalla musicalità dolce e malinconica. Sotto lo sguardo del poeta il paesaggio notturno si trasfigura, perdendo i propri contorni e assumendo sembianze umane: alcune metafore (il manto della notte, il candido volto delle stelle, il grembo dell’erba fresca) sottolineano questa metamorfosi, entro la quale persino i suoni del paesaggio si confondono con la voce del poeta. La partecipazione della natura alle vicende del poeta è, inoltre, tradotta in termini visivi grazie a un sapiente uso dei colori: Tasso tratteggia, infatti, un paesaggio in bianco e nero, dominato dal contrasto fra luce e ombra, fra chiaro e scuro, che suggerisce atmosfere crepuscolari, pervase di malinconia; al notturno manto del cielo si contrappone il candido volto delle stelle, alla bianca luna l’aria bruna della notte. Alle sensazioni visive si mescolano, inoltre, percezioni uditive (i sospiri delle brezze e i suoni malinconici della lirica) e tattili (la freschezza dell’erba). Il motivo della partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani non è nuovo nell’opera di Tasso: esso ne costituisce, al contrario, un tema ricorrente, che muove profondamente l’ispirazione del poeta. Si pensi all’episodio della fuga di Erminia con cui si apre il canto VII della Gerusalemme liberata, all’interno del quale lo scenario naturale costituisce lo strumento di espressione privilegiato per l’interiorità fragile e tormentata dell’eroina pagana, con la quale è in perfetta sintonia. Analoga la funzione nel dramma pastorale dell’Aminta dello scenario naturale, un luogo incontaminato di idilliaca pace che si configura come simbolo dell’età dell’oro, mitica stagione del mondo in cui l’umanità viveva in armonia e serenità. Nel madrigale in esame, tuttavia, il poeta attenua l’identificazione fra paesaggio e stato d’animo, senza affermarla con certezza, piuttosto presentandola come dubbio, sia attraverso le frasi interrogative che percorrono l’intero componimento, sia nella conclusione in forma di domanda, che suggerisce con incertezza l’idea di una possibile partecipazione del paesaggio notturno al malinconico presagio dell’io lirico. L’analisi del significante All’interno di una struttura che è anzitutto musica, il tenue contenuto passa rapidamente in secondo piano, benché risulti comunque omogeneo alle sonorità prodotte dal testo poetico. È dunque sulle scelte formali che è bene soffermarsi, sull’insieme di artifici retorici a cui il poeta fa ricorso per combinare, entro lo schema straordinariamente libero del madrigale, fugacità dei sentimenti e sfumata delicatezza del paesaggio. I dodici versi del componimento in esame, endecasillabi e settenari variamente alternati e rimati, sono caratterizzati dallo schema metrico abABCDdcEeFf: la rima baciata collega sempre un endecasillabo a un settenario, generando un effetto di eco. Ricorrente l’enjambement (vv. 2-3, 8-9, 9-10), che spezzando la frase crea una temporanea sospensione nel fluire dei versi, rallentandone il ritmo. Alla musicalità dolce e malinconica concorrono, inoltre, le ripetizioni lessicali (qual ai vv. 1 e 2; perché ai vv. 5 e 8; intorno al v. 9; vita al v. 12) e sonore: frequente l’iterazione della consonante liquida l, come al verso 6, dove le cristalline stille richiamano per paronomasia le stelle del Laboratorio per l’esame 4 Definizione dello stato d’animo prevalente e delle sensazioni dominanti all’interno del brano. Informazioni contenute nella risposta 2.3. Confronto con altre opere dell’autore. Risposta 3.1. Informazioni contenute nella risposta 2.2. Metrica Informazioni contenute nella risposta 2.1 e integrazioni. Figure retoriche Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 verso 4. La coppia aggettivo-sostantivo, ricorrente nella prima parte de madrigale (notturno manto, candido volto, bianca luna, cristalline stille, puro nembo), è rovesciata nella seconda parte, dove prevale l’accostamento sostantivo-aggettivo (erba fresca, aria bruna). Il poeta ricorre anche all’inversione dell’ordine abituale degli elementi all’interno della frase, per cui il predicato verbale precede spesso il soggetto (seminò la bianca luna), il complemento di specificazione anticipa il termine a cui si riferisce (di cristalline stille un puro nembo). La struttura sintattica, nel susseguirsi di frasi interrogative la cui lunghezza decresce per quantità di versi (rispettivamente 4, 3, 3 e 2), contribuisce a creare un effetto musicale trasognato e malinconico. Alle domande che percorrono il componimento pare dare risposta l’interrogativa finale, la quale suggerisce la partecipazione del paesaggio notturno al malinconico presagio dell’io lirico: l’identificazione fra scenario naturale e stato d’animo non è, tuttavia, affermata con certezza, bensì presentata come dubbio (forse). Incertezza, questa, che concorre con le scelte espressive a confermare nel lettore quell’impressione di lieve e trasognata malinconia, di sfumata leggerezza che costituisce la cifra più originale delle Rime di Tasso. La sintassi Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 945-946 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Ariosto e Tasso: la fuga di Angelica e di Erminia» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 945-946. • Ludovico Ariosto, La selva buia (• D1) • Ludovico Ariosto, La selva luogo dell’amore (• D2) • Lanfranco Caretti, Erminia e Angelica (• D3) Schedatura dei documenti •D1 Ludovico Ariosto, La selva buia Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Fugge tra selve spaventose e scure, / per lochi inabitati, ermi e selvaggi. / Il mover de le frondi e di verzure, / che di cerri sentia, d’olmi o di faggi, / fatto le avea con subite paure / trovar di qua di là strani viaggi; / ch’ad ogni ombra veduta in monte o in valle, / temea Rinaldo aver sempre alle spalle. Il paesaggio assume una precisa funzione simbolica, che muta al variare dello stato d’animo della protagonista: le selve spaventose e oscure, i luoghi selvaggi, solitari e inabitati rappresentano la paura e lo smarrimento di Angelica, amplificati dal buio della notte. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). È opportuno evidenziare il ruolo centrale di Angelica all’interno del Furioso, nel quale ella incarna l’oggetto del desiderio: tutti i cavalieri, cristiani e saraceni, incluso il grande paladino Orlando della bellissima principessa del Catai. Ella tuttavia, sottraendosi al ruolo passivo a cui la relegano i personaggi maschili, rifiuta il loro amore e, violando ogni convenzione sociale, sceglie di sposare un semplice soldato. Idea centrale La descrizione degli stati d’animo di Angelica in fuga dal campo dei cristiani. Messaggio dell’autore La corrispondenza fra lo stato d’animo della protagonista e le caratteristiche del paesaggio. •D2 Ludovico Ariosto, La selva luogo dell’amore Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto / vedesse ombrare o fonte o rivo puro, / v’avea spillo o coltel subito fitto; / così, se v’era alcun sasso men duro: / ed era fuori in mille luoghi scritto, / e così in casa in altritanti il muro, / Angelica e Medoro, in vari modi / legati insieme di diversi nodi. L’amore di Angelica per Medoro, il fante saraceno da lei curato e salvato presso la fattoria di un povero pastore, appare insistentemente in incisioni e scritte che ricoprono qualunque spazio disponibile. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516-1532). Si possono ampliare le informazioni su Medoro, guerriero saraceno di umili origini del quale si esaltano all’interno del poema la bellezza fisica, la lealtà nell’amicizia con Cloridano, la devozione al proprio signore, del quale tenta di recuperare il cadavere a costo della propria vita. Idea centrale La bizzarria del caso, che fa innamorare Angelica dell’unico soldato che non l’ha inseguita e conduce Orlando nei luoghi dell’amore. Messaggio dell’autore La supremazia del caso nelle vicende umane. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D3 Lanfranco Caretti, Erminia e Angelica Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali La fuga di Erminia non ha nulla del divertito e romanzesco vagabondare della bella Angelica ariostesca, sempre così pronta, in ogni frangente, ad esercitare le armi sottili dell’astuzia per governare il corso degli eventi: Erminia, inerme e sbigottita, è trascinata senza consiglio e senza guida in una cavalcata affannosa, senza respiro, e nulla vede e nulla sente se non l’eco, in se stessa, dei propri pianti, delle proprie grida. Si noti la scelta dei sostantivi che indicano l’allontanamento volontario delle due eroine: si parla, infatti, di fuga per Erminia, di romanzesco vagabondare per Angelica, a sottolineare il diverso atteggiamento dei personaggi nei confronti del proprio destino. Vittima inerme la prima, scaltra e intraprendente calcolatrice la seconda. Saggio (periodo storico 1991). Si può evidenziare il diverso rapporto che si instaura nei due poemi fra autore e personaggi: nel Furioso Ariosto affida a un narratore onnisciente, che domina dall’alto vicende e personaggi, il compito dell’ironico commento del mondo rappresentato, al quale guarda con un tale distacco da rendere impossibile, per autore e lettore, l’identificazione con i personaggi. Al contrario nella Gerusalemme liberata l’approfondita analisi dell’interiorità dei personaggi, combattuti fra essere e dover essere, riflette l’intima conflittualità del loro creatore, Tasso, tormentato fra ansie morali e la fiducia nell’autonomia dell’agire umano. Laboratorio per l’esame 2 Idea centrale L’analisi del personaggio ariostesco di Angelica e dell’eroina tassiana di Erminia. Messaggio dell’autore Le differenze tra i due personaggi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Saggio breve Stesura Struttura Angelica ed Erminia eroine del Cinquecento Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del contenuto del saggio. La fuga di Erminia con cui si apre il canto VII della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso richiama quella di un’altra eroina della letteratura cinquecentesca: Angelica, dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, descritta nel primo canto del poema. Introduzione Si pone in risalto l’evidente legame che unisce l’episodio tassiano della fuga di Erminia all’analoga vicenda di Angelica narrata nel Furioso. Benché simili, i due episodi evidenziano profonde differenze, che consentono di cogliere la diversità fra i due poemi, i loro autori e il loro modo di concepire la poesia e l’amore. Tesi Le analogie e le differenze che intercorrono fra i due episodi consentono di stabilire un più ampio confronto fra i due poemi. Le principesse musulmane, Erminia di Antiochia e Angelica del Catai sono entrambe belle, sole e fuggono a cavallo attraverso la selva. Ma le situazioni sono profondamente diverse. L’Orlando furioso, poema epico-cavalleresco ambientato nell’Alto Medioevo al tempo della guerra tra Franchi e Saraceni, intreccia il motivo delle armi con il tema dell’amore, percepito non più come valore cortese, bensì come causa di pazzia per l’uomo. Il poema restituisce al lettore l’impressione di un movimento incessante e vorticoso, che tuttavia non conduce ad alcuno sviluppo dei fatti: le vicende si ripiegano su se stesse, entro una struttura perfettamente circolare, riportando i protagonisti al punto di partenza. I complessi avvenimenti raccontati nel poema ruotano, infatti, attorno al meccanismo dell’inchiesta, ossia della ricerca di un irraggiungibile oggetto del desiderio: tutti i personaggi sono in cerca di qualcosa o all’inseguimento di qualcuno, che non riescono mai a raggiungere. Si inserisce in questo dinamismo la fuga di Angelica, la bellissima principessa del Catai della quale si innamorano tutti i cavalieri, cristiani e saraceni; oggetto del desiderio per eccellenza, ella rifiuta superba e sdegnosa il loro amore e, sottraendosi al ruolo passivo in cui essi la relegano, sposa, violando ogni convenzione e regola sociale, un semplice soldato. L’infrangersi dell’illusione d’amore condurrà il paladino Orlando alla pazzia. La Gerusalemme liberata, poema epico ambientato ai tempi della prima crociata (1096-1099), si propone il duplice intento di divertire ed educare moralmente, accostando il lettore ai precetti religiosi: a questo scopo, Tasso fonde le avventure dei cavalieri antichi con l’ideale cristiano e arricchisce il soggetto storico con personaggi di invenzione e col ricorso al “meraviglioso cristiano”, ossia l’intervento di forze divine e demoniache. Accanto alle tematiche religiosa e cavalleresca, è concesso ampio spazio all’amore, che il poeta affronta con grande capacità di indagine dell’animo umano: egli rappresenta l’esperienza amorosa in toni fortemente conflittuali, esaltandone la dimensione puramente spirituale in contrapposizione alla passione e al piacere dei sensi, che possono insidiare la coscienza dei cristiani e sottrarli ai propri doveri morali. Sul conflitto irrisolto fra passione sensuale e senso di colpa incombe la percezione angosciosa della precarietà della condizione umana, sul vagheggiamento della bellezza aleggia lo spettro della morte. Nel poema sono narrati amori impossibili, contrastati e infelici, talvolta persino tragici, nei quali si incrociano sovente i destini di guerrieri cristiani ed eroine saracene. Giovane e delicata principessa pagana, innamorata senza speranza del principe normanno Tancredi, che ama un’altra, Erminia rappresenta nelle sue inquietudini e nelle sue fragilità la sensibilità ansiosa e tormentata di Tasso, alla costante ricerca di una felicità destinata a restare irraggiungibile. Nella fuga da Gerusalemme, ignara del fatto che è proprio l’uomo che 1° Argomento a sostegno della tesi L’episodio della fuga assume un diverso significato all’interno dei due poemi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 ella ama a inseguirla, Erminia si abbandona alla volontà del destriero, che la conduce miracolosamente in salvo attraverso tortuosi e oscuri sentieri, fino alle rive del Giordano. Chiusa nel proprio dolore, non udendo o vedendo altro d’intorno che le lagrime sue, che le sue strida, ella vaga per l’oscura selva senza consiglio e senza guida, nutrendosi solo delle proprie sofferenze, delle proprie lacrime. Il paesaggio idilliaco che la accoglie al risveglio assume un carattere immediatamente rasserenante, ulteriormente confermato dall’incontro con il vecchio pastore e dalla decisione di rifugiarsi in un luogo fuori dalla storia, alla ricerca di pace interiore. È ben diversa l’esperienza di Angelica: in fuga da Rinaldo, ella dapprima vaga smarrita per luoghi selvaggi e disabitati, simile a una pargoletta o dramma o capriuola che ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca. Quindi, sentendosi protetta e al sicuro, si trasforma da vittima indifesa in fredda e cinica calcolatrice che non esita a servirsi di Sacripante, venuto dall’Oriente in cerca di lei: dura e fredda più d’una colonna, come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno, ella non pensa per un solo istante ad alleviarne i tormenti d’amore, lo illude finché ne avrà bisogno, per poi tornare all’uso suo dura e proterva. Protagonista del proprio destino, perfettamente in grado di dominare il corso degli eventi, ella modifica il proprio comportamento a seconda del rapporto che stabilisce con le vicende e con gli altri personaggi. Benché scaltra e astuta, Angelica si rivela, però, priva di spessore psicologico. Se, infatti, il Furioso è poema d’azione, nella rappresentazione dei personaggi Ariosto non crea figure a tutto tondo, caratterizzate da una circostanziata definizione psicologica e sentimentale; egli si limita, piuttosto, a tratteggiare figure che riflettano, di volta in volta, un solo aspetto della natura umana, al fine di rappresentare, entro l’unità del poema, la varietà dell’uomo, la mobilità delle vicende umane. I personaggi del Furioso appaiono piatti e poco credibili, dominati da un solo tratto della natura umana, una sola passione, un unico impulso che li spinge ad agire garantendo così il perpetuarsi del dinamismo, lo svolgersi delle vicende. Proprio la superficiale caratterizzazione dei personaggi impedisce di fatto all’attenzione del lettore di soffermarsi su una singola vicenda, bloccando l’evolvere degli eventi nella loro complessità. Spetta poi al narratore il compito di ricomporre le vicende complesse e caotiche narrate nel poema entro un disegno unitario e organico, dotato di armonia compositiva. Quello del Furioso è un narratore onnisciente, che domina dall’alto vicende e personaggi, esprimendo giudizi ed esplicitandone il senso morale con distacco, con sguardo disincantato. Alla voce narrante l’autore affida il compito dell’ironico commento di quel mondo cortese al quale guarda con distacco. È impossibile, dunque, l’identificazione fra autore e personaggi: persino il tema della follia d’amore, della quale pure il poeta si dichiara vittima nella seconda ottava del Proemio, appare condivisa, anche se nell’episodio della perdita del senno da parte di Orlando, alla sentita partecipazione alla vicenda del paladino subentra ben presto, nell’animo del poeta così come nel lettore, un crescente distacco, che si traduce rapidamente in ironia e derisione. Al contrario nella Gerusalemme liberata, poema di affetti indagati con sottile psicologia, l’interiorità dei personaggi è analizzata con profondità e capacità introspettiva. Combattuti fra l’essere e il dover essere, fra desiderio ed etica del dovere, essi riflettono l’intima conflittualità propria del loro creatore, Tasso, angosciato fra le ansie morali generate dalla Controriforma e la fiducia nell’autonomia dell’agire umano retaggio della tradizione laica umanistico-rinascimentale. È soprattutto nei personaggi infelici come Erminia che Tasso si riconosce e si identifica: nelle loro inquietudini e fragilità egli riconosce la propria sensibilità ansiosa e tormentata, la costante ricerca di una felicità destinata a restare irraggiungibile. Anche lo stile si adatta a rispecchiare le oscillazioni e le ambiguità psicologiche dei personaggi: il registro epico e solenne, che ben esprime le imprese gloriose e le nobili gesta degli eroi, si alterna o si fonde con quello lirico e sentimentale, che dà voce alle perplessità dell’animo, alle angosce, alle inquietudini che si accompagnano al doloroso sentimento del vivere. Laboratorio per l’esame 4 2° Argomento a sostegno della tesi Si pone in evidenza la diversa caratterizzazione delle due eroine. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Fra i motivi che muovono più profondamente l’ispirazione di Tasso vi è senza dubbio la partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. All’interno della Gerusalemme liberata è lo scenario naturale a costituire lo strumento di espressione più idoneo a esprimere l’interiorità dei personaggi, che in esso si riflettono e si riconoscono come in uno specchio: si pensi, ad esempio, alla voce del vento leggero che sembra richiamare Erminia al suo pianto (e parle voce udir tra l’acqua e i rami / ch’ai sospiri ed al pianto la richiami). Il motivo della natura incontaminata che si pone in armonia con l’animo del protagonista e ne rispecchia l’evoluzione è, infatti, facilmente rintracciabile nell’episodio della fuga di Erminia: è evidente il significato simbolico dello scenario naturale, rappresentato con le sembianze della selva oscura prima, del locus amoenus poi. La natura appare, inoltre, come luogo incontaminato di idilliaca pace, ritratto secondo i canoni tradizionali e denso di ricordi letterari, e tuttavia pervaso da struggente e inedita malinconia; domina nella narrazione un tono elegiaco, che dissemina la descrizione naturalistica di sfumature tenuti e delicate e rallenta il ritmo del racconto grazie a un sapiente uso dell’enjambement. La quiete e la serenità del paesaggio che Erminia al risveglio scopre lungo le rive del Giordano si contrappongono all’atmosfera violenta e crudele della guerra dalla quale ella fugge. All’interno del Furioso, un paesaggio descritto non in modo realistico o verosimile, fantastico e labirintico, nel quale i personaggi continuano a perdersi, concorre a trasmettere al lettore l’impressione di un movimento incessante e vorticoso delle vicende, che non approda ad alcuno sviluppo. Nell’episodio della fuga di Angelica, lo scenario naturale assume una funzione simbolica, che muta al variare dello stato d’animo della protagonista: le selve spaventose e oscure, i luoghi selvaggi, solitari e disabitati ben rappresentano la paura e lo smarrimento della principessa, così come il buio della notte, al quale segue poi la luce del giorno; sono ora il boschetto leggiadro, leggermente mosso dal vento, l’erba tenera e nuova percorsa da due limpidi ruscelli le cui acque producono una piacevole armonia a rappresentare il rasserenarsi dell’animo, il senso di protezione e di sicurezza che lo pervade. 3° Argomento a sostegno della tesi Si evidenziano analogie e differenze nella rappresentazione del paesaggio. Diverso è, infine, l’epilogo della vicenda: superba e sdegnosa, Angelica finirà col rifiutare l’amore di tutti i più grandi paladini cristiani e guerrieri saraceni. Sottraendosi al ruolo di oggetto passivo del desiderio maschile, ella deciderà di sposare, infrangendo ogni convenzione e norma della rigida gerarchia sociale dell’Alto Medioevo, un semplice soldato, non esitando a rendere ben visibile in incisioni e graffiti il proprio amore per Medoro. Erminia, al contrario, alla ricerca di una felicità in amore destinata a sfuggirle, sceglie di sottrarsi al flusso degli eventi per dedicarsi alla riconquista della pace interiore nell’atmosfera idillica del luogo pastorale. La scelta di Erminia, che offre al poeta lo spunto per una polemica anticortigiana entro cui contrapporre le inique corti alla quiete dell’umile vita agreste, è dunque condivisa da Tasso: in questi versi egli esprime il rapporto conflittuale con la corte ferrarese, che risponde al suo bisogno di protezione e di tranquillità economica ma al contempo suscita il suo sdegno per l’ipocrisia e la falsità dilaganti. 4° Argomento a sostegno della tesi Si rileva il diverso epilogo della fuga e si sottolinea la vicinanza spirituale che lega Tasso a Erminia. È forse questo il punto che mette d’accordo entrambi i poeti: essi condivisero la condizione di intellettuale cortigiano e furono entrambi consapevoli della duplicità della propria posizione, della quale riconoscevano privilegi e limiti. Conclusione Si individua un motivo che pare mettere d’accordo entrambi i poeti. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 1006-1007 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «Intellettuali umanisti e rapporto fra Cristianesimo e cultura laica» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 1006-1007. • Pico della Mirandola, Dignità dell’uomo (• T77) • Coluccio Salutati, Primato della vita attiva (• T123) • Cristoforo Landino, Elogio della vita meditativa (• T124) • Coluccio Salutati, Fede e grammatica (• D1) • Leonardo Bruni, La supremazia dell’impegno civile (• D2) • Erasmo da Rotterdam, Lo studio dei classici (• D3) • Carlo Dionisotti, Chierici e laici (• D4) Schedatura dei documenti •T77 Pico della Mirandola, Dignità dell’uomo Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Finalmente l’ottimo artefice […] accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine». […] Il testo manifesta l’antropocentrismo umanista: esalta la dignità dell’uomo, unica creatura sottratta al determinismo delle leggi divine e naturali e lasciata libera di plasmare se stessa e il proprio destino esercitando il libero arbitrio, supremo privilegio concesso all’umanità. Perciò, l’uomo può determinare la propria condizione, scegliendo liberamente fra la dimensione terrena e quella celeste. Orazione in latino (periodo storico 14861487). Occorre ampliare le informazioni su Pico della Mirandola (1463-1494), esponente dell’Umanesimo fiorentino passato alla storia per la sua memoria prodigiosa. La sua opera, espressione di una cultura vasta ed eterogenea, testimonia l’aspirazione a cogliere analogie e corrispondenze tra le più disparate discipline e teorie. Egli coniuga, in particolare, la riflessione etica e religiosa con l’affermazione della dignità dell’uomo, l’unica creatura a cui Dio ha concesso il libero arbitrio, la suprema facoltà di decidere della propria sorte e del proprio ruolo nell’universo. Idea centrale L’autore afferma la centralità nell’universo dell’uomo. Messaggio dell’autore Indurre l’uomo a divenire artefice del proprio destino e a prendere coscienza della propria superiorità rispetto alle altre creature. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •T123 Coluccio Salutati, Primato della vita attiva Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Infatti, sebbene la vita solitaria sia ritenuta più sicura, non lo è tuttavia; occuparsi onestamente di attività oneste, se non è santo, è più santo che oziare in solitudine. Infatti la santa rusticità giova solo a sé, come dice San Girolamo; una santità attiva, invece, edifica molti, perché si mostra a molti; e molti porta seco sulla via del cielo, perché ad essi porge l’esempio. È un detto di Platone, anzi della stessa filosofia, che i sapienti debbono occuparsi dello Stato perché i malvagi e i disonesti non s’impadroniscano del timone abbandonato con danno e rovina dei buoni. E questo io penso da quel che è capitato a me […]. Questo solo tuttavia io posso dire a voce alta, che, almeno con l’animo, non ho mai cessato di appoggiare il bene e di auspicare la cessazione del male. Testo di natura argomentativa, stabilisce un confronto fra coloro che scelgono di onorare Dio, praticando l’ascetismo in solitudine, e coloro che preferiscono coniugare la preghiera con una vita attiva e socialmente impegnata. Epistola in latino (periodo storico 1398). Si deve fare riferimento al concetto di humanitas, termine che definisce un nuovo modello di uomo, in contrapposizione a quello medioevale. Pur affondando le radici nella cultura greco-latina, il nuovo uomo si fa portatore di virtù morali, intellettuali e pragmatiche compatibili con la fede cristiana. Laboratorio per l’esame 2 A sostegno della superiorità della vita attiva l’autore cita modelli illustri di santità accompagnata dall’impegno civile e sottolinea l’importanza dell’esempio moralmente positivo, che genera desiderio di emulazione. Si fa appello anche all’autorità di Platone, che esalta l’alto valore morale dell’impegno politico e civile degli intellettuali. L’ultimo argomento a sostegno della tesi è il riferimento alla propria esperienza personale presso la cancelleria della Repubblica di Firenze. Idea centrale L’impegno politico e civile, superiore alla vita contemplativa, è una straordinaria forma di carità cristiana. Messaggio dell’autore Esortare gli uomini di cultura a mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze e competenze. È inoltre opportuno precisare che il concetto di humanitas non può prescindere dagli studia humanitatis, percorso di formazione culturale adatto a realizzare nell’uomo le sue migliori qualità. In merito alla carriera politica dell’autore, è bene ricordare che Coluccio Salutati fu cancelliere della Repubblica di Firenze dal 1375 fino alla morte. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •T124 Cristoforo Landino, Elogio della vita meditativa Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Non possono dunque compiersi le cose che convengono alla vita attiva senza la speculazione. E questo è chiaro in Marta e Maria. […] Tanto più eccellente è dunque la ricerca della verità, in quanto genera anche quelle virtù che abbiamo detto riguardare l’azione, a cui reca aiuto, ed inoltre raggiunge quel mondo divino a cui l’azione non può aspirare. Non per altra ragione, io credo, l’eterno Iddio volle che Mosè, capo supremo degli ebrei, promulgasse quelle leggi che dovevano insegnare al popolo le azioni giuste ed oneste […] sulla cima di un altissimo monte. Con ciò Dio, architetto di tutte le cose, volle particolarmente indicare che quanto giova al governo della cosa pubblica può essere ritrovato dagli uomini solo attraverso l’investigazione delle cose supreme. […] Riusciranno molto più giovevoli le virtù che si celebrano nella conoscenza del vero, che non quelle che si travagliano nell’azione. […] In forma di dialogo, si inserisce nel dibattito tra vita attiva e vita contemplativa affermando il primato dell’attività intellettuale, la quale non deve perseguire alcun scopo pratico. Trattato filosofico (periodo storico 14721473). Occorre ampliare le informazioni su Marta e Maria, le due sorelle protagoniste di un episodio del Vangelo di Luca, nel quale la prima rappresenta la vita contemplativa, la seconda la vita attiva; a quest’ultima Gesù fa notare che la scelta giusta è quella della sorella, perché rivolta a Dio, sommo bene. A sostegno della supremazia della vita contemplativa, l’autore chiama in causa l’autorità dei testi sacri: sono infatti citati un passo del Vangelo di Luca e un episodio narrato nella Bibbia. Il monte Sinai, su cui Dio consegnò a Mosè le tavole delle leggi, simboleggia la solitudine e lo slancio verso il cielo necessari all’attività intellettuale, base indispensabile per l’impegno politico e civile. Idea centrale Affermare il primato dell’attività contemplativa sulla vita attiva, della quale la prima costituisce, comunque, il presupposto indispensabile. Messaggio dell’autore Indurre il lettore a privilegiare la vita contemplativa. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 3 Laboratorio per l’esame 3 •D1 Coluccio Salutati, Fede e grammatica Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Per chi voglia iniziarsi alla dottrina di Cristo attraverso le sacre scritture, concederai tu pure la necessità di una preparazione grammaticale. Come potrebbe infatti venire a conoscenza della Scrittura sacra chi fosse ignaro di studi letterari? […] Non vedi a che punto l’ignoranza della grammatica ha condotto i religiosi, e quanti altri, come loro, ne sono digiuni? Essi non capiscono quello che leggono, né possono offrire agli altri cose da leggere. […] Si sottolinea la necessità di coniugare fede religiosa e studi letterari: la lettura delle Sacre Scritture non può, infatti, prescindere da una formazione culturale di base. Epistola in latino (periodo storico inizio 1400). Occorre ricordare che gli studia humanitatis, percorso di formazione culturale del nuovo ideale di umanità elaborato in età umanistico-rinascimentale, comprendono, accanto ai testi sacri, autori classici latini e greci. L’attitudine filologica tipicamente umanistica si traduce in campo religioso nella riscoperta del significato autentico delle Sacre Scritture; un simile obiettivo necessita, tuttavia, di una formazione culturale di base. Si allude alla decadenza del clero, spesso incapace per ignoranza di svolgere la propria funzione di mediatore fra testi sacri e fedeli. Idea centrale Il vero cristiano è colui che, grazie a una formazione adeguata, legge, comprende interpreta correttamente i testi sacri. Messaggio dell’autore Indurre il destinatario a condividere l’importanza della preparazione culturale in vista della lettura diretta dei testi sacri. •D2 Leonardo Bruni, La supremazia dell’impegno civile Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Fra gli insegnamenti morali con i quali si forma e si educa la vita umana, tengono in certo modo il posto più alto quelli che concernono gli Stati e il loro governo, poiché una disciplina del genere tende a procacciare le felicità a tutti gli uomini. […] Il bene, quanto più ampiamente si estende, tanto più divino deve considerarsi […]. Il testo afferma il primato della politica, strumento di felicità per tutti gli uomini: gli studia humanitatis non conducono gli intellettuali a un vuoto formalismo, bensì a una conoscenza vasta, varia e approfondita, la cui applicazione pratica costituisce una vera e propria forma di carità cristiana. Epistola in latino (periodo storico fine Trecento-inizio Quattrocento). Si può ricordare che l’autore partecipa al dibattito tra vita attiva e vita contemplativa che si verifica a Firenze tra XIV e XV secolo. Idea centrale L’affermazione del primato della politica fra gli insegnamenti morali, in quanto forma di carità cristiana. Messaggio centrale Indurre i lettori a dedicarsi allo studio della politica. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D3 Erasmo da Rotterdam, Lo studio dei classici Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Gli scrittori degli autori profani formano e affinano la mente del fanciullo e la dispongono meravigliosamente all’intelligenza delle Sacre Scritture: è quasi una specie di un sacrilegio precipitarsi subito sui testi sacri senza la necessaria disposizione. […] Tanto più che, come la Sacra Scrittura non dà molto frutto se si rimane fermi alla lettera, così è possibile trarre non poco vantaggio dalla poesia di Omero e Virgilio, a condizione che ci si ricordi che è tutta allegorica […]. Lo studio dei classici prepara alla comprensione delle Sacre Scritture, ed è quindi funzionale alla formazione del buon cristiano; è, però, necessario interpretarne il significato non alla lettera, bensì in senso allegorico, ricercando in essi un significato simbolico che alluda a Dio. Trattato (periodo storico inizio Cinquecento). È opportuno ampliare le informazioni sull’autore, Erasmo da Rotterdam (1466-1536), fra i maggiori esponenti della cultura umanistico-rinascimentale, che nella propria opera ne propone i motivi e gli ideali, coniugati con una forte tensione morale e religiosa e una vastissima conoscenza dei classici e della filosofia. Idea centrale Lo studio dei testi classici è indispensabile alla lettura e alla comprensione delle Sacre Scritture. Messaggio dell’autore Esortare i lettori a formarsi sui testi classici, benché profani. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 •D4 Carlo Dionisotti, Chierici e laici Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali […] Quale fosse la situazione pubblica […] degli uomini di lettere nella società del primo Cinquecento. Credo di poter rispondere che su un centinaio di scrittori la metà sono laici che vivono del loro patrimonio familiare, arte o mestiere, senza a quanto pare alcuna dipendenza economica dalla Chiesa. Nell’altra metà una ventina sono cardinali e vescovi, una dozzina sono appartenenti a ordini religiosi […], una ventina infine in tutto o in parte dipendono per la loro sussistenza da benefici ecclesiastici e di buona o cattiva voglia sottostanno agli obblighi inerenti a essi benefici. Nella prima metà del XVI secolo numerosi intellettuali dipendono economicamente da benefici o cariche ecclesiastiche; tale situazione limita, a parere dell’autore, in qualche modo la loro libertà di pensiero e di parola e ne condiziona l’ideologia. Saggio storico (periodo storico 1977). Può essere opportuno evidenziare come il papato conosca nella prima metà del Cinquecento una vistosa limitazione della capacità di controllare e influenzare la comunità cristiana europea. Il successo della Riforma protestante e la conseguente frattura dell’unità religiosa europea costituiscono, infatti, l’epilogo di una lunga serie di crisi che nei secoli precedenti hanno indebolito l’istituzione ecclesiastica: dalla cattività avignonese (1309-1377) allo Scisma d’Occidente (1378), fino alla nascita nella prima metà del Quattrocento della corrente del conciliarismo, volta a limitare l’autorità del pontefice. Anche all’interno delle forze fedeli a Roma non mancano, poi, occasioni di dibattito: da un lato, la polemica contro la corruzione del papato e l’inadeguatezza delle gerarchie ecclesiastiche e del clero; dall’altro, l’affermazione di una nuova religiosità fondata sull’esperienza interiore e sulla centralità del rapporto individuale con Dio. In tale contesto, la scelta della carriera ecclesiastica costituisce per molti intellettuali una valida alternativa alla vita di corte, in quanto garantisce loro maggiore stabilità e autonomia. Laboratorio per l’esame 6 Idea centrale Quasi la metà degli intellettuali del primo Cinquecento dipende economicamente dalla Chiesa. Messaggio dell’autore Gli uomini di lettere dipendenti in termini economici dalla Chiesa sono inevitabilmente condizionati nell’ideologia e nel pensiero. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta Introduzione La cultura medioevale è teocentrica: la fede religiosa è la chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura e dell’uomo; la conoscenza non può trovare verità se non in Dio. Problema Quale relazione si stabilisce fra la visione laica dell’uomo e del mondo degli intellettuali umanisti e il rigorismo cristiano della precedente età medioevale? Tesi Il rinnovamento culturale operato in età umanistica nel nome della riscoperta della cultura antica si attua all’interno di un quadro ideologico ancora profondamente cristiano: la diffusione della visione laica del mondo, benché riservi maggiore attenzione alla dimensione terrena dell’uomo, non esclude la dimensione ultraterrena. L’obiettivo primario degli intellettuali umanisti è, infatti, la conciliazione fra cultura classica e tradizione cristiana, tra etica pagana e morale cristiana. 1° Argomento a sostegno della tesi Se l’età medioevale aveva riservato attenzione primaria alla dimensione eterna e ultraterrena, l’Umanesimo riscopre la dimensione fisica e naturale dell’uomo, espressa nell’affermazione del suo diritto a realizzare i bisogni materiali e a ricercare la felicità sulla terra, e restituisce equilibrio al rapporto tra corpo e anima, tra azione contemplazione. Ne consegue che: • la vita attiva è considerata lo strumento privilegiato per collaborare alla realizzazione del disegno provvidenziale: è quanto affermano Leonardo Bruni e Coluccio Salutati, i quali esaltano, anche con l’esempio dell’impegno personale, la partecipazione attiva dell’intellettuale alla vita politica. • La vita contemplativa conserva ancora la sua dignità e continua a essere per molti intellettuali, fra i quali Cristoforo Landino, concettualmente superiore; essa, però, non è più sufficiente a consentire la piena realizzazione dell’individuo, “uomo integrale”, fatto di corpo e di anima, partecipe della dimensione materiale e di quella divina (Pico della Mirandola). 2° Argomento a sostegno della tesi Il fine ultimo dell’impegno attivo e della partecipazione alla vita politica dell’intellettuale umanista è di natura morale, come afferma Leonardo Bruni: esso consiste nel dare felicità a tutti gli uomini, come Dio chiede a ogni vero cristiano. 3° Argomento a sostegno della tesi È convinzione diffusa presso gli umanisti che cultura pagana e tradizione cristiana non siano tra loro incompatibili e debbano dunque trovare una conciliazione all’interno degli 4° Argomento a sostegno della tesi La principale alternativa alla corte, presso la quale vive o gravita la maggior parte dei letterati e degli artisti attivi in quest’epoca, è la Chiesa, la quale sostituisce il mecenatismo dei principi e dei signori italiani (Carlo Dionisotti). Vi sono nu- studia humanitatis. In tal senso è significativo il pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam e da Coluccio Salutati. merosi intellettuali i quali, benché privi di vocazione, scelgono la condizione ecclesiastica, attratti dai vantaggi economici derivanti dai benefici ecclesiastici, che implicano, del resto, obblighi piuttosto modesti. Conclusione Si ribadisce la tesi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 laboratorio per l’esame Volume 1, pp. 1008-1009 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento: «La percezione della guerra e dei cambiamenti degli strumenti bellici nel Rinascimento» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 1008-1009. • Leonardo da Vinci, Le macchine da guerra (• T127) • Francesco Guicciardini, Dalla cavalleria alla fanteria (• D1) • Ludovico Ariosto, La machina infernal (• D2) • Ruzante, Una visione antieroica della guerra (• D3) • Remo Ceserani, Lidia De Federicis, I fatti economici e sociali della “nuova” guerra (• D4) Schedatura dei documenti •T127 Leonardo da Vinci, Le macchine da guerra Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Avendo, Signor mio illustrissimo, visto e considerato oramai ad sufficienza le prove di tutti quelli che si reputono maestri e compositori de instrumenti bellici, et che le invenzione e operazione di dicti instrumenti non sono niente alieni dal comune uso, mi exforzerò […] farmi intender da V. Excellentia, aprendo a quella li secreti mei, e appresso offrendoli ad omni suo piacimento in tempi opportuni, operare cum effecto circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno qui di sotto notate […]. Leonardo descrive con cura e precisione le caratteristiche peculiari delle macchine da guerra che è in grado di costruire. Lettera (periodo storico 1482). È opportuno un rapido accenno alla figura di Leonardo da Vinci (14521519), grande protagonista del Rinascimento, del quale incarna l’ideale dell’eclettismo: uomo di cultura e artigiano, egli fu artista e scienziato, ingegnere e architetto. Sono assenti la partecipazione emotiva ai loro effetti sul campo di battaglia e il giudizio etico nei confronti della guerra. Idea centrale L’elenco e l’esaltazione della originalità e della funzionalità delle macchine da guerra create e costruite dal mittente. Messaggio centrale Convincere il destinatario, Ludovico il Moro duca di Milano, a usufruire dei suoi servigi. •D1 Francesco Guicciardini, Dalla cavalleria alla fanteria Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi la guerra molto più co’ cavalli di armadura grave che co’ fanti, ed essendo le macchine che si usavano contro alle terre in comodissime a condurre e a maneggiare, […] piccolissime erano le uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva […]. Ma sopravenendo re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la ferocia de’ fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra tutto il furore delle artiglierie, empiè di tanto spavento […]. Il testo evidenzia le drammatiche conseguenze della discesa del re di Francia Carlo VIII in Italia, e soprattutto dell’impiego di nuove tattiche militari e armi da fuoco, che aumentano il numero dei morti. Sono significativi l’uso dei superlativi (piccolissime le uccisioni, rarissimo il sangue) e di sinonimi quali terrore, ferocia, furore, che esprimono lo stato d’animo della popolazione italiana, incapace di difendersi. Trattato di storiografia (periodo storico 15371540). È bene ricordare che il re di Francia Carlo VIII, sceso in Italia e fra il 1494 e il 1495, attraversò l’intera penisola senza incontrare particolare resistenza e opposizione, evidenziando la debolezza politica e militare degli stati italiani nel contesto europeo. Idea centrale La testimonianza dei devastanti effetti dell’introduzione di nuove armi e di nuove tecniche di combattimento. Messaggio dell’autore Convincere il lettore della drammaticità delle conseguenze della “nuova” guerra. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 •D2 Ludovico Ariosto, La machina infernal Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Come trovasti, o scelerata e brutta / invenzion, mai loco in uman core? / Per te la militar gloria è distrutta, / per te il mestier de l’arme è senza onore; / per te è il valore e la virtù ridutta, / che spesso par del buono il rio migliore: / non più la gagliardia, non più l’ardire / per te può in campo al paragon venire. L’anafora per te sottolinea la responsabilità dell’invenzione scelerata e brutta delle armi da fuoco, colpevoli di aver privato il mestiere della guerra di ogni onore, di impedire il confronto fra le virtù individuali sul campo di battaglia. Poema epico-cavalleresco (periodo storico 1516). Al tempo della cavalleria era il duello, lo scontro individuale fra due campioni degli eserciti avversari, a determinare l’esito delle battaglie. Idea centrale La “nuova” guerra sminuisce il valore e la virtù individuali, al punto che spesso il codardo sembra più coraggioso. Messaggio dell’autore La condanna delle armi da fuoco e delle nuove tattiche di combattimento. •D3 Ruzante, Una visione antieroica della guerra Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Ruzante: […] Che credete che sia ad essere in quel paese? Che non conosci nessuno, non sai dove andare, e vedi tanta gente che dice: “Ammazza, ammazza! Dàgli, dàgli!”. Artiglierie, schiopponi, balestre, frecce: e ti vedi qualche tuo compagno morto ammazzato, e quell’altro che ti è ammazzato vicino. E quando credi di scappare, vai in mezzo ai nemici: e uno che scappa dargli una schioppettata nella schiena. Vi dico che ha gran coraggio chi si mette a scappare. Quante volte credete che io abbia fatto il morto, e mi sia lasciato passare sopra i cavalli? In una visione antieroica della guerra, il poeta evidenzia il disorientamento del soldato in un luogo sconosciuto, la paura dell’ostilità dei nemici, il terrore della morte; inaspettata è soprattutto la celebrazione del coraggio necessario alla fuga. Dialogo in antico dialetto padovano destinato alla rappresentazione teatrale (periodo storico prima metà del Cinquecento). È opportuno ampliare le informazioni sulla produzione letteraria di Ruzante, che con le sue opere teatrali porta in scena la dimensione umana del mondo contadino. Laboratorio per l’esame 2 Idea centrale Porre in evidenza gli aspetti antieroici disumani della guerra. Messaggio dell’autore Ogni aspetto della guerra, persino la fuga, richiede una buona dose di coraggio. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 •D4 Remo Ceserani, Lidia De Federicis, I fatti economici e sociali della “nuova” guerra Testo Schedatura Tipologia testuale Integrazioni personali Gli avvenimenti di quel tempo non furono determinati soltanto da fattori militari, ma anche da fattori economici e politici intrecciati a quelli militari. Ne enumeriamo alcuni: – la pur lenta ma continua ripresa economica […]; – l’incremento demografico e la presenza di masse numerose di uomini espulsi dal processo produttivo […]; – il miglioramento nelle tecniche estrattive del ferro e produttive di armi e bombarde e la presenza di finanziatori e mercanti d’armi […]; – la forza armata di tipo nuovo […] mise in crisi il sistema delle compagnie di mercenari […]; – i nuovi eserciti formati essenzialmente da fanteria di estrazione plebea, […] furono un fattore importante nel determinare il nuovo livello dei conflitti politici fra le classi sociali. Sono elencati i fattori economici, sociali, politici che dalla fine del Quattrocento introdussero un nuovo modo di produrre armi e di combattere, o che ne furono conseguenza. Saggio (periodo storico 1986). È opportuno approfondire le informazioni su alcuni aspetti della vita sociale, politica ed economica che caratterizzano il Cinquecento, secolo in cui si assiste a una ripresa della crescita della popolazione, decimata dalle epidemie del Trecento. Per far fronte all’incremento demografico e reperire risorse si rende necessario ricorrere a varie e mirate strategie, quali la semina dei terreni incolti a scapito delle aree boschive, la bonifica delle paludi, l’introduzione di un nuovo sistema di rotazione delle colture. Ciò nonostante, un numero crescente di persone non riesce a mantenere un livello di vita dignitoso e deve arrangiarsi in vari modi per non morire di fame: si diffondono i fenomeni del banditismo e del vagabondaggio, soprattutto nelle città. Numerosi anche coloro che, provenienti dalle regioni più povere o dai sovraffollati centri urbani si arruolano nell’esercito, in cerca di occupazione: in molte zone d’Europa la guerra diventa una costante ineliminabile. Alcuni Stati europei danno vita a eserciti permanenti, che costituiscono un importante fattore di stabilizzazione sociale, in quanto garantiscono uno stabile impiego a larghe masse della popolazione. Idea centrale L’analisi dei fattori economici e politici che mutarono il modo di combattere del Cinquecento. Messaggio dell’autore Un profondo legame unisce i diversi aspetti della vita associata. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta Introduzione Fra XV e XVI secolo, numerosi avvenimenti economici, politici e tecnico-scientifici imprimono un rapido progresso alla produzione delle armi da fuoco, che diventano sempre più efficaci, sicure e pratiche. Problema Quali conseguenze provoca l’introduzione delle nuove armi da fuoco in età Rinascimentale? Tesi L’invenzione di nuove armi da fuoco ha conseguenze importanti, che non coinvolgono solo l’arte della guerra, ma anche fattori economici, politici sociali. 1° Argomento a sostegno della tesi Conseguenze in ambito militare: • sul campo di battaglia, l’abilità e la forza individuale cedono il passo alla forza d’urto dei proiettili, con conseguente aumento di importanza della fanteria, armata di picche e appoggiata dalle armi da fuoco, a scapito della cavalleria: è quanto lamenta Ariosto in un passo dell’Or- lando Furioso, in cui attribuisce all’invenzione scelerata e brutta delle armi da fuoco la responsabilità di aver privato il mestiere della guerra di ogni onore, impedendo il confronto fra le virtù individuali sul campo di battaglia. • In generale, alla tattica dell’assedio subentra la guerra di movimento. 2° Argomento a sostegno della tesi Conseguenze in ambito sociale: • la cavalleria feudale, composta da aristocratici, perde prestigio sociale a vantaggio della fanteria armata, di estrazione plebea, preparando, come osservano Ceserani e De Federicis, nuovi conflitti sociali. 3° Argomento a sostegno della tesi Conseguenze in ambito politico ed economico: • la necessità di impiegare un numero sempre più elevato di soldati bene armati mette fine al sistema delle compagnie di ventura, non più in grado di dotarsi delle costose armi da fuoco; • nascono i grandi eserciti permanenti formati da sudditi, come del resto auspica in quegli anni lo stesso Machiavelli nel trattato Dell’arte della guerra (1519-1520), in cui sostiene la necessità per ciascuno Stato di rinunciare all’impiego di truppe mercenarie per dotarsi di un proprio esercito di leva; • al declino del feudalesimo e delle istituzioni politiche locali e regionali, prive dei mezzi finanziari occorrenti per dotare gli eserciti delle nuove costosissime armi, corrisponde l’affermarsi delle moderne monarchie nazionali, che organizzano un sistema di prelievo fiscale necessario a mantenere l’esercito. 4° Argomento a sostegno della tesi Conseguenze in ambito artistico-letterario: • la forza d’urto delle nuove armi mette in crisi la tradizionale architettura militare di difesa, destinata a crollare sotto il fuoco dell’artiglieria: torri e cortine murarie alte e merlate scompaiono, sostituite da bastioni e terrapieni muniti di artiglieria da difesa. • G li intellettuali si dividono fra chi rimpiange il tradizionale modo di combattere, come Ariosto, o denuncia la crudeltà della “nuova” guerra, come Guicciardini e Ruzante, e chi al contrario, come Leonardo da Vinci, ignora qualunque implicazione di natura etica e morale per porre le proprie competenze a disposizione delle nuove armi da fuoco. Conclusione Si ribadisce la tesi. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Analisi del testo Volume 2, pp. 88-89 Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 88-89. • Giambattista Felice Zappi, Sognai sul far dell’alba (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo Feci un sogno, sul far del giorno, e mi pareva di essermi trasformato in un cagnolino; sognai che avevo al collo un bel nastro e una macchia di pelo bianco in mezzo al petto. Mi trovavo in un prato nel quale era seduta Clori (la donna amata dal poeta), in un bel gruppo scelto di fanciulle raffinate; (prendevamo piacere l’uno dall’altra) ci dilettavamo l’un l’altra. Clori diceva: Corri, Lesbino; e io correvo. Proseguiva: Dove hai lasciato, o dove se ne è andato, il mio Tirsi (nome pastorale dell’autore), il tuo Tirsi, cosa fa, cosa fai? Io andavo latrando, e volevo dire: Sono io. Mi prese in braccio, mi alzai sulle zampe posteriori, protese le belle labbra verso le mie: quando stava per baciarmi, mi svegliai. 2. Analisi del testo 2.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito da quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine lo schema ABAB ABBA, nelle terzine la successione a rime alterne CDC DCD. La facilità delle rime corrisponde all’aggraziata leggerezza del contenuto. 2.2 In una lieve e aggraziata miniatura tipica della lirica arcadica, il sonetto propone il motivo della dama che vezzeggia il cagnolino nel quale l’io lirico sogna di essersi trasformato. In particolare, la prima quartina segna il passaggio dallo stato di coscienza (Sognai… sognai) all’ingresso nell’atmosfera incantata del sogno (e mi parea) e alla conseguente metamorfosi della realtà (ch’io fossi trasformato…); la seconda strofa tratteggia l’ambientazione campestre di maniera (un praticello) dominata dalla presenza dell’amata, alla cui descrizione concorre il ricorso alla terminologia mitologica (Clori, ninfe, Lesbino). Le parole pronunciate in discorso diretto da Clori conferiscono, quindi, continuità al sonetto nel passaggio dalle quartine alle terzine e introducono il motivo dell’ambiguità dell’io lirico, che si identifica allo stesso tempo con Tirsi (il nome arcadico di Zappi era Tirsi Leucasio) e con il cagnoletto Lesbino. Vezzeggiativi e diminutivi (cagnoletto, praticello, Lesbino) evocano la velata sensualità che pervade l’intero componimento; il tenue gioco dei sensi si manifesta soltanto nell’ultima strofa, segnata però dallo svanire del sogno e dal brusco ritorno alla realtà (io mi svegliai). L’ambiente sociale a cui si fa riferimento è quello aristocratico elegante e raffinato del Settecento. 2.3 L’atmosfera onirica e incantata del sonetto è pervasa dai teneri e delicati sentimenti d’amore dell’io lirico, che vi esprime la malinconia per il distacco dall’amata e il rimpianto per l’incontro con la dama, soltanto sognato; il tormento d’amore è stemperato dalla leggerezza espressiva e dalla musicalità semplice ed elegante del sonetto. 2.4 Nel sonetto ricorre la figura retorica del chiasmo, consistente nella reciproca inversione del costrutto in due frasi contigue; chiaramente individuabile ai versi 3 e 4 (al collo un vago laccio avea / e una striscia di neve in mezzo al petto), 7 (io d’ella, ella di me), 8 (Corri Lesbino; ed io correa) e 13 (il suo bel labbro al labbro mio), il chiasmo conferisce al componimento una discreta ritmicità. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Il sonetto contiene tutti gli elementi tipici della lirica arcadica: su uno scenario campestre convenzionale posano in atteggiamenti languidi e sospirosi amante e amata, protagonisti di stucchevoli cerimoniali amorosi e teneri tormenti. Il gusto per il travestimento si traduce nella consuetudine di darsi nomi ricavati dalla tradizione idillico-pastorale (Clori, Tirsi) e nel ricorso alla terminologia mitologica (ninfe, Lesbino); costantemente sottinteso è il gioco dei sensi, sfumato nel tenue lirismo di un mondo sottratto a problemi e preoccupazioni contingenti. Nel sonetto in analisi ricorrono i toni sdolcinati prodotti da vezzeggiativi e diminutivi (cagnoletto, praticello, Lesbino) e dagli interventi in discorso diretto di Clori; i complimenti galanti ai versi 6 (in un bel coro eletto) e 13 (il suo bel labbro); l’ingenuità leziosa e la sensualità velata ai versi 7 (io d’ella, ella di me prendeam diletto), 12 (M’accolse in grembo) e 13 (inchinò il suo bel labbro al labbro mio). Su un contenuto tenue e sfumato prevalgono i valori melodici: ne nasce la predilezione per uno stile aggraziato, un uso elegante e chiaro della parola, una sintassi lineare e semplice, ritmi armoniosi e musicali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 3.2 Il sonetto di Zappi evidenzia notevoli analogie con la canzonetta Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli. L’illustre esponente dell’Arcadia affronta il tema convenzionale dell’addio all’amata, vero e proprio tópos della tradizione lirica amorosa che offriva in proposito modelli illustri, primo fra i quali Chiare, fresche et dolci acque di Francesco Petrarca. Rolli esprime la malinconia per l’assenza della donna amata con l’aggraziata leggerezza e la musicalità semplice ed elegante che caratterizzano la miglior produzione arcadica. Alla solitudine del poeta fa da sfondo il silenzio dello scenario naturale, il bosco solitario, i cui elementi assumono inattesi caratteri antropomorfi e diventano gli interlocutori privilegiati del malinconico soliloquio dell’io lirico, che dispera di rivedere l’amata. La drammaticità del tormento interiore è, tuttavia, stemperata dall’aggraziata eleganza dell’espressione e dalla dolce musicalità della lirica, ottenuta, come nel sonetto di Zappi, attraverso la facilità delle rime, l’insistita presenza di figure retoriche della ripetizione, come il chiasmo e l’anafora, che accentuano la ritmicità, le iterazioni di parole identiche o simili, l’uso di diminutivi e vezzeggiativi. Ad accomunare i due componimenti è anche la struttura circolare, che in entrambi conduce l‘io lirico a spaziare da un presente di solitudine e dolore alla felicità del passato, generata da un incontro amoroso realmente avvenuto o soltanto sognato, fino al conclusivo ritorno al presente. 3.3 È la preziosa eleganza dell’ambientazione a rinviare al famoso episodio della vergine cuccia raccontato da Parini nel Giorno, poema composto a partire dal 1763 nel quale il precettore incaricato dell’istruzione di un giovane aristocratico ne racconta le gesta con sguardo all’apparenza ammirato e accondiscendente, svelandone in realtà con sarcasmo e feroce ironia le futili e oziose occupazioni, la corruzione morale e l’inettitudine. Dalla voce del narratore-precettore affiora la ferma e severa condanna di Parini nei confronti dell’aristocrazia del suo tempo, incapace di far fronte ai propri doveri sociali e di porsi alla guida della società. Protagonista dei versi del Parini è di nuovo un cagnolino, definito con analogo ricorso a vezzeggiativi e a formule mitologiche, che ne fanno la vergine cuccia de le Grazie alunna. Tuttavia, proprio l’attribuzione di toni prima epici e poi drammatici a un episodio banale, il calcio sferrato da un servo al cane che l’ha morso a un piede, conferisce alla vicenda una connotazione fortemente ironica, alla quale subentra, nella seconda parte dell’episodio, lo sdegno morale del poeta per l’ingiusto licenziamento del servo, ridotto in povertà. La leggerezza dei temi dei contenuti messi in versi dall’arcade Zappi stridono, dunque, fortemente con la ferma e sdegnosa denuncia sociale di Parini, che pone l’accento sulla mancanza di umanità del ceto nobiliare rappresentato e dell’intero ambiente aristocratico settecentesco che fa da sfondo all’episodio. LA STESURA DEL TESTO Commento Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario Giambattista Felice Zappi nacque a Imola nel 1667; conseguita a Bologna la laurea in legge, si trasferì a Roma dove nel 1690 con il nome di Tirsi Leucasio fu tra i quattordici fondatori dell’Arcadia, diventando ben presto il più acclamato della prima generazione di arcadi. Morì a Roma nel 1719; la sua produzione, una settantina di componimenti in tutto, fu pubblicata postuma a cura della moglie, la poetessa Faustina Maratti. Nei suoi componimenti egli canta la propria vicenda d’amore, secondo i temi e i modi del movimento. Le sue liriche si caratterizzano per un sentimentalismo di maniera, lezioso e artificioso; una musicalità dolce e aggraziata fa di alcuni sonetti di argomento amoroso tenui ed eleganti quadretti di maniera. L’Accademia dell’Arcadia nasce a Roma nel 1690 su iniziativa di alcuni intellettuali e scrittori che si riuniscono intorno al salotto letterario dell’ex regina di Svezia Maria Cristina; centro di confluenza dell’opposizione al Barocco, l’Accademia restaura la tradizione classica e si fa interprete delle esigenze di una società aristocratica elegante e raffinata, fautrice di un nuovo gusto poetico. I suoi fondatori formulano un programma di rinnovamento letterario, alla cui base sta un’esigenza di naturalezza e semplicità, di ordine ed equilibrio, di misura e chiarezza espressiva. Strumento e guida per la nuova poesia sono i classici antichi e i poeti italiani di buon gusto, come il Petrarca e gli emuli cinquecenteschi, nella cui imitazione gli arcadi introducono una grazia tipicamente settecentesca e la tendenza ad attenuare il realismo a favore di una composta musicalità del verso. Ne nasce una poesia amabile ed elegante, le cui forme garbate esprimono il sentimento amoroso e appagano il gusto della società aristocratica dell’epoca. Laboratorio per l’esame 2 La struttura Il metodo applicato Indicazioni biografiche sul percorso artistico dell’autore e il contesto in cui ha operato. Notizie fornite dalla tracc ia integrate con alcune conoscenze personali. Precisazione del contesto letterario nel quale l’autore ha operato. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La reazione antibarocca dell’Arcadia si esaurisce, tuttavia, nell’ambito prevalentemente formalistico: manca nei suoi esponenti la consapevolezza che un vero rinnovamento dovrebbe compiersi anzitutto nella dimensione interiore e spirituale del letterato e nei contenuti della sua opera. L’Arcadia, in sostanza, non sa trarre ispirazione dalla nuova visione del mondo che si diffonde in Italia e in Europa nel corso del Seicento. Come il Barocco, essa continua a proporre l’evasione dalla realtà, non più in direzione delle astruse meraviglie del concettismo, bensì verso un mondo fittizio idillico e sottilmente sentimentale, dove gli affetti e gli stati d’animo si attenuano in una musicalità languida, sullo sfondo di una natura irreale e stilizzata. L’analisi del significato Zappi predilige, dunque, una poesia di ispirazione bucolica, entro la quale egli canta la propria vicenda d’amore secondo i temi e i modi dell’Accademia. Non fa eccezione il sonetto in analisi, al centro del quale troviamo il motivo tipicamente arcadico della dama che vezzeggia un cagnolino, in cui il poeta sogna di essersi trasformato. Su uno sfondo campestre convenzionale, tipico della tradizione idillica, Zappi mette in scena cortigiani e dame, travestiti da pastori, pastorelle e ninfe: amante e amata, protagonisti di stucchevoli cerimoniali amorosi e teneri tormenti, vi posano in atteggiamenti languidi e sospirosi; costantemente sottinteso è il gioco dei sensi, sfumato nel tenue lirismo di un mondo sottratto a problemi e preoccupazioni contingenti. L’atmosfera onirica e incantata del sonetto è pervasa dei teneri e delicati sentimenti d’amore dell’io lirico, che vi esprime il rimpianto per l’incontro soltanto sognato e la malinconia per il distacco dall’amata. Il componimento evidenzia una struttura circolare, che procede da uno stato di coscienza dell’io lirico (Sognai… sognai), riferito al passato remoto come azione definitivamente compiuta, all’atmosfera incantata del sogno (e mi parea), alla cui irrealtà ed evanescenza contribuiscono l’ambientazione campestre di maniera (un praticello) e il ricorso alla terminologia mitologica (Clori, ninfe, Lesbino). La trasformazione onirica del mondo reale (ch’io fossi trasformato) è raccontata all’imperfetto, nel suo progressivo compiersi nel passato (Era, sedea…); il racconto del sogno d’amore appare pervaso da una velata sensualità (io d’ella, ella di me prendeam diletto), che si manifesta soltanto nell’ultima strofa, nella quale il ricorso al passato remoto riferisce lo svanire dell’illusione e il brusco ritorno allo stato di coscienza (io mi svegliai). L’atmosfera sfumata entro cui si sviluppa il sogno d’amore dell’io lirico, l’atteggiarsi dei protagonisti, il travestimento pastorale e il ricorso alla terminologia mitologica contribuiscono ad attenuare la naturale intensità del sentimento amoroso e a farne un piacevole e galante gioco di maniera, espresso in uno stile aggraziato ed elegante, con una musicalità semplice e armoniosa. Ci troviamo dunque in presenza di una lirica non da leggere, bensì da ascoltare. Come sottolineava causticamente Giuseppe Baretti (1719-1789) nelle pagine del suo periodico «La frusta letteraria», nonostante i propositi di rinnovamento del gusto poetico espressi dai fondatori dell’Accademia, manca all’Arcadia la capacità di operare una vera riforma dei contenuti, che continuano a proporre l’evasione dalla realtà verso un mondo fittizio idillico e sentimentale, dove gli affetti e gli stati d’animo si attenuano in una musicalità languida e composta, sullo sfondo di una natura irreale e schematizzata. Ad analoghe considerazioni conduce la celebre canzonetta Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli, che evidenzia notevoli analogie con il sonetto di Zappi. L’illustre esponente dell’Arcadia affronta il tema altrettanto convenzionale dell’addio all’amata, vero e proprio tópos della tradizione lirica amorosa che offriva in proposito modelli illustri, primo fra i quali Chiare, fresche et dolci acque di Francesco Petrarca. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Dati contenuti nella risposta 3.1 e integrazioni personali. Esplicitazione del Rielaborazione della messaggio. parafrasi (risposta 1). Dati contenuti nella risposta 2.2. Dati contenuti nella risposta 2.3 e integrazioni personali. Confronto con altri Dati relativi alla rispointellettuali e lette- sta 3.1.e integrazioni rati del Settecento. personali. Dati relativi alla risposta 3.2. Laboratorio per l’esame 3 Eppure, l’opera dei grandi autori viene riletta in modo riduttivo, privata del suo spessore artistico e morale e ridotto a modello di buongusto ed eleganza formale. In sostanza, non ci si può attendere dall’Arcadia la consistenza dell’impegno civile e morale e la profondità e complessità dei sentimenti che caratterizzano negli stessi anni la poesia influenzata dall’Illuminismo e la lirica preromantica. La leggerezza dei temi e dei contenuti messi in versi dall’arcade Zappi stridono, infatti, con la sdegnata denuncia sociale che trova spazio in un’altra opera del Settecento italiano, il Giorno di Parini, con il quale il sonetto condivide la preziosa eleganza dell’ambientazione aristocratica. Nel poemetto satirico il narratore dà voce alla severa condanna dell’autore nei confronti dell’aristocrazia del suo tempo, della quale racconta le gesta con sguardo all’apparenza ammirato e accondiscendente, svelandone in realtà con sarcasmo le futili occupazioni, la corruzione morale e l’inettitudine ad adempiere i propri doveri sociali. In particolare, nell’episodio della vergine cuccia affiora la condanna del ceto aristocratico settecentesco, incapace di porsi alla guida della società: protagonista anche in questo caso è un cagnolino, definito con ricorso a vezzeggiativi e a formule mitologiche analoghe a quelle impiegate da Zappi. Tuttavia, proprio l’attribuzione di toni prima epici e poi drammatici al banale episodio riferito, il calcio sferrato da un servo al cane che l’ha morso a un piede, conferisce alla vicenda una connotazione fortemente ironica, alla quale subentra, nella seconda parte dell’episodio, lo sdegno morale del poeta per l’ingiusto licenziamento del servo, ridotto in povertà. Parini pone l’accento sull’assoluta mancanza di umanità del ceto nobiliare e dell’intero ambiente aristocratico settecentesco che fa da sfondo all’episodio. L’analisi del significante In totale adesione al sistema tematico ed espressivo della lirica arcadica, anche nel sonetto in esame i valori melodici e musicali prevalgono sui contenuti tenui e sfumati. Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura assai antica nata nell’ambito della Scuola Siciliana come breve poesia musicata (è questo il significato del termine provenzale sonet). Proprio le potenzialità musicali del sonetto devono avere indotto Zappi ad adottarne lo schema metrico: il componimento in analisi era probabilmente destinato alla recitazione, così come avveniva per la maggior parte delle liriche arcadiche. Il poeta adotta nelle quartine lo schema ABAB ABBA, nelle terzine la successione a rime alterne CDC DCD. La facilità delle rime corrisponde all’aggraziata leggerezza del contenuto. La presenza insistita di numerosi tópoi della lirica idillico-pastorale, la quale prevede la ripetizione di elementi fissi e l’uso continuo di variazioni all’interno di un sistema tematico ed espressivo chiuso, si traduce in campo lessicale in frequenti ripetizioni di vocaboli identici o simili: si noti, per esempio, la ripetizione del verbo sognai, in posizione iniziale ai versi 1 e 3, che segnala il passaggio dallo stato di coscienza all’atmosfera onirica del sogno. Il ricorso alla terminologia mitologica (ninfe, Lesbino) e l’uso insistito di vezzeggiativi e diminutivi (cagnoletto, praticello, Lesbino) evocano la velata sensualità che pervade l’intero componimento. La presenza dell’anafora (vv. 1 e 3, sognai; vv. 2, 7 e 11, ch’io, io) e di figure retoriche dell’ordine, come il chiasmo e l’inversione (v. 3), concorre a movimentare una sintassi semplice e lineare e accentua la ritmicità del testo, conferendo alla lirica una dolce musicalità. Laboratorio per l’esame 4 Rielaborazione delle informazioni e delle conoscenze contenute nella risposta 3.3. Metrica. Risposta alla domanda 2.1 e integrazioni per sonali. Il lessico. Le figure retoriche. Risposta alla domanda 2.4. La sintassi, il ritmo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Analisi del testo Volume 2, pp. 102-105 Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 102-105. • Miguel de Cervantes, La finta Dulcinea (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo 1.1 Il brano può essere suddiviso nelle seguenti macrosequenze: a. giunti nel Toboso, don Chisciotte incarica Sancho Panza di trovare Dulcinea, nobile signora frutto delle sue fantasticherie cavalleresche; b. con uno stratagemma, Sancho induce il cavaliere a riconoscere l’amata nobildonna in una povera contadina incontrata per strada; c. don Chisciotte offre i propri servigi alla falsa Dulcinea, che lo insulta. 1.2 Giunti nei pressi del Toboso, piccolo villaggio della Mancia, don Chisciotte, che arde dal desiderio di incontrare Dulcinea, la dama a cui intende dedicare le proprie imprese, incarica Sancho Panza di trovarla e di offrirle i suoi servigi. L’impresa è però impossibile, poiché la nobile signora è il frutto delle fantasticherie dell’allampanato cavaliere. Il fido scudiero, tuttavia, non si perde d’animo e in un vero e proprio capovolgimento dei ruoli induce Don Chisciotte a riconoscere l’amata Dulcinea in una contadina incontrata per strada. L’ignara popolana non sembra però gradire le profferte amorose dei due strani individui e li liquida sgarbatamente. Don Chisciotte matura allora la convinzione che la nobildonna sia vittima di un terribile incantesimo, che ne ha alterato l’aspetto fisico e la perfetta bellezza. 2. Analisi del testo 2.1 Don Chisciotte e Sancho Panza costituiscono, per aspetto fisico e mondo interiore, l’uno l’antitesi comica dell’altro: attempato nobiluomo il primo, alto, secco e allampanato, la testa piena di fantasie letterarie che ne alterano la percezione della realtà; contadino tarchiato e ben pasciuto il secondo, dotato di solido pragmatismo e di buon senso popolare. I due personaggi costituiscono dunque una coppia di perfetti opposti e risultano per certi aspetti addirittura complementari, al punto da scambiarsi i ruoli, come accade nell’episodio in analisi. In questa occasione l’esigenza di assolvere un incarico impossibile, trovare una nobildonna che non esiste, spinge Sancho ad assecondare e addirittura stimolare la capacità visionaria di don Chisciotte, insolitamente lucido e concreto in tale circostanza, inducendolo ad alterare la propria visione della realtà e a riconoscere nelle tre contadine in groppa agli asini Dulcinea e le sue damigelle. 2.2 Spinto dall’esigenza di rendere credibile lo stratagemma escogitato, Sancho abbandona il registro linguistico concreto e popolare con cui comunemente si esprime per adottare lo stile enfatico e retorico dell’allampanato hidalgo, intriso di riferimenti libreschi e di espressioni tratte dai poemi cavallereschi: si noti in tal senso la descrizione delle tre contadine e delle loro cavalcature in particolare, che il rozzo scudiero chiama erroneamente canee anziché chinee, intendendo riferirsi ai cavalli pregiati adatti a lunghi viaggi e generando un involontario effetto comico. 2.3 Lo stesso don Chisciotte si lascia, a sua volta, facilmente indurre dallo scudiero ad alterare l’evidenza dei fatti in senso allucinatorio: poco fiducioso nelle proprie capacità di analisi e nelle proprie facoltà mentali, egli sembra dare per scontato che la realtà non si limita all’esperienza dei sensi, ma comprende aspetti illusori e immaginari che egli è disposto ad accettare. Ecco allora che in chiusura di episodio, pur di piegare la crudezza della realtà alle fantasie, il cavaliere si spinge fino a elaborare un’assurda spiegazione al contrasto tra realtà (le tre contadine in groppa a degli asini) e immaginazione (Dulcinea e le damigelle su nobili cavalcature), ossia l’incantesimo di cui Dulcinea sarebbe vittima. 2.4 Dal colorito scambio di battute tra i protagonisti e le contadine emerge il duro scontro fra realtà e illusione, fra normalità e follia: la pazzia di don Chisciotte consiste nel proposito di trasformare il grigiore della realtà quotidiana con la propria fantasia, mutando gli oggetti e le situazioni più banali in personaggi e circostanze fantastiche del mondo immaginario in cui egli crede di vivere e all’interno del quale accetta di giocare il proprio ruolo fino in fondo. Nell’episodio in analisi, le rozze espressioni delle popolane non riescono a infrangere la delirante illusione a cui Sancho l’ha condotto. 2.5 Cervantes ricorre all’espediente narrativo del casuale ritrovamento, in un mercato di Toledo, di un antico manoscritto arabo che egli si accinge a tradurre; l’autore intende, in tal modo, conferire veridicità e autenticità alle vicende narrate, che si presentano come un documento storico e non come invenzione della sua fantasia. Il narratore può, inoltre, mantenere distinta la voce dell’autore arabo, tale Cide Hamete Benengeli, dalla propria, conservando distacco e libertà di giudizio nei confronti della materia narrata, soprattutto quando si tratta di episodi particolarmente inverosimili. Ciò provoca il carattere estremamente composito della voce narrante. La realtà si frantuma in una molteplicità di punti di vista e di atteggiamenti in conflitto fra loro, all’interno della quale il lettore deve districarsi interpretando le vicende narrate come meglio crede: nel romanzo, infatti, tutto può essere allo stesso tempo se stesso e qualcos’altro. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Il romanzo offre un ritratto ironico e parodistico del mondo feudale e della cavalleria da tempo tramontati, ma ai quali l’alta società spagnola del Seicento sembrava ancora aggrappata, incapace di rinunciare definitivamente ai propri privilegi. L’intento satirico è, inoltre, alimentato dall’esperienza autobiografica di Cervantes, che partecipò alla battaglia di Lepanto contro i Turchi (1571) e fu, dunque, un vero “eroe” in termini cavallereschi; tuttavia, egli non ne ricavò alcun riconoscimento o vantaggio, e trascorse invece molti anni della sua vita successiva in povertà, forse in carcere. Ciò che l’autore intende dunque porre in evidenza è lo stridente contrasto fra la percezione comunemente diffusa del valore dei soldati che combattono realmente in difesa della cristianità e l’esagerata esaltazione dei cavalieri immaginari prodotti dalla letteratura cavalleresca. Inoltre, nell’opera è innegabile l’intento di porre in ridicolo proprio quella letteratura cavalleresca che era tanto in auge nella Spagna del XVI secolo, la quale divorava romanzi di enorme successo di pubblico, ma di mediocre qualità letteraria. 3.2 L’opera esprime il disorientamento che seguì negli animi degli intellettuali più sensibili ai radicali mutamenti introdotti nella percezione del mondo dalla rivoluzione scientifica dalla fine del XVI secolo: crollata ogni certezza sull’evidenza dell’universo tolemaico, che aveva garantito per secoli la conoscibilità del mondo e la centralità dell’uomo nell’universo, si diffuse la consapevolezza della vanità delle azioni umane, incommensurabilmente piccole e inconsistenti a paragone con l’improvvisa scoperta della dimensione infinita dell’universo, insieme all’impossibilità di conoscere le verità assolute del mondo e di attribuire ad esso un significato univoco. Lo scambio di ruoli fra Sancho e don Chisciotte a cui assistiamo nel brano in analisi è proprio il simbolo della molteplicità di interpretazione a cui l’esperienza dei sensi conduce, crollate le certezze e le verità che per secoli erano parse indiscutibili. 3.3 Nell’interpretazione dell’età umanistico-rinascimentale, la pazzia evidenzia la compresenza di due aspetti contrastanti e contraddittori. A tale proposito è emblematica la distinzione proposta da Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della follia (1511), trattato in forma di monologo in cui la stessa Follia, chiamata a tessere il proprio elogio, distingue fra un’insania tragica e funesta, che alimenta le più turpi passioni e gli istinti delittuosi dell’individuo, e una follia positiva e benefica, una specie di alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzioni e alle costrizioni sociali e lo conduce a un rovesciamento nella percezione della realtà. La follia, strumento di lettura dell’universo, si fa dunque portatrice di una capacità critica straordinaria, in grado di rivelare la demenza del mondo “normale” il quale, spinto dalle convenzioni sociali e morali, rincorre falsi ideali e valori rinunciando ad assecondare in modo più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni. Sulla linea della contraddizione anche l’interpretazione della pazzia proposta da Ariosto nell’Orlando furioso, il cui titolo pone fin da subito in evidenza il tema centrale della follia, la quale trasforma le vicende del più grande paladino di Francia in paradigma della generale dissennatezza umana. Il senno di Orlando, perduto per amore di Angelica, viene poi recuperato da Astolfo in un immaginifico viaggio nel cielo della luna, dove finiscono ammassate le cose perdute sulla terra: sulla luna è assente la follia, che non abbandona mai il nostro pianeta, mentre vi spicca per quantità il senno. Il lettore è dunque indotto a concludere che la pazzia è condizione universale imprescindibile dalla natura umana, una modalità esistenziale dell’uomo, dalla quale si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo che, recuperato il proprio senno sulla luna, finirà per perderlo nuovamente. In particolare nell’ironia di Ariosto è possibile riconoscere il lato positivo della follia, la sua capacità critica e dissacrante nei confronti delle regole morali e delle convenzioni sociali che imprigionano l’individuo in un ruolo innaturale, che non gli corrisponde. Nel romanzo di Cervantes, la follia rappresenta le inquietudini e le contraddizioni proprie di individui divenuti incapaci di orientarsi in un universo che non è più a misura d’uomo, uno strumento di evasione da una realtà dominata dal disincanto e dalla perdita di valore della vita e della storia degli uomini: è emblematico, in tal senso, l’episodio della battaglia contro i mulini a vento. Il folle cavaliere mostra al lettore la delusione di fronte a una realtà che annulla l’immaginazione, le proprie aspettative e impedisce la realizzazione di un progetto di vita entro cui l’individuo possa riconoscersi e identificarsi; egli esprime, per contrasto, l’esigenza di far emergere la propria individualità, al di fuori dei rigidi schemi sociali, attraverso l’affermazione della fantasia, del sogno, dell’illusione. LA STESURA DEL TESTO Commento La struttura Introduzione all’opera e al contesto storico, culturale e letterario L’ingegnoso cavaliere don Chisciotte della Mancia: è questo il titolo completo dell’opera in prosa che sviluppa in due libri pubblicati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro (1605 e 1615) le bizzarre avventure di un nobiluomo di campagna, un hidalgo spagnolo di nome Alonso Quijano: morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi al punto da perdere il contatto con la realtà, il protagonista si convince di poter emulare egli stesso le gesta dei cavalieri erranti. Laboratorio per l’esame 2 Il metodo applicato Indicazioni utili a Dati contenuti nella delineare le caratte- trac cia e integrazioni ristiche generali del personali. l’opera. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Divenuto così il cavaliere don Chisciotte della Mancia, si mette in viaggio per la Spagna per difendere i deboli e riparare i torti, trascinando con sé lo scudiero Sancho Panza, un villano del posto, e dedicando le proprie imprese alla nobile dama Dulcinea del Toboso, che altri non è che una contadina sua vicina. Purtroppo per don Chisciotte, la Spagna del suo tempo non è più quella del mondo feudale: in mancanza di avventure, egli comincia con visionaria ostinazione a rileggere la realtà con gli occhi della fantasia, trasfigurando gli oggetti più banali e le situazioni più prosaiche in personaggi e circostanze proprie del mondo romanzesco e fantastico in cui egli crede di vivere. Accettando di giocare il proprio ruolo fino in fondo, egli combatte avversari immaginari uscendone sempre sconfitto e suscitando l’ilarità di chi assiste alle sue folli gesta. Funge da modello a quello che è stato definito il primo romanzo moderno della letteratura mondiale il genere picaresco, nato in Spagna alla metà del XVI secolo: si tratta di una narrazione condotta in prima persona in cui si descrivono le avventure vissute dalla nascita fino alla maturità dal protagonista, attore e vittima di spietate ribalderie. Del genere picaresco Don Chisciotte condivide il motivo del vagabondare del protagonista in cerca di affermazione, così come la struttura non convenzionale, che prevede un susseguirsi di avventure ed episodi senza alcun apparente fine logico, secondo uno schema detto “a schidionata”. Lo stile è burlesco ed eroicomico: eventi apparentemente seri sono messi alla berlina o, viceversa, situazioni comiche e assurde sono presentate in uno stile epico. Il contrasto insanabile tra stile e contenuto è responsabile dell’effetto irresistibilmente satirico. Anche per questi aspetti il romanzo può essere considerato una delle prime manifestazioni della cultura barocca: l’opera esprime il disorientamento degli intellettuali più sensibili di fronte ai radicali mutamenti nella percezione del mondo e della condizione umana introdotti dalla scienza alla fine del XVI secolo. Crollata ogni certezza sull’evidenza dell’universo tolemaico, che aveva garantito per secoli la conoscibilità del mondo e la centralità dell’uomo, si diffonde la consapevolezza dell’impossibilità di conoscere le verità assolute e di attribuire alla realtà un significato univoco. La realtà si frantuma allora in una molteplicità di punti di vista e di interpretazioni contrastanti. La follia di don Chisciotte rappresenta le inquietudini e le contraddizioni di un’umanità divenuta incapace di orientarsi in un universo che non è più a misura d’uomo, uno strumento di evasione da una dimensione dominata dal disincanto e dalla perdita di valore della vita e della storia degli uomini. La capacità visionaria dell’allampanato cavaliere è espressione della delusione di fronte alla realtà, che annulla l’immaginazione e impedisce la realizzazione di un progetto di vita entro cui l’individuo possa riconoscersi e identificarsi; l’hidalgo sembra dare per scontato che la realtà non si limita all’esperienza dei sensi, ma comprende aspetti illusori e fantastici che egli è disposto ad accettare, giocando il proprio ruolo fino in fondo. Nell’universo di don Chisciotte ogni cosa può essere allo stesso tempo se stessa e qualcos’altro. Come nell’interpretazione umanistico-rinascimentale, anche in Don Chisciotte la follia è una positiva e benefica forma di alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzioni e alle costrizioni sociali le quali lo spingono a inseguire falsi valori e ideali, rinunciando ad assecondare in modo più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni. Contribuisce alla moltiplicazione delle interpretazioni e dei punti di vista l’espediente narrativo messo in atto da Cervantes, il quale finge di aver casualmente ritrovato, in un mercato di Toledo, un antico manoscritto arabo che egli si accinge a tradurre: le vicende narrate si presentano quindi come un documento storico e non come invenzione della fantasia dell’autore. Il narratore può, inoltre, mantenere distinta la voce dell’autore arabo, tale Cide Hamete Benengeli, dalla propria, caratterizzata da distacco e da libertà di giudizio nei confronti della materia narrata, soprattutto quando si tratta di episodi particolarmente inverosimili, come nel brano in analisi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Il romanzo e il contesto storico. Il contesto letterario. Il contesto culturale. Dati contenuti nella risposta 3.2 e integrazioni personali. Dati contenuti nella risposta 3.3 e integrazioni personali. Dati contenuti nella risposta 2.5 e integrazioni personali. Laboratorio per l’esame 3 Ne deriva il carattere estremamente composito della voce del narratore, che comprende in sé la voce di chi traduce e commenta il manoscritto arabo; la voce di colui che ha materialmente redatto il manoscritto originario; le molteplici voci (narratori di secondo grado) che raccontano vicende secondarie adottando il punto di vista di svariati personaggi, incluso il protagonista. La realtà si frantuma quindi attraverso una molteplicità di punti di vista e di atteggiamenti in conflitto fra loro, mostrando le proprie innumerevoli sfaccettature. Spetta dunque al lettore interpretare le vicende narrate come meglio crede. L’analisi del significato Nell’episodio in analisi, è Sancho, contadino grasso e tarchiato solitamente portatore di un pragmatico buon senso, a spingere un insolito don Chisciotte, straordinariamente lucido e concreto in questa circostanza, ad alterare la propria visione della realtà e a riconoscere nelle tre contadine in groppa agli asini Dulcinea e le sue damigelle. Giunti nel Toboso, don Chisciotte incarica Sancho Panza di trovare Dulcinea, nobile signora frutto delle sue fantasticherie cavalleresche, alla quale intende dedicare le proprie imprese. Con uno stratagemma, Sancho induce il cavaliere a riconoscere l’amata in una povera contadina incontrata per strada: l’esigenza di assolvere a un incarico impossibile, trovare una nobildonna che non esiste, spinge infatti lo scudiero ad assecondare e addirittura a stimolare la capacità visionaria di don Chisciotte. Lo stesso hidalgo appare, del resto, ben disposto ad alterare l’evidenza dei fatti in senso allucinatorio: poco fiducioso nelle proprie capacità di analisi e nelle proprie facoltà mentali (o per lo meno, a me sembrano tali), egli sembra dare per scontato che la realtà non si limita all’esperienza dei sensi, ma comprende aspetti illusori e immaginari che egli è disposto ad accettare nonostante appaiano del tutto inverosimili (non riusciva a vedere in lei se non una ragazza del paese, e neanche bella di viso). Non a caso, è proprio un persuaso don Chisciotte a escogitare, in chiusura di episodio, un’assurda spiegazione al contrasto tra apparenza e realtà pur di piegare la crudezza della realtà alle fantasie, in questo caso di Sancho: Dulcinea sarebbe vittima di un terribile incantesimo, che ne altera e ne deforma la bellezza e l’eleganza. A nulla servono le rozze ma realistiche espressioni delle popolane, che non riescono a infrangere la delirante illusione a cui lo scudiero l’ha condotto. Ciò che emerge dal colorito scambio di battute tra i protagonisti e le contadine è proprio il duro scontro fra realtà e illusione, fra normalità e follia: la pazzia di don Chisciotte consiste nel fermo proposito di ricostruire il mondo esterno con la propria fantasia, di trasformare il grigiore della realtà quotidiana, gli oggetti più banali e le situazioni più prosaiche nelle forme fantastiche e cavalleresche del mondo romanzesco in cui egli crede di vivere. L’analisi del significante La frantumazione della verità, il perenne oscillare tra illusione e realtà, tra lucidità e follia è reso nel Don Chisciotte dai dialoghi che, contrapponendo il registro linguistico dell’hidalgo a quelli di Sancho e delle rozze contadine, consente all’autore di dare voce ai diversi punti di vista, stabilendo fra loro un rapporto dialettico. La vivacità del dialogo è garantita dallo stridente contrasto fra lo stile enfatico e retorico dell’allampanato cavaliere, intriso di riferimenti libreschi e di espressioni tratte dai poemi cavallereschi, e il registro linguistico concreto e popolare proprio dello scudiero e delle popolane, disseminato di rozze e colorite espressioni, che esprimono il duro scontro fra realtà e illusione, fra normalità e follia. Laboratorio per l’esame 4 Enunciazione sinte- Rielaborazione dei dati tica dell’argomento contenuti nelle rispodel brano ed espli- ste 1.1 e 1.2. citazione del messaggio. Dati contenuti nelle risposte 2.1 e 2.3 e integrazioni personali. Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni personali. I registri linguistici. Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Nell’episodio in analisi, l’esigenza di rendere credibile il proprio stratagemma induce Sancho ad abbandonare il registro linguistico concreto e popolare con cui comunemente si esprime per adottare i modi di espressione del cavaliere: si noti in tal senso la descrizione delle tre contadine e in particolare delle cavalcature, che il rozzo scudiero, intendendo riferirsi ai cavalli pregiati adatti a lunghi viaggi, chiama erroneamente canee anziché chinee, generando un involontario effetto comico. Lo scambio dei ruoli a cui si assiste nell’episodio in questione non fa che confermare ulteriormente la sensazione del lettore che all’interno del romanzo ogni cosa possa essere allo stesso tempo se stessa e qualcos’altro, per cui egli è costretto a interpretarla come meglio crede. Dunque, anche le scelte narrative e formali concorrono a confermare l’impossibilità di conoscere le verità assolute del mondo e di attribuire ad esso un significato univoco, insieme al disincanto e alla perdita di valore della vita e della storia degli uomini. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Dati contenuti nella risposta 2.2 e integrazioni personali. Dati contenuti nella risposta 2.1 e integrazioni personali. Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Analisi del testo Volume 2, pp. 147-150 Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 147-150. • Molière, La visita di un medico particolare (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo Tra finzione e realtà: l’“accurata” visita di un falso medico a un malato immaginario. 2. Analisi del testo 2.1 L’autore intende ridicolizzare la classe medica del Seicento, il cui totale disinteresse per il paziente è ben evidenziato dall’augurio al malato di malattie d’eccezione praticamente incurabili, dal ricorso a un linguaggio incomprensibile, infarcito di oscure parole in latino, dalla proposta di cure dannose, quali l’amputazione di un arto sano, dall’abitudine infine di riunirsi a consulto solo dopo l’avvenuta morte del paziente, per verificare cosa si sarebbe dovuto fare per guarirlo. Lo scopo dell’autore è dunque quello di mettere in guardia il pubblico da medici senza scrupoli, pronti ad approfittare delle ossessioni e delle fragilità dei pazienti. 