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laboratorio per l`esame
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 57-59
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Il Graal tra leggenda, letteratura e storia» utilizzando il dossier che si trova
alle pagine 57-59.
• Chrétien de Troyes, La processione del Graal (• T3)
• Ranieri Polese, Il Graal e l’immaginario letterario (• D1)
Schedatura dei documenti
•T3 Chrétien de Troyes, La processione del Graal
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Al centro della sala […] è seduto un
valent’uomo di bell’aspetto, i capelli già quasi bianchi […] Davanti a lui,
tra quattro colonne, arde un gran
fuoco vivace di ciocchi secchi, così
grande che quattrocento uomini
almeno avrebbero potuto riscaldarvicisi e ciascuno vi avrebbe trovato
posto. Le colonne alte e solide che
sostenevano il camino erano di
bronzo massiccio […]
Testo narrativo destinato al ristretto pubblico della corte di
Maria di Champagne (Francia del
nord), si propone di intrattenere e al tempo stesso educare ai
valori della cavalleria e alle virtù
cortesi.
Romanzo cavalleresco
in versi in lingua d’oil
(periodo storico prima
del 1190)
Occorre ampliare le informazioni sull’autore,
Chrétien de Troyes, creatore del nuovo genere
letterario del romanzo
cavalleresco; proprio nel
Perceval egli propone per
la prima volta il motivo
del Graal, oggetto della
ricerca avventurosa del
cavaliere, riletta ora in
termini cristiani. Nella
tradizione
medioevale
la quête del Graal costituisce da un lato un
percorso di formazione
e di crescita individuale
e spirituale, dall’altro la
conquista di un potentissimo strumento, in grado
di combattere il male che
si trova in ogni uomo.
Mentre parlano […] un valletto viene da una camera, e tiene una lancia […] Una goccia di sangue colava
dalla punta di ferro”
Il giovane ospite vede tal meraviglia e si trattiene dal domandarne
ragione. È perchè rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non
gli insegnò che mai si deve parlare
troppo? Porre domanda sarebbe
villania. Non dice parola.”
Quando fu entrata nella sala col
graal che teneva, si diffuse una luce
sì grande che le candele persero il
chiarore, come le stelle quando si
leva il sole o la luna […] Il graal che
veniva avanti era fatto dell’oro più
puro. Vi erano incastonate pietre di
molte specie, le più ricche e le più
preziose che vi siano in mare o sulla
terra. Nessuna potrebbe paragonarsi alle pietre che cingevano il graal.
Ha desiderio di saperlo, ma pensa
che avrà tempo di domandarlo domani […] Ma invano: porte chiuse,
e ben chiuse! Chiama, bussa con
gran forza e ancor di più, ma nessuno gli apre o risponde”.
Fin dal primo istante il narratore
pone in evidenza la sontuosità
del castello e la cortesia del misterioso ospite (un valent’uomo),
in un’atmosfera magica e fiabesca. Quindi inizia la processione
degli oggetti, ricca di significati
simbolici e allegorici che rimandano alla figura di Cristo: ad
esempio, la lancia con la punta
intrisa di sangue allude alla Passione di Gesù e al sacrifico del
sangue versato per la redenzione
dell’umanità.
Idea centrale
Il Graal è un oggetto
misterioso, carico di
sacralità, del quale si
intuiscono poteri straordinari. Egli è in attesa
dell’eroe destinato a ritrovarlo.
Messaggio
La letteratura esalta
l’aspetto misterioso e
leggendario del Graal,
facendone l’oggetto per
eccellenza della quête,
ovvero la ricerca avventurosa.
Benché il protagonista non comprenda il significato della processione, egli non fa domande, memore dell’educazione ricevuta. Il
cavaliere è tale non sol per l’appartenenza a un ordine militare,
ma soprattutto per una condotta
improntata alla cortesia: fare domande indiscrete sarebbe motivo di villania.
Si deve, inoltre, ricordare
che negli stessi anni in
cui si sviluppa il romanzo
cavalleresco la cristianità
è impegnata nella grande impresa delle Crociate, nel tentativo di liberare il Santo Sepolcro dal
dominio degli infedeli.
Il misterioso e preziosissimo Graal, che compare più volte nel corso della cena, attira l’attenzione
del giovane fin dall’inizio.
Alla fine Perceval rimanda al giorno seguente la richiesta di spiegazioni, che sarà, però, destinata a
restare disattesa.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Laboratorio per l’esame
1
•D1 Ranieri Polese, Il Graal e l’immaginario letterario
Testo
La parola “graal”, secondo l’opinione
più diffusa, deriverebbe dal latino
gradalis, che significa “piatto”, “coppa”. Non citato nei vangeli e negli
Atti degli Apostoli, questo oggetto
carico di sacralità appare fra il XII e
il XIII secolo nei poemi del ciclo di re
Artù. Delle molte versioni della leggenda, due sono le più importanti,
Perceval di Chretien de Troyes (prima del 1090) e il Parzival del tedesco Wolfram von Eschenbach (1170
– 1220 ca.). Quest’ultimo introduce
una variante: il Graal sarebbe stato
una gemma preziosa […] Robert de
Boron aggiunge un dettaglio: il vaso
di Giuseppe d’Arimatea è il calice
dell’Ultima Cena. […]
Nel 1920, l’antropologa inglese Jessie Weston ha definito il Graal come
il lascito di antichi riti pagani della
fertilità che nel Medioevo si sarebbero mescolati con elementi cristiani.
Nella seconda metà del Novecento,
grazie a due importanti ritrovamenti archeologici […] si affermò l’idea
di un Cristo diverso dalla tradizione
della Chiesa […] Gesù ha […] tratti
più umani, mentre Maria Maddalena ha un’importanza maggiore. […]
Nel 1982, gli inglesi Michael Baigent,
Richard Leigh e Henry Lincoln hanno
pubblicato un libro intitolato Il Santo
Graal, nel quale usano alcuni di questi
testi […] per avanzare tesi tutt’altro
che fondate sotto il profilo scientifico, ma di sicuro impatto sull’opinione
pubblica. […] il Graal non sarebbe una
coppa o una gemma, ma un segreto
che la Chiesa avrebbe cercato di occultare: Cristo sposò Maria Maddalena, ne ebbe una figlia, non morì sulla
croce ma si trasferì con la famiglia in
Provenza, e da lui sarebbero discesi i
re Merovingi […].
Sei anni dopo […] Umberto Eco ha
pubblicato il romanzo Il pendolo di
Foucault […] in cui riprende questi
temi. Nel 2003 è uscito negli Stati
Uniti Il Codice da Vinci di Dan Brown
che […] in un solo anno […] si è affermato come bestseller mondiale
numero uno.
Laboratorio per l’esame
2
Schedatura
L’autore ricostruisce l’etimologia del termine.
L’oggetto non è menzionato
nel Nuovo Testamento; è, tuttavia, al centro di una leggenda dalle molteplici versioni, alla
quale paiono fare riferimento i
poemi del ciclo bretone.
Tra XII e XIII secolo, la leggenda
del Graal subisce un’evoluzione: inizialmente rappresentato
come coppa, il Graal dapprima
diventa gemma preziosa, poi è
identificato con il calice dell’ultima cena.
L’autore illustra quindi alcune
delle più accreditate interpretazioni del Graal proposte dagli
storici del Novecento.
Ci si sofferma in particolare
sulle tesi di Baigent, Leigh e
Lincoln, dalle quali la letteratura più recente ha tratto ispirazione.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo di giornale (periodo storico 26 aprile
2004)
Occorre fare riferimento all’o­pinione diffusa
secondo la quale non fu
Chrétien a creare ex novo
il Graal, che egli avrebbe
invece ripreso dalla tradizione celtica, nella quale
sono frequenti leggende
su oggetti miracolosi a
forma di vaso o coppa.
Idea centrale
Nel corso dei secoli si
sono susseguite molteplici interpretazioni
di carattere storico e
letterario: da un punto
di vista archeologico, il
Graal può essere studiato come oggetto dalle
precise caratteristiche
fisiche, legato alla figura di Cristo, del quale
si cerca di individuare
l’esatta collocazione; in
una dimensione prettamente letteraria, il
Graal è indagato come
topos particolarmente
fortunato e ricorrente,
del quale si studiano le
origini e la progressiva
evoluzione attraverso i
testi e gli autori.
Messaggio
Indagine storica e interpretazione letteraria
sul Graal si intrecciano
e si influenzano reciprocamente, dall’origine del mito fino ai giorni nostri.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Saggio breve
Stesura
Struttura
Il Graal, cuore pulsante della cultura occidentale
Titolo
Sintetizza la tesi sostenuta
nello sviluppo del saggio.
Vi sono molteplici prospettive secondo le quali il Graal può essere studiato: da un punto di
vista storico e archeologico, esso costituisce un oggetto dalle precise caratteristiche fisiche,
legato alla figura di Cristo; in una dimensione leggendaria, il Graal è interpretato come simbolo
dal significato universale, presente sotto varie forme in numerose tradizioni mistico – religiose; infine, da un punto di vista prettamente letterario, esso rappresenta un topos particolarmente fortunato e ricorrente, del quale si studiano le origini e la progressiva evoluzione
attraverso i testi e gli autori.
Nel corso dei secoli, queste tre prospettive si sono spesso incrociate e influenzate, alimentandosi a vicenda e facendo dell’oggetto della loro indagine uno dei cuori pulsanti della cultura
occidentale.
Ma che cos’è il Graal? Da un punto di vista etimologico, il termine deriva dal latino gradalis, che
significa piatto, coppa. L’epopea del Graal ha inizio in ambito letterario, nella Francia del Nord
alla fine del XII secolo. Qui il termine fa la sua prima apparizione in un romanzo cavalleresco
appartenente al ciclo bretone, il Perceval di Chrétien de Troyes, nel quale indica un oggetto
dalle precise caratteristiche fisiche, legato alla figura di Cristo; esso costituirebbe, infatti, il
calice entro il quale fu raccolto sul Golgota il sangue del Redentore. Non esistono, tuttavia,
prove a sostegno della tesi per cui Chrétien de Troyes avrebbe creato ex novo il mito del Graal;
pare, invece, più probabile che egli abbia attinto alla tradizione celtica, ricca di oggetti a forma
di vaso o coppa dotati di misteriosi poteri.
La leggenda del Graal si sviluppa quindi nei grandi cicli di romanzi cavallereschi che caratterizzano l’ultimo periodo del Medioevo, i quali costituiscono al tempo stesso la massima celebrazione del mito del cavaliere e la testimonianza del suo definitivo tramonto. È proprio questa
tradizione letteraria a dare impulso agli studi storico – archeologici e ai tentativi di identificazione del luogo in cui l’oggetto sarebbe conservato: intorno al 1200 nel Roman de l’Estoire
du Graal il francese Robert de Boron identifica il Graal con il calice utilizzato da Gesù durante
l’Ultima Cena, nel quale in seguito Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto e conservato il sangue versato da Cristo sul Calvario; la coppa sarebbe quindi stata misteriosamente trasportato
in Francia, dove secondo la tradizione si sarebbe trovata in età medioevale, custodita dal Re
Pescatore.
In quegli stessi anni, dunque, letteratura e storia si intersecano. Occorre, inoltre, ricordare che
al tempo del Perceval la cristianità è impegnata nella grande impresa delle Crociate: cavalieri
e pellegrini si recano in Terra Santa per liberare il Sepolcro di Cristo dal dominio degli infedeli, riportandone sovente numerose reliquie. Proprio la ricerca dei resti sacri, particolarmente
importante in quel periodo, esprime l’esigenza di stabilire un legame diretto con l’esperienza
terrena di Gesù Cristo e dei primi apostoli, attraverso il ritrovamento e il recupero delle tracce
materiali che essi hanno lasciato alle spalle. La ricerca corrisponde, a livello spirituale, alla
volontà di recuperare quel legame unico e irripetibile che si stabilisce tra la dimensione umana
e terrena di Cristo e gli uomini stessi, tra il Dio che si fa uomo e l’umanità. In tale percorso di
fede, la ricerca del Graal manifesta il desiderio di avvicinarsi con maggior intensità alla passione e alla resurrezione di Cristo, con il mistero del sacrifico totale di sé e della rinascita, che si
attua nella figura di Cristo e nella sua Passione, e che si rinnova costantemente nell’Eucarestia, di cui il calice è simbolo.
Quindi, la caccia alle reliquie riscrive in termini cristiani il concetto di quête, la ricerca avventurosa del cavaliere, che tradizionalmente aveva come oggetto la conquista della donna amata o
della gloria in battaglia e di cui il Graal diviene ora il massimo coronamento spirituale. La quête
diviene, così, un percorso di formazione e di crescita spirituale dell’individuo che la compie;
il calice trasmetterebbe, inoltre, un potere misterioso, in grado di combattere il male che si
trova in ogni uomo e innanzitutto in se stessi.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Introduzione
Si individuano le molteplici prospettive secondo
le quali il Graal può essere
studiato.
Tesi
Si esprime l’opinione secondo la quale tali prospettive si sono influenzate e
alimentate a vicenda nel
corso dei secoli.
1° Argomento a favore della tesi
Si illustrano le origini del
mito del Graal, ponendo in
evidenza il fatto che prospettiva storica, letteraria
e spirituale si fondono fin
dal Medioevo.
Laboratorio per l’esame
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Quindi, la caccia alle reliquie riscrive in termini cristiani il concetto di quête, la ricerca avventurosa del cavaliere, che tradizionalmente aveva come oggetto la conquista della donna amata o
della gloria in battaglia e di cui il Graal diviene ora il massimo coronamento spirituale. La quête
diviene, così, un percorso di formazione e di crescita spirituale dell’individuo che la compie;
il calice trasmetterebbe, inoltre, un potere misterioso, in grado di combattere il male che si
trova in ogni uomo e innanzitutto in se stessi.
2° argomento a sostegno
della tesi
Si dimostra che ancora oggi
le diverse prospettive di
studio del Graal si intersecano e sovrappongono, influenzandosi a vicenda.
Le tre prospettive di indagine continuano ancora oggi a intersecarsi e ad alimentarsi reciprocamente: sono, infatti, due importanti ritrovamenti archeologici, avvenuti nella prima metà del
Novecento, a dare impulso a una rilettura in chiave più umana della figura di Cristo. I papiri di
Nag – Hammadi e i Rotoli del Mar Morto, testi prodotti fra I e II secolo d. C. in ambiente eretico,
sono fra le fonti più significative utilizzate dagli storici inglesi Michael Baigent, Richard Leigh e
Henry Lincoln per avanzare, nell’opera Il Santo Graal (1982), alcune tesi innovative sull’esistenza terrena di Gesù. È loro opinione che da secoli la Chiesa si sforzi di mantenere segreti alcuni
episodi della vita di Cristo, la cui conoscenza da parte della comunità dei fedeli determinerebbe
la perdita del proprio ruolo di intermediaria fra Dio e gli uomini. Ci si riferisce, in particolare,
al matrimonio tra Gesù e Maria Maddalena, dalla quale nacque una figlia, da identificarsi con
il Graal, la cui etimologia deriverebbe non da gradalis, ma da Sang Real, ovvero sangue reale.
Cristo, inoltre, non sarebbe morto sulla croce, ma si sarebbe trasferito in Provenza con la famiglia, dalla quale avrebbero avuto origine la dinastia dei Merovingi, sovrani ai quali la tradizione
attribuiva il potere di guarire.
Benché non pienamente fondate sotto il profilo scientifico, tali teorie hanno suscitato una forte impressione presso l’opinione pubblica e hanno reso nuovamente attuale il mito del Graal:
la storia ha di nuovo ispirato la letteratura, che della quête ha fatto ancora una volta il motivo
al centro di opere quali Il pendolo di Foucault, pubblicato da Umberto Eco nel 1998, e il bestseller mondiale Il Codice da Vinci di Dan Brown, edito nel 2003 e dal quale è stata tratta una
fortunatissima pellicola cinematografica.
Quale significato si può attribuire al fatto che la vicenda del Graal sia riemersa, alimentando
una discussione storico – teologica che pare destinata a non esaurirsi in tempi brevi? La risposta può leggersi ancora una volta su vari livelli.
I grandi cicli di romanzi cavallereschi che determinano la nascita e la diffusione del mito del
Graal si inseriscono, da un punto di vista storico e spirituale, in un momento di crisi dell’ortodossia cattolica, quando alcuni movimenti ereticali mettono in dubbio la presenza di Cristo
nell’Eucarestia; a tali attacchi la Chiesa rispose con il culto delle reliquie, prime fra tutte il Graal, prove tangibili dell’esistenza terrena e dell’esperienza di passione e resurrezione di Cristo,
strumenti attraverso i quali i fedeli potevano stabilire un forte legame con Dio. È possibile che
ancora oggi il Graal eserciti la medesima funzione: in tempi di analoga incertezza, in cui l’uomo
moderno ha visto progressivamente affievolirsi la propria spiritualità a vantaggio della dimensione concreta e terrena, ha perduto la capacità di sentirsi in contatto con una dimensione più
alta dell’esistenza, il Graal rappresenta di nuovo un mito in cui credere, un mistero dal quale
lasciarsi affascinare, un misterioso simbolo nel quale leggere quell’oscuro significato di cui
ciascuno ha maggiormente bisogno.
Laboratorio per l’esame
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Conclusione
Si ribadisce la tesi, sottolineando che anche nell’individuazione delle cause
del millenario successo del
Graal storia, letteratura e
spiritualità si confondono.
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 116-117
Analisi del testo
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 116-117.
• Cino da Pistoia, Vedete, donna, bella creatura (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1.Comprensione del testo
Vedete, o donne, una bella creatura che si trova straordinariamente in mezzo a voi! Avete mai visto una figura così nuova
o una giovane donna così saggia e piacente?
Ella certamente nobilita la natura umana e tutte voi allo stesso modo; prestate attenzione ai suoi gesti piacevoli, che suscitano meraviglia in tutti quanti.
Fate a gara nel renderle onore quanto più è possibile, o donne che avete esperienza d’amore, perché nobilita voi tutte colei
di cui ovunque si parla.
Ora si paleserà chi ha in sé nobiltà d’animo, poiché io vedo Amore in persona che la venera e la riverisce, tanto gli piace.
2.Analisi del testo
2.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito da quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe,
delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la
successione a rime alterne ABAB ABAB, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto.
Il sonetto rappresenta il passaggio per via della donna amata e registra l’ammirazione che la sua perfetta bellezza suscita
in chi la incontra; si tratta di una situazione tipica dello Stilnovo.
2.2Il sonetto è caratterizzato dalla ripetizione del verbo “vedere”, che compare in posizione iniziale ai vv. 1, 3 e 13, nel quale
è anche riecheggiato nell’aggettivo affine “visibil”; il verbo esprime l’ammirazione suscitata dalla visione della donna
amata, la cui bellezza è innanzitutto fisica, soggetta alla percezione visiva. Nel codice poetico dello Stilnovo lo sguardo
è la via di accesso al cuore del poeta: l’amore è una ferita inferta nell’animo dell’innamorato proprio attraverso gli occhi,
che costituiscono lo strumento principale della seduzione.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Il termine gentile acquista presso la generazione stilnovista nuovi significati: il concetto feudale e cavalleresco di gentilezza intesa come nobiltà ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue, è rielaborato dallo Stilnovo in senso
borghese e comunale; il vocabolo viene ora a definire la nobiltà d’animo, conquistata per merito individuale attraverso
l’esercizio delle virtù morali e spirituali.
La gentilezza diventa, inoltre, requisito indispensabile per poter accedere all’esperienza amorosa: si sviluppa così il motivo dell’identità fra amore e cor gentil. Dunque, le donne a cui Cino si rivolge invitandole a onorare l’amata sono coloro le
quali, essendo dotate di animo nobile, hanno esperienza d’amore.
3.2Manca, a mio parere, a Cino da Pistoia la profondità filosofica di poeti come Guinizzelli o Cavalcanti, i quali spiritualizzano
e idealizzano la donna e l’esperienza d’amore, sottraendole a qualunque connotazione fisica e sensuale e attribuendo
loro funzioni salvifiche e beatificanti. Per i due Guidi, così come per Dante Alighieri, la donna è creatura angelicata, dotata
di virtù e qualità morali tali da suscitare nell’innamorato e in chiunque le si avvicini l’impulso a una ricerca di perfezionamento intellettuale e spirituale.
Nel sonetto Vedete, donne, bella creatura la bellezza di Selvaggia, la figura femminile celebrata da Cino nel suo vasto
canzoniere, è connotata in termini prevalentemente umani e terreni. La contemplazione dell’amata è interamente incentrata sulla perfezione dell’aspetto esteriore, mentre la sua apparizione pare suscitare in chi la osserva una generica
meraviglia. Ben poco spazio è concesso agli effetti psicologici e interiori, sui quali si concentrano invece i maggiori rappresentanti dello Stilnovo: così, nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare Guinizzelli elabora il motivo della donna-angelo, la cui apparizione non distoglie l’innamorato dalla fede, al contrario lo avvicina al cielo manifestando tra gli uomini la
potenza di Dio. Analogamente Guido Cavalcanti valorizzata l’interiorità dell’innamorato, la cui vita psichica è interamente
coinvolta nell’esperienza amorosa: nel sonetto Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira… egli dichiara l’ineffabilità della
visione dell’amata e riconosce la propria inadeguatezza a comprendere e rappresentarne le qualità spirituali. Infine, nel
sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare Dante compie la lode di Beatrice che passa per via attraverso riferimenti non
realistici, in un clima che può dirsi ultraterreno; nel componimento di Cino, al contrario, la celebrazione dell’amata è calata
in una dimensione tutta terrena, nei luoghi della realtà concreta; si veda in proposito il v. 11.
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Laboratorio per l’esame
1
La stesura del testo
Commento
Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario
Guittoncino dei Sigibuldi, detto Cino, nacque a Pistoia nel 1270; conseguita a Bologna la laurea in diritto, esercitò a lungo la professione
di giurista, dedicandosi anche all’attività letteraria. Amico di Guido
Cavalcanti e di Dante Alighieri, aderì al movimento dello Stilnovo del
quale ricalca nel suo vasto canzoniere motivi e stilemi; la sua morte, avvenuta nel 1370, fu celebrata da Francesco Petrarca nel sonetto
Piangete, donne, e con voi pianga Amore.
Epigono del movimento, Cino vive il declino del codice poetico dello
Stilnovo, al quale pure aderisce fedelmente nei temi e nello stile; non
manca, tuttavia,una rivisitazione originale dei motivi e delle modalità
espressive della scuola. Nel suo vasto canzoniere egli canta la propria
vicenda d’amore secondo i temi e i modi del movimento, non più accolti però nei loro valori eterni, ma calati in un’atmosfera più terrena e
individuale. È, infatti, diffuso il giudizio per cui Cino rappresenti l’anello di congiunzione fra l’esperienza ancora duecentesca dello Stilnovo e
la lirica del Trecento e costituisca la premessa alla poesia di Petrarca.
Lo Stilnovo è un movimento poetico che nasce a Firenze e a Bologna
tra il 1280 e il 1310: ne sono promotori intellettuali e poeti per lo più di
estrazione borghese, legati non solo dal sodalizio artistico, ma anche
da rapporti personali di amicizia. Il movimento emancipa la donna e
l’esperienza amorosa dalla dimensione puramente fisica e sensuale
conferita loro dall’amore cortese e ne privilegia gli aspetti intellettuali
e spirituali. I suoi esponenti idealizzano la figura femminile, la trasfigurano e ne teorizzano il culto, attribuendole un ruolo di superiorità rispetto all’innamorato, che le deve obbedienza: tipico, in questo
senso, il ricorso al termine “donna”, che nel linguaggio poetico di fine
Duecento significa “padrona del cuore dell’innamorato”. L’amata è ora
celebrata principalmente per le sue qualità morali, le quali suscitano
nell’animo dell’uomo pensieri puri e danno impulso a una ricerca individuale di perfezionamento morale, intellettuale e spirituale. Ne risulta valorizzata anche l’interiorità dell’innamorato, la cui vita psichica è
interamente coinvolta nell’esperienza amorosa.
La poetica del movimento viene definendosi nei nuclei tematici e nelle modalità espressive attraverso l’opera dei suoi maggiori esponenti. A Guido Guinizzelli, “padre” della generazione stilnovista, si deve
l’elaborazione del motivo dell’identità fra amore e “cor gentil”, ossia
nobile: egli rielabora in senso borghese e comunale i valori dell’etica
feudale-cavalleresca e concepisce la gentilezza non più come nobiltà
ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue, ma come nobiltà d’animo, conquistata per merito individuale attraverso l’esercizio
delle virtù morali e spirituali. In questo senso, Guinizzelli sostiene la
tesi dell’identità fra animo nobile e animo innamorato, già affermata
da Andrea Cappellano nel De amore. Nella medesima duplice valenza
il termine “gentile” è utilizzato da Cino da Pistoia nel componimento
in analisi: le “donne gentili” a cui si rivolge sono coloro le quali sono
dotate di animo nobile e hanno esperienza d’amore.
Nei componimenti di Guinizzelli trova, inoltre, teorizzazione la concezione dell’esperienza d’amore come contemplazione e lode della
donna amata, la quale ha le sembianze di un angelo: nel sonetto Io
voglio del ver la mia donna laudare la perfezione estetica e morale
dell’amata la rende degna di essere assimilata alle più perfette creature dell’universo e ne fa l’oggetto della lode del poeta. Il saluto della donna dissolve nell’innamorato e in chiunque la incontri orgoglio
Laboratorio per l’esame
2
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni biografiche
utili a delineare il percorso artistico dell’autore e il contesto in cui
ha operato.
Notizie fornite dalla traccia integrate con alcune
conoscenze personali.
Precisazione del contesto poetico nel quale
l’autore ha operato.
Dati contenuti nella risposta 3.2 e integrazioni
personali.
Dati relativi alla risposta
3.1 e integrazioni personali.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
e pensieri malvagi, dona beatitudine e salvezza; la sua apparizione
non distoglie l’innamorato dalla fede, al contrario manifesta la potenza di Dio tra gli uomini e avvicina al cielo. La perfezione estetica
e morale della donna che passa per via genera sgomento e angoscia
negli astanti, spesso vinti da stupefatto mutismo, e induce l’io lirico a
riconoscere la propria inadeguatezza nel rappresentarla: motivo ripreso e accentuato da Guido Cavalcanti nel sonetto Chi è questa che ven,
ch’ogn’om la mira…, in cui l’innamorato dichiara l’ineffabilità della visione, l’impossibilità di comprendere e descrivere le qualità spirituali
dell’amata.
Le tematiche amorose sono espresse dagli stilnovisti in uno stile “dolce”, ossia con un linguaggio musicale, che evita i suoni aspri, e attraverso una sintassi semplice e lineare.
L’analisi del significato
Ben diversa è la rappresentazione della figura femminile nel componimento in analisi.
Il sonetto propone una situazione tipicamente stilnovista: l’apparizione della donna amata e gli effetti che la sua perfetta bellezza suscita
in quanti la incontrano. Il suo aspetto e i suoi gesti sono tali da nobilitare l’intero genere umano e da indurre persino Amore a venerarla;
per questo, il poeta invita le donne che hanno esperienza d’amore a
lodarla e onorarla.
Tuttavia, i numerosi topoi della lirica stilnovista sono riletti alla luce
della sensibilità poetica dell’autore. Così, la figura femminile è rappresentata in termini prevalentemente umani e terreni, ponendo in
secondo piano il significato o la funzione superiore dell’esperienza
amorosa: l’amata è una “bella creatura”, “piacente” nell’aspetto e nei
gesti. L’unico accenno alle qualità spirituali della donna è costituito
dall’aggettivo “savia”, al v. 3, il quale però è immediatamente attenuato dal “piacente”, che riconduce ancora una volta alla dimensione
esteriore della figura femminile.
Il sonetto è, inoltre, caratterizzato dalla ripetizione del verbo “vedere”,
che compare in posizione iniziale ai vv. 1, 3 e 13, nel quale è riecheggiato nell’aggettivo affine “visibil”; il verbo sembra dunque ribadire la
dimensione puramente fisica della bellezza femminile, soggetta alla
percezione visiva. Nel codice poetico dello Stilnovo lo sguardo è, del
resto, la via di accesso al cuore del poeta: l’amore è una ferita inferta
nell’animo dell’innamorato proprio attraverso gli occhi, i quali costituiscono lo strumento principale della seduzione.
Nel sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare…, la lode
dell’amata è compiuta attraverso riferimenti non realistici, in un clima ultraterreno, celeste: Beatrice che passa per via manifesta e rivela
la propria essenza e le proprie virtù (gentilezza, onestà, umiltà). La
sua bellezza è privata di qualunque connotazione concreta e sensuale,
mentre gli stessi dati fisici acquistano un valore puramente spirituale:
così, lo sguardo infonde dolcezza nel cuore di chi la osserva, il volto
emana una soave ispirazione amorosa.
Nel componimento di Cino la contemplazione della donna amata
è, al contrario, prevalentemente incentrata sulla percezione visiva dell’aspetto esteriore, la cui straordinaria unicità è sottolineata
al v. 2 dall’avverbio “maravigliosamente”, a sua volta ripreso al v. 8
dall’espressione “fan maravigliar”, e dal ricorso al v. 3 all’aggettivo
“nova”. Proprio la perfezione estetica rende l’amata degna di essere
onorata non solo dalle donne gentili, ma da Amore in persona: si noti
in proposito la ripetizione del verbo “onorare” in finale di verso (vv. 9 e
10), ripreso al v. 14 dall’espressione affine “falle reverenza”.
Confronto con altri
esponenti dello Stilnovo.
Rielaborazione della parafrasi (risposta 1).
Esplicitazione del messaggio, ponendo attenzione alle aree semantiche dominanti
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Laboratorio per l’esame
3
Poco spazio sembra dunque essere concesso da Cino agli effetti psicologici che l’apparizione della donna suscita in chi la osserva: nessun
cenno agli effetti beatificanti o salvifici della donna-angelo; il poeta
pare piuttosto limitarsi a registrare una generica meraviglia.
Contribuisce, infine, a calare la figura femminile in una dimensione
tutta terrena l’affermazione del v. 11, che sembra collocare il componimento nei luoghi della realtà concreta.
L’analisi del significante
Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura assai antica costituita nella sua forma più classica da quattro strofe di versi
endecasillabi, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Nato nell’ambito della
Scuola Siciliana come breve poesia musicata (è questo il significato
del termine provenzale sonet), fu ampiamente impiegato dai poeti
del “dolce stil novo”, che vi affrontarono tematiche prevalentemente
amorose; proprio allo schema tipico del sonetto stilnovista si rifà Cino
nel presente componimento, adottando nelle quartine la successione
a rime alterne ABAB ABAB, nelle terzine la combinazione CDE CDE, tre
rime ripetute in ordine diretto.
La presenza insistita nel sonetto di numerosi topoi della lirica stilnovista si traduce in campo lessicale in frequenti ripetizioni di vocaboli
identici o appartenenti a campi semantici affini: si noti, per esempio, la ripetizione del verbo “vedere”, in posizione iniziale ai vv. 1 e 3,
riecheggiato nell’aggettivo “visibil” al v. 13, che esprime l’invito alla
contemplazione estatica della bellezza della donna amata, soggetta
a percezione visiva (v. 4, “giovane piacente”; v. 7 “atti… piacenti”). Proprio il motivo della bellezza apre (v. 1, “bella”) e chiude la lirica (v. 14,
“li abella”), conferendole una certa circolarità. La straordinaria unicità
della donna amata, sottolineata dall’avverbio “maravigliosamente”, a
sua volta ripreso dall’espressione “fan maravigliar”, la rende degna di
essere onorata non solo dalle donne gentili, ma da Amore in persona:
si noti in proposito la ripetizione del verbo “onorare” in finale di verso
(vv. 9 e 10), ripreso dall’espressione affine “falle reverenza”.
Il carattere monocorde del testo è, inoltre, realizzato attraverso una
sintassi semplice e lineare; conferiscono, infine, alla lirica un ritmo
monotono, ma non privo di musicalità, il ricorso a un lessico ripetitivo
e le scelte metrico-retoriche: le rime, le frequenti assonanze e consonanze, i rimandi fonici fra parole chiave (v. 5, “adorna”; v. 10, “onora”;
v. 13, “adora”).
Laboratorio per l’esame
4
Metrica
Risposta alla domanda
2.1 e integrazioni personali
Il lessico
Risposta alla domanda
2.2 e dati stimolati dalla
parafrasi
La sintassi
Integrazioni personali
Il ritmo
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 159-163
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Religioni e tolleranza attraverso i tempi e le culture» utilizzando il dossier
che si trova alle pagine 159-163.
• Novellino, Il Sultano e il ricco giudeo (• T25)
• Etienne de Bourbon, L’anello dalle virtù taumaturgiche (• D1)
• Dante Alighieri, Incontro con Maometto (• D2)
• Giovanni Boccaccio, Il Saladino e Melchisedech (• D3)
• Voltaire, Tolleranza (• D4)
• Gotthold Ephraim Lessing, La versione illuministica della parabola dei tre anelli (• D5)
• Luce Irigaray, Come accogliere le differenze (• D6)
Schedatura dei documenti
•T25 Novellino, Il Sultano e il ricco giudeo
Testo
[…] – Messere, elli fu un padre
ch’avea tre figliuoli […] Il padre di
sopra sa la migliore; e li figliuoli,
ciò siamo noi, ciascuno si crede
avere la buona […].
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Il testo ha una precisa funzione
educativa, subordinata all’intento di dilettare e intrattenere.
Novella (periodo storico
fine Duecento).
Si deve accennare all’intento educativo del
Novellino di insegnare
comportamenti nobili e
generosi alla borghesia
cittadina, che negli ultimi anni del Duecento, in
piena età comunale, cercava di fare propri i valori
della civiltà cortese. La
fiducia nella parola arguta ed elegante è proprio
il tratto maggiormente
distintivo del ceto dirigente borghese.
Colui che professa una fede diversa è presentato come fratello, figlio del medesimo padre.
Si sottolinea l’impossibilità degli
uomini di giudicare la validità di
una religione rispetto alle altre.
Idea centrale
Il brano propone il concetto di fratellanza fra
tutte le religioni.
Messaggio dell’autore
Indirizzare il comportamento nei confronti delle altre religioni
verso la tolleranza e
il rispetto reciproco,
denunciando la stolta
arroganza degli uomini
che pretendono di giudicare le altre confessioni.
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Si deve, inoltre, fare riferimento alla fortuna
letteraria avuta dalla
novella dei tre anelli, che
ha conosciuto numerose
rivisitazioni. Nella sua
versione originale il racconto, elaborato in ambiente culturale ebraico
e noto fin dal XII secolo,
proponeva una vera e
propria lezione di tolleranza e di serena convivenza tra confessioni
diverse.
Laboratorio per l’esame
1
•D1 Etienne de Bourbon, L’anello dalle virtù taumaturgiche
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Aveva una sposa che gli diede
una figlia legittima, ma più tardi,
sedotta da lenoni, diede alla luce
altre che passarono per figlie legittime di suo marito. […] E chiamò
la figlia e le diede l’anello. Le altre,
come lo seppero, si fecero fare altri
anelli somiglianti […]. Però il giudice, uomo saggio, fece la prova della
virtù degli anelli, e non trovandone
alcuna negli altri, giudicò essere
legittima quella il cui anello aveva
dimostrato le sue virtù, e dichiarò le
altre illegittime […].
Breve testo narrativo a intento
educativo e moraleggiante.
Parabola (periodo storico metà del Duecento).
L’uomo ricco rappresenta Dio,
la sposa è la comunità dei fedeli, i lenoni i falsi profeti e gli
eresiarchi che seducono l’umanità generando false dottrine,
le figlie illegittime.
Idea centrale
Le religioni diverse dalla cattolica sono associate al concetto di inganno e mistificazione.
Si può sottolineare che
nel Duecento si sono sviluppate e diffuse numerose eresie, le quali hanno generato per reazione
un violento fanatismo
religioso.
Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figlie illegittime che tentano con l’inganno di appropriarsi dell’eredità lasciata da Dio alla figlia
legittima, l’unica portatrice di
virtù e verità.
Messaggio dell’autore
Indirizzare il comportamento verso la diffidenza nei confronti
delle dottrine, poiché
possono essere ingannevoli.
•D2 Dante Alighieri, Incontro con Maometto
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] E tutti li altri che tu vedi qui, /
seminator di scandalo e di scisma /
fuor vivi, e però son fessi così […]
(vv. 34-36).
Il testo intende mostrare agli
uomini i tre regni ultraterreni
allo scopo di ricondurli sulla
retta via.
Poema sacro (periodo
storico inizio del Trecento).
Si deve ricordare che
l’età di Dante è dominata
dalla sfera religiosa che
permea di sé ogni aspetto dell’esistenza terrena,
il cui unico valore consiste nel preparare la vita
ultraterrena. Si tratta,
quindi, di un’epoca di
intolleranze e fanatismi
religiosi.
Colui che in vita ha diviso la cristianità diffondendo false verità e seminando discordia ora
è “diviso”, squarciato nel corpo
eternamente, come duratura
sarà la frattura religiosa da lui
provocata nella comunità dei
fedeli.
Laboratorio per l’esame
2
Idea centrale
Dio punisce con la dannazione eterna chi inganna i suoi figli.
Messaggio dell’autore
Indirizzare verso la
condanna delle diverse
fedi, legittimata da Dio.
Si può fare un rapido accenno all’analoga sorte
riservata nella Commedia agli eresiarchi, altrettanto simbolicamente
condannati nel decimo
canto dell’Inferno a bruciare per sempre nelle
arche incandescenti entro le mura della città di
Dite.
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•D3 Giovanni Boccaccio, Il Saladino e Melchisedech
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Avendo speso tutto il suo tesoro in guerra e in liberalità […], era
un usuraio di Alessandria d’Egitto
[…], un discendente non sapeva
a chi dei suoi tre figli darla poiché
erano tutti e tre virtuosi e rispettosi. […] La stessa cosa, concluse
Melchisedech, si può dire delle tre
religioni, date da Dio ai tre popoli:
ciascun popolo crede che la propria
sia quella autentica, ma la questione è ancora irrisolta. […] Il Saladino
fu colpito da tanta saggezza e rivelò il fine nascosto della sua domanda. […] Melchisedech fu colpito
dalla lealtà del sovrano e gli prestò
generosamente il denaro, che poi
il Saladino restituì, aggiungendo
ricchissimi doni e onorandolo per
sempre come suo amico.
Il testo intende dilettare e al
tempo stesso trasmettere insegnamenti utili alla emergente classe borghese.
Novella (periodo storico
metà del Trecento).
Occorre ricordare che la
terza giornata del Decameron è dedicata a
novelle che celebrano il
motivo dell’intelligenza,
o ingegno, o industria,
virtù tipicamente borghese, intesa come l’abilità di sapersela cavare in
ogni circostanza grazie
anche a un utilizzo arguto della parola.
Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figli
ugualmente virtuosi e rispettosi, amati con la stessa intensità dal padre, il quale è l’unico
in grado di riconoscere l’anello
autentico, portatore di virtù.
Idea centrale
Le confessioni sono
tutte ugualmente valide e legittimate da Dio.
Messaggio dell’autore
Indirizzare alla tolleranza e al rispetto reciproco.
Si devono approfondire
le informazioni relative
all’affermarsi, nel Trecento, della civiltà comunale e al conseguente
dilagare della mentalità
e dei modelli culturali
borghesi.
Si può ricordare l’incoronazione morale ottenuta
dal Saladino nella Commedia, dove è collocato
nel Limbo, fra gli spiriti
magni della classicità.
•D4 Voltaire, Tolleranza
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Che cos’è la tolleranza? È la prerogativa dell’umanità. Siamo tutti
impastati di debolezze e di errori:
perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura
[…].
È chiaro che chiunque perseguiti un
uomo, suo fratello, perché questi
non è della sua opinione, è un mostro. Questo è indiscutibile.
Il testo si propone di divulgare
il pensiero illuminista.
Saggio (periodo storico
1764).
Colui che professa una fede
diversa è presentato come
un uomo come tutti gli altri,
e come tale ugualmente soggetto a debolezze ed errori;
in virtù di questa fratellanza,
nessuno può perseguitare un
altro perché non ne condivide
l’opinione.
Idea centrale
Si sottolinea l’impossibilità degli uomini di
giudicare la validità di
una religione rispetto
alle altre.
Occorre ricordare che
l’Illuminismo è un movimento di pensiero impegnato in una strenua
battaglia per l’affermazione del principio di
uguaglianza fra tutti gli
uomini e, di conseguenza, per la difesa e la tutela delle libertà individuali, di pensiero, parola,
coscienza.
Messaggio dell’autore
Indirizzare alla tolleranza reciproca, in nome
della propria “fallibilità”.
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Laboratorio per l’esame
3
•D5 Gotthold Ephraim Lessing, La versione illuministica della parabola dei tre anelli
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli, non poteva farne
a meno, li amava tutti allo stesso
modo […]. Ognuno ebbe l’anello da
suo padre: ognuno sia sicuro che
esso è autentico. Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare
in casa sua la tirannia di un solo
anello. E certo vi amò ugualmente
tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno.
Orsù! Sforzatevi di imitare il suo
amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per
dimostrare alla luce del giorno la
virtù della sua pietra nel suo anello.
E aiuti la sua virtù con la dolcezza,
con indomita pazienza e carità, e
con profonda devozione a Dio […].
Le religioni diverse dalla cattolica sono paragonate a figli virtuosi e rispettosi ugualmente
amati dal padre.
Novella (periodo storico
Settecento).
Occorre richiamare la
lezione di tolleranza
impartita secoli prima
dall’Umanesimo, il quale
valorizza la dimensione
interiore dell’individuo
e la responsabilità del
singolo nella scelta e
nell’adesione a una confessione (principio del
libero esame).
Tali principi verranno
approfonditi dal filosofo
inglese John Locke nella
Lettera sulla tolleranza
(1685).
Questo amore incondizionato
diventa ora per gli eredi modello di comportamento.
Idea centrale
Le fedi sono tutte uguali e ugualmente care a
Dio; sono i fedeli a mostrarne la grandezza
con il loro amore e il loro
rispetto per il prossimo.
L’atteggiamento
che
deve prevalere è imitare l’amore del padre,
incorruttibile ed esente
da pregiudizi.
Messaggio dell’autore
Annullata qualunque
differenza fra le religioni, si esorta alla
tolleranza in nome del
comune amore di Dio
per tutti gli uomini, a
qualunque fede appartengano.
•D6 Luce Irigaray, Come accogliere le differenze
Testo
Schedatura
Per incamminarci nella via di questo futuro, essere attenti alla parte
della strada percorsa da altri può
esserci di aiuto, anche per capirci.
Rifiutare l’apertura ad altre culture e tradizioni equivarrebbe a una
diffidenza rispetto alla nostra, a
una paura di scoprire che essa non
sia valida […]. Certo, ci troviamo
così sempre a un bivio, incrociando l’altro nel rispetto delle nostre
differenze. […] Sarebbe augurabile
condividerla con l’altro a ogni bivio
del cammino, e portare insieme
più avanti lo sbocciare della nostra
umanità.
Il futuro della nostra società è
paragonato a un percorso disseminato di bivi, ciascuno dei
quali corrisponde all’incontro
con altre culture e tradizioni.
Ognuno di essi genera indubbie difficoltà e incertezze, ma
costituisce al tempo stesso
un’occasione per consolidare la
nostra determinazione ad andare avanti.
Laboratorio per l’esame
4
Tipologia testuale
Articolo d’opinione
(cronologia 2005).
Idea centrale
Per costruire il nostro
futuro
dell’umanità,
che è una, è indispensabile il confronto con
l’altro.
Integrazioni personali
Si fa riferimento al processo di formazione
dello Stato liberale e democratico che è accompagnato, fra Otto e Novecento, dal costituirsi di
una pluralità di opinioni
in campo etico, politico e
morale.
Messaggio dell’autore
Invito al confronto con
gli altri, indispensabile
per comprendere noi
stessi e per consolidare
la fiducia nella nostra
cultura, anche religiosa.
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Saggio breve
Stesura
Struttura
«Nessuno può dirsi cristiano se impone ad altri
la sua religione con la forza e la violenza»
(J. Locke)
Titolo
Si propone una frase d’autore ritenuta significativa
ai fini della tesi sostenuta
nello sviluppo del saggio.
Fra le sfide più impegnative che in questi anni siamo chiamati ad affrontare vi è la capacità
di realizzare il processo di integrazione con culture diverse, alle quali appartiene un numero
crescente di individui nel nostro Paese. Uno degli aspetti a cui occorre prestare particolare attenzione è certamente quello religioso: la mancanza di tolleranza in questo campo costituisce,
infatti, un ostacolo a qualunque altro processo di integrazione culturale e sociale. Per affrontare con successo tale sfida è necessario abbandonare pregiudizi e anacronistici atti di intolleranza; la riflessione storico-filosofica e la letteratura possono aiutarci a trovare nuove strade.
Per tolleranza si intende l’atteggiamento di rispetto o di indulgenza nei confronti di azioni o
convinzioni altrui, anche se in contrasto con le proprie.
Introduzione
Si sottolinea che l’accettazione dell’altro costituisce
per gli uomini del terzo millennio una condizione indispensabile.
Si dà una definizione di tolleranza.
Il confronto fra le religioni ha da sempre richiamato l’attenzione di artisti e intellettuali, i quali
ne hanno dato ampia rappresentazione. Nell’affrontare questo complesso argomento ciascuno di loro ha inevitabilmente subito l’influenza del contesto storico, politico e sociale a cui
apparteneva e si è rapportato con l’ideologia e i modelli culturali dominanti, decidendo se
prenderne le distanze o divenirne espressione. La letteratura italiana, in particolare, ha saputo
offrire sin dal XIII secolo importanti testimonianze in merito.
Tesi
Si esprime l’opinione che
i punti di vista sulla tolleranza siano largamente influenzati nella letteratura
e nella riflessione storicofilosofica dal contesto storico e sociale, dalla tradizione culturale e dai modelli di
vita dominanti.
Un esempio del legame tra il punto di vista espresso sulla tolleranza e il contesto culturale di
appartenenza è fornito dalla condanna alla dannazione eterna riservata da Dante Alighieri a
Maometto nel XXVIII canto dell’Inferno: colui che in vita ha diviso la cristianità diffondendo
false verità e seminando discordia è ora eternamente squarciato nel corpo, così come duratura
sarà la frattura religiosa da lui provocata. La pena attribuitagli simboleggia per contrappasso
la ferita inferta alla comunità dei fedeli dai falsi profeti e dagli eresiarchi, altrettanto simbolicamente condannati a bruciare per sempre nelle arche poste lungo le mura della città di Dite
(Inferno, canto X). L’atteggiamento di Dante nei confronti delle altre religioni pare corrispondere in toto alla mentalità culturale dominante: nel corso del Medioevo si va delineando nel
Papato una forte volontà teocratica, concretizzata nell’acquisizione, in virtù del prestigio e
dell’autorità spirituale di cui gode presso l’intera cristianità, di un crescente potere temporale, destinato nelle intenzioni a prevalere su quello di imperatori e sovrani. Il papato diventa
dunque un’istituzione non solo religiosa, ma anche politica: in tale ottica la fede è utilizzata
come un efficace strumento di controllo delle masse popolari; l’intolleranza diviene il metodo
maggiormente impiegato per regolare i difficili rapporti fra confessioni differenti.
1° Argomento a favore della tesi
Si sottolinea il legame fra il
contesto storico e culturale
e la concezione dantesca
delle religioni diverse dalla
cattolica.
Significativa della medioevale concezione assolutistica della religione, intesa come strumento di controllo sulle masse, appariva, cinquant’anni prima della stesura della Commedia, la
rielaborazione a opera di Etienne de Bourbon della tradizionale parabola sull’anello dalle virtù
taumaturgiche. Nella sua versione originale, elaborata in ambiente culturale ebraico e nota fin
dal XII secolo, il racconto proponeva una vera e propria lezione di tolleranza e di serena convivenza tra confessioni diverse, dimostrando inoltre la stolta arroganza degli uomini, ciascuno
dei quali è erroneamente convinto di possedere quella verità che solo Dio conosce. Nella rielaborazione di Bourbon, al contrario, coloro che professano una confessione diversa, definita
“illegittima” in quanto frutto della ingannevole seduzione dei “lenoni”, sono giudicati come
mistificatori, destinati a essere inevitabilmente smascherati.
2° Argomento a favore della tesi
Anche la versione duecentesca della tradizionale novella dei tre anelli è espressione della concezione assolutistica della religione.
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Laboratorio per l’esame
5
Il messaggio dell’originaria versione ebraica è, invece, ripreso dall’anonimo autore del Novellino alla fine del Duecento e ampliato alla metà del Trecento da Boccaccio, il quale ne propone
l’ennesima versione nella terza giornata del Decameron, dedicata alla virtù tipicamente borghese dell’industria, come capacità di cavarsela in ogni circostanza.
Boccaccio fa del tradizionale motivo dei tre anelli il fulcro di un’idea superiore di tolleranza e
di rifiuto di ogni tipo di fanatismo, sottraendolo allo spazio generico e fiabesco del Novellino
e degli altri antecedenti e calandolo in un preciso contesto spazio-temporale, entro il quale si
caratterizzano il ricco giudeo che, come spesso accade nel Basso Medioevo, svolge l’attività
di usuraio, e il Saldino. Proprio la presenza sulla scena di quest’ultimo, uno dei personaggi di
maggior rilievo del XII secolo, simbolo delle più alte virtù cavalleresche (liberalità e prodezza)
e già collocato da Dante fra gli spiriti magni del Limbo accanto ai grandi della classicità, conferisce alla novella una forza esemplare. Grazie all’utilizzo arguto della parola del giudeo e
alla schiettezza del Saldino, che in conclusione confessa all’usuraio il tentato inganno, i due
finiscono per diventare amici e soci in affari. L’insegnamento che ne deriva è che al di là delle
differenze religiose gli uomini possono intendersi in nome di una schiettezza e di una sincerità
laiche, che costituiscono l’esatto contrario del fanatismo religioso. Boccaccio riconosce, infatti, il valore di ciascuna delle tre religioni maggiori, ebraismo, cristianesimo, islamismo (i figli
“erano tutti e tre virtuosi e rispettosi”), e sostiene la conseguente impossibilità di giudicare in
terra le contese di fede. Alla metà del Trecento, del resto, l’affermarsi della civiltà comunale
e la battaglia condotta dai Comuni per l’emancipazione dal controllo politico di papato e impero indebolisce la preesistente omogeneità ideologico-culturale e contribuisce ad attenuare
il fanatismo religioso. Con il dilagare della mentalità e dei modelli borghesi, sulla dimensione
puramente spirituale dell’esistenza comincia ad affermarsi una visione più concreta e terrena,
che va di pari passo con il prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica. Diventa,
pertanto, ammissibile la professione di principi religiosi, etici, politici diversi: l’“infedele” è ora
tollerato in nome di necessità variamente motivate, quali per esempio l’interesse economico.
3° Argomento a favore della tesi
Attraverso alcuni esempi
letterari, si rileva l’influenza esercitata dall’affermarsi, fin dagli ultimi anni del
Duecento, della mentalità
borghese nella percezione
delle religioni diverse.
Una delle tappe più importanti nello sviluppo del principio della tolleranza è senza dubbio
l’Umanesimo, il quale valorizza la dimensione interiore dell’individuo e la responsabilità del
singolo nella scelta e nell’adesione a una confessione. La concezione umanistica della fede,
che propone nel rapporto uomo-Dio il principio del libero esame, si scontra inevitabilmente con
la visione assolutistica, che alla religione attribuisce una funzione ideologica e politica e nega
all’individuo la possibilità di vivere con Dio un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni.
L’adesione a confessioni diverse da quella cattolica viene, dunque, interpretata come un crimine contro la Chiesa e le sue istituzioni.
Proprio ai principi promulgati da un campione dell’Umanesimo, Erasmo da Rotterdam, sembra ispirarsi la versione illuministica della parabola dei tre anelli: in essa è evidente l’influsso
della teoria erasmiana, secondo cui il cristianesimo è innanzitutto impegno individuale di vita
morale, pratica di carità, imitazione del modello di Dio (“sforzatevi di imitare il suo amore
incorruttibile e senza pregiudizio”). è opinione di Lessing che nessuno sulla terra sia in grado
di ergersi a giudice nelle contese di fede, per cui tutte le religioni devono essere considerate
valide; pertanto, la difesa dell’ortodossia non può giustificare persecuzioni violente, ma deve
essere subordinata al rispetto della dignità dell’uomo.
4° Argomento a favore della tesi
La versione settecentesca
della novella dei tre anelli,
che riflette la lezione di tolleranza impartita dall’Umanesimo, è espressione dello
spirito illuminista.
Nel XVIII secolo, in un’Europa sconvolta dall’esperienza della Riforma protestante e da decenni di sanguinari conflitti religiosi torna ad affiorare il tema della tolleranza. I principi già
sviluppati nell’età umanistica vengono innanzitutto ripresi e approfonditi dal filosofo inglese
John Locke. Nella Lettera sulla tolleranza (1685) egli definisce “false chiese” le confessioni che
tentano di imporre il proprio culto sulle altre; ad esse sono da preferire le “vere chiese”, che
basano la propria azione sui principi di rispetto reciproco e di impegno individuale; il filosofo
ribadisce, inoltre, la separazione fra Chiesa e Stato, il quale non può intervenire in materia di
fede, e sancisce la libertà di coscienza individuale.
5° Argomento a favore della tesi
In un periodo dominato
dal più violento fanatismo
religioso Locke si oppone
all’ideologia dominante e
torna a proporre la tolleranza.
Laboratorio per l’esame
6
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La tolleranza religiosa trova piena affermazione nel secolo dei Lumi, grazie alla battaglia per
l’affermazione del principio di uguaglianza di tutti gli uomini e delle libertà individuali, che
ispirò tra l’altro il Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire: il filosofo francese evidenzia l’insensatezza del fanatismo religioso e dimostra con serrate argomentazioni la contraddizione
che intercorre fra l’insegnamento di Gesù e gli atti di intolleranza che caratterizzano numerosi
cristiani. L’anno seguente nel Dizionario filosofico Voltaire afferma che la tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana, è una “prerogativa” dell’umanità: poiché
noi tutti siamo soggetti a fallibilità e inclini all’errore, non resta che riconoscere nelle debolezze dell’altro le nostre fragilità e perdonarci vicendevolmente. In questo senso, la tolleranza si
configura come vera e propria legge di natura, fondamento di tutte le libertà e di tutti i diritti
umani. Non a caso, tale principio sarà sancito nella Dichiarazione di indipendenza (1776) e nella
successiva Costituzione federale degli Stati Uniti d’America (1791).
6° Argomento a favore della tesi
La battaglia per l’affermazione della libertà di
coscienza che caratterizza
il “secolo dei Lumi” ispira
l’opera e il pensiero di Voltaire.
Fra Otto e Novecento si assiste, rispetto al passato, alla progressiva accettazione di una pluralità di opinioni in campo etico, politico e morale; nel faticoso costituirsi dello Stato liberale e
democratico, la tolleranza concorre all’affermarsi del diritto alla libertà d’opinione e garantisce
la coesistenza dialettica di posizioni ideologiche differenti. In questo senso, essa contribuisce
alla ricerca della verità. Significativo, a questo proposito, il pensiero di Luce Irigaray, filosofa
e psicanalista belga che nel 1930 invitava a riconoscere alla tolleranza una funzione assolutamente positiva: permettendo l’esistenza di una pluralità di opinioni in tutti i campi in cui è
esercitata, essa contribuisce alla conoscenza e alla ricerca della verità.
7° Argomento a favore della tesi
Nel Novecento, con l’affermarsi dei principi liberali e
democratici, il valore morale e politico assunto dalla
tolleranza trova espressione nel pensiero della Irigaray.
Le testimonianze illustrate appaiono oggi estremamente attuali, sia nei luoghi in cui fanatismo religioso e intolleranza calpestano i diritti e le libertà altrui, sia laddove democrazia e
libertà sembrano regnare. Troppo spesso, infatti, la tolleranza è concepita in termini riduttivi
o addirittura negativi: in alcuni casi, la scelta del tollerare è considerata come il minore dei
mali, nella convinzione che sia preferibile astenersi dal condannare posizioni morali o religiose
giudicate riprovevoli per evitare i problemi certamente peggiori generati dalla repressione violenta; la diversità che si decide di tollerare, del resto, non giungerà mai a un’autentica e piena
affermazione di sé.
La tolleranza, in conclusione, anticipa e prepara il concetto di libertà politica, ma non coincide
con il diritto alla libertà di coscienza: essa corrisponde piuttosto a una scelta individuale e
come tale può essere revocata; viceversa, irrevocabile è la liceità tutelata dai diritti di libertà
di pensiero, coscienza e opinione che le costituzioni liberali e democratiche garantiscono a
ciascun cittadino. Essa si configura, in ogni caso, come fondamento di tutte le libertà e di tutti
i diritti umani e come ineludibile obiettivo da raggiungere: come si affermava in apertura, la
mancanza di tolleranza costituisce, soprattutto in campo religioso, un significativo ostacolo a
qualunque processo di integrazione culturale e sociale.
Conclusione
Si fa un rapido accenno
alla situazione attuale e si
ribadisce l’opinione per cui
la tolleranza sia imprescindibile obiettivo dei nostri
tempi.
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Laboratorio per l’esame
7
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 180-181
Articolo di giornale
Componi un articolo sull’argomento: «Trovatori, giullari e goliardi» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 180-181.
• Guglielmo d’Aquitania, Nella dolcezza della primavera (• T4)
• Jaufré Rudel, Amore di terra lontana (• T5)
• Dario Fo, La nascita del giullare (• Focus, p. 176)
• Anonimo, Godiamo dunque (• D1)
Schedatura dei documenti
•T4 Guglielmo d’Aquitania, Nella dolcezza della primavera
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Nella dolcezza della primavera / i
boschi rinverdiscono, e gli uccelli / cantano, ciascheduno in sua
favella, / giusta la melodia del
nuovo canto. / È il tempo, dunque, che ognuno prenda agio / di
quello che più brama.
Così detta perché accompagnata
dalla musica, la canzone costituisce la forma metrica privilegiata
della materia amorosa.
Canzone in lingua d’oc
(periodo storico inizio
XII secolo).
Dall’essere che più mi giova e
piace / messaggero non vedo, né
sigillo: / perciò non trovo posa né
allegrezza, / né ardisco farmi innanzi / finché non sappia di certo
se l’esito / sarà quale domando.
È posto in evidenza il contrasto
fra la rinascita primaverile, quando ogni creatura si predispone ad
amare, e l’incertezza dell’innamorato, al quale non giungono
segnali certi dalla donna amata.
Del nostro amore accade / come
del ramo di biancospino, / che sta
sulla pianta tremando / la notte
alla pioggia ed al gelo, / fino al
domani, che il sole s’effonde / per
il verde fogliame sulle fronde.
La fragilità e la mutevolezza
dell’esperienza amorosa sono
espresse ancora una volta attraverso un’immagine tratta dal
mondo naturale.
È opportuno ampliare le
informazioni su Guglielmo IX duca d’Aquitania,
indicato dalla tradizione
come il fondatore della
lirica d’amore in lingua
d’oc, fiorita nella Francia
meridionale per opera
dei trovatori (dal verbo
trobar = comporre versi)
e diffusa in tutta Europa
dai giullari. La lirica provenzale viene definendosi in alcuni nuclei tematici proprio attraverso il
canzoniere di Guglielmo,
che elabora il motivo del
servizio d’amore inteso
come totale sottomissione dell’uomo alla donna (spesso indicata con
l’espressione midons, il
mio signore) e del vincolo
del vassallaggio feudale
come metafora del rapporto d’amore.
Occorre, inoltre, descrivere l’ambiente sociale
dei trovatori, le corti dei
grandi castelli fortificati
dei vassalli del re di Francia nei quali l’aristocrazia
feudale elabora nuovi
ideali e codici di comportamento.
Ancora mi rimembra d’un mattino / che facemmo la pace tra
noi due, / e che mi diede un dono
così grande: / il suo amore e il
suo anello. / Dio mi conceda ancor tanto di vita / che sotto il suo
mantello possa metter le mani!
Io non ho cura degli altrui discorsi
/ che dal mio Buon-Vicino mi distacchino: / delle chiacchiere so
come succede / per picciol motto
che si profferisce: / altri van dandosi vanto d’amore; / noi disponiamo di carne e coltello.
Fa da sfondo alla vicenda amorosa una splendida natura.
I vv. 22 e 24 alludono alla cerimonia dell’investitura, nella quale il
signore donava l’anello al vassallo e lo copriva con il proprio
mantello in segno di protezione;
così è anche al v. 30, se si accoglie l’interpretazione del coltello
come allusione al feudo concesso in uso al vassallo (l’espressione potrebbe anche alludere al
rapporto sessuale). Il vincolo del
vassallaggio diventa metafora
del rapporto d’amore dei valori
di fedeltà, lealtà, protezione e
dedizione assolute.
Idea centrale
L’esperienza amorosa
è celebrata in termini
astratti e ideali, con il
ricorso a numerosi elementi stereotipati: dal
topos del locus amoenus al servizio d’amore,
inteso come rispetto di
precise regole desunte dal mondo feudale,
al bon celar, l’esigenza di celare il nome
dell’amata.
Messaggio dell’autore
La
concezione
dell’amore
cortese
come sublime e suprema avventura cavalleresca dell’animo, rigidamente codificata in
un complesso e imprescindibile galateo.
La donna amata è indicata attraverso un senhal, un soprannome per sottrarne il nome ai
maldicenti (lauzengiers).
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Laboratorio per l’esame
1
•T5 Jaufré Rudel, Amore di terra lontana
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Quando il rivolo della sorgente /
illimpidisce, così come suole, / e
sboccia la rosa di macchia / e l’usignoletto fra i rami / modula, gorgheggia e fila / il suo dolce canto, e
l’affina, / ben è ragione ch’io pure il
mio gorgheggi.
La canzone costituisce la forma metrica privilegiata della
materia amorosa.
Canzone in lingua d’oc
(periodo storico inizio
XII secolo).
È posta in evidenza la corrispondenza fra la rinascita primaverile della natura e lo stato
d’animo del poeta, che si predispone a cantare.
Idea centrale
L’amore è una forza
irresistibile che affina
l’animo del poeta innamorato, è tensione
verso un’irraggiungibile
perfezione spirituale e
morale, che sola rende degni della grazia
dell’amata, spesso lontana o inaccessibile.
Occorre ampliare le informazioni su Jaufré
Rudel, principe di Blaye
(1125-1148), poeta e trovatore francese la cui
produzione è dominata
da un paradosso amoroso, l’innamoramento per
una donna materialmente lontana o irraggiungibile (l’amor de lonh)
perché sposata, che genera nell’amante un irrefrenabile impulso verso
l’affinamento spirituale
e intellettuale.
È, inoltre, opportuno evidenziare il ruolo attribuito dai trovatori provenzali di elevata estrazione
sociale ai giullari, divulgatori della poesia cortese ed elemento di unione
con la cultura popolare.
Amor di terra lontana, / per voi tutto il cuore mi duole. / E non posso
trovarci medicina / se non corro alla
sua esca.
Seguendo il fascino d’un dolce
amore / entro un verziere o sotto
cortinaggi / con desiata compagnia.
Poiché occasione ognora me ne
manca / non meraviglio se n’ardo,
/ ché mai più bella cristiana / non
fu, né Iddio permette che sia, / né
giudea, né saracena: / ben si pasce
di manna colui / che del suo amore
conquista alcun poco.
Di sospirare il mio cuore non cessa /
a quella creatura che più di tutte io
amo, / e credo che m’inganna il desìo / se la concupiscenza me la toglie, / ché più di spina è pungente /
il duolo che con gioia risana, / onde
non voglio che mi si compianga.
Senza rotolo di pergamena / invio
la composizione, che cantiamo /
in semplice lingua volgare, / a don
Ugo Bruno, per mezzo di Figlioccio:
/ mi piace che la gente pittavina /
di Berry e di Guyenne / e di Bretagna se ne allieti.
Laboratorio per l’esame
2
Il locus amoenus fa da sfondo
al lamento del poeta, il quale
celebra la dolorosa separazione
dalla donna amata, che la tradizione identifica in Melisenda,
principessa di Tripoli, in Terra
Santa.
Il poeta esalta la perfezione
della bellezza dell’amata, che
accresce la virtù dell’innamorato: il cibo divino della manna
allude proprio al processo di
perfezionamento cui è sottoposto l’amante.
Messaggio dell’autore
La concezione dell’amore cortese come suprema esperienza di perfezionamento spirituale
e morale, anche se non
ricambiato.
L’amore è esperienza gratificante anche se non ricambiato;
l’innamoramento si manifesta
nell’alternarsi di gioia e dolore.
Il giullare Figlioccio diffonderà
la canzone, destinata non solo
al nobile Ugo VII di Lusignano,
ma anche al popolo, perché ne
tragga piacere.
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•Focus, p. 176 Dario Fo, La nascita del giullare
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Oh, gente, venite qui che c’è il giullare! Giullare son io, che salta e piroetta
e che vi fa ridere, che prende in giro
i potenti e vi fa vedere come sono
tronfi e gonfi i palloni che vanno in
giro a far guerre dove noi siamo gli
scannati, e ve li faccio sfigurare, gli
tolgo il tappo e… pffs… si sgonfiano.
Venite qui che è l’ora e il luogo che io
faccia da pagliaccio, che vi insegni.
Faccio il saltino, faccio la cantatina,
faccio i giochetti! Guarda la lingua
come gira! Sembra un coltello, cerca
di ricordartelo. Ma io non sono stato
sempre… è questo che vi voglio raccontare, come sono nato. […]
– Disgraziato! Giusto che hai tenuto
la terra, giusto che non vuoi padroni,
giusto che hai avuto la forza di non
mollare, giusto… Ti voglio bene, sei
forte, buono! Ma ti manca qualche
cosa che è giusto che tu devi avere:
qua e qua (fa segno alla fronte e alla
bocca). Non rimanere qui attaccato
a questa terra, vai in giro e a quelli
che ti tirano le pietre digli, digli, fagli
comprendere, e fai in modo che questa vescica gonfia che è il padrone tu
la buchi con la lingua, e fai uscire il
siero e l’acqua a sbrodolare marcio.
Tu devi schiacciare questi padroni
e i preti e tutti quelli che gli stanno
intorno: i notai, gli avvocati, eccetera. Non per il bene tuo, per la tua
terra, ma per quelli come te che non
hanno terra, che non hanno niente e
che devono soffrire solamente e che
non hanno dignità da vantare. Campare di cervello e non di piedi!
– Ma non capisci? Io non sono capace, io ho una lingua che non si
muove […].
– Gesù Cristo sono io, che vengo a
te a darti la parola. E questa lingua
bucherà e andrà a schiacciare come
una lama vesciche dappertutto e a
dar contro ai padroni, e schiacciarli, perché gli altri capiscano, perché
gli altri apprendano, perché gli altri
possano ridere (riderci sopra, sfotterli). Che non è che col ridere che
il padrone si fa sbracare, che se si
ride contro i padroni, il padrone da
montagna che è diviene collina, e
poi più niente […].
Si ispira alla sacra rappresentazione medioevale allo scopo
di reinterpretare le Sacre Scritture in modo grottesco.
Opera drammaturgica
in dialetto lombardoveneto (periodo storico
1969, 1976).
Il giullare intende attirare il
pubblico con salti e piroette
per poi istruirlo, educarlo a
ribellarsi ai potenti. Per questo egli racconta la propria vicenda: contadino rovinato dal
signorotto locale, giunto sul
punto di togliersi la vita, è miracolato da Gesù Cristo, che gli
fa dono della parola.
Idea centrale
È compito del giullare
denunciare le ingiustizie della società medioevale, rigidamente
gerarchizzata, e dissacrare il potere.
È importante precisare che l’operazione
compiuta da Fo non va
interpretata in senso
strettamente
storico:
egli, infatti, attribuisce
ai giullari una coscienza
politica consapevolmente oppositiva al potere
che forse nel Medioevo
essi non ebbero mai.
Gesù invita il contadino, divenuto giullare grazie al dono
della parola, a rivelare agli ultimi fra gli uomini l’arroganza
dei potenti. Egli dovrà opporsi a
nobili ed ecclesiastici, scuotere
i contadini, chiusi nell’immobilismo sociale e intellettuale, ed
educarli ad assumere un atteggiamento fortemente critico
nei confronti dei potenti.
Messaggio dell’autore
L’estensione dalle istituzioni medioevali a
tutti i tempi, compresi
quelli attuali, della denuncia dell’arroganza
del potere.
Attraverso il potere dissacrante e corrosivo del riso, il padrone perderà la propria forza e la
capacità di incutere timore.
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Laboratorio per l’esame
3
•D1 Anonimo, Godiamo dunque
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Godiamo dunque, / finché siamo
giovani. / Dopo la gioconda gioventù, / dopo la fastidiosa vecchiaia, /
ci sarà la terra. / Dove sono, quelli
che prima di noi / furono nel mondo? / salite ai cieli, / scendete agli
inferi, / dove loro sono già. / La nostra vita è breve, / in breve sarà finita, / la morte viene velocemente,
/ ci rapisce atrocemente, / nessuno
è risparmiato. / Viva l’accademia!
/ Vivano i professori! / Viva qualunque membro! / Vivano tutte le
membra! / Sempre in fiore! / Vivano tutte le vergini, / facili e belle! /
Vivano anche le altre donne, / tenere, amabili, / buone, operose! / Viva
anche il comune, / e chi lo regge! /
Viva la nostra città, / la carità dei
mecenati, / che qui ci protegge. /
Muoia la tristezza! / Muoiano i nemici! / Muoia il diavolo, / chiunque
ci avversi / e ci derida!
Genere popolare diffuso tra gli
studenti universitari.
Canto goliardico (periodo storico XII-XIII
secolo).
È opportuno ampliare
le informazioni sui Carmina Burana, raccolta
anonima di canti goliardici in latino, tedesco,
francese che deriva il
proprio nome dal monastero benedettino di
Benediktbeuern, presso
Monaco di Baviera, nella cui biblioteca vennero
rinvenuti nel 1803. Il manoscritto originale comprende trecento canti
attribuiti ai cosiddetti
chierici vaganti, studenti
universitari che completavano la propria preparazione spostandosi
attraverso l’Europa.
Laboratorio per l’esame
4
Attraverso il recupero del motivo di tradizione classica del
tempo che fugge, l’anonimo
poeta invita a godere i piaceri
della carne e dell’amore propri
della gioventù, esaltando uno
stile di vita libertino.
Sono evidenti i riferimenti al
mondo universitario e alla realtà comunale.
I goliardi sono intellettuali in
precarie condizioni economiche e di umile estrazione sociale, e spesso sopravvivono
ponendosi al servizio di qualche ricco mecenate.
Idea centrale
L’anonimo
configura
un mondo opposto a
quello tradizionale e
ai valori sociali vigenti:
all’ascetismo medioevale, egli contrappone la celebrazione di
un’esistenza dedita ai
piaceri della carne e ai
beni terreni.
Messaggio dell’autore
La condanna dell’ipocrisia della morale tradizionale e l’esaltazione di uno stile di vita
libertino.
Motivo di turbamento e diffidenza per i ceti conservatori,
sono dai benpensanti relegati
ai margini della società.
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articolo di giornale
Stesura
Struttura
La cultura europea dopo il Mille: trovatori, giullari, goliardi
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo, di cui si
indica anche la destinazione editoriale.
“Il Resto del Carlino”, Bologna
“All’inizio furono i trovatori. Nobili, eleganti, profondamente immersi nella cultura cortese di
cui furono i principali cantori. Poi vennero i giullari. Mendicanti dello spettacolo, artisti poliedrici che si guadagnavano da vivere esibendosi davanti a un pubblico. Della cultura cortese furono
i maggiori divulgatori. E fu il tempo dei goliardi. Spiriti liberi tesi alla ricerca dei piaceri, feroci
contestatori dell’ordine sociale costituito e di quella cultura cortese di cui furono i massimi
dissacratori”.
Introduzione
Le prime righe, di forte impatto, sono volte a catturare l’attenzione del lettore.
Così ha esordito ieri nell’Aula Magna di Santa Lucia, a Bologna, in occasione dell’apertura del
nuovo anno accademico, il Magnifico Rettore professor Ivano Dionigi, che di fronte a un auditorio di non specialisti ha voluto rievocare tre figure emblematiche dei secoli immediatamente
successivi all’anno Mille, evidenziandone la relazione con il nascente mondo universitario.
Le coordinate dell’informazione
Who: Ivano Dionigi.
What: il discorso tenuto in
occasione dell’apertura del
nuovo anno accademico.
Where: a Bologna, nell’Aula
Magna di Santa Lucia.
When: ieri, 18 dicembre
2010.
Why: per rievocare le figure
dei trovatori, dei giullari e
dei goliardi e la loro relazione con il nascente mondo
universitario medioevale.
Ma quale di queste figure comparve per prima? Difficile stabilire una scansione cronologica
netta: i tre ruoli finirono spesso col confondersi e sovrapporsi.
Provenza, Sud della Francia, fine XI secolo: nei grandi castelli fortificati dei più potenti vassalli
del re di Francia, il mondo aristocratico e feudale delle corti elabora nuovi rituali, codici di comportamento e regole morali, destinati a divenire ben presto modelli per la coeva società europea. Sui valori guerreschi del coraggio in battaglia e del desiderio di onore, retaggio dell’origine
militare dell’ordine cavalleresco, si innestano qualità propriamente morali, quali gentilezza,
liberalità, lealtà, rispetto e protezione verso la donna, che determinano una particolare raffinatezza dei costumi. L’esperienza amorosa viene idealizzata e codificata nelle medesime forme rituali che imprigionano ogni aspetto della vita sociale delle corti, dai tornei alle cerimonie
di investitura.
Guglielmo IX duca di Aquitania, potente feudatario della regione francese del Poitou, valoroso
guerriero e spregiudicato libertino vissuto tra XI e XII secolo: a lui la tradizione attribuisce il
merito di avere per primo celebrato in versi la fin’amor, l’amore cortese, cantato in termini non
più fisici e concreti, ma astratti e idealizzati, codificato in raffinate norme che ricorreranno
pressoché invariate nei trovatori successivi.
Corpo principale dell’articolo
Si spiega il “come” (how),
soffermandosi sulla difficoltà di separare le tre figure, le quali finiscono per
confondersi e sovrapporsi.
Si insiste, in particolare, sul
rapporto di ciascuna con la
società e la cultura cortese
dominanti.
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Laboratorio per l’esame
5
Nei secoli a venire, altri poeti provenzali celebreranno nei loro versi e nelle melodie destinate
ad accompagnarli l’amore inteso come tensione verso un’irraggiungibile perfezione spirituale
e morale, che sola rende degni della grazia dell’amata, spesso lontana o inaccessibile. A loro è
dato il nome di trovatori. Essi provengono da contesti molto diversi: i più antichi sono di elevata estrazione sociale, nobili, cavalieri, perfino principi, come Jaufré Rudel; i più tardi appartengono alle classi inferiori, da quella borghese dei mercanti ad altre dedite ad attività manuali;
alcuni di essi possiedono un’educazione clericale. Molti soggiornano a lungo in un luogo, sotto
la protezione e il mecenatismo di un ricco signore o di una nobildonna; altri viaggiano in modo
esteso, passando da una corte aristocratica all’altra.
Furono, dunque, i trovatori a fare per primi la loro comparsa?
Difficile dare una risposta. Le figure del trovatore e del giullare spesso si confondono e si sovrappongono. Benché fin dal XII secolo si affermi una netta distinzione tra trovatore, creatore
originale di parole e musica, e giullare, semplice esecutore delle canzoni dei trovatori, non pochi
poeti provenzali, come Marcabru, Peire Vidal, Raimbaut de Vaqueiras, hanno origine giullaresca
e continuano a essere noti come giullari anche dopo avere iniziato a comporre poesia originale.
La prima figura
Il trovatore, originale cantore della cultura cortese.
Mendicante dello spettacolo, il giullare è un uomo di media cultura, spesso chierico, che si
guadagna da vivere esibendosi davanti a un pubblico, vagando per le corti o per le piazze,
diffondendo notizie, idee, forme di spettacolo e di intrattenimento: egli costituisce il maggior
elemento di unione tra la letteratura colta dei trovatori e quella popolare.
L’indefinitezza del ruolo del giullare percorre tutto il Medioevo, insieme alla sua cattiva fama,
come testimonia la proliferazione terminologica che accompagna la sua presenza e le sue
attività pubbliche: nei secoli bui lo si vede affiancato a indovini e incantatori, in una sorta di
lista di proscrizione sociale che lo qualifica come pericoloso per la morale cristiana, creatore
di spettacoli che sovvertono spesso le leggi religiose. Al pari di ebrei e prostitute, condannati
nelle città medievali a essere ben visibili tra la folla, egli indossa abiti colorati e preannuncia
la propria presenza facendo ricorso a campanacci e strumenti a fiato che lo rendono ben individuabile anche da lontano. Un simile atteggiamento impedisce, di fatto, l’integrazione dei
giullari e li relega ai margini del contesto sociale.
La seconda figura
Il giullare, elemento di
unione tra letteratura colta
e tradizione popolare.
Analoga la sorte riservata dalla società coeva ai goliardi, la cui origine storica può essere rintracciata intorno al XII secolo, periodo in cui si assiste a una ripresa economica che favorisce
un’ampia mobilità sociale. Cosa li distingue dai trovatori e dai giullari?
Innanzitutto, il legame con il mondo universitario. Intellettuali ai quali le precarie condizioni
economiche e l’umile estrazione sociale non consentono di intraprendere la carriera di maestro nelle università medievali, studenti poveri non in grado di frequentare con regolarità le
lezioni universitarie, i goliardi vivono spesso di espedienti, al limite della legalità, ponendosi al
servizio di qualche ricco mecenate, intraprendendo talvolta il mestiere del giocoliere e confondendosi con i giullari. Con i giullari condividono, del resto, la condizione di emarginati: naturalmente anarchici, si oppongono con ferocia a tutti coloro che si riconoscono nelle caste sociali
medioevali, non solo nobili ed ecclesiastici, ma anche contadini, chiusi nel loro immobilismo
sociale e intellettuale. Motivo di turbamento e diffidenza per i ceti conservatori, sono spiriti
liberi alla ricerca dei piaceri propri della gioventù; come i trovatori, creano opere poetiche originali e melodie attraverso le quali esaltano uno stile di vita libertino e muovono pesanti critiche
all’ipocrisia della morale tradizionale, alla corruzione dei costumi della Chiesa, alla vigente gerarchia sociale. I loro versi configurano un mondo opposto a quello tradizionale, ai valori sociali
dominanti: all’esaltazione della vita contemplativa e della rinuncia ai beni terreni per quelli
celesti essi contrappongono la celebrazione di un’esistenza dedita ai piaceri; antagonisti del
nobile cavaliere dedito alla professione della guerra, alla gloria in battaglia preferiscono la gloria della conquista e della seduzione. E proprio la feroce critica ai valori e alle istituzioni dominanti, la scelta di una vita libera e libertina, l’incapacità di trovare una collocazione all’interno
delle università condannano i goliardi a un ruolo marginale nella cultura dei secoli successivi,
benché alcuni dei loro ideali riaffiorino in epoca umanistico-rinascimentale.
La terza figura
Il goliardo, anarchico contestatore della società feudale.
Laboratorio per l’esame
6
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I goliardi sono ancora presenti nelle nostre università: occorre, tuttavia, chiedersi se lo spirito
sia il medesimo dei loro antenati o se la goliardia non sia oggi ridotta a semplice elemento di
colore e di costume, privo ormai di quella corrosiva e dissacrante capacità critica nei confronti
delle istituzioni e dell’autorità costituita che ne connotò la nascita.
Tale spirito sembra, piuttosto, essersi conservato nella maschera del giullare resa celebre dal
Mistero buffo di Dario Fo, che in essa si è identificato. Egli attribuisce ai giullari una coscienza
politica consapevolmente oppositiva al potere che forse nel Medioevo essi non ebbero mai e
che fu, invece, propria dei goliardi”.
“Trovatori, giullari e goliardi furono certamente espressione di una società in evoluzione, della
quale rappresentarono ora i vertici, ora i reietti, ora i dissacratori” ha concluso il professor
Dionigi, cogliendo l’occasione per rivolgere un augurio di buon lavoro a docenti e studenti tutti.
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Conclusione
Si attualizza il tema con
alcune considerazioni sulla
realtà universitaria di oggi.
Laboratorio per l’esame
7
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 236-237
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «La questione della lingua» utilizzando il dossier che si trova alle pagine
236-237.
• Dante Alighieri, Il volgare ideale (• T36)
• Giuliano Procacci, La funzione sociale del volgare nell’Italia dell’età comunale (• D1)
• Ignazio Buttitta, Lingua dei padri (• D2)
Schedatura dei documenti
•T36 Dante Alighieri, Il volgare ideale
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Mettiamo dunque ben in chiaro prima di tutto che cosa intendiamo coll’attributo di illustre, e
perché diciamo illustre. Con questa parola illustre intendo appunto qualche cosa che illumini e che,
illuminata, molto rifulga […]. Ed il
volgare di cui parlo è sublimato da
magistero e da potere, e sublima
i suoi con onore e gloria […]. Né
senza ragione onoro questo volgare illustre col secondo attributo, sì da chiamarlo cioè cardinale.
Come infatti la porta tutta segue
il cardine […] così anche la greggia tutta dei volgari municipali si
volge e rivolge, si muove e sta,
alla maniera di questo, che appare appunto essere il vero capofamiglia […]. Che se poi lo chiamo
aulico questa è la ragione, che se
noi Italiani avessimo la Reggia,
esso apparterrebbe al Palazzo
[…]; né alcun’altra dimora è degna
di cotanto abitatore […]; l’illustre
nostro va peregrinando come forestiero e trova ospitalità in umili
asili, poiché manchiamo di reggia.
Deve anche essere meritatamente chiamato curiale […] essendo
stato ponderato nella più eccelsa
curia degli italiani […].
Il volgare ideale tratteggiato da
Dante garantisce onore e gloria
agli artisti che lo utilizzano (illustre); è cardine e modello a tutti
i dialetti municipali (cardinale); è
consono alle più alte ambizioni
poetiche e retoriche, ma anche
politiche, in quanto adatto alla
corte e alla curia, al momento
materialmente disperse (aulico
e curiale).
Trattato di retorica
(periodo storico 13031305).
È opportuno ampliare le
informazioni sulla situazione politica dell’Italia
del Trecento e sul pensiero politico di Dante.
Dante allude alla curia ideale
costituita dagli intellettuali che,
benché dispersi in singole realtà
municipali, sono tuttavia uniti
dalla luce della ragione e concorrono all’unificazione linguistica.
Idea centrale
L’autore intende individuare la forma più nobile dei dialetti italiani,
un idioma volgare che
possa conseguire un’alta dignità letteraria,
elevandosi al di sopra
delle varie parlate regionali e sottraendosi
all’egemonia del latino.
Messaggio dell’autore
L’invito agli intellettuali, destinatari privilegiati dell’opera, a
mediare tra ceti sociali
profondamente diversi
attraverso la creazione
di una lingua volgare
nobilitata, adatta a intellettuali e plebe.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Si deve fare riferimento
all’evoluzione dei volgari,
che hanno origine in Europa nei primi secoli del
Medioevo dal disgregarsi
del latino parlato in una
moltitudine di lingue locali diverse, non affidate
alla scrittura. A partire
dal IX secolo, alcuni volgari diventano lingua
letteraria, grazie al sorgere di una cultura non
più limitatamente ecclesiastica, ma laica, diffusa e popolare. In Italia,
l’assenza di un centro
politico unitario e il persistere di una tradizione
letteraria classico-latina
fortemente consolidata
ritarda al XIII secolo la
nascita di una letteratura in volgare.
Laboratorio per l’esame
1
•D1 Giuliano Procacci, La funzione sociale del volgare nell’Italia dell’età comunale
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
L’intellettuale italiano dell’età comunale presenta una doppia natura e una doppia funzione. Da un
lato egli è un esponente “organico”
della civiltà comunale e cittadina,
dall’altro esso è un membro di una
casta che, al di sopra dei municipalismi, si viene gradatamente costituendo come una nuova aristocrazia […] che, al di là delle frontiere,
unisce i dotti e gli spiriti eletti […]. Il
problema che gli si poneva innanzi
tutto era perciò quello di mettere in
comunicazione questi due circuiti
dando vita ad una produzione letteraria che fosse accessibile sia al
pubblico tradizionale dei dotti sia a
quel più largo e differenziato pubblico che l’evoluzione e lo sviluppo
della società comunale aveva creato […]. A costoro non ci si poteva
rivolgere che in volgare, nella lingua
cioè di tutti i giorni. Ma i volgari
italiani erano molti […]. Una letteratura in volgare rischiava perciò
di rimanere confinata nell’ambito
della produzione minore lasciando
al latino il privilegio di continuare
a fungere da lingua letteraria delle
classi colte […]. Occorreva trovare
[…] un anello di congiunzione […],
un volgare nobilitato e illustre […].
Naturalmente questo processo di
formazione di una lingua letteraria
italiana non poteva essere che lungo e graduale.
In età comunale gli intellettuali spesso partecipano attivamente alla gestione politica
delle realtà municipali.
Saggio storico (periodo
storico 1971).
È opportuno ampliare
le informazioni circa la
rinascita economica del
Trecento e le importanti
conseguenze sociali che
la caratterizzano.
Laboratorio per l’esame
2
A partire dalla fine del Duecento, e più ampiamente nel corso
del Trecento, si viene delineando quella repubblica delle
lettere, come la definisce Petrarca, che trascende municipalismi e regionalismi per unire spiritualmente e idealmente
intellettuali e letterati italiani.
I mutamenti sociali ed economici che caratterizzano l’Italia
del XIV secolo rendono necessario adeguare la lingua della
produzione letteraria alle competenze linguistiche del nuovo
pubblico di estrazione medio e
basso-borghese.
Idea centrale
L’importanza del ruolo
svolto in età comunale dagli intellettuali,
chiamati a mediare tra
le classi colte che si
esprimono in latino e
le ristrette competenze
linguistiche del nascente pubblico borghese.
Messaggio dell’autore
La dimostrazione che
le origini del lungo e
graduale processo di
formazione della lingua
letteraria italiana risalgono all’età comunale.
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•D2 Ignazio Buttitta, Lingua dei padri
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…]
Un populu, diventa poviru e servu /
quannu ci arrubbano a lingua / addutata di patri: è persu pis simpri.
Attraverso i soprusi compiuti
ai danni di un generico popolo
(mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca!), il
poeta giunge alla conclusione
che solo la perdita della lingua
dei padri riduce in povertà una
comunità di individui e la priva
della libertà (diventa poviru e
sirvu).
Componimento in versi
in dialetto siciliano (periodo storico 20 luglio
2007).
Occorre richiamare il concetto di nazione, intesa
come insieme di usi, costumi e tradizioni, lingua
e cultura, storia e passato condivisi da un gruppo
di individui che in essi si
riconosce e trova la propria unità.
Idea centrale
L’unica vera ricchezza
di un popolo è la tradizione linguistica, che lo
rende unico e unito.
Messaggio dell’autore
L’importanza della lingua, l’unica vera ricchezza di un popolo,
espressione più autentica del suo spirito e
della sua storia.
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Laboratorio per l’esame
3
Saggio breve
Stesura
Struttura
Da Dante a Facebook: settecento anni di questione della lingua
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del
contenuto del saggio.
La questione della lingua è un tema fondamentale della cultura italiana, che attraversa gli
oltre mille anni di storia in cui l’Italia resta politicamente divisa e frammentata. Essa rappresenta il caparbio tentativo da parte degli intellettuali di conferire unità linguistica a un’infinita
miriade di entità politiche autonome e indipendenti, città, regioni, staterelli la cui esistenza si
compie in modo più o meno effimero entro i confini geografici dell’Italia.
Introduzione
Si afferma che il dibattito sulla lingua nazionale è
stato ed è tuttora un tema
fondamentale della cultura
del nostro paese.
Inaugurata dal padre della lingua italiana con il De vulgari eloquentia, trattato di retorica scritto intorno al 1304, la “questione” si alimenta attraverso i secoli dei contributi di grandi intellettuali e letterati fino a protrarsi, nell’Ottocento, oltre il compimento del processo di unificazione nazionale. In un componimento apparso qualche anno fa sul “Resto del Carlino” il poeta
siciliano Ignazio Buttitta sostiene che la lingua è la ricchezza di un popolo, il quale può dirsi
veramente povero solo quando gli viene sottratta la lingua dei padri. Il caparbio perseverare di
intellettuali e letterati nell’intento di costruire e attribuire all’Italia una lingua unica e unitaria
ha certamente contribuito alla nascita della “nazione Italia”, intesa come patrimonio comune
di storia, cultura, tradizione, prima ancora del sorgere dello “stato Italia”. L’opportunità di riconoscersi in una tradizione letteraria e culturale che parlasse italiano ha concorso al Risorgimento nazionale tanto quanto i tre conflitti che l’hanno concretamente realizzato.
Tesi
Si esprime l’opinione secondo cui uno dei tratti
costitutivi della questione
della lingua è rappresentato dalle sue importanti implicazioni politico-sociali.
Nell’inaugurare, all’inizio del 1300, la plurisecolare questione della lingua, Dante sceglie, all’apparenza paradossalmente, di esprimersi in latino, che in età medioevale si configura come
antagonista linguistico del volgare: il monopolio ecclesiastico sulla cultura la allontana di fatto
dal popolo e la costringe a esprimersi in una lingua “straniera”, il latino appunto, non più compresa dai parlanti, cristallizzata nella grammatica e conservata per ovviare all’assenza di un
volgare unitario e alle difficoltà di comprensione tra le lingue naturali. Nella situazione di inconsapevole bilinguismo che si delinea in Italia fin dall’Alto Medioevo, si utilizza il latino come
lingua sovranazionale della cultura, strumento della comunicazione scritta, ufficiale (dello
Stato) e sacra (della Chiesa), mentre ci si serve del volgare come mezzo della conversazione
orale, quotidiana e familiare; si crea dunque un profondo distacco fra le élites dotte e le masse
degli analfabeti. È proprio agli intellettuali e agli specialisti che Dante, scegliendo di esprimersi
in latino, intende rivolgersi, affinché con la loro opera essi ovvino all’assenza di una monarchia
nazionale e di una corte, condizione che ha ostacolato in Italia la formazione di una lingua
comune, e ha condannato la letteratura italiana a una cronica situazione di arretratezza. A
partire dal IX secolo, e via via sempre più intensamente, in Europa i volgari diventano nuova
lingua letteraria, che si affianca all’antica grazie a una cultura non più soltanto ecclesiastica,
ma laica, diffusa e popolare: dopo il Mille, in ogni nazione europea uno o due fra i dialetti locali
si impongono sugli altri grazie al prestigio politico e culturale di una corte o a grandi scrittori
che diventano modello di stile e lingua. In Italia, all’assenza di un centro politico unitario si
accompagna il persistere di una tradizione letteraria classico-latina fortemente consolidata,
sostenuta dal ceto ecclesiastico e dagli intellettuali laici che frequentano le corti signorili e
sono ben lontani dalle esigenze popolari. Per questo, solo a partire dal XIII secolo si assiste alla
nascita di una letteratura in volgare.
1° Argomento a favore della tesi
Si sottolinea il legame fra
la frammentazione politica
dell’Italia e il ritardo con cui
nel nostro paese si è sviluppata una lingua letteraria
diversa dal latino.
Laboratorio per l’esame
4
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In questo processo è determinante l’operato di alcuni uomini di cultura che per tutto il Medioevo tentano di ovviare all’inaccessibilità della produzione in latino con la creazione di un
volgare “nobilitato”, più alto e raffinato, tradotto in segni grafici e adattato alla comunicazione
scritta: predicatori, sacerdoti, notai, giullari, veri e propri mediatori culturali fra le élites dotte e
le masse degli analfabeti, concorrono alla creazione di un volgare elevato alla dignità espressiva del latino, una sorta di “anello di congiunzione” (come lo definisce Giuliano Procacci nel
saggio Storia degli Italiani) tra lingua colta e parlate popolari, adatto sia agli intellettuali che
alle plebi. Dapprima molteplici volgari si contendono il ruolo di nuova lingua letteraria nazionale: dal cosiddetto linguaggio franco-veneto, soggetto agli influssi francesi e provenzali, che
si afferma all’inizio del Duecento; al siciliano dei poeti della corte di Federico II, i quali usano
come strumento linguistico di partenza il volgare dell’isola, perfezionato nel lessico e nella
sintassi, modellato sull’esempio del latino degli intellettuali e arricchito di termini provenzali. L’innovazione linguistica della scuola siciliana prosegue quindi nell’Italia centrale, dove si
compiono le esperienze di Francesco d’Assisi, Jacopone da Todi, Guittone d’Arezzo, gli Stilnovisti. Nel Trecento, la ripresa economica e la conseguente mobilità sociale che accompagnano
la nascita della civiltà comunale rendono necessario individuare un volgare che possa essere
comunemente inteso; gradualmente, è il fiorentino a imporsi come nuova lingua letteraria.
Ed è nell’opera di Dante e soprattutto di Petrarca che l’Italia trova il proprio modello di lingua
poetica, mentre Boccaccio dà l’avvio alla prosa d’arte in volgare. Nei primi decenni del Cinquecento il fiorentino trecentesco di Petrarca e Boccaccio, arcaico e aristocratico, diventa la lingua
letteraria unitaria e costituisce il principale strumento della letteratura nei secoli seguenti
nonché la base della lingua nazionale, a scapito delle realtà linguistiche regionali.
2° Argomento a favore della tesi
Attraverso alcuni esempi
letterari, si pone in evidenza la consapevolezza del
ceto intellettuale del distacco fra parlanti e cultura
e i conseguenti tentativi di
ovviare a tale situazione,
data anche l’evoluzione
della società medioevale.
Fin dai primissimi anni del Trecento, dunque, Dante fa propria l’esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali avvertono, anche prima di lui, in varie parti d’Italia. Se,
infatti, come politico egli aspira all’unificazione del paese sotto la guida dell’imperatore, l’unico
in grado di superare gli antagonismi fra staterelli e signorie e generare la pace sociale, come
letterato egli non ignora il problema dell’unificazione linguistica, che il latino da tempo non è più
in grado di garantire, se non al livello di ceti intellettuali molto ristretti. Dante, infatti, percepisce con forza il concetto di nazione italiana, le cui basi egli individua nella comune discendenza
da Roma, nell’unità dei costumi, della cultura e della lingua, interpretata come espressione più
autentica dello spirito e della storia di un popolo. Nel primo libro del De vulgari eloquentia egli si
propone, pertanto, di individuare la forma più nobile dei dialetti italiani, un idioma volgare che
possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e
sottraendosi all’egemonia del latino. Il volgare ideale tratteggiato da Dante sarà tale da garantire
onore e gloria agli artisti che lo utilizzano (illustre); in grado di fungere da cardine e da modello a
tutti i dialetti municipali (cardinale); consono alle più alte ambizioni poetiche e retoriche, ma anche politiche, in quanto adatto all’eventuale corte e alla curia, al momento materialmente disperse (aulico e curiale). Dante è conscio che questa lingua ideale non esiste in nessun luogo d’Italia;
tuttavia, egli la percepisce potenzialmente in ciascuna delle lingue naturali e la vede realizzata
nella lirica della Scuola Siciliana, nei più grandi fra gli Stilnovisti, nella propria stessa opera.
Occorre sottolineare che la scelta di esprimersi in latino, l’antagonista linguistico del volgare,
al fine di rivolgersi proprio agli intellettuali che utilizzano il latino come strumento della comunicazione scritta, lascia trasparire l’impostazione aristocratica della questione: ben lontano
dall’idea che il volgo debba essere protagonista della propria emancipazione linguistica e culturale, Dante sembra implicitamente sostenere che il volgare parlato da artigiani, contadini,
commercianti e operai potrà trovare una legittimazione letteraria solo se riconosciuto dagli intellettuali che si servono del latino proprio per tenersi lontano dal popolo. In passato, del resto,
la questione della lingua non coinvolgeva l’intera popolazione italiana, bensì gruppi ristretti di
individui, in grado di leggere e scrivere; ad essi veniva chiesto di confrontare la propria lingua
d’uso con lingue scritte riconosciute e diffuse ed eventualmente abbandonarla in funzione di
esse, relegandola al rango di linguaggio dialettale e di strumento della conversazione familiare e quotidiana.
3° Argomento a favore della tesi
Si fa riferimento al pensiero politico di Dante e al
suo progetto linguistico. Si
compiono alcune considerazioni sull’impostazione
della questione del volgare
espressa nel De vulgari eloquentia.
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Laboratorio per l’esame
5
Oggi la situazione è profondamente mutata, nuovi fattori intervengono a modificare radicalmente l’impostazione del problema: i parlanti, tutti alfabetizzati, sono portatori di un proprio
linguaggio, condiviso con un ampio numero di individui in grado di leggere e scrivere. Se in passato al centro della “questione” si poneva una lingua scritta dotata di tali qualità e prestigio
da imporsi poco a poco sulle lingue parlate, relegandole al rango di dialetti, attualmente tale
lingua deve fare i conti con altre lingue scritte, ampiamente diffuse attraverso quei complessi
strumenti di comunicazione oggi in uso, delle quali non possono essere messe in dubbio la
natura e la struttura linguistica, bensì le qualità sintattiche e semantiche. Pare essersi in un
certo senso riprodotta quella condizione di bilinguismo inconsapevole che si era verificata a
partire dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente: da un lato una lingua italiana che si è
formata e arricchita attraverso secoli di storia e di cultura, caratterizzata da grande ricchezza
lessicale, chiarezza e precisione nella codificazione grammaticale, impiegata come mezzo della comunicazione scritta; dall’altro una serie di linguaggi appresi e diffusi tramite telefonini,
blog, chat, YouTube, Facebook, che assolvono brillantemente alle funzioni della conversazione
orale e quotidiana, ma risultano estremamente poveri dal punto di vista sintattico e lessicale
e non sempre in grado, all’interno del rapporto dialettico tra linguaggio e pensiero, di veicolare
ragionamenti complessi, necessari a interpretare il mondo contemporaneo.
4° Argomento a favore della tesi
Attraverso un rapido riferimento alla società attuale
si sottolinea quanto l’alfabetizzazione e l’avvento di
nuovi strumenti di comunicazione abbiano modificato i termini della questione
della lingua.
Ciò che risulta mutata è, dunque, l’impostazione stessa della questione della lingua: non più
un modello linguistico imposto dall’alto come nei secoli precedenti, rigidamente codificato nei
suoi aspetti semantici e sintattici, ma una lingua sensibile alle esigenze manifestate dal “basso”, maggiormente duttile e flessibile, in grado di adattarsi ai nuovi bisogni comunicativi dei
parlanti di oggi. Ed è proprio di tali bisogni che la questione deve tenere conto, se non si vuole
rischiare, così come è accaduto in passato, di scavare un solco profondo fra cultura e popolo,
fra le élites dei dotti e le masse, questa volta alfabetizzate, dei parlanti.
Conclusione
Si ribadisce l’opinione per
cui la questione della lingua
è ancora attuale, seppur
mutata in conseguenza dei
cambiamenti sociali.
Laboratorio per l’esame
6
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laboratorio per l’esame
Volume 1, p. 261
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Dalle Rime alla Commedia: stile e maniera trattata» utilizzando il dossier
che si trova alla pagina 261.