2.2 Borghese di mezza età ossessionato dalla paura delle malattie anche se in ottima salute, Argante ostenta soggezione nei confronti di medici e farmacisti tanto da dare credito a qualunque cura o rimedio essi suggeriscano. Desideroso di avere un medico in famiglia, il vecchio ipocondriaco medita persino di far sposare la figlia Angelica al nipote del dottor Purgone, benché la ragazza sia innamorata di un altro. Attraverso questo personaggio Molière rappresenta in chiave comica e caricaturale la categoria dei vecchi egocentrici che, presi dalle proprie manie e ossessioni, tentano di soffocare la libertà e la vitalità dei giovani in nome dei propri interessi. 2.3 Allo scopo di svelare al padrone la disonestà di dottori e farmacisti, interessati soltanto a derubarlo, la scaltra cameriera Tonina si presenta travestita da medico itinerante di grande fama il quale, venuto a conoscenza dello straordinario caso di Argante, desidera sottoporlo a una visita accurata. Le diagnosi assurde del finto medico, del tutto contrarie alle cure finora prescritte ad Argante dall’imbroglione Purgone, e l’efficace imitazione del linguaggio medico, che la cameriera ha acquisito negli anni trascorsi al servizio del malato immaginario, ottengono l’effetto sperato: appagate la vanità e l’ipocondria di Argante, il falso medico ne conquista la cieca fiducia, screditando ai suoi occhi il dottor Purgone, il cui nome non figura nell’elenco di grandi medici. È di effetto comico soprattutto la lunga lista di malattie d’eccezione, ciascuna accompagnata dall’aggettivo “bello”, pronunciato in contrapposizione alle comuni malattie, sminuite dall’uso dei diminutivi. Altrettanto ridicolo il ripetersi della diagnosi (I polmoni) a ogni pseudo-sintomo lamentato da Argante, così come gli insulti al medico curante (Ignorante) e la serie di parole latine, volta a tratteggiare un’ironica parodia del linguaggio medico. 2.4 Persino i nomi dei dottori che hanno in cura Argante contribuiscono a tratteggiare la grottesca parodia della classe medica del tempo: il dottor Purgone, il nipote Percacus e il farmacista Centodori, per i quali il malato immaginario costituisce una fonte inesauribile di guadagno, sembrano assecondare anche nel nome la vera e propria ossessione che egli ha per il corretto espletamento delle funzioni intestinali. 2.5 Contribuiscono a generare un effetto ironico e grottesco il ricorso a un registro linguistico formale, la presenza di un lessico specialistico infarcito di latinismi, l’avvicendarsi di un ritmo ora lento nella parte iniziale e conclusiva, dove prevalgono battute lunghe e frasi complesse, ora concitato in quella centrale, alla cui vivacità contribuiscono la ripetizione insistita della diagnosi (I polmoni!), le reiterate esclamazioni (Ignorante!) e il rapido scambio di brevi battute. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti Tartufo (1664) e Il malato immaginario (1673), vere e proprie commedie della doppiezza e dell’ipocrisia, rappresentano per il critico Luigi Lunari uno degli aspetti più autentici del Seicento, secolo del formalismo e dell’apparenza dietro i quali si cela lo scontro fra vecchio e nuovo. Costretto fra la Controriforma cattolica, che con il Concilio di Trento (1545-1563) aveva imposto dogmi e messo a punto rigorosi strumenti di controllo, censura e repressione, e la rivoluzione scientifica, che rifiutava verità precostituite e autorità consolidate in nome dell’esperienza pratica e dell’osservazione diretta della realtà, il Seicento si presenta come un secolo di profonde incertezze e di trasformazioni irreversibili. La cultura secentesca, privata dalle recenti scoperte scientifiche dei sistemi teorici che per secoli avevano assicurato all’uomo la comprensione dell’universo, ora è costretta ad affidarsi come strumento di conoscenza alla sola esperienza dei sensi, le cui percezioni appaiono, tuttavia, circoscritte al “qui e ora”, risultano spesso ingannevoli e sempre diverse da individuo a individuo, e sono pertanto prive di valore generale o universale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 In un mondo in cui tutto si trasforma nel tempo e nello spazio, in cui nulla resta mai uguale a se stesso e ogni cosa appare effimera e in continua mutazione, la differenza fra apparenza e realtà si annulla. In tal senso, risultano estremamente significative le sopra citate commedie di Molière, entrambe giocate sul contrasto fra realtà e apparenza, sul doppio registro dell’ipocrisia e della simulazione, dal quale scaturiscono le situazioni più comiche e divertenti: nel Tartufo, in particolare, il protagonista incarna il tipo dell’ipocrita, dell’uomo devoto che cela con disinvoltura i propri appetiti sessuali dietro un’apparente spiritualità e maschera il suo arrivismo sociale con un mistico disprezzo dei beni terreni. Egli rappresenta, a parere di Lunari, la cattiva applicazione alla condotta pratica o addirittura l’abuso dell’«antica mentalità mistica, dogmatica e contemplatrice» ereditata dai secoli passati, costretta ora a fare i conti, nel mutato contesto storico e culturale, con l’affermazione della scienza sperimentale inaugurata da Galilei. Lo spirito scientifico e pragmatico, a sua volta, rischiava di degenerare nella cialtroneria, mirabilmente rappresentata nel Malato immaginario e della quale offre un’ironica rappresentazione l’intera classe medica che lo asseconda. I dottori e i farmacisti che frequentano la casa di Argante si rivelano, infatti, astuti imbroglioni pronti, pur di arricchirsi, ad accontentare persino nel nome le manie del vecchio ipocondriaco e a propinargli tanto inutili quanto costosi intrugli. LA STESURA DEL TESTO Commento Introduzione all’autore e al contesto storico-culturale Vero e proprio genio del teatro, Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière (16221673), rappresenta alcuni degli aspetti più attuali e caratteristici del Seicento barocco. Attore e capocomico francese, fautore di una rivoluzionaria riforma teatrale, Moliere rielabora la tradizionale Commedia dell’Arte, semplice canovaccio sul quale improvvisano i tipi fissi e convenzionali delle maschere, arricchendo di spessore umano e sfaccettature la psicologia dei singoli personaggi e dotando il testo di maggiore completezza e di autonomia dalla rappresentazione teatrale. Sottoponendo a un’analisi spietata l’umanità del suo tempo e portandone in scena i comportamenti sociali tipici e la mentalità dominante, Molière concretizza l’intento prioritario di divertire attraverso un’ironia dissacrante e corrosiva, che mette a nudo le ipocrisie, le falsità e le simulazioni che dominano nei rapporti fra gli individui. Il Seicento è stato infatti definito il secolo del formalismo e dell’apparenza, dietro i quali si celano le profonde incertezze e le irreversibili trasformazioni che lo caratterizzano. Combattuta fra la Controriforma cattolica, che con il Concilio di Trento aveva imposto dogmi e messo a punto rigorosi strumenti di controllo, censura e repressione, e la rivoluzione scientifica, che rifiutava verità precostituite e autorità consolidate in nome dell’esperienza pratica e dell’osservazione diretta della realtà, la cultura del Seicento perde fiducia nei sistemi teorici che per secoli avevano assicurato la comprensibilità dell’universo; essa è ora costretta ad affidarsi nella conoscenza della realtà alla sola esperienza dei sensi, le cui percezioni, appaiono, tuttavia, circoscritte al “qui e ora”, risultano spesso ingannevoli e sono sempre diverse da individuo a individuo, dunque prive di valore generale o universale. In un mondo in cui nulla resta mai uguale a se stesso, ma tutto si trasforma nel tempo e nello spazio, appare effimero e in continua mutazione, la differenza fra apparenza e realtà si annulla, essere e apparire si confondono fino a coincidere. Proprio l’ultima commedia portata in scena da Molière prima della morte, Il malato immaginario, appare incentrata sul contrasto fra apparenza e realtà, le quali risultano difficili da individuare. Il protagonista è Argante, borghese di mezza età ossessionato dalla paura delle malattie e dotato invece di ottima salute. Egli ostenta soggezione nei confronti di medici e farmacisti tanto da dare credito a qualunque cura o rimedio essi suggeriscano. Laboratorio per l’esame 2 La struttura Il metodo applicato Indicazioni utili a delineare il percorso artistico dell’autore e il contesto storico e culturale entro cui ha operato. Notizie fornite dalla traccia integrate con alcune conoscenze personali. Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Desideroso di avere un medico in famiglia, il vecchio ipocondriaco medita persino di far sposare la figlia Angelica al nipote del dottor Purgone, benché la ragazza sia innamorata del giovane Cleante. Sarà il buon senso dell’astuta cameriera Tonina a far rinsavire Argante: per dimostrargli che i medici e i farmacisti sono interessati soltanto al suo denaro, Tonina si finge un medico famoso il quale, venuto a conoscenza dello straordinario caso di Argante, desidera sottoporlo a una visita accurata. La cameriera ha così occasione di mettere in discussione le diagnosi e le cure del dottore Purgone. La commedia si conclude con il consenso di Argante alle nozze della figlia con Cleante e con il proposito del vecchio ipocondriaco di divenire egli stesso dottore. L’analisi del significato Anche nel Malato immaginario, commedia portata per la prima volta in scena nel 1673, Moliere intende sottoporre a un’analisi spietata i comportamenti sociali tipici e la mentalità dominante del suo tempo, allo scopo di denunciare, attraverso un’ironia dissacrante e corrosiva, le ipocrisie, le falsità e le simulazioni che dominano i rapporti fra gli individui. Gli strumenti della satira morale e sociale consentono dunque all’autore di raggiungere il duplice intento di divertire il pubblico e trasmettere insegnamenti morali. Nella scena in analisi, allo scopo di svelare al padrone la disonestà di dottori e farmacisti, la scaltra cameriera Tonina si presenta travestita da medico itinerante di grande fama. Le diagnosi assurde del finto medico, contrarie alle cure finora prescritte ad Argante dall’imbroglione Purgone, e l’efficace imitazione del linguaggio medico, che la cameriera ha acquisito negli anni trascorsi al servizio del malato immaginario, ottengono l’effetto sperato: appagate la vanità e l’ipocondria di Argante, il falso medico ne conquista la totale fiducia, screditando ai suoi occhi il dottor Purgone, il cui nome neppure figura nell’elenco di grandi medici. Sono in particolare due le categorie di individui coperte di ridicolo da Molière, che ne porta in scena una burlesca imitazione: il malato immaginario rappresenta in chiave comica e caricaturale la categoria dei vecchi egocentrici che, presi dalle proprie manie e ossessioni, tentano di soffocare la libertà e la vitalità dei giovani in nome dei propri interessi. A sua volta il falso dottore costituisce una perfetta parodia della classe medica del Seicento, il cui totale disinteresse per il paziente è ben evidenziato dall’augurio al malato di malattie d’eccezione praticamente incurabili; dal ricorso a un linguaggio del tutto incomprensibile, infarcito di oscure parole in latino; dalla proposta di cure dannose, quali l’amputazione di un arto sano; dall’abitudine infine di riunirsi a consulto solo dopo l’avvenuta morte del paziente, per verificare cosa si sarebbe dovuto fare per evitarla. Il travestimento di Tonina costituirebbe, a parere del critico Luigi Lunari, un’ironica rappresentazione della degenerazione dello spirito scientifico e pragmatico inaugurato da Galilei e diffuso dalla rivoluzione scientifica, che rischiava talvolta di trasformarsi in cialtroneria: nel Malato immaginario, infatti, l’intera classe medica che frequenta la casa di Argante si rivela formata da astuti imbroglioni disposti, pur di arricchirsi, ad accontentare persino nel nome le manie del vecchio ipocondriaco e a propinargli tanto inutili quanto costosi intrugli. Scopo dell’autore è dunque quello di mettere in guardia il pubblico da medici senza scrupoli pronti ad approfittare delle ossessioni e delle fragilità dei propri pazienti. Paradossalmente, nel Malato immaginario, commedia della doppiezza e dell’ipocrisia, è dunque il travestimento di Tonina a svelare la falsità e la simulazione che dominano i reali rapporti fra gli individui. L’autore esprime, invece, la sua ferma condanna per l’ipocrisia religiosa e la rilassatezza morale che individua nella società del suo tempo con un’altra delle sue più celebri e divertenti commedie, Tartufo (1664), analogamente giocata sul contrasto fra realtà e apparenza, sul doppio registro dell’ipocrisia e della simulazione. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Esposizione del mes- Dati contenuti nella ri saggio dell’autore. sposta 2.1. Riassunto del contenuto della scena. Dati contenuti nella risposta 2.2 e integrazioni personali. Dati contenuti nelle risposte 2.3 e 2.4 e integrazioni personali. Confronto con un’al- Informazioni contenutra opera dell’autore. te nella risposta 3. Laboratorio per l’esame 3 Il protagonista è un ipocrita, un uomo devoto che cela con disinvoltura i propri appetiti sessuali dietro un’apparente spiritualità e maschera il suo arrivismo con un mistico disprezzo dei beni terreni. Nel contesto culturale e sociale secentesco, Tartufo rappresenta, a detta di Lunari, la cattiva applicazione alla condotta pratica o addirittura l’abuso dell’«antica mentalità mistica, dogmatica e contemplatrice» ereditata dai secoli passati, costretta ora a fare i conti con il dilagante spirito scientifico inaugurato da Galilei. L’analisi del significante Le situazioni comiche scaturiscono per lo più dal contrasto fra realtà e apparenza e dalla rappresentazione in chiave burlesca e caricaturale di comportamenti e tipi della società del tempo. Nella scena in analisi risulta di effetto comico soprattutto il lungo elenco di malattie d’eccezione, ciascuna accompagnata dall’aggettivo “bello”, pronunciato dal falso medico in contrapposizione alle comuni malattie, disprezzate attraverso i diminutivi. Altrettanto ridicolo il ripetersi della diagnosi (I polmoni), gridata a ogni pseudo-sintomo lamentato da Argante, così come gli insulti rivolti al medico curante (Ignorante) e la serie di parole latine, volta a imitare in chiave ironica e burlesca il linguaggio medico. Persino i nomi dei dottori che hanno in cura il vecchio ipocondriaco contribui scono a tratteggiare la grottesca parodia della classe medica del tempo: il dottor Purgone, il nipote Percacus e il farmacista Centodori, per i quali il malato immaginario costituisce una fonte inesauribile di guadagno, sembrano assecondare anche nel nome la vera e propria ossessione che egli ha per il corretto espletamento delle funzioni intestinali. Contribuiscono a generare un effetto ironico e grottesco il ricorso a un registro linguistico formale e la presenza di un lessico specialistico infarcito di latinismi e parole latine storpiate (Ignorantus, ignoranta, ignorantum). All’interno della scena si avvicendano ora un ritmo lento, generato dal prevalere nella parte iniziale e in quella conclusiva di battute lunghe e frasi complesse, ora un ritmo vivace e concitato, prodotto nella parte centrale dalla ripetizione insistita della diagnosi del finto medico (I polmoni!), dalle reiterate esclamazioni rivolte contro l’assente dottor Purgone (Ignorante!) e da un rapido scambio di brevi battute tra un falso medico e un malato immaginario. Laboratorio per l’esame 4 Il lessico Dati contenuti nelle ri sposte 2.3, 2.4, 2.5 e integrazioni. Il registro linguistico. Il ritmo, la sintassi. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 174-178 Articolo di giornale Componi un articolo di giornale sull’argomento «Galileo, la Chiesa, la scienza: ieri e oggi» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 174-178. • Orazio Larocca, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo (• D1) • Alberto Gaino, Galileo nuovamente alla sbarra: assolto (• D2) • José G. Funes, Grazie, Galileo (• D3) SCHEDATURA DEI DOCUMENTI • D1 Orazio Larocca, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo Testo Schedatura Dopo ben 359 anni, 4 mesi e 9 giorni Galileo Galilei torna ad essere nuovamente un “figlio legittimo” della Chiesa cattolica. Domani, infatti, il Vaticano cancellerà definitivamente la storica condanna “al silenzio” inflitta allo scienziato pisano il 22 giugno 1633 dal Sant’Uffizio […]. Galileo Galilei, come si sa, per salvarsi fu costretto a pronunciare la storica “abiura” davanti al tribunale vaticano, diventando automaticamente l’esempio tangibile di una delle più grandi ingiustizie perpetrate dalle autorità ecclesiastiche. Dopo quasi 360 anni da quella iniqua condanna la Chiesa corre ai ripari, ammettendo pubblicamente i propri errori. E lo farà in maniera solenne, ufficiale e definitiva, con una cerimonia […] presieduta da Giovanni Paolo II, il papa che […] da sempre va sostenendo l’infondatezza delle accuse formulate dalle autorità ecclesiastiche a carico di Galilei [perché siano rimosse] le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. […] anche prima di Wojtyla si sono registrati timidi ripensamenti sul caso Galileo. Già nel 1823 papa Pio VII […]. Una cerimonia “obbligata”, anche se tardiva, per uno Stato, il Vaticano, che, del resto, è attualmente all’avanguardia nella ricerca astronomica grazie ai suoi due mega osservatorii, quello di Tucson, in Arizona, e la “Specola” vaticana di Castelgandolfo. Il calcolo esatto dei giorni, mesi e anni trascorsi dalla condanna intende sottolineare quanto il gesto della Chiesa sia tardivo. Le righe iniziali forniscono le coordinate dell’informazione, indicando in particolare who (il Vaticano), what (la cancellazione della condanna), where (nello Stato del Vaticano), when (domani, 1° novembre 1992), why (per cancellare una delle più grandi ingiustizie perpetrate dalle autorità ecclesiastiche), how (con una solenne cerimonia presieduta dal papa). L’autore sottolinea le responsabilità della Chiesa in merito all’ingiustizia compiuta. L’articolo ricostruisce le fasi del percorso compiuto dalle autorità ecclesiastiche per approdare alla soluzione definitiva del caso Galileo. Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo di giornale (pe- È necessario fare rifeririodo storico 30 ottobre mento alla controversia 1992) sul sistema aristotelicotolemaico e alle posizioIdea centrale ni della Curia romana. La Celebrare la cancella- teoria eliocentrica elabozione definitiva della rata da Copernico e concondanna all’abiura e al solidata da Galilei è oggi confino di Galileo. universalmente condivisa, ma appariva assoluMessaggio dell’autore tamente rivoluzionaria La Chiesa cattolica ha al tempo dello scienziato certamente commesso pisano, quando vigeva una grave ingiustizia l’autorità di Aristotele nei confronti di Galileo, e della Bibbia. In alcuni alla quale ha posto ripa- passi dell’Antico Testaro tardivamente. mento si legge, infatti, che «la terra rimane sempre al suo posto» e che «il Sole sorge e tramonta tornando al luogo dal quale si è levato». La Chiesa riteneva dunque eretica la teoria eliocentrica, perché in contrasto con le Sacre Scritture, e considerava inammissibile la venuta di Cristo, se la Terra non fosse stata il centro immobile dell’universo. Si fa menzione di un precedente ripensamento sul caso Galileo, durante il papato di Pio VII, all’inizio dell’Ottocento. Si sottolinea l’impegno attuale in campo astronomico del Vaticano. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 • D2 Alberto Gaino, Galileo nuovamente alla sbarra: assolto Testo Schedatura Trecentosettantuno anni dopo quello vero, si rifà il processo a Galileo Galilei. In un palazzo di giustizia vero, con una corte per due terzi composta da giudici veri, un vero avvocato per difensore e lo scienziato interpretato da un noto professore di logica matematica: si fa in fretta a parlare di evento. L’aula magna è gremita […] Piergiorgio Odifreddi, l’imputato di ieri, che, a domanda suggestiva del presidente Romano Pettenati, non si fa pregare e trasforma il processo a Galileo in quello alla Chiesa […] monsignor Renzo Savarino […] ricostruisce i rapporti di Galilei con la Roma dei gesuiti, dei cardinali e dei papi: una realtà variegata, in cui il conflitto fra scienza e religione appare più piegato all’ordine politico piuttosto che a quello teologico […]. Nell’assolvere Galileo «perché il fatto non sussiste» […] lo avvisano che «ha diritto a un equo indennizzo per i danni subiti». La scienza è salva. Le righe iniziali forniscono le coordinate dell’informazione, indicando in particolare who (alcuni studiosi), what (la ripetizione del processo a Galilei), where (in un palazzo di giustizia), when (371 anni dopo quello vero), why (per testare la validità dell’esito del processo storico e dimostrare l’innocenza dello scienziato), how (davanti a una folla incuriosita). Il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi è Galileo, pronto a trasformare il processo a suo danno in processo alla Chiesa di Roma. Renzo Savarino, rappresentante dell’autorità ecclesiastica, interpreta la condanna come conseguenza del pesante clima politico creatosi dentro la Curia romana in seguito alla Riforma protestante. L’esito del processo vede l’assoluzione con formula piena di Galilei. Laboratorio per l’esame 2 Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo (periodo stori- Occorre fare riferimento co 8 febbraio 2004) alla Chiesa di Roma al tempo della Riforma proIdea centrale testante e della ControriLa cronaca della ripe- forma cattolica: sententizione del processo a dosi minacciate da avverGalilei, 371 anni dopo la sari esterni, i riformatori, condanna. e da nemici interni, gli eretici, con il Concilio di Messaggio centrale Trento (1544-1563) le auL’ingiustizia della con- torità ecclesiastiche imdanna subita da Galileo posero dogmi e misero a nel processo storico. punto rigorosi strumenti di controllo, censura e repressione, alcuni dei quali già impiegati in età medioevale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 • D3 José G. Funes, Grazie, Galileo Testo […] il 2009 sarà l’Anno internazionale dell’astronomia, dichiarato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche, che Galileo Galilei realizzò nel 1609 puntando il suo cannocchiale verso il cielo, su iniziativa dell’Unione internazionale di astronomia […] e dell’Unesco. In Italia, paese promotore dell’iniziativa, questa è nota anche come Anno galileiano. […] qual è la posizione della Chiesa in relazione al caso Galileo? Non posso rispondere da esperto, né da persona neutrale. Appartengo alla Chiesa. […] Penso che il caso Galileo non si potrà mai chiudere in un modo soddisfacente per tutti. Io credo che l’umanità e la Chiesa debbano essergli riconoscenti per il suo impegno a favore del copernicanesimo […]. La Chiesa in qualche modo ha riconosciuto i suoi sbagli. Forse si poteva fare meglio: sempre si può far meglio. Schedatura Si forniscono le coordinate essenziali dell’informazione. Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo (periodo stori- L’autore è membro del co 27 novembre 2008) clero nonché il direttore della Specola vaticana, Idea centrale l’osservatorio astronoCelebrare l’importanza di mico e centro di ricerca Galilei nell’Anno interna- scientifica della Chiesa zionale dell’astronomia, cattolica sito a Castelil 2009, a lui dedicato, e gandolfo, nei pressi di analizzare il significato Roma. e le finalità dell’astronomia per scienziati e gente comune. Messaggio dell’autore La Chiesa ha riconosciuto tardivamente i propri errori verso Galilei. L’autore manifesta sincera gratitudine per l’impegno di Galilei ed esprime, invece, un giudizio negativo sul comportamento della Chiesa nei secoli successivi alla condanna. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura Bibbia e Natura: due libri che parlano al cuore e alla mente Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo, di cui si indica anche la destinazione editoriale. Giornalino scolastico È opinione diffusa e condivisa che la visione del mondo e dell’uomo proposta dalla religione cristiana e la concezione scientifica così come essa è andata delineandosi negli ultimi quattrocento anni siano in conflitto tra loro, se non addirittura incompatibili. Lo testimonierebbe il caso di Galileo Galilei, la cui vicenda, culminata nella condanna all’abiura, costituirebbe il simbolo per eccellenza della libera intelligenza scientifica schiacciata dal potere dogmatico della Chiesa. Eppure, i recenti sviluppi del caso e la definitiva cancellazione della condanna di Galilei da parte della Chiesa porterebbero a credere che fede e scienza non siano incompatibili, ma, al contrario, complementari. Introduzione Ci si chiede se il caso Galilei non dimostri che fede e scienza non sono incompatibili, ma, al contrario, complementari. La tradizionale visione della religione cristiana, basata sulla Bibbia, ha dominato l’Europa per molti secoli, permettendone lo sviluppo morale, civile, sociale ed economico. L’emancipazione della cultura scientifica dalla religione e dalla teologia inizia in età umanistico-rinascimentale, con il declino del provvidenzialismo medioevale e l’esaltazione del libero arbitrio dell’uomo (homo faber fortunae suae). Nei primi anni del Seicento il rapporto fra scienza e religione assume i contorni di un vero e proprio scontro, fomentato da un lato dall’atteggiamento diffidente e repressivo della Chiesa, impegnata nella lotta alla Riforma protestante, dall’altro dalla cosiddetta “rivoluzione scientifica” che, avviata dalle nuove teorie astronomiche, avrebbe in seguito modificato radicalmente tutti i campi del sapere. Corpo principale dell’articolo Si ricostruisce il caso Galilei, dalle origini alla conclusione. Il 13 marzo 1610, il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei rende noti al mondo i risultati dell’osservazione diretta del cielo compiuta al telescopio. Lo scienziato pisano rivela che l’universo non corrisponde affatto al sistema gerarchico e chiuso proposto dalla tradizione aristotelicotolemaica. Esso appare piuttosto come uno spazio senza confini, percorso da corpi celesti di materia corruttibile che ruotano insieme alla Terra intorno al Sole, posto al centro del mondo. Queste scoperte, ora universalmente condivise, erano rivoluzionarie al tempo di Galilei, in cui vigeva l’autorità di Aristotele e della Bibbia; in alcuni passi dell’Antico Testamento si legge, infatti, che «la Terra rimane sempre al suo posto» e che «il Sole sorge e tramonta tornando al luogo dal quale si è levato». La Chiesa di Roma riteneva dunque eretica la teoria eliocentrica, perché in contrasto con le Sacre Scritture, e considerava inammissibile la venuta di Cristo, se la Terra non fosse stata il centro immobile dell’universo. È proprio dalla teoria eliocentrica elaborata dal polacco Niccolò Copernico e consolidata in seguito da Galilei e Newton che nasce il rifiuto del dogmatismo e del principio di autorità e il conseguente processo di ripensamento e ridefinizione dei saperi che si espresse, a partire dal Seicento, nel libero esercizio della ragione e nel nome della piena e completa autonomia della ricerca scientifica. La pubblicazione delle sue scoperte conferisce a Galileo fama e fortuna, ma genera al tempo stesso i primi dissapori con le gerarchie ecclesiastiche che, attraverso la congregazione dell’Indice, dapprima lo invitano a non divulgare le tesi eliocentriche dell’astronomo polacco, pena il carcere (1616); quindi, a seguito della pubblicazione del nuovo trattato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) lo processano presso il Tribunale della Santa Inquisizione, che il 22 giugno 1633 lo condanna all’abiura delle proprie convinzioni eliocentriche, all’isolamento e al confino. Galileo diventa così il simbolo della lotta della scienza e del progresso contro l’oscurantismo della religione, l’emblema della libera intelligenza oppressa dal potere dogmatico. Prima fase Le prime conferme della teo ria eliocentrica e la conseguente condanna all’abiura. Laboratorio per l’esame 4 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Nel corso del Seicento i suoi discepoli ne diffondono le teorie e le scoperte, ma le idee dello scienziato pisano saranno a lungo guardate con sospetto dal mondo cattolico, a causa della censura posta in atto dalla Chiesa. La rivalutazione delle sue opere ha inizio un secolo dopo, nel Settecento, per opera del filosofo tedesco Immanuel Kant, che ne sottolinea il ruolo fondamentale nello sviluppo del sapere e della conoscenza. Oggi, nel Ventunesimo secolo, la scienza ha privato il mondo e i suoi fenomeni di ogni carattere sacro, per cui non è più necessario ricorrere a Dio per spiegarne il funzionamento: l’universo ci appare ormai governato da leggi fisiche immutabili, scoperte le quali ogni realtà all’apparenza misteriosa trova una spiegazione logica e naturale. I progressi della scienza e della tecnica sembrano, dunque, determinare una sempre più decisa riduzione del valore e del ruolo della teologia e della religione, i cui insegnamenti paiono ormai superati o addirittura contraddetti dalle nuove scoperte. Eppure, la religione cristiana è sopravvissuta all’evoluzione scientifica e tecnologica degli ultimi quattrocento anni, benché non eserciti più il ruolo egemonico dei secoli passati. Dunque, fede e scienza non sembrano essere necessariamente incompatibili: esse appaiono, al contrario, complementari. È quanto dimostra lo stesso Galilei nella “lettera copernicana” inviata nel 1613 al matematico don Benedetto Castelli, a seguito di un’interessante discussione svoltasi presso la corte di Cosimo II de’ Medici in merito alla possibilità di conciliare il versetto della Bibbia in cui si narra che Giosuè fermò il Sole con la teoria eliocentrica copernicana. Lo scienziato chiarisce che la Bibbia è certamente verità rivelata in materia di fede, indispensabile alla salvezza dell’anima: tuttavia, tale verità è espressa nel linguaggio semplice ed elementare accessibile all’umanità primitiva dell’epoca lontana in cui fu scritta e necessita pertanto di un’interpretazione che consenta di andare oltre l’interpretazione letterale. Anche la Natura è verità, in quanto emanazione di Dio, ma espressa in un linguaggio matematico, dunque chiaro e accessibile all’uomo attraverso gli strumenti conoscitivi, grazie ai quali egli ne comprende le leggi. In conclusione, sostiene Galilei, fede e scienza agiscono in due settori di verità diversi e autonomi, per cui non può esserci contraddizione. Ancora oggi, la religione corrisponde a un bisogno insito nell’animo di numerosi individui, i quali trovano nella fede soddisfazioni di tipo emotivo; la scienza, dal canto suo, risponde a esigenze di natura più logica e razionale. Nel corso dei secoli la scienza moderna si è imposta dei limiti ben precisi: essa si è prefissa di indagare unicamente i fenomeni del mondo empirico per individuarne le cause “prossime”, e non le cause “prime”, rinunciando a comprendere la verità ultima delle cose e lasciando tale compito ai teologi. Dunque, gli intenti della scienza sono distinti, ma non in contrasto col progetto conoscitivo della teologia: scienza e religione costituiscono, in tal senso, due modi distinti ma complementari di accedere alla conoscenza del reale. È forse questo il senso della tardiva cancellazione definitiva della condanna di Galilei, avvenuta nel 1992. In verità, già nell’Ottocento la Chiesa di Roma aveva registrato un primo, timido ripensamento con papa Pio VII, intenzionato ad accettare, «senza troppo rumore», l’eliocentrismo galileiano. È stato, però, Karol Wojtyla, il “papa dei diritti dell’uomo”, a sostenere l’infondatezza delle accuse formulate dalle autorità ecclesiastiche a carico dello scienziato e a procedere alla cancellazione definitiva della condanna, avvenuta ufficialmente in Vaticano il 1° novembre 1992, a quasi trecentosessant’anni di distanza. Obiettivo di Giovanni Paolo II era eliminare le diffidenze che quel caso tuttora frapponeva, nella mente di molti, alla collaborazione e alla concordia fra scienza e fede. Un ripensamento tardivo, come molti hanno osservato, ma i cui presupposti sono stati confermati dalla scelta da parte delle Nazioni Unite del 2009 come Anno internazionale dell’astronomia, proprio per celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche di Galileo, e dall’odierno impegno nella ricerca astronomica dello Stato vaticano, grazie ai due osservatori di Tucson, Arizona, e di Castelgandolfo, nei pressi di Roma. Seconda fase La divulgazione delle teorie di Galilei nei secoli successivi e i tardivi ripensamenti della Chiesa di Roma, fino alla recente proclamazione dell’Anno galileiano. Pur avendo conseguito negli ultimi secoli innumerevoli successi in svariati campi della conoscenza, la scienza ha comunque dei limiti propri, che non le consentono di trascendere i confini del mondo fisico: essa è perfettamente in grado di spiegare come si nasce, si soffre, si muore, ma è assolutamente incompetente sul perché questo avvenga. La scienza del futuro sarà mai in grado di rispondere alle domande fondamentali della vita? Potrà l’uomo trovare soddisfacenti le eventuali risposte logiche e razionali? Non continuerà piuttosto a rivolgersi alla religione? Conclusione Si ribadisce l’opinione proposta in apertura. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 223-225 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento «La prevalenza del “vedere”: esattezza e misura nella descrizione scientifica del Seicento» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 223-225. • Blaise Pascal, L’uomo nell’universo: finitezza e immensità (• T1) • Benedetto Castelli, Della misura delle acque correnti (• D1) • Francesco Redi, Generazione degli insetti (• D2) • Lorenzo Bellini, La struttura e la funzione dei reni (• D3) • Ezio Raimondi, La descrizione scientifica (• D4) SCHEDATURA DEI DOCUMENTI • T1 Blaise Pascal, L’uomo nell’universo: finitezza e immensità Testo Schedatura L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà […]. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessun’idea vi si approssima. […] è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero. L’uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest’angusta prigione dove si trova, intendo dire l’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. […] Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose più minute. […] si perda in tali meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza come le altre con la loro immensità. L’autore rivolge all’uomo l’invito a distogliere lo sguardo dalle realtà sensibili e contingenti per contemplare la grandezza cosmica della natura. Sarà l’immaginazione a sopperire alle fragilità e alle debolezze dei sensi umani; in realtà, l’idea di universo è di per sé inconcepibile, e ciò che l’uomo riesce a immaginare non è neppure paragonabile all’infinito. Tipologia testuale Integrazioni personali Trattato (periodo stori- Si può fornire qualche co 1669) informazione sull’autore, Blaise Pascal (1623Idea centrale 1662), scienziato e filoMettere in risalto la sofo francese convinto precarietà e la finitezza che l’uomo non possa della condizione umana trovare appagamento nell’universo. alla propria sete di conoscenza né nella raMessaggio dell’autore gione, che è limitata, né Invito a mutare la pre- nell’indagine scientifica: sunzione di conoscere e soltanto la fede in Dio, analizzare la realtà con il cuore e i sentimenti la meraviglia e lo stupo- sono in grado di fornire re di fronte al creato. risposte sconosciute alla razionalità. Presa coscienza della propria fragilità e precarietà, l’uomo, colto da smarrimento, è invitato ad attribuire alla storia umana e a se stesso la giusta proporzione di finitezza. L’autore induce quindi l’uomo a contemplare le cose piccolissime, così da prendere coscienza di occupare un ruolo intermedio fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Come l’infinito, anche il nulla è incomprensibile all’uomo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo […] sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla, al quale non si può mai pervenire? Chi si considererà in questa maniera si sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione. Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte. Laboratorio per l’esame 2 Pascal invita, infine, l’uomo a trasformare il proprio desiderio di conoscenza in meraviglia, a contemplare in silenzio l’infinito e il nulla, rinunciando alla presunzione di analizzare e comprendere la realtà in cui è immerso. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 • D1 Benedetto Castelli, Della misura delle acque correnti Testo Nei fiumi reali che entrano in mare […] si osserva che […]. Ma noi, con i nostri principii e fondamenti, possiamo rendere la ragione di tale effetto e dire che quell’eccesso di quantità d’acqua sopra l’acqua ordinaria va sempre acquistando maggiore velocità quanto più si accosta alla marina, e però scema di misura, ed in conseguenza di altezza. E questa forse dee essere stata la cagione in gran parte per la quale il Tevere, nella inondazione del 1198, non uscì dal suo letto sotto Roma verso la marina”. Schedatura Lo scienziato procede dall’attenta e diretta osservazione del fenomeno alla formulazione di un’ipotesi particolare, fino ad applicarla allo studio di altri fenomeni. Tipologia testuale Integrazioni personali Trattato scientifico (pe- È possibile fornire inriodo storico 1628) formazioni sull’autore, lo scienziato Benedetto Idea centrale Castelli, allievo di Galilei Spiegare perché l’altez- e dedito principalmente za degli argini dei fiumi agli studi di idraulica. diminuisce man mano che il loro corso si avvicina al mare. Messaggio dell’autore Le leggi ricavate dallo studio di un singolo fenomeno possono essere applicate ad altri fenomeni simili. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 • D2 Francesco Redi, Generazione degli insetti Testo Schedatura Il primo giorno di luglio mi fu portato un bruco verde assai grosso, trovato in un viale del giardino di Boboli: se gli vedevano sedici gambe, com’hanno per più la maggior parte de’ bruchi, cioè otto sotto la gola, sei a mezzo ’l ventre, e due nell’estremità della coda […]. Lo scienziato descrive un bruco con scrupolosa esattezza e precisione, impiegando un lessico preciso e specialistico, che rimanda a un significato chiaro e inequivocabile, e una sintassi fluida, che scandisce le tappe della ricerca; nella descrizione, privata di ogni aspetto piacevole e ornamentale, predomina la funzione conoscitiva. Laboratorio per l’esame 4 Tipologia testuale Integrazioni personali Trattato scientifico (pe- È opportuno ricordare che riodo storico 1668) l’autore Francesco Redi fu uno scienziato alquanto Idea centrale versatile, che si dedicò alla La descrizione minuzio- medicina e alle scienze nasa degli insetti oggetto turali, distinguendosi per le di studio. meticolose e attente descrizioni. Messaggio dell’autore L’attenta osservazione diretta di un fenomeno o di un oggetto è indispensabile alla sua conoscenza. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 • D3 Lorenzo Bellini, La struttura e la funzione dei reni Testo Schedatura Un giorno stavamo sezionando una cerva quando, estratti i visceri, spinto solo dal mio genio mi ac- Condotto dalla propria disposiziocinsi a preparare i reni, e tentando ne alla curiosità (genio), lo scienuna preparazione diversa da quella ziato approda a nuove scoperte. in uso […] mi si rivelarono dei vasi sottili come capelli […]. Dato che si trattava di un fatto nuovo, investigando, in seguito, con maggiore attenzione e diligenza il rene stesso, ne potei identificare la struttura che tosto descriverò […]. Tipologia testuale Integrazioni personali Trattato scientifico (pe- È opportuno ricordare la riodo storico 1643-1704) figura di Lorenzo Belli ni (1643-1704), medico e Idea centrale anatomista. La descrizione minuziosa dell’esperimento Si può fare riferimento al compiuto. nuovo metodo di indagine e di studio della natuMessaggio dell’autore ra che nel corso del SeiLa disposizione alla cu- cento si sostituisce allo riosità conduce lo scien- studio dei filosofi antichi ziato a nuove scoperte. e delle Sacre Scritture: tale metodo, che è detto sperimentale, prevede l’osservazione diretta del fenomeno naturale che si intende conoscere, la successiva elaborazione di ipotesi e la loro verifica sperimentale, con conseguente formulazione di quanto scoperto in termini matematici. Solo in questo modo un fenomeno naturale può dirsi conosciuto. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 5 • D4 Ezio Raimondi, La descrizione scientifica Testo Schedatura È un ritratto al rallentatore, costruito pezzo per pezzo, sotto uno sguardo che soppesa colori e rapporti, rimandando più volte, dove sembra necessario per la chiarezza piena del dato, alla lucida, immobile tavola di illustrazione […]. Si compie così, con un rimando di riepilogo alla “figura” una sorta di operazione gnoseologica in duplex, che toglie al procedimento scientifico ogni aspetto edonistico e ornamentale […] la descrizione è divenuta funzionale e conoscitiva perché alla lettera si presenta come un esercizio o diciamo meglio, per adottare la terminologia degli scienziati, un esperimento. L’autore sottolinea l’importanza delle illustrazioni come strumenti di chiarezza ed evidenzia la funzione puramente conoscitiva della descrizione scientifica. Laboratorio per l’esame 6 Tipologia testuale Integrazioni personali Saggio letterario (perio- Si può ricordare la collabodo storico 1974) razione di numerosi artisti ai trattati scientifici, Idea centrale dei quali realizzarono Illustrare le caratteri- illustrazioni sempre più stiche della scrittura precise e dettagliate. scientifica nel Seicento. Ezio Raimondi (1924) è Messaggio dell’autore un noto saggista e critiIndurre il lettore a rico- co letterario italiano. noscere tali caratteristiche. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura L’uomo intende quanto ha osservato Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Il 13 marzo 1610 il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei rende noti al mondo i risultati dell’osservazione diretta del cielo compiuta dallo scienziato pisano attraverso il telescopio. Il nuovo strumento ottico svela allo scienziato un universo che non corrisponde al sistema chiuso, formato da cieli solidi concentrici alla Terra e da corpi celesti di materia eterna e immutabile, disegnato dalla tradizione aristotelico-tolemaica. Davanti agli occhi di Galileo si spalanca un universo infinito, i cui confini non sono visibili, percorso da corpi che ruotano intorno al Sole, composti di materia simile a quella terrestre e come tale soggetta al mutamento e allo scorrere del tempo. Al cosmo finito e gerarchico della visione aristotelico-tolemaica si sostituisce l’universo infinito di Galilei e Newton. Ha inizio così, con uno sguardo rivolto verso il cielo, la radicale trasformazione del sapere che nei primi anni del Seicento investe tutti i campi della conoscenza, mettendo in discussione certezze millenarie e sistemi teorici che per secoli avevano garantito la comprensibilità dell’universo e la centralità dell’uomo. Prima di Galilei, altri scienziati esperti di astronomia avevano negato il geocentrismo risalente al greco Tolomeo (II sec. a.C.) e prima di lui ad Aristotele (IV sec. a.C.), confutando con esso l’antropocentrismo rinascimentale. All’origine di quella rivoluzione che sottrarrà la Terra alla sua posizione privilegiata di centrale immobilità sta l’opera del polacco Niccolò Copernico, messa all’Indice dalla Chiesa della Controriforma. Al matematico e astronomo tedesco Nicola Cusano (1401-1464) e al filosofo italiano Giordano Bruno (15481600) il merito di avere inferto nel XV e XVI secolo un colpo decisivo alla finitezza del mondo, prospettando un universo infinito, confermato poi da Cartesio. Le osservazioni di Galileo negano, dunque, scientificamente la centralità dell’uomo nell’universo e allo stesso tempo ne pongono in evidenza la capacità di meditare sulla propria fragilità, unico tra le creature dell’universo; proprio in questa attitudine consiste la cifra della sua grandezza. Qualche decennio dopo il filosofo francese Blaise Pascal nei suoi Pensieri (1669) affermerà in proposito: «Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla… egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte». Introduzione La rivoluzione scientifica e la radicale trasformazione del sapere hanno inizio con uno sguardo rivolto verso il cielo. Allo sgomento per la scoperta della propria precarietà subentra ben presto la volontà di comprendere l’universo e se stessi, nella consapevolezza che l’uomo può conoscere gli aspetti fenomenici della realtà attraverso procedimenti razionali e scientifici, senza tuttavia coglierne il senso più profondo. Il processo di ripensamento e ridefinizione dei saperi prende, dunque, l’avvio dal rifiuto del principio di autorità e si esprime nel libero esercizio della ragione. Un nuovo metodo di indagine e di studio della natura si sostituisce allo studio dei filosofi antichi e delle Sacre Scritture: tale metodo, che è detto sperimentale, prevede l’osservazione diretta del fenomeno naturale che si intende conoscere, la successiva elaborazione di ipotesi e la loro verifica sperimentale, con conseguente formulazione di quanto scoperto in termini matematici. Solo in questo modo un fenomeno naturale può dirsi conosciuto. 1° argomento a sostegno della tesi Si sottolinea l’importanza dell’osservazione nel metodo sperimentale. La percezione della precarietà della condizione umana, del tutto provvisoria ed effimera a paragone con l’infinitezza temporale e spaziale dell’universo, genera per contrasto la rivalutazione della dimensione concreta e contingente entro cui si sviluppa l’esistenza terrena. L’uomo del Seicento appare, dunque, pervaso da una nuova attenzione alla realtà che lo circonda, reso curioso del mondo materiale e desideroso di un sapere concreto. Strumenti di indagine e di conoscenza della natura a disposizione dell’uomo sono i sensi, i quali, tuttavia, forniscono percezioni soggettive e mutevoli (Cartesio) e sono in grado di cogliere solo gli aspetti fenomenici della realtà (Pascal). Per questo è necessario farsi guidare soltanto dalla ragione, comune a tutti gli uomini; occorre, inoltre, sopperire alle carenze sensoriali con l’ausilio di strumenti, che si avvalgono della ricerca teorica al fine di superare i limiti della percezione umana. 2° argomento a sostegno della tesi La rivalutazione della dimensione concreta e contingente entro cui si sviluppa l’esistenza terrena determina una conseguente valorizzazione dei sensi, primo fra tutti la vista. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 7 Fra i sensi assume particolare rilievo come strumento privilegiato della conoscenza concreta del mondo materiale la vista, alla quale viene attribuita una maggiore capacità di analisi e di obiettivazione: “vedere” diventa dunque parte integrante del processo razionale di indagine dei fenomeni naturali, anche grazie alla creazione e alla messa a punto di invenzioni tecniche quali il cannocchiale, strumento ottico per la visione ingrandita di oggetti lontani, e il microscopio, in grado di fornire immagini sovradimensionate di oggetti molto piccoli. Tesi La percezione visiva assume nel Seicento il ruolo di strumento privilegiato della conoscenza concreta del mondo materiale. Ed ecco, allora, numerosi scienziati lasciarsi guidare nell’indagine scientifica dalla disposizione alla curiosità (quella che Lorenzo Bellini nella descrizione di un proprio esperimento chiama genio) e dallo sguardo desideroso di scoperte, la cui osservazione dà luogo a descrizioni precise e scrupolose degli oggetti e dei fenomeni indagati, sempre più spesso correlate a illustrazioni particolareggiate e dettagliate, in una sorta di operazione gnoseologica in duplex, come la definisce Ezio Raimondi: un processo conoscitivo basato su due aspetti strettamente connessi, la scrittura e l’illustrazione. La stessa scrittura scientifica diventa oggetto di scrupolosa esattezza e precisione, e acquisisce un lessico puntuale e specialistico, che rimanda a un significato chiaro e inequivocabile, una sintassi fluida, che scandisce le tappe della ricerca; nella descrizione dell’esperimento, privata di ogni aspetto piacevole e ornamentale, predomina ora la funzione conoscitiva. 3° argomento a sostegno della tesi Le descrizioni precise e scrupolose degli oggetti e dei fenomeni osservati e indagati sono sempre più spesso correlate da illustrazioni particolareggiate e dettagliate, rivolte alla percezione visiva. Come osserva il critico letterario Raimondi, la vista, divenuta lo strumento principale dell’indagine scientifica, assume una particolare rilevanza anche nell’esperienza artistica del Seicento la quale, superata definitivamente la dimensione allegorica del Manierismo, vede ora l’affermarsi di nuovi interessi naturalistici. Molti artisti collaborano alle nuove conquiste della scienza illustrandone ad esempio le raccolte di principi e scienziati: il collezionismo, del resto, tanto in voga all’epoca, altro non è che l’ennesima forma di indagine curiosa della realtà, che si tenta di descrivere in maniera enciclopedica. 4° argomento a sostegno della tesi Anche nell’arte si affermano nuovi interessi naturalistici. E tuttavia, anche la percezione visiva, come qualunque altra percezione sensoriale, ha dei limiti: essa può indagare unicamente i fenomeni del mondo empirico per individuarne le cause “prossime”, e non le cause “prime”, rinunciando a comprendere la verità ultima delle cose. Come si legge in Pascal e come rileva lo stesso Galilei, l’uomo può conoscere solo gli aspetti fenomenici della realtà materiale, senza tuttavia riuscire a coglierne il senso più profondo. Per questo, vedendosi sospeso – afferma Pascal – tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplare in silenzio più che a indagarle con presunzione. Conclusione Si ribadisce la tesi, ponendo tuttavia in evidenza i limiti della percezione visiva. Laboratorio per l’esame 8 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 223-225 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento «Le condizioni di vita nelle città industriali» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 1022-1023. • Gustave Doré, Over London By Rail (• D1) • Honoré de Balzac, Lo spaventoso spettacolo di Parigi (• D2) • Friedrich Engels, La periferia di Manchester (• D3) • Eric Hobsbawm, La città industriale (• D4) SCHEDATURA DEI DOCUMENTI • D1 Gustave Doré, Over London By Rail Testo Schedatura Il prevalere di linee verticali, disegnate da una serie di camini equidistanti fra loro, guida l’occhio dell’osservatore dagli elementi in primo piano verso lo sfondo, dove si susseguono altri comignoli più piccoli, che sembrano non avere fine. Negli angusti spazi disegnati dalle linee verticali si affollano uomini, donne e bambini, che paiono avere perduto ogni speranza. La monotonia delle loro esistenze è suggerita ed enfatizzata dal ripetersi delle linee verticali equidistanti e dei muri orizzontali, che concedono poco spazio alla vita. Tipologia testuale Integrazioni personali Incisione (periodo stori- È opportuno dare alcune co 1872) informazioni sull’autore, Gustave Doré (1832Idea centrale 1883), il pittore e incisoRappresentare le dure re francese le cui opere condizioni di vita degli rispecchiano un gusto operai in alcuni quartie- romantico e una visione ri della Londra del XIX epica e drammatica delsecolo, così come esse la realtà, espressi con apparivano dai treni che grande virtuosismo. passavano sopra le loro teste. Messaggio dell’autore Indurre a prendere coscienza delle conseguenze umane negative del progresso industriale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 • D2 Honoré de Balzac, Lo spaventoso spettacolo di Parigi Testo Schedatura Uno degli spettacoli più spaventosi di questo mondo è quello offerto dall’aspetto della popolazione parigina: gente orrenda a vedersi, smunta, gialla, tirata. Parigi è come un enorme campo, sempre abitato da un turbine di interessi; sotto l’impeto della tempesta s’agita una mèsse d’uomini, falciati dalla morte con frequenza maggiore che altrove, e che rinascono sempre più fitti: visi preoccupati e contorti, che sprizzano da ogni poro lo spirito, i desideri e i veleni che ingrossano i loro cervelli; più maschere che facce: maschere di debolezza, di forza, di miseria, di gioia o d’ipocrisia; tutte sfinite, tutte con l’impronta incancellabile di un’avidità ansimante. Ciò che emerge dalla scelta degli aggettivi e delle metafore è l’alienazione spirituale, morale e persino fisica (gente orrenda a vedersi, smunta, gialla, tirata… visi preoccupati e contorti… più maschere che facce) degli abitanti di Parigi: soprattutto l’avidità è il motore che sospinge l’esistenza di questi automi, colpiti da una mortalità più elevata che altrove, e continuamente sostituiti da altri pronti a prenderne il posto. Laboratorio per l’esame 2 Tipologia testuale Integrazioni personali Testo in prosa (periodo È opportuno ricordare che storico 1833) Honoré de Balzac (17991850) è considerato con Idea centrale Stendhal il fondatore del Evidenziare l’effetto stra romanzo realista, nato in niante e disumanizzante Francia nella prima metà della vita nelle città indu- dell’Ottocento dall’evolustriali. zione del romanzo storico, del quale sostituisce Messaggio dell’autore il gusto antiquario per le Indurre il lettore a pren- epoche passate con l’atdere coscienza degli tenzione alla realtà coneffettivi negativi ap- temporanea. Protagoportati alle popolazioni nista dei novantasei rodirettamente coinvolte manzi compresi nel ciclo dal progresso industria- della Commedia umana le. è la società francese del primo Ottocento, sottoposta a rigorosa analisi nelle dinamiche, nella mentalità e nella psicologia dei personaggi, che appaiono profondamente condizionati dall’ambiente storico, sociale ed economico in cui operano e vivono. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 • D3 Friedrich Engels, La periferia di Manchester Testo Schedatura […] sono i resti della vecchia Manchester preindustriale, i cui antichi abitanti si sono trasferiti con i loro discendenti in quartieri meglio costruiti, lasciando le case, divenute per essi troppo misere, ad una razza di operai fortemente mescolata con sangue irlandese. Qui siamo realmente in un quartiere quasi dichiaratamente operaio […]. È difficile immaginare la disordinata mescolanza delle case, che si fa beffe di ogni urbanistica razionale, l’ammassamento, per cui sono letteralmente addossate le une alle altre. E la colpa non è soltanto degli edifici sopravvissuti ai vecchi tempi di Manchester: in tempi più recenti la confusione è stata portata al massimo, poiché dovunque vi fosse un pezzettino di spazio tra le costruzioni dell’epoca precedente, si è continuato a costruire e a rappezzare, fino a togliere tra le case anche l’ultimo pollice di terra libera ancora suscettibile di essere utilizzata. È evidente il contrasto fra i quartieri residenziali, meglio costruiti, in cui si sono trasferiti gli abitanti della vecchia Manchester, e la miseria dei nuovi abitanti, costretti a vivere in abitazioni fatiscenti e ammassate le une alle altre. Tipologia testuale Integrazioni personali Saggio (periodo storico Occorre ricordare la fi1845) gura di Friedrich Engels (1820-1895), insieme a Idea centrale Karl Marx firmatario del La descrizione di un Manifesto del partito quar tiere operaio di comunista e fondatore Manchester. della filosofia materialistica della storia. Figlio di un industriale tedesco, in Messaggio dell’autore occasione di un tirocinio Il contrasto fra la ricchez- commerciale presso una za commerciale di Man- filiale inglese della ditta chester e la miseria e lo del padre restò drammasquallore dei suoi quar- ticamente colpito dalle tieri operai periferici. condizioni di sfruttamento e di degrado a cui erano costretti gli operai. Engels sentì il dovere morale di denunciare il sistema industriale inglese nell’opera La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845). Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 • D4 Eric Hobsbawm, La città industriale Testo Schedatura E che città! Non c’era soltanto il fatto che erano coperte da una coltre di fumo e impregnate di cattivo odore, e che i servizi pubblici elementari – il rifornimento di acqua, i servizi igienici, la pulizia delle strade, gli spazi aperti, e così via – non riuscivano a tenere il passo con l’immigrazione di massa nelle città, causando così, specialmente dopo il 1830, epidemie di colera, febbre tifoidea, e un numero spaventoso e costante di morti dovute ai grandi assassini delle aree urbane nel secolo XIX, [l’inquinamento] dell’aria e dell’acqua che si risolvevano nelle malattie respiratorie e in quelle intestinali. Non c’era soltanto il fatto che le nuove popolazioni urbane, talvolta per niente abituate alla vita non rurale, come gli irlandesi, si pigiavano in slum [quartieri popolari] tetri e sovraffollati, la cui sola vista raggelava il cuore degli osservatori. Si dà risalto alle pessime condizioni igienico-sanitarie delle città industriali, responsabili di un importante aumento del tasso di mortalità a partire dagli inizi dell’Ottocento, che l’autore attribuisce inoltre all’enorme afflusso di popolazione nelle città: soggette a un continuo flusso migratorio, esse avevano rapidamente assunto dimensioni eccessive rispetto alla tecnologia in quel tempo applicata alla vita urbana. Laboratorio per l’esame 4 Tipologia testuale Integrazioni personali Saggio storico (periodo Occorre fornire qualche storico 1917) informazione sull’autore, Eric Hobsbawm, storico Idea centrale inglese di orientamento Evidenziare le pessime marxista. condizioni di vita delle popolazioni urbane del XIX secolo. Messaggio dell’autore Il progresso industriale ha costi umani. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2012 LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura La vita nelle prime città industriali vista dai contemporanei Titolo Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della tesi sostenuta nello sviluppo del saggio. Fin dalla prima metà del XIX secolo si sviluppa in Europa un intenso dibattito sui risultati umani della rivoluzione industriale, il complesso insieme di mutamenti e innovazioni radicali e irreversibili che dagli ultimi trent’anni del Settecento investirono dapprima l’economia inglese e poi quella di numerosi altri Stati del vecchio continente. Ci si interroga, in particolare, sugli effettivi benefici apportati alle popolazioni direttamente coinvolte nel profondo e potentissimo cambiamento nel sistema di produzione, rivoluzionato dall’impiego delle nuove tecnologie del vapore e del ferro. Introduzione Fin dalla prima metà del l’Ottocento ci si interroga sui benefici sociali della rivoluzione industriale. L’irreversibile mutamento dei sistemi produttivi determinò una altrettanto radicale trasformazione della società: la storia, la filosofia, l’arte e la letteratura dell’Ottocento offrono in merito importanti testimonianze. Tesi La rivoluzione industriale determinò una radicale trasformazione della società, ampiamente documentata da storici, artisti, letterati. Come afferma lo storico inglese Eric John Hobsbawm in un saggio del 1972, La rivoluzione industriale e l’impero, il mutamento economico «trasformò le vite degli uomini fino a renderle irriconoscibili», distruggendo rapidamente modi e modelli di vita tradizionali e ormai secolari, senza sostituirli con nuovi sistemi altrettanto rassicuranti. La parte povera della popolazione, che come sempre ne costituiva la maggioranza, vide mutare radicalmente le proprie condizioni di vita e di lavoro: privati del possesso dei mezzi di produzione, ingombranti macchine dal costo elevatissimo, i lavoratori furono ridotti a proletari, concentrati in fabbriche e costretti a vendere la propria opera in cambio di un salario spesso insufficiente. Per le prime generazioni di operai ugualmente stranianti furono i ritmi e le condizioni di lavoro, dettati non più dallo scorrere del tempo e delle stagioni, dalla varietà dei compiti e delle occupazioni, ma dalla macchina dell’orologio, che imponeva di compiere la medesima operazione all’infinito e in tempi rapidissimi, all’interno di una più ampia e complessa interazione dei processi e delle fasi di produzione. La ricerca di lavoro determinò un vasto spostamento della popolazione dalle campagne verso le città in cui si erano concentrate le nuove industrie. I centri urbani conobbero un’espansione impressionante, che li portò a crescere per quantità (nel 1750 erano solo due le città inglesi con più di 50.000 abitanti, ventinove cent’anni dopo) e numero di abitanti (di queste ventinove ben nove ne contano più di 100.000): le nuove città industriali si svilupparono in modo caotico e improvvisato, estendendo le aree edificate in direzione delle campagne circostanti. Al loro interno, i quartieri borghesi si separarono nettamente da quelli operai, che si ammassarono disordinatamente attorno alle fabbriche, nelle periferie prive dei più elementari servizi. Le condizioni di vita di chi vi abitava erano terribili: alla periferia di Parigi, negli slum di Londra come nei quartieri popolari di Manchester, si viveva in edifici cadenti e malsani, in stanze buie, piccole e sovraffollate, prive di acqua corrente e di rete fognaria, in condizioni di igiene precaria. Nei quartieri operai, che Friedrich Engels definisce regno della miseria, della sporcizia e dell’ambiente malsano, dilagavano la prostituzione e l’alcolismo, insanabili piaghe sociali. Le epidemie di colera e di febbre tifoidea, le malattie respiratorie e intestinali causate dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua mietevano ogni giorno un numero spaventoso di vittime, ulteriormente incrementato dai sempre più frequenti omicidi (E. Hobsbawm). 