• Dante Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (• T31)
• Dante Alighieri, Dante a Forese: Chi udisse tossir la malfatata (• T32)
• Dante Alighieri, Così nel mio parlar voglio esser aspro (• T33)
• Dante Alighieri, Epistola XIII – Lettera a Cangrande (• T38)
Schedatura dei documenti
•T31 Dante Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
/ fossimo presi per incantamento
/ e messi in un vasel, ch’ad ogni
vento / per mare andasse al voler
vostro e mio; / sì che fortunal od
altro tempo rio / non ci potesse
dare impedimento, / anzi, vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio. / E
monna Vanna e monna Lagia poi
/ con quella ch’è sul numer de le
trenta / con noi ponesse il buono incantatore: / e quivi ragionar
sempre d’amore, / e ciascuna di
lor fosse contenta, / sì come i’
credo che saremmo noi.
Plazer, genere poetico di origine provenzale che consiste in
un elenco di situazioni piacevoli
desiderate o augurate ai destinatari del componimento.
Sonetto (periodo storico 1283-1293).
Occorre ricordare che il
sonetto fa parte delle
Rime (1283-1307), raccolta postuma della produzione lirica di Dante non
inclusa dall’autore nella
Vita nuova e nel Convivio. Il plazer appartiene,
in particolare, alle liriche
stilnoviste (1283-1293),
componimenti di materia amorosa dedicati a
Beatrice e ad altre figure femminili; nello stile,
seguono la linea poetica
cortese e siculo-toscana
e si ispirano soprattutto all’opera di Guinizzelli
e Cavalcanti, i maggiori
rappresentanti dello Stilnovo.
Il sonetto richiama le atmosfere fantastiche del
romanzo
cavalleresco
francese.
È indirizzato ai poeti stilnovisti
Guido Cavalcanti e Lapo Gianni
de’ Ricevuti.
Il giovane Dante esprime il desiderio di compiere un’esperienza
di incantata evasione insieme
a pochi e ben selezionati amici,
con i quali condivide idee e aspirazioni; saranno presenti anche
le donne da essi amate: Giovanna per Guido, Lagia per Lapo, per
il giovane poeta la donna da lui
stesso collocata, in una perduta poesia di cui parla nella Vita
nuova, al trentesimo posto fra le
sessanta più belle di Firenze.
Il buon incantatore è il Mago
Merlino del ciclo arturiano, il
vasel la nave incantata che, manovrata per magia da Merlino,
conduce gli occupanti secondo i
loro desideri.
Idea centrale
Il componimento intreccia il motivo poetico del viaggio con le
favolose atmosfere dei
romanzi cavallereschi
ed esalta l’amicizia e il
sodalizio artistico che
legano il giovane Dante
ai destinatari del plazer, in piena corrispondenza con il concetto
aristocratico stilnovista
di amicizia esclusiva fra
animi nobili.
Messaggio dell’autore
L’invito a condividere
l’incantata evasione e
allo stesso tempo i sogni d’amore e le aspirazioni poetiche.
L’amore, primo ispiratore della
creazione poetica, sarà motivo
dominante.
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Laboratorio per l’esame
1
•T32 Dante Alighieri, Dante a Forese: Chi udisse tossir la malfatata
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Chi udisse tossir la mal fatata /
moglie di Bicci vocato Forese, / potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata /
ove si fa ’l cristallo in quel paese. /
Di mezzo agosto la truovi infreddata; / or sappi che de’ far d’ogni altro
mese! / E non le val perché dorma
calzata, / merzé del copertoio c’ha
cortonese. / La tosse, ’l freddo e
l’altra mala voglia / no l’addovien
per omor ch’abbia vecchi / ma per
difetto ch’ella sente al nido. / Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
/ dicendo: “Lassa, che per fichi secchi / messa l’avre’ ’n casa del conte
Guido!”.
Il primo dei tre sonetti danteschi che appartengono alla
tenzone con Forese Donati, in
cui i due poeti si scambiano
insulti e si rinfacciano difetti e
debolezze.
Sonetto (periodo storico 1290-1296).
Occorre ampliare le informazioni sulla tenzone, anch’essa compresa
nelle Rime, costituita da
tre coppie di sonetti che
Dante e Forese Donati,
fiorentino guelfo di parte
nera, si scambiano rinfacciandosi difetti e debolezze, giungendo talvolta a sfiorare l’ingiuria.
Laboratorio per l’esame
2
Il ricorso al soprannome (Bicci),
le espressioni popolari, le allusioni grossolane e i doppi sensi
di natura sessuale ne fanno un
chiaro esempio di stile comico.
Le accuse di incapacità ad assolvere i propri doveri coniugali
mosse da Dante a Forese (si
pensi alla rima ai vv. 2 e 8, che
lega il nome di Forese all’aggettivo cortonese, ossia corto)
si amplificano fino all’entrata
in scena della suocera, descritta, così come la figlia, con tratti
precisi e coloriti.
Idea centrale
L’esagerazione di difetti e debolezze dell’amico Forese, attraverso
la deformazione grottesca e caricaturale
e l’insistito ricorso a
doppi sensi e allusioni
grossolane a sfondo
sessuale.
Messaggio dell’autore
La creazione di un rapporto di complicità, ai
danni del vituperato
Forese.
È opportuno ricordare
che la tenzone è un genere letterario piuttosto
praticato in età medioevale, soprattutto fra XII
e XIII secolo: si tratta di
una disputa polemica e
calunniosa che si sviluppa attraverso lo scambio di sonetti, nei quali i
contendenti di norma si
rispondono “per le rime”,
riprendendo cioè lo schema metrico proposto
dall’avversario.
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•T33 Dante Alighieri, Così nel mio parlar voglio esser aspro
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Così nel mio parlar voglio esser
aspro / com’è ne li atti questa bella
petra, / la quale ognora impetra /
maggior durezza e più natura cruda,
/ e veste sua persona d’un diaspro /
tal, che per lui, o perch’ella s’arretra,
/ non esce di faretra / saetta che
già mai la colga ignuda: / ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda / né
si dilunghi da’ colpi mortali, / che,
com’avesser ali, / giuncono altrui e
spezzan ciascun’arme; / sì ch’io non
so da lei né posso atarme. / Non
trovo scudo ch’ella non mi spezzi /
né loco che dal suo viso m’asconda;
/ ché, come fior di fronda, / così de
la mia mente tien la cima: / cotanto del mio mal par che si prezzi, /
quanto legno di mar che non lieva
onda; / e ’l peso che m’affonda / è
tal che non potrebbe adequar rima.
/ Ahi angosciosa e dispietata lima
/ che sordamente la mia vita scemi, / perché non ti ritemi / sì di
rodermi il core a scorza a scorza, /
com’io di dire altrui chi ti dà forza?
/ Ché più mi triema il cor qualora io
penso / […] che ogni senso / co li
denti d’Amor già mi manduca; / ciò
è che ’l pensier bruca / la lor vertù sì
che n’allenta l’opra. / E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra / con
quella spada ond’elli ancise Dido, /
Amore, a cui io grido / merzé chiamando, e umilmente il priego; / ed
el d’ogni merzé par messo al niego.
/ […] S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio
e ferza, / pigliandole anzi terza, /
con esse passerei vespero e squille:
/ e non sarei pietoso né cortese, /
anzi farei com’orso quando scherza;
/ e se Amor me ne sferza, / io mi
vendicherei di più di mille. / Ancor
ne li occhi, ond’escon le faville / che
m’infiammano il cor, ch’io porto
anciso, / guarderei presso e fiso, /
per vendicar lo fuggir che mi face;
/ e poi le renderei con amor pace.
/ Canzon, vattene dritto a quella
donna / che m’ha ferito il core e che
m’invola / quello ond’io ho più gola,
/ e dàlle per lo cor d’una saetta; /
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.
La canzone costituisce la forma metrica privilegiata della
materia amorosa.
Canzone (periodo storico 1296-1298).
Occorre ricordare che la
canzone è l’ultima delle
quattro petrose (12961298) contenute nelle
Rime: due canzoni e due
sestine che esprimono
l’angoscia provocata dalla passione per una donna fredda e insensibile,
che consuma la vita del
poeta. Le caratterizza
uno stile difficile, aspro
nel linguaggio dominato da suoni consonantici
duri e incalzante nel ritmo, che si ispira al trobar
clus di alcuni trovatori
provenzali del secolo
precedente, primo fra
tutti Arnaut Daniel.
Il poeta esprime la volontà di
adeguare l’espressione formale alla durezza del contenuto,
l’amore violento e crudele per
una donna fredda e insensibile.
Ricorrono numerosi vocaboli
che rimandano al campo semantico della durezza e della
crudeltà.
Il desiderio di sottrarsi a un
amore impossibile è frustrato
dal potere che la donna esercita sul cuore del poeta.
Il pensiero amoroso corrode i
sensi e le facoltà del poeta e ne
consuma l’esistenza.
Idea centrale
La sofferenza, generata da una passione
amorosa non ricambiata e la rappresentazione della donna amata
come crudele e insensibile, e adeguando
l’espressione formale
all’angoscia da lei provocata.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore, reso
partecipe delle sofferenze del poeta, a
provare sentimenti di
condanna e riprovazione per il crudele atteggiamento della donna.
Il testo allude alla regola
dell’amore cortese di tacere
l’identità della persona amata
o di celarlo sotto un senhal,
qual è Petra.
Il poeta esprime con durezza e
crudeltà il proprio desiderio di
vendetta.
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Laboratorio per l’esame
3
•T38 Dante Alighieri, Epistola XIII – Lettera a Cangrande
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Il significato di un’opera non è
uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato
[…] si dice letterale, il secondo […]
allegorico o morale o anagogico.
Questi diversi modi di trattare un
argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i
versetti […]. Si dovrà esaminare il
soggetto della presente opera se
esso si prende alla lettera e poi se
s’interpreta allegoricamente […];
alla lettera lo stato delle anime
dopo la morte inteso in generale
[…] sul piano allegorico […] l’uomo
in quanto, per i meriti e i demeriti
acquisiti, con libero arbitrio ha conseguito premi e punizioni da parte
della giustizia divina […]. Il titolo
del libro è: “Incomincia la Comedia
di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi”. Per capire il
titolo […] è la comedìa un genere di
narrazione poetica diverso […] dalla
tragedìa per la materia in questo,
che la tragedìa all’inizio è meravigliosa e placida e […] nella conclusione fetida e paurosa […]. La comedìa invece inizia dalla narrazione
di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene […]. Similmente
tragedìa e comedìa si diversificano
per il linguaggio che è alto e sublime nella tragedìa, dimesso e umile
nella comedìa […]. Il fine di tutta
l’opera […] consiste nell’allontanare
quelli che vivono questa vita dallo
stato di miseria e condurli a uno
stato di felicità […].
Dante illustra i livelli di interpretazione testuale diffusi nel
Medioevo e li esemplifica con
alcuni versetti tratti dalla Bibbia.
Epistola in latino (periodo storico 1319).
È opportuno ampliare le
informazioni sulle Epistulae (1304-1319), tredici lettere in latino che
costituiscono un importante documento degli
anni dell’esilio. La raccolta comprende numerose lettere di argomento
politico-civile, le quali
testimoniano l’aspirazione di Dante a una duplice
guida per l’umanità, da
identificarsi nell’autorità
dell’imperatore in merito
al conseguimento della
felicità terrena, nell’autorità del pontefice in
riferimento alla conquista della beatitudine
eterna. Seguono, poi, alcune lettere di carattere
personale. Di argomento
letterario è, infine, l’Epistola XIII, inviata insieme
ai primi canti del Paradiso a Cangrande della
Scala, signore di Verona
presso il quale il poeta
trova ospitalità durante l’esilio: essa contiene
la dedica della cantica e
una sorta di guida alla
lettura del poema.
È opportuno precisare
che la Divina Commedia
non rientra pienamente
nel genere a cui il titolo allude, per molteplici
motivi: la coesistenza di
tragedia, commedia, satira; la presenza di personaggi illustri, e non di
umile estrazione sociale;
la varietà dello stile, che
spazia dall’umile e dimesso all’elevato e sublime; le finalità di carattere morale e religioso.
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L’autore applica, quindi, la
lettura su molteplici livelli al
soggetto della Commedia, del
quale evidenzia significato letterale e allegorico.
Successivamente Dante enuncia il titolo del poema e ne dà
spiegazione riprendendo la
classificazione medioevale dei
generi e degli stili: egli sottolinea le diversità dell’opera
rispetto alla tragedia. Il poema si chiama Comedia per la
materia, orrida e spaventosa
all’inizio, lieta alla fine, e per
il linguaggio e lo stile, umili e
dimessi.
Dante illustra, infine, le finalità dell’opera, che si propone
di contribuire al rinnovamento
morale, spirituale e religioso
dell’intera umanità.
Idea centrale
Fornire una guida alla
lettura del poema, che
illustri il rapporto tra
interpretazione letterale e allegorica, il soggetto, il significato del
titolo e le finalità.
Messaggio dell’autore
La lettura dell’opera
richiede alcune indicazioni.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Saggio breve
Stesura
Struttura
Dalle Rime alla Commedia: lo sperimentalismo dantesco
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
I termini plurilinguismo e pluristilismo indicano la mescolanza rispettivamente di più linguaggi e di più stili all’interno di un unico testo. L’opera dantesca fornisce di entrambi esempi significativi.
Ciò che, a detta dei critici, rende Dante moderno è proprio il suo cimentarsi in modalità espressive e generi letterari estremamente diversi fra loro. Moderna è la sua capacità di infrangere
la classificazione medioevale degli stili, che distingue tre livelli stilistici, a ciascuno dei quali
corrispondono temi e generi precisi: allo stile alto si addicono temi nobili come amore, virtù,
fede, gloria delle armi, da celebrarsi in tragedie e poemi epici; al livello stilistico medio argomenti tratti dalla vita quotidiana, cantati nelle commedie; allo stile basso vicende pastorali,
vicine alla vita degli umili, rappresentate nelle elegie. Non è consentito mescolare tra loro gli
stili, pena la disarmonia e l’ineleganza.
Introduzione
Si dà una definizione di
pluristilismo e di plurilinguismo; si pone in evidenza
come entrambi siano ampiamente praticati da Dante, del quale si sottolinea la
modernità.
Ebbene, se nel De vulgari eloquentia, trattato di retorica scritto intorno al 1304, Dante sembra
abbracciare tale classificazione, nell’Epistola a Cangrande della Scala (1316-1317), signore di
Verona che lo ospita tra il 1314 e il 1318 e a cui dedica il Paradiso, egli giustifica per il poema la mescolanza degli stili, in relazione allo scopo che si propone di raggiungere: contribuire
al rinnovamento morale e spirituale dell’umanità attraverso la rappresentazione della storia
dell’anima, dalla caduta nel peccato alla redenzione, dall’esperienza terrena fino all’ingresso
nella dimensione ultraterrena, dove la vicenda umana, persino nei suoi aspetti più umili, acquista un significato autentico, una validità eterna e assoluta. Proprio la rappresentazione
dell’intera esistenza dell’uomo e dell’universo, proiettata sullo sfondo della dimensione ultraterrena, richiede, per la sua mescolanza di umiltà e sublimità, il coniugarsi del livello stilistico
alto con quelli medio e basso.
Tesi
Si esprime l’opinione secondo cui Dante subordina
il rispetto delle norme retoriche medioevali alla necessità di adattare lo stile al
contenuto, adeguamento
che giustifica la mescolanza di stili e di linguaggi
all’interno di un unico testo.
L’idea che lo stile debba adeguarsi alla materia trattata, ai temi e ai personaggi rappresentati
emerge con evidenza nelle Rime (1283-1307), raccolta postuma delle liriche dantesche non inserite dall’autore nelle opere maggiori. Esse si collocano cronologicamente fra la Vita nuova e
la Commedia; ben lontane dal costituire un canzoniere organico e unitario, le Rime non delineano una biografia ideale del poeta, non ne tratteggiano l’evoluzione poetica. Esse registrano,
piuttosto, alcuni tentativi di cimentarsi in esperienze letterarie diverse, talvolta persino contraddittorie, per materia e stile: dalla dolcezza sublime e soave dello Stilnovo, la scuola poetica
di Dante e di pochi altri raffinatissimi poeti, le cui “nove rime” cantano l’esperienza amorosa
come fonte di rinnovamento interiore e stimolo alla ricerca della virtù e del perfezionamento
morale; alla violenza della deformazione grottesca e caricaturale della tenzone con Forese
Donati, caratterizzata dalla rappresentazione colorita e realistica dei personaggi, disseminata
di doppi sensi e allusioni grossolane, condotta in uno stile comico, che si avvale di un registro
linguistico basso e popolare; al gusto, nelle rime “petrose”, per una poesia difficile, artificiosa,
aspra nei suoni e incalzante nei ritmi, che si ispira ai più oscuri trovatori provenzali del secolo
precedente (il trobar clus di Arnaut Daniel) e che adegua l’espressione formale alla durezza
del contenuto, l’amore violento e crudele per una donna fredda e insensibile, celata dal senhal
Petra, che consuma la vita del poeta. Se per le rime stilnoviste Dante individua i propri modelli
di riferimento nella trepidante eleganza dei versi di Guinizzeli e nelle liriche raffinate e dolenti
di Cavalcanti, nella tenzone con Forese predomina l’influenza della poesia comico-realistica di
Rustico Filippi e Cecco Angiolieri.
1° Argomento a favore della tesi
Si sottolinea il legame fra
contenuto ed espressione
formale e il conseguente
adeguarsi dello stile ai temi
affrontati attraverso alcuni
esempi tratti dalle Rime.
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Diversi, dunque, i contenuti, lo stile, i modelli. L’apparente contraddittorietà delle esperienze
dantesche raccolte nelle Rime trova superamento e composizione proprio nella Commedia,
summa tematica e stilistica in cui Dante adegua le scelte formali alla materia, ai temi, ai
personaggi. Dante sceglie di comporre il poema in uno stile comico, o medio, una sorta di
sintesi tra il livello stilistico alto della tragedia e quello basso della parlata quotidiana, che
mescola toni umili e grotteschi a modi elevati e sublimi. Proprio l’esigenza di rappresentare le
molteplici tonalità dell’esistenza dell’uomo e dell’universo nella loro ambivalenza e contraddittorietà inducono il poeta a mettere in pratica modalità formali e di gestione della lingua che
comportano la mescolanza di più registri espressivi, un lessico variato, toni e stili diversificati.
La varietà degli aspetti e dei temi che Dante descrive e racconta conduce alla completa rottura
degli schemi letterari e retorici della tradizione. Occorre impiegare tutti gli stili, dal più alto al
più basso: proprio in questa scelta consiste il tratto più innovativo dell’opera di Dante. Nella
successione delle tre cantiche è facile individuare un progressivo innalzamento del tono poetico; tuttavia, neppure per il Paradiso, per il quale Dante stesso conia la definizione di “sublime
cantica”, si può parlare di unicità di stile e di linguaggio.
Si pensi all’Inferno, nel quale il poeta rappresenta il peccato, la rinuncia dell’anima alla dimensione eterna per la materialità delle passioni terrene, il venir meno di ogni speranza di
redenzione; alla dannazione corrispondono per contrappasso l’abbrutimento e la degradazione delle anime, eternamente raggelate nel proprio infamante peccato, immerse in una natura
selvaggia, cupa e tenebrosa, soggette a pene spaventose. Anche all’interno di questa cantica,
all’apparenza votata per i contenuti allo stile basso, Dante sperimenta il plurilinguismo e il
pluristilismo, mettendo in pratica l’adeguamento dello stile alla materia trattata: così, nell’incontro con l’iracondo Filippo Argenti (canto VIII, vv. 31-42; 49-54) egli esprime il proprio disprezzo per l’arrogante fiorentino con i toni e il linguaggio propri dello stile comico e popolare,
già sperimentato nella tenzone con Forese Donati. Ai suoni aspri e alle rime difficili delle liriche
petrose sembra alludere la descrizione della selva dei suicidi (canto XIII, vv. 1-39), mentre risulta di evidente ispirazione stilnovista, caratterizzato da un linguaggio e da uno stile elevati,
l’incontro con la lussuriosa Francesca da Rimini (canto V).
La seconda cantica rappresenta la purificazione dell’anima, la conquista della libertà dal
peccato, la nostalgia per la dimora celeste e la certezza della salvezza; anche sul monte del
Purgatorio, simbolo della solitudine della meditazione e dello slancio mistico verso Dio, dove
prevalgono il lessico soave, lo stile piano e lieve (si pensi, ad esempio, al canto VIII, che si
apre con la descrizione della nostalgia del pellegrino nell’ultima ora della sera), trovano spazio
nell’invettiva all’Italia i toni violenti e il linguaggio volgare della polemica (canto VI, vv. 76-126).
Nel Paradiso, cantica sublime per eccellenza, non più dominata dalle vicende terrene dell’uomo, con i suoi peccati e le sue debolezze, ma interamente pervasa dalla presenza di Dio, in
cui, annullata la dimensione spazio-temporale, il paesaggio celeste è costituito di luce e di
musica, lo stile deve necessariamente innalzarsi, farsi a sua volta sublime, adeguarsi all’importanza dell’oggetto. Ecco, allora, susseguirsi sempre più numerose via via che ci si avvicina
alla conclusione del poema le allusioni alla propria inadeguatezza, alla necessità di trascendere i limiti della condizione umana (canto I, vv. 70-71), o all’impossibilità di conservare nella
memoria e quindi esprimere a parole la visione divina (canto XXXIII, vv. 58-66), il ricorso a
latinismi, neologismi, citazioni da testi sacri e da autori classici. Uno stile alto e sublime, già
sperimentato nelle canzoni morali o dottrinarie raccolte nelle Rime, per le quali Dante si ispira
all’opera di Guittone d’Arezzo, che Boccaccio suppone destinate all’incompiuto Convivio (13061307). Tuttavia, neppure per l’ultima cantica si può parlare di unicità di stile e di linguaggio:
per rendere concreto quel mondo ultraterreno che pare sempre più difficile da rappresentare,
il poeta ricorre a similitudini tratte dal mondo naturale e familiare; nel XXX canto, ad esempio,
il desiderio di Dante di potenziare le proprie capacità visive è espresso attraverso l’immagine
quotidiana del lattante che si protende affamato verso il seno materno (vv. 82 e seguenti).
Particolarmente significativo, a questo proposito, anche il XVII canto, cuore della Commedia,
che ne chiarisce le finalità e conferma a Dante il ruolo di profeta di verità e giustizia presso
i contemporanei e i posteri. In chiusura di canto il trisavolo Cacciaguida scioglie l’ennesimo
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2° Argomento a favore della tesi
Si mostra come l’adeguarsi
dello stile alla materia caratterizzi anche la Commedia, all’interno della quale
è possibile individuare frequenti oscillazioni fra i diversi livelli stilistici e linguistici. Si propongono alcuni
esempi.
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dubbio del poeta, incerto se rivelare quanto ha visto nei tre regni ultraterreni e preoccupato
per le conseguenze contingenti delle critiche e delle accuse mosse ai potenti nel corso del poema. Egli conferma al nipote la missione di rigenerazione morale dell’umanità affidatagli da
Dio, la quale implica necessariamente l’assoluta fedeltà alla verità e alla giustizia, le uniche,
per quanto scomode, in grado di garantire al poeta eterna fama presso i posteri. Ne deriva la
necessità di rappresentare la vita dell’uomo e dell’universo nella sia interezza e il conseguente
adeguarsi dell’espressione formale ai contenuti, il coniugarsi del livello stilistico alto con quelli
medio e basso. A conferma della mescolanza di stili e di linguaggi che caratterizza la Commedia, anche in questi versi dal contenuto sublime irrompe un lessico crudo e popolare (lascia pur
grattar dov’è la rogna), che insieme al ricorso al campo semantico del cibo (se la tua voce sarà
molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta) conferisce loro
l’efficacia plebea del vituperium.
Sotto questo aspetto la Commedia si presenta effettivamente come il risultato di tutte le
esperienze precedenti, non solo di quelle liriche documentate nelle Rime, ma anche delle capacità espressive messe a punto nell’opera in prosa (De vulgari eloquentia, Epistole).
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Conclusione
Si ribadisce l’opinione secondo cui Dante subordina
il rispetto delle norme retoriche medioevali alla necessità di adattare lo stile al
contenuto, mescolando, se
necessario, stili e linguaggi
all’interno di un unico testo.
Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 330-332
Analisi del testo
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 330-332.
• Francesco Petrarca, La malattia dell’anima (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1.Comprensione del testo
Dopo aver passato in rassegna gli altri peccati capitali, ai quali Francesco ammette di avere ceduto, benché in misura trascurabile, Sant’Agostino individua il peggiore dei mali che affliggono l’animo del protagonista nell’accidia, l’unico peccato
che non procura alcun piacere e i cui attacchi, anziché brevi e momentanei, sono di lunga durata, al punto che quando cessano l’anima ne ricava una sorta di malinconica nostalgia, abituata com’è a nutrirsi di lacrime e dolori. Su invito di Agostino, Francesco tenta di individuare le cause della propria malattia, i cui sintomi egli descrive con straordinaria lucidità e precisione, in una progressione che lo vede inizialmente resistere con coraggio ai colpi della sorte, poi cedere gradualmente alla
sfiducia nelle proprie forze, fino a scivolare in quell’oscuro e indistinto male di vivere che sempre si accompagna all’accidia.
Incalzato dalle domande di Agostino, Francesco riconosce infine la causa prima del suo “umor nero” in un’indole rancorosa
e poco incline a dimenticare le ingiurie ricevute dalla sorte. Per liberare il protagonista da questa terribile malattia, che si
traduce nell’incapacità di compiere scelte definitive e gli impedisce di liberarsi dalla schiavitù del peccato, Agostino decide di
agire in profondità nell’animo di Francesco, cominciando proprio da quell’acuto senso di insoddisfazione e inappagamento
verso tutto ciò che riguarda gli altri e se stesso che da sempre lo affligge.
2.Analisi del testo
2.1 Introdotto dalla tradizionale rassegna dei peccati capitali che segue lo schema usuale della morale cristiana, il brano offre
l’ennesima contemplazione lucida e sconsolata di sé e delle proprie debolezze; tutta nuova e insolita è, però, la sincerità
con cui il protagonista indaga se stesso e il proprio animo, alla ricerca dei mali che ostacolano il processo di elevazione
morale e spirituale al quale egli tende. Incalzato dalle domande di Sant’Agostino, alter ego di Francesco nonché sua coscienza religiosa, egli individua nell’accidia il peggiore dei mali che lo affliggono, vera e propria malattia morale, paralisi
della volontà che gli impedisce di tradurre in atto l’aspirazione a Dio e al vero bene alla quale lo induce la sua formazione
religiosa.
2.2Il protagonista descrive con grande lucidità i sintomi della propria malattia, la quale si manifesta in un profondo senso
di disperazione e in un’irrefrenabile pulsione alla morte; gli attacchi dell’accidia durano così a lungo da assuefare l’anima
al dolore, tanto che questa se ne distacca quasi a malincuore. Li accompagna, infatti, un’amara dolcezza, un sofferto
autocompiacimento che tradisce l’incapacità di Francesco, continuamente combattuto fra sacro e profano, di rinunciare
a quegli ideali mondani, l’amore per Laura e la gloria letteraria, che pure egli sa effimeri e falsi.
2.3Ascoltate le parole di Francesco, Agostino conclude che è soprattutto l’indole rancorosa del protagonista, poco incline a
dimenticare le ingiurie ricevute dalla sorte, a fare di qualunque ferita ricevuta, per quanto lieve e lontana nel tempo, una
fonte di grande dolore, che lo consegna ancora una volta alla sofferenza e all’angoscia.
2.4A partire dalla riga 22, l’autore rappresenta se stesso come un combattente incalzato dalla Fortuna, nemico implacabile
i cui colpi sono metafora delle difficoltà e dei mali della vita quotidiana. L’immagine si fa via via più intensa e complessa:
in toni sempre più drammatici e concitati, l’autore rappresenta la propria angoscia attraverso la descrizione dell’assedio
a opera della Fortuna, al quale egli assiste incapace di reagire. La metafora bellica manifesta il senso di impotenza e di
inquietudine che scaturisce dall’impossibilità di scorgere alcuna via di salvezza.
I colpi della sorte sono ferite aperte, piaghe insanabili che la dimenticanza non può cancellare e il perdono non saprà mai
cicatrizzare: l’accidia è un’erba infestante dalle radici profonde, che occorre estirpare in modo definitivo.
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3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
All’interno del Secretum è possibile individuare due tematiche costanti: in primo luogo l’indagine della propria coscienza,
oscillante fra propositi di ascesa spirituale e tentazioni che la respingono verso il basso, entro la quale l’autore tende ad
attribuire alla propria esperienza spirituale un significato universale, a riconoscervi le esperienze di tutti; in secondo luogo la tensione verso un ideale di vita che unisce l’aspirazione all’equilibrio interiore e al dominio razionale delle passioni,
propria degli autori latini, al desiderio di salvezza eterna che caratterizza ogni cristiano. Petrarca sviluppa entrambe le
tematiche in forma problematica, per nulla esente da dubbi e incertezze, come appare evidente nell’ascesa al Monte Ventoso (Epistole, Fam. IV, 1), la cui scalata diventa occasione per indagare la propria interiorità: l’autore confessa di non poter
fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. Egli conclude l’analisi della
propria conflittuale personalità senza prospettare alcuna possibilità di trasformare se stesso, accettando la complessità
della propria natura umana, oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno. Tuttavia, l’accettazione non è indolore, ma
provoca un profondo disagio interiore, come dimostrano numerosi componimenti del Canzoniere: si pensi, ad esempio, al
dittico a dir poco contraddittorio dei sonetti LXI e LXII in cui il poeta ora letteralmente benedice l’amore terreno per Laura
e la gloria letteraria che ne deriva (Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno), ora condanna ogni cedimento alle passioni
terrene nella loro totalità (Padre del ciel, dopo i perduti giorni).
Proprio l’approccio problematico all’indagine della coscienza e l’amara constatazione dell’impossibilità di mutare se stesso contribuiscono a rendere l’opera di Petrarca più vicina ai lettori moderni, coi quali, tuttavia, il poeta non condivide le
finalità della propria autoanalisi. L’obiettivo del suo percorso introspettivo non si esaurisce, infatti, sul piano esclusivamente psicologico, bensì morale: egli non intende limitarsi ad alleviare un disagio di natura interiore, piuttosto aspira a
conquistare la salvezza dell’anima. Non si può dimenticare che per Petrarca, uomo del Trecento, l’accidia è prima di tutto
un peccato capitale, dal quale egli intende purificarsi, liberare l’anima, obbedendo a un profondo bisogno di conversione
e di salvezza.
La lacerazione dell’io, l’oscillare tra terra e cielo, tra peccato e redenzione è reso nel Secretum dalla forma dialogata, che,
grazie alla presenza di un interlocutore, Sant’Agostino, consente all’autore di dare voce alle diverse aspirazioni e ai vari
punti di vista, stabilendo fra loro un rapporto dialettico. La vivacità del dialogo è garantita dal ricorso a suggestive metafore, che conferiscono ritmo e intensità alla narrazione. In un autore che destina il volgare alla sola poesia d’amore, non
deve stupire la scelta del latino, lingua esclusiva della prosa petrarchesca: si tratta, però, di un latino che si allontana da
quello in uso nel Medioevo, giudicato inelegante, per ispirarsi alla lingua dei grandi autori dell’epoca classica, nei quali egli
ricerca un modello di stile, oltre che di vita.
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La stesura del testo
Commento
Introduzione all’autore
De secreto conflictu curarum mearum, «Il segreto conflitto dei miei
pensieri»: questo il suggestivo titolo dell’opera in prosa latina che sviluppa in tre libri il dialogo immaginario fra Francesco e Sant’Agostino,
il padre della chiesa caro a Petrarca per le Confessioni (397-401); allo
scambio di battute fra i due personaggi, entrambi proiezioni letterarie
dell’autore stesso, assiste in silenzio la Verità. Il dialogo, che si svolge
nell’arco di tre giorni, uno per libro, si finge avvenuto nel 1342-1343; in
realtà, la stesura dell’opera è certamente posteriore e concomitante
con quella delle Familiari e del Canzoniere (1347-1353 circa).
Fungono da modello al dialogo, genere letterario classico assai diffuso
nell’antichità greco-latina, gli scritti di contenuto morale e filosofico
di Platone e dei latini Cicerone e Seneca, nonché il più tardo Severino
Boezio. Tuttavia, la scelta di Agostino come interlocutore e maestro di
condotta morale indica la preponderante influenza delle Confessioni,
nelle quali Petrarca leggeva il tormentato percorso di conversione del
Santo dal peccato alla vita cristiana.
Al centro del Secretum, inedito fino alla morte del Petrarca, vi sono
i conflitti più segreti della complessa personalità del protagonista,
indagati attraverso le domande di Sant’Agostino, sorta di doppio
dell’autore che ne costituisce la coscienza religiosa, ne smaschera le
debolezze e indica la via verso la purificazione morale e spirituale. Il
dialogo si chiude con un proposito di conversione interiore, del quale
rendono testimonianza anche molti componimenti del Canzoniere,
soprattutto gli ultimi: infatti la raccolta termina con la preghiera alla
Vergine, sorta di palinodia dell’amore profano per Laura. Nel Secretum, tuttavia, l’implacabile esame di coscienza di Petrarca è destinato a restare irrisolto: l’autore confessa la duplicità del proprio animo,
continuamente combattuto fra sacro e profano, ma sembra escludere
qualunque prospettiva di trasformazione di quel doppio uomo che è in
lui. Il processo della scrittura si configura, in questo senso, come una
sorta di terapia, l’unica che con la sua ricerca di armonia ed equilibrio
formali possa aiutare il poeta a trovare finalmente tregua al disordine
interiore e all’incoerenza morale.
L’analisi del significato
Nel brano in questione, dopo la tradizionale rassegna dei peccati capitali alla ricerca dei mali che ostacolano la conversione di Francesco,
l’attenzione si concentra sull’accidia: il termine indica nella teologia
medioevale uno stato d’animo di malinconia e tristezza, un misto di
inquietudine e pigrizia che genera paralisi della volontà, irresolutezza
e impotenza ad agire. Vera e propria malattia morale, l’accidia impedisce al protagonista di tradurre in atto l’aspirazione al bene, che pure
egli razionalmente e in qualità di cristiano percepisce.
Incalzato dalle domande di Agostino, che lo interroga sulle cause profonde del suo male, il protagonista si scruta e si confessa con sincerità
e onestà intellettuale, smantellando una ad una le macchinose giustificazioni con le quali ciascuno di noi tenta di nascondere agli altri, e
talvolta persino a se stesso, i propri vizi e le proprie colpe.
Francesco individua con estrema lucidità i sintomi della propria malattia, la quale si manifesta in un profondo senso di disperazione e in
un’irrefrenabile pulsione di morte; i suoi attacchi durano così a lungo
da assuefare l’anima al dolore, tanto che essa se ne distacca quasi a
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni utili a delineare le caratteristiche
generali dell’opera e
a collocarla all’interno
della produzione letteraria dell’autore.
Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni
personali.
Relazione con un’altra
opera dell’autore.
Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni
personali.
Enunciazione sintetica dell’argomento del
brano.
Rielaborazione della sintesi (domanda 1).
Dati contenuti nella risposta 2.1 e integrazioni
personali.
Definizione dello stato
d’animo prevalente e
delle sensazioni dominanti all’interno del
brano.
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Dati contenuti nella risposta 2.2 e integrazioni
personali.
Laboratorio per l’esame
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malincuore. A rendere ancora più subdola l’accidia è l’autocompiacimento nella sofferenza che di solito l’accompagna: al profondo senso
di insoddisfazione che scaturisce dalla consapevolezza della precarietà
dei valori terreni e della miseria della condizione umana, si unisce, infatti, un dolore compiaciuto che tradisce l’incapacità di rinunciare quegli ideali mondani che pure egli sa effimeri e mendaci. Ed è proprio la
continua tensione verso questi falsi valori a impedire al protagonista
di elevarsi moralmente: combattuto fra sacro e profano, egli non sa
compiere una scelta e confessa la contraddittorietà del proprio animo.
Alla ricerca dell’origine profonda del proprio “umor nero”, il protagonista descrive lucidamente il graduale insorgere della malattia: in un
primo momento egli tenta di resistere ai mali e alle difficoltà della
vita quotidiana cercando conforto nel ricordo dei passati trionfi e nella ragione; in seguito, di fronte all’inasprirsi degli attacchi della sorte
egli comincia a perdere sicurezza e fiducia in se stesso, fino a cedere
ancora una volta al dolore e all’angoscia. In conclusione, è soprattutto
l’indole rancorosa di Francesco, poco incline a dimenticare le ingiurie
della Fortuna, a fare di qualunque ferita ricevuta, per quanto lieve e
lontana nel tempo, una fonte di grande dolore, che lo conduce inevitabilmente verso quell’oscuro e indistinto male di vivere che sempre
si accompagna all’accidia.
Una metafora tratta dall’ambito bellico consente all’autore di tradurre in immagini i propri stati d’animo: egli rappresenta se stesso come
un combattente incalzato dalla Fortuna, descritta come un nemico
implacabile i cui colpi sono metafora delle difficoltà e dei mali della
vita quotidiana; l’esistenza di Petrarca è dunque in balia dell’imprevedibile crudeltà della sorte. L’immagine si fa via via più intensa: sferzato dai fendenti della Fortuna ma ancora padrone di se stesso, come
testimonia il suo lento indietreggiare che nulla ha a che vedere con la
fuga, l’autore cerca rifugio entro la rocca della ragione, intesa come
razionalità e dominio di sé, che dovrebbe metterlo al riparo da stati d’animo angoscianti e irrazionali. Tuttavia, è proprio in quel luogo
della mente e della coscienza che egli subisce l’assedio della Fortuna,
la quale lo stringe dappresso con le sue macchine da guerra, le sue
torri, le scale, i ponti, il fuoco. Chiuso nella fortezza della ragione, vedendo tutt’intorno il balenìo delle spade e i volti minacciosi dei nemici
e sentendo prossimo l’eccidio, Francesco dispera di trovare alcuna via
di fuga, né speranza di clemenza, né soccorsi. Ed è appunto l’angoscia
dell’autore, rappresentata metaforicamente dall’assedio, che si traduce in una sorta di impotenza claustrofobica (la perdita della libertà
sarebbe di per sé quasi insopportabile), di paralisi della volontà che
finisce col trasmettersi al lettore stesso, così come la percezione del
tempo, scisso in un passato dominato dagli affanni, un futuro pervaso dal terrore per i mali incombenti e un presente che pare negare
ogni possibilità di salvezza. Ferite aperte sono i colpi della sorte, piaghe insanabili che la dimenticanza non può cancellare, che il perdono
non saprà mai cicatrizzare.
Il brano offre, dunque, un’approfondita analisi della conflittuale personalità del protagonista, che non prospetta alcuna possibilità di
trasformare se stesso, ma culmina nell’accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante fra propositi di ascesa spirituale e tentazioni che la respingono verso il basso. Obiettivo finale
dell’indagine della coscienza è la tensione verso un ideale di vita che
Laboratorio per l’esame
4
Dati contenuti nella risposta 2.3 e integrazioni
personali.
Rappresentazione per
immagini degli stati
d’animo del protagonista.
Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni
personali.
Esplicitazione approfondita del significato
del brano.
Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni
personali.
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unisca la saggezza, da identificarsi con il dominio razionale delle passioni di ispirazione classica, al bisogno di conversione e all’aspirazione
alla salvezza eterna imprescindibili per un cristiano. Tradizione classica
e cultura cristiana concorrono dunque alla conversione di Francesco,
la quale è, tuttavia, destinata a restare un’aspirazione mai del tutto
realizzata. Il passaggio dalla dimensione materiale a quella spirituale
è infatti affrontato in forma problematica: come durante la salita al
Monte Ventoso (Epistole, Fam. IV, 1), l’autore confessa di non poter fare
a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. La modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto
nella totale accettazione della complessità della propria natura umana,
oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque prospettiva di trasformazione di quel doppio uomo che è in lui.
L’accettazione, tuttavia, non è indolore, ma provoca un profondo disagio interiore, di un cupo senso di impotenza tra spinte divergenti, come
dimostrano numerosi componimenti del Canzoniere: per esempio, in
un dittico a dir poco contraddittorio il poeta ora letteralmente benedice
l’amore terreno per Laura e la gloria letteraria che ne deriva (LXI, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno), ora condanna ogni cedimento alle
passioni terrene nella loro totalità (LXII, Padre del ciel, dopo i perduti giorni). Proprio l’approccio problematico all’analisi della coscienza e l’amara
constatazione dell’impossibilità di mutare se stesso contribuiscono a
rendere l’opera di Petrarca più vicina ai lettori moderni, i quali condividono con il poeta il senso di insoddisfazione per la realtà che li circonda,
l’incapacità di dare un senso alla propria esistenza, l’angoscia e gli atteggiamenti autodistruttivi che ne derivano. Occorre, tuttavia, precisare
che l’obiettivo del percorso introspettivo di Petrarca non si pone su un
piano prettamente psicologico, bensì morale: egli non intende limitarsi
ad alleviare un disagio di natura interiore, piuttosto aspira a conquistare
la salvezza dell’anima. Il male dell’accidia non va confuso con la moderna
sindrome depressiva, con la quale pure condivide caratteristiche e sintomi: come per la teologia medioevale e per Dante, che colloca gli accidiosi
nel fango della palude stigia (Inferno, canto VIII), l’accidia è prima di tutto
un peccato capitale, dal quale Petrarca intende purificarsi, liberare l’anima, in risposta a un profondo bisogno di conversione e di salvezza.
L’analisi del significante
La lacerazione dell’io, il perenne oscillare tra terra e cielo, tra peccato e
redenzione è reso nel Secretum dalla forma dialogata, che, grazie alla
presenza di un interlocutore, Sant’Agostino per l’appunto, consente
all’autore di dare voce alle diverse aspirazioni e ai vari punti di vista,
stabilendo fra loro un rapporto dialettico.
La vivacità del dialogo è garantita dal ricorso a suggestive metafore,
che conferiscono efficacia e intensità alla narrazione.
In un autore che riserva il volgare alla sola poesia d’amore, non deve
stupire la scelta del latino, lingua esclusiva della prosa petrarchesca:
si tratta, però, di un latino che si allontana da quello in uso nel Medioevo, giudicato inelegante, per ispirarsi alla lingua dei grandi autori
dell’epoca classica, nei quali egli ricerca un modello di stile, oltre che di
vita. Molto più fluido e armonioso, il latino petrarchesco appare maggiormente elaborato e sottoposto a quel lunghissimo processo di riscrittura che testimonia l’ansia di perfezione assoluta di Petrarca.
Ansia che, del resto, tradisce la convinzione che la cura formale, la ricerca di un’espressione equilibrata e armoniosa non siano solo il frutto di grande perizia tecnica, quanto piuttosto la testimonianza della
conquista del dominio di sé e delle proprie passioni.
Dunque, contenuto e forma nel Secretum appaiono fra loro concordi
e collaboranti a delineare quell’ideale di vita che il male dell’accidia
impedisce all’autore di raggiungere.
Confronto con altre
opere dell’autore.
Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni
personali.
Il genere letterario
Le figure retoriche
Dati contenuti nella risposta 2.4.
Il linguaggio
Dati contenuti nella risposta
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Laboratorio per l’esame
5
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 378-380
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Il culto mariano in età medioevale» utilizzando il dossier che si trova alle
pagine 378-380.
• Cimabue, Maestà (• D1)
• Giotto, Madonna in maestà (• D2)
• Dante, versi tratti dal canto XXXIII del Paradiso (• D3)
• Petrarca, la prima strofa della lirica CCCLXVI del Canzoniere (• D4)
Schedatura dei documenti
•D1 Cimabue, Maestà
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Tradizionale composizione che
raffigura la Madonna in trono
col Bambino in braccio, circondata da angeli e santi.
Maestà (periodo storico 1285-1286 ca.).
Occorre ampliare le informazioni su Cimabue,
maestro decisivo per gli
sviluppi dell’arte italiana,
considerato tradizionalmente il fondatore della
scuola fiorentina: nelle
sue composizioni monumentali (maestà, crocifissi, cartoni per mosaici), egli mette parzialmente in discussione gli
schemi e le norme della
pittura bizantina, attraverso una drammatica
espressività e le ricerche
sulla prospettiva e sul
chiaroscuro.
La Madonna e il Bambino sono
circondati da profeti, rappresentati in dimensioni sproporzionate e ritratti in atteggiamenti
stereotipati e ripetitivi. I panneggi degli abiti dei personaggi
e il volto della Vergine, illuminato da un sorriso dolce e mite, appaiono molto più realistici.
Idea centrale
La rappresentazione
del tradizionale tema
della Maestà.
Messaggio dell’autore
L’esaltazione
della
grandezza e della santità della Madonna e al
tempo stesso dei suoi
tratti umani e materni,
al fine di coniugare il
rispetto e la devozione
dei fedeli con la piena
fiducia nella sua misericordia.
È, inoltre, opportuno
porre in evidenza che
l’istituto del vassallaggio
feudale, modello sociale
dominante, condiziona
fortemente le modalità
con cui nel Medioevo i
fedeli vivono la spiritualità mariana, sia nell’affidamento totale del vassallo al signore, sia nella
garanzia di protezione e
di difesa del signore nei
confronti del vassallo.
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Laboratorio per l’esame
1
•D2 Giotto, Madonna in maestà
Testo
Laboratorio per l’esame
2
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
L’opera rientra nella tradizione
toscana delle Madonne a fondo oro su tavola pentagonale.
Giotto, però, sviluppa questo
tema in modo innovativo, introducendo nel dipinto un nuovo senso dello spazio e della
profondità. Le vesti lasciano
intuire le forme dei corpi con
naturalezza, i volti mostrano
espressioni umane.
Le figure della Vergine e del
Bambino spiccano all’interno
di un trono di architettura gotica, esile ed elegante, profondamente diverso dal massiccio
trono della Maestà di Cimabue.
Sono insoliti anche la disposizione dei santi ai lati del baldacchino e il gesto dei due angeli inginocchiati che reggono
vasi di fiori.
Maestà (periodo storico 1306-1310).
Occorre ampliare le informazioni su Giotto, capostipite dei pittori italiani,
creatore di un’arte che
osserva e interpreta la
realtà, della quale diventano protagonisti uomini
e donne veri, che occupano un ruolo sociale e uno
spazio fisico tangibile
nello scenario quotidiano
della città o della campagna. Per questi aspetti
della pittura di Giotto
e in netta opposizione
all’arte bizantina, definita antinaturalista, si parla di “naturalismo”.
Idea centrale
L’accentuazione
dei
tratti umani e naturali
dei personaggi raffigurati, rappresentati con
maggiore realismo e
vicini ai fedeli.
Messaggio dell’autore
La
contemplazione
della Vergine come la
potente e santa Madre
di Dio e al tempo stesso
vicina all’umanità nel
suo cammino terreno,
così da favorirne la devozione dei fedeli.
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•D3 Dante, versi tratti dal canto XXXIII del Paradiso
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
/ umile e alta più che creatura, /
termine fisso d’etterno consiglio,
Prima delle due parti in cui la
retorica classica e cristiana
suddivide le orazioni, a cui fa
seguito la supplica vera e propria.
La lode della Vergine è condotta attraverso forti antitesi
concettuali e verbali, che ne
esaltano le qualità umane e
sovraumane: il mistero del
concepimento di Cristo attraverso lo Spirito Santo (Vergine
Madre); il suo essere figlia di
Dio, come tutti gli uomini, e al
contempo madre di Dio, nella persona di Gesù (figlia del
tuo figlio); l’umiltà dimostrata
nell’obbedienza al Signore e la
sua nobiltà in quanto madre di
Dio (umile e alta più che creatura).
L’attenzione si concentra poi
sul mistero della cooperazione
della Vergine alla redenzione:
grazie alla sua scelta di obbedienza si è riacceso l’amore,
spento dal peccato di Adamo,
fra Dio e gli uomini, ai quali
sono state riaperte le porte del
cielo. Il fiore di cui si parla è per
l’appunto la candida rosa dei
beati.
L’orazione esalta infine il duplice ruolo di Maria, nell’Empireo
fonte di carità, sulla terra sorgente di speranza nella misericordia divina.
Il vocativo Donna, che deriva
dal latino domina, ovvero signora, ripropone il motivo del
vassallaggio spirituale che caratterizza la devozione mariana.
La metafora nei versi conclusivi sottolinea l’impossibilità per
gli uomini di ottenere la Grazia
di Dio senza ricorrere all’intercessione della Madonna.
Orazione (periodo storico inizio Trecento).
È necessario precisare
che a pronunciare la preghiera alla Vergine, con
cui si apre l’ultimo canto
della Commedia, non è
Dante, bensì San Bernardo di Chiaravalle, che dal
XXXI canto del Paradiso
ha sostituito come guida
Beatrice, tornata a occupare il suo seggio nella
rosa dei beati. Monaco
benedettino vissuto fra
la fine dell’XI e la prima
metà del XII secolo, fu un
mistico particolarmente
devoto al culto della Vergine Maria, nella quale
vedeva
l’incarnazione
delle virtù cristiane di carità, misericordia, umiltà,
castità, e che celebrava
come modello da imitare
nella vita quotidiana. A
lui si deve in particolare
la definizione dei tre atteggiamenti che riassumono la spiritualità mariana medioevale: la lode
della Vergine, la preghiera, l’imitazione di Maria.
È, inoltre, opportuno fare
riferimento alla particolare devozione di Dante
per la Madonna, come
testimonia la diretta intercessione in suo favore
della Vergine, che insieme a Santa Lucia incarica Beatrice di salvarlo
dalla selva oscura.
tu se’ colei che l’umana natura /
nobilitasti sì, che ’l suo fattore /
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore, /
per lo cui caldo ne l’etterna pace /
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face / di caritate, e giuso, intra ’mortali, / se’ di
speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto
vali, / che qual vuol grazia e a te
non ricorre / sua disianza vuol volar
sanz’ali.
Idea centrale
L’orazione celebra da un
lato la grandezza e la
potenza della Vergine,
dall’altra la misericordia e l’umiltà.
Messaggio dell’autore
Indurre i lettori a rivolgersi con fiducia a
Maria, invocando protezione e soccorso da
colei che è Madre di
misericordia, Regina
e Signora dell’universo, assisa in cielo alla
destra del Figlio, cercandovi al contempo
rifugio e consolazione.