1° argomento a sostegno della tesi I documenti degli storici. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2012 Laboratorio per l’esame 5 È emblematica la serie di incisioni che nel 1872 il pittore e incisore francese Gustave Doré dedicò ai paesaggi londinesi: osservando la città dalla ferrovia, simbolo positivo della rivoluzione industriale, il pittore mise a nudo il lato oscuro del progresso. Nelle sue incisioni egli ritrasse con gusto drammatico e grande virtuosismo le dure condizioni di vita degli operai inglesi, così come esse apparivano dai treni che correvano sopra le loro teste. Nonostante simili realtà urbane, non si arrestò l’enorme flusso di disperati, i più poveri fra i poveri, che si mettevano in marcia dalle campagne in direzione delle città industriali, dove andavano ad ammassarsi in «quartieri tetri e sovraffollati la cui sola vista raggelava il cuore degli osservatori». A partire dagli anni Venti dell’Ottocento emerse, infatti, in Inghilterra e in seguito in altri paesi europei interessati dalla rivoluzione industriale la posizione di numerosi intellettuali i quali denunciavano le drammatiche condizioni di vita e di lavoro degli operai, il lavoro femminile e lo sfruttamento minorile come conseguenze dannose dell’industrializzazione. 2° argomento a sostegno La testimonianza degli artisti. Le prime grandi inchieste condotte in Francia e in Germania sulla condizione operaia risalgono agli anni Trenta. In Francia, il dramma degli operai industriali in Europa venne documentato dal romanzo realista (Stendhal, Balzac), che si affermò a partire dalla metà del secolo: il suo intento principale consisteva in una fedele rappresentazione della realtà contemporanea e in una spietata analisi della mentalità e dei modi di vita borghesi, spesso descritti in contrapposizione alla dura vita degli operai. La rivoluzione industriale si accompagnò infatti all’emergere di una nuova classe sociale, la borghesia, che consolidò il proprio potere nel corso dell’Ottocento ed ebbe quale diretto antagonista il proletariato, formato dai lavoratori salariati che non possedendo i mezzi di produzione traevano il proprio reddito dalla vendita del loro lavoro ai proprietari dei suddetti mezzi. 3° argomento a sostegno Il contributo dei letterati. In Germania, è particolarmente significativa l’analisi della situazione operaia britannica di Friedrich Engels, che in occasione di un tirocinio commerciale presso una filiale inglese della ditta del padre restò drammaticamente colpito dalle condizioni di sfruttamento e di degrado a cui erano costretti gli operai. Engels sentì il dovere morale di denunciare il sistema industriale inglese in un testo del 1845, nel quale non esitò a paragonare il trattamento riservato dalla società del tempo al proletariato all’omicidio commesso da un singolo, precisando che quello compiuto ai danni degli operai era un assassinio «mascherato e perfido… contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra un assassinio, perché non si vede l’assassino». «Data la situazione – concludeva Engels – come è possibile che la classe più povera sia sana e possa vivere a lungo? Che altro c’è da aspettarsi, se non una mortalità enorme?». Studi recenti hanno effettivamente dimostrato il verificarsi in Inghilterra di un aumento del tasso di mortalità a partire dagli inizi dell’Ottocento, attribuito all’enorme afflusso di popolazione nelle città: soggette a un continuo flusso migratorio, esse avevano rapidamente assunto dimensioni eccessive rispetto alla tecnologia in quel tempo applicata alla vita urbana. Furono necessarie numerose epidemie e alcune inchieste sulla situazione sanitaria nei centri urbani per indurre le autorità centrali e locali a intraprendere seri interventi mirati a rimuovere i rifiuti da strade e cortili, canalizzare la rete fognaria, costringere le società private che erogavano l’acqua ad aggiungere cloro a scopo disinfettante. Grazie a questi interventi, intorno agli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento l’ambiente di vita urbano cominciò gradualmente a risanarsi. Nell’arco di alcuni decenni la situazione andò dunque migliorando, fino a consentire almeno in Inghilterra alla classe operaia di vivere meglio di quanto facesse prima dell’industrializzazione. 4° argomento a sostegno della tesi L’analisi dei filosofi. Storia, filosofia, arte e letteratura documentano, dunque, una radicale trasformazione della società, che solo a distanza di decenni apporterà effettivi benefici alle popolazioni direttamente coinvolte dalla rivoluzione industriale. Conclusione Si ribadisce la tesi proposta. Laboratorio per l’esame 6 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2012 laboratorio per l’esame Relazione-ricerca Volume 2, pp. 275-278 Imposta una ricerca raccogliendo dati e notizie sull’argomento «La pena di morte attraverso le epoche e le culture». LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura La pena di morte: giusta punizione o vendetta legalizzata? Titolo Si individua un titolo ritenuto significativo rispetto al contenuto della relazione. La presente relazione si propone di ricostruire la storia della pena di morte attraverso i secoli e le culture, fino ai giorni nostri, attingendo sia a fonti di natura storico-giuridica e saggisticoletteraria, sia al vastissimo patrimonio di dati e informazioni forniti dai numerosi siti internet che si occupano di questo argomento. Alle soglie del terzo millennio, infatti, il dibattito sulla pena di morte si presenta ancora vivace e quanto mai aperto. Secondo le stime ufficiali (Amnesty International, Nessuno tocchi Caino), nel mondo tuttora si effettuano numerose esecuzioni capitali: poco meno di seimila nel 2010, cifra che sembra essere confermata dai dati disponibili per i primi sei mesi del 2011. Introduzione Si sottolinea l’attualità del l’argomento e si forniscono dati recenti. Per pena di morte si intende l’uccisione di un individuo ordinata da un tribunale in seguito a una condanna. Presente fin dall’antichità negli ordinamenti giuridici come forma di vendetta privata e legalizzata, per secoli fu considerata la naturale punizione per chi si fosse macchiato di crimini gravissimi; la sua applicazione restò a lungo ignorata come problema etico e morale. La condanna a morte ebbe, dunque, in origine una funzione retributiva, che consisteva nel rendere giustizia alle vittime, stabilendo una perfetta corrispondenza fra la colpa commessa, l’omicidio, e la punizione inflitta, la morte; si pensi, per esempio, alla “legge del taglione”, principio di diritto in uso presso le popolazioni antiche che prevedeva la possibilità per la persona offesa di infliggere all’offensore una punizione uguale al danno ricevuto. La stessa Chiesa cattolica interpretò per secoli la pena capitale come strumento di espiazione del peccato commesso: non a caso il primo trattato della letteratura europea contro la pena di morte, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764), venne inserito nell’Indice dei libri proibiti. Occorrerà attendere l’Illuminismo e il XVIII secolo per trovarsi per la prima volta di fronte a un serio e ampio dibattito sulla liceità e sull’opportunità della condanna a morte. Gli illuministi sostenevano che la legittimazione del potere del sovrano derivasse esclusivamente dal patto sociale: sottoscrivendo una sorta di contratto i cittadini cedevano parte delle loro libertà individuali allo Stato e accettavano di assoggettarsi alle sue leggi in cambio di sicurezza e benessere. La teoria contrattualistica della convivenza sociale attribuiva allo Stato la funzione di garante del bene collettivo e dei diritti naturali di tutti gli individui, ossia di quelle prerogative che appartengono all’uomo per natura: la vita, la sicurezza, la libertà, la proprietà e la felicità. Proprio il dibattito sui diritti naturali ebbe importanti ripercussioni sul piano del diritto penale, come testimonia l’opera di Cesare Beccaria, intellettuale di spicco dell’ambiente culturale milanese autore nel 1764 del trattato Dei delitti e delle pene: Beccaria si propone di incidere concretamente sulla legislazione esistente, evidenziandone lacune e storture. L’opera affronta la questione sul piano giuridico-politico e morale-psicologico, unendo lucidità razionale e compassione verso il condannato. Muovendo dalla teoria contrattualistica, l’illuminista condanna in una serrata argomentazione il ricorso alla tortura e alla pena di morte in quanto lesive dei diritti naturali: come si legge nel capitolo ventotto, se «la sovranità e le leggi […] non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno», il quale vi rinuncia a favore di un interesse collettivo che tuteli tutti in modo uguale, nessun individuo è disposto a delegare ad altri il potere di ucciderlo, rinunciando al «massimo tra tutti i beni, la vita». La pena di morte, conclude dunque Beccaria, non è un diritto dello Stato, bensì una guerra della nazione contro un cittadino. Svolgimento Si fornisce una definizione di pena di morte e si ricostruiscono le tappe storiche del dibattito, dall’antichità ai giorni nostri; si analizza, infine, la situazione attuale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 Ribadita, così, l’ingiustizia giuridica della pena di morte, Beccaria ne dimostra l’inutilità quanto a funzione intimidatoria, che consiste da un lato nell’impedire al colpevole di commettere nuovi delitti, dall’altro nell’indurre altri individui a desistere dal compiere reati simili. In realtà, sostiene Beccaria, l’effetto deterrente di una pena non deriva dalla sua intensità o crudeltà, ma dalla certezza che si sarà in qualche modo puniti. La forza dell’intimidazione non dipende dall’intensità della pena, ma dalla sua estensione nel tempo: la totale e prolungata perdita della libertà inflitta con l’ergastolo è di gran lunga più efficace della condanna a morte. Il trattato di Beccaria fu all’origine dell’abolizione della pena di morte avvenuta fin dallo stesso XVIII secolo in alcuni Stati europei, primo fra tutti il Granducato di Toscana al tempo di Pietro Leopoldo di Lorena, che il 30 novembre 1786 la abrogò per tutti i reati con l’emanazione del nuovo codice penale toscano. Come si evince dall’articolo LI del suddetto codice, il granduca intendeva moderare una legislazione troppo severa e obsoleta, non più adeguata alla realtà della Toscana del suo tempo. I capisaldi del nuovo codice penale prevedevano: l’abolizione del ricorso alla tortura, pratica disumana che non garantisce l’emergere della verità e non tutela i diritti del singolo né della collettività; la certezza e la proporzionalità delle pene alle colpe commesse e il loro carattere strettamente personale, con conseguente abolizione della confisca dei beni del reo ai familiari innocenti; l’abolizione della pena di morte per qualunque reato, in quanto inadatta a consentire la correzione del reo, membro anch’egli della società, e incapace di soddisfare il danno privato o pubblico arrecato; tale condanna sarebbe stata sostituita con «la pena dei lavori pubblici». Al Granducato seguirono, poi, la Repubblica Romana di ispirazione mazziniana nel 1849 e la piccola Repubblica di San Marino nel 1865. L’Italia abrogò la condanna capitale per tutti i reati, ad eccezione dei crimini di guerra e del regicidio, nel 1889, per reinserirla nel codice nel 1930 e abolirla definitivamente nel 1948. Oggi, i paesi del mondo che hanno deciso di abolirla per legge o di fatto sono 155, mentre sono 42 quelli che fanno ancora ricorso alla pena capitale. Come si legge nel rapporto sulla situazione attuale pubblicato nel 2011 dall’associazione Nessuno tocchi Caino, che dal 1993 si batte contro la pena di morte, l’Asia è il continente nel quale si pratica la quasi totalità delle esecuzioni capitali del mondo, almeno 5746 nel 2010, pari al 98,4%, in aumento rispetto al 2009. In America, gli Stati Uniti sono l’unico paese del continente che ha eseguito condanne a morte nel 2010, per un totale di 46; nel continente africano, sei paesi hanno compiuto nello stesso anno 43 esecuzioni. In Europa è la Bielorussia l’unica eccezione in un continente altrimenti libero dalla condanna a morte, con 2 esecuzioni nel 2010 e altrettante nel 2011. Vi è un altro dato rilevante: dei 42 Stati mantenitori della pena di morte, 35 sono paesi posti sotto il controllo di un governo dittatoriale, autoritario o illiberale: fra questi spiccano per numero di esecuzioni la Cina (5000 esecuzioni nel 2010), l’Iran (546) e la Corea del Nord (60), che detengono questo triste primato. Occorre, tuttavia, precisare che molti di questi paesi non forniscono dati ufficiali, per cui il numero di esecuzioni potrebbe essere superiore alle stime. Come chiarisce Amnesty International nel Rapporto annuale sulla pena di morte, datato 27 marzo 2012, molte sentenze capitali sono state eseguite per reati quali l’adulterio e la sodomia in Iran, la blasfemia in Pakistan, la stregoneria in Arabia Saudita, il traffico di droga in oltre dieci paesi. Lo stesso rapporto sottolinea, inoltre, come nella maggior parte dei paesi non democratici numerose condanne capitali siano state emesse o eseguite in seguito a procedimenti giudiziari che non hanno rispettato gli standard internazionali in materia di equità e sulla base di «confessioni estorte con la tortura o altre forme di coercizione». Appare dunque evidente che la battaglia per l’abolizione della pena di morte in questi paesi debba essere necessariamente preceduta dalla lotta per l’affermazione della democrazia e la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili. Fra i paesi mantenitori della pena di morte sono sette quelli che per sistema politico, rispetto dei diritti umani e tutela delle libertà economiche possono essere considerati democratici liberali: oltre alla già citata Bielorussia, ricordiamo gli Stati Uniti, il Giappone, Taiwan, il Botswana, l’india e l’Indonesia. È soprattutto nei confronti di questi paesi che associazioni e organizzazioni internazionali si mobilitano da anni promuovendo campagne in difesa dei diritti umani sanciti nella Dichiarazione universale (1948). Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Fra le più attive ricordiamo Amnesty International, un’Organizzazione non governativa indipendente fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson: Amnesty ha fatto propri i principi della solidarietà e della protezione internazionale dei diritti umani e si impegna a «svolgere attività di ricerca e azione finalizzata a prevenire ed eliminare gravi abusi di tali diritti». La Comunità di Sant’Egidio, nata a Roma nel 1968, è oggi un’«Associazione pubblica di laici della Chiesa» che dalla metà degli anni Novanta ha esplicitato il proprio impegno abolizionista attraverso appelli e petizioni per la salvezza dei condannati a morte, operando sia a livello governativo, nei contatti diretti con rappresentanti politici, sia sostenendo la società civile. Il 18 dicembre 2007, grazie al contributo della Comunità di Sant’Egidio e dopo una campagna ventennale dell’associazione Nessuno tocchi Caino e di Amnesty International, l’Onu ha approvato una storica risoluzione su iniziativa italiana per la moratoria universale, ossia per una sospensione internazionale delle esecuzioni capitali. Purtroppo, non tutti i paesi hanno rispettato tale risoluzione. Oggi, il Rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte sottolinea che anche nei paesi che continuano a ricorrere massicciamente alla pena di morte si sono compiuti graduali progressi: in Cina, ad esempio, la condanna capitale è stata abolita per 13 reati di natura economica; negli Stati Uniti d’America, il Connecticut è diventato il diciassettesimo Stato abolizionista. «Sono piccoli passi avanti, ma misure di questo genere hanno ultimamente dimostrato di poter condurre alla fine della pena capitale. Non succederà improvvisamente, ma siamo convinti che arriverà il giorno in cui la pena di morte sarà consegnata alla storia» (Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International). A che punto è oggi il dibattito sulla pena di morte? In merito all’utilità e alla legittimità della pena di morte l’opinione pubblica mondiale è tuttora divisa. Sono, infatti, ugualmente numerosi gli argomenti favorevoli e contrari alla pena capitale. Coloro che sostengono la pena di morte si appigliano a esigenze di giustizia, secondo le quali spetta allo Stato il compito di tutelare i cittadini che rispettano le leggi da coloro che le trasgrediscono. In particolare, la pena di morte ottempererebbe a due principi di giustizia: il principio di retribuzione, per cui la gravità di alcuni reati è tale che l’unica punizione adeguata ad essi risulta essere la morte; il principio di prevenzione, che consiste nel dovere dello Stato di impedire a soggetti socialmente pericolosi di reiterare il reato. Coloro che si oppongono alla pena di morte si appellano soprattutto a ragioni morali: nessun individuo, anche se rappresentante dello Stato, ha il diritto di togliere la vita a un altro, a prescindere dalla gravità delle colpe da questi commesse. Infatti, ogni volta che lo Stato punisce l’omicidio con la pena di morte commette a sua volta un omicidio, che è però destinato a restare impunito, contrariamente a quanto stabilisce la legge dello Stato stesso. Non va, poi, dimenticato che in alcuni paesi del mondo la pena di morte è prevista non solo per i reati più gravi, come l’omicidio, ma anche per la rapina, l’adulterio, o per reati di coscienza e di opinione. Quanto alla funzione deterrente della pena di morte, occorre ricordare che fra condanna a morte e uccisione passano di norma molti anni, per cui al momento dell’esecuzione l’opinione pubblica ha dimenticato crimine e condannato, con conseguente vanificazione della funzione esemplare della pena. L’applicazione della pena di morte rende, infine, impossibile porre rimedio a un eventuale errore giudiziario, né consente al condannato di riabilitarsi. In conclusione, la pena capitale non contribuisce a difendere la vita umana: essa la rende, al contrario, meno sacra e inviolabile, in quanto incoraggia, anziché frenare, le pulsioni omicide. A nostro parere, una sola è la ragione che deve prevalere e guidarci nell’assumere una posizione in merito: l’imperativo morale del “non uccidere”. Conclusione Si propongono alcune considerazioni sul potere deterrente della pena di morte e si analizzano gli aspetti umani e morali della questione; si formula, infine, un giudizio personale. Nella stesura della presente relazione sono state utilizzate le seguenti fonti: Bibliografia e sitografia • B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, Letterautori, volume 2, Bologna, Zanichelli, 2011 • www.wikipedia.org • www.nessunotocchicaino.it • www.amnesty.it • www.santegidio.org Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 330-331 Saggio breve Componi un saggio breve sull’argomento «Il percorso di formazione di Candido» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 330-331. • Voltaire, La caricatura di Pangloss-Leibniz (• D1) SCHEDATURA DEL DOCUMENTO Testo Schedatura Pangloss insegnava la metafisicoteologo-cosmo-scemologia. Provava in modo ammirevole che non c’è effetto senza causa, e che, nel migliore dei mondi possibili, il castello di monsignor il barone era il più bello dei castelli e la signora la migliore delle baronesse possibili. «È dimostrato – diceva – che le cose non possono essere altrimenti: poiché, tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per il fine migliore. Notate che i nasi sono stati fatti per reggere occhiali, perciò abbiamo degli occhiali. Le gambe sono visibilmente costituite per calzare brache, e abbiamo delle brache. […] Di conseguenza, coloro che hanno affermato che tutto è bene hanno detto una sciocchezza, bisognava dire che tutto è per il meglio». Candido ascoltava con attenzione, e credeva con innocenza […] Ne concludeva che dopo la felicità d’esser nato barone di Thunderten-Tronckh, il secondo grado di felicità […] e il quarto nell’ascoltare maestro Pangloss, il più grande filosofo della provincia e di conseguenza di tutta la terra. Voltaire realizza una caricatura del filosofo tedesco Gottfried Leibniz nel personaggio di Pangloss, insegnante di metafisico–teologo –cosmo–scemologia; l’espressione è coniata dall’autore per ridicolizzare la filosofia ottimistica di Leibniz. Il ragionamento di Pangloss, i cui presupposti sono dati dogmaticamente per dimostrati, lo conduce a constatazioni insignificanti sui rapporti fra le cose, a far discendere conseguenze logiche da cause assurde, ma affermate con assoluta sicurezza. La celeberrima frase coniata da Leibniz, «Viviamo nel migliore dei mondi possibili», è decontestualizzata e fatta oggetto di scherno dal narratore, che la ripete come un ritornello. Candido condivide il modo di ragionare di Pangloss e lo considera il più grande filosofo della terra. Tipologia testuale Integrazioni personali Romanzo (periodo sto- Occorre precisare il penrico 1759) siero di Gottfried Leibniz (1646-1716), filosofo teIdea centrale desco che si era interLa piena fiducia del rogato sul problema giovane Candido nelle della conciliabilità tra la parole del suo maestro, presenza del male nel che egli considera il più mondo e l’esistenza di grande filosofo di tutta Dio, creatore dell’univerla terra. so e principio di bontà e giustizia. Per giustificare Messaggio dell’autore i mali e le imperfezioni Si evidenzia l’ingenuità apparenti del mondo, di Candido, propenso egli sosteneva che esso per indole e inesperien- è il migliore tra i mondi za a condividere l’otti- possibili, in quanto cremismo del maestro. ato da un Dio perfetto. Leibniz aveva infatti elaborato la teoria filosofica secondo la quale Dio, nella sua onnipotenza, avrebbe potuto creare infiniti mondi diversi; tuttavia, essendo il suo disegno finalizzato al bene dell’umanità, aveva scelto di creare il migliore possibile, quello in cui anche il male avrebbe concorso a realizzare l’armonia dell’universo alla quale tendeva il progetto divino. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 LA STESURA DEL TESTO Stesura Qualcosa di Candido in ciascuno di noi Struttura Titolo Alla fine del Seicento il filosofo tedesco Gottfried Leibniz (1646-1716) si era interrogato sul problema della conciliabilità tra la presenza del male nel mondo e l’esistenza di Dio, creatore dell’universo e principio di bontà e giustizia. Per giustificare i mali e le imperfezioni apparenti del mondo, sosteneva che esso è il migliore tra i mondi possibili, in quanto creato da un Dio perfetto. Leibniz aveva infatti elaborato la teoria filosofica secondo la quale Dio, nella sua onnipotenza, avrebbe potuto creare infiniti mondi diversi; tuttavia, essendo il suo disegno finalizzato al bene dell’umanità, aveva scelto di creare il migliore possibile, quello in cui anche il male avrebbe concorso a realizzare l’armonia dell’universo alla quale tendeva il progetto divino. La celeberrima frase coniata da Leibniz, «Viviamo nel migliore dei mondi possibili», fu spesso decontestualizzata e guardata con scherno e malignità da alcuni suoi contemporanei. Fra questi spicca Voltaire, che nel romanzo Candido realizzò una caricatura del filosofo tedesco sotto le spoglie del dottor Pangloss, insegnante di metafisico-teologo-cosmo-scemologia, espressione coniata dall’autore per ridicolizzare la filosofia ottimistica di Leibniz. Nel romanzo, alla figura dell’ottimista Pangloss si contrappone il personaggio di Martino, vecchio letterato amareggiato da decenni di lavoro editoriale e compagno di avventure di Candido, il quale nega in nome della ragione il ruolo della Provvidenza nella storia dell’uomo e sostiene la presenza nel mondo di forze del male forti tanto quanto quelle del bene. Nella figura di Martino Voltaire intendeva rappresentare il filosofo, scrittore, enciclopedista e giornalista francese Pierre Bayle (1647-1706), fautore della teoria dell’ateismo virtuoso, secondo la quale la vita morale è indipendente dai principi religiosi che si professano: il bene e il male non sono prerogative di una fede o di una dottrina; chiunque può vivere in modo onesto e virtuoso seguendo la ragione e il buon senso, a prescindere dall’esistenza di Dio. I personaggi del Candido non hanno, dunque, alcuna verosimiglianza o credibilità agli occhi del lettore, che è piuttosto indotto a considerarli “tipi”, emblematici rappresentanti di categorie sociali, religiose e soprattutto ideologiche. Proprio per questo il Candido è stato definito antiromanzo: così, se Pangloss è l’irriducibile ottimista e Martino incarna il pessimismo assoluto, Candido si fa portavoce dell’ideologia illuminista dell’autore, il quale, pur ammettendo l’esistenza di un’entità superiore divina, alla quale andava attribuito l’ordine dell’universo, rifiutava di credere a un qualsiasi intervento di Dio nel mondo, in cui l’uomo aveva il potere di agire liberamente. Cacciato dal castello dello zio barone in Westfalia, Candido è costretto a lunghe peregrinazioni che lo portano a percorrere gran parte del mondo allora conosciuto, sperimentando quotidianamente e sulla propria pelle il dolore, l’ingiustizia e l’infelicità che caratterizzano l’esistenza umana; egli verifica, così, concretamente l’infondatezza delle teorie ottimistiche di Pangloss. A Costantinopoli, meta ultima del suo viaggio, Candido approda infine a una visione realistica e concreta della vita, che lo porta a riconoscere l’inutilità di indagare problemi che vanno oltre la comprensione umana: solo il lavoro quotidiano è in grado di liberare l’uomo dalla noia dell’esistenza. Ad analoga considerazione approdano il saggio derviscio, sorta di santone orientale, e il vecchio contadino turco con i quali Candido, Martino e Pangloss si confrontano nelle ultime pagine del libro. Constatato così il fallimento del pensiero filosofico, rivelatosi incapace di interpretare la realtà, il romanzo si conclude con l’esaltazione dell’impegno concreto e del ripiegamento nella dimensione individuale dell’esistenza, che consentono di vivere con serenità. Introduzione Si illustrano le caratteristiche del Candido e il contesto filosofico entro cui si colloca. Proprio il carattere esemplare dei personaggi di Voltaire consente al lettore di identificarsi ora con l’uno, ora con l’altro, verificandone o condividendone l’ideologia. Tesi Il carattere esemplare dei personaggi di Voltaire consente al lettore di identificarsi con una delle fasi del percorso di formazione di Candido e condividerne l’ideologia. Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Ciascuno di noi è stato o è ancora il giovane Candido, ingenuo sognatore avido di conoscenza propenso per indole e inesperienza all’ottimismo e dunque a disposto ad accordare piena fiducia alle parole del suo maestro, che egli considera il più grande filosofo della provincia e di conseguenza di tutta la terra. Di Pangloss egli condivide l’ottimistica convinzione che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili, certi che il Dio buono e giusto di cui ci garantiscono la presenza nell’universo tutte le religioni tradizionali non possa consentire il male nel mondo se non per preparare il bene. Il dolore, l’ingiustizia, la sofferenza dell’umanità acquisirebbero, dunque, un significato preciso all’interno del più ampio disegno divino, che conduce la storia e gli uomini verso il ritorno di Cristo e l’avvento del suo regno di pace e giustizia. Appare evidente la funzione rassicurante e consolatoria della visione provvidenzialista, da Voltaire attribuita a Leibniz/Pangloss, ma comune a quasi tutte le più diffuse religioni: le sofferenze e le violenze ingiustamente subite nella vita terrena sarebbero un giorno risarcite da Dio. Il dolore esistenziale costituirebbe, anzi, il segno distintivo di meriti acquisiti agli occhi di Dio, pronto a ricompensarli con la salvezza eterna. 1° argomento a sostegno della tesi L’identificazione con il giovane Candido e con l’ottimista Pangloss. E tuttavia, come nel romanzo di Voltaire, anche il giovane lettore crescerà con Candido: l’esperienza concreta della vita potrà allora spingerlo a verificare la fondatezza dell’ottimismo giovanile, fino a constatarne l’astrattezza e l’irrazionalità. Forse la ragione lo indurrà a condividere il cupo pessimismo del vecchio Martino e a negare alcun ruolo sulla terra alla Provvidenza divina. Abbracciando un’ideologia laica e razionalista, il lettore rinuncerà ad affidare ad altri il proprio destino e prenderà coscienza del compito che lo attende, costruire da sé la propria felicità. 2° argomento a sostegno della tesi L’identificazione con il Candido che fa esperienza della vita e con il pessimista Martino. Più probabilmente, ci attesteremo sulle posizioni del Candido adulto e disilluso, per il quale diventa sempre più difficile conciliare il male sulla terra con la bontà e la giustizia dei disegni divini e appare inutile indagare problemi che vanno oltre la comprensione umana: solo l’impegno concreto e il ripiegamento nella dimensione individuale dell’esistenza consentono di vivere con serenità. Così, constatata l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, ci augureremo come Voltaire la presenza di un principio divino in grado di indirizzare al bene l’intera umanità. 