L’uomo non può nulla
senza l’aiuto di Dio, le
sue solo forze non sono
sufficienti a consentirgli la salvezza.
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Laboratorio per l’esame
3
•D4 Petrarca, la prima strofa della lirica CCCLXVI del Canzoniere
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Vergine bella, che di sol vestita, /
coronata di stelle, al sommo Sole /
piacesti sì, che ’n te Sua luce ascose,
/ amor mi spinge a dir di te parole;
/ ma non so ’ncominciar senza tu’
aita, / et di Colui ch’amando in te
si pose. / Invoco lei che ben sempre
rispose, / chi la chiamò con fede: /
Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti
volse, al mio prego t’inchina, / soccorri a la mia guerra, / bench’i’ sia
terra, e tu del ciel regina.
Preghiera in forma di continua
invocazione alla Madonna: il
vocativo Vergine è la parola iniziale del primo e del nono verso
di ciascuna strofa.
La fronte, o parte iniziale della
strofa, contiene le lodi rivolte
alla Madonna, della quale il poeta celebra la bellezza. È quindi
nella sirma, o parte conclusiva,
che egli rivolge alla Vergine la
propria richiesta di aiuto: lacerato dal conflitto fra amore
profano e amore per Dio, il poeta prega Maria di soccorrerlo
perché possa liberarsi dal peccato, del quale è pienamente
consapevole. Egli infatti insiste sull’antitesi fra la grandezza di Dio e la miseria della
condizione umana.
Canzone (periodo storico 1353 o 1368).
È bene precisare che si
tratta del componimento con cui si chiude il
Canzoniere, al cui interno
costituisce una sorta di
palinodia: il poeta ritratta il suo canto d’amore
per Laura, quell’amore
profano per una creatura
terrena che lo ha distolto
da Dio e dall’aspirazione
ai beni eterni. Ora, all’approssimarsi della morte, egli torna a cantare
l’amore per una creatura
celeste, la Madonna, alla
quale si affida come guida sicura per raggiungere
Dio.
Laboratorio per l’esame
4
Idea centrale
Il poeta loda la bellezza
della Vergine, riconosce
pentito la propria miseria spirituale e chiede perdono e salvezza,
certo di ottenere l’aiuto
della Madonna.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a riconoscere i propri errori e
a farne ammenda affidandosi alla pietà divina e all’intercessione di
Maria.
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Saggio breve
Stesura
Struttura
Il culto mariano in età medioevale: tra arte e letteratura
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
Durante il Basso Medioevo, in Europa si diffonde il culto mariano, che si espande all’interno
della cristianità coinvolgendo monaci e teologi, artisti e poeti, volgo e gente comune e raggiungendo il suo più alto sviluppo tra i secoli XII e XIV. È questa l’epoca in cui nella devozione
popolare si diffonde la pratica delle “Passioni”, celebrazioni di piazza che in occasione del Venerdì Santo portano in scena il dramma della Vergine, la quale assiste impotente al supplizio
del Figlio. Accanto alle pratiche popolari, che talvolta sfociano in esagerazioni superstiziose,
si sviluppano lunghe e complesse controversie dottrinarie e teologiche legate al culto della
Vergine, destinate ad approdare a conclusione solo molti secoli più tardi. L’approfondimento
della spiritualità mariana trova espressione anche nell’arte e nella letteratura. La venerazione
di Maria, assisa nell’alto dei cieli eppure vicina a tutti coloro che sulla terra aspirano all’incontro
con Dio, non è testimoniata soltanto dagli inni della liturgia ufficiale o dalle preghiere comunitarie e private: artisti e letterati contribuiscono a delineare i tratti salienti della venerazione
mariana, senza costituirsi in élite colta e lontana dal volgo, anzi incontrando con le proprie
opere piena risposta popolare.
Introduzione
Il culto mariano conosce
una straordinaria e capillare diffusione all’interno
della società medioevale.
Con il popolo intellettuali e uomini di cultura condividono l’atteggiamento con cui vivono e
propongono la spiritualità mariana, condizionati dal modello sociale dominante: l’istituto del
vassallaggio, che lega in un vincolo personale intenso ed esclusivo il vassallo al suo signore,
in una relazione di dipendenza e di fedeltà quasi illimitate su cui si modella il rapporto tra il
cristiano e la Vergine. Si pensi alla cerimonia dell’omaggio, atto costitutivo del vassallaggio,
il cui momento fondamentale, il gesto con cui il vassallo pone le mani giunte fra le mani del
signore per affidarsi interamente a lui, è passato nella ritualità cristiana ad accompagnare il
momento della preghiera. L’instaurarsi di un “vassallaggio” spirituale nei confronti della Vergine determina importanti conseguenze sulle modalità con cui nel Medioevo i fedeli vivono
la spiritualità mariana: da un lato, il devoto si pone sotto la protezione di Maria, alla quale
rivolge lodi, suppliche e l’impegno a compiacerne il Figlio, Gesù Cristo; in cambio la Madonna,
Regina dell’universo, Signora assisa in cielo alla destra del Figlio, offre al fedele protezione e
mediazione, ne assume con tenerezza materna la difesa e intercede presso Dio per ottenerne
perdono e grazie.
Questa tipologia relazionale si diffonde rapidamente dai monasteri e dagli altri luoghi di culto
al popolo il quale cerca rifugio, aiuto e consolazione nella Madre di Dio, percepita come diversa
e lontana per santità e al tempo stesso vicina nel cammino terreno, fonte di sostegno e di
speranza.
Tesi
Il rapporto fra la Madonna e
i devoti appare fortemente
condizionato dal modello
sociale dominante, il vassallaggio: ne deriva un duplice aspetto della spiritualità mariana, caratterizzata
ora dall’esaltazione della
regalità di Maria, ora dalla
celebrazione della Madonna come madre universale.
È alla luce di questo duplice aspetto, ascendente e discendente, della spiritualità mariana
che Cimabue nel penultimo decennio del Duecento e Giotto trent’anni dopo reinterpretano il
tradizionale tema pittorico della Maestà, composizione tipicamente medioevale che raffigura
la Madonna in trono col Bambino in braccio, circondata da angeli e santi. Nelle opere dei due
padri della pittura italiana il superamento, appena accennato in Cimabue, più significativo in
Giotto, degli schemi e delle norme dell’arte bizantina, che rappresenta in atteggiamenti fissi
e stereotipati figure dalle dimensioni sproporzionate, avviene a vantaggio di una maggiore
espressività e naturalezza delle immagini. Così, se nella Maestà di Cimabue i panneggi delle
vesti e il volto della Vergine, illuminato da un dolce sorriso appaiono molto più realistici, Giotto
introduce nel dipinto un senso più naturale della profondità e dello spazio, le vesti lasciano
intuire le forme dei corpi e i volti mostrano espressioni più umane. Fra le finalità di tali scelte
pittoriche vi è certamente l’intento di esaltare i tratti materni, la dolce tenerezza e l’umanità
della Vergine: la maternità della Madonna spinge il devoto ad affidarsi con totale fiducia alla
1° Argomento a favore della tesi
Attraverso esempi tratti
dalla pittura del Basso Medioevo si pone in evidenza
l’influenza esercitata dal
modello feudale sulla spiritualità mariana.
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Laboratorio per l’esame
5
sua misericordia e alla sua intercessione presso Dio. D’altro canto, la natura gerarchica della società medioevale implica, come sottolineato in precedenza, l’esaltazione della regalità
mariana, che non attenua i tratti più umani della figura della Madonna, al contrario si fonde
con essi a costituire quella sorta di vassallaggio spirituale che lega i devoti alla Vergine. Veicolano alla coscienza dei fedeli l’impressione della grandezza e della santità di Maria proprio
quei tratti tipici dell’arte bizantina ai quali Cimabue e Giotto restano legati, a cominciare dalla
concezione simbolica dell’immagine: si pensi alla prospettiva gerarchica della maestà, per cui
la Madonna e il Bambino hanno dimensioni maggiori rispetto agli altri personaggi, fissati in
gesti di omaggio e devozione.
L’età di Dante e Petrarca segna, come si è detto, il culmine della venerazione mariana: non
stupisce, pertanto, che entrambi i poeti concludano le loro maggiori opere in volgare con un
componimento dedicato alla Vergine.
Potenza e grandezza, misericordia e umiltà sono i tratti che Dante attribuisce alla Madonna
nell’orazione con la quale, per voce di San Bernardo, mistico particolarmente devoto al culto della
Vergine vissuto fra XI e XII secolo, si apre il XXXIII canto del Paradiso, l’ultimo dell’intera Commedia. La lode alla Vergine è condotta attraverso forti antitesi concettuali e verbali, che ne esaltano
le qualità umane e sovraumane: il mistero del concepimento di Cristo attraverso lo Spirito Santo
(Vergine Madre); il suo essere figlia di Dio, come tutti gli uomini, e al contempo madre di Dio, nella
persona di Gesù (figlia del tuo figlio); l’umiltà dimostrata nell’obbedienza alla chiamata divina e
allo stesso tempo la nobile superiorità che le deriva dall’essere madre di Dio (umile e alta più che
creatura). Dante esalta in particolare il mistero della maternità divina e della cooperazione della
Vergine all’opera redentrice del Figlio, Gesù Cristo, che deve suscitare nei credenti un atteggiamento di lode, sia verso il Salvatore, sia verso colei che lo ha generato. Il poeta sottolinea il ruolo
importante che Maria ha esercitato sul destino eterno dell’umanità: grazie alla sua scelta di obbedienza si è riacceso l’amore fra Dio e gli uomini e sono state riaperte le porte del cielo, dove è
sbocciata la candida rosa dei beati. L’orazione esalta poi la duplice funzione di Maria, nell’Empireo
fonte di carità, sulla terra sorgente di speranza nella misericordia divina: ella funge da mediatrice
fra le preghiere degli uomini e la grazia di Dio, presso il quale intercede in soccorso dell’umanità. Il
vocativo Donna, che deriva dal latino domina, ovvero signora, ripropone il motivo del vassallaggio
spirituale che caratterizza la devozione mariana; i cattolici, del resto, si rivolgono alla Vergine con
l’appellativo di Madonna, mea domina, ossia mia signora. Particolarmente devoto al culto mariano, Dante si rivolge alla Vergine perché, avendolo in precedenza soccorso nel traviamento della
selva oscura, possa ora assisterlo nella preparazione alla visione divina, con la quale culmina quel
viaggio nell’aldilà che il poeta ha compiuto proprio per volontà di Maria.
È diversa la preghiera con cui si conclude il Canzoniere di Petrarca, unica raccolta profana a
chiudersi con un componimento sacro, al cui interno la canzone alla Vergine costituisce una
sorta di palinodia, di ritrattazione di quell’amore per una creatura terrena che ha a lungo distolto il poeta da Dio e dai valori spirituali. Ora, all’approssimarsi della morte, Petrarca torna
a cantare l’amore per una creatura celeste, la Madonna, alla quale si affida con fiducia per
raggiungere Dio. In forma di continua invocazione, come evidenzia il vocativo Vergine con cui si
aprono il primo e il nono verso di ciascuna strofa, la canzone nella prima parte di ogni stanza,
o fronte, innalza lodi alla bellezza di Maria, qualità che pare averla resa degna di divenire la
madre di Dio. Nella sirma, o parte conclusiva di ciascuna strofa, rivolge alla Vergine un’accorata
richiesta di aiuto: lacerato dal conflitto fra amore profano e purificazione morale e spirituale,
il poeta prega Maria di soccorrerlo perché possa liberarsi da quel peccato del quale ha piena
consapevolezza, come evidenzia l’antitesi fra grandezza di Dio e bassezza della condizione
umana. Petrarca condivide con l’Alighieri l’attenzione riservata alla bellezza della Vergine e al
mistero dell’incarnazione, del quale però Dante pare cogliere le implicazioni più ampiamente
legate al destino ultraterreno dell’umanità; Petrarca sembra, invece, maggiormente interessato alla sorte individuale della propria anima. Accanto alla celebrazione della bellezza della
Vergine Dante pone, inoltre, l’accento sulle virtù cristiane mirabilmente incarnate in Maria, che
celebra come modello da imitare nella vita quotidiana.
Laboratorio per l’esame
6
2° Argomento a favore della tesi
Attraverso esempi tratti dai più grandi poeti del
Basso Medioevo si ribadisce l’influenza esercitata
dal modello feudale sulla
spiritualità mariana.
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Nel corso del tempo, i mutamenti avvenuti all’interno della società, nella sensibilità degli individui, nelle forme di comunicazione, nei modi di espressione dell’arte e della letteratura hanno
esercitato una forte influenza sulle manifestazioni del sentimento religioso. Alcuni culti in
passato ampiamente diffusi e particolarmente adatti a esprimere il sentimento religioso dei
singoli individui e delle comunità dei fedeli, appaiono oggi inattuali, in quanto legati a schemi
sociali e culturali oramai superati.
Nell’ambito della devozione mariana, il mistero della maternità divina suscita ancora oggi
nei credenti un atteggiamento di lode e di gratitudine nei confronti di colei che ha cooperato
all’opera di redenzione dell’umanità a opera di Gesù Cristo. Tuttavia, maggiormente sentita è
probabilmente la maternità universale della Vergine, madre di tutti gli uomini, della quale si
apprezzano particolarmente la divina tenerezza, la dolce indulgenza e la misericordiosa sollecitudine nei confronti dei fedeli di tutte le epoche. Ad animare un intenso turismo religioso,
fatto di pellegrinaggi e visite a santuari mariani e luoghi di apparizioni, a indurre migliaia di
persone a riunirsi per la recita del Santo Rosario e per la celebrazione del mese di maggio è
proprio la fiducia nella capacità di mediazione e intercessione della Vergine presso Dio, quel
Dio che gli uomini di oggi, in un momento di profondo disorientamento religioso, faticano
sempre più a sentire vicino.
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Conclusione
Si attualizza l’argomento,
evidenziando l’evolversi del
culto mariano attraverso i
secoli in seguito ai mutamenti sociali.
Laboratorio per l’esame
7
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 330-332
Analisi del testo
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 381-382.
• Francesco Petrarca, Padre del ciel, dopo i perduti giorni (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
Padre del cielo, dopo i giorni sprecati (a coltivare una passione traviante), dopo le notti inutilmente perdute nel colpevole
sogno di piaceri vani, in preda a quell’implacabile desiderio d’amore che mi divampò nel cuore nel contemplare i gesti (di
Laura) così aggraziati per mia sventura, concedi che con l’ausilio della tua grazia io possa volgermi a una vita diversa, e a
opere più lodevoli, così che il mio ostinato nemico, avendomi inutilmente teso trappole per fare di me una sua preda, ne
esca sconfitto. È trascorso, o mio Signore, l’undicesimo anno da quando fui sottomesso alla spietata schiavitù dell’amore,
che è tanto più crudele quanto più la vittima è soggiogata. Abbi pietà del mio vergognoso tormento; riporta i miei pensieri
che inseguono seduzioni vane verso una meta migliore (il cielo); ricorda loro come in questo giorno (Venerdì Santo) tu fosti
posto in croce.
2. Analisi del testo
2.1 I tre piani temporali si intersecano e si alternano lungo tutto il componimento, a segnare ciascuno una tappa del percorso
sentimentale e morale del poeta. Il passato, dominato dall’implacabile passione per Laura e dal conseguente allontanamento da Dio, è il tempo del peccato, della colpa e del traviamento morale. Ad esso si collega, attraverso l’occasione
dell’anniversario, la dimensione presente, pervasa da un profondo senso di stanchezza nei confronti delle passioni terrene: è il tempo della lucida e consapevole introspezione di sé, della sincera confessione delle proprie debolezze, dell’umiltà
nella preghiera; al pentimento e al dolore subentra il desiderio di purificazione. La sincera richiesta di perdono rivolta a
Dio troverà risposta nel futuro, il tempo in cui il poeta intraprenderà finalmente ben altra vita, ben altre opere.
L’avvicendarsi dei piani temporali è all’origine di una lunga serie di contrasti tra Bene e Male, che percorrono l’intero
componimento e ne costituiscono un vero e proprio tema-guida: così, ai perduti giorni e alle notti vaneggiando spese
si contrappone l’aspirazione ad altra vita et a più belle imprese; al vagare dei pensieri si sostituisce il loro indirizzarsi a
miglior luogo.
2.2Il sonetto si apre con il rinvio a una delle più suggestive preghiere della tradizione cristiana, il Padre nostro, e conserva
poi un tono religioso, come sottolineano i vocativi (Padre del ciel e Signor mio) e gli esortativi (piacciati, Miserere, reduci e
rammenta): Petrarca riesce a calare in una formula di ascendenza religiosa un proprio evento autobiografico, l’undicesima
ricorrenza del primo incontro con Laura, presentandolo come momento culminante di un’esistenza consumata in modo
indegno.
2.3La serie di contrapposizioni tra Bene e Male culmina nel contrasto tra Dio, “armato” di grazia e di misericordia, e il Demonio, l’ostinato nemico del poeta che lo tenta con le armi della seduzione tradizionalmente attribuite ad Amore. Inutili si
riveleranno le trappole della seduzione, con l’aiuto di Dio egli riuscirà a sconfiggerlo. La passione amorosa si identifica,
quindi, con il male, dal quale Petrarca chiede di essere liberato. È particolarmente significativa la contrapposizione con
cui si chiude il sonetto, che vede coincidere in maniera stridente l’occasione dell’innamoramento con il giorno più doloroso
del calendario cristiano, quello che rievoca la Passione di Cristo: l’irruzione di un evento profano entro una ricorrenza così
sentita dalla collettività ora è profondamente condannato.
2.4Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito nella sua forma più classica da quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi
l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione
CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto. Grazie anche all’ampio ricorso a sinalefe e sineresi, i versi sono tutti
endecasillabi piani, ossia accentati sulla penultima sillaba.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
Nell’undicesimo anniversario dell’innamoramento, il poeta dà voce allo smarrimento e alla stanchezza spirituale che lo
affliggono e si rivolge a Dio con fervido slancio perché lo liberi dall’implacabile passione amorosa.
È impossibile interpretare correttamente il testo senza accostarlo al componimento che lo precede all’interno del Canzoniere, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, un plazer che celebra ogni elemento dell’incontro con Laura, dal tempo al
luogo ai sintomi dell’innamoramento, fino ai componimenti ad esso ispirati. La lettura comparata dei due sonetti, i quali
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Laboratorio per l’esame
1
compongono un dittico contraddittorio, evidenzia l’ambiguità della condizione sentimentale del poeta, combattuto fra la
violenta intensità della passione sensuale e l’aspirazione a liberarsi dalla catena amorosa per approdare alla purificazione morale e spirituale, ostacolata dall’amore per Laura. Il sonetto in analisi conferma, inoltre, la condanna morale della
passione d’amore, insieme al proposito di pentimento e di elevazione spirituale espressi fin dal sonetto proemiale, Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono, che introduce il lettore alla materia amorosa oggetto della poesia e ne propone al contempo un bilancio a posteriori, offrendo così la chiave per interpretarla: il poeta pronuncia sull’innamoramento un severo
giudizio, definendolo traviamento morale e folle vaneggiare, conseguenze del quale sono la vergogna e il pentimento. In
seguito a un lungo percorso di conversione, egli è divenuto un uomo nuovo, diverso almeno in parte rispetto al passato.
Proprio la raccolta poetica si delinea come lo strumento di riscatto dall’amore per Laura, l’espressione della lacerazione
interiore del poeta innamorato e il mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale.
Al centro del Canzoniere sta infatti il tortuoso conflitto interiore tra desiderio amoroso e profondo senso del peccato. Benché il poeta sia consapevole che la vita terrena, con le sue seduzioni, è solo un inganno, e nonostante la sua formazione
religiosa imponga di cercare la felicità nei valori trascendenti della fede, egli si sente profondamente e inevitabilmente
attratto da quegli ideali terreni, amore, passione, gloria letteraria, di cui Laura è l’emblema. Estremamente moderna
appare, dunque, la sensibilità di Petrarca, combattuto fra l’aspirazione alla salvezza eterna, la fiducia nei valori religiosi,
e l’incapacità di viverli come consolatori e rassicuranti, di avvertirli come totalmente appaganti. Il percorso dalla dimensione materiale a quella spirituale è infatti affrontato in forma problematica, tormentato da dubbi e incertezze. Il poeta
riconosce di non poter fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure riconosce falsi e mendaci. La
modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto nella totale accettazione della complessità della propria natura umana,
oscillante tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque prospettiva di trasformazione.
Caratterizzano il Canzoniere un lessico medio e uniforme, che evita il ricorso ad arcaismi e a termini ricercati tanto quanto
l’uso di vocaboli bassi e popolari; una struttura metrico-sintattica lineare e simmetrica, che vede il prevalere della coordinazione, delle coppie di sinonimi, le antitesi, i parallelismi.
Laboratorio per l’esame
2
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La stesura del testo
Commento
Introduzione all’opera
Rerum vulgarium fragmenta («Frammenti di cose in volgare») è il titolo originale in lingua latina della raccolta di poesie in volgare nota fin
dal XVI secolo come Canzoniere: opera organica, essa comprende 366
liriche composte da Francesco Petrarca nell’arco dell’intera esistenza,
dagli anni della giovinezza fino alla morte, avvenuta nel 1374. La raccolta, risultato di costanti modifiche e revisioni, costituisce il diario lirico del poeta che, attraverso la vicenda autobiografica dell’amore non
corrisposto per Laura, ricostruisce l’itinerario morale di un’anima alla
ricerca della verità e dell’eterno. Concepito dopo la morte dell’amata,
il Canzoniere è incentrato sul rapporto esistente tra l’assenza della
donna e la creazione poetica: le rime sparse che il lettore si accinge ad
ascoltare sono, infatti, scaturite dall’amore non ricambiato per Laura,
al quale egli ha saputo trovare conforto solo attraverso la scrittura.
Fin dal sonetto proemiale la poesia esprime la lacerazione interiore
del poeta innamorato, combattuto fra passione e senso del peccato,
e al tempo stesso diviene strumento di riscatto dall’amore per Laura,
mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale.
Al centro della raccolta sta, infatti, un lacerante conflitto interiore,
che contrappone il desiderio di Laura e la passione d’amore al profondo senso di colpa e alla coscienza del peccato che inevitabilmente li
accompagna. Benché il poeta sia consapevole che la vita terrena, con
le sue seduzioni, è solo un inganno, nonostante la formazione religiosa gli imponga di cercare la felicità nei valori trascendenti della fede,
egli si sente profondamente e inevitabilmente attratto da quegli ideali terreni, amore, passione, gloria letteraria, di cui Laura è l’emblema.
Nel nome dell’amata convivono, infatti, due livelli simbolici, che consentono a Petrarca di coniugare ambito sentimentale e aspirazione
poetica: come Dafne, la ninfa amata da Apollo, di cui Ovidio racconta
il mito nel primo libro delle Metamorfosi, così Laura è la donna che
fugge l’innamorato, è l’oggetto del desiderio irraggiungibile; come la
pianta di alloro, in cui il padre trasforma la ninfa per sottrarla ad Apollo, così Laura è simbolo della poesia e della gloria letteraria, sorta di
consolatoria ricompensa per l’innamorato.
Estremamente moderna appare, dunque, la sensibilità di Petrarca,
combattuto fra l’aspirazione alla salvezza eterna, la fiducia nei valori religiosi, e l’incapacità di viverli come consolatori e rassicuranti,
di avvertirli come totalmente appaganti. Il percorso dalla dimensione
materiale a quella spirituale è infatti affrontato in forma problematica, tormentato da dubbi e incertezze: il poeta riconosce di non poter
fare a meno di amare profondamente quei valori mondani che pure
riconosce falsi e mendaci.
Caratterizzano il Canzoniere una tonalità media e raffinata, che evita
tanto il registro basso e comico quanto l’aulico e sublime; il lessico,
medio e uniforme, lontano dalla lingua comune e quotidiana, esclude
elementi realistici e concreti e ricerca una certa generalità e astrattezza; una struttura metrico-sintattica lineare e simmetrica, che vede
il prevalere della coordinazione, delle coppie di sinonimi, di antitesi e
parallelismi.
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni utili a delineare le caratteristiche
generali dell’opera.
Rielaborazione delle informazioni
contenute
nella risposta 3.
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Informazioni contenute
nella risposta 3.
Informazioni contenute
nella risposta 3.
Laboratorio per l’esame
3
L’analisi del significato
Nell’undicesimo anniversario dell’innamoramento, il poeta dà voce
allo smarrimento e alla stanchezza spirituale che lo affliggono e si
rivolge a Dio con fervido slancio perché lo liberi dall’implacabile passione amorosa.
Il sonetto si apre, infatti, con il rinvio a una delle più suggestive preghiere della tradizione cristiana, il Padre nostro, e conserva poi un
tono religioso, come sottolineano i vocativi (Padre del ciel e Signor
mio) e gli esortativi (piacciati, Miserere, reduci e rammenta): Petrarca riesce dunque a calare in una formula di ascendenza religiosa un
evento autobiografico, l’undicesima ricorrenza del primo incontro con
Laura, presentandolo come momento culminante di un’esistenza
consumata in modo indegno.
Tre piani temporali si intersecano e si alternano lungo tutto il componimento, a segnare ciascuno una tappa del percorso sentimentale e
morale del poeta. Il passato, dominato dall’implacabile passione per
Laura e dal conseguente allontanamento da Dio, è il tempo del peccato, della colpa e del traviamento morale. Ad esso si collega, attraverso
l’occasione dell’anniversario, la dimensione presente, pervasa da un
profondo senso di stanchezza nei confronti delle passioni terrene: è
il tempo della lucida e consapevole introspezione di sé, della sincera confessione delle proprie debolezze, dell’umiltà nella preghiera; al
pentimento e al dolore subentra il desiderio di purificazione. La sincera richiesta di perdono rivolta a Dio troverà risposta nel futuro, il
tempo in cui il poeta intraprenderà finalmente ben altra vita, ben altre
opere.
L’avvicendarsi dei piani temporali è all’origine di una lunga serie di
contrasti tra Bene e Male, che percorrono l’intero componimento e
ne costituiscono un vero e proprio tema-guida: così, ai perduti giorni
e alle notti vaneggiando spese si contrappone l’aspirazione ad altra
vita et a più belle imprese; al vagare dei pensieri si sostituisce il loro
indirizzarsi a miglior luogo. La serie di contrapposizioni culmina nel
contrasto tra Dio, “armato” di grazia e di misericordia, e il Demonio,
l’ostinato nemico del poeta che lo tenta con le armi della seduzione
tradizionalmente attribuite ad Amore. La passione amorosa si identifica, quindi, con il male, dal quale Petrarca chiede di essere liberato:
con l’aiuto di Dio egli riuscirà a sconfiggerlo. È particolarmente significativa, in questo senso, la contrapposizione con cui si chiude il sonetto, che vede coincidere in maniera stridente l’occasione dell’innamoramento con il giorno più doloroso del calendario cristiano, quello che
rievoca la Passione di Cristo: l’irrompere di un evento profano entro
una ricorrenza così sentita dalla collettività appare profondamente
condannato. È evidente il rinvio al terzo componimento del Canzoniere, Era il giorno ch’al sol si scoloraro, nel quale il poeta fornisce al
lettore precise indicazioni circa le circostanze in cui avviene il primo
incontro con Laura: egli afferma di essersene innamorato in occasione
di un’importante ricorrenza liturgica, il Venerdì Santo, commemorazione della morte di Cristo. È invece un altro sonetto, il componimento
CCXI del Canzoniere (Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge…), a
proporre la data esatta dell’innamoramento: 6 aprile 1327, un lunedì
secondo il calendario, un Venerdì Santo per Petrarca, che forza la cronologia reale per sottolineare come il nascere della passione amorosa
si compia all’insegna del peccato.
Laboratorio per l’esame
4
Enunciazione sintetica
del contenuto del sonetto.
Rielaborazione della parafrasi.
Informazioni contenute
nelle risposte 2.2 e integrazioni personali.
Definizione dello stato
d’animo prevalente e
delle sensazioni dominanti all’interno del
brano.
Informazioni contenute
nelle risposte 2.1, 2.3 e
integrazioni.
Collegamento con un altro componimento della
medesima raccolta.
Informazioni contenute
nella risposta 3.
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Impossibile interpretare correttamente il testo in esame senza accostarlo al componimento che lo precede all’interno del Canzoniere,
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, un plazer in cui, attraverso
l’anafora della formula benedicente, il poeta celebra ogni elemento
dell’incontro con Laura, dal tempo al luogo ai sintomi dell’innamoramento, fino ai componimenti ad esso ispirati. La collocazione dei due
sonetti, composti in momenti diversi e assai lontani nel tempo, eppure inseriti l’uno di seguito all’altro in un dittico contraddittorio, induce
a una lettura continuata e unitaria dei testi, favorita anche dalle riprese lessicali e tematiche: si pensi alla rima fortemente evocativa anno
/ affanno, il cui significato, celebrativo nel plazer, è completamente
rovesciato nel secondo componimento, dove suona come definitiva
condanna. Allo stesso modo, il trionfo di Amore celebrato nel primo
sonetto si trasforma in amara sconfitta in quello seguente; ai testi
poetici ispirati dall’amore per Laura e alla gloria da essi procurata, le
benedette […] carte con cui Petrarca acquista fama, sono ora preferite
più belle imprese. In conclusione, i lunghi anni dedicati al dolce affanno
dell’amore profano sono interpretati a posteriori come tempo inutilmente sprecato in non degno affanno, in futili vaneggiamenti.
La lettura comparata dei due sonetti, voluta dallo stesso Petrarca,
evidenzia dunque la contraddittorietà della condizione sentimentale
del poeta, combattuto fra la violenta intensità della passione sensuale e l’aspirazione a liberarsi dalla catena amorosa per approdare alla
purificazione morale e spirituale, ostacolata dall’amore per Laura.
Tuttavia, in una sorta di azzeramento dello scorrere del tempo, del
progredire naturale degli eventi nell’ambito della relazione amorosa,
si susseguono – all’interno della raccolta – componimenti che ora sottolineano come nulla della passione duratura ed esclusiva per Laura
muti nel tempo, ora ne confermano la condanna morale, insieme al
proposito di pentimento e di elevazione espressi fin dal sonetto proemiale, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono.
Sorta di prefazione alla raccolta, il primo componimento assolve alla
duplice funzione di introdurre il lettore alla materia amorosa oggetto
della poesia e di proporne al contempo un bilancio a posteriori, offrendo così al lettore la chiave per interpretarla: il poeta pronuncia
sull’innamoramento un severo giudizio, definendolo traviamento
morale e folle vaneggiare, conseguenze del quale sono la vergogna
e il pentimento. In seguito a un lungo percorso di conversione, egli è
divenuto un uomo nuovo, diverso almeno in parte rispetto al passato;
all’interno di questo profondo cambiamento esistenziale, la raccolta
poetica si delinea come lo strumento di riscatto dall’amore per Laura, l’espressione della lacerazione interiore del poeta innamorato e il
mezzo per riconquistare la propria unità morale e spirituale.
Dunque, nulla sembra mutare attraverso la raccolta nel lacerante conflitto che dilania l’animo del poeta; nonostante l’invadenza del tema
amoroso, che deborda dalle rime volgari fin nelle Epistole e nel Secretum, e i propositi di conversione morale, la contraddittorietà con
cui Petrarca lo vive e il continuo e implacabile esame di coscienza che
l’accompagna restano irrisolti.
La modernità dell’opera di Petrarca risiede appunto nella totale accettazione della complessità della propria natura umana, oscillante
tra alto e basso, tra divino e terreno, in questo escludere qualunque
prospettiva di trasformazione.
Esplicitazione approfondita del significato
del brano, attraverso
il confronto con altri
componimenti
della
medesima raccolta.
Informazioni contenute
nelle risposte 2.1 e 3 e integrazioni.
Collegamento con altre
opere dell’autore.
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Laboratorio per l’esame
5
L’analisi del significante
Petrarca pare piuttosto realizzare i propri propositi di armonia ed
equilibrio attraverso l’espressione formale, frutto di un lunghissimo e
intenso processo di riscrittura che testimonia l’ansia di perfezione assoluta che lo anima. Ansia che, del resto, tradisce la convinzione che la
cura formale, la ricerca di un’espressione equilibrata e armoniosa non
sono solo il frutto di grande perizia tecnica, quanto piuttosto la testimonianza della conquista del dominio di sé e delle proprie passioni.
Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, quattordici
versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, delle quali le prime due
di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta adotta nelle quartine la successione a rime incrociate
ABBA ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime
ripetute in ordine diretto. Grazie anche all’ampio ricorso a sinalefe e
sineresi, i versi sono tutti endecasillabi piani, ossia accentati sulla penultima sillaba.
Il componimento presenta una evidente corrispondenza fra struttura tematica e struttura sintattica. Da un punto di vista sintattico il
sonetto è suddiviso in due blocchi distinti: le quartine costituiscono
un unico periodo, scandito dall’invocazione iniziale rivolta a Dio, alla
quale si lega direttamente il verbo della principale, piacciati. Due periodi distinti compongono invece le terzine, nelle quali è comunque
ripresa la disposizione in parallelo del contenuto proposto nelle quartine: Signor mio / Padre del ciel, piacciati / Miserere. Il linguaggio è
semplice e non artificioso, in corrispondenza con il desiderio di purificazione espresso nel contenuto, che riceve, così, maggiore evidenza.
Prevalgono le dicotomie, ossia l’accostamento di vocaboli due a due:
i perduti giorni, le notti vaneggiando spese; ad altra vita, et a più belle
imprese.
Da rilevare, infine, la presenza insistita di metafore amorose, quali
reti indarno tese, dispietato giogo, a ribadire la forza di quella passione
terrena a cui il poeta tenta invano di sottrarsi.
Laboratorio per l’esame
6
Relazione fra espressione e contenuto.
La metrica
Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni.
La sintassi
Il linguaggio
Le figure retoriche
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 479-481
Articolo di giornale
Componi un articolo di giornale sull’argomento: «Personaggi del Decameron: modelli a confronto» utilizzando il dossier
che si trova alle pagine 479-481.
• Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65)
• Giovanni Boccaccio, Andreuccio da Perugia (• T61)
• Carlo Brambilla, Il manoscritto scoperto all’Ambrosiana di Milano (• D1)
• Gerald Kamber, Le fonti nel Decameron di due episodi di Pinocchio (• D2)
Schedatura dei documenti
•T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Avea frate Cipolla un suo
fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio
Imbratta, e chi gli diceva Guccio
Porco; il quale era tanto cattivo,
che egli non è vero che mai Lippo
Topo ne facesse alcun cotanto. Di
cui spesse volte frate Cipolla era
usato di motteggiare con la sua
brigata e di dire: «Il fante mio ha
in sé nove cose tali, che, se qualunque è l’una di quelle fosse in
Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare
ogni lor vertù, ogni lor senno,
ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel
quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove!»; e
essendo alcuna volte domandato
quali fossero queste nove cose e
egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi: egli è tardo,
sugliardo e bugiardo; negligente,
disubbidiente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre
teccherelle […]; e avendo la barba
grande e nera e unta, gli par sì
forte esser bello e piacevole, che
egli s’avisa che quante femine il
veggano tutte di lui s’innamorino e, essendo lasciato, a tutte
andrebbe dietro perdendo la coreggia. È vero ch’egli m’è d’un
grande aiuto, per ciò che mai niun
non mi vuol sì segreto parlare, che
egli non voglia la sua parte udire;
e se avviene che io d’alcuna cosa
sia domandato, ha sì gran paura
che io non sappia rispondere, che
Il testo si propone di divertire e
al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente
classe borghese.
Novella (periodo storico
1348-1351).
Si può fare riferimento
al concetto di “brigata”,
un sistema sociale che
nasce in ambiente preborghese e si afferma
al tempo di Boccaccio: il
termine indica un gruppo di amici riuniti con
intenti prevalentemente
ludici. All’interno della
brigata assume un ruolo decisivo il “motto”,
ovvero la capacità di
esprimere l’intelligenza
attraverso la parola. La
fiducia nella parola arguta ed elegante diventa
l’emblema della nuova
civiltà mercantile, che
non punta più sui valori
tradizionali (la nobiltà di
nascita), ma opera in una
società in movimento, in
cui la concorrenza produce il trionfo dell’ingegno
e dell’astuzia.
Guccio è goffo, sudicio, grasso,
come annota con compiacenza
divertita Boccaccio elencando i
nomignoli a lui affibbiati.
La beffa delle false reliquie si
sviluppa all’interno dell’ambiente sociale della brigata, di cui il
frate stesso fa parte.
La spassosissima filastrocca con
cui frate Cipolla mette in rima la
descrizione del servo presenta
alcuni caratteri tipici della prosa
d’arte medioevale: l’uso di parole con terminazioni simili, allitterazioni, giochi fonici e bisticci
verbali.
Idea centrale
All’immagine del servo
sono associate caratteristiche fisiche, morali
e psicologiche tali da
farne il perfetto rovesciamento delle qualità
esaltate dall’emergente civiltà mercantile,
rappresentate da frate
Cipolla.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere l’ironico distacco da Guccio Imbratta e
la bonaria complicità
verso l’astuto frate.
Fra le raffinate e molteplici qualità di Guccio decantate con ironia da frate Cipolla non manca la
presunzione: convinto di essere
un buon oratore, egli tenta con
l’arte della parola di corteggiare
la Nuta, una serva altrettanto
sconcia e deforme.
Il corteggiamento amoroso,
scena consueta nella tradizione
della letteratura duecentesca,
è qui interpretato in chiave ironica e parodica, grazie anche al
ricorso intenzionale a strumenti
che appartengono alla letteratura alta: l’autore rappresenta
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Laboratorio per l’esame
1
Testo
Schedatura
prestamente risponde egli e sì e
no, come giudica si convenga».
[…] Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina
che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi
sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa
e grossa e piccola e mal fatta e
con un paio di poppe che parevan
due cestoni da letame e con un
viso che parea de’ Baronci, tutta
sudata, unta e affumicata, non
altramenti che si gitti l’avoltoio
alla carogna, lasciata la camera di
frate Cipolla aperta e tutte le sue
cose in abbandono, là si calò […].
l’insolita scena disseminandone
la narrazione di armoniosi endecasillabi, i quali fanno risaltare
per contrasto la natura disarmonica dei due partners.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
•T61 Giovanni Boccaccio, Andreuccio da Perugia
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Fu […] in Perugia un giovane il cui
nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di
cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più
fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto
[…], per mostrare che per comperar
fosse, sì come rozzo e poco cauto
più volte in presenza di chi andava
e di chi veniva trasse fuori questa
sua borsa de’ fiorini che aveva. E in
questi trattati stando, avendo esso
la sua borsa mostrata, avvenne che
una giovane ciciliana bellissima, ma
disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza
vederla egli, passò appresso di lui
e la sua borsa vide […]. «Messere,
una gentil donna di questa terra,
quando vi piacesse, vi parleria volentieri». Il quale vedendola, tutto
postosi mente e parendogli essere
un bel fante della persona, s’avvisò
questa donna dover di lui essere
innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora
in Napoli, e prestamente rispose
che era apparecchiato […]. Laonde
la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una
Il testo si propone di divertire
e al tempo stesso trasmettere
insegnamenti utili all’emergente classe borghese.
Novella (periodo storico
1348-1351).
Si può fare riferimento ai
mutamenti economici e
sociali che caratterizzano la civiltà del Trecento,
la quale imprime nuovo
slancio agli scambi commerciali ed è quindi caratterizzata da una maggiore mobilità. Nei loro
itinerari i mercanti italiani oltrepassano abitualmente i confini dell’Italia
per spingersi in alcune
regioni europee. Benché
siano più frequenti, gli
spostamenti all’interno
della penisola e dell’Europa restano comunque
rischiosi, fonti di insidie
e pericoli.
Laboratorio per l’esame
2
La novella ha al centro la tematica del viaggio, tipica della
emergente civiltà mercantile.
Prevale il gusto per l’intreccio,
interamente dominato dalle
bizzarrie del caso, dal gusto
per l’avventura intesa come
scoperta di cose nuove.
Andreuccio è inizialmente descritto come ingenuo e sprovveduto, ma anche presuntuoso.
Idea centrale
Rappresentare l’evoluzione del giovane
Andreuccio, che attraverso incredibili e sorprendenti avventure
egli approda infine alla
conquista del buon
senso.
Messaggio dell’autore
L’intelligenza, la capacità di volgere gli eventi a
proprio vantaggio, è la
virtù più importante.
Le sorprendenti avventure di
Andreuccio sono ambientate
in luoghi storicamente riconoscibili e si sviluppano lungo un
asse verticale: esse conducono
il protagonista attraverso improvvise cadute e brusche risalite. Dal vicolo della contrada
di Malpertugio alla porta della
ciciliana, all’affacciarsi dello
scarabone Buttafuoco, figura orchesca di mafioso dalla
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Testo
Schedatura
contrada chiamata Malpertugio,
la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra.
Ma esso, niente di ciò sappiendo
né suspicando, credendosi in uno
onestissimo luogo andare e a una
cara donna, liberamente, andata
la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa […]. Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli
bisognava. […] Era il caldo grande:
per la qual cosa Andreuccio […]
subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba […];
se n’andò quindi giuso […], ma
tutto della bruttura della quale
il luogo era pieno s’imbrattò. […]
E tardi dello inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un
muretto […], all’uscio della casa
[…] se n’andò […]. Uno che dentro dalla casa era, ruffiano della
buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle
finestre e con una boce grossa,
orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?». Andreuccio, a quella voce
levata la testa, vide uno il quale,
per quel poco che comprender
poté, mostrava di dovere essere
un gran bacalare, con una barba
nera e folta al volto, e come se
del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli
occhi […]. Andreuccio, più cupido
che consigliato, con loro si mise
in via […]. Andreuccio temendo
v’entrò, e entrandovi pensò seco:
«Costoro mi ci fanno entrare per
ingannarmi, per ciò che, come io
avrò loro ogni cosa dato, mentre
che io penerò a uscir dall’arca, essi
se ne andranno pe’ fatti loro e io
rimarrò senza cosa alcuna». E per
ciò s’avisò di farsi innanzi tratto
la parte sua; e ricordatosi del caro
anello che aveva loro udito dire,
come fu giù disceso così di dito il
trasse all’arcivescovo e miselo a
sé; […] a Perugia tornossi, avendo
il suo investito in uno anello, dove
per comperare cavalli era andato.
barba nera e folta che emerge
da una finestra dell’abitazione
della Ciciliana, preannunciata da
una voce grossa, orribile e fiera.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Proseguono le cadute e le risalite: dal pozzo in cui lo calano i due
ladri al ritorno in superficie ad
opera dei gendarmi; dalla tomba dell’arcivescovo alla spettrale
apparizione che gli consente di
uscire all’esterno.
Attraverso queste incredibili avventure si compie il percorso di
formazione di Andreuccio, che
da giovane ingenuo e sprovveduto si trasforma in mercante
accorto e previdente.
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Laboratorio per l’esame
3
•D1 Carlo Brambilla, Il manoscritto scoperto all’Ambrosiana di Milano
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
La straordinaria scoperta, del tutto casuale, si deve a un giovane
ricercatore dell’Università Cattolica di Milano, Marco Petoletti. Una
settimana fa lo studioso, scartabellando tra i preziosi volumi sulla
tradizione dei classici latini della Biblioteca Ambrosiana, viene attratto da un manoscritto medioevale
con gli Epigrammi di Marco Valerio
Marziale, ricco di note e corredato
da quattro piccoli disegni. […] Un
epigramma del nono libro di Marziale ricorda un personaggio un po’
squallido che si chiamava Filomuso,
abituato a raccontare fanmdonie. E
a fianco appare una postilla di Boccaccio, quasi invisibile, che ricorda il
suo personaggio di “frate Cipolla”. È
molto probabile che Boccaccio abbia recuperato il modello […] dalla
biblioteca di Montecassino, durante il soggiorno napoletano del 13621363. […]
Breve trafiletto di cronaca, fornisce le coordinate dell’informazione:
Articolo (periodo storico 18 febbraio 2006).
È necessario ampliare le
informazioni su Marco
Valerio Marziale (nato
nel 40 d.C. a Bilbilis, in
Spagna, dove muore nel
102), maestro nel genere
dell’epigramma: breve
componimento in esametri o distici elegiaci.
Originariamente impiegato per epigrafi e dediche votive, l’epigramma
diventa in seguito, ampliati i temi, il genere
della poesia d’occasione
per eccellenza, adatto
a celebrare l’amore e a
pungere con la satira
i personaggi della vita
pubblica. Marziale vi si
dedica in modo esclusivo, popolando i propri versi di personaggi,
circostanze e occasioni
tratte
dall’esistenza
quotidiana. L’obiettivo
del poeta latino è divertire il pubblico rappresentando con ironia i vizi, la
mancanza di valori e la
povertà morale della società romana del I secolo
d.C. È emblematica la figura di Filomuso, scaltro
parassita che, inventando fandonie, è in grado di
procurarsi una cena.
chi: Marco Petoletti, giovane
ricercatore universitario;
cosa: la scoperta di un manoscritto autografo di Boccaccio
contenente gli Epigrammi di
Marziale, corredato di annotazioni e postille;
dove: a Milano, nella Biblioteca
Ambrosiana;
quando: una settimana prima
della pubblicazione dell’articolo;
perché: obiettivo dell’autore è
inserire il Filomuso di Marziale
fra i modelli del frate di Boccaccio;
come: per caso.
Il personaggio boccacciano in
questione è l’astuto frate questuante protagonista della decima novella della sesta giornata del Decameron, dedicata
ai motti.
L’autore chiarisce le circostanze spazio-temporali della ricopiatura del codice.
Idea centrale
Indicare fra i modelli a
cui Boccaccio si sarebbe
ispirato per la creazione
del personaggio di frate
Cipolla un certo Filomuso, un parassita bugiardo cui Marziale accenna
negli Epigrammi.
Messaggio dell’autore
Informare il lettore
sull’importanza del ritrovamento del prezioso Marziale autografo
di Boccaccio.
Occorre inoltre ampliare
le notizie sul rapporto di
Boccaccio con la tradizione letteraria latina, alla
quale si accosta dopo la
stesura del Decameron,
grazie all’influenza di Petrarca.
Laboratorio per l’esame
4
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•D2 Gerald Kamber, Le fonti nel Decameron di due episodi di Pinocchio
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
(B) […] una notevole analogia fra
Andreuccio imbrattato e Pinocchio
successivamente annaffiato, bagnato, fradicio e impillaccherato
[…]. Prendendo Guccio come punto
di partenza, crediamo di aver dimostrato come gli elementi tanto
fisici quanto morali o psicologici del
personaggio sono stati spartiti in
modo sempre più attenuato, prima
fra Andreuccio e Buttafuoco, e poi
fra Pinocchio e Mangiafuoco. […]
Delle due parti della personalità di
Guccio, la parte brutale e prepotente (quella parte ereditata dal doppio
mostro Butta / Mangiafuoco) morirà con l’invecchiare degli eredi. La
parte giovanile però, questa fame e
sete insaziabili per le soddisfazioni
elementari, per l’esperienza nuova
insomma (in parte ereditata da Andreuccio e da Pinocchio) sarà salva
quando […] i due eroi riprenderanno
i loro panni e, ricoperta la loro nudità, saranno rivestiti dai drappi della
dignità umana. […]
La prima parentela individuata riguarda Andreuccio e Pinocchio, i quali condividono la
brutale esperienza dell’imbrattamento notturno.
Saggio (periodo storico
1969).
Occorre ampliare le informazioni su Pinocchio,
personaggio dell’omonimo romanzo di Carlo
Lorenzini, più conosciuto con lo pseudonimo di
Collodi (1826-1890); nel
1883 pubblicò in volume
Le avventure di Pinocchio, il romanzo per ragazzi più letto al mondo.
La seconda riguarda la figura di
Guccio Imbratta, il servo goffo
e sgraziato di frate Cipolla, le
cui caratteristiche positive e
negative sarebbero rintracciabili in altri personaggi boccacciani della seconda giornata,
attraverso i quali sarebbero
passati a protagonisti del Pinocchio di Collodi.
Idea centrale
Evidenziare la somiglianza fra il servo di
frate Cipolla e altri due
personaggi boccacciani,
Andreuccio da Perugia
e Buttafuoco, le cui caratteristiche fisiche e
morali sarebbero state
utilizzate da Collodi
nella creazione di Pinocchio e del burattinaio Mangiafuoco.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a riconoscere in Andreuccio e
Buttafuoco, Pinocchio
e Mangiafuoco gli eredi
letterari di Guccio Imbratta.
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Laboratorio per l’esame
5
articolo di giornale
Stesura
Struttura
Collodi copia Boccaccio
Dal Decameron a Pinocchio:
tra rozzi prepotenti, scaltri bugiardi e ingenui creduloni
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo.
Febbraio 2006 - Milano, Biblioteca Ambrosiana: un giovane ricercatore dell’Università Cattolica si imbatte per caso in un codice medioevale contenente gli Epigrammi del poeta latino Marziale (40-102 d.C.) e riconosce in alcune note la grafia di Giovanni Boccaccio. L’autore
del Decameron non si sarebbe limitato a copiare le poesie latine, forse durante il soggiorno
napoletano del 1362, ma ne avrebbe corredato i margini con annotazioni e postille, alcune
particolarmente vivaci, che ne registrano le sensazioni. È particolarmente interessante la nota
al trentacinquesimo epigramma del nono libro di Marziale, in cui il poeta latino ritrae in pochi
ironici versi un personaggio tratto direttamente dall’esistenza quotidiana, degno rappresentante della mancanza di valori e della povertà morale della Roma del I secolo d.C.: si tratta di
Filomuso, scaltro parassita in grado di procurarsi una cena inventando fandonie. La mente di
Boccaccio corre rapida al Decameron, alla decima novella della sesta giornata. A margine dei
versi latini annota: “Frate Cipolla”.