3° argomento a sostegno della tesi L’identificazione con il Candido adulto e con Voltaire. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 410-411 Articolo di giornale Componi un articolo di giornale sull’argomento «Mirandolina: attualità del personaggio settecentesco» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 410-411. • Attilio Momiliano, Goldoni, principe dei nostri poeti settecenteschi (• D1) • Eligio Possenti, La servetta prima attrice (• D2) • Anna Maria Guarnieri, Goldoni, incredibilmente moderno (• D3) SCHEDATURA DEI DOCUMENTi • D1 Attilio Momiliano, Goldoni, principe dei nostri poeti settecenteschi Testo La locandiera è una delle comme die che meglio guidano il lettore allo studio di Goldoni come princi pe dei nostri poeti settecenteschi. […] Attorno alla figura della pro tagonista, mantenuta nell’ambito d’una civetteria onesta e graziosa, modulata sopra un tema fra can zonatorio e patetico, si svolge un episodio d’una morbidezza, d’una fugacità, d’una leggerezza sette centesche: e la protagonista, quel la regina dei cuori, anche se non è incipriata e in guardinfante, ci fa ripensare al secolo in cui come non mai la donna fu signora e sovrana. Tutta la commedia ha un delicato sapore di rievocazione storica: e perciò questa volta la solita chiusa rosea del Goldoni è perfettamente intonata. Schedatura Sia la vicenda al centro della com media, il gioco di seduzione or dito da Mirandolina ai danni del cavaliere misogino, sia la prota gonista, dotata di una civetteria aggraziata e mai immorale, sia infine la conclusione, l’annuncia ta intenzione di Mirandolina di sposare un suo pari, si accordano perfettamente al contesto sto rico, sociale e culturale in cui La locandiera è ambientata. Tipologia testuale Integrazioni personali Saggio letterario (perio Occorre fare riferimento do storico 1955) alla situazione della Re pubblica di Venezia alla Idea centrale metà del Settecento, La commedia e la sua dominata da una ristret protagonista rispecchia ta oligarchia lontana dai no perfettamente la fermenti politici, sociali e cultura e i costumi del culturali che percorrono periodo storico a cui ap l’Europa e avviata a un partengono. lento ma inesorabile de clino: nel 1797 Napoleone Messaggio dell’autore Bonaparte la cederà agli La locandiera va letta austriaci. come una perfetta rie vocazione storica del Settecento. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 • D2 Eligio Possenti, La servetta prima attrice Testo Schedatura Con questa commedia, il Goldoni promosse la servetta a prima at trice. Una rivoluzione addirittura. Mentre per l’innanzi la servetta delle commedie stava nel fondo della scena […] eccola qui, sempre servetta, ma in piena luce di ribal ta. […] In pieno Settecento, nel secolo più smanceroso, incipria to e titolato, far piovere, su una donnetta della servitù, gli onori riservati fino allora alla prima at trice e farla applaudire dalle mor bide manine delle incipriate dame veneziane, era un ardimento non soltanto artistico. Con l’andar degli anni Mirandoli na è un personaggio che accresce il suo fascino e il suo significato e dà nuove luci alla commedia nella quale ella domina con grazia, fi nezza, intelligenza, vincendo una leggiadra battaglia a vantaggio del sesso femminile […]. Si sottolinea la straordinaria rivo luzione operata da Goldoni all’in terno del teatro comico tradizio nale: con Mirandolina il perso naggio della servetta tipico della Commedia dell’Arte guadagna il centro della ribalta e da figura di contorno diventa un personaggio dotato di spessore psicologico e forza di volontà, caratterizzato da estrema disinvoltura nei com portamenti, anche seduttivi. Una rivoluzione, dunque, non solo ar tistica, ma soprattutto sociale. Il perfetto equilibrio di intelligenza e civetteria fanno di Mirandolina un’antesignana sostenitrice del l’emancipazione femminile che si realizzerà concretamente soltanto due secoli dopo, pronta a rivendi care l’autonomia e la libertà della donna dal mondo maschile. È soprattutto il fascino insolito e aggraziato della protagonista a proiettare sull’opera teatrale luci sempre nuove, offrendo a critica e pubblico molteplici e insolite in terpretazioni. Laboratorio per l’esame 2 Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo di giornale (pe Occorre fare riferimen riodo storico 28 marzo to alla riforma artistica 1953) operata da Goldoni, vol ta a restituire al teatro Idea centrale comico dignità culturale La locandiera ha rivolu attraverso la rappresen zionato non solo il tea tazione della vita quoti tro comico, ma anche le diana dei ceti medi. Ispi convenzioni sociali del randosi al Mondo, ossia suo tempo. alla realtà del suo tem po, e al Teatro, ovvero Messaggio dell’autore alla pratica del palcosce Mirandolina è un per nico, Goldoni trasforma sonaggio totalmente la rappresentazione “a innovativo rispetto alla soggetto” della Comme tradizione teatrale pre dia dell’Arte in comme cedente e alle conven dia “di carattere”, basata zioni sociali del Sette non più sull’improvvisa cento. zione degli attori attor no a un canovaccio, ben sì sulla recitazione di un testo interamente scrit to, e sostituendo le ma schere della tradizione con personaggi realistici e socialmente identifi cabili, dotati di spessore psicologico. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 • D3 Anna Maria Guarnieri, Goldoni, incredibilmente moderno Testo Schedatura Tipologia testuale “L’amore nella Locandiera, così come in tutte le commedie di Gol doni, viene rifiutato, respinto. È un sentimento sempre disatteso, che intimorisce, a cui si rinuncia. Anche Mirandolina […] è una don na assolutamente pratica, molto dinamica. […] Lei ha la sua fab brichetta, non ha tempo né per sventagliarsi né per concedersi distrazioni pericolose. Mirando lina ha bisogno di vivere con or dine: la sua scelta per Fabrizio, il cameriere cui l’aveva destinata il padre morendo, è la logica con seguenza di questo pensare. Gli è affezionata, naturalmente, ma se anche non lo fosse, lo sposereb be lo stesso. Perché è una donna sola, perché ha bisogno di vivere ordinatamente. […] Tutto Goldoni è incredibilmente moderno, basta far piazza pulita, appunto, degli ori, e leggere at tentamente le sue parole. E quello di Mirandolina non è un gioco. È la realtà: tenere a bada i clienti senza che disertino il suo locale ma an che senza farsi insidiare. Appagata dalla buona gestione della locanda, che le consente li bertà e indipendenza economiche, Mirandolina non è attratta da nes suno dei tre nobili che la corteggia no, non è allettata dalla ricchezza e dai privilegi sociali che essi rap presentano: sa che la disobbe dienza alla volontà del padre, che le ha indicato nel servitore Fabrizio il marito ideale, e l’infrazione delle regole sociali con un matrimonio di convenienza sarebbero aspramen te condannate all’interno della società settecentesca e rischie rebbero di compromettere il buon andamento degli affari. Per questo, in conclusione di commedia, ella comunica agli al tri personaggi e al pubblico la sua intenzione di sposare il fedele e laborioso Fabrizio: la decisione non nasce dal sincero innamora mento per il servitore, bensì dal pragmatismo della donna d’affa ri, dall’intenzione pratica di con ferire a se stessa e alla gestione della locanda una stabilità e una sicurezza maggiori. L’amore resta nella Locandiera un sentimento disatteso e respinto, al quale si è disposti a rinunciare in nome di valori più semplici e concreti. Articolo (periodo stori co 1993) Integrazioni personali Idea centrale Mirandolina, moderna e razionale donna d’af fari, rinuncia all’amore per pragmatismo e sen so dell’utile. Messaggio dell’autore La modernità di Goldoni trova nel personaggio di Mirandolina un valido esempio. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura Mirandolina ancora sulla scena La felicità? È sapersi accontentare Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il con tenuto dell’articolo, di cui si indica anche la destinazio ne editoriale. «La Nuova Venezia», Venezia Benché siano trascorsi quasi duecentosessant’anni dalla prima rappresentazione della Locandiera, la commedia conferma attraverso i secoli la propria modernità. È soprattutto il fascino insolito e aggraziato della protagonista a proiettare sull’opera teatrale luci sempre nuove, offrendo a critica e pubblico molteplici e diverse interpretazioni. La com media, in tre atti, fu composta nel 1751 da Carlo Goldoni (1707-1793) e portata in scena per la prima volta il 26 dicembre 1752 al teatro Sant’Angelo di Venezia: vi si racconta la vicenda di Mirandolina, padrona di una locanda a Firenze, che gestisce con l’aiuto del fedele servitore Fabrizio. La bella locandiera riesce a far innamorare di sé i personaggi maschili della commedia, il Marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita, che rappresentano rispettivamente la nobil tà decadente e la borghesia da poco affermatasi e arricchitasi. Solo il Cavaliere di Ripafratta sembra resisterle, e Mirandolina applica le sue arti seduttive per soggiogarlo al suo fascino. Raggiunto infine il suo scopo e costretto il Cavaliere misogino a confessare il suo amore per lei davanti a servi e avventori, Mirandolina annuncia che sposerà Fabrizio, uomo della sua stessa condizione sociale, l’unico in grado di aiutarla nella gestione della locanda. Il Cavaliere fugge disperato e i due nobili spasimanti sono congedati. È proprio in nome della modernità dell’opera che la compagnia del Teatro Goldoni di Venezia ha deciso di ricordare l’anniversario della prima della Locandiera portando nuovamente in scena l’indimenticabile personaggio goldoniano che nel corso dei secoli si è prestato a molteplici e talvolta contraddittorie interpretazioni, alcune delle quali senza dubbio estranee alle intenzio ni e alla consapevolezza del suo creatore. Attori e registi ne hanno infatti rappresentato l’ag graziato compendio di vizi e di virtù, il perfetto equilibrio di concretezza borghese e civetteria femminile, proponendola ora come un’antesignana del femminismo del Novecento, ora come un’incarnazione dello spirito borghese settecentesco. Introduzione Si forniscono informazioni sulla commedia di cui Mi randolina è protagonista. Le coordinate dell’informazione Who: la compagnia del Tea tro Goldoni di Venezia. What: una nuova rappre sentazione teatrale della Locandiera di Goldoni. Where: a Venezia. When: nel dicembre 2012. Why: per celebrare i 260 anni dalla prima rappresentazione. Corpo principale dell’articolo Si spiega il “come” (how), soffermandosi sulla molte plicità di letture e interpre tazioni a cui la commedia e la sua indimenticabile protagonista nel corso dei secoli si sono prestate. Da un lato, una rivoluzionaria sostenitrice di quell’emancipazione femminile che si realizzerà concretamente soltanto due secoli dopo, pronta a rivendicare l’autonomia e la libertà della donna dal mondo maschile; dall’altro una borghese moderatamente riformista, immersa nella dimensione storica e culturale del Settecento, pronta a fare i conti con le barriere sociali del suo tempo e con la convenzionalità dei rapporti borghesi ponendo un freno alle proprie rivendi cazioni. Mirandolina parrebbe, dunque, per alcuni aspetti precorrere i tempi ed essere per altri profondamente radicata nel clima storico, sociale e culturale del suo tempo. Proprio in questa sintesi di elementi contraddittori risiederebbe il segno distintivo del personaggio goldoniano. Laboratorio per l’esame 4 Una prima interpretazione Mirandolina pare da un lato precorrere i tempi e dall’al tro essere profondamente radicata nel suo secolo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Tuttavia, come si è detto, accade spesso, soprattutto ai grandi protagonisti del teatro, che le interpretazioni e i significati ad essi attribuiti nel corso del tempo non corrispondano alla consapevole intenzione di chi li ha creati. Nessun intento rivoluzionario o sovversivo pervade la commedia: l’immobilismo politico e sociale che caratterizzava la Repubblica di Venezia alla metà del Settecento, mentre l’Europa intera era percorsa dalle istanze di progresso e rinnovamento propugnate dall’Illuminismo, sembra tra smettersi alle vicende e ai personaggi: dall’inizio alla fine della commedia nulla cambia, perché nulla di fatto poteva cambiare. L’autore, evitate accuratamente le grandi questioni sociali, politi che e religiose ampiamente dibattute dai contemporanei, porta in scena la sola realtà quotidia na, ritratta nella sua dimensione privata, al centro della quale pone la piccola borghesia venezia na, ben riconoscibile benché la commedia sia ambientata a Firenze, e i valori semplici e positivi che essa rappresenta: onestà, operosità, buon senso, rispetto dell’ordine e delle regole sociali, concretezza e pragmatismo. Nessun rimpianto per il passato, nel quale affondavano le radici i patrimoni e i privilegi dell’aristocrazia; nessuna aspirazione a un futuro diverso. I protagonisti della commedia, incarnazione della visione fortemente moderata della società propria di Goldo ni, affrontano con buon senso pratico e moderazione i piccoli e grandi problemi che l’esistenza quotidiana porta con sé, evitando di farsi illudere da desideri irrealizzabili, come un improvviso arricchimento o una rapida scalata sociale. Così è per Mirandolina, che nel corso dell’intera com media recita e rispetta il proprio ruolo sociale di esponente della classe piccolo-medio borghese, che grazie al proprio lavoro gode di un certo benessere economico. Appagata dalla buona gestio ne della locanda, che le consente libertà e indipendenza economiche sufficienti a non doversi impegnare nella ricerca di un marito, Mirandolina non è attratta da nessuno dei tre nobili che la corteggiano, non è allettata dalla ricchezza e dai privilegi sociali che almeno due di essi rappre sentano (il Marchese di Forlipopoli, dilapidato il patrimonio, ha persino venduto il proprio titolo nobiliare): sa che la disobbedienza alla volontà del padre, che le ha indicato nel servitore Fabrizio il marito ideale, e l’infrazione delle regole sociali con un matrimonio di convenienza sarebbero aspramente condannate all’interno dell’immobilismo che caratterizza la sonnolenta Venezia, avviata all’inevitabile declino. Una Repubblica quella veneziana in cui la borghesia non avanzava alcuna rivendicazione di potere e di partecipazione al governo, né osava mettere in discussione i privilegi dei nobili o la gerarchia tra ceti sociali. Certamente La locandiera dovette apparire innovativa ai contemporanei di Goldoni, il quale rivoluzionava con Mirandolina il personaggio della servetta, tipico della Commedia dell’Arte, ponendola ora al centro della ribalta, che ella domina con grazia e intelligenza, oscillando tra concretezza borghese e civetteria femminile: da figura di contorno a personaggio capace e assennato, dotato di forza di volontà, caratterizzato da estrema disinvoltura nei comporta menti, anche seduttivi. Eppure, come ha sottolineato il critico letterario Attilio Momigliano, Mirandolina è un personaggio dalla civetteria onesta e graziosa, modulata sopra un tema fra canzonatorio e patetico, d’una morbidezza, d’una fugacità, d’una leggerezza settecentesche: persino nel ruolo della seduttrice spregiudicata ella si mantiene all’interno degli schemi dettati dai modelli maschili, basati sui rapporti di forza anche quando si tratta d’amore. Sono soprattutto i monologhi a rivelare al pubblico la visione della vita della locandiera, le aspet tative sul futuro, la volontà di accontentarsi, l’assenza di grandi pretese: il buon senso pratico e il bisogno di vivere con ordine, evidenziato da Anna Maria Guarnieri in un articolo di qualche anno fa, le impediscono di aspirare a mete lontane dal suo mondo, le vietano di fare sogni irrea lizzabili. Per questo, in conclusione di commedia, ella comunica ai personaggi e al pubblico la sua intenzione di sposare il fedele e laborioso Fabrizio, ex popolano che certo non incarna il miglior partito a disposizione, ma con cui condivide e mette in pratica gli stessi valori e che, essendo sul piano sociale ed economico inferiore a Mirandolina, le consentirà di assumere il ruolo dominante all’interno della famiglia. Le parole della locandiera generano nel pubblico il sospetto che la de cisione di sposarsi non nasca dal sincero innamoramento, quanto piuttosto e ancora una volta dal pragmatismo della donna d’affari, dall’intento pratico di conferire a se stessa e alla gestione della locanda una stabilità e una sicurezza maggiori: l’amore resta nella Locandiera un sentimen to disatteso e respinto, al quale si è disposti a rinunciare in nome di valori più semplici e concreti (A.M. Guarnieri). È certo, invece, che compiendo in totale autonomia questa scelta ella afferma ancora per una volta, forse l’ultima, la propria libertà ed emancipazione, benché tale decisione la collochi sotto la tutela di una figura maschile, il marito, individuato fra l’altro nell’assoluto rispetto della volontà del padre e dunque in continuità con la tutela paterna. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Confutazione e proposta di una seconda interpretazione Si fanno alcune considera zioni sulla reale validità di questa lettura e si propone un’interpretazione alterna tiva: Mirandolina è in tutto espressione dell’immobi lismo sociale e culturale del suo tempo, del quale rispetta regole e conven zioni. Laboratorio per l’esame 5 Dunque un finale inevitabile, già scritto nell’ambientazione storica, sociale e culturale della vicenda. Un finale lieto soltanto in apparenza, in quanto mascherato da una scelta misurata e moderata, dettata dalla volontà di accontentarsi. Un vero e proprio suicidio individuale e sociale, afferma Pietro Genesini in un recente saggio sulla commedia. Forse, ha ipotizzato lo stesso Genesini, in altre circostanze di luogo o di tempo Mirandolina avrebbe potuto prendere una decisione diversa, come ad esempio sposare il Cavaliere: allora, però, anche la commedia sarebbe stata interamente diversa. Laboratorio per l’esame 6 Conclusione Si conferma l’interpretazio ne proposta. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Analisi del testo Volume 2, pp. 451-452 Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 451-452. • Vittorio Alfieri, Sublime specchio di veraci detti (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo La descrizione del poeta, che occupa quasi interamente le quartine, prende l’avvio dal capo, si sofferma sulla struttura complessiva del corpo (sottil persona) scendendo fino ai piedi (in su due stinchi schietti), per poi indugiare con maggiore attenzione sul volto. 2. Analisi del testo 2.1 È soprattutto il verso 4 (capo a terra prono) a segnalare nella descrizione fisica un aspetto della personalità alfieriana, alla quale il poeta attribuisce implicitamente la tendenza alla riflessione e alla meditazione. 2.2 Nell’uso degli avverbi di tempo (v. 10) sempre e mai, quest’ultimo posto ulteriormente in rilievo dalla rima in –ai (v. 10, mai; v. 12, assai), emerge la figura retorica dell’antitesi che trasmette al lettore l’immagine di un io lirico combattuto tra emozioni e tendenze contrastanti, destinato a non trovare pace. 2.3 Nelle terzine, il ritratto psicologico del poeta ne delinea le qualità morali e spirituali all’insegna del conflitto interiore e della mutevolezza degli stati d’animo, come ben esprime la lunga sequenza di antitesi, anticipata fin dal verso 2 (in corpo e in anima): emerge l’immagine di un animo combattuto tra due forze contrastanti e di uguale intensità, ragione e cuore, alla cui insoddisfazione esistenziale sembra poter offrire sollievo soltanto la ricerca della solitudine. 2.4 L’ultima antitesi del sonetto, proposta al verso 14 (grande, o vil) dalla domanda retorica conclusiva, introduce il tema della meditazione sulla morte, interpretato come strumento di giustizia che consente di individuare i veri valori umani e di riconoscere i giusti meriti del singolo, e al tempo stesso esplicita l’aspirazione alla grandezza spirituale e alla gloria eterna alle quali il poeta chiaramente ambisce. 2.5 Alfieri adotta nel sonetto-autoritratto uno schema ritmico estremamente semplice (ABAB ABAB CDC DCD), basato sull’alternanza di quattro rime, due per le quartine, due per le terzine. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 3.1 Il poeta scrisse il sonetto-autoritratto sul retro di un dipinto eseguito nel 1793 dal pittore francese François-Xavier Fabre, che vi dipinse un Alfieri dall’espressione altera e determinata, ritraendone gli occhi azzurri, i capelli rossi, la fronte alta; il poeta appare in abito nero, jabot plissettato e cappa dalla fodera rossa, che lo avvolge passando sotto il braccio destro. Spicca in primo piano la mano destra, che risalta sullo sfondo scuro e sulle fredde tonalità dell’abito; sul fondo rosso della cappa, la mano sinistra reca all’anulare l’anello su cui è visibile l’immagine di Dante Alighieri. Dal ritratto di Fabre Alfieri fece trarre un’incisione che divenne il frontespizio delle Tragedie. 3.2 L’immagine di un animo combattuto tra emozioni e forze contrastanti e ugualmente intense emerge con maggiore evidenza in altri componimenti, quali, ad esempio, il sonetto Tacito orror di solitaria selva, di poco posteriore a quello in analisi: composto durante un soggiorno in Alsazia, vi si esprime il fiero isolamento dell’io lirico il quale, sentendosi estraneo al proprio tempo, riesce a trovare consolazione al disagio esistenziale solo nel contatto con luoghi deserti e selvaggi, che gli riempiono il cuore di malinconica dolcezza. Sono analoghe per contenuto e disposizione dell’animo alcune descrizioni di paesaggi selvaggi e primordiali inserite nella Vita, autobiografia composta a Parigi nel 1790: vi emergono soprattutto la noia e l’insoddisfazione esistenziale, che spingono il poeta a cambiare ininterrottamente luogo, a ricercare e percorrere con un’inquieta impazienza paesaggi cupi e primordiali, terribili e sublimi. Tuttavia, mentre nel componimento alsaziano il carattere irruente e passionale di Alfieri si esprime non solo nei termini del conflitto interiore, ma anche in funzione dell’opposizione eroica ai tempi e a qualunque forma di tirannide, nell’autoritratto non è possibile rintracciare tale atteggiamento, nonostante il verso 10 possa riferirsi a questo stato d’animo del poeta (irato sempre). Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 LA STESURA DEL TESTO Commento La struttura Introduzione all’autore e all’opera Con il suo spiccato individualismo e le idee appassionatamente libertarie, Vittorio Alfieri (1749-1803) fu tra i più importanti autori del Settecento. Diviso in due parti, il libro delle Rime comprende circa 300 componimenti composti durante tutto l’arco della vita. Nel 1779 fu pubblicata una prima edizione, che comprendeva le rime scritte fino a quella data. Nel 1804 uscirono postume quelle che il poeta compose in seguito. Si tratta di poesie d’occasione, scaturite dall’urgenza delle passioni e delle vicende biografiche dell’autore, che le definì «sfoghi» dell’animo; a riprova della loro origine contingente alcune liriche, come quella in oggetto, sono precedute dalla registrazione della data di composizione (9 giugno 1786) e da un’annotazione di carattere biografico (In letto), il cui tenore spesso domestico genera un curioso effetto di dissonanza rispetto all’impeto eroico e generosamente passionale dei versi. Le rime costituiscono, nel complesso, una sorta di diario lirico di Alfieri, sollecitato da avvenimenti e riflessioni propri dell’esistenza quotidiana, i quali non sono, tuttavia, immediatamente e materialmente trascritti e registrati, bensì mediati e dominati attraverso un’assidua disciplina letteraria. Come nel Canzoniere di Petrarca, modello stilistico, linguistico e tematico delle Rime alfieriane, la poesia si configura come strumento di conoscenza di sé, meditazione sulla propria singolare grandezza, mezzo per riconquistare l’unità morale e spirituale. Alla tendenza all’introspezione e alla volontà di dominio dell’urgente materia autobiografica corrispondono uno stile energico e vibrante, un linguaggio magniloquente e retorico, ritmi rapidi e spezzati, prodotti dal costante ricorso a cesure forti ed enjambement, che distruggono la musicalità del verso. L’analisi del significato In ossequio alle tendenza tipicamente settecentesca dell’artista a fare di se stesso e della propria originale individualità l’oggetto dell’opera d’arte, il sonetto condensa in pochi cenni un ritratto fisico e morale del poeta, che contiene tutti gli elementi destinati a fissarsi nello stereotipo dell’eroe romantico, affascinante, solitario e ribelle, in perenne conflitto con il mondo e con se stesso. Il componimento esordisce con un’apostrofe metaforica allo specchiosonetto, al quale si chiede un ritratto fisico e interiore la cui sincerità è posta in evidenza nel primo verso (veraci detti). È forse questa la parte più datata del sonetto, che non a caso scomparirà nelle riprese degli autori successivi, fra i quali i giovani Foscolo e Manzoni. Segue, poi, una sezione descrittiva (vv. 3-8), composta di enumerazioni in cui domina variamente l’accoppiata aggettivo + sostantivo, che propone il ritratto fisico del poeta, il quale occupa il resto delle quartine. La descrizione prende l’avvio dal capo, si sofferma sulla struttura complessiva del corpo (sottil persona), scendendo fino ai piedi (in su due stinchi schietti), per poi indugiare con maggiore attenzione sul volto: il poeta ha capelli rossi e radi, capo per lo più rivolto verso il basso, bei denti e carnagione del viso chiara. L’influenza della poesia petrarchesca sulla descrizione fisica è innegabile; unica deroga al modello in favore dell’autenticità del ritratto è il colore rosso dei capelli, che subentra all’oro della chioma di Laura. Il verso 8 segna quindi il punto di passaggio fra la dimensione esteriore e l’interiorità dell’io lirico, alla quale aveva del resto già alluso il verso 4 (capo a terra prono), attribuendo implicitamente al poeta la tendenza alla riflessione e alla meditazione. Le qualità morali e spirituali si delineano nelle terzine all’insegna del conflitto interiore e della mutevolezza degli stati d’animo, come ben esprime la lunga sequenza di antitesi, anticipata fin dal verso 2 (in corpo e in anima). Laboratorio per l’esame 2 Il metodo applicato Indicazioni utili a Integrazioni personali e delineare le caratte- di studio. ristiche generali del l’opera. Precisazione della tradizione poetica nella quale la lirica si inserisce. Rielaborazione delle in formazioni contenute nella risposta 1. Rielaborazione delle in formazioni contenute nella risposta 2.1. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Ne emerge un carattere irruente e passionale, mutevole e tormentato (or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; / irato sempre, e non maligno mai; […] per lo più mesto, e talor lieto assai): in tal senso, è particolarmente significativa la metafora al verso 8 (pallido in volto, più che un re sul trono), che rinvia al tema del tiranno, un motivo ricorrente nel pensiero e nell’opera di Alfieri. Il poeta, nemico di ogni tirannia, finisce con il riconoscere in se stesso i tratti di un sovrano assiso in trono: egli sembra dunque accettare che l’inquietudine e l’ansia di libertà che lo animano non siano rivolte contro un avversario esterno, ma contro se stesso o una parte di sé, esprimendo in tal modo un profondo disagio interiore. Anche nell’autoritratto caratteriale ed emotivo è evidente l’influenza dell’opera petrarchesca, dalla quale Alfieri ricava l’immagine dell’io lirico combattuto tra due forze contrastanti e di uguale intensità (beni terreni e desiderio di salvezza per il poeta aretino, ragione e cuore per l’astigiano), alla cui insoddisfazione esistenziale sembra poter offrire sollievo soltanto la ricerca della solitudine. È quanto emerge con maggiore evidenza in altri componimenti, quali, ad esempio, il sonetto Tacito orror di solitaria selva, di poco posteriore a quello in analisi: composto durante un soggiorno in Alsazia, vi si esprime il fiero isolamento dell’io lirico il quale, sentendosi estraneo al proprio tempo, riesce a trovare consolazione al proprio disagio esistenziale solo se immerso in luoghi deserti e selvaggi, che gli riempiono il cuore di malinconica dolcezza. Analoghe al sonetto sopra citato per contenuto alcune descrizioni di paesaggi selvaggi e primordiali inserite nella Vita, autobiografia composta a Parigi nel 1790: vi emergono soprattutto la noia e l’insoddisfazione esistenziale, che spingono il poeta a cambiare ininterrottamente luogo, a ricercare e a percorrere con un’inquieta impazienza paesaggi cupi e primordiali, terribili e sublimi. Tuttavia, diversamente da quanto accada in Petrarca, nel componimento alsaziano il carattere irruente e passionale di Alfieri si esprime non solo nei termini del conflitto interiore, ma anche in funzione dell’opposizione eroica alla tirannide; neppure nel sonetto alfieriano in esame è possibile rintracciare l’opposizione eroica ai tempi e alla tirannia esterna ben evidente in Tacito orror di solitaria selva, nonostante il verso 10 possa riferirsi a questo stato d’animo dell’io lirico (irato sempre). La sequenza delle antitesi e l’accostamento di termini e concetti di senso opposto all’interno della stessa frase o del medesimo verso ruotano attorno al perno del verso 11 (la mente e il cor meco in perpetua lite), che con sentenza lapidaria porta in primo piano il conflitto fra le componenti nell’io lirico, il cuore e la mente, e ne fa allo stesso tempo uno specchio dei tempi, in bilico tra razionalità illuministica e passione romantica. La sequenza di antitesi confluisce nelle antonomasie del verso 13, in cui i personaggi omerici di Achille, sinonimo di eroismo e coraggio, e Tersite, prototipo del vile, esprimono la percezione della coesistenza in sé di alte aspirazioni eroiche e del senso doloroso del proprio limite umano. Essi anticipano, inoltre, l’ultima antitesi del sonetto, proposta al verso 14 (grande, o vil) dalla domanda retorica conclusiva. La meditazione sulla morte, sentita come pietra di paragone della propria grandezza e nobiltà spirituale, come strumento di giustizia che consente di individuare i veri valori umani, di riconoscere i giusti meriti del singolo, ribalta in senso paradossale la prospettiva del sonetto. L’autoritratto fu scritto sul retro di un ritratto di Alfieri eseguito nel 1793 dal pittore francese François-Xavier Fabre, che ritrasse l’espressione altera e determinata del poeta, gli occhi azzurri e i capelli rossi, la fronte alta, dipingendolo in abito nero, jabot plissettato e cappa dalla fodera rossa che lo avvolge passando sotto il braccio destro. Il dipinto mostra in primo piano la mano destra dell’astigiano, che spicca sullo sfondo scuro e sulle fredde tonalità dell’abito; sullo sfondo rosso, la mano sinistra, che reca all’anulare la corniolina sulla quale è incisa l’immagine di Dante. Dal ritratto di Fabre Alfieri fece trarre un’incisione che diventò il frontespizio delle Tragedie. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Esplicitazione del messaggio, ponendo attenzione alle scelte espressive dominanti. Informazioni e conoscenze contenute nella risposta 2.2 e integrazioni personali. Si esplicita lo stato Rielaborazione delle d’animo dominante. informazioni contenute nella risposta 2.3. Confronto con componimenti che propongono una situazione simile. Informazioni e conoscenze contenute nella risposta 3.2 e integrazioni personali. Conoscenze contenute nella risposta 2.4 e integrazioni. Confronto con il di- Informazioni e conopinto di Fabre. scenze espresse nella risposta 3.1. Laboratorio per l’esame 3 L’analisi del significante Come nel contenuto, così nella forma Alfieri si discosta dal modello petrarchesco, al cui stile limpido e armonioso sembra preferire modalità di scrittura più aspre e frammentate. Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura cara a Petrarca nella quale adotta uno schema ritmico estremamente semplice (ABAB ABAB CDC DCD), basato sull’alternanza delle quattro rime, due per le quartine, due per le terzine. Alle rime facili delle prime due quartine seguono, però, nelle terzine la rima in -ai (v. 10, mai; v. 12, assai), che conferisce rilievo agli avverbi e in -ite (v. 9, mite; v. 11, lite; v. 13, Tersite), a sottolineare il conflitto interiore dell’io lirico, rappresentato dall’antitesi Achille-Tersite. Il lessico, aulico e solenne, evidenzia l’allitterazione delle consonati r e l in alternanza ai versi 9-12, in corrispondenza del contrasto fra le emozioni aspre e violente e i sentimenti miti e pacati che percorrono l’animo del poeta. La sintassi, lineare, mostra le frequenti ellissi del verbo e il prevalere di uno stile nominale, nel quale si assiste a una spiccata predilezione per lo schema binario (v. 1, sublime specchio / veraci detti; v. 9, duro, acerbo / pieghevol, mite), la cui infrazione al verso 5, nel quale è presente un chiasmo (sottil persona in su due stinchi schietti), concorre a spezzare il ritmo e sottolinea una tensione stilistica distante dall’armonia e dall’equilibrio della tradizione petrarchesca. Laboratorio per l’esame 4 Metrica Informazioni contenute nella risposta 2.5 e integrazioni. Il lessico La sintassi Il ritmo Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 laboratorio per l’esame Volume 2, pp. 524-526 Articolo di giornale Componi un articolo di giornale sull’argomento «Jacopo Ortis: l’eternità di un “classico”» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 524-526. • Enzo Siciliano, Storia di un suicidio annunciato (• D1) SCHEDATURA DEL DOCUMENTO Testo Schedatura Il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis è la storia di un suicidio annunciato come può accadere all’uscita dall’adolescenza, per un eccesso di vitalità, perché il mondo non risponde alle tue esigenze, perché si mostra ostile ai tuoi desideri […]. Jacopo si uccide per amore e il suicidio per amore era la malattia del secolo […]. Il fatto è che nello Jacopo Ortis quel male è visto da Foscolo come un concreto ri sultato della Storia. Quel male si incrocia, nell’infelicità esistenziale di Jacopo, […] alla fortissima delusione politica, all’im potenza feroce provata di fronte alla “svendita” di Venezia agli austriaci da parte di Napoleone […] nell’edizione 1802 voluta e riveduta dall’autore, quella che inviò a Goethe dopo avergli scritto una lettera datata 16 gennaio: “[…] Ho dipinto me stesso, le mie passioni, e i miei tempi […] i miei concittadini pregiano il mio stile in un’opera dove per mancanza di modelli ho dovuto farmi una lingua mia propria…”. […] Un possibile romanzo italiano aveva esempi lontani, in Boccaccio e nei novel lieri rinascimentali – erano narrazioni di commedia, di vita arguta. Poi, con il loro magistero sulla realtà effettuale, per un romanzo possibile, si affacciavano padri ni le ombre dei grandi storici, Machiavelli e Guicciardini. Presso Foscolo c’era, ravvi cinato, l’esempio di Alfieri con l’ardimen to tragico della sua esistenza. Alfieri ave va scritto la Vita proprio negli anni in cui Foscolo metteva a segno il suo Ortis. […] I due libri costituiscono i primi palinsesti della narrativa moderna. E Jacopo, in que sto quadro, è personaggio chiave. […] Fra i nostri classici, è quello nel quale […] avvertiamo quanto mai caldo l’odore scomposto della vita, proprio l’odore e non il profumo. Incertezze e contraddi zioni esistenziali lo segnano. […] Dal conflitto è nato appunto un romanzo rimasto tuttora esemplare. Il romanzo ruota attorno alla vocazione al suicidio del protagonista, una persona lità all’uscita dall’adolescen za, immatura e contraddit toria, percorsa da passioni violente, dall’irrequietudine, dall’energia vitale e dall’in coerenza che accompagna no quell’età in ogni luogo e in ogni epoca. Allo stesso tempo, la vi cenda di Jacopo risulta con cretizzata e messa a fuoco dalla realtà storica: la delu sione che seguì in Italia al Trattato di Campoformio. Il romanzo propone attra verso le varie fasi di elabo razione e riscrittura, dal 1798 al 1817, un ritratto letterario dell’esperienza spirituale di Foscolo, dall’adolescenza al la maturità. Alla ricerca dei modelli del l’Ortis, l’autore indica no vellieri del Medioevo e del Rinascimento, storici del Cinquecento e soprattutto il contemporaneo Alfieri, la cui Vita fornirebbe con il ro manzo foscoliano lo schema e la struttura fondamentale del romanzo moderno. Tipologia testuale Integrazioni personali Articolo (periodo storico Occorre ricordare la si 2004) tuazione politica dell’I talia alla fine del Sette Idea centrale cento: gli ideali di libertà, Sottolineare nell’Ortis la indipendenza e ugua valenza universale della glianza proposti dalla vicenda e del suo prota Rivoluzione francese che gonista. nel nostro paese aveva no avuto tanto segui Messaggio dell’autore to sembrarono trovare L’Ortis costituisce un nella campagna d’Italia classico senza tempo del generale Napoleone in cui tutti, ancora oggi, Bonaparte l’occasione possiamo riconoscerci e concreta per realizzarsi, identificarci. abbattendo il dispoti smo e creando forme di governo liberali. Tutta via, la decisione di Bona parte di cedere Venezia agli Austriaci in cambio del riconoscimento del la Repubblica Cisalpina (Trattato di Campofor mio, 1797) disattese le aspettative dei patrio ti italiani, fra i quali lo stesso Foscolo, che ma nifestarono apertamen te la loro delusione. Nessuno dei modelli citati sa, tuttavia, trasmettere la sensazione della vita real mente vissuta come il ro manzo di Jacopo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 LA STESURA DEL TESTO Stesura Struttura Il critico Vittorio Sermonti inaugura il Festival della Letteratura in questi giorni a Bologna “Jacopo Ortis siamo noi” Il romanzo di Foscolo presentato come un classico senza tempo Titolo Si individua un titolo che riassuma in sintesi il conte nuto dell’articolo. Perché proprio Jacopo Ortis inaugura l’apertura del Festival? Lo chiediamo al critico Vittorio Sermonti, che domani ne leggerà alcune pagine significative. «Ma perché il male di vivere è tema moderno – risponde Sermonti – e Foscolo nel suo romanzo rappresenta il “dramma eterno dell’uomo dominato dalla violenza e dalla paura” (Amoretti)». Le coordinate dell’informazione Who: Vittorio Sermonti. What: il discorso tenuto in occasione dell’apertura del Festival della Letteratura. Where: a Bologna, nell’Aula Magna di Santa Lucia. When: ieri. Why: per dimostrare l’at tualità del romanzo di Fo scolo. Al centro del romanzo c’è la vocazione al suicidio di un giovane patriota, Jacopo Ortis appunto, il quale, esule da Venezia in seguito al trattato di Campoformio e innamorato di Teresa, già promessa a un altro, assiste impotente al crollo dei propri ideali di patria, libertà e giustizia, al tragico infrangersi dei suoi sogni d’amore e individua nella morte il solo riscatto al fallimento, l’unico epilogo alle proprie angosce. Corpo principale dell’articolo Si spiega il “come” (how), sof fermandosi su alcuni aspetti di attualità del romanzo epi stolare. Si insiste, in partico lare, sul suo ruolo di classico senza tempo. La vicenda è immersa nella realtà storica: la dura esperienza della Rivoluzione Francese, la bu fera delle guerre napoleoniche, la delusione delle aspirazioni italiane all’indipendenza e alla li bertà. Ma c’è di più: il romanzo costituisce lo specchio immediato di una personalità all’uscita dall’adolescenza, immatura e contraddittoria, percorsa da passioni violente, dall’irrequietudine, dall’energia vitale e dall’incoerenza che accompagnano quell’età in ogni luogo e in ogni tempo. Si tratta di una storia di amori impossibili, per la patria ceduta all’Austria in nome degli inte ressi politici francesi, per Teresa sacrificata alle ragioni economiche della famiglia. Amore per la patria e amore per Teresa, pubblico e privato conducono il giovane protagonista a individua re nella morte il solo riscatto al fallimento. Quella di Jacopo è la lotta dell’individuo che combat te solitario contro i tiranni e le ipocrisie del suo tempo e trova la propria liberazione nel suicidio. Fin dalla prima pagina il romanzo proietta il lettore entro il clima tragico e concitato delle vicen de, il cui fatale epilogo è preannunciato dall’amico Lorenzo fin dall’introduzione, a conferma dell’aggettivo “ultime” contenuto nel titolo. Anche la forma epistolare concorre a coinvolgere il lettore nell’atmosfera drammatica e convulsa degli ultimi giorni di vita di Jacopo, ponendo in primo piano le emozioni del protagonista, sempre esasperate e oscillanti fra euforia e dispera zione, senza sfumature intermedie. Di tali passioni il romanzo costituisce una sorta di diario. Allo stesso tempo, i temi affrontati nell’Ortis trascendono i confini della disperazione politica e della sconfitta privata di un singolo individuo e sfociano in considerazioni di valore univer sale: egli indica nei meccanismi della storia e della natura la costante e inesorabile prevalenza della violenza e della forza, le quali regolano i rapporti sociali e le vicende storiche in modo del tutto indipendente dai desideri e dai sentimenti degli uomini. Sono inutili gli sforzi per vedere concretizzati i propri alti ideali, i valori senza tempo per cui vale la pena vivere in ogni epoca: amore, amicizia, bellezza, natura, patria, libertà. Quella contro le inesorabili leggi della storia e della natura è una guerra vana, persa in partenza. Il primo aspetto: i temi. Laboratorio per l’esame 2 Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Ed ecco allora che il suicidio, la volontaria rinuncia alla vita, assume il significato ora di estrema protesta contro il destino, di suprema affermazione della propria volontà contro i naturali e immodificabili meccanismi di violenza, ora di amara constatazione di sconfitta, dichiarazione finale di impotenza, conclusiva rinuncia alla lotta. Fra i modelli dell’Ortis compare I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe, a imitazione del quale il romanzo di Foscolo propone un unico destinatario, le cui lettere di risposta sono omes se così da fare dell’opera una sorta di diario del protagonista. Al centro delle vicende in entram bi i romanzi, c’è il tipo dell’eroe sentimentale e infelice, in conflitto con la realtà quotidiana, avvertita come una sorta di guerra di tutti contro tutti, nella quale egli si distingue per la nobiltà dei suoi ideali. Il suo animo, solitario e destinato alla sconfitta, è dilaniato dall’eterno conflitto fra cuore e ragione e sembra trovare pace e comprensione nella sola natura. È di ma trice certamente alfieriana l’immagine di Jacopo che combatte solitario contro i tiranni del suo tempo in onore della libertà, che si oppone alle ipocrisie e alle convenzioni sociali della società borghese in nome dell’amore per Teresa e trova la propria liberazione soltanto nella morte. Non mancano, infine, citazioni da autori quali Dante, Petrarca, vicino all’animo di Jacopo immerso nella natura, Plutarco, fedele compagno dei momenti di meditazione e di riflessione. Il secondo aspetto: i mo delli e la capacità di tra scenderli. A prevalere è, tuttavia, indiscutibilmente l’ispirazione autobiografica: Foscolo rappresenta nel romanzo l’irrequietezza amorosa che lo caratterizzava, la “delusione storica” vissuta dalla so cietà italiana al passaggio tra Settecento e Ottocento. Non a caso, in una lettera indirizzata al Bartholdy il 29 settembre 1808 Foscolo afferma di aver voluto conservare nell’Ortis un «monu mento» della sua «gioventù», «co’ suoi difetti». La contaminazione e la contiguità di vita e letteratura fanno dell’Ortis un’opera nuova nella storia letteraria, un’opera aperta, che risente inevitabilmente di una composizione lentamen te maturata e stratificata in tempi e luoghi diversi, attraverso varie fasi di elaborazione (dal 1798 al 1817): il romanzo offre dunque un ritratto letterario dell’esperienza spirituale di Foscolo dall’adolescenza alla maturità. Dall’antefatto dell’Ortis con la nascita nel 1796 di Laura, storia d’amore e di suicidio ispirata alla Nouvelle Héloïse di Rousseau e alla poesia notturna inglese, al romanzo dal titolo definitivo che prende vita a Bologna nel 1798 sotto l’influsso de I dolori del giovane Werther di Goethe, fino all’edizione londinese del 1817: le lettere che Jacopo indi rizza all’amico Lorenzo Alderani si adeguano al mutare del mondo interiore dello scrittore, alla sua vitalità passionale e impetuosa, all’irrefrenabile desiderio di imporre il proprio individuale “sentire”. E tuttavia, Jacopo non è Ugo, bensì una “maschera” del suo autore, un personaggio che fa da schermo allo scrittore, il quale vi realizza un proprio autoritratto letterario, vi delinea il proprio mito umano: è in Ortis che Foscolo mette a fuoco la propria crisi giovanile e trova l’occasione per superarla, proiettandola nel suicidio del suo alter ego. Il terzo aspetto: gli accen ni alle vicende biografiche dell’autore e il loro supera mento. Dunque, è la valenza universale della vicenda e del suo protagonista a fare dell’Ortis un classico senza tempo, in cui tutti, ancora oggi, possiamo riconoscerci e identificarci. Vale a dire – con clude Sermonti – che Jacopo Ortis siamo noi. Conclusione Si ribadisce l’attualità del romanzo. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 3 laboratorio per l’esame Analisi del testo Volume 2, pp. 563-564 Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 563-564. • Ugo Foscolo, Ortis visita le tombe di Santa Croce (• D1) TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento 1. Comprensione del testo Le tombe dei grandi parlano all’animo di Ortis. 2. Analisi del testo 2.1 Le tombe dei grandi suscitano nel giovane Jacopo un profondo sentimento di venerazione, un’emozione mista a religioso rispetto; ad essi si unisce, però, il ricordo delle persecuzioni a cui questi personaggi furono ingiustamente sottoposti dai potenti. Inoltre, emerge la certezza che il risarcimento postumo messo in atto con la costruzione di mausolei dai discendenti di coloro che li perseguitarono non basta a discolpare i persecutori e contribuirà piuttosto alla caduta del loro potere. 2.2 La visita alle tombe di Santa Croce richiama alla memoria di Jacopo il ricordo degli anni dell’adolescenza, durante i quali la lettura appassionata delle opere dei grandi del passato ispirava nel suo animo il forte desiderio di conseguire la gloria presso i posteri. 2.3 A distanza di anni, Jacopo sembra aver maturato la convinzione che in una società corrotta come quella contemporanea, in cui la politica è dominata da violenza e sopraffazione, i rapporti sociali sono retti da interessi economici e utilitaristici, non c’è più spazio per gli ideali nobili e disinteressati dell’adolescenza, definiti ora illusioni vane e irrealizzabili. Le speranze e la vitalità del passato hanno lasciato il posto nell’animo di Ortis a una profonda stanchezza, che coinvolge la mente e il corpo in una visione cupamente pessimistica della storia e della natura, dominate da una forza cieca e incomprensibile per l’uomo e del tutto indifferente ai suoi valori e alle sue aspirazioni. 2.4 Ortis non desidera i favori dei potenti, in quanto non intende adeguarsi alle regole di una società ingiusta e corrotta, nella quale non vuole assumere alcun ruolo. 2.5 La predilezione di Jacopo per Alfieri, presentato come un solitario misantropo estraneo alla mediocrità del presente e chiuso in uno sdegnoso isolamento, assume il senso di una profonda opposizione nei confronti degli uomini potenti e favoriti dal successo. 2.6 La lettera costituisce un ottimo esempio di prosa enfatica, caratterizzata dal prevalere di sostantivi e verbi spesso emotivamente o moralmente connotati, che conferiscono al testo un carattere nervoso e dinamico. Inoltre un ritmo e un tono estremamente mutevoli e altalenanti seguono il rapido susseguirsi delle emozioni nell’animo del protagonista; ricorrono con insistenza le interrogative retoriche (Coloro che hanno eretti que’ mausolei sperano forse di scolparsi…), che conferiscono alle affermazioni di Jacopo un tono lapidario. 3. Interpretazione complessiva e approfondimenti La lettera anticipa il tema conduttore dei Sepolcri, il valore delle tombe dei grandi come testimonianza di memorie patrie e fonte di ispirazione a egregie cose. Vi si ritrovano i protagonisti delle urne de’ forti citati nel carme ai versi 151 e seguenti: Galilei, Machiavelli, Michelangelo, ai quali sono da aggiungere Dante, presso la cui tomba Ortis sosterà a fine marzo, e Alfieri, l’unico contemporaneo che Jacopo desideri conoscere; proprio l’astigiano in una sua opera aveva indicato i sud detti grandi come personaggi esemplari, perseguitati in vita e celebrati dopo la morte, da cui trarre ispirazione. Mentre, però, la pagina dell’Ortis attribuisce ai monumenti funebri il significato di un risarcimento tardivo e inadeguato ai grandi perseguitati, i Sepolcri affermano l’assoluta positività dell’istituzione dei mausolei, chiamati ad assolvere una precisa funzione pubblica, patriottica e civile. È diversa anche la disposizione dell’io del protagonista: nell’Ortis è rassegnato e sconfitto nella volontà e negli affetti, nel carme invece è investito del compito di guidare la società verso la rinascita civile e morale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Laboratorio per l’esame 1 LA STESURA DEL TESTO Commento La struttura Introduzione all’opera In una lettera indirizzata all’amico Bartholdy il 29 settembre 1808 Foscolo afferma di aver voluto conservare nell’Ortis un «monumento» della sua «gioventù». Il romanzo offre in realtà, attraverso le varie fasi di elaborazione che si succedono dal 1798 al 1817, un ritratto letterario dell’esperienza spirituale di Foscolo dall’adolescenza alla maturità. Le lettere che Jacopo indirizza all’amico Lorenzo Alderani vanno adeguandosi al mutare del mondo interiore dello scrittore. Dall’antefatto dell’Ortis con la nascita nel 1796 di Laura, storia d’amore e di suicidio ispirata a Rousseau e alla poesia notturna inglese; al romanzo dal titolo definitivo che prende vita a Bologna nel 1798 sotto l’influsso del Werther di Goethe, fino all’edizione londinese del 1817: il romanzo epistolare dà voce alla vitalità passionale e impetuosa dell’autore, all’irrefrenabile desiderio di imporre il proprio individuale “sentire”. La contaminazione e la contiguità di vita e letteratura fanno dell’Ortis un’opera nuova nella storia letteraria, un’opera aperta, che risente inevitabilmente di una composizione lentamente maturata e stratificata in tempi e luoghi diversi. Foscolo vi narra la sfortunata vicenda di un giovane patriota, Jacopo Ortis appunto, il quale è costretto a lasciare la propria città, Venezia, in seguito al trattato di Campoformio (1797); innamorato di Teresa, già promessa a un altro, assiste impotente al crollo dei propri ideali di patria, libertà e giustizia, al tragico infrangersi dei suoi sogni d’amore e individua nella morte l’unico tragico epilogo alle proprie angosce. È soprattutto per la complessità psico logica e le caratteristiche interiori e morali del suo protagonista che l’Ortis è stato definito il primo romanzo della letteratura italiana: Jacopo incarna il tipo dell’eroe preromatico, sentimentale e infelice, in conflitto con una realtà quotidiana che egli interpreta come una sorta di guerra di tutti contro tutti e nella quale si distingue per la nobiltà dei valori e degli ideali in cui crede. Il suo animo, dilaniato dall’eterno conflitto fra cuore e ragione, sembra cercare comprensione nella sola natura, pare trovare pace soltanto nella morte. In Jacopo Foscolo realizza un proprio potente autoritratto letterario, delinea il proprio mito umano e trova l’occasione per superare la propria crisi giovanile, proiettandola nel suicidio del suo alter ego. Il romanzo anticipa, inoltre, alcuni dei miti e dei temi fondamentali attorno ai quali si raccoglierà l’intera produzione letteraria di Foscolo: la tomba, con fortata dal pianto dei sopravvissuti, segno di gloria e testimonianza di con tinuità fra passato e presente; la bellezza rasserenatrice, sublime ristoro alle angosce e alle sofferenze dell’esistenza umana; l’esilio, condizione tragica e al tempo stesso cifra di superiorità; infine la poesia, che comprende in sé tutti gli altri motivi, estremo risarcimento alle ingiustizie inflitte dalla storia degli uomini, luogo di assoluta bellezza, fonte di ispirazione all’impegno ci vile e morale, dispensatrice di gloria e di fama eterna. Tutti questi miti, che costituiscono l’essenza della poesia di Foscolo, si ritrovano in germe nella prosa del romanzo epistolare. L’analisi del significato L’interesse di questa lettera in particolare risiede nel fatto che vi si ritrova uno dei miti al centro dei Sepolcri, carme composto nel 1806 in margine alle discussioni sorte intorno all’estensione alle province italiane del decreto na poleonico di Saint Cloud (1804), con il quale si imponevano precise limitazioni alle sepolture. Nata da un’occasione contingente, l’opera affronta l’argomen to in un più vasto ambito di pensieri e di riflessioni, che ne fanno il momento culminante della produzione foscoliana. Laboratorio per l’esame 2 Il metodo applicato Indicazioni utili a Dati contenuti nella ri delineare le caratte sposta 3 e integrazioni ristiche generali del personali. l’opera e a collocarla all’interno della vi cenda personale e della produzione let teraria dell’autore. Enunciazione sinte Dati contenuti nella ri tica dell’argomento sposta 3 e integrazioni del brano. personali. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 La pagina dell’Ortis anticipa il tema conduttore dei Sepolcri, ossia il valore delle tombe dei grandi come testimonianza di memorie patrie e fonte di ispi razione a egregie cose, a nobili imprese. Vi si ritrovano i protagonisti delle urne de’ forti citati nel carme ai versi 151 e seguenti: Galilei, Machiavelli, Mi chelangelo, ai quali sono da aggiungere Dante, presso la cui tomba Jacopo so sterà nel marzo del 1799, e Alfieri, l’unico contemporaneo che il giovane esule desideri conoscere; in una sua opera (Del principe e delle lettere) lo stesso astigiano aveva indicato i grandi menzionati sopra come personaggi esem plari, perseguitati in vita e celebrati dopo la morte, da cui trarre ispirazione. Ad accomunare le opere è, infatti, la ricerca di Jacopo e Ugo di valori a cui ispirarsi nelle azioni dei grandi del passato. Entrambi sono convinti che quella in cui vivo no sia un’epoca pervasa dalla violenza e dalla sopraffazione: la politica sembra aver tradito gli alti ideali di patria e libertà per assumere i tratti della tirannide; i rapporti fra gli individui sono dominati dal gretto utilitarismo e dal servilismo verso i potenti e l’intero universo appare privo di senso e incapace di perseguire alcuna finalità. È soprattutto la letteratura a essere chiamata a sopperire alle carenze e alle mancanze di società e politica, offrendo ispirazione e incitamento ad agire nel presente, a sostenere la ferma volontà di affermare, nonostante i tempi, quei valori che rendono più umani i rapporti tra gli individui, quegli ideali che rendono l’esistenza degna di essere vissuta. Ecco allora l’adolescente Jacopo, immerso nell’appassionata lettura delle opere dei grandi del passato, che ispira vano nel suo animo il forte desiderio di conseguire la gloria presso i posteri. Ed ecco, nel cuore del carme, affermarsi la consapevolezza che l’unico bene rimasto agli Italiani, privati di armi, ricchezze, territorio, sia la memoria della grandezza passata. Si afferma così l’idea della memoria come patrimonio da salvaguardare, come l’insieme degli insegnamenti, degli ideali e dei valori che si stratificano nel tempo: il contenuto sacro della storia deve essere tra smesso di generazione in generazione, preparando l’umanità al futuro. Pro prio in epilogo di carme le leggende omeriche esemplificano l’effetto della conservazione religiosa della memoria. La pagina del romanzo, tuttavia, attribuisce ai mausolei il significato ridutti vo di un risarcimento tardivo e inadeguato ai grandi del passato, perseguitati in vita dai potenti, celebrati dopo la morte dai discendenti dei persecutori, che innalzando loro monumenti funebri non cancellano le colpe degli antena ti e contribuiscono, paradossalmente, alla caduta del proprio potere. Contro i mausolei, pubblici sepolcri eretti ai fini dell’ostentazione del potere e non certo per scopi esemplari, il romanzo sembra privilegiare le sepolture, intese come luoghi privati confortati dall’affetto dei familiari, sedi della pietosa illu sione di poter sopravvivere alla morte. I Sepolcri affermano, invece, l’assoluta positività e il carattere meritorio dell’i stituzione dei monumenti funebri, chiamati ad assolvere una precisa funzio ne pubblica, patriottica e civile. I grandi citati nei Sepolcri evidenziano tutti una connotazione eroica e drammatica insieme, comune anche all’immagine che il poeta propone di sé nella parte conclusiva del carme (E me che i tempi ed il desio d’onore / fan per diversa gente ir fuggitivo, / me ad evocar gli eroi chiamin le Muse…): vittime incolpevoli di un destino malvagio, essi hanno però ottenuto un risarcimento postumo presso i posteri, che attribuirono loro quella gloria che da vivi fu loro ingiustamente negata, quella stessa ricom pensa tardiva a cui aspira anche il poeta. Emblematica l’antica contesa delle armi di Achille citata ai versi 218-220: ottenute con l’inganno (senno astuto) e grazie al favore del potente Agamennone (favor di regi), furono dal mare, reso tempestoso dagli dei infernali protettori dei defunti, strappate alla nave di Odisseo e restituite alla tomba di Aiace, che avrebbe dovuto riceverle alla morte del Pelide. Nel carme, inoltre, il sepolcro, visto come testimonianza di continuità tra defunti e viventi, tra passato e presente, assume un signi ficato non solo nella dimensione affettiva e privata, ma in quella pubblica, comunitaria e nazionale. Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011 Il confronto con i Sepolcri. Dati contenuti nella ri sposta 2.1 e integrazio ni personali. Dati contenuti nella risposta 2.2 e integra zioni personali. Esplicitazione ap pro fondita del si gnificato del brano. Laboratorio per l’esame 3 Assai lontana e diversa risulta, del resto, la disposizione dell’io del protago nista, nell’Ortis rassegnato e sconfitto nella volontà e negli affetti, nel carme investito del compito di guidare l’umanità verso la rinascita civile, morale e spirituale. La coscienza della diversità, il senso di estraneità alla società coe va, rispetto alla quale Jacopo ostenta un volontario e sprezzante isolamento, trascende i limiti dell’emarginazione sociale e si trasforma faticosamente in volontà di agire all’interno della società stessa, in impegno civile. Dalla pro testa tragica e impotente del protagonista del romanzo si giunge così alla fi gura del poeta-vate che campeggia al centro del carme, investito del compito di guidare le coscienze dei contemporanei verso i più alti valori etici, politici e civili. È emblematica, in questa prospettiva, anche la diversa rappresentazione di Vittorio Alfieri, da sempre sorta di alter ego di Foscolo: nei Sepolcri il poeta attribuisce all’opera e alla personalità di Alfieri un’interpretazione fortemen te patriottica e risorgimentale, che perdurerà per l’intero Ottocento; nel ro manzo, l’astigiano appare piuttosto come un misterioso misantropo triste e solitario, estraneo alla mediocrità del presente e chiuso in uno sdegnoso isolamento, nei cui confronti la predilezione di Jacopo trova piena corrispon denza nella rinuncia ad agire all’interno della società, nella visione cupamen te pessimistica della storia e della natura, dominate da una forza cieca e incomprensibile per l’uomo e del tutto indifferente ai suoi valori e alle sue aspirazioni. L’analisi del significante La lettera costituisce un ottimo esempio di prosa enfatica, ricca nello stile, mutevole nel tono e nel ritmo, pronti a seguire e a registrare il rapido susse guirsi delle emozioni nell’animo del protagonista. La caratterizzano un lessi co fortemente connotato in senso emotivo o morale, il prevalere di sostan tivi e verbi a scapito di aggettivi e avverbi, il ricorso a coordinate, frasi brevi, esclamazioni e interrogative retoriche (Coloro che hanno eretti que’ mausolei sperano forse di scolparsi…), che conferiscono al testo un carattere nervoso e dinamico e trasmettono alle affermazioni di Jacopo un tono lapidario. Laboratorio per l’esame 4 Definizione dello sta Dati contenuti nelle ri to d’animo prevalen sposte 2.3 e 2.4 e inte te e delle sensazioni grazioni personali. dominanti all’interno del brano. Dati contenuti nella risposta 2.5 e integra zioni personali. Il ritmo Il lessico Informazioni contenu te nella risposta 2.6. La sintassi Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201] Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011