Le coordinate dell’informazione
chi: un giovane ricercatore;
cosa: scoperta di un marziale autografo di Boccaccio, corredato di note e postille;
dove: a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana;
quando: nel febbraio 2006;
perché: per caso.
Autunno 1969: sulla rivista Italica il critico Gerald Kamber rintraccia le caratteristiche fisiche
e morali di Guccio Imbratta, servo del frate Cipolla protagonista di una delle più spassose
novelle del Decameron, in altre figure boccacciane, nonché in alcuni personaggi del Pinocchio
di Collodi. Kamber afferma che gli elementi fisici, psicologici e morali che in Guccio Imbratta
costituiscono un carattere unitario sarebbero stati scomposti e attribuiti in modo sempre più
attenuato prima ad alcuni protagonisti della sesta giornata, Andreuccio e Buttafuoco, poi ai
personaggi collodiani di Pinocchio e Mangiafuoco.
chi: Gerald Kamber;
cosa: pubblicazione di un
saggio;
dove: sulla rivista Italica;
quando: nell’autunno 1969;
perché: per proporre il risultato dei propri studi su
alcuni personaggi del Decameron.
Ma quale relazione esiste fra un astuto frate questuante del Basso Medioevo e uno scaltro
parassita della Roma imperiale? E cosa ha a che fare il burattino di legno più celebre della letteratura per l’infanzia con il servo a dir poco grottesco di un monaco del Milletrecento?
Per trovare una risposta occorre partire proprio dalla nota novella del Decameron, la decima
della sesta giornata, che porta sulla scena la figura di Guccio. Essa celebra la prontezza di spirito e la spassosissima abilità oratoria di un astuto frate questuante dell’ordine di Sant’Antonio
abate, frate Cipolla, il miglior brigante del mondo; vero professionista dell’elemosina, egli è
disposto a spacciare per reliquia qualsiasi oggetto pur di far leva sulla superstiziosa credulità
degli abitanti di Certaldo e battere cassa. Pronto a offrire alla venerazione degli sciocchi niente
meno che una penna dell’agnolo Gabriello (in realtà la piuma di un pappagallo), è a sua volta
vittima di una burla messa in atto dai suoi compagni di brigata, che alla penna sostituiscono
del carbone; con una predica mirabolante e vertiginosa egli convince i fedeli accorsi che si tratta delle braci che arrostirono San Lorenzo e riesce, così, a beffare non solo gli amici burloni, ma
anche i contadini di Certaldo, i quali danno migliori offerte che usati non erano.
Spregiudicatezza, scarso senso morale e grande abilità di parola caratterizzano anche il personaggio di Marziale, quel Filomuso di cui poco apprendiamo dai versi del poeta latino.
Ciò che certo non può sfuggire è l’atteggiamento dei due autori: Boccaccio e Marziale sembrano condividere la medesima complicità verso l’astuzia dei personaggi e il senso di disprezzo
per le masse beffate. A essere giudicata negativamente non è l’immoralità dell’inganno, bensì
la stupidità di chi si lascia ingannare.
Corpo principale dell’articolo
Si spiega il come, soffermandosi sulla difficoltà di
individuare con certezza le
molteplici fonti di un’opera
letteraria. Ci si sofferma, in
particolare, sul confronto
fra alcuni personaggi del
Decameron e di Pinocchio.
Laboratorio per l’esame
6
Il primo confronto
Il frate predicatore e il parassita Filomuso.
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Torniamo al Decameron: complice involontario di beffa e contro beffa è l’improbabile servo di
frate Cipolla, Guccio, il cui ritratto campeggia al centro della novella: goffo, sudicio, sgraziato,
come annota con compiacenza divertita Boccaccio elencando i nomignoli a lui affibbiati. È
lo stesso frate a mettere in rima la descrizione del servo, in una divertente filastrocca per
la quale scomoda persino alcuni caratteri della prosa d’arte medioevale, introducendo parole
con terminazioni simili, allitterazioni, giochi fonici, bisticci verbali: Guccio è tardo, sugliardo
e bugiardo; negligente, disubbidiente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. E
avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa che
quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino. Fra le raffinate e molteplici qualità di Guccio
non manca dunque la presunzione! Convinto di essere un buon oratore quanto il suo padrone,
tenta invano (la stoffa non è quella del frate) con l’arte della parola di corteggiare la Nuta,
una serva altrettanto sconcia e deforme, grassa e grossa e piccola e mal fatta e con un paio di
poppe che parevan due cestoni da letame, tutta sudata, unta e affumicata. L’autore sceglie la
vena parodica e carnevalesca dell’anti-idillio per mettere in scena l’insolito corteggiamento tra
due esemplari di umanità non certo dotati di bellezza e di grazia, facendo ricorso a una serie di
armoniosi endecasillabi – era più vago di stare in cucina / che sopra i verdi rami l’usignuolo – che
ne fanno risaltare la natura disarmonica, in una scena grottesca.
Brutalità e prepotenza da un lato, fame e sete insaziabili dall’altro sono le caratteristiche che
Guccio avrebbe spartito con alcuni personaggi boccacciani e trasmesso indirettamente ad altri
protagonisti della letteratura.
L’erede diretto della fame di nuove esperienze di Guccio sarebbe secondo Kamber rintracciabile all’interno di una fra le più note novelle del Decameron, la quinta della seconda giornata,
la quale racconta con ritmo incalzante le sorprendenti avventure di Andreuccio da Perugia,
un giovane e sprovveduto mercante di cavalli, più cupido che consigliato, alla ricerca di facili
guadagni in una Napoli inquietante: attraverso sorprendenti avventure egli approda infine alla
conquista del buon senso, quella “industria” che caratterizza l’emergente borghesia italiana.
Una serie di cadute e successive risalite lo proiettano dal paradiso dell’amore inaspettatamente trovato nella casa della bella ciciliana all’abisso infernale e maleodorante del vicolo, fino
alla risalita sulla via e all’incontro col demoniaco scarabone Buttafuoco; quindi di nuovo giù a
precipizio in un pozzo, dal quale riaffiora come un’apparizione infernale, per poi sprofondare
nuovamente nella tomba dell’Arcivescovo di Napoli, da dove riemerge ancora una volta con
sembianze spettrali, avendo finalmente recuperato i propri averi.
Con il servo di Frate Cipolla Andreuccio condivide non solo l’ingenuità e il desiderio di compiere
nuove esperienze, ma anche la presunzione: parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse
allora in Napoli.
Il secondo confronto
Il rozzo servo e l’ingenuo
mercante.
Non è tutto: possiamo riconoscere l’adolescente ingenuo e sprovveduto che, spogliato non
solo degli averi, ma persino dei vestiti, riconquista infine denari, abiti e dignità umana, in una
strana notte in cui le aspettative più incredibili acquistano la consistenza della realtà, nel burattino Pinocchio, che attraverso numerose esperienze da semplice pezzo di legno si trasforma
in bambino in carne e ossa; con il bugiardo più simpatico della letteratura Andreuccio condivide persino l’esperienza della nudità e del brutale imbrattamento notturno.
Il terzo confronto
Andreuccio da Perugia e il
burattino Pinocchio.
Allo stesso modo, la figura orchesca di mafioso dalla barba nera e folta che emerge da una
finestra dell’abitazione della ciciliana, preannunciata da una voce grossa, orribile e fiera, e che
risponde al fantasioso nome di Buttafuoco, non può non richiamare alla memoria un altro
orco dell’immaginario infantile, il burattinaio Mangiafuoco, un omone così brutto che emetteva paura soltanto a guardarlo, dalla barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto
lunga che gli scendeva dal mento fino a terra, la bocca larga come un forno, gli occhi come due
lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, tra le mani una grossa frusta. Ed ecco l’altra
anima di Guccio, la prepotente brutalità che lo caratterizza.
Il quarto confronto
Lo scarabone Buttafuoco
e il burattinaio di memoria
collodiana.
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Laboratorio per l’esame
7
In realtà, risulta piuttosto difficile sostenere la teoria dell’esclusività del modello interno al
Decameron: un’opera letteraria si nutre di molteplici fonti, alle quali la creatività dell’autore
aggiunge elementi nuovi e originali, diventando a sua volta modello per le opere successive.
In questo caso, barba incolta, occhi di fuoco, voce potente potrebbero forse trovare un antecedente illustre nel traghettatore di anime di memoria dantesca: nel terzo canto dell’Inferno
irrompe sulla scena Caronte, un vecchio, bianco per antico pelo […] con gli occhi bragia e le
lanose gote, che si scaglia minaccioso contro i dannati negando loro ogni speranza di salvezza,
così come Buttafuoco con Andreuccio, il burattinaio con Pinocchio. Anche questo personaggio
condivide caratteristiche fisiche e morali con il già citato bizzarro personaggio del Decameron.
Difficile, dunque, stabilire quali siano i modelli che hanno ispirato la creatività del Boccaccio,
il quale peraltro dopo la composizione del Decameron si dedica con passione allo studio dei
classici e alla ricerca filologica di antichi manoscritti, incentivato anche dall’amicizia stretta
con Petrarca fin dal 1350.
La realizzazione del codice autografo contenente gli Epigrammi dovette, inoltre, avvenire durante il soggiorno napoletano del 1362-1363, che potrebbe aver consentito a Boccaccio di recuperare il modello per il proprio Marziale dalla biblioteca di Montecassino. Appare, dunque,
improbabile che per frate Cipolla egli abbia fatto riferimento al Filomuso del poeta latino, risalendo la stesura del Decameron alla metà del Trecento, mentre la copiatura degli Epigrammi
dovette avvenire dieci anni più tardi.
Confutazione
Si propongono alcune considerazioni sulla teoria di
Kamber; si propone un’ipotesi diversa.
Dunque, la novella dell’astuto frate e del servo sciocco si trova al centro di una fitta rete di parentele che la collegano a molteplici e diverse esperienze artistiche e letterarie e che la arricchiscono di memorie e di richiami. Essi inevitabilmente si presentano alla mente del lettore, così
come dovette essere per Boccaccio di fronte all’epigramma di Marziale, nel quale si riconobbe.
Conclusione
Si conferma l’ipotesi alternativa.
Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 490-492
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Lapaccio, Frate Cipolla e Calandrino: la superstizione» utilizzando il dossier
che si trova alle pagine 490-492.
• Franco Sacchetti, Lapaccio a letto con il morto (• T42)
• Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65) e Calandrino e l’elitropia (• T66)
• Alberto Asor Rosa, La “semplicità” di Calandrino (• D1)
• Giuseppe Petronio, La saviezza degli amici più cinici (• D2)
• Marina Montesano, La cultura magica in Boccaccio e in Sacchetti (• D3)
Schedatura dei documenti
•T42 Franco Sacchetti, Lapaccio a letto con il morto
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Fu a’ miei dì, e io il conobbi,
e spesso mi trovava con lui, però
che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse
detto: “Il tale è morto”, e avesselo
ritocco con la mano, subito volea
ritoccare lui; e se colui si fuggia,
e non lo potea ritoccare, andava
a ritoccare un altro che passasse
per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona,
averebbe ritocco o un cane, o una
gatta; e se ciò non avesse trovato, nell’ultimo ritoccava il ferro del
coltellino; e tanto ubbioso vivea,
che se subito, essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per certo di
far quella morte che colui per cui
era stato tocco, e tostamente […];
e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono grandissimo
diletto.
Avvenne per caso che […] da l’una
proda era un Unghero, il quale il
dì dinanzi s’era morto. Lapaccio,
non sapiendo questo (ché prima
si serebbe coricato in un fuoco che
essersi coricato in quel letto), vedendo che dall’altra proda non era
persona, entrò a dormire in quella.
[…] E stando tutta notte in questo
affanno e in pena, […] Lapaccio,
che parea più morto che ’l morto,
[…] studiossi d’uscir fuori più tosto che poteo per due cagioni che
non so quale gli desse maggior
tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che
l’oste se ne avvedesse; la seconda
Il testo si propone di divertire
il ceto borghese medio-basso,
narrando vicende comiche e paradossali.
Novella (periodo storico
1392-1397).
È opportuno ampliare le
informazioni sull’autore,
Franco Sacchetti (13301400), il maggior novelliere dopo Boccaccio. La
sua opera principale, Trecentonovelle, nasce sotto
l’influsso del Decameron,
dal quale però si discosta
per struttura, destinatari e stile: l’assenza della
cornice concede ampio
spazio all’autore, il quale
esprime la propria visione della realtà nelle “morali”, commenti conclusivi talvolta banalmente
moralistici che svelano
il senso del racconto.
Destinataria e al tempo
stesso protagonista del
Trecentonovelle è la media e bassa borghesia di
Firenze, alla quale Sacchetti offre una rappresentazione riconoscibile
della realtà quotidiana
e della quale riproduce il
linguaggio, caratterizzato da una sintassi elementare e da un lessico
aderente al parlato.
Le caratteristiche psicologiche
del protagonista emergono dai
suoi comportamenti e stati
d’animo; egli è oggetto di scherno e derisione per il suo terrore
della morte.
Per una bizzarria del caso, Lapaccio si trova a pernottare durante un viaggio in una locanda
nella quale, a sua insaputa (ché
prima si sarebbe coricato in un
fuoco che essersi coricato in quel
letto), viene messo a dormire
con uno sconosciuto morto il
giorno prima.
Idea centrale
L’eccezionalità
della bizzarria del caso e
della smisurata paura
superstiziosa del protagonista.
Messaggio dell’autore
Sollecitare la riflessione sulla paradossale vicenda di Lapaccio e sul
ruolo del caso.
Convinto, dopo averlo spinto a
terra con un calcio, di averlo ucciso, trascorre l’intera nottata
combattuto fra il timore delle
conseguenze del suo gesto e il
terrore superstizioso di condividere la stanza con un morto.
Scoperto infine l’accaduto, Lapaccio ne esce così profondamente colpito che in breve si
ammala e muore.
Nella morale l’autore spiega il
significato profondo della novella: per Sacchetti, tutti gli individui hanno manie e credenze;
a rendere eccezionale e degno di
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Si può, inoltre, ricordare
che alla fine del Trecento si affermò la cultura
umanistica, caratterizzata da una ritrovata
attenzione per la dimensione umana e terrena
Laboratorio per l’esame
1
Testo
Schedatura
per dilungarsi dal morto, e fuggire
l’ubbia che sempre si recava de’
morti. […] Veggendo l’oste quanto
costui era semplice, dice:
– Doh, sventurato! che Dio ti dia
gramezza; non vedestù lume iersera? O tu ti mettesti a giacere
con un Unghero che morì ieri dopo
vespro.
Quando Lapaccio udì questo, […]
poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con
un corpo morto e preso un poco di
spirito e di sicurtà, cominciò a dire
all’oste:
– […] Se tu me l’avessi detto, non
che io ci fosse albergato, ma io
sarei camminato più oltre parecchie miglia, se io dovessi essere
rimaso nelle valli tra le cannucci;
ché m’hai dato sì fatta battisoffia
che io non sarò mai lieto, e forse
me ne morrò.
[…] E ’l detto Lapaccio si partì,
andando tosto quanto potea,
guardandosi spesso in drieto per
paura che la Ca’ Salvadega nol seguisse, portandone uno viso assai
più spunto che l’Unghero morto, il
quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell’animo, che non gli fu piccola […].
Tornato che fu il detto Lapaccio a
Firenze, ebbe una malattia che ne
venne presso a morte.
Io credo che la fortuna, udendo
costui essere così obbioso e recarsi così il ritoccare de’ morti in
augurio, volesse avere diletto di
lui per lo modo narrato di sopra,
che per certo e’ fu nuovo caso,
avvenendo in costui: in un altro
non serebbe stato caso nuovo. Ma
quanto sono differenti le nature
degli uomeni! […] e cosí di molte altre cose fantastice e di poco
senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro.
essere raccontato il caso di Lapaccio è l’intensità della superstizione, quell’esasperata paura
della morte che alla morte finisce per condurlo.
Laboratorio per l’esame
2
Tipologia testuale
Integrazioni personali
dell’esistenza a scapito
di quella ultraterrena; ne
deriva un minor interesse per la cultura magica
in genere e per la superstizione in particolare.
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•T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Certaldo […] è un castello di Valdelsa […] nel quale, per ciò che una
buona pastura vi trovava, usò un
lungo tempo d’andare ogni anno una
volta a ricoglier le limosine fatte loro
dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla […].
Era questo frate Cipolla […] il miglior
brigante del mondo; e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo
parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente
un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tullio
medesimo o forse Quintiliano […].
«Di spezial grazia vi mostrerò una
santissima e bella reliquia, la quale
io medesimo già recai dalle sante
terre d’oltremare: e questa è una
delle penne dell’agnol Gabriello, la
quale nella camera della Vergine
Maria rimase quando egli la venne
a annunziare in Nazarette». […].
«Il venerabile padre Nonmiblasmete
Sevoipiace, degnissimo patriarca di
Ierusalem. Il quale […] volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali
egli appresso di sé aveva; […] ve ne
dirò alquante. Egli primieramente
mi mostrò il dito dello Spirito Santo
così intero e saldo come fu mai, e il
ciuffetto del serafino che apparve
a San Francesco, e una dell’unghie
de’ gherubini, e una delle coste del
Verbum-caro-fàtti-alle-finestre
e
de’ vestimenti della santa Fé cattolica, e alquanti de’ raggi della stella
che apparve a’ tre Magi in Oriente, e
un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la
mascella della Morte di San Lazzaro
e altre. […] E donommi […] la penna
dell’agnol Gabriello, […] e de’ carboni
co’ quali fu il beatissimo martire San
Lorenzo arrostito […].
E poi che così detto ebbe […] mostrò
i carboni: li quali poi che alquanto la
stolta moltitudine ebbe con ammirazione riverentemente guardati, con
grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla, e migliori offerte
dando che usati non erano […].
Il testo si propone di divertire
e al tempo stesso trasmettere
insegnamenti utili all’emergente classe borghese.
Novella (periodo storico
1348-1351).
Si può fare riferimento
al culto delle reliquie, il
quale si sviluppa in Europa soprattutto dopo il
Mille, in un momento di
crisi dell’ortodossia cattolica, attaccata da numerosi movimenti ereticali. La venerazione dei
resti sacri si trasforma,
però, ben presto in una
credenza superstiziosa,
ampiamente favorita da
predicatori e frati, che
spesso fanno mercato
delle reliquie, procurando ingenti donazioni e
grande fama ai propri
conventi e monasteri.
La devozione del popolo è rappresentata non come virtù cristiana, ma come espressione
della sua stupidità.
La beffa è concepita dal narratore come un inganno messo
in atto da personaggi dotati di
astuzia e intelligenza ai danni
di singoli individui o di gruppi privi di queste qualità; nel
nostro caso, Frate Cipolla si fa
gioco dei Certaldesi.
Idea centrale
L’intelligenza del frate
contrapposta alla stupidità del popolo di Certaldo, oggetto passivo
dello spirito di iniziativa e di intraprendenza
di Cipolla.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere la complicità
nei confronti dell’astuto protagonista e il
senso di disprezzo per
le masse beffate.
La beffa delle false reliquie si
sviluppa ai danni di una folla
anonima, inebetita dalla mirabolante predica di frate Cipolla,
vittima della propria superstiziosa credulità prima ancora
che della cinica astuzia del predicatore.
L’elenco delle improbabili reliquie vedute da frate Cipolla in
Gerusalemme è esilarante. La
credulità dei certaldesi è tale
che al termine della predica
essi donano all’astuto frate
più di quanto fossero abituati
a fare.
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Laboratorio per l’esame
3
•T66 Giovanni Boccaccio, Calandrino e l’elitropia
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Nella nostra città […] fu, ancora
non è gran tempo, un dipintore
chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più
del tempo con due altri dipintori
usava, chiamati l’un Bruno e l’altro
Buffalmacco, uomini sollazzevoli
molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan
per ciò che de’ modi suoi e della
sua simplicità sovente gran festa
prendevano. Era similmente allora
in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa
che far voleva astuto e avvenevole,
chiamato Maso del Saggio; il quale,
udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler
prender diletto de’ fatti suoi col
fargli alcuna beffa, o fargli credere
alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo un dì
[…] pensò essergli dato luogo e
tempo alla sua intenzione. E […]
insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre […].
Fu da Calandrin domandato dove
queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si
trovavano in Berlinzone, terra de’
Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano
le vigne con le salsicce […].
Calandrino semplice, veggendo
Maso dir queste parole con un viso
fermo e senza ridere, quella fede
vi dava che dar si può a qualunque
verità più manifesta, e così l’aveva
per vere; «[…] in queste contrade […]
due maniere di pietre ci si truovano
di grandissima virtù: l’una sono i
macigni da Settignano e da Montici, per virtù de’ quali, quando son
macine fatti, se ne fa la farina […].
L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che
qualunque persona la porta sopra di
sé, mentre la tiene, non è da alcuna
altra persona veduto dove non è».
[…] Calandrino, avendo tutte queste
cose seco notate, fatto sembiante
d’avere altro a fare,si partì da Maso.
Il testo si propone di divertire
e al tempo stesso trasmettere
insegnamenti utili all’emergente classe borghese.
Novella (periodo storico
1348-1351).
È opportuno ampliare
le informazioni sui lapidari medioevali, opere
di carattere didascalicomoralistico che attribuiscono alle pietre virtù
proprie, in grado di operare effetti straordinari, paragonabili a quelli
compiuti dalle reliquie
dei santi.
Laboratorio per l’esame
4
La novella presenta da un lato
Calandrino, noto per la sua
semplicità e per la sua disposizione a credere a qualunque
fandonia, dall’altra gli amici
burloni, i quali si accordano con
l’astuto mercante per beffare
l’ingenuo credulone.
Con la complicità del caso i burloni preparano la beffa.
Maso mette alla prova la semplicità di Calandrino descrivendo un mirabolante paese di
Bengodi.
Calandrino non comprende il
gioco di parole di Maso.
In Calandrino la credulità è accompagnata dalla presunzione
di prendersi gioco degli altri, i
quali invece si divertono alle
sue spalle.
Il movente che spinge il protagonista alla ricerca dell’elitropia è la cupidigia, il desiderio
di arricchirsi rapidamente con
mezzi illeciti.
Il narratore non perde occasione per porre in evidenza la stupidità del protagonista.
Idea centrale
Il testo associa all’immagine del protagonista il concetto di semplicità ingenua e superstiziosa, che assume
maggior rilievo in virtù
della contrapposizione
all’astuzia dei compagni Bruno e Buffalmacco e all’intelligenza di
Maso del Saggio.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere con gli astuti
burloni il divertito e
cinico disprezzo per il
protagonista
beffato: Boccaccio non giudica
negativamente
la cinica immoralità
dell’inganno, bensì la
stupidità di chi si lascia
ingannare.
In base a quanto stabilito con
Maso, Bruno e Buffalmacco
fingono di non vedere Calandrino e di essere stati beffati
da lui.
Calandrino crede di aver trovato l’elitropia; l’assurda presunzione lo spinge a ritenere di poter beffare gli astuti compagni.
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Testo
Schedatura
«[…] Noi la troveremo per certo, per
ciò che io la conosco; e trovata che
noi l’avremo, che avrem noi a fare
altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno
sempre cariche di grossi e di fiorini,
e tôrcene quanti noi ne vorremo?
Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente […].
A Calandrino, che era di grossa
pasta, era già il nome uscito di
mente […].
Secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?»
[…] «Deh come egli ha ben fatto»
disse allora Buffalmacco «d’averci
beffati e lasciati qui, poscia che noi
fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato
sì stolto che avesse creduto che in
Mugnone si dovesse trovare una
così virtuosa pietra, altri che noi?»
Calandrino, queste parole udendo,
imaginò che quella pietra alle mani
gli fosse venuta e che per la virtù
d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto
adunque oltre modo di tal ventura,
senza dir loro alcuna cosa, pensò di
tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.
[…] E in brieve in cotal guisa, or con
una parola e or con una altra, su per
lo Mugnone infino alla porta a San
Gallo il vennero lapidando […]; e in
tanto fu la fortuna piacevole alla
beffa, che, mentre Calandrino per
lo fiume ne venne e poi per la città,
niuna persona gli fece motto […]; la
moglie di lui, […] veggendol venire,
cominciò proverbiando a dire […].
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e
di dolore cominciò a gridare: «[…] Io,
sventurato! avea quella pietra trovata; […] giunto qui a casa, questo
diavolo di questa femina maladetta
mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le
femine fanno perder la virtù ad ogni
cosa […].
La moglie di Calandrino, ignara
della beffa, spezza inevitabilmente l’incantesimo, in quanto
fa mostra di vederlo; il protagonista, così ingenuo, ma anche
presuntuoso, da non pensare
neppure per un istante di essere stato beffato, attribuisce
la colpa della perdita di potere
dell’elitropia all’ignara monna
Tessa.
Tipologia testuale
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Integrazioni personali
Laboratorio per l’esame
5
•D1 Alberto Asor Rosa, La “semplicità” di Calandrino
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Il comico della pura beffa nasce
dalla contrapposizione stupidità /
astuzia, che viene praticata senza
esclusione di colpi. Questo rapporto
è crudele, perché Calandrino è uno
svantaggiato, che, oltre ad essere
di corto comprendonio, ha una capacità immaginativa superiore al
comune, poiché è disposto a vedere
cose che gli uomini normali riterrebbero inverosimili […]. Il “semplice” non è dunque propriamente
lo “sciocco”: è colui che è illuminato da una illimitata luce interna di
auto persuasione e di fiducia che
la realtà puntualmente s’incarica
di smentire (perciò Calandrino è un
immortale personaggio poetico,
contraddistinto da disillusioni sublimi).
La semplicità di Calandrino
non è pura stupidità: essa scaturisce da un’insolita capacità
immaginativa, che lo induce a
credere a ciò che agli altri appare inverosimile. Egli ha dunque in sé un lato poetico, che
ha origine dal contrasto fra le
sublimi illusioni di cui è capace
e il duro scontro con la realtà.
Saggio (periodo storico
2007).
Si può fare riferimento
al culto delle reliquie, il
quale si sviluppa in Europa soprattutto dopo il
Mille, in un momento di
crisi dell’ortodossia cattolica, attaccata da numerosi movimenti ereticali. La venerazione dei
resti sacri si trasforma,
però, ben presto in una
credenza superstiziosa,
ampiamente favorita da
predicatori e frati, che
spesso fanno mercato
delle reliquie, procurando ingenti donazioni e
grande fama ai propri
conventi e monasteri.
Laboratorio per l’esame
6
Idea centrale
Il testo individua nelle
novelle-beffa del Decameron il meccanismo
comico della contrapposizione fra stupidità
e astuzia, entro cui il
concetto di semplicità
non va necessariamente inteso come pura
stupidaggine, ma come
frutto di una straordinaria capacità immaginativa.
Messaggio dell’autore
Convincere il lettore che
il meccanismo comico
della beffa cela l’ideologia del Boccaccio, che
lo induce ad anteporre
il culto dell’intelligenza e il disprezzo della
stupidità a qualunque
valutazione di carattere morale.
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•D2 Giuseppe Petronio, La saviezza degli amici più cinici
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] La saviezza può trovarsi negli
animi più nobili e in quelli più cinici, può generare il mondo del senso e quello della tragedia, e senso
e spirito, beffa e tragedia, possono coesistere […]; questo mondo
ha bisogno di atteggiarsi in atto
come mondo dell’intelligenza e,
per celebrare il proprio ha bisogno
dei pecoroni da metter nel sacco.
Novelle perciò di intelligenza ed è
proprio l’intelligenza a salvare questo mondo che sarebbe orribile, se
lo si spogliasse di questa sua veste
intellettuale. […] L’unica passione
perciò che il Boccaccio porti in questo suo mondo è l’ammirazione per
i savi e nella composizione del racconto, nel ritmo del periodo, nella
conclusione dell’avventura, palpitano sempre questa gioia di veder
coronari di vittoria gli sforzi e la
superiorità di questi suoi eroi, l’infinito disprezzo, che solo raramente
si vela un po’ di pietà, per i pecoroni
e i gonzi.
Nel mondo creato da Boccaccio
l’intelligenza non è valutata in
termini etici o morali: essa è
piuttosto presentata come la
sola capacità dell’uomo di dare
un senso alla propria esistenza.
Saggio (periodo storico
1938).
Si può sottolineare come
l’intelligenza, espressa
soprattutto attraverso la
parola arguta ed elegante, diventi la virtù fondamentale all’interno della
nuova civiltà mercantile,
che non punta più sui
valori tradizionali, ma
sancisce il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia.
I personaggi intelligenti hanno
bisogno di antagonisti sciocchi
e creduloni sui quali imporre
la propria superiorità intellettuale. Dunque, i protagonisti
del Decameron si dividono in
astuti e sciocchi; per questi
ultimi solo raramente l’autore
mostra compassione.
Idea centrale
Le novelle di Boccaccio
sono dominate dalla
contrapposizione fra
stupidità e intelligenza,
ora nobile ora cinica; in
esse l’autore parteggia
sempre per gli astuti.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere tale tesi, prendendo come esempio la
novella di frate Cipolla.
•D3 Marina Montesano, La cultura magica in Boccaccio e in Sacchetti
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
[…] Il Sercambi e il Sacchetti testimoniano appieno […] l’estraneità
verso qualunque forma di pensiero
e d’azione che esuli dalle certezze della società borghese e di un
cristianesimo privo di slanci o di
curiosità intellettuali: l’universo di
maghi o postulanti, di monaci, preti e predicatori dall’incerta fama, è
guardato con sospetto e, se possibile, ridicolizzato; al pari di coloro –
in genere si tratta di “rustici” – che,
vittime della superstizione e della
stupidità, sono facilmente preda
dei raggiri. Ancor più significativamente, la magia “dotta” che aveva
trovato spazio ormai da almeno un
secolo nelle corti europee, non viene mai neppure presa in considerazione […].
Sacchetti guarda con sospetto alla superstizione popolare,
che ridicolizza nella sua totalità. Il disprezzo dell’autore colpisce indistintamente vittime
e carnefici, astuti mistificatori
e beffati creduloni.
Saggio (periodo storico
2000).
Integrazioni personali
Idea centrale
Sottolineare il totale disinteresse di Sacchetti,
organico alla cultura
borghese oramai dominante sul finire del
Trecento, per il mondo
della cultura magica in
generale, e in particolare della superstizione
popolare.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere tale tesi.
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Laboratorio per l’esame
7
Saggio breve
Stesura
Struttura
La superstizione medioevale nei novellieri del Trecento:
tra pietre magiche e false reliquie
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del
contenuto del saggio.
L’età medioevale è dominata da una cultura teocentrica, all’interno della quale la fede religiosa
è la chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura e dell’uomo. L’intero universo
è percepito come espressione della potenza di Dio, della quale tutte le creature conservano
impressa una traccia. La presenza divina nel creato si manifesta costantemente all’uomo attraverso il linguaggio della realtà sensibile, l’unico che egli possa comprendere durante la sua
esistenza terrena. All’uomo medioevale l’universo appare come un grande sistema di simboli,
che egli è chiamato a interpretare alla ricerca di un significato più alto, che appartiene all’ordine divino; realtà terrena e dimensione ultraterrena sono in continua comunicazione tra loro,
legati da rapporti di tipo simbolico. Ecco allora fiorire per tutto il Medioevo una ricca produzione di repertori di carattere didascalico-moralistico, bestiari, erbari e lapidari che attribuiscono
ad animali, piante e pietre precise valenze simboliche e ne precisano particolari virtù positive e
negative. Tra le molte credenze superstiziose che si diffondono nei secoli bui, una delle più irrazionali è senza dubbio quella che attribuisce alle pietre virtù proprie, che le rendono in grado
di operare effetti straordinari, paragonabili a quelli compiuti dalle reliquie dei santi.
Altrettanto diffusa e al limite della superstizione è la pratica del culto delle reliquie, fenomeno
che, da un punto di vista storico e spirituale, si inserisce nella crisi dell’ortodossia cattolica, minacciata da movimenti ereticali che ne mettono in dubbio i fondamenti. A tali attacchi la Chiesa risponde proponendo la venerazione dei resti sacri, che testimoniano l’esistenza terrena di
Cristo, degli apostoli e dei primi santi. Il ritrovamento delle tracce materiali che essi si sono
lasciati alle spalle e la conseguente venerazione corrispondono, a livello spirituale, alla volontà
di recuperare e vivere con maggiore intensità quel legame unico e irripetibile che l’esperienza
terrena di questi campioni della fede stabilisce tra la dimensione umana e quella ultraterrena,
tra l’umanità e Dio. Tuttavia, proprio il sentimento che ispira tale culto finisce ben presto per
confondersi con una primitiva forma di feticismo: la reliquia viene percepita non più come uno
strumento della potenza divina, quanto come un amuleto in grado di proteggere, difendere,
aiutare o salvare da ogni sorta di pericolo chiunque ne sia in possesso, come un talismano
dotato di una sua propria connaturata virtù, che può esercitarsi anche se il possessore non è in
grazia di Dio. La diffusione di questa forma di superstizione, che contravviene ai principi fondamentali del cristianesimo, è ampiamente favorita nei secoli bui da predicatori e da frati, che
spesso fanno mercato delle reliquie, vere o presunte che siano, procurando ingenti donazioni
e grande fama ai propri conventi e monasteri.
A partire dal Trecento, in seguito all’affermarsi della civiltà comunale e al dilagare della mentalità e dei modelli culturali borghesi, fanatismo religioso e credenze superstiziose, che spesso si alimentano a vicenda, cominciano ad attenuarsi: sulla dimensione puramente spirituale
dell’esistenza si afferma una visione più concreta e terrena, che si diffonde insieme al prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica borghese. Presso gli uomini di cultura del
Trecento ecco allora venir meno l’interesse per la cultura magica in generale, e per il suo livello
più popolare, la superstizione, in particolare: numerosi autori ne fanno oggetto di scetticismo
o addirittura di scherno.
Introduzione
Si pone in evidenza il dilagare nel Medioevo di
credenze superstiziose, le
quali trovano ampio consenso anche presso alcuni
uomini di cultura del Duecento.
Di fede e credenze superstiziose parlano in particolare alcune novelle che portano la firma di
Giovanni Boccaccio e Franco Sacchetti.
Boccaccio, in particolare, riprende nelle sue opere alcune delle superstizioni diffuse ai suoi
tempi; tuttavia, risulta più che evidente che ad esse non presta alcun credito. Ce ne offre
un’eloquente testimonianza la terza novella della Terza giornata del Decameron, in cui si tratta
dell’elitropia, magica pietra alla quale è attribuita la capacità di rendere invisibili. Il protagonista è Calandrino, un personaggio ispirato a un pittore fiorentino vissuto nella prima metà del
Trecento assai noto per la sua ingenuità, del quale anche altrove, nel Decameron, Boccaccio
Tesi
A partire dal Trecento gli
uomini di cultura come
Sacchetti e Boccaccio mostrano di non condividere
più tale fede superstiziosa,
in virtù dei mutamenti culturali e sociali avvenuti.
Laboratorio per l’esame
8
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esalta l’insuperabile stupidità, contrapponendogli scaltri burloni che si fanno beffe di lui.
Udendo un giorno l’astuto Maso del Saggio celebrare le virtù delle pietre preziose, Calandrino
chiede dove sia possibile trovarne. Il mercante risponde che esse si trovano per lo più in una
lontana contrada che ha nome Bengodi; tuttavia, ve ne sono anche nei pressi di Firenze, dove
è possibile imbattersi nell’elitropia, che rende l’uomo invisibile. Desideroso di trovare tale pietra, Calandrino ne va dunque alla ricerca con i compagni di brigata Bruno e Buffalmacco nel
letto del torrente Mugnone, dove gli amici, d’accordo con Maso, fingono di non vederlo e con
autentica cattiveria lo prendono a sassate come per caso. Convinto di avere trovato l’elitropia
e di essere diventato invisibile, Calandrino si affretta verso casa, dove la moglie, ignara della
beffa, rompe l’incantesimo facendo mostra di vederlo; non comprendendo di essere stato ingannato dai compagni, il marito incolpa la donna di aver privato l’elitropia della magica virtù
e la pesta a sangue.
Il fatto che all’interno della novella la superstiziosa credenza nelle virtù delle pietre sia posta
in stretta relazione con la sciocchezza di Calandrino, l’unico così ingenuo da credere a simili
fandonie, sembra autorizzarci a ritenere che l’autore, spirito scettico e beffardo, non presti
alcuna credibilità a simili convinzioni. Egli si mostra poco convinto di una fede religiosa dai
tratti superstizioni anche nella decima novella della Sesta giornata, al centro della quale è il
culto delle reliquie. Vi è narrata la vicenda di frate Cipolla, questuante di Sant’Antonio abate
che è solito recarsi ogni anno in Valdelsa a raccogliere donazioni approfittando della devozione del popolo, interpretata da Boccaccio come espressione di stupidità. Vero professionista
dell’elemosina, egli è disposto a spacciare per reliquia qualsiasi oggetto pur di far leva sulla superstiziosa credulità degli abitanti di Certaldo. Pronto a offrire alla venerazione degli sciocchi
niente meno che una penna dell’agnolo Gabriello (in realtà la piuma di un pappagallo), è a sua
volta vittima di una burla messa in atto dai suoi compagni di brigata, che alla penna sostituiscono del carbone; con una predica mirabolante e vertiginosa egli convince i fedeli accorsi che
si tratta delle braci che arrostirono San Lorenzo, riuscendo, così, a farsi beffe non solo degli
amici burloni, ma anche dei contadini di Certaldo, i quali danno migliori offerte che usati non
erano. L’autore sembra, dunque, poco propenso a prestare fede ai poteri attribuiti alle reliquie:
è straordinario, a questo proposito, l’esilarante elenco degli improbabili resti sacri veduti da
frate Cipolla in Gerusalemme: un dito dello Spirito Santo; il ciuffetto del Serafino che apparve
a San Francesco; un’unghia dei Cherubini; una delle costole del Verbo; le vesti della Santa Fede
cattolica; alcuni raggi della Stella cometa; un’ampolla del sudore di San Michele impegnato
nel combattimento col diavolo; la mascella della Morte che colpì San Lazzaro; un dente della
Santa Croce; un’ampolla contenete il suono delle campane del tempio di Salomone; la penna
dell’arcangelo Gabriele e le braci che martirizzarono San Lorenzo.
Boccaccio appare divertito dalla beffa, messa in atto da personaggi dotati di astuzia e intelligenza ai danni di gruppi assolutamente privi di queste qualità, e solidale nei confronti
dell’astuto protagonista, con cui condivide il disprezzo per le masse beffate. Come ha correttamente affermato il critico letterario Giuseppe Petronio in un saggio sul Decameron, l’unico
interesse di Boccaccio è l’ammirazione per gli individui astuti e intelligenti: egli gioisce sinceramente per le loro vittorie, mentre riserva infinito disprezzo, che solo raramente si vela di un
po’ di pietà, per i pecoroni e i gonzi, vittime della loro stupida credulità prima ancora che dei
beffatori. A essere giudicata negativamente non è l’immoralità dell’inganno, bensì la stupidità
di chi si lascia ingannare.
1° Argomento a favore della tesi
Attraverso l’analisi di alcune novelle del Decameron
si afferma lo scetticismo
di Boccaccio nei confronti
di alcune superstizioni popolari.
Il maggior novelliere dopo Boccaccio è Franco Sacchetti, la cui raccolta, intitolata Trecentonovelle, nasce alla fine del Trecento sotto l’influsso del Decameron, dal quale però si discosta
per struttura, priva di cornice, destinatari, i cittadini che appartengono alle Arti minori, stile,
che riproduce il linguaggio del popolo minuto nella sintassi elementare e nel lessico anche
dialettale, aderente al parlato. Al centro della novella intitolata Lapaccio a letto con il morto
la superstiziosa paura (l’ubbia che sempre si recava de’ morti) del protagonista, le cui caratteristiche psicologiche emergono dal racconto dei suoi comportamenti e dall’analisi dei suoi
2° Argomento a favore della tesi
Attraverso l’analisi di un
racconto del Trecentonovelle si afferma lo scarso
interesse di Sacchetti per
la superstizione popolare,
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Laboratorio per l’esame
9
stati d’animo: letteralmente terrorizzato dalla morte, è condotto da una bizzarria del caso a
pernottare durante un viaggio in una locanda nella quale, a sua insaputa (ché prima si sarebbe
coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), viene messo a dormire con uno sconosciuto morto il giorno prima. Trascorsa la notte nel timore di averlo ucciso e scoperto infine
l’accaduto, Lapaccio ne esce così profondamente colpito che in breve si ammala e muore. È
la morale, luogo deputato all’opinione dell’autore, a metterci a parte del significato profondo
della novella: per Sacchetti, tutti gli individui hanno manie e superstizioni, cose fantastice e di
poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro; a rendere del tutto eccezionale
il caso di Lapaccio e degno di essere raccontato è l’intensità di tale superstizione, l’esasperata
paura della morte che alla morte lo ha infine condotto. Come sostiene Marina Montesano in
un saggio sulla cultura magica nelle novelle toscane del Trecento, Sacchetti, intellettuale organico alla classe borghese, pragmatica e dotata di buon senso, disprezza profondamente la
cultura magica popolare: egli guarda con sospetto all’universo di maghi, monaci, predicatori di
incerta fama, e se possibile li ridicolizza; analogo trattamento sarebbe riservato a coloro che,
vittime della superstizione e della stupidità, sono facili prede di raggiri.
fatta oggetto di scherno e
derisione.
Le novelle di Boccaccio e Sacchetti appena analizzate attribuiscono il tema della superstizione a soggetti fra loro diversi: nella prima e nella terza novella campioni di credulità sono due
singoli individui, i cui processi psicologici e comportamentali emergono nel corso della narrazione; nella novella di fate Cipolla è invece l’intero gruppo dei certaldesi, una folla anonima e
inebetita dalla predica del frate, a cadere vittima della propria ingenuità. Calandrino e Lapaccio
evidenziano numerosi elementi in comune: entrambi sono individui propensi alla credulità,
alimentata da false credenze superstiziose; tuttavia, l’ossessiva superstizione di Lapaccio ha
origine da una profonda paura della morte e del malocchio, che si accompagna a una certa
ingenuità (era piacevole e assai semplice uomo); al contrario, come osserva il critico letterario
Asor Rosa, la credulità di Calandrino ha origine da una scarsa intelligenza ed è alimentata da
una capacità immaginativa superiore al comune, una illimitata luce interna di auto persuasione
e di fiducia che lo porta a rovesciare l’interpretazione della realtà, a credere in ciò che è fantastico e immaginario e a negare l’evidenza oggettiva degli avvenimenti. Entrambi i personaggi
sono vittime del caso, che appare propizio alla beffa nel Decameron (Calandrino non incontra
nessuno sulla strada che lo riporta a casa, per cui si rafforza in lui la convinzione di essere invisibile), crea le bizzarre condizioni che portano alla morte di Lapaccio.
I due protagonisti hanno, tuttavia, diversa indole: se Calandrino è, come sostiene Asor Rosa, un
personaggio profondamente poetico per la straordinaria capacità immaginativa che lo contraddistingue, la quale è però destinata ad essere puntualmente smentita dalla realtà, l’ossessiva paura
della morte fa di Lapaccio una figura tragica, come testimoniano l’angoscia della notte trascorsa
nel duplice timore delle conseguenze dell’omicidio che egli crede di aver commesso e della vicinanza del morto, la tragica scoperta della realtà dei fatti e il conseguente dramma della morte.
Circa la relazione dei personaggi con la superstizione, Lapaccio la subisce tragicamente, ne è
preda e vittima; in Calandrino la credulità è accompagnata dalla cupidigia, dall’aspirazione ad
arricchirsi con mezzi illeciti: la sua comicità consiste per l’appunto nella presunzione di prendersi gioco degli altri, i quali invece si divertono alle sue spalle. Frate Cipolla padroneggia la
superstizione altrui e la strumentalizza per trarne più ricche elemosine. Nel mondo di savi e
pecoroni che Boccaccio rappresenta nelle sue novelle, il frate è la cinica saviezza che mette nel
sacco gli sciocchi, previa legittimazione dell’autore.
3° Argomento a favore della tesi
Anche dal confronto fra i
testi dei due novellatori
emerge l’assoluta mancanza di fede di entrambi nella
superstizione.
In conclusione, le novelle analizzate ci permettono di affermare che né Boccaccio né Sacchetti
sembrano dare credito alla superstizione popolare, che diventa anzi oggetto di scetticismo
o addirittura di scherno. Organici alla civiltà comunale e alla mentalità e ai modelli culturali
borghesi, essi danno voce a una visione più concreta e terrena dell’esistenza, che si diffonde
insieme al prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica borghese. Fanatismo religioso e credenze superstiziose, che pure vengono da essi rappresentate, sembrano oramai
non avere più credito.
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 552-553
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «La rappresentazione del monaco nella letteratura medioevale» utilizzando
il dossier che si trova alle pagine 552-553.
• Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla (• T65)
• Jacopone da Todi, O amore de povertade (• D1)
• Anonimo, Invettiva contro i frati (• D2)
• Geoffry Chaucer, Il ritratto della monaca Eglantina (• D3)
• Gianni Celati, Gli inganni dei frati (• D4)
Schedatura dei documenti
•T65 Giovanni Boccaccio, Frate Cipolla
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Usò un lungo tempo d’andare
ogni anno una volta a ricoglier le
limosine fatte loro dagli sciocchi
un de’ frati di santo Antonio, il cui
nome era frate Cipolla. […]
Era questo frate Cipolla […] il
miglior brigante del mondo; […]
niuna scienza avendo, sì ottimo
parlatore e pronto era; […] quasi
di tutti quegli della contrada era
compare o amico o benevogliente.
[…] Erano […] due giovani astuti
molto, […] li quali […], ancora che
molto fossero suoi amici e di sua
brigata, seco proposero di fargli di
questa penna alcuna beffa. […]
E poi […] mostrò i carboni; li quali
poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione
riverentemente guardati, con
grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla […].
Il testo si propone di divertire e
al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente
classe borghese.
Novella (periodo storico
metà del Trecento).
Si può fare riferimento
al concetto di “brigata”,
un sistema sociale che
nasce in ambiente preborghese e si afferma
al tempo di Boccaccio: il
termine indica un gruppo di amici riuniti con
intenti prevalentemente
ludici. All’interno della
brigata assume un ruolo decisivo il “motto”,
inteso come capacità di
esprimere l’intelligenza
attraverso la parola. La
fiducia nella parola arguta ed elegante diventa
l’emblema della nuova
civiltà mercantile, che
non punta più sui valori
tradizionali (la nobiltà di
nascita), ma opera in una
società in movimento, in
cui la concorrenza produce il trionfo dell’ingegno
e dell’astuzia.
La devozione del popolo è interpretata da Boccaccio non come
virtù cristiana, ma come espressione della sua stoltezza.
La beffa è concepita dal narratore come un inganno messo
in atto da personaggi dotati di
astuzia e intelligenza ai danni di
singoli individui o di gruppi assolutamente privi di queste qualità: Frate Cipolla ordisce la beffa
ai danni dei Certaldesi, i suoi
compagni di brigata ingannano
il servo del frate.
La beffa delle false reliquie si
sviluppa all’interno dell’ambiente sociale della brigata, di cui il
frate stesso fa parte.
Idea centrale
Il testo associa all’immagine del frate i concetti di intelligenza e
di astuzia (il miglior
brigante del mondo, ottimo parlatore e pronto), la cui esaltazione
assume maggior rilievo
proprio perché contrapposta alla stoltezza del
popolo di Certaldo (gli
sciocchi, la stolta moltitudine), oggetto passivo dello spirito di iniziativa e di intraprendenza
del frate.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere con l’autore
la complicità nei confronti dell’astuto protagonista e il senso di
disprezzo per le masse
beffate. Ciò che conta
per Boccaccio non è la
moralità, quanto l’intelligenza: a essere giudicata negativamente non è l’immoralità
dell’inganno, bensì la
stupidità di chi si lascia
ingannare.
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Laboratorio per l’esame
1
•D1 Jacopone da Todi, O amore de povertade
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
O amore de povertate, / regno de
tranquillate! / Povertate, via sicura,
/ non ha lite né rancura, / de’ latron
non ha paura / né de nulla tempestate. / Povertate muore en pace,
/ nullo testamento face, / lassa el
mondo come iace / e le gente concordate.
L’amore per la povertà è lodato
come garanzia in terra di tranquillità e di serenità nei rapporti con gli altri, nei confronti dei
quali rende esenti da motivi di
lite, odio, invidia.
Lauda, componimento
poetico di ispirazione
religiosa sullo schema
metrico della ballata
(periodo storico seconda metà del Duecento).
Si deve accennare alla
nascita, nella prima
metà del XIII secolo, di
due nuovi ordini monastici, Francescano e Domenicano, di ispirazione
evangelico-pauperistica,
i quali, pur senza mettere in discussione i dogmi
della Chiesa e l’obbedienza al papa, contrappongono alla ricchezza e
al potere temporale della
curia pontificia il valore
della povertà e il ritorno
agli ideali morali e spirituali del Vangelo.
Idea centrale
Il poeta celebra la scelta della povertà, tipica
dell’ordine mendicante
fondato da San Francesco, esaltata come via
certa per la conquista
della serenità in terra.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a condividere con l’autore
la lode della povertà
come scelta di vita, in
contrapposizione agli
aspetti mondani e terreni della realtà, dei
quali sono denunciate
la caducità e la vanità.
Laboratorio per l’esame
2
Occorre, inoltre, ricordare l’appartenenza di
Jacopone da Todi all’ordine francescano e la
sua sincera adesione
agli Spirituali, corrente
interna
caratterizzata
dalla volontà di rigorosa
obbedienza all’originaria
regola di San Francesco, delineatasi fin dalla
morte del fondatore in
contrapposizione ai Conventuali, propensi a mitigarne l’asprezza.
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•D2 Anonimo, Invettiva contro i frati
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
I’ sì mi sto con que’ religiosi, / religiosi no, se non in vista, / che fan la
cera lor pensosa e trista / per parer
a le gentii più pietosi; / e sì si mostran molto soffre tosi / e ’n tapinando ciascheduno acquista […]. /
E queste son le lor grandi astinenze! / Po’ van la povertà altrui abbellendo.
Il testo si ispira alla tradizione
toscana comico-realistica, della quale propone i toni.
Sonetto (periodo storico fine Duecento).
È opportuno citare l’attribuzione del Fiore, rimaneggiamento toscano del celebre romanzo
allegorico francese Roman de la Rose, a Dante Alighieri; inevitabile,
pertanto, fare riferimento all’atteggiamento di
profonda condanna nei
confronti della corruzione della Chiesa e del
clero che percorre l’intera
Commedia. In particolare, si possono citare i
frati gaudenti collocati
nella bolgia infernale
degli ipocriti (sesta bolgia, ottavo cerchio, canto
XXIII).
Con sarcasmo e ironia l’anonimo pone l’accento sul contrasto fra l’attenzione riservata
alle apparenze dai frati, i quali
si preoccupano di mostrarsi
religiosi, pietosi, soffrettosi, e
la loro reale natura, propensa
all’inganno e al vizio della gola
più che all’astinenza, all’ipocrisia più che al buon esempio.
Idea centrale
L’anonimo evidenzia,
attraverso le parole di
Falsembiante,
l’ipocrisia di alcuni frati, il
cui comportamento è
assolutamente lontano dagli ideali morali e
spirituali del Vangelo e
tradisce la regola della
povertà.
Messaggio dell’autore
La sarcastica polemica contro la corruzione
dei costumi dei monaci
intende suscitare la riprovazione del lettore
soprattutto nei confronti dell’ipocrisia di
chi tenta di celare, con
falsi sembianti, le proprie mancanze e debolezze.
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Laboratorio per l’esame
3
•D3 Geoffry Chaucer, Il ritratto della monaca Eglantina
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Una monaca, una priora [sic],
dal sorriso semplice e modesto;
[…] e si chiamava madre Eglantina.
Cantava il servizio alla perfezione,
intonandolo con un leggiadro accento nasale, e parlava francese
speditamente e con eleganza […].
Le belle maniere erano la sua gioia
più grande. S’asciugava sempre il
labbro superiore così bene, che nella sua coppa […], e si serviva dei cibi
con moltissimo garbo. […] Si sforzava d’imitare le maniere di corte
e d’aver modi dignitosi per essere
stimata degna di reverenza.
La monaca ha di semplice e
modesto solo il sorriso; ogni
altro atto o atteggiamento è
studiato al fine di apparire perfetto.
Il prevalere dell’apparenza (le
buone maniere) sulla sostanza
(la sincerità della fede e della
vocazione) è sottolineato dagli
avverbi e aggettivi che evidenziano la cura e l’attenzione della monaca per le belle maniere.
Novella (periodo storico
fine Trecento).
Si può fare riferimento
al fatto che nei Racconti di Canterbury Chaucer
muove dal modello boccacciano del Decameron,
per offrire una fotografia della società inglese
di fine Trecento, dando
vita a un vero e proprio
microcosmo sociale rappresentato con grande
realismo.
Idea centrale
Rappresenta con ironia
il desiderio di mondanità dei membri degli
ordini monastici, impegnati
nell’imitare
con affettazione i modi
educati e il fare cerimonioso delle corti aristocratiche: le belle maniere sono la principale
e unica fonte di gioia e
di rispetto.
Messaggio dell’autore
L’intenzione dell’autore non pare quella di
condannare con forza
la mancanza di contenuti che caratterizza
la monaca Eglantina,
né di suscitare la conseguente riprovazione
del lettore; a prevalere
è l’intento di rappresentare con realismo
e ironia un fenomeno
ricorrente nella società
inglese della fine del
Trecento.
Laboratorio per l’esame
4
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•D4 Gianni Celati, Gli inganni dei frati
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Puccio si consuma in digiuni,
mentre il monaco in un’altra stanza
prende piacere con sua moglie […].
Lo spirito della novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su
un generale inganno: l’inganno delle parole per spacciare come dogmi
le rimasticature di ciarle, i castelli
di panzane, i panegirici di frottole,
le prediche dei preti per inebetire
le folle o le invenzioni dei frati per
sfogare le voglie carnali. […]
Si sottolinea l’uso spregiudicato delle parole.
Saggio di critica letteraria (cronologia 20062007).
Si possono menzionare
i modelli letterari delle
due novelle, i quali rimandano alla letteratura
goliardica europea, caratterizzata dal rovesciamento parodico dei miti
e dei riti della religione
dominante: si pensi al
motivo tradizionale delle
false reliquie o al topos
delle prediche mistificatorie, in cui l’uso spregiudicato delle parole è
finalizzato a ingannare
un pubblico di sciocchi.
Idea centrale
Oggetto di studio sono
le vicende e il significato di due novelle della
terza giornata del Decameron:
entrambe
aventi per protagonisti
due astuti e disonesti
frati, pronti a sfruttare
la propria astuzia e la
dabbenaggine dei mariti per godersi le mogli
(righe 6-10).
Messaggio dell’autore
Il critico intende mostrare al lettore i meccanismi narrativi e
l’ideologia che caratterizzano le novelle di
Boccaccio, il quale antepone il culto dell’intelligenza e il disprezzo
della stupidità a qualunque valutazione di
carattere morale.
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Laboratorio per l’esame
5
TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta
Introduzione
Si illustrano le origini del monachesimo e se ne delinea l’evoluzione attraverso i cosiddetti “secoli bui”, soffermandosi in
particolare su due avvenimenti:
• la nascita della monarchia papale e il progressivo allontanamento della Chiesa dalla povertà e dallo spirito evangelico delle origini;
• il manifestarsi, fra XII e XIII secolo, di un intenso spirito
di rinnovamento di ispirazione evangelico-pauperistica,
che si concretizza nella violenta contestazione a opera
dei movimenti ereticali e nel tentativo di rinnovamento
dall’interno condotto dai nuovi ordini francescano e domenicano.
Problema
Quale atteggiamento sviluppano gli autori della letteratura
medioevale in merito alla figura del monaco e alla sua evoluzione attraverso i secoli?
Tesi
L’immagine che la letteratura medioevale propone del monaco varia al mutare della mentalità e dei modelli culturali
dominanti.
• Quando è prevalente la dimensione spirituale dell’esistenza e la vita terrena continua a essere percepita come
preparazione alla vita eterna, la letteratura da un lato
esalta la scelta di vita monastica, dall’altro condanna severamente il monaco che, corrotto dalla brama di potere
e di beni terreni, tradisce gli ideali e lo spirito evangelico
della Chiesa delle origini.
1° Argomento a sostegno della tesi
Attraverso alcuni esempi letterari, che denunciano ora la corruzione, ora l’ipocrisia del monaco, si rileva l’influenza esercitata sulla rappresentazione della figura del monaco dalla
mentalità medievale, interamente incentrata sulla fede.
• In seguito, quando la dimensione terrena dell’esistenza
comincia a essere rivalutata e la responsabilità individuale assume un ruolo sempre più importante nel modo di
vivere e interpretare le proprie scelte di fede, la condanna
si attenua a vantaggio di un atteggiamento sempre più
ironico e sarcastico: all’invettiva o all’accesa polemica subentra ora una sorta di comicità più o meno involontaria.
Jacopone da Todi, appartenente all’ordine mendicante dei
Francescani e sostenitore della corrente rigoristica degli Spirituali, contrappone alla caducità e alla vanità dei beni terreni
la pace spirituale della scelta della povertà.
2° Argomento a sostegno della tesi
Con toni ironici e sarcastici l’anonimo autore del Fiore, che
alcuni critici hanno identificare in Dante Alighieri, denuncia
l’ipocrisia di alcuni frati, il cui comportamento è assolutamente lontano dagli ideali morali e spirituali del Vangelo e
tradisce la regola della povertà; a prevalere sulla sarcastica
polemica contro la corruzione dei costumi dei monaci è so-
prattutto la condanna dell’ipocrisia di chi tenta di celare, con
false apparenze, le proprie mancanze e debolezze.
Significativi in questo senso i frati gaudenti collocati da Dante nella bolgia infernale degli ipocriti (sesta bolgia, ottavo
cerchio, canto XXIII).
3° Argomento a sostegno della tesi
Ben diverso l’atteggiamento di Boccaccio, organico al ceto
mercantile di cui rappresenta la mentalità, il quale contrappone al giudizio morale la lode dell’intelligenza e l’abilità
di parola del frate; il saggio di Celati consente di ampliare
le osservazioni ricavate dalla novella di Frate Cipolla fino a
individuare nel Decameron un vero e proprio topos del monaco astuto il quale, in virtù della propria intelligenza anche
verbale, è in certo qual modo legittimato a farsi beffe della
stupidità altrui.
4° Argomento a sostegno della tesi
Nel racconto di Chaucer, autore inglese di fine Trecento, il
realismo prevale su qualunque intento morale; il desiderio
di mondanità della monaca Eglantina e la sua cura nell’imitare con affettazione i modi educati e il fare cerimonioso
delle corti aristocratiche ne fa la portatrice di una comicità
certamente involontaria. All’invettiva o all’accesa polemica
subentra ora una sorta di bonario distacco.
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 554-555
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «I limiti della scienza medioevale» utilizzando il dossier che si trova alle
pagine 554-555.
• Brunetto Latini, Il basilisco (• D1)
• San Bonaventura da Bagnoregio, La manifestazione della potenza di Dio (• D2)
• Piero de’ Crescenzi, L’influenza degli astri sulla semina (• D3)
• Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, La questione della formazione della terra (• D4)
Schedatura dei documenti
•D1 Brunetto Latini, Il basilisco
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Basilisco […] corrumpe l’aria e
guasta gli arbori, e ’l suo vedere
uccide gli uccelli per l’aria volando,
e col suo vedere attosca l’uomo
quando lo vede […]: tutto che gli
uomini anziani dicono che non
nuoce a chi lo vede in prima. […] E
con tutto ch’egli sia così fiero, si lo
uccide la bellula.
Il brano è tratto da un bestiario,
repertorio di animali, veri o favolosi, di cui indica le virtù, il potere segreto e il significato morale.
Voce di enciclopedia
(periodo storico 12601266).
È opportuno ampliare
le informazioni sui bestiari medioevali, opere
di carattere didascalicomoralistico che attribuiscono agli animali
caratteristiche fisiche e
comportamentali ricavate da repertori fantastici,
le quali non hanno alcun
rapporto con la realtà; a
tali qualità sono conferiti significati simbolici,
mentre gli animali diventano emblema di vizi
e virtù. Frequente è il
rimando alle Sacre Scritture.
Modello di riferimento
per tutti i bestiari del
Basso Medioevo è il Fisiologo, trattatello in
greco del I-II secolo d.C.
Sulla base del racconto
biblico, il suo autore presenta il serpente come
simbolo della tentazione
del male e del demonio,
dal quale solo Dio può liberare l’uomo.
L’autore rappresenta il basilisco
come monstrum, creatura prodigiosa dalle caratteristiche straordinarie e poco verosimili. Egli
pone in particolare evidenza la
pericolosità di questo favoloso
serpente, dotato della capacità
di contaminare e infettare tutte
le creature che entrano in contatto con lui.
Del basilisco sono svelati anche i
punti deboli: non arreca danno a
chi lo guarda per primo, può essere ucciso dalla donnola.
Idea centrale
Le straordinarie caratteristiche del basilisco
hanno un preciso significato simbolico e
vanno interpretate in
senso morale; egli rappresenta la tentazione
del male e del demonio.
Messaggio dell’autore
La tentazione del male
e di Satana è potente,
ma può essere neutralizzata o addirittura
sconfitta con l’aiuto di
Dio.
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Laboratorio per l’esame
1
•D2 San Bonaventura da Bagnoregio, La manifestazione della potenza di Dio
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
L’origine delle cose […] rivela la potenza di Dio che ha prodotto il tutto
dal niente, la sua sapienza che ha
sì ben distinto tutti gli esseri, la
sua bontà […]. La grandezza delle
cose […] ci manifesta chiaramente
l’immensità della potenza, della
sapienza e della bontà di Dio, che è
uno e trino nel medesimo tempo, e
che esiste in tutte le creature colla sua potenza, la sua presenza e
la sua essenza senza essere circoscritto da nessuna di esse.
La creazione dell’universo è
frutto della potenza, della sapienza e della bontà di Dio,
principio di tutte le cose create, nelle quali egli si manifesta
senza esserne circoscritto.
Trattato di teologia
(periodo storico 1259).
Si può fare riferimento
ad alcune metafore assai
diffuse in età medioevale per rappresentare
l’intrusione
dell’aldilà
nella dimensione terrena: il mondo è sovente
paragonato (Ugo di San
Vittore, Dante Alighieri)
a un libro scritto da Dio, il
quale si serve della realtà materiale per parlare
all’uomo nell’unico linguaggio comprensibile
durante la sua esistenza
terrena.
Altrettanto diffusa la
metafora del mondo terreno come specchio del
divino.
Idea centrale
L’intero universo è
espressione di Dio, del
quale tutte le creature
conservano impressa
una traccia; il mondo
terreno e quello ultraterreno costituiscono
due realtà in continua
comunicazione.
Messaggio dell’autore
L’universo non ha valore in sé, ma per ciò a cui
allude e rimanda, un significato più profondo
che appartiene all’ordine divino.
•D3 Piero de’ Crescenzi, L’influenza degli astri sulla semina
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] È da attendere […] che il seme
si sparga […], quando dal Cielo ha
maggiore ajutorio: e questo è allora, ch’egli è ajutato dal caldo e
dall’umido, e dal vivifico lume del
Sole e della Luna insiememente:
perciocché la Luna, perché la terra è
prossimana, regge e governa tutte
le cose della terra, e ajuta a pullulare e a mettere […].
Il trattato si propone un chiaro
intento didattico e pratico.
Trattato di agricoltura
(periodo storico fine
Duecento-inizio
Trecento).
È possibile ampliare le
informazioni
facendo
riferimento alla convinzione, assai diffusa nel
Medioevo e ben rappresentata nella Divina
Commedia, della forte
influenza esercitata dalle sfere celesti sulla natura e sull’indole degli
uomini.
L’autore insiste sul potere vivificante dei due corpi celesti;
in particolare, attribuisce alla
Luna la capacità di favorire la
germogliazione dei semi.
Idea centrale
Le sfere e i corpi celesti possono esercitare
un’influenza sugli avvenimenti terreni.
Messaggio dell’autore
Tra i fenomeni naturali
è possibile individuare
legami magico-intuitivo, dei quali l’uomo
deve avere consapevolezza al fine di sfruttarli
a proprio vantaggio.
Laboratorio per l’esame
2
Si può ricordare che non
solo il mondo animale,
ma anche quello vegetale e minerale sono indagati in età medioevale
come insieme di simboli
divini, dei quali si propone l’interpretazione in
Erbari e Lapidari.
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•D4 Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, La questione della formazione della terra
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Il peso della tradizione si avverte
nell’idea che gli scienziati medievali
ebbero della terra e dell’universo e
che fu esemplificata da Dante nella
Divina Commedia.
Dante credeva che la terra […]. La
spiegazione di questa credenza
deve essere cercata nella convinzione degli scienziati medievali che
l’universo fosse formato da quattro
elementi, la terra, l’acqua, l’aria e il
fuoco […].
Gli autori intendono indagare
le ragioni per cui gli scienziati
medioevali non considerano
l’universo come insieme di elementi e fenomeni da indagare
nella loro dimensione concreta,
fisica e oggettiva, bensì come
sistema di segni da interpretare in chiave allegorica.
I due storici individuano in
Dante il paradigma della mentalità medioevale e indicano
nell’eccessivo peso attribuito alla tradizione i limiti della
sua concezione della terra e
dell’universo.
Saggio (periodo storico
2007).
Si possono ampliare le
informazioni sul rapporto fra Medioevo e tradizione classica citando
i Padri della Chiesa e il
loro tentativo di reinterpretare la cultura pagana
in chiave allegorica, alla
luce della rivelazione cristiana; la Bibbia diventa
il testo cardine che al
tempo stesso integra e
dà senso ai testi della
cultura antica.
Dante riprende il sistema dei
quattro elementi primari, fuoco, aria, acqua e terra, elaborato dal filosofo e matematico
greco Empedocle nel V secolo
a.C.
Idea centrale
La concezione della terra e dell’universo esemplificata da Dante nella
Commedia è emblematica dell’influenza esercitata dalla tradizione
classica sulle scienze
medioevali.
Messaggio dell’autore
I limiti della conoscenza
scientifica medioevale
hanno origine dall’eccessiva
importanza
attribuita alla tradizione, da un patrimonio
di convinzioni e conoscenze ereditato dagli
antichi che la cristianità ha assimilato acriticamente. La scienza
medioevale appare dominata dal principio di
autorità piuttosto che
da quello della libera
ricerca.
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Laboratorio per l’esame
3
TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta
Introduzione
La cultura medioevale è teocentrica: la fede religiosa è la
chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura
e dell’uomo; la conoscenza non può trovare verità se non in
Dio.
Problema
Quale concezione della scienza sviluppano gli uomini del Medioevo? Quali sono le ragioni di tale interpretazione dell’indagine scientifica?
Tesi
L’universo è concepito come un grande sistema di simboli
divini, che l’uomo è chiamato a interpretare. Il mondo naturale non ha valore in sé, ma per ciò a cui allude e rimanda:
un significato più alto, che appartiene all’ordine divino, e che
Dio comunica all’uomo attraverso il linguaggio dell’esperienza sensibile, il solo che egli possa comprendere durante la
vita terrena.
La natura non obbedisce a leggi proprie, ma alla volontà di
Dio; manca, quindi, nel Medioevo un’indagine autonoma e
concreta dei fenomeni naturali, concepiti piuttosto come oggetto di studio della teologia.
Occorrerà attendere il Rinascimento perché si possa assistere a una rivalutazione della natura per se stessa e al conseguente sviluppo di un’indagine autonoma dei fenomeni
naturali, affidata dapprima alla magia e all’alchimia, poi alla
scienza vera e propria.
1° Argomento a sostegno della tesi
San Bonaventura sostiene che l’intero universo è espressione
della potenza di Dio, delle quali tutte le creature conservano
impressa una traccia; la presenza divina si manifesta costantemente all’uomo attraverso il linguaggio della realtà sensibile. Mondo terreno e mondo ultraterreno sono, dunque, in
continua comunicazione tra loro: il Trattato di agricoltura di
Piero de’ Crescenzi evidenzia come tra i fenomeni naturali sia
possibile individuare legami di tipo magico-intuitivo.
Si approfondisce il concetto facendo riferimento alle metafore tipicamente medioevali del mondo terreno come specchio
di Dio e dell’universo come libro scritto dalla mano divina.
2° Argomento a sostegno della tesi
Attraverso alcuni esempi letterari si pone in evidenza l’influenza esercitata sulla visione del mondo naturale e sull’indagine scientifica dalla mentalità teocentrica medievale:
• il brano di Brunetto Latini evidenzia la tendenza dei “secoli bui” a indagare il mondo animale non in termini realistici e concreti, ma come insieme di simboli divini, dei
quali si tenta di cogliere il significato spirituale e morale;
• inoltre è tipica del Medioevo la compilazione di Lapidari
ed Erbari, repertori di pietre ed erbe i quali, oggetto di
un’indagine puramente simbolica, sono associati a vizi e
virtù interpretati a scopi esclusivamente morali;
• la Commedia di Dante, disseminata di similitudini tratte
da essi (Inferno, Canto I) testimonia la notevole fortuna
dei bestiari per tutto il Medioevo.
3° Argomento a sostegno della tesi
Studi più recenti riconducono i limiti della scienza medioevale all’eccessiva importanza attribuita alla tradizione classica
greco-latina, un patrimonio di conoscenze ereditato dagli
antichi che la cristianità assimilò senza verificarne la concretezza e la validità. È emblematica la concezione della terra
e dell’universo di matrice aristotelico-tolemaica applicata da
Dante all’architettura della Commedia; altrettanto significativo è il Libro della composizione del mondo (1282), trattato
di cosmologia in cui Ristoro d’Arezzo indaga i diversi aspetti
dell’universo rifacendosi principalmente ad Aristotele.
4° Argomento a sostegno della tesi
A partire dal Trecento si assiste a una progressiva emancipazione della cultura scientifica dall’autorità degli antichi e
dalla teologia a vantaggio di una maggiore attenzione all’osservazione diretta dei fenomeni naturali, indagati nella loro
dimensione oggettiva al fine di individuare le leggi che li
regolano e li controllano. Il precursore di questa tendenza è
Francesco Bacone, che nell’Opus maius individua come basi
del metodo di indagine scientifica della realtà l’osservazione
e l’esperienza: alla Bibbia e alle opere classiche si sostituisce
il libro della natura.
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
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laboratorio per l’esame
Volume 1, p. 658
Articolo di giornale
Componi un articolo di giornale sull’argomento: «Il paese di Cuccagna» utilizzando il dossier che si trova alla pagina 658.
• Giovanni Boccaccio, Il paese di Bengodi (• D1)
• Anonimo, Piacevole viaggio di Cuccagna (• D2)
• Luigi Pulci, Morgante e Margutte (• T85)
• Teofilo Folengo, L’invocazione alle muse (• T88)
Schedatura dei documenti
•D1 Giovanni Boccaccio, Il paese di Bengodi
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
In Berlinzone, terra de’ Baschi,
in una contrada che si chiamava
Bengodi, […] si legano le vigne
con le salsicce, ed avevavisi una
oca a denajo ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta
di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti
che niuna altra cosa facevan che
far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi
gli gittavan quindi giù, e chi più
ne pigliava più se n’aveva; ed ivi
presso correva un fiumicel di vernaccia della migliore che mai si
bevve, senza avervi entro gocciola
d’acqua.
Il testo si propone di divertire e
al tempo stesso trasmettere insegnamenti utili all’emergente
classe borghese.
Novella (periodo storico
1348-1351).
È opportuno fare riferimento alla scarsa qualità
della vita della maggior
parte della popolazione
nel Trecento, la quale
rende più comprensibile
il sogno di un paradiso
degli appetiti.
La novella, la terza dell’Ottava
giornata, contrappone la semplicità di Calandrino, capace di
credere a qualunque fandonia,
all’astuzia degli amici burloni
Bruno e Buffalmacco, i quali si
accordano con lo scaltro sensale
Maso del Saggio per beffare l’ingenuo credulone. È proprio Maso
a mettere alla prova la semplicità di Calandrino descrivendogli il
mirabolante paese di Bengodi.
Idea centrale
La rappresentazione di
un luogo le cui caratteristiche soddisfino
finalmente
l’atavica
fame del popolo del
Basso Medioevo.
Messaggio dell’autore
La condanna della
sciocca credulità di Calandrino, destinatario
della vertiginosa e mirabolante descrizione.
•D2 Anonimo, Piacevole viaggio di Cuccagna
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
’Ntrai in un bel giardino: / con salsicce le vigne son legate; / un fiume c’è, ch’è di perfetto vino! / io
n’ho bevuto certe scorpacciate! / E
cappon cotti van per quel confino; /
montagne v’è di cacio grattugiato,
/ e una donna che fa maccheroni, /
e favvisi laggiù di gran bocconi.
Il componimento costituisce
parte del più ampio resoconto
in versi di un viaggio tra osterie
in cui si mangia e si beve senza
spendere nulla.
Il topos del locus amoenus, il
bel giardino che fa da sfondo
alle sublimi esperienze cantate
dalla poesia “alta”, è sovvertito
in nome della materialità e della insaziabile voracità.
Componimento in versi
(periodo storico 1558)
È opportuno segnalare
gli spunti tratti dal Decameron: la descrizione
boccacciana del paese di
Bengodi sembra essere stata letteralmente
messa in versi dall’anonimo cesenate.
Idea centrale
La rappresentazione di
un luogo le cui caratteristiche soddisfino
finalmente i bisogni
primari di un popolo
abituato a combattere
quotidianamente con
la fame.
Messaggio dell’autore
L’eccezionalità del paese di Cuccagna.
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Laboratorio per l’esame
1
•T85 Luigi Pulci, Morgante e Margutte
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Rispose allor Margutte: «A dirtel tosto, / io non credo più al nero
ch’a l’azzurro, / ma nel cappone,
o lesso o vuogli arrosto; / e credo
alcuna volta anco nel burro, / nella cervogia, e quando io n’ho, nel
mosto, / e molto più nell’aspro che
il mangurro; / ma sopra tutto nel
buon vino ho fede, / e credo che sia
savio chi gli crede;
Protagonista di questa a dir
poco bizzarra professione di
fede è Margutte, mezzo gigante irriverente e materialista, che sopperisce alle proprie
carenze fisiche con l’astuzia e
l’abilità della parola. Furfante
senza scrupoli, si dichiara privo
di valori religiosi, ai quali sostituisce un credo materialistico
e gastronomico, come testimoniano le irriverenti allusioni
ai misteri della fede. Le sue
parole rimandano a un mondo
alla rovescia, in cui i più alti e
nobili ideali cedono il passo a
un’istintività elementare, che
si manifesta nel bisogno smodato di cibo e nella ricerca della
soddisfazione immediata della
propria voracità, ottenuta con
il ricorso all’astuzia e, se necessario, alla violenza.
Poema
cavalleresco
(periodo storico 1478).
È possibile porre in evidenza il legame che
unisce l’irriverente e
materialista professione
di fede di Margutte alla
poesia comico-realistica
del Due-Trecento, in particolare ai versi di Cecco
Angiolieri, nonché alla
tradizione carnevalesca,
che rovescia beffardamente quanto vi possa
essere di serio e sacro.
e credo nella torta e nel tortello:
/ l’uno è la madre e l’altro è il suo
figliuolo; / è ’l vero paternostro è il
fegatello, / e posson esser tre, due
ed un solo, / e diriva dal fegato almen quello. […]»
Laboratorio per l’esame
2
Idea centrale
La parodia popolaresca
del cavaliere medioevale attraverso la bizzarra
coppia cavalleresca di
Morgante e Margutte.
Messaggio dell’autore
La condivisione con il
lettore del capovolgimento e della dissacrazione dei più nobili valori e ideali, abbassati a
una dimensione materiale e corporea.
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•T88 Teofilo Folengo, L’invocazione alle muse
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Ma prima bisogna invocare il
vostro aiuto, o Muse che scodellate l’arte macaronica. O che potrà
forse la mia gondola districarsi in
mezzo agli scogli del mare, se non
l’avrà protetta il vostro aiuto? Non
Melpomene, non Talia minchiona,
non Febo che gratta il chitarrino
mi dettino i carmi; se infatti considero la cavità della mia pancia …
non si conviene alla nostra poesia il
chiacchiericcio del Parnaso. Soltanto le Muse panciute […] vengano ad
imboccare di macaroni il loro poeta
e gli diano da cinque a otto vassoi
di varie polente. Queste sono le famose dee grasse, le ninfe che colano unto, la cui residenza, il paese,
il territorio loro proprio è nascosto
in un remoto angolo del mondo […].
Colà si innalza fino alle scarpe della Luna una montagna: […] montagne fatte di formaggio tenero,
duro e mezzano. […] Là scorrono a
valle profondi fiumi di brodo, che
fanno un lago di zuppa, un mare di
sugo. Vi si vedono andare e venire
zattere, barche, grippi maneggevoli
tutti fatti di pasta per torte; in essi
le Muse manovrano lacci e reti, reti
di salsicce, intrecciate di trippe di
vitello e pescano gnocchi, frittelle e gialle polpette. […] Ci sono là
pendii di burro fresco e tenero, sui
quali fumano fino alle nubi caldaie
piene di casoncelli, di macaroni e di
tagliatelle. Le Muse abitano sulla
cima dell’alto monte e grattugiano
in continuazione formaggio […].
Nel rispetto della tradizione
epica classica e cavalleresca, il
Baldus si apre con un Proemio:
fin dal primo verso, tuttavia,
appare evidente che esso non
corrisponde alle convenzioni.
Anziché rivolgersi alle Muse, le
nove figlie di Zeus, protettrici
delle arti e delle scienze, Folengo invoca le grasse Camene,
affinché riempiano la pancia
del loro protetto di maccheroni
e polenta.
Poema epico-cavalleresco in lingua maccheronica (periodo storico
prima metà del Cinquecento).
È opportuno porre in evidenza la funzione consolatoria del mito della
dimora delle Camene
creato da Folengo, nuovo Parnaso senza leggi
né governo nel quale penuria, carestia, fatica e
violenza quotidiana sono
bandite in nome di una
totale soddisfazione dei
più elementari appetiti.
Inoltre, la descrizione di
questo mondo alla rovescia ricorda le meraviglie
boccacciane della contrada di Bengodi.
All’immagine di Apollo che
suona la cetra si contrappone
ora quella di Febo armato di
chitarrino; alla navicella dell’ingegno di dantesca memoria si
sostituisce la folcloristica gondola.
Persino la dimora delle Camene sovverte la tradizionale
immagine dell’Olimpo: non più
eteree divinità serafiche e distanti, nutrite di ambrosia, ma
montagne di formaggio, fiumi
di brodo, reti di salsicce, tortelli e maccheroni cucinati su
pendii di burro fresco sui quali
le Muse panciute grattugiano
formaggio senza sosta.
Idea centrale
L’originalità trasgressiva del Proemio che agli
schemi e alle immagini
della letteratura alta
sostituisce la cultura
popolare, attraverso il
continuo riferimento al
mondo del cibo e della
digestione.
Messaggio dell’autore
La condivisione con il
lettore di tale capovolgimento, cogliendone
al contempo la funzione consolatoria.
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Laboratorio per l’esame
3
articolo di giornale
Stesura
Struttura
«Re: Qual è il più lungo giorno che ci sia?
Bertoldo: Quel che no se magna!»
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo.
(G.C. Croce, Le sottilissime astuzie di Bertoldo)
Periferia di Milano, qualche giorno fa: un grosso ipermercato di una nota catena commerciale
promuove “a volantinaggio battente” la vendita a prezzo di costo del più ambito iPhone di
ultima generazione. Unico limite all’offerta promozionale l’esiguo numero dei pezzi in vendita.
Sabato mattina, pochi minuti primi dell’apertura del centro commerciale: decine e decine di
persone si ammassano e si accalcano a ridosso degli ingressi, nella speranza di accaparrarsi
almeno uno degli ultraconvenienti iPhone.
Ore 9, si aprono le porte: fra urti, spintoni e gomitate, imprecazioni e liti scatenate dalla precedenza nella fila, un indistinto e concitato flusso di agguerriti consumatori si riversa all’interno
del centro commerciale e procede veloce e deciso in direzione del reparto nel quale è venduto
l’ambito oggetto del desiderio. Rapidità d’azione e spregio dei diritti di precedenza altrui consentono infine a pochi fortunati di conquistare l’ultratecnologico iPhone. Agli altri non resta
che avviarsi all’uscita, che varcano un po’ malconci, delusi e abbattuti, non senza aver prima
consultato l’elenco delle future offerte e promozioni.
Le coordinate dell’informazione
who: una folla di agguerriti
consumatori;
what: l’offerta promozionale di un iPhone di ultima
generazione;
where: alla periferia di Milano, presso un grande centro commerciale;
when: qualche giorno fa;
why: per accaparrarsi almeno uno degli scontatissimi
iPhone.
Già, perché in una società del benessere e dell’abbondanza, in cui l’unica preoccupazione di
natura alimentare non è riempire la pancia, bensì mantenerla tonica e piatta, è un ipermercato
a incarnare il mito del paese di Bengodi, un centro commerciale a farsi mitico luogo di delizie,
dove non mancano sconti, saldi e offerte promozionali che trasformano oggetti superflui nel
sogno proibito delle masse. Ben diversa la fisionomia e il significato culturale assunti dal paese di Cuccagna nel passato: il mito nasce in età medioevale in un’Europa travagliata da miseria, fame e carestie ricorrenti. Nei primi secoli del secondo millennio, nonostante le innovazioni
introdotte nel settore agricolo (utensili in ferro, rotazione delle colture), la produzione alimentare resta scarsa, facilmente compromessa da eventi atmosferici e da conflitti tra potenti,
avvenimenti frequenti e improvvisi che contribuiscono a spiegare come l’uomo medioevale
sia continuamente ossessionato dall’incertezza e dallo spettro della penuria di cibo. Il sogno
più diffuso fra la gente comune, afflitta da una cronica precarietà alimentare, diventa allora
una sorta di paradiso sulla terra, un mitico luogo di delizie dove non mancano mai buon cibo
e abbondanti libagioni, un mondo alla rovescia in cui sono soprattutto le esigenze del corpo a
farsi sentire e a trovare appagamento. Mito nato dalle frustrazioni collettive generate da un
sistema economico e sociale basato sui privilegi di pochi, il paese di Bengodi si caratterizza
come un grande banchetto popolare, destinato soprattutto a poveri e affamati, che possono
trovarvi appagamento a ogni bisogno e appetito animalesco.
Corpo principale dell’articolo
Si sottolinea la differenza
fra la società dei consumi di
oggi e quella dei bisogni di
ieri, ricostruendo l’origine
e l’evoluzione del mito del
paese di Bengodi così come
è documentata all’interno
della letteratura italiana fra
Medioevo e Rinascimento.
Ce ne fornisce una mirabile descrizione Giovanni Boccaccio, in una nota novella del Decameron:
l’astuto sensale Maso di Saggio racconta all’ingenuo Calandrino del mitico paese di Bengodi,
in una vertiginosa serie di trovate verbali e di giochi di parole che hanno come unico intento
quello di inebetire il povero credulone. Per stuzzicare l’acquolina di Calandrino, Maso sostiene
che in questo favoloso luogo le viti sono legate da ghiotte e grasse salsicce; con pochi denari si
può comprare un’oca, con l’aggiunta di un papero, da arrostire e gustare; su un’enorme collina
di parmigiano grattugiato innumerevoli cuochi cucinano senza sosta ravioli e maccheroni, che
cuociono in brodo di cappone e poi gettano al popolo, perennemente animato da atavica fame;
a soddisfare la sete, un fiume di autentica vernaccia.
La prima testimonianza
Il paese di Bengodi in una
novella del Decameron di
Boccaccio.
Laboratorio per l’esame
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È però in età Umanistico-Rinascimentale che l’immagine del mitico paese di Bengodi si afferma e si diffonde: la sua fortuna è in qualche modo connessa alla nuova sensibilità che
caratterizza il periodo storico. La società medioevale è dominata da una cultura fortemente
teocentrica, all’interno della quale il destino dell’uomo trova piena realizzazione solo nella dimensione ultraterrena. A partire dal Trecento, tuttavia, tale sensibilità è messa in discussione
dalle esperienze letterarie di autori come Petrarca e Boccaccio, i quali anticipano la progressiva
rivalutazione della dimensione terrena dell’esistenza e la nuova mentalità umanistica, che
pone l’uomo al centro dell’universo: agli ideali della fede si contrappongono, ora, i più alti valori dell’individuo, la libertà, la dignità, l’intelligenza, la capacità di dominare la fortuna. Guida
indispensabile alla nuova società, caratterizzata dalla celebrazione dei valori terreni e dallo
sviluppo armonico delle capacità e dei bisogni dell’uomo, sono i classici, lontani dall’ascetismo
medioevale e concentrati sull’uomo e sulle sue attività mondane, dai quali intellettuali e uomini di cultura ricavano il culto dell’armonia, dell’equilibrio e della misura. Gli umanisti procedono quindi alla rivalutazione della dimensione corporea dell’uomo, all’elogio della bellezza e
della ricerca del piacere, non più demonizzati come fonte di dannazione spirituale, ma celebrati come parte integrante e ineludibile dell’individuo; anche la natura, emancipata dall’autorità
degli antichi e dalla teologia, è ora indagata nella sua dimensione oggettiva.
A una società e a una ideologia ufficiali, che esaltano nell’individuo i valori ideali e i sentimenti
più nobili, la cui sede sono l’intelletto e il cuore, che si ostinano a ignorare l’aspetto “basso”,
che sublimano le pulsioni nella misura in cui ne reprimono la libertà, la rivelazione della corporeità capovolge letteralmente l’uomo. Il motivo della pancia, del cibo e della sua digestione
ricorda che l’essere umano è in primo luogo una realtà sede di processi biologici i quali, poiché
assicurano la sopravvivenza e il benessere di ogni individuo e dell’intera specie, non possono
essere ignorate.
La seconda testimonianza
Il mitico paese di Cuccagna
diventa, in età umanisticorinascimentale, l’emblema
di una cultura popolare
che, rivalutando la dimensione materiale e corporea
dell’uomo, si contrappone
alla cultura alta e ufficiale.
Proprio l’intento parodico anima le più significative opere i cui autori hanno affrontato il tema
del paese di Bengodi. Ricordano per alcuni tratti le atmosfere del Decameron i personaggi di
Morgante e Margutte, fra i più noti e originali protagonisti del poema epico-cavalleresco di
Luigi Pulci, parodia popolaresca delle canzoni di gesta ben note al pubblico della corte medicea
alla quale l’autore si rivolge alla fine del Quattrocento, in cui si intrecciano in toni comici e
bizzarri tradizione carolingia e materia bretone. Morgante, il gigante ingenuo e bonario dalla
forza bruta e primitiva che dà il nome al poema e il mezzo gigante Margutte, irriverente e
materialista, che sopperisce alle proprie carenze fisiche con l’astuzia e l’abilità della parola: i
due sono protagonisti di un mondo alla rovescia, in cui gli ideali nobili ed eroici della cavalleria
e del galateo cortese cedono il passo a un’istintività elementare, che si manifesta nel bisogno
smodato di cibo e nella ricerca della soddisfazione immediata dei propri appetiti, ottenuta con
il ricorso all’astuzia e, se necessario, alla violenza. Proprio la smisurata voracità di questa bizzarra coppia cavalleresca, mirabilmente narrata nell’episodio dell’osteria, richiama alla memoria del lettore la novella del Boccaccio in cui Maso del Saggio ammalia Calandrino decantando
le infinite delizie della contrada di Bengodi.
Le boccacciane meraviglie del mitico paese sono riprese quasi alla lettera e messe in versi da
un anonimo poeta cesenate, il quale alla metà del Cinquecento racconta il mirabolante viaggio
compiuto attraverso alcune osterie nelle quali si mangia e si beve senza spendere nulla. In particolare, nel riferimento al bel giardino, trasformato immediatamente nel paese di Cuccagna, è
possibile riconoscere l’intento parodico: il tradizionale topos del locus amoenus, ricorrente nella lirica del Trecento e ripreso dal petrarchismo cinquecentesco, è ora sovvertito e rovesciato in
nome della materialità e della voracità, sulla scorta dell’esempio di Boccaccio.
Il Baldus di Teofilo Folengo, opera in cui il paese di Cuccagna è descritto con una originalità
maggiore rispetto ai testi precedentemente citati, è un poema epico-cavalleresco in lingua
maccheronica della prima metà del Cinquecento, in cui la vena parodistica e dissacratoria
dell’autore raggiunge gli esiti più significativi: Folengo vi rappresenta un mondo privo di regole, sottratto a qualsiasi logica, deformato e caotico, in cui agli alti ideali dell’intelletto e del
cuore si contrappongono i bassi istinti corporali del ventre e della pancia. Anche la lingua del
La terza testimonianza
Le interpretazioni del paese di Bengodi in alcune
opere letterarie del Cinquecento.
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Laboratorio per l’esame
5
poema, frutto di una profonda contaminazione fra volgare, dialetto e latino, rafforza i risultati
dell’intento comico e parodico. Particolarmente significativo in questo senso il Proemio con
cui, nel pieno rispetto della tradizione epica classica e cavalleresca, il poema si apre: fin dal
primo verso, tuttavia, appare evidente al lettore che ciò che sta leggendo non corrisponde
affatto alle convenzioni. Anziché rivolgersi alle Muse, le nove figlie di Zeus che la tradizione
classica venera come protettrici delle arti e delle scienze, Folengo invoca le panciute Camene,
le famose dee grasse, le ninfe che colano unto, affinché riempiano la pancia del loro protetto
di maccheroni e polenta. Persino la dimora delle Camene sovverte la tradizionale immagine
dell’Olimpo, che è ora ribaltata in un mondo alla rovescia la cui descrizione ricorda le meraviglie
boccacciane della contrada di Bengodi: non più eteree divinità, serafiche e distanti, nutrite di
ambrosia, ma montagne di formaggio, fiumi di brodo, reti di salsicce, tortelli e maccheroni
cucinati su pendii di burro fresco sui quali le Muse grattugiano senza sosta formaggio. All’immagine di Apollo che suona la cetra si contrappone quella di Febo armato di chitarrino; alla
navicella dell’ingegno di dantesca memoria si sostituisce una folcloristica gondola.
In conclusione, l’azzardato paragone suggerito in apertura tra il paese di Bengodi e alcuni
aspetti del consumismo odierno ci consente di compiere alcune riflessioni: come il mito, anche
la caccia al saldo e la corsa spietata all’offerta promozionale hanno origine da frustrazioni
collettive. È però evidente che tali frustrazioni non sono generate, come in passato, da un
sistema economico e sociale basato sui privilegi di pochi, che condanna molti all’incertezza
e alla precarietà economica. Esse nascono, al contrario, da una condizione di benessere generalizzato al cui interno, garantito il soddisfacimento delle necessità primarie, la società dei
consumi crea falsi bisogni e vacue necessità per appagare le quali si è disposti a tutto. Ben
diverso per spessore culturale e letterario il tradizionale paese di Cuccagna, definitivamente
privato nella rilettura in chiave moderna da noi suggerita di quella corrosiva e dissacrante capacità critica nei confronti della cultura ufficiale che lo aveva caratterizzato in età umanisticorinascimentale.
Laboratorio per l’esame
6
Conclusione
Si attualizza il tema con
alcune considerazioni sulla
società dei consumi di oggi.
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Volume 1, pp. 694-695
Analisi del testo
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 694-695.
• Gaspara Stampa, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
O voi, che ascoltate in queste tristi rime, in questi tristi e malinconici toni il suono dei miei lamenti d’amore e delle mie sofferenze, le più intense fra tutte, se ci sarà qualcuno che ne apprezzi e ne giudichi il valore, spero di trovare fra le genti nobili
non solo perdono ma gloria, per i miei lamenti, poiché la loro motivazione è così elevata (l’amore per il conte di Collalto). E
spero anche che qualche donna sia indotta a dire: «Fortunatissima lei, che sopportò per una così nobile ragione un così nobile tormento! Oh, perché non mi è toccata la fortuna di un amore così grande per un signore tanto nobile, che mi porrebbe
alla pari di una simile signora (l’autrice dei versi)?».
2. Analisi del testo
2.1 La poetessa si abbandona ai sentimenti e alle fantasie del proprio mondo interiore, che confida a un pubblico ristretto,
come emerge fin dalla prima strofa del sonetto: l’infelice passione amorosa, la più intensa delle sofferenze dell’io lirico,
genera lamenti dal cui suono hanno origine i componimenti poetici; meste sono le rime ispirate al tormento d’amore, mesti e oscuri gli accenti e i toni che ad esso danno espressione. Gli amorosi lamenti alludono all’infelice passione per il Conte
Collatino di Collalto, il nobil signor incontrato a Venezia frequentando gli ambienti mondani della città: con lui la poetessa
padovana intraprese una relazione sentimentale infelice e tormentata, che descrisse in numerosi componimenti raccolti
dalla sorella e pubblicati postumi in un canzoniere, sorta di diario d’amore dalla struttura dichiaratamente petrarchesca,
che comprende trecentoundici liriche.
2.2La poetessa rivolge le proprie rime al selezionato uditorio mondano, circoli letterari e case signorili, con il quale condivide
l’ideale di una vita sociale e culturale improntata all’armonia formale, ed elabora nuovi ideali e raffinati codici di comportamento che regolano ogni aspetto della vita sociale, inclusa l’esperienza amorosa. La società aristocratica alla quale
l’io lirico si rivolge è l’unica in grado di apprezzare il valore delle rime e di attribuire alla poetessa la gloria letteraria che
potrebbe in parte compensare l’intensità della sofferenza d’amore.
2.3La forza del sentimento che anima Gaspara e la nobiltà dell’amato potranno essere presso il pubblico femminile fonte di
invidia e impulso a emulare la spregiudicata condotta della poetessa innamorata, il suo abbandonarsi alla passione.
2.4Il chiasmo al verso 11 è interamente giocato sull’area semantica della nobiltà, intesa, in termini feudali e aristocratici,
come nobiltà ereditaria, conseguita per nascita e per diritto di sangue: alla sublimità della causa delle sofferenze amorose, quel sì nobil signor citato al v. 13, corrisponde la nobiltà del tormento stesso.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto e adotta nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA
ABBA, nelle terzine la combinazione CDE CDE, ovvero tre rime ripetute in ordine diretto, come nel sonetto petrarchesco
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, utilizzato apertamente come fonte. Tuttavia, alla lirica cinquecentesca manca
l’interiorizzazione del dissidio tra passione amorosa e pentimento morale, che in Petrarca si traduce nella sublimità dei
versi e nell’accurata selezione delle parole: in proposito, si noti la straordinaria capacità evocativa degli accostamenti
delle parole poste in rima fra loro, per cui ad esempio core (cuore) rima con errore, dolore con amore.
3.2Nel sonetto della Stampa mancano soprattutto la conflittualità della coscienza, la lacerazione psicologica e morale che
accompagnano la tormentata vicenda sentimentale di Petrarca, a cui allude l’espressione rime sparse: combattuto fra
l’intensità della passione per Laura, la vanità di quel lungo e colpevole amore e il desiderio di innalzarsi dai beni terreni
alla conquista di valori eterni, l’io lirico approda all’ineluttabile sentimento della labilità di ogni vicenda umana, inclusi gli
affetti (il giovenile errore), le speranze, il dolore che un tempo ebbero il potere di colmare di sé l’esistenza e l’anima del
poeta (quanto piace al mondo è breve sogno). La poetessa, invece, non interpone una distanza temporale fra sé e l’amore
per il conte Collatino, mai superato, anzi sempre attuale; non ne mette in dubbio la liceità morale e spirituale, non mostra
alcun segno di pentimento o di vergogna per l’essersi abbandonata alla passione. Al contrario, fa della sofferenza amorosa un motivo di orgoglio e di successo in società, uno strumento di conquista della gloria letteraria: un’esperienza così
fortunata non potrà non suscitare presso le altre donne invidia e desiderio di emulazione.
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Laboratorio per l’esame
1
La stesura del testo
Commento
Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario
Gaspara Stampa nacque a Padova intorno al 1523 da una famiglia milanese di estrazione borghese, con cui nel 1531 si trasferì a Venezia,
dove si compì la sua educazione letteraria e musicale. Donna colta e
raffinata, divenne in breve una figura di spicco della vita culturale e
mondana della città, in cui condusse un’esistenza libera e spregiudicata: fra i suoi amori occupò un posto di rilievo la passione per il conte
Collatino di Collalto, che si protrasse dal 1548 al 1551 e si concluse bruscamente con l’abbandono della poetessa.
All’infelice e tormentata relazione sentimentale è dedicata la maggior parte delle liriche della Stampa, trecentoundici componimenti
di modello petrarchesco raccolti nelle Rime e pubblicati a cura della
sorella lo stesso anno della sua prematura scomparsa, avvenuta nel
1554.
Il Canzoniere della Stampa mostra l’evidente adesione ai modelli del
petrarchismo cinquecentesco, del quale ricalca motivi e stilemi, semplificati e resi meno aridi e ripetitivi dalla sincerità tutta nuova con
cui la poetessa rivela ai lettori il proprio mondo interiore, un universo femminile mai confessato prima con tanto coraggio. La raccolta,
pervasa da un accentuato autobiografismo, esprime la forza dei sentimenti e del tormento della passione amorosa, che l’autrice fa rivivere nel testo con autenticità. Tuttavia, proprio questa sincerità che
conferisce originalità ai versi finisce col costituirne il limite primo: la
confessione dei moti dell’animo tende, infatti, a esprimersi in forme
immediate e prosastiche, quasi discorsive, escludendo una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico. Alla forza
del sentimento non corrisponde, dunque, un efficace dominio degli
strumenti espressivi.
È diffuso il giudizio per cui il valore della poesia della Stampa consista
nell’aver saputo rifiutare l’arida e la ripetitiva esperienza retorica dei
contemporanei in nome dell’originalità di una vicenda umana confessata con immediatezza e passione sincere. L’adesione al linguaggio e
ai moduli di Petrarca si risolve nell’uso piacevole e tenue di motivi petrarcheschi alti e spirituali, che Gaspara però non riesce ad adeguare
alla propria ispirazione e a esprimere pienamente.
Il termine petrarchismo indica il fenomeno di imitazione della poetica
di Francesco Petrarca che interessa il Basso Medioevo e i primi secoli dell’Età Moderna. Tendenza di costume letterario, prima ancora che
movimento poetico, si sviluppa in Italia fin dal Quattrocento per raggiungere il suo culmine nel secolo successivo, quando assume carattere
nazionale e unificante presso i letterati italiani, che si riconoscono in un
codice e in uno stile condivisi. Non richiedendo un’educazione letteraria particolarmente complessa, comporre versi alla maniera di Petrarca
consente a categorie di individui e a classi sociali fino ad allora escluse
dalla gloria letteraria di cimentarsi nella poesia con discreto successo di
pubblico, come accade appunto ad alcune figure femminili.
Dopo la morte di Petrarca e per circa un secolo non emergono personalità poetiche di spicco. Tuttavia, è proprio in questo periodo che il
Canzoniere comincia ad affermarsi come modello tematico e stilistico
dominante, seppur non esclusivo, presso i letterati che si cimentano
nel genere poetico. In realtà, nessuna opera del Quattrocento giunge
a eguagliare la ricchezza espressiva e psicologica e la perfezione formale del Canzoniere, limitandosi piuttosto a esasperarne gli artifici
retorici, all’interno di un consumo galante e mondano della poesia
Laboratorio per l’esame
2
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni biografiche
utili a delineare il percorso artistico dell’autore e il contesto in cui
ha operato.
Notizie fornite dalla traccia integrate con alcune
conoscenze personali.
Dati contenuti nella risposta 2.1.
Confronto con il contesto poetico cinquecentesco.
Dati contenuti nella risposta 3.2 e integrazioni
personali.
Precisazione del contesto poetico nel quale
l’autore ha operato.
Integrazioni personali.
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d’amore: è l’esperienza della lirica cortigiana quattrocentesca.
Nel secolo successivo, l’imitazione del modello petrarchesco si fa più
esclusiva e rigorosa grazie all’opera di Pietro Bembo (1470-1547), che
nelle Prose della volgar lingua (1525) riconosce a Petrarca i requisiti di
una moderna classicità e lo indica come modello da imitare nei contenuti e nello stile.
Come già detto, il petrarchismo è un fenomeno di costume letterario, prima ancora che movimento poetico: a fare dell’adesione al petrarchismo una vera e propria moda, un segno di appartenenza alla
raffinata ed elitaria società cortigiana cinquecentesca è la perfetta
corrispondenza fra le precise convenzioni e norme comportamentali
che regolano la vita mondana del tempo, incluse le relazioni sociali e
amorose, e la raffinatezza formale dell’opera di Petrarca, che di quei
cerimoniali si rivela un ideale strumento comunicativo.
L’analisi del significato
Il diario lirico di Gaspara Stampa ha una struttura dichiaratamente
petrarchesca, per cui si apre con un sonetto proemiale che costituisce una vera e propria rilettura del corrispondente componimento del
Canzoniere, e si chiude, come il modello di riferimento, con poesie di
pentimento e di conversione morale e spirituale.
Rispetto al modello petrarchesco, tuttavia, le differenze si mostrano più rilevanti delle evidenti riprese. L’incipit ricalca esplicitamente
quello del sonetto petrarchesco nel vocativo iniziale, Voi ch’ascoltate,
che in entrambi i componimenti esprime una richiesta al lettore di
partecipazione diretta. Tuttavia, in Petrarca egli è chiamato in causa
dall’io lirico, che si confessa e soffre per quella vicenda sentimentale
in cui tende a riconoscere la storia del lettore, attribuendo alla propria
esperienza spirituale un significato universale.
Nella poetessa padovana, al contrario, il romanzo d’amore resta fortemente autobiografico, unico e individuale: Gaspara si aspetta di
suscitare nel lettore invidia e desiderio di emulazione, non pietà, ossia comprensione e immedesimazione. La ricerca nei casi effimeri e
individuali del senso profondo e universale dell’esistenza umana che
percorre l’intera opera petrarchesca appare, dunque, del tutto assente nel sonetto cinquecentesco.
Nel componimento della Stampa mancano soprattutto la conflittualità della coscienza, la lacerazione psicologica e morale, che accompagnano la tormentata vicenda sentimentale di Petrarca, a cui allude
l’espressione rime sparse: combattuto fra l’intensità della passione
per Laura e la vanità di quel lungo e colpevole amore, unita al desiderio di innalzarsi dai beni terreni alla conquista di un bene stabile ed
eterno, l’io lirico approda all’ineluttabile sentimento della labilità di
ogni vicenda umana, inclusi gli affetti (il giovenile errore), le speranze,
il dolore che un tempo ebbero il potere di occupare l’esistenza e l’anima del poeta (quanto piace al mondo è breve sogno).
Nella poetessa, invece, le rime sono meste, mesti e oscuri gli accenti, a
esprimere una maggiore attenzione alla sofferenza piuttosto che alla
conflittualità della coscienza. In proposito è significativo anche l’uso
del dimostrativo, che in Gaspara indica la vicinanza nel tempo, l’attualità della passione amorosa (queste […] rime, questi mesti […] questi
oscuri accenti); mentre in Petrarca, insieme alla scelta dei tempi verbali (ond’io nudriva), colloca le sofferenze d’amore in un passato oramai
lontano (quei sospiri), superato attraverso il pentimento, che ha scavato un solco fra il se stesso di ieri e quello presente (quand’era in parte
altr’uom da quel ch’i’ sono). Il poeta si rivolge all’emotività dei lettori
per chiedere comprensione, alla loro coscienza morale per ottenerne il
perdono; dal suo pubblico si aspetta solo la disponibilità ad ascoltare,
avendo esso a sua volta sperimentato le sofferenze d’amore.
Rielaborazione informazioni e conoscenze contenute nella risposta 3.2.
Confronto con il modello petrarchesco.
Dati contenuti nella domanda 3.2.
Esplicitazione del messaggio.
Dati contenuti nelle risposte 2.2 e 2.3 e dati
stimolati dalla parafrasi.
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Risposta 3.2 e integrazioni personali.
Dati contenuti nella risposta 2.1 e dati stimolati dalla parafrasi.
Laboratorio per l’esame
3
La poetessa, al contrario non mette mai in dubbio la legittimità morale e spirituale della propria vicenda sentimentale, avanzando tenui e
immotivate richieste di perdono; al contrario, indica la passione amorosa come strumento di elevazione sociale e tramite verso la gloria
letteraria, che ella ricerca presso un pubblico aristocratico in grado di
apprezzare appieno i suoi versi. Per Gaspara i lamenti d’amore hanno
una sublime motivazione, la sofferenza amorosa, che la poetessa si
augura sia motivo di onore e susciti desiderio di emulazione presso il
pubblico femminile, fino a voler condividere la medesima tormentata
ma sublime esperienza; per Petrarca la loro causa, l’amore per Laura,
è un errore giovanile, frutto di disorientamento spirituale e morale,
motivo di giusta vergogna e pentimento, desolata scoperta della natura illusoria ed effimera dei valori terreni.
L’analisi del significante
La poetessa si rifà allo schema tipico del sonetto petrarchesco adottando nelle quartine la successione a rime incrociate ABBA ABBA,
nelle terzine la combinazione CDE CDE, tre rime ripetute in ordine diretto.
La struttura tematica e sintattica del sonetto è assai simile a quella
del modello petrarchesco: si pongano a confronto il v. 5 (ove fia chi
valor apprezzi e stime) con il v. 7 del modello (ove sia chi per prova
intenda amore), o il v. 7 (spero trovar fra le ben nate genti) con il v. 8
(spero trovar pietà, nonché perdono). Evidente anche la riproposizione
di situazioni psicologiche ricorrenti nel Canzoniere, come la sofferenza
per i tormenti dell’amore, la tirannia della passione che imprigiona l’io
lirico, la poesia come espressione del proprio dolore.
La presenza insistita nel sonetto di numerosi topoi della lirica petrarchesca si traduce in campo lessicale in frequenti ripetizioni di vocaboli
identici o appartenenti a campi semantici affini: si noti, ad esempio,
la ripetizione degli aggettivi mesto e questo, spesso accostati, e del
sostantivo lamenti, che esprimono insieme il tormento d’amore e la
duratura immutabilità della passione per il nobil Signor, la cui unicità e
sublimità è esaltata dal chiasmo al v. 11 e dal ripetersi nell’ultima strofa dell’aggettivo tanta (tant’amor, tanta fortuna […] tanta Donna).
È tipicamente petrarchesco anche il ricorso alla figura retorica della
dittologia sinonimica, come evidenziano le coppie di termini di significato identico (lamenti e […] pene; apprezzi e stime).
La presenza del discorso diretto trasmette al componimento un andamento prosastico.
Il ricorso a un lessico fortemente ripetitivo e le precise scelte metriche
e retoriche conferiscono, infine, alla lirica un ritmo musicale: le rime,
le consonanze, assonanze e allitterazioni (ben nate genti), i rimandi
fonici fra parole chiave (queste meste […] / questi mesti […] / stime).
Laboratorio per l’esame
4
Dati contenuti nelle risposte 2.2 e 2.3 e dati
stimolati dalla parafrasi.
Metrica
Risposta alla domanda
3.1 e integrazioni personali.
La struttura tematica e
sintattica
Il lessico
Le figure retoriche
Dati contenuti nella risposta 2.4 e integrazioni
personali.
Il ritmo
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laboratorio per l’esame
Volume 1, p. 771
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Il rapporto tra virtù e fortuna» utilizzando il dossier che si trova alla pagina 771.
• Niccolò Machiavelli, La conquista dei principati con armi proprie e virtù (cap. VI) (Il Principe • T102)
• Niccolò Machiavelli, L’agire politico e la simulazione (cap. XVIII) (Il Principe • T104)
• Niccolò Machiavelli, Il potere della fortuna e lo scontro con la virtù (cap. XXV) (Il Principe • T105)
Schedatura dei documenti
•T102 Niccolò Machiavelli, La conquista dei principati con armi proprie e virtù (cap. VI)
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute
da altri, e procedendo nelle azioni
loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né
alla virtù di quelli che imiti aggiungere, debbe uno uomo prudente
intrare sempre per vie battute da
uomini grandi, e quelli che sono
stati eccellentissimi imitare […].
Ed esaminando le azioni e vita
loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia
a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro: e sanza
quella occasione la virtù dello
animo loro si sarebbe spenta, e
sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
Era dunque necessario a Mosè
trovare il populo d’Israel, in Egitto, stiavo e oppresso dagli Egizii,
acciò che quelli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo.
Conveniva che Romulo non capissi in Alba, fussi stato esposto al
nascere, a volere che diventassi
re di Roma e fondatore di quella
patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ Persi mal contenti dello
imperio de’ Medi, e li Medi molli
ed effeminati per la lunga pace.
Non posseva Teseo dimostrare la
sua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi. Queste occasioni,
pertanto, feciono questi uomini
felici, e la eccellente virtù loro fece
quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima. […]
Il trattato si propone di definire
le norme per la conquista, la gestione e la difesa del Principato.
Trattato politico (periodo storico 1513-1516).
Occorre ampliare le informazioni circa l’interesse per il mondo
classico che Machiavelli
eredita dall’Umanesimo,
insieme all’idea della
centralità della storia nel
presente (la istoria è maestra delle azioni nostre).
Si
sottolinea
l’importanza
dell’imitazione dei grandi esempi del passato, pur nella consapevolezza che essi non potranno
mai essere eguagliati.
Per occasione si intende la circostanza storica oggettiva offerta
dalla fortuna durante la quale il
Principe può esercitare la propria
abilità politica. Senza l’occasione la virtù non potrebbe realizzarsi; senza l’intervento della
virtù l’occasione a sua volta non
darebbe frutti e si sarebbe presentata invano.
Idea centrale
Le relazioni che si instaurano tra la coppia
oppositiva virtù-fortuna e l’elemento intermedio dell’occasione.
Messaggio dell’autore
La fortuna può offrire
l’occasione favorevole,
ma spetta all’individuo
coglierla esercitando la
virtù.
Le espressioni che indicano necessità evidenziano questo rapporto di reciproca dipendenza.
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È, inoltre, opportuno
evidenziare la dimensione dinamica e pratica
dell’interesse per i classici: l’analisi critica della
letteratura classica e
della storia antica forniscono strumenti immediati per intervenire sulla
realtà e migliorarla.
Dall’Umanesimo
Machiavelli ricava anche
l’impostazione antropocentrica, come evidenzia
l’ideale di un uomo protagonista e artefice del
proprio destino.
Laboratorio per l’esame
1
•T104 Niccolò Machiavelli, L’agire politico e la simulazione (cap. XVIII)
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Dovete dunque sapere coma
sono due generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con
la forza: quel primo è proprio dello
uomo, quel secondo è delle bestie
[…]. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo […]; bisogna a uno
principe sapere usare l’una e l’altra
natura: e l’una sanza l’altra non è
durabile.
[…] Bisogna dunque essere golpe a
conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. […] E se gli uomini fussino
tutti buoni, questo precetto non
sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osserverebbono a te, tu
etiam non l’hai ad osservare a loro
[…].
Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran
simulatore e dissimulatore: […] colui che inganna troverrà sempre chi
si lascerà ingannare.
[…] A uno principe, adunque, non
è necessario avere in fatto tutte
le soprascritte qualità, ma è bene
necessario parere di averle. Anzi,
ardirò di dire questo, che, avendole
e osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili; […] uno principe, e massime uno
principe nuovo, non può osservare
tutte quelle cose per le quali gli
uomini sono tenuti buoni, sendo
spesso necessitato, per mantenere
lo stato, operare contro alla fede,
contro alla carità, contro all’umanità, contro alla religione.
E però bisogna che egli abbia un
animo disposto a volgersi secondo
ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e,
come sopra dissi, non partirsi dal
bene, potendo, ma sapere intrare
nel male, necessitato.
[…] E gli uomini in universale iudicano più agli occhi che alle mani
[…]. Ognuno vede quello che tu pari,
pochi sentono quello che tu se’; […]
e nelle azioni di tutti gli uomini, e
massime de’ principi, dove non è
iudizio a chi reclamare, si guarda
Nel definire le norme per la
conquista, la gestione e la difesa del Principato, il trattato
analizza dei comportamenti
che il principe deve assumere.
Trattato politico (periodo storico 1513-1516).
È bene evidenziare la
visione fortemente pessimistica della natura
umana che caratterizza il
pensiero e l’opera di Machiavelli.
Laboratorio per l’esame
2
La virtù del politico è estranea
alle regole morali: l’innata malvagità degli uomini rende più
utili della lealtà e della fedeltà
il tradimento e la violenza. Il
principe deve, dunque, fondere
in sé qualità umane e qualità
proprie delle bestie, esercitando in particolare l’astuzia della
volpe e la forza del leone.
Idea centrale
L’affermazione dell’indipendenza dei comportamenti politici dalla morale comune.
Messaggio dell’autore
La politica è una scienza di fatti, e non di
principi ideali e astratti,
autonoma dalla morale
e dalla religione.
Occorre che egli sappia adattare l’azione politica ai mutamenti prodotti dalla fortuna
nella situazione reale.
Alla flessibilità deve, inoltre,
accompagnarsi la capacità di
simulare, ossia di fingere di
possedere le qualità che il volgo giudica moralmente positive, e di dissimulare, cioè di nascondere la propria vera natura: non è necessario possedere
le virtù morali; è di gran lunga
preferibile fingere di averle. La
vera virtù non consiste dunque
nell’esercitare qualità morali,
bensì nel simularle.
Il popolo, apostrofato con disprezzo, è così ingenuo da lasciarsi facilmente ingannare,
perché maggiormente propenso a credere alle apparenze che
alla realtà.
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Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
al fine. Facci dunque uno principe
di vincere e mantenere lo stato: e’
mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché
il vulgo ne va sempre preso con
quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non
vulgo […].
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Laboratorio per l’esame
3
•T105 Niccolò Machiavelli, Il potere della fortuna e lo scontro con la virtù (cap. XXV)
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
[…] Molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo sieno
in modo governate dalla fortuna e
da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possono correggerle, anzi, non vi abbino remedio
alcuno; e per questo potrebbono
iuducare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi
governare dalla sorte. […] A che
pensando io qualche volta, mi sono
in qualche parte inclinato nella loro
opinione loro.
Nondimanco, perché il nostro libero
arbitrio non sia spento, iudico poter
essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre,
ma che etiam lei ne lasci governare
l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano,
allagano e’ piani, ruinano gli alberi
e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra:
ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però
che gli uomini, quando sono tempi
quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in
modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto
loro non sarebbe né sì licenzioso né
sì dannoso.
[…] Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi
questo principe felicitare, e domani
ruinare, senza averli veduto mutare
natura o qualità alcuna: il che credo
che nasca, prima dalle cagioni che
si sono lungamente per lo adrieto
discorse, cioè che quel principe che
si appoggia tutto sulla fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra
el modo del procedere suo con le
qualità de’ tempi, e similmente sia
infelice quello che con il procedere
suo si discordano e’ tempi.
[…] Né si truova uomo sì prudente
che si sappi accomodare a questo;
sì perché non si può deviare da
Alla domanda se l’uomo sia
in grado di realizzare i propri
scopi, orientando il corso della
storia con gli strumenti dell’intelligenza e della volontà, l’autore dà inizialmente una risposta fatalista e rassegnata, che
pare ricondurlo all’idea cristiana medioevale di una fortuna ministra imponderabile e
incontrastabile della volontà
divina.
Trattato politico (periodo storico 1513-1516).
Laboratorio per l’esame
4
La congiunzione avversativa
introduce, tuttavia, un mutamento di rotta e l’intento di
riformulare la propria risposta:
l’autore assegna ora alla fortuna l’arbitrio su metà delle
azioni umane, mentre la restante è attribuita all’uomo. La
similitudine del fiume in piena
che porta distruzione e morte
afferma, inoltre, la possibilità
dell’uomo di attenuarne i devastanti effetti con l’industria
e la previdenza, predisponendo argini e canali di deflusso:
il giudizio sul quesito iniziale
sembra ora propendere per la
virtù dell’uomo.
Integrazioni personali
Idea centrale
L’indagine sulle possibilità dell’uomo, e del
principe in particolare, di determinare gli
eventi storici.
Messaggio dell’autore
La necessità di assumere un atteggiamento previdente e combattivo verso la fortuna.
Nell’affrontare la questione
del destino individuale di un
principe, tuttavia il verdetto
muta nuovamente: Machiavelli afferma che la qualità necessaria per il successo è la capacità di adeguarsi al mutare delle
condizioni esterne, modificando non solo le proprie strategie
politiche, ma anche il proprio
temperamento, così da assecondare le occasioni offerte
dalla fortuna. Tuttavia, questa
duttilità è pressoché impossibile per l’uomo, incapace di
assecondare i tempi storici e
le occasioni. Questa perentoria
affermazione risolve il quesito
iniziale in favore della fortuna:
l’uomo avrà successo indipendentemente dalla propria vir-
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Testo
Schedatura
quello a che la natura lo inclina, sì
etiam perché, avendo sempre uno
prosperato camminando per una
via, non si può persuadere partirsi
da quella […]: ché, se si mutassi di
natura con li tempi e con le cose,
non si muterebbe fortuna.
[…] Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomini
ne’ loro modi ostinati, sono felici,
mentre concordano insieme, e,
come discordano, infelici. Io iudico
bene questo: che sia meglio essere
impetuoso che rispettivo; perché la
fortuna è donna: ed è necessario,
volendola tenere sotto, batterla
e urtarla. E si vede che la si lascia
più vincere da questi, che da quelli
che freddamente procedono; e però
sempre, come donna, è amica de’
giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la
comandano.
tù, solo se i tempi asseconderanno le sue inclinazioni.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Giunto alla conclusione, Machiavelli sposta il discorso dal
piano logico a quello irrazionale con una seconda similitudine, che paragonando la fortuna
a una donna restituisce all’uomo e alla virtù la possibilità di
governare la storia e il proprio
destino. Non si tratta, però,
di una risposta logica, quanto
piuttosto di uno scatto della
volontà, che non sembra rassegnarsi al pessimismo.
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Laboratorio per l’esame
5
Saggio breve
Stesura
Struttura
L’umanità tra passato e presente:
dalla cultura della virtù alla cultura della fortuna
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
Il rapporto fra virtù e fortuna, con particolare attenzione alla possibilità dell’uomo di mutare
il corso degli eventi, ha da sempre richiamato l’attenzione di intellettuali e letterati, i quali ne
hanno dato ampia rappresentazione, dall’antichità ad oggi.
Introduzione
Si sottolinea l’importanza
della dialettica virtù-fortuna in ambito letterario.
Nell’affrontare questo complesso argomento ciascuno di loro ha inevitabilmente subito l’influenza del contesto storico, politico e sociale e si è rapportato con l’ideologia e i modelli culturali dominanti, decidendo se prenderne le distanze o divenirne espressione. La letteratura
italiana ha offerto sin dall’Alto Medioevo importanti testimonianze in merito: con la progressiva affermazione della fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di costruire il proprio destino,
nello scontro fra virtù e fortuna intellettuali e letterati hanno cominciato a propendere per il
primo termine, con il conseguente attenuarsi del fatalismo e del provvidenzialismo cristiano.
Tesi
Si esprime l’opinione che i
punti di vista sul rapporto
virtù-fortuna siano largamente influenzati nella letteratura e nella riflessione
storico-filosofica dal contesto storico e sociale, dalla
tradizione culturale e dai
modelli di vita dominanti.
Il termine “virtù” deriva dal latino virtus, che presso gli antichi indica il valore individuale, l’insieme di doti intellettuali, morali e pragmatiche innate nell’uomo e indispensabili per agire
nella realtà, per compiere grandi azioni. La virtù è contrastata dalla fortuna, forza esterna,
terrena e imponderabile, che può essere favorevole o contraria alle doti innate dell’individuo.
Il termine deriva dal latino fortuna (= sorte), che della sorte esalta l’incertezza, i capricci e
l’imprevedibilità, così come il sostantivo e avverbio fors, a cui è legato, dal quale ha origine il
nostro “forse”.
Nella lontana antichità la fortuna è concepita come un’entità imprevedibile, una divinità crudele e irrazionale, superiore persino agli dei, in grado di arrecare danni e sofferenze agli uomini; una lunga serie di testimonianze le attribuisce le sembianze di una dea bendata il cui
operato non obbedisce ad alcuna logica apparente. Nella questione del rapporto fra virtù e
fortuna gli antichi propendono decisamente per l’assegnare il primato alla virtù ed esaltano il
valore e le qualità individuali.
1° Argomento a favore della tesi
Si sottolinea il legame fra il
contesto culturale e il punto di vista degli antichi.
Nei secoli successivi, la cultura cristiana affronta la questione del rapporto tra virtù e fortuna
svalutando la dimensione terrena a vantaggio del vero fine dell’esistenza umana, la conquista
della felicità eterna; in relazione a questo scopo, il concetto di virtù muta, indicando ora l’insieme di comportamenti morali e religiosi che consentono all’uomo di meritare la beatitudine. La
letteratura tardo-medievale documenta, infatti, in alcuni autori la tendenza a scorgere, dietro
l’imprevedibile operato della fortuna, i segni di una volontà superiore, da identificarsi con la
provvidenza divina; a tale fortuna-provvidenza l’uomo deve sottomettersi con fiducia, anche
quando arreca dolore e sofferenza.
L’interpretazione medioevale del concetto di fortuna trova concreta realizzazione nella Commedia: in opposizione alla tradizione pagana, nel canto VII dell’Inferno Dante propone un’immagine completamente rinnovata della sorte, presentata come general ministra della provvidenza divina e paragonata alle intelligenze angeliche, che nella cosmologia generale sono
demandate alla rotazione dei cieli: essa presiede per conto di Dio alle vicende umane e si occupa di distribuire i beni materiali. Benché le azioni della fortuna non siano comprensibili agli
uomini, in quanto rispecchiano i misteriosi disegni divini, Dante ne afferma la razionalità: al
servizio della volontà divina, ella svolge un ruolo ben preciso nell’architettura dell’universo.
Tuttavia, la fede dantesca nella fortuna-provvidenza non corrisponde alla passiva e serena
2° Argomento a favore della tesi
Attraverso alcuni esempi letterari, si evidenzia
l’influenza esercitata nel
Medioevo dalla mentalità cristiana sull’analisi del
rapporto tra virtù e fortuna.
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rassegnazione degli eventi, soprattutto se ritenuti ingiusti: Dante denuncia più volte e in
toni accorati la propria difficoltà nello scorgere la volontà di Dio dietro le sofferenze e i mali
del suo tempo, dalle guerre interne all’Italia fino al proprio destino individuale. La difesa del
libero arbitrio induce il sommo poeta a mantenere viva la volontà di intervenire sul presente
per renderlo più giusto e umano; Dante sa che Dio ha concesso alla virtù dell’uomo ampia
libertà di azione, e che i mali del mondo non sono di origine divina, ma nascono dalle colpe
e dagli errori della stessa umanità. Il giudizio di Dante sulla coppia antinomica virtù-fortuna
pare, dunque, corrispondere in toto alla mentalità dominante nel suo tempo, che percepisce
l’intero universo come espressione della potenza divina, la cui presenza si manifesta proprio
attraverso quell’ordine che Dio vi ha impresso.
Qualche decennio più tardi Giovanni Boccaccio propone nel Decameron un’immagine della fortuna che, allontanandosi in parte da quella dantesca, pare piuttosto rileggere in senso critico
la tradizione antica: i protagonisti delle novelle boccacciane contrappongono alle forze irrazionali del caso l’industria, ossia l’ingegno, la capacità di costruire, anche a dispetto della fortuna,
il proprio destino, riuscendo in conclusione ad assumere il controllo della realtà, a diventare artefici della propria felicità. Alla metà del Trecento, del resto, l’affermarsi della civiltà comunale
indebolisce la preesistente omogeneità ideologica e culturale e contribuisce ad attenuare il
teocentrismo. Con il dilagare della mentalità e dei modelli culturali borghesi, sulla dimensione
puramente spirituale dell’esistenza comincia ad affermarsi una visione più concreta e terrena,
che va di pari passo con il prevalere del buon senso e della mentalità utilitaristica. Anche il
concetto di fortuna è riletto in chiave laica, all’interno di una civiltà mercantile che non punta
più sui valori tradizionali, ma opera in una società in movimento, in cui la concorrenza produce
il trionfo dell’ingegno e dell’astuzia.
In questo senso, il tardo Medioevo anticipa e precorre l’affermarsi della cultura umanisticorinascimentale, che nei secoli successivi, su imitazione degli antichi, riproporrà la tradizionale
rappresentazione della fortuna: sottratta a implicazioni teologiche e nuovamente identificata
con il caso, essa si presenta come entità irrazionale e potenzialmente ostile all’uomo il quale,
facendo ricorso alle proprie risorse morali e intellettuali, deve affrontarla e cercare di vincerla.
Homo faber fortunae suae: l’esaltazione dell’ingegno umano si traduce nella convinzione che
la felicità dell’uomo dipenda, in ultima analisi, dalle sue capacità individuali. L’Umanesimo non
sembra, dunque, avere alcun dubbio sulle capacità della virtù umana di sconfiggere e dominare le avversità della sorte.
3° Argomento a favore della tesi
Attraverso alcuni esempi
letterari, si evidenzia l’influenza esercitata dall’affermarsi, fin dalla metà del
Trecento, della mentalità
borghese nella percezione
del rapporto fra virtù e fortuna.
La posizione di Machiavelli è più problematica. Egli è personalmente coinvolto negli eventi
storici che determinano il tramonto dei maggiori Stati italiani e preparano l’avvento dell’egemonia delle potenze straniere. In linea con lo spirito del Rinascimento sostiene che l’uomo
debba realizzare se stesso in questo mondo, impiegando l’intelligenza e la forza e ribellandosi all’ideologia cristiana, causa prima della decadenza della civiltà: il Cristianesimo, infatti,
avendo posto il sommo bene nella umiltà, […] e nel dispregio delle cose umane (Discorsi, II, 2),
ha consegnato il mondo a un’umanità più preoccupata di guadagnarsi il Paradiso che di contrastare le avversità della fortuna. Tuttavia, dal Principe emerge un atteggiamento che oscilla
fra l’analisi scientifica della realtà effettuale e l’ideale antropocentrico ereditato dall’Umanesimo, fra considerazioni logiche votate al pessimismo e conclusioni ottimistiche dettate dalla
volontà. Da un lato Machiavelli manifesta una visione fortemente negativa dell’uomo, portato
per sua natura a compiere il male: gli uomini non sono buoni, afferma nel trattato, sono tristi,
ossia malvagi, incapaci di mantenere fede alla parola data, propensi a lasciarsi ingannare dalle
apparenze; nello scontro fra fortuna e virtù, sono pochi i virtuosi in grado di dominare la realtà effettuale. D’altro canto, egli eredita dalla cultura umanistica l’affermazione della dignità
umana e la fiducia nella capacità dell’individuo di costruire il proprio destino, mutando il corso
degli eventi storici con il ricorso a intelligenza e forza coniugate insieme. Machiavelli interpreta
il concetto di virtù in senso ormai lontano da quello cristiano-medioevale, come l’insieme delle
risorse interiori che consentono all’individuo di valutare una situazione, decidere come agire
4° Argomento a favore della tesi
Si pone in evidenza la connessione tra il pensiero di
Machiavelli e il contesto
storico entro il quale si trova a operare.
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e realizzare i propri progetti. Si tratta, dunque, di una virtù essenzialmente politica, rivolta
ai beni pratici e terreni, che non sempre coincide con l’uso della razionalità o con la giustezza
della causa che si persegue.
A garantire il successo è, piuttosto, la capacità di cogliere l’occasione creata dalla sorte, ovvero
la circostanza storica oggettiva offerta dalla fortuna nella quale il principe, e più in generale
l’individuo, può imprimere la propria forma, esercitare la virtù politica. Occasione e virtù sono
fra loro complementari: senza l’occasione la virtù non può essere messa in pratica, realizzarsi
concretamente e con successo; senza l’intervento della virtù l’occasione non può dare frutti.
Dunque, la virtù suprema è la duttilità che consente all’individuo di modificare se stesso e il
proprio comportamento al fine di adeguarsi alla mutevolezza del caso e dominare la realtà
effettuale.
Eppure, in alcuni passaggi del trattato Machiavelli pare inclinare verso il fatalismo e guardare
indietro, all’idea antica e medioevale di una fortuna imponderabile e incontrastabile; egli è
indotto a farlo, come afferma nel XXV capitolo del Principe, dall’incomprensibile gravità delle devastazioni e dei rivolgimenti politici prodotti dalle recenti guerre d’Italia, un’ininterrotta
catena di conflitti fuora di ogni umana coniettura che seguono alla discesa di Carlo VIII nella
penisola nel 1494. Del resto, constata con amarezza, l’unica vera virtù umana che sarebbe in
grado di contrastare gli imponderabili mutamenti generati dal caso nella realtà effettuale,
la duttilità appunto, è anche quella che appare assolutamente preclusa agli individui: Né si
truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da
quello a che la natura lo inclina (cap. XXV). Machiavelli non entra nel merito di una spiegazione
razionale, la sua è una affermazione categorica senza possibilità di appello.
Tuttavia, come si legge nello stesso capitolo del Principe, la fortuna e la virtù incidono in pari
misura sul destino dell’uomo: iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà
delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. La famosa
similitudine del fiume in piena che porta distruzione e morte afferma, inoltre, la possibilità
dell’uomo di attenuare i devastanti effetti dell’inondazione, di fronte alla quale ciascuno fugge
[…], ognuno cede all’impeto […] sanza potervi in alcuna parte ostare, con il ricorso all’industria
e alla previdenza, predisponendo, quando sono tempi queti, argini e canali di deflusso, per
prevenire le piene e ridurne almeno gli effetti quando si verificheranno: il giudizio dell’autore
sembrerebbe dunque propendere in favore della virtù dell’uomo.
Nell’affrontare la questione del destino individuale di un principe, però il verdetto muta nuovamente: Machiavelli afferma che la flessibilità e la duttilità necessarie al successo sono precluse all’uomo, incapace di modificare se stesso per assecondare i tempi storici e le occasioni.
L’uomo, dunque, avrà successo indipendentemente dalla propria virtù, solo se i tempi asseconderanno le sue inclinazioni: la tanto perentoria quanto amara considerazione risolve ora il
quesito iniziale in favore della fortuna.
In conclusione di capitolo, tuttavia, Machiavelli sposta il discorso dal piano logico a quello irrazionale con una seconda similitudine, che paragonando la fortuna a una donna finisce con il
restituire all’uomo e alla virtù la possibilità di governare la storia e il proprio destino: il successo, come osserva più volte Machiavelli, arride più spesso e contro ogni ragione agli impetuosi,
a chi è animato da una volontà risoluta e tenace. Non si tratta, tuttavia, di una risposta logica
e razionalmente motivata, quanto piuttosto di uno scatto della volontà, che non si rassegna al
pessimismo. In conclusione, la visione di Machiavelli, manifesta ancora fiducia nella capacità
umana di opporsi alla fortuna e, in qualche caso, di vincerla.
Dunque, l’etica personale e collettiva dell’Europa si è costruita, attraverso i secoli che vanno
dall’antichità greco-latina all’avvento del Cristianesimo fino al Rinascimento, sulla convinzione che la felicità e il successo dipendano dalla capacità di coltivare le virtù, dal nostro impegno
e dalla nostra volontà: la virtù vince la cattiva sorte. Nella società attuale, viceversa, vessata
da una profonda crisi economica e finanziaria, la dialettica tra virtù e fortuna pare propendere
sempre più per la fortuna: la ricerca della felicità e del successo sono sempre meno legati
al valore individuale, alle doti intellettuali, morali e pragmatiche di un individuo. Proliferano
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Conclusione
Si attualizza l’argomento e
si ribadisce la tesi.
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trasmissioni televisive basate su promesse di arricchimenti facili, gratta e vinci, slot machine,
lotterie; si tentano le speculazioni in borsa, alla ricerca dell’investimento fortunato. È la cultura della fortuna, oggi in forte crescita, ad allontanarci dall’idea delle virtù e del lavoro, a prometterci, illudendoci, che ci si possa arricchire senza sforzo, che si possa ottenere il successo
senza grande impegno, per un bizzarro e felice gioco del caso. Così facendo, però, rimandiamo
il tempo della responsabilità individuale e collettiva, delle virtù pubbliche e dei progetti comuni, continuando ad attenderci la salvezza dall’esterno, da una forza a noi estranea.
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Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 1, p. 869
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Erasmo e Ariosto: il tema della pazzia» seguendo la Traccia di lavoro che si
trova alla pagina 869.
• Erasmo da Rotterdam, La follia funesta e la follia benefica (• T83)
• Ludovico Ariosto, La pazzia di Orlando (• T114)
• Ludovico Ariosto, Astolfo sulla luna (• T115)
Schedatura dei documenti
•T83 Erasmo da Rotterdam, La follia funesta e la follia benefica
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Vi sono due specie di follia: la prima è quella che dall’inferno mandano di nascosto le furie vendicatrici ogni volta che […] gettano
nel cuore umano furor di guerra,
sete insaziabile di oro, passioni
immonde e scellerate, parricidi,
incesti, sacrilegi e delitti di tal fatta; […] tormentano di rimorsi chi
sa d’aver commesso gravi colpe.
Ma esiste un’altra forma di follia
[…] che ha origine da me, ed è la
cosa più desiderabile che si possa
immaginare. E questa si ha ogni
volta che un giocondo errore, una
specie di alienazione mentale,
non solo libera l’animo dallo stringimento di quegli affanni, ma lo
inonda di varia, inesauribile voluttà. È questa forma di alienazione
che augurava a se stesso Cicerone
[…]! Né la pensava male quel Greco […].
Vero è però che non ho ancor ben
stabilito se chiamar follia ogni errore della mente e dei sensi […];
se uno invece si sbaglia non solo
nella sensazione, ma anche nel
giudizio dell’intelligenza, e ciò di
continuo e contro l’usanza generale, questi sì che partecipa di me,
cioè della pazzia […]. Tal genere
di follia però, nel caso che, come
avviene comunemente, inclini al
piacere, è di spasso straordinario
non solo per chi ne è preso, ma
anche per quelli che stanno a contemplarlo, e non per questo sono
pazzi! Tal genere di follia infatti
abbraccia un numero di casi molto
maggiore che non creda la gente.
Il trattato è in forma di monologo di un personaggio fittizio, la
Follia appunto, la quale tesse il
proprio elogio, non essendosi
presentato nessun altro disposto a farlo.
Trattato (periodo storico 1511).
È bene ricordare le difficoltà di interpretazione insite nell’operetta
erasmiana, che nascono dall’impossibilità di
comprendere se quanto
afferma la Follia, la quale tesse da sé il proprio
elogio, debba essere interpretato alla lettera o
se, essendo l’asserzione
di un folle, vada piuttosto rovesciato nel suo
significato
Erasmo distingue tra una follia
funesta, che nasce dalle profondità dell’inconscio e alimenta
le passioni più turpi e gli istinti
delittuosi, e una follia benefica,
che sottrae l’animo dalle costrizioni e dalle convenzioni sociali e
procura un inesauribile piacere.
A conferma dei benefici effetti
di questa pazzia positiva, la Follia chiama in causa l’autorità dei
classici latini, citando Cicerone e
Orazio.
Idea centrale
La distinzione fra due
tipi di follia, il primo
funesto e negativo, il
secondo positivo e benefico.
Messaggio dell’autore
L’invito a distinguere
tra follia funesta e follia benefica, sfuggendo
la prima e accogliendo
con piacere la seconda.
La pazzia benefica non va identificata con un errore prodotto dai
sensi o dall’interpretazione della
mente: essa consiste piuttosto
in un rovesciamento nella percezione della realtà, uno strumento di lettura dell’universo che
genera gioia e piacere non solo
in chi lo vive in prima persona,
ma anche in chi vi assiste.
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1
•T114 Ludovico Ariosto, La pazzia di Orlando
Testo
[…]
Fu allora per uscir del sentimento, /
sì tutto in preda del dolor si lassa. /
Credete a chi n’ha fatto esperimento, / che questo è ’l duol che tutti gli
altri passa.
[…]
Poi ch’allargare il freno al dolor puote / (che resta solo e senza altrui
rispetto), / giù dagli occhi rigando
per le gote / sparge un fiume di lacrime sul petto: / sospira e geme,
e va con spesse ruote / di qua di là
tutto cercando il letto; / e più duro
ch’un sasso, e più pungente / che
se fosse d’urtica, se lo sente.
[…]
L’accese sì, ch’in lui non restò dramma / che non fosse odio, rabbia, ira
e furore; / né più indugiò […].
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, / e ficca gli occhi al cielo, e non
fa motto. / Senza cibo e dormir così
si serba, / che ’l sole esce tre volte
e torna sotto. / Di crescer non cessò
la pena acerba, / che fuor del senno
al fin l’ebbe condotto.
[…]
E cominciò la gran follia, sì orrenda,
/ che de la più non sarà mai ch’intenda.
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
La prima parte dell’episodio
si concentra sull’analisi degli
eventi, degli stati d’animo di
Orlando e degli autoinganni
per celare a se stesso una verità crudele.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
Occorre ricordare il legame dell’Orlando furioso
con la precedente tradizione letteraria cavalleresca: Ariosto sceglie, in
particolare, di proseguire
la narrazione della vicenda di Orlando là dove
Matteo Maria Boiardo,
letterato attivo alla corte
ferrarese nella seconda
metà del Quattrocento,
l’aveva interrotta nell’Orlando innamorato.
Il tema centrale del poema è la pazzia, come
preannuncia il titolo
dell’opera definendo il
protagonista furioso, e
come conferma la collocazione dell’episodio
dell’uscita di senno del
paladino a metà dei
quarantasei canti del
poema. Nel corso della
narrazione sono, inoltre,
descritte le “follie” di
molti altri personaggi: si
pensi alla disperazione
di Rinaldo, alla gelosia
di Bradamante, all’ira
smisurata di Rodomonte. Neppure il poeta si
sottrae alla generale e
dilagante pazzia, come
conferma la seconda ottava del Proemio, in cui si
dichiara vittima di un’insania amorosa assai simile a quella di Orlando.
In prima battuta il poeta, mosso dalla sincera partecipazione
al dolore del protagonista, stabilisce un confronto con la propria esperienza d’amore, per la
quale ha rischiato anch’egli di
perdere il senno.
Nella seconda parte domina,
invece, il motivo della follia di
Orlando: simile a una belva,
perduto l’uso della parola, egli
vaga nudo per le selve, dorme
sotto le stelle, infuria contro
piante, animali e uomini.
Le manifestazioni della follia di Orlando sono descritte
utilizzando le figure retoriche
dell’iperbole e dell’enumerazione, che scandiscono l’esplosione della pazzia di Orlando,
il susseguirsi di pensieri e di
azioni sempre più irrazionali e
incontrollate. Nell’animo del
poeta e del lettore subentra
un crescente distacco, che si
traduce in disagio, pena e infine derisione: le folli gesta di
Orlando sono ora ironicamente
definite eccelse.
Idea centrale
La presentazione della
pazzia di Orlando, il più
valoroso paladino del
ciclo carolingio.
Messaggio dell’autore
La passione è un sentimento positivo, il quale
deve però esprimersi in
armonia con la ragione; quando prevalgono
l’istinto e l’irrazionalità,
cultura e convivenza civile sono perdute.
In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in ogni
senso.
[…]
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse, / ch’un alto pino al primo crollo
svelse; / e svelse dopo il primo altri
parecchi, / come fosser finocchi,
ebuli o aneti […].
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•T115 Ludovico Ariosto, Astolfo sulla luna
Testo
[…]
Da l’apostolo santo fu condutto / in
un vallon fra due montagne istretto, / ove mirabilmente era ridutto /
ciò che si perde o per nostro difetto,
/ o per colpa di tempo o di Fortuna:
/ ciò che si perde qui, là si raguna.
[…]
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco / le cose che gli fur quivi dimostre; / che dopo mille e mille io non
finisco, / e vi son tutte l’occurenzie
nostre: / sol la pazzia non v’è poca
né assai; / che sta qua giù, né se ne
parte mai.
[…]
Poi giunse a quel che par sì averlo
a nui, / che mai per esso a Dio voti
non ferse; / io dico il senno: e n’era
quivi un monte, / solo assai più che
l’altre cose conte.
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Il mondo lunare descritto da
Ariosto è il regno delle cose
vane, che il poeta concentra
in un solo luogo e si dilunga a
elencare allo scopo di evidenziare, con spirito polemico, la
vanità dei desideri, delle speranze, dei progetti degli uomini. L’opposizione tra la follia,
che non lascia mai la Terra, e il
senno, che spicca per quantità
fra le cose perdute e ammassate sulla Luna, induce a concludere che la pazzia è la condizione universale dell’umanità:
tutti gli uomini sono folli, persino coloro che sono considerati saggi e sapienti.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
Si può precisare che anche il paladino Astolfo d’Inghilterra non è
un’invenzione ariosteca,
ma un personaggio ripreso dalla precedente
tradizione dei cantari
quattrocenteschi e reso
celebre dal poema del
Boiardo.
Idea centrale
La vanità e la follia
sono le principali caratteristiche del mondo
terreno e dell’umanità.
Messaggio dell’autore
L’invito ad agire con
moderazione, razionalità e consapevolezza
dei propri limiti.
Dalla follia si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile
ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo: l’incoerenza e
l’irrazionalità
dell’esistenza
sono per Ariosto l’unica prospettiva reale.
[…]
Del suo gran parte vide il duca
franco; / ma molto più maravigliar
lo fenno / molti ch’egli credea che
dramma manco / non dovesse
averne, e quivi denno / chiara notizia che ne tenean poco.
[…]
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse / lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
[…]
E par che […] /
Turpin da indi in qua confesse /
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse; / ma ch’uno error che fece poi,
fu quello / ch’un’altra volta gli levò
il cervello.
[…]
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Laboratorio per l’esame
3
Saggio breve
Stesura
Struttura
La follia, tra furia e saggezza
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
Cosa ha a che fare la pazzia con il Rinascimento, età dell’armonia, dell’equilibrio, del dominio
razionale delle passioni? Eppure, per una sorta di attrazione degli opposti, è proprio la riflessione sulla follia ad assumere nella cultura umanistico-rinascimentale un’importanza straordinaria, come testimoniano due opere in questo senso fondamentali: l’Elogio della pazzia di
Erasmo da Rotterdam e l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
Quale significato assume nel Rinascimento il termine follia, cui alludono esplicitamente i titoli
appena citati?
Problema
Quale concezione della follia si afferma nel Rinascimento?
La sua definizione ha inevitabilmente subito nel corso dei secoli l’influenza dei modelli culturali e delle convenzioni sociali dominanti, al punto che in un determinato contesto si è ritenuto
folle qualcosa o qualcuno che in un tempo e in un luogo diverso è invece apparso come normale, e viceversa. Nella lontana antichità, la follia rappresenta un tramite verso gli dei, un mezzo
per entrare in comunicazione con il divino, e come tale riceve ascolto e attenzione. Anche nel
Medioevo essa conserva un forte legame con il trascendente: il folle continua a essere colui
che, oltrepassando i limiti della logica terrena, entra in contatto con una diversa dimensione
del reale per scoprirvi segreti misteriosi o rivelazioni religiose. All’interno di una cultura fortemente cristiana, il folle è considerato l’immagine terrena di una realtà ultraterrena, quella di
Cristo inviato dal Padre sulla terra per cancellare il peccato originale, ed è accolto nella società
come parte costitutiva di essa.
Il concetto di pazzia assume, inoltre, fin dal Medioevo, una connotazione duplice e ambivalente: nell’accezione positiva, essa rappresenta la maggiore propensione e apertura all’incontro
mistico con Dio, il rifiuto della razionalità e della logica terrena in nome dell’insondabile mistero divino, il quale comunemente sfugge alla comprensione umana. Nell’accezione negativa, la
follia diventa il simbolo delle passioni irrazionali e degli istinti più bestiali, che privano l’uomo
della dignità della ragione e lo conducono alla perdizione; chi ne è preda deve, dunque, esserne
liberato ed esorcizzato, persino con la morte sul rogo.
Introduzione
Soggetto all’influenza dei
modelli culturali e delle
convenzioni sociali dominanti, il concetto di follia
ha assunto nei secoli diversi significati.
Il laicismo che caratterizza la cultura rinascimentale modifica per alcuni aspetti la visione medioevale e segna una frattura con il passato: ora la pazzia, privata del suo significato ultraterreno, diventa espressione del disordine umano e terreno. Della concezione precedente sopravvivono, piuttosto, duplicità e ambivalenza: nell’accezione tragica del termine, attraverso
la deformazione grottesca e l’abbrutimento animalesco che privano il folle della dignità della
ragione umana, la pazzia dà espressione ai mali, alle ansie e alle angosce che caratterizzano
l’esistenza degli individui in ogni tempo. In un’accezione positiva, la pazzia, detentrice di un
sapere superiore, si fa satira morale e si accanisce come punizione derisoria e sbeffeggiante
nei confronti delle convenzioni e delle costrizioni sociali.
Tesi
Nel periodo storico considerato, è possibile individuare due fondamentali
interpretazioni della follia:
una di tipo tragico, l’altra di
tipo critico e satirico.
È emblematica della concezione rinascimentale della follia la distinzione proposta da Erasmo
da Rotterdam nell’Elogio della pazzia (1511), monologo di un personaggio fittizio e di dubbia
attendibilità, la Follia appunto, la quale tesse il proprio elogio, non essendosi presentato nessun altro disposto a farlo per lei. È proprio la Follia a distinguere fra un’insania tragica e funesta, che dall’inferno mandano di nascosto le furie vendicatrici, la quale nasce dalle profondità
dell’inconscio e alimenta le più turpi passioni e gli istinti delittuosi dell’individuo, per poi gettarlo in pasto ad atroci rimorsi; e una follia positiva e benefica, un giocondo errore, una specie
di alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzione e alle costrizioni sociali, libera
l’animo dallo stringimento di quegli affanni e lo inonda di varia, inesauribile voluttà. Questa
seconda forma di pazzia, conclude la Follia, è senza dubbio la cosa più desiderabile che si possa
1° Argomento a favore della tesi
Attraverso l’opera di Erasmo da Rotterdam si pone
in evidenza la duplicità del
concetto di follia.
Laboratorio per l’esame
4
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immaginare, come confermano le parole di Cicerone, che augurava a se stesso una simile insania, o l’aneddoto del greco uscito di senno narrato nelle Epistole di Orazio.
Questa benefica follia, precisa Erasmo, non va tuttavia identificata con un errore prodotto dai
sensi o dall’interpretazione della mente: essa consiste piuttosto in un rovesciamento nella
percezione della realtà, uno strumento di lettura dell’universo che genera gioia e piacere non
solo in chi lo vive, ma anche in chi vi assiste. Parte integrante della realtà dell’uomo, la follia
ne migliorerebbe la qualità della vita.
La follia si fa portatrice di una capacità critica straordinaria, segno di una conoscenza e di una
consapevolezza razionale in grado di rivelare la demenza del mondo “normale” il quale, spinto
dalle convenzioni sociali e morali, rincorre falsi ideali e valori rinunciando ad assecondare in modo
più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni. La vera mancanza di senno, pare
dirci la Follia, è da ricercare piuttosto tra i cosiddetti savi, coloro che, dotati di certezze incrollabili
e di punti di vista unilaterali, rinunciano a sperimentare questa suprema forma di saggezza.
Sulla linea della contraddizione e del paradosso sta anche l’interpretazione della follia proposta da Ariosto nell’Orlando furioso. Il titolo del poema, che con il riferimento a Orlando sottolinea il collegamento con la tradizione cavalleresca, evidenzia fin da subito il tema della
“furia”, della follia cieca e rabbiosa che trasforma le vicende del più grande paladino di Francia
in paradigma della generale pazzia umana. Tema centrale del poema è proprio la follia, come
confermano la collocazione dell’episodio dell’uscita di senno a metà dei quarantasei canti che
compongono il Furioso e la descrizione delle insane gesta di molti altri personaggi: si pensi alla
disperazione di Rinaldo, alla gelosia di Bradamante, all’ira smisurata di Rodomonte. Neppure
il poeta si sottrae alla generale e dilagante follia, come conferma nella seconda ottava del Proemio, in cui si dichiara vittima di un’insania amorosa simile a quella di Orlando. Alle radici della
furia del paladino stanno, infatti, il desiderio per Angelica e la gelosia scatenata dalla tragica
scoperta del tradimento: la passione è un sentimento positivo, pare dirci Ariosto, che deve
però esprimersi in armonia con la ragione; quando a prevalere sono l’istinto e l’irrazionalità,
cultura e convivenza civile sono perdute.
Il senno di Orlando, finito sulla Luna nel vallone dove si raccoglie tutto ciò che gli uomini comunemente perdono sulla Terra, viene recuperato da Astolfo e restituito al paladino nel canto XXXIX. Il
mondo lunare descritto da Ariosto è il regno delle cose vane elencate per evidenziare, con spirito
polemico, la vanità dei desideri, delle speranze e dei progetti degli uomini. In particolare, è significativa l’opposizione tra la follia, che non abbandona mai la Terra ed è dunque assente sulla Luna,
e il senno, che spicca per quantità fra le cose perdute e ammassate nel cielo-deposito lunare. Il
lettore è dunque indotto a concludere che la pazzia è la condizione universale: tutti gli individui
sono pazzi, chi più chi meno, inclusi coloro che sulla Terra sono ritenuti saggi e sapienti. Dalla follia
si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo il
quale, recuperato il proprio senno sulla Luna, finirà in seguito per perderlo nuovamente. Incoerenza e irrazionalità, sembra concludere il poeta, sono l’unica condizione reale sulla Terra.
Ariosto pare, dunque, considerare la follia un’abituale compagna di vita e di avventura, imprescindibile dalla natura umana: in linea con la mentalità laica del Rinascimento, egli ritiene che
essa non abbia nulla di divino o di diabolico, ma costituisca piuttosto una modalità esistenziale dell’uomo. Accade, però, che talvolta l’individuo oltrepassi il limite della “normale pazzia”
e venga trascinato dal sentimento, dalle furie vendicatrici di cui parlava Erasmo, diventando
“furioso”: ciò avviene soprattutto quando egli è incapace di accettare che non potrà raggiungere l’oggetto del suo desiderio, quando non riesce ad adeguarsi alle folli bizzarrie del caso,
che conduce gli eventi verso un esito diverso da quello sperato. Al manifestarsi, nel poema, di
una simile follia, funesta e negativa, l’iniziale e sincera partecipazione al dramma di Orlando
cede il campo, nell’animo del poeta così come in quello del lettore, a un crescente distacco, che
si traduce in pena, disagio e infine derisione. Proprio nell’ironia di Ariosto è possibile riconoscere il lato positivo della follia, la sua capacità critica e dissacrante nei confronti delle regole
morali e delle convenzioni sociali che imprigionano l’individuo in un ruolo innaturale, che non
gli corrisponde.
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2° Argomento a favore della tesi
Attraverso esempi tratti
dall’opera di Ariosto si evidenzia il persistere della
concezione ambigua e paradossale della follia attraverso il Rinascimento.
Laboratorio per l’esame
5
In conclusione, l’età rinascimentale eredita dai secoli precedenti la compresenza nel concetto
di pazzia di due aspetti contrastanti e contraddittori: l’esperienza tragica della follia, la furia
cieca che si manifesta nella deformazione grottesca e nell’abbrutimento dell’individuo, privato della dignità della ragione; l’esperienza critica della follia, detentrice di un sapere superiore
da cui hanno origine forme di satira pungente nei confronti delle convenzioni e delle costrizioni
sociali che impediscono all’uomo di assecondare in modo più autentico e sincero la propria
coscienza e le proprie pulsioni.
A partire dal Rinascimento, tuttavia, le due esperienze della follia cominceranno lentamente a
separarsi, generando una frattura che non sarà mai più colmata e che l’età moderna contribuirà a esasperare, tentando di ignorare il lato tragico dell’insania e valorizzando in forma sempre
più esclusiva quello critico.
Laboratorio per l’esame
6
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
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laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 875-877
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Ariosto: intellettuale cortigiano» utilizzando il dossier che si trova alle
pagine 875-877.
• Roberto Pazzi, Ariosto e il cardinale Ippolito (• D1)
• Ludovico Ariosto, Se avermi dato onde ogni quattro mesi (• D2)
• Ludovico Ariosto, La dedica encomiastica (• D3)
• Ludovico Ariosto, I versi adulatori (• D4)
Schedatura dei documenti
•D1 Roberto Pazzi, Ariosto e il cardinale Ippolito
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Il cardinale Ippolito, […] uomo
quanto meno poco portato per la
carriera ecclesiastica, se in un attacco di gelosia per rivalità d’amore non esitò a far accecare in un
agguato notturno il fratellastro
Giulio, […] era maniaco dell’artiglieria, costretto alla porpora per
motivi politici dal padre […].
Dunque il poco mistico cardinale,
dopo aver ascoltato in una delle
sale del Castello Estense alcuni episodi dell’Orlando furioso,
eccolo uscire con un’incredibile
domanda: «Messere Ludovico,
dove mai siete andato a trovare
tante coglionerie?». Al cardinale
garbava più del Lodovico poeta, il
segretario particolare, che doveva
sfilargli gli stivali la notte, prepararlo a coricarsi togliendogli la casacca, scrivergli le lettere. […]
L’impertinente domanda rivela
in sostanza […] il terribile potere
dell’Immaginazione di scardinare i pilastri della realtà, rivelando
forze della creatività che il Potere
non sa controllare […]: reazione
che non saprei definire se più stolta o impaurita.
L’articolo ritrae le caratteristiche
psicologiche e morali del mecenate di Ariosto, Ippolito d’Este,
uomo crudele e vendicativo, cardinale per ragioni esclusivamente politiche.
Incapace di riconoscere il valore
poetico del Furioso, il cardinale
apprezza maggiormente Ariosto
come segretario particolare, impegnato in umili mansioni, anziché nel ruolo di scrittore di corte.
Articolo (periodo storico 15 novembre 2005).
Occorre ampliare le informazioni sul modello
di intellettuale che si
afferma tra Quattro e
Cinquecento presso le
maggiori corti italiane, illustrando, in particolare,
le condizioni di vita e di
lavoro di artisti e letterati cortigiani.
L’autore prospetta, tuttavia,
una seconda interpretazione,
secondo la quale la rozza reazione dell’estense alla lettura
del Furioso sarebbe scatenata
non tanto dal disprezzo, bensì
dalla paura: il cardinale avrebbe
forse intuito nel poema la forza dirompente ed eversiva della
parola e dell’immaginazione che
nessuna autorità, nessun potere
è in grado di controllare.
Idea centrale
Il difficile rapporto di
Ariosto con il cardinale Ippolito d’Este, suo
mecenate e protettore.
Messaggio dell’autore
L’incapacità del cardinale di riconoscere e
apprezzare il talento
poetico di Ariosto e il
valore del suo capolavoro letterario.
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È, inoltre, opportuno evidenziare la natura ambivalente del rapporto che
si stabilisce tra mecenate e uomini di cultura: se
la vita a corte da un lato
garantisce
benessere
economico, la possibilità
di frequentare un ambiente, raffinato e ricco
di stimoli creativi e rapporti culturali, dall’altro
comporta condizionamenti e pressioni ideologiche, pretese di controllo assoluto, richieste di
prestazioni pratiche.
Occorre, infine, fare riferimento all’esperienza
personale di Ariosto in
qualità di intellettuale
cortigiano, dapprima al
servizio del cardinale Ippolito d’Este (dal 1504 al
1517), poi alle dipendenze del duca Alfonso (dal
1517 fino alla morte).
Laboratorio per l’esame
1
•D2 Ludovico Ariosto, Se avermi dato onde ogni quattro mesi
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Se avermi dato onde ogni quattro
mesi / ho venticinque scudi, né
sì fermi / che molte volte non mi
sien contesi, / mi debbe incatenar,
schiavo tenermi, / ubligarmi ch’io
sudi e tremi senza / rispetto alcun,
ch’io moia o ch’io me ’nfermi, / non
gli lasciate aver questa credenza; /
ditegli che più tosto ch’esser servo
/ torrò la povertade in pazienza. /
Uno asino fu già […] / gli disse un
topolino […]. / Or, conchiudendo,
dico che, se ’l sacro / Cardinal comperato avermi stima / con li suoi
doni, non mi è acerbo et acro / renderli, o tor la libertà mia prima.
Indirizzata al fratello minore
Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, entrambi al servizio di Ippolito d’Este, la satira
giustifica il rifiuto di Ariosto di
seguire il cardinale in Ungheria
a causa della situazione familiare e della salute del poeta.
Satira (periodo storico
1517).
È opportuno ampliare le
informazioni sulle Satire,
sette componimenti in
terzine dantesche indirizzati fra il 1517 e il 1525
ad amici e conoscenti:
esse traggono ispirazione da situazioni o avvenimenti autobiografici,
dai quali ricavano considerazioni morali, su vizi e
virtù degli uomini.
Lo stipendio e i benefici economici non sono sufficienti a
comprare la libertà e la dignità
di Ariosto, il quale non esita
a dirsi pronto a rinunciarvi in
nome della propria indipendenza.
La polemica denuncia delle
umiliazioni e dei compromessi imposti dalla condizione di
intellettuale cortigiano (incatenar, far schiavo, sudi e tremi
senza rispetto alcun) è in parte
attenuata dalla favola, ispirata a Fedro, dell’asino ingordo
(l’avido cortigiano) e del topolino saggio (il ravveduto intellettuale), dalla quale emerge la
morale di Ariosto.
Laboratorio per l’esame
2
Idea centrale
La rivendicazione della
dignità e libertà personali contro i vincoli e il
servilismo dell’ambiente di corte.
Messaggio dell’autore
È preferibile un’esistenza modesta, ma
libera da vincoli agli agi
economici della vita a
corte.
La prima satira, in particolare, si ispira alle delicate circostanze verificatesi a corte nell’agosto
1517 in seguito al rifiuto del poeta di seguire
il cardinale Ippolito in
Ungheria, sede del suo
vescovado. Ne deriva
un polemico resoconto
dell’esperienza personale di Ariosto presso la
corte estense e, più in
generale, dei compromessi che ciascun cortigiano è costretto ad
accettare.
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•D3 Ludovico Ariosto, La dedica encomiastica
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Piacciavi, generosa Erculea prole, /
ornamento e splendor del secol nostro, / Ippolito, aggradir questo che
vuole / e darvi sol può l’umil servo
vostro. / Quel ch’io vi debbo, posso
di parole / pagare in parte, e d’opera d’inchiostro; / né che poco io vi
dia da imputar sono; / che quanto
io posso dar, tutto vi dono.
La dedica encomiastica, terza
parte del Proemio al Furioso
dopo protasi e invocazione,
mette a fuoco il rapporto esistente fra Ariosto, intellettuale cortigiano che compone
versi in onore e per diletto del
proprio mecenate, e il Signore,
il quale a sua volta deve protezione e rispetto al poeta, la cui
opera contribuisce a rendergli
eterna fama.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
È bene ricordare la presenza all’interno del
Furioso del motivo encomiastico-celebrativo della famiglia d’Este, le cui
origini sono ricondotte
da Ariosto ai personaggi
di Ruggero e Bradamante, dei quali narra la vicenda d’amore.
L’ottava è pervasa di una velata ironia, rivolta sia alla pratica
cortigiana dell’adulazione, sia
a Ippolito d’Este, le cui qualità
sono celebrate attraverso iperboli (Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro).
Idea centrale
La dedica del poema al
proprio mecenate.
Messaggio dell’autore
Il poema è un dono di
grande valore, più che
adeguato a ricambiare
quanto il poeta ha ricevuto dal suo mecenate.
Il poeta pare, inoltre, oscillare fra dichiarazioni di umiltà
(l’umil servo vostro) e affermazioni sul valore dei propri versi.
•D4 Ludovico Ariosto, I versi adulatori
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Ami d’oro e d’argento appresso
vede / in una massa, ch’erano quei
doni / che si fan con speranza di
mercede / al re, agli avari principi, ai
patroni. / Vede in ghirlande ascosi
lacci; e chiede, / et ode che son tutte adulazioni. / Di cicale scoppiate
imagine hanno / versi ch’in laude
dei signor si fanno.
Gli oggetti osservati da Astolfo sulla Luna alludono metaforicamente e con ironia a un
ideale o una speranza effimera
inutilmente perseguita sulla
terra dall’umanità: così, gli ami
rappresentano i doni offerti invano ai potenti nella speranza
di riceverne una ricompensa;
le adulazioni sono trappole
nascoste in ghirlande; le cicale scoppiate alludono ai versi
adulatori dedicati dai poeti cortigiani ai loro protettori.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
Occorre ampliare le informazioni sull’episodio
del viaggio ultraterreno
compiuto nel XXXIV canto del Furioso dal paladino Astolfo d’Inghilterra:
giunto sulla Luna alla
ricerca del senno di Orlando, egli vi scopre una
sorta di deposito dove si
accumula tutto ciò che
gli uomini perdono sulla
Terra.
Idea centrale
La denuncia ironica del
servilismo, dell’avidità, dell’adulazione che
dominano nella vita di
corte.
Messaggio dell’autore
La distinzione fra vera
poesia e mera adulazione.
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Laboratorio per l’esame
3
Saggio breve
Stesura
Struttura
Ariosto: saggio topolino o cicala scoppiata?
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del
contenuto del saggio.
Ludovico Ariosto incarna forse più di qualunque altro letterato dell’età umanistico-rinascimentale il modello dell’intellettuale cortigiano: la sua carriera letteraria si svolge, infatti, interamente all’interno dell’ambiente di corte di Ferrara, sede della famiglia estense presso la
quale egli presta la propria opera, dapprima alle dipendenze del cardinale Ippolito d’Este, quindi al servizio del duca Alfonso.
Introduzione
Si sottolinea il legame fra la
carriera letteraria di Ariosto
e l’ambiente della corte.
Quali sono le condizioni di vita e di lavoro che lo accolgono alla corte estense? Quale atteggiamento assume il poeta nei confronti dell’ambiente cortigiano?
Problema
Ricostruire le reali condizioni di vita e di lavoro del poeta presso la corte estense.
Ariosto è consapevole delle regole che vigono a corte, e sembra pienamente accettarle. Egli
non ignora la duplicità della propria posizione di intellettuale cortigiano, della quale riconosce
privilegi e limiti: la vita a corte da un lato garantisce tranquillità economica, la possibilità di frequentare un ambiente colto, raffinato, ricco di stimoli creativi e di contatti con altri intellettuali;
dall’altro comporta condizionamenti e pressioni ideologiche, limitazione della libertà personale,
richieste di prestazioni pratiche. Se, infatti, nella sua opera non mancano critiche alla vita di
corte, all’interno della quale predominano servilismo, adulazione e invidie, appare altrettanto
evidente che egli ritiene pressoché inevitabile per un uomo di cultura del Cinquecento porsi a
servizio presso un Signore, esperienza dalla quale cerca di ricavare i massimi vantaggi.
Tesi
Si afferma la piena consapevolezza, da parte di Ariosto, dei vincoli e dei privilegi che la condizione di intellettuale cortigiano implica,
che egli pare accettare.
Fra XV e XVI secolo entra, infatti, definitivamente in crisi la realtà politica del comune, le cui istituzioni si sono rivelate incapaci di assicurare la pace ai cittadini, impedire le lotte interne fra fazioni e
classi sociali, porre fine alle guerre con i comuni vicini. Ad essa subentra la Signoria, forma di governo che attribuisce un potere vitalizio ed ereditario a una singola persona. L’accentramento dei poteri
e la conseguente necessità di controllare ogni aspetto della vita dello Stato crea nuove strutture di
governo e dà vita a un nutrito numero di funzionari, consiglieri e uomini di cultura, i quali diventano
strumento di espressione del volere del signore. Nasce, così, la nuova realtà della corte, un selezionato gruppo di prestigiosi artisti e intellettuali al servizio del Signore il quale produce atteggiamenti
e interventi volti a ottenere il consenso dei sudditi e a guadagnare il favore del popolo. Il mecenatismo dei principi sopperisce, in tal modo, alla crisi delle istituzioni municipali e al conseguente declino della figura dell’intellettuale comunale, che partecipa attivamente alla gestione dello Stato e si
dedica alla letteratura solo saltuariamente e per diletto personale. Il legame che dal Quattrocento
unisce gli uomini di cultura al principe favorisce la nascita di un nuovo modello di intellettuale, quello
cortigiano: ora sono i Signori i principali datori di lavoro di artisti e letterati.
Ma quali sono le condizioni di vita e di lavoro degli intellettuali presso le più importanti corti
d’Italia? Per alcuni di loro il prestigio è tale da giustificare la generosità del mecenate. Per altri,
la vita a corte implica, nonostante il riconoscimento del loro valore di letterati, la richiesta di
svolgere prestazioni pratiche più o meno impegnative e saltuarie: Ariosto appartiene appunto
a questo gruppo. A corte vive, infine, un ampio numero di funzionari stipendiati, che solo marginalmente si dedicano all’attività letteraria.
In che modo e in quale misura la dipendenza dal principe mecenate condiziona il pensiero
dell’intellettuale? Da un alto, è indubbio che il regime signorile orienti l’attività della corte
verso la difesa degli interessi delle oligarchie dominanti, condizionando ideologicamente gli
intellettuali; dall’altro, la corte rinascimentale offre agli uomini di cultura opportunità economiche e protezione che altrove, nel contesto politico-istituzionale dell’epoca, difficilmente potrebbero trovare. Va, poi, ricordato che scrittori e artisti provengono di norma dalle file
dell’aristocrazia, per cui non faticano a condividerne l’ideologia.
1° Argomento a favore della tesi
Si pone in evidenza come
la corte rappresenti in età
umanistico-rinascimentale
l’unica valida alternativa al
declino della realtà comunale e costituisca, pertanto, per gli uomini di cultura
una scelta inevitabile.
Laboratorio per l’esame
4
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Negli anni trascorsi al servizio degli Este i versi delle Satire e del Furioso ci mostrano un Ariosto all’apparenza integrato nel sistema di corte, impegnato, tra mansioni pratiche e attività
letteraria, a consolidare il proprio ruolo sociale e a garantirsi la tranquillità economica. Egli
pare accettare e rispettare le norme che regolano la vita presso la corte ferrarese: le sue opere
esaltano l’istituzione monarchica e la società rigidamente gerarchizzata del Cinquecento, condividono i valori della classe dominante, celebrano le gesta di eroi di estrazione aristocratica,
si rivolgono al pubblico di corte, nobile e selezionato.
Ariosto non manca, tuttavia, di sollevare una polemica sulla mancanza di libertà personale,
sull’adulazione ipocrita ed esagerata dei cortigiani, sull’aspirazione all’otium letterario che
stipendio e benefici economici non gli garantiscono. È significativa la prima Satira, la quale
coincide con un momento difficile della carriera cortigiana del poeta: Ariosto si è rifiutato di
seguire in Ungheria il cardinale Ippolito, il quale lo ha minacciato di privarlo dei benefici e delle
rendite in precedenza procurate. Ispirandosi a questi avvenimenti autobiografici, il poeta rappresenta in tono realistico e polemico le umiliazioni e i compromessi impostigli dalla condizione di intellettuale cortigiano, non senza rivendicare il proprio diritto alla dignità e alla libertà
personale. Ai vincoli e al servilismo della vita a corte egli dichiara di preferire un’esistenza
ben più modesta ed afferma di essere pronto a rinunciare ad agi e benefici in nome dell’indipendenza. La polemica risulta, tuttavia, smorzata nei toni dall’apologo ispirato alle favole
di Fedro, che racconta in termini allegorici la storia dell’asino ingordo, simbolo dell’avidità dei
cortigiani, e del topolino saggio, figura dell’intellettuale ravveduto, che suggerisce al primo di
rinunciare all’abbondanza di cibo trovata in prigione, l’ambiente di corte, per ritornare “magro” e riconquistare la perduta libertà. Obiettivo del bonario attacco polemico sembra, quindi,
essere il desiderio di ottenere dal proprio mecenate un trattamento privilegiato, in virtù delle
straordinarie capacità letterarie di cui Ariosto ha dato continue dimostrazioni.
Del resto, più volte nei suoi versi il poeta mette in dubbio l’effettiva capacità del proprio Signore di riconoscere il vero talento poetico, di distinguere i poeti dagli adulatori, quelle cicale scoppiate che sulla superficie lunare rappresentano agli occhi del paladino Astolfo i versi lusinghieri
dedicati ai potenti nella speranza di una ricompensa (Orlando Furioso, XXIV, LXXVII), secondo
l’arte che più tra i cortigiani si studia e cole, l’adulazione (Satira I, vv. 7-8). Ariosto è pienamente
consapevole del disprezzo che il cardinale manifesta verso la sua attività letteraria, alla quale
preferisce i servizi e le mansioni pratiche a cui costringe il poeta: S’io l’ho con laude ne’ miei
versi messo, / dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; / più grato fora essergli stato appresso
(Satira I, vv. 106-108). Quindi, si comprende la sottile ironia che percorre la dedica del Furioso a
Ippolito d’Este, oscillante fra dichiarazioni di umiltà (l’umil servo vostro) e sicure affermazioni
del valore della propria poesia (Quel ch’io vi debbo […] / tutto vi dono): nella terza ottava del
Proemio Ariosto chiede a un mecenate immerso in alti pensier, che ne impegnano continuamente l’attenzione, di concedere un po’ di spazio ai propri versi.
2° Argomento a favore della tesi
Attraverso esempi tratti
dall’opera di Ariosto si evidenzia come l’oscillare fra
polemica e celebrazione costituisca un espediente per
migliorare la propria condizione a corte.
Tuttavia, finché fu in vita Ariosto non ottenne mai il riconoscimento agognato, nonostante
il talento poetico e il successo decretato dal pubblico al poema. Come suggerisce Roberto
Pazzi in un articolo apparso sul “Resto del Carlino” qualche anno fa, furono forse la paura e il
risentimento che dovettero cogliere il suo mecenate, così come i potenti dell’epoca, di fronte
all’insopprimibile libertà della fantasia e della scrittura poetica a impedirgli di attribuire al
poeta un degno riconoscimento.
Conclusione
Si propone un bilancio della
carriera cortigiana di Ariosto.
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Laboratorio per l’esame
5
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 921-922
Analisi del testo
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 921-922.
• Torquato Tasso, Qual rugiada o qual pianto (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
Quale rugiada o quale pianto, quali lacrime erano quelle che vidi cadere dalla volta del cielo notturno e dal luminoso volto
delle stelle? E perché la bianca luna ha disseminato una pura nube di gocce cristalline in grembo all’erba fresca? Perché
nell’aria oscura della notte si udivano le brezze, simili a lamenti, spirare tutt’intorno fino al sorgere del giorno? Furono forse
presentimenti della tua partenza, o vita della mia vita?
2. Analisi del testo
2.1 Forma di poesia per musica, il madrigale nasce nel Trecento come genere di argomento per lo più amoroso, al quale
Petrarca per primo riconosce dignità letteraria, inserendolo nel Canzoniere. Nel Cinquecento esso presenta forme radicalmente diverse ed è caratterizzato da una grande libertà metrica, sia nell’alternanza di endecasillabi e settenari, sia
negli schemi delle rime. Tasso impiega numerosi strumenti metrici e retorici per infondere al madrigale in esame una
musicalità languida e malinconica, in pieno accordo con lo stato d’animo a cui egli intende dare voce: in una struttura che
si fa innanzitutto musica, il contenuto, pur sempre omogeneo, passa spesso in secondo piano rispetto al susseguirsi delle
immagini e dei suoni.
I dodici versi del componimento in esame, endecasillabi e settenari variamente alternati e rimati, sono caratterizzati dallo schema metrico abABCDdcEeFf: la rima baciata collega sempre un endecasillabo a un settenario, generando un effetto
di eco. Ricorre spesso l’enjambement (vv. 2-3, 8-9, 9-10), che spezzando la frase crea una temporanea sospensione nel
fluire dei versi, rallentandone il ritmo. Alla musicalità dolce e malinconica concorrono, inoltre, le ripetizioni lessicali (qual
ai vv. 1 e 2; perché ai vv. 5 e 8; intorno al v. 9; vita al v. 12) e sonore: frequente l’iterazione della consonante liquida l, come al
verso 6, dove le cristalline stille richiamano per paronomasia le stelle del verso 4. La coppia aggettivo-sostantivo, ricorrente nella prima parte de madrigale (notturno manto, candido volto, bianca luna, cristalline stille, puro nembo), è rovesciata nella seconda parte, dove prevale l’accostamento sostantivo-aggettivo (erba fresca, aria bruna). Diffusa l’inversione
dell’ordine abituale degli elementi all’interno della frase, per cui il predicato verbale precede spesso il soggetto (seminò
la bianca luna), il complemento di specificazione anticipa il termine a cui si riferisce (di cristalline stille un puro nembo).
2.2La struttura sintattica, nel susseguirsi di frasi interrogative la cui lunghezza decresce per quantità di versi (rispettivamente 4, 3, 3 e 2), contribuisce a creare un effetto musicale trasognato e malinconico. Alle domande che percorrono il
componimento pare dare risposta l’interrogativa finale, la quale suggerisce la partecipazione del paesaggio notturno al
malinconico presagio dell’io lirico: l’identificazione fra scenario naturale e stato d’animo non è, tuttavia, affermata con
certezza, bensì presentata come dubbio (forse).
2.3È segni la parola-chiave che pone in evidenza il legame fra la vicenda di separazione dall’amata vissuta dal poeta e una
natura partecipe e fortemente umanizzata: così, la rugiada si trasforma in pianto e lacrime, le brezze notturne in sospiri
e lamenti di dolore; la natura addolorata pare annunciare la partenza dell’amata. Sono soprattutto le scelte lessicali e
le metafore (il manto della notte, il candido volto delle stelle, il grembo dell’erba fresca) a sottolineare questo processo
di identificazione tra io lirico e paesaggio naturale. La partecipazione della natura alle vicende del poeta è tradotta in
termini visivi grazie a un sapiente uso dei colori: il poeta tratteggia, infatti, un paesaggio in bianco e nero, dominato dal
contrasto fra luce e ombra, fra chiaro e scuro, che suggerisce atmosfere crepuscolari, pervase di malinconia; al notturno
manto del cielo si contrappone il candido volto delle stelle, alla bianca luna l’aria bruna della notte. Alle sensazioni visive si mescolano, inoltre, percezioni uditive (i sospiri delle brezze e i suoni malinconici della lirica) e tattili (la freschezza
dell’erba).
2.4Il madrigale propone una situazione tipicamente petrarchesca: esso descrive l’intimo e solitario colloquio dell’io lirico con
il paesaggio naturale, il quale funge da “specchio” all’interiorità del poeta. Il dolore per la partenza della donna amata è,
così, trasferito allo scenario naturale: i fenomeni notturni diventano segni della commossa partecipazione della natura
alla malinconica nostalgia del poeta.
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Laboratorio per l’esame
1
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Tra i motivi che muovono più profondamente l’ispirazione del Tasso vi è senza dubbio la partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. Si pensi, ad esempio, all’episodio della fuga di Erminia con cui si apre il canto
VII della Gerusalemme liberata, all’interno del quale lo scenario naturale costituisce lo strumento di espressione privilegiato per l’interiorità fragile e tormentata dell’eroina pagana. In fuga da Gerusalemme, in preda alla sofferenza causata
dall’amore non ricambiato per Tancredi, ella si lascia condurre dal suo cavallo fra gli alberi ombrosi dell’antica selva, vagando senza meta in preda al proprio dolore, finché al tramonto ella giunge sulle rive del Giordano, dove si addormenta.
Il paesaggio idilliaco che la principessa pagana scopre al suo risveglio, ritratto secondo i canoni della tradizione e denso
di echi letterari, assume un carattere immediatamente rasserenante, che si contrappone all’atmosfera violenta e crudele
della guerra dalla quale ella fugge.
Analoga la funzione simbolica del paesaggio naturale nell’Aminta, dramma pastorale che ambienta la vicenda d’amore
del pastore Aminta per la ninfa Silvia in una cornice naturale la quale è, nelle intenzioni dell’autore, la trasposizione
idealizzata della brillante vita di corte. La storia di Aminta è un invito a evadere dalle ansie del presente per rifugiarsi in
un modo fantastico, in cui sia possibile vivere in armonia con la natura, aspirando alla felicità e alla bellezza. In un simile
contesto, il locus amoenus che fa da scenario alle vicende, un paesaggio idealizzato fatto di cieli limpidi, prati fioriti,
limpidi ruscelli, alberi generosi di ombre, uccelli canterini e brezze fresche e leggere, si configura come luogo incontaminato di idilliaca pace, la cui quiete e serenità si contrappongono all’atmosfera violenta e crudele della storia. Lo scenario
pastorale incarna, in questo senso, il mito dell’età dell’oro, stagione del mondo in cui l’umanità viveva in pace e serenità,
in sintonia con la natura. Emblematica celebrazione di questo paradiso perduto è il coro con cui si chiude il primo atto,
pervaso della medesima nostalgia che caratterizza il madrigale in analisi.
3.2Inoltre, è tipicamente petrarchesco il ricorso alla tecnica provenzale del senhal, impiegato, come già nel Canzoniere, al
duplice scopo di celare l’identità dell’amata e al tempo stesso suggerirne il nome nei versi: l’espressione l’aure proietta
infatti nel paesaggio naturale la bellezza femminile di Laura Peperara, oggetto della passione amorosa di Tasso. Analoga
la tecnica messa in atto nel madrigale Ecco mormorar l’onde, nei cui versi risuona in forma di pseudonimo il nome della
donna amata (v. 3: […] a l’aura mattutina […]; v. 13: […] l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura […]).
Laboratorio per l’esame
2
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La stesura del testo
Commento
Introduzione all’opera e al contesto letterario
L’esperienza lirica accompagna l’intera esistenza di Tasso, che compone oltre millesettecento poesie, ispirate alle più diverse occasioni
ed espresse nel linguaggio del petrarchismo. Tasso ne avvia la sistemazione in una raccolta organica, progettata secondo un criterio di
tipo tematico, che avrebbe dovuto comprendere tre volumi; riuscì a
far stampare solo i primi due, le liriche d’amore (1591) e le rime di encomio (1593).
Fin dalle prime esperienze giovanili Tasso dimostra la capacità di calare la propria esperienza personale entro i temi e i modi di una tradizione lirica consolidata: i suoi modelli di riferimento sono i classici latini, Petrarca e i maggiori petrarchisti del Cinquecento, che egli
tenta comunque di rinnovare e interpretare con originalità, attraverso
forme pervase di intensa musicalità esperienze e sentimenti personali e soggettivi.
È soprattutto nella predilezione per il genere del madrigale, meno logorato e assai più libero da schemi e convenzioni rispetto al sonetto,
che la personalità di Tasso esprime la propria unicità. In nessun altro genere egli avrebbe potuto riconoscere il proprio spazio poetico:
nato nel Trecento come poesia per musica di argomento per lo più
amoroso, il madrigale riceve proprio da Petrarca, che lo inserisce nel
Canzoniere, la prima consacrazione letteraria; esso acquisisce poi nel
Cinquecento una maggiore libertà metrica, sia nell’alternanza di endecasillabi e settenari sia negli schemi delle rime, all’interno di una
struttura che privilegia rispetto al contenuto il susseguirsi di immagini e di suoni.
La produzione madrigalistica del Tasso propone quasi tutti i più ricorrenti topoi della lirica amorosa di tradizione petrarchesca: spiccano, in
particolare, i paesaggi naturali delicatamente tratteggiati, in grado di
esprimere emozioni e stati d’animo sfumati e complessi, protagonisti
privilegiati delle più belle liriche tassiane. Tra i motivi che muovono più
profondamente l’ispirazione del Tasso vi è infatti la partecipazione dei
paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. La capacità di
fondere natura e sentimenti arricchisce di sfumature tenui e delicate entrambe le componenti: fugaci attimi di felicità, lievi turbamenti
dell’animo, languide malinconie trovano così espressione attraverso
la musicalità di cui Tasso sapientemente pervade i propri versi.
L’analisi del significato
Il madrigale Qual rugiada o qual pianto propone una situazione tipicamente petrarchesca, l’intimo e solitario colloquio dell’io lirico con il
paesaggio naturale, che funge da “specchio” alle emozioni del poeta. Di ritorno da un incontro amoroso con colei che sola dà senso alla
sua esistenza, immerso in un suggestivo scenario notturno, il poeta
presagisce la partenza dell’amata nei fenomeni naturali, pervasi della
medesima struggente malinconia che domina il suo animo. Il dolore
per la separazione dalla donna che ama, quella Laura Peperara il cui
nome riecheggia ne l’aure del verso 10, è così trasferito al paesaggio
notturno, all’interno del quale egli crede di leggere i segni di una commossa partecipazione alla propria sofferta nostalgia: la rugiada si trasforma in pianto e lacrime, le brezze notturne in sospiri e lamenti di
dolore; la natura addolorata pare annunciare la partenza dell’amata.
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni utili a delineare le caratteristiche
generali dell’opera.
Notizie ricavate da conoscenze personali.
Precisazione del contesto poetico nel quale
l’autore ha operato.
Enunciazione sintetica
del contenuto del sonetto.
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Rielaborazione della parafrasi.
Informazioni contenute
nelle risposte 2.4 e 3.2.
Laboratorio per l’esame
3
Protagonisti del madrigale sono, dunque, le emozioni e gli stati d’animo dell’io lirico, che una natura partecipe e fortemente umanizzata
riesce a vivere e ad esprimere attraverso un fluire di immagini acustiche, visive e tattili, dalla musicalità dolce e malinconica. Sotto lo
sguardo del poeta il paesaggio notturno si trasfigura, perdendo i
propri contorni e assumendo sembianze umane: alcune metafore (il
manto della notte, il candido volto delle stelle, il grembo dell’erba fresca) sottolineano questa metamorfosi, entro la quale persino i suoni
del paesaggio si confondono con la voce del poeta. La partecipazione
della natura alle vicende del poeta è, inoltre, tradotta in termini visivi grazie a un sapiente uso dei colori: Tasso tratteggia, infatti, un
paesaggio in bianco e nero, dominato dal contrasto fra luce e ombra,
fra chiaro e scuro, che suggerisce atmosfere crepuscolari, pervase di
malinconia; al notturno manto del cielo si contrappone il candido volto
delle stelle, alla bianca luna l’aria bruna della notte. Alle sensazioni
visive si mescolano, inoltre, percezioni uditive (i sospiri delle brezze e i
suoni malinconici della lirica) e tattili (la freschezza dell’erba).
Il motivo della partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e
ai sentimenti umani non è nuovo nell’opera di Tasso: esso ne costituisce, al contrario, un tema ricorrente, che muove profondamente
l’ispirazione del poeta. Si pensi all’episodio della fuga di Erminia con
cui si apre il canto VII della Gerusalemme liberata, all’interno del quale
lo scenario naturale costituisce lo strumento di espressione privilegiato per l’interiorità fragile e tormentata dell’eroina pagana, con la
quale è in perfetta sintonia. Analoga la funzione nel dramma pastorale dell’Aminta dello scenario naturale, un luogo incontaminato di
idilliaca pace che si configura come simbolo dell’età dell’oro, mitica
stagione del mondo in cui l’umanità viveva in armonia e serenità.
Nel madrigale in esame, tuttavia, il poeta attenua l’identificazione fra
paesaggio e stato d’animo, senza affermarla con certezza, piuttosto
presentandola come dubbio, sia attraverso le frasi interrogative che
percorrono l’intero componimento, sia nella conclusione in forma di
domanda, che suggerisce con incertezza l’idea di una possibile partecipazione del paesaggio notturno al malinconico presagio dell’io lirico.
L’analisi del significante
All’interno di una struttura che è anzitutto musica, il tenue contenuto
passa rapidamente in secondo piano, benché risulti comunque omogeneo alle sonorità prodotte dal testo poetico. È dunque sulle scelte
formali che è bene soffermarsi, sull’insieme di artifici retorici a cui il
poeta fa ricorso per combinare, entro lo schema straordinariamente
libero del madrigale, fugacità dei sentimenti e sfumata delicatezza
del paesaggio.
I dodici versi del componimento in esame, endecasillabi e settenari
variamente alternati e rimati, sono caratterizzati dallo schema metrico abABCDdcEeFf: la rima baciata collega sempre un endecasillabo a
un settenario, generando un effetto di eco. Ricorrente l’enjambement
(vv. 2-3, 8-9, 9-10), che spezzando la frase crea una temporanea sospensione nel fluire dei versi, rallentandone il ritmo.
Alla musicalità dolce e malinconica concorrono, inoltre, le ripetizioni
lessicali (qual ai vv. 1 e 2; perché ai vv. 5 e 8; intorno al v. 9; vita al v. 12) e
sonore: frequente l’iterazione della consonante liquida l, come al verso 6, dove le cristalline stille richiamano per paronomasia le stelle del
Laboratorio per l’esame
4
Definizione dello stato
d’animo prevalente e
delle sensazioni dominanti all’interno del
brano.
Informazioni contenute
nella risposta 2.3.
Confronto con altre
opere dell’autore.
Risposta 3.1.
Informazioni contenute
nella risposta 2.2.
Metrica
Informazioni contenute
nella risposta 2.1 e integrazioni.
Figure retoriche
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verso 4. La coppia aggettivo-sostantivo, ricorrente nella prima parte
de madrigale (notturno manto, candido volto, bianca luna, cristalline stille, puro nembo), è rovesciata nella seconda parte, dove prevale
l’accostamento sostantivo-aggettivo (erba fresca, aria bruna). Il poeta
ricorre anche all’inversione dell’ordine abituale degli elementi all’interno della frase, per cui il predicato verbale precede spesso il soggetto (seminò la bianca luna), il complemento di specificazione anticipa il
termine a cui si riferisce (di cristalline stille un puro nembo).
La struttura sintattica, nel susseguirsi di frasi interrogative la cui lunghezza decresce per quantità di versi (rispettivamente 4, 3, 3 e 2),
contribuisce a creare un effetto musicale trasognato e malinconico.
Alle domande che percorrono il componimento pare dare risposta
l’interrogativa finale, la quale suggerisce la partecipazione del paesaggio notturno al malinconico presagio dell’io lirico: l’identificazione
fra scenario naturale e stato d’animo non è, tuttavia, affermata con
certezza, bensì presentata come dubbio (forse).
Incertezza, questa, che concorre con le scelte espressive a confermare nel lettore quell’impressione di lieve e trasognata malinconia, di
sfumata leggerezza che costituisce la cifra più originale delle Rime di
Tasso.
La sintassi
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Laboratorio per l’esame
5
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 945-946
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Ariosto e Tasso: la fuga di Angelica e di Erminia» utilizzando il dossier che
si trova alle pagine 945-946.
• Ludovico Ariosto, La selva buia (• D1)
• Ludovico Ariosto, La selva luogo dell’amore (• D2)
• Lanfranco Caretti, Erminia e Angelica (• D3)
Schedatura dei documenti
•D1 Ludovico Ariosto, La selva buia
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Fugge tra selve spaventose e
scure, / per lochi inabitati, ermi
e selvaggi. / Il mover de le frondi
e di verzure, / che di cerri sentia,
d’olmi o di faggi, / fatto le avea
con subite paure / trovar di qua di
là strani viaggi; / ch’ad ogni ombra veduta in monte o in valle, /
temea Rinaldo aver sempre alle
spalle.
Il paesaggio assume una precisa
funzione simbolica, che muta al
variare dello stato d’animo della
protagonista: le selve spaventose e oscure, i luoghi selvaggi,
solitari e inabitati rappresentano la paura e lo smarrimento
di Angelica, amplificati dal buio
della notte.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
È opportuno evidenziare
il ruolo centrale di Angelica all’interno del Furioso, nel quale ella incarna
l’oggetto del desiderio:
tutti i cavalieri, cristiani e
saraceni, incluso il grande paladino Orlando della bellissima principessa
del Catai. Ella tuttavia,
sottraendosi al ruolo
passivo a cui la relegano
i personaggi maschili, rifiuta il loro amore e, violando ogni convenzione
sociale, sceglie di sposare un semplice soldato.
Idea centrale
La descrizione degli
stati d’animo di Angelica in fuga dal campo
dei cristiani.
Messaggio dell’autore
La corrispondenza fra lo
stato d’animo della protagonista e le caratteristiche del paesaggio.
•D2 Ludovico Ariosto, La selva luogo dell’amore
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Fra piacer tanti, ovunque un arbor
dritto / vedesse ombrare o fonte
o rivo puro, / v’avea spillo o coltel
subito fitto; / così, se v’era alcun
sasso men duro: / ed era fuori in
mille luoghi scritto, / e così in casa
in altritanti il muro, / Angelica e
Medoro, in vari modi / legati insieme di diversi nodi.
L’amore di Angelica per Medoro,
il fante saraceno da lei curato e
salvato presso la fattoria di un
povero pastore, appare insistentemente in incisioni e scritte che
ricoprono qualunque spazio disponibile.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516-1532).
Si possono ampliare le
informazioni su Medoro, guerriero saraceno di
umili origini del quale si
esaltano all’interno del
poema la bellezza fisica,
la lealtà nell’amicizia con
Cloridano, la devozione
al proprio signore, del
quale tenta di recuperare
il cadavere a costo della
propria vita.
Idea centrale
La bizzarria del caso,
che fa innamorare Angelica dell’unico soldato che non l’ha inseguita e conduce Orlando
nei luoghi dell’amore.
Messaggio dell’autore
La supremazia del caso
nelle vicende umane.
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Laboratorio per l’esame
1
•D3 Lanfranco Caretti, Erminia e Angelica
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
La fuga di Erminia non ha nulla del
divertito e romanzesco vagabondare della bella Angelica ariostesca,
sempre così pronta, in ogni frangente, ad esercitare le armi sottili
dell’astuzia per governare il corso
degli eventi: Erminia, inerme e sbigottita, è trascinata senza consiglio e senza guida in una cavalcata
affannosa, senza respiro, e nulla
vede e nulla sente se non l’eco, in
se stessa, dei propri pianti, delle
proprie grida.
Si noti la scelta dei sostantivi
che indicano l’allontanamento
volontario delle due eroine: si
parla, infatti, di fuga per Erminia, di romanzesco vagabondare per Angelica, a sottolineare il
diverso atteggiamento dei personaggi nei confronti del proprio destino. Vittima inerme la
prima, scaltra e intraprendente
calcolatrice la seconda.
Saggio (periodo storico
1991).
Si può evidenziare il diverso rapporto che si instaura nei due poemi fra
autore e personaggi: nel
Furioso Ariosto affida a
un narratore onnisciente, che domina dall’alto
vicende e personaggi,
il compito dell’ironico
commento del mondo
rappresentato, al quale
guarda con un tale distacco da rendere impossibile, per autore e
lettore, l’identificazione
con i personaggi. Al contrario nella Gerusalemme
liberata l’approfondita
analisi dell’interiorità dei
personaggi, combattuti
fra essere e dover essere,
riflette l’intima conflittualità del loro creatore,
Tasso, tormentato fra
ansie morali e la fiducia
nell’autonomia dell’agire
umano.
Laboratorio per l’esame
2
Idea centrale
L’analisi del personaggio ariostesco di Angelica e dell’eroina tassiana di Erminia.
Messaggio dell’autore
Le differenze tra i due
personaggi.
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Saggio breve
Stesura
Struttura
Angelica ed Erminia eroine del Cinquecento
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini del
contenuto del saggio.
La fuga di Erminia con cui si apre il canto VII della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
richiama quella di un’altra eroina della letteratura cinquecentesca: Angelica, dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, descritta nel primo canto del poema.
Introduzione
Si pone in risalto l’evidente
legame che unisce l’episodio tassiano della fuga di
Erminia all’analoga vicenda
di Angelica narrata nel Furioso.
Benché simili, i due episodi evidenziano profonde differenze, che consentono di cogliere la
diversità fra i due poemi, i loro autori e il loro modo di concepire la poesia e l’amore.
Tesi
Le analogie e le differenze
che intercorrono fra i due
episodi consentono di stabilire un più ampio confronto fra i due poemi.
Le principesse musulmane, Erminia di Antiochia e Angelica del Catai sono entrambe belle, sole
e fuggono a cavallo attraverso la selva. Ma le situazioni sono profondamente diverse.
L’Orlando furioso, poema epico-cavalleresco ambientato nell’Alto Medioevo al tempo della
guerra tra Franchi e Saraceni, intreccia il motivo delle armi con il tema dell’amore, percepito
non più come valore cortese, bensì come causa di pazzia per l’uomo. Il poema restituisce al
lettore l’impressione di un movimento incessante e vorticoso, che tuttavia non conduce ad alcuno sviluppo dei fatti: le vicende si ripiegano su se stesse, entro una struttura perfettamente
circolare, riportando i protagonisti al punto di partenza. I complessi avvenimenti raccontati nel
poema ruotano, infatti, attorno al meccanismo dell’inchiesta, ossia della ricerca di un irraggiungibile oggetto del desiderio: tutti i personaggi sono in cerca di qualcosa o all’inseguimento
di qualcuno, che non riescono mai a raggiungere.
Si inserisce in questo dinamismo la fuga di Angelica, la bellissima principessa del Catai della
quale si innamorano tutti i cavalieri, cristiani e saraceni; oggetto del desiderio per eccellenza,
ella rifiuta superba e sdegnosa il loro amore e, sottraendosi al ruolo passivo in cui essi la relegano, sposa, violando ogni convenzione e regola sociale, un semplice soldato. L’infrangersi
dell’illusione d’amore condurrà il paladino Orlando alla pazzia.
La Gerusalemme liberata, poema epico ambientato ai tempi della prima crociata (1096-1099),
si propone il duplice intento di divertire ed educare moralmente, accostando il lettore ai precetti religiosi: a questo scopo, Tasso fonde le avventure dei cavalieri antichi con l’ideale cristiano e arricchisce il soggetto storico con personaggi di invenzione e col ricorso al “meraviglioso
cristiano”, ossia l’intervento di forze divine e demoniache. Accanto alle tematiche religiosa e
cavalleresca, è concesso ampio spazio all’amore, che il poeta affronta con grande capacità di
indagine dell’animo umano: egli rappresenta l’esperienza amorosa in toni fortemente conflittuali, esaltandone la dimensione puramente spirituale in contrapposizione alla passione e
al piacere dei sensi, che possono insidiare la coscienza dei cristiani e sottrarli ai propri doveri
morali. Sul conflitto irrisolto fra passione sensuale e senso di colpa incombe la percezione angosciosa della precarietà della condizione umana, sul vagheggiamento della bellezza aleggia
lo spettro della morte. Nel poema sono narrati amori impossibili, contrastati e infelici, talvolta
persino tragici, nei quali si incrociano sovente i destini di guerrieri cristiani ed eroine saracene.
Giovane e delicata principessa pagana, innamorata senza speranza del principe normanno
Tancredi, che ama un’altra, Erminia rappresenta nelle sue inquietudini e nelle sue fragilità
la sensibilità ansiosa e tormentata di Tasso, alla costante ricerca di una felicità destinata a
restare irraggiungibile. Nella fuga da Gerusalemme, ignara del fatto che è proprio l’uomo che
1° Argomento a sostegno
della tesi
L’episodio della fuga assume un diverso significato
all’interno dei due poemi.
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Laboratorio per l’esame
3
ella ama a inseguirla, Erminia si abbandona alla volontà del destriero, che la conduce miracolosamente in salvo attraverso tortuosi e oscuri sentieri, fino alle rive del Giordano. Chiusa nel
proprio dolore, non udendo o vedendo altro d’intorno che le lagrime sue, che le sue strida, ella
vaga per l’oscura selva senza consiglio e senza guida, nutrendosi solo delle proprie sofferenze,
delle proprie lacrime. Il paesaggio idilliaco che la accoglie al risveglio assume un carattere immediatamente rasserenante, ulteriormente confermato dall’incontro con il vecchio pastore e
dalla decisione di rifugiarsi in un luogo fuori dalla storia, alla ricerca di pace interiore.
È ben diversa l’esperienza di Angelica: in fuga da Rinaldo, ella dapprima vaga smarrita per
luoghi selvaggi e disabitati, simile a una pargoletta o dramma o capriuola che ad ogni sterpo
che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca. Quindi, sentendosi protetta e al sicuro, si trasforma da vittima indifesa in fredda e cinica calcolatrice che non esita a servirsi di
Sacripante, venuto dall’Oriente in cerca di lei: dura e fredda più d’una colonna, come colei c’ha
tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno, ella non pensa per un solo istante
ad alleviarne i tormenti d’amore, lo illude finché ne avrà bisogno, per poi tornare all’uso suo
dura e proterva. Protagonista del proprio destino, perfettamente in grado di dominare il corso
degli eventi, ella modifica il proprio comportamento a seconda del rapporto che stabilisce con
le vicende e con gli altri personaggi.
Benché scaltra e astuta, Angelica si rivela, però, priva di spessore psicologico. Se, infatti, il
Furioso è poema d’azione, nella rappresentazione dei personaggi Ariosto non crea figure a
tutto tondo, caratterizzate da una circostanziata definizione psicologica e sentimentale; egli
si limita, piuttosto, a tratteggiare figure che riflettano, di volta in volta, un solo aspetto della
natura umana, al fine di rappresentare, entro l’unità del poema, la varietà dell’uomo, la mobilità delle vicende umane. I personaggi del Furioso appaiono piatti e poco credibili, dominati da
un solo tratto della natura umana, una sola passione, un unico impulso che li spinge ad agire
garantendo così il perpetuarsi del dinamismo, lo svolgersi delle vicende. Proprio la superficiale
caratterizzazione dei personaggi impedisce di fatto all’attenzione del lettore di soffermarsi
su una singola vicenda, bloccando l’evolvere degli eventi nella loro complessità. Spetta poi al
narratore il compito di ricomporre le vicende complesse e caotiche narrate nel poema entro un
disegno unitario e organico, dotato di armonia compositiva. Quello del Furioso è un narratore
onnisciente, che domina dall’alto vicende e personaggi, esprimendo giudizi ed esplicitandone
il senso morale con distacco, con sguardo disincantato. Alla voce narrante l’autore affida il
compito dell’ironico commento di quel mondo cortese al quale guarda con distacco. È impossibile, dunque, l’identificazione fra autore e personaggi: persino il tema della follia d’amore,
della quale pure il poeta si dichiara vittima nella seconda ottava del Proemio, appare condivisa,
anche se nell’episodio della perdita del senno da parte di Orlando, alla sentita partecipazione
alla vicenda del paladino subentra ben presto, nell’animo del poeta così come nel lettore, un
crescente distacco, che si traduce rapidamente in ironia e derisione.
Al contrario nella Gerusalemme liberata, poema di affetti indagati con sottile psicologia, l’interiorità dei personaggi è analizzata con profondità e capacità introspettiva. Combattuti fra
l’essere e il dover essere, fra desiderio ed etica del dovere, essi riflettono l’intima conflittualità
propria del loro creatore, Tasso, angosciato fra le ansie morali generate dalla Controriforma e
la fiducia nell’autonomia dell’agire umano retaggio della tradizione laica umanistico-rinascimentale. È soprattutto nei personaggi infelici come Erminia che Tasso si riconosce e si identifica: nelle loro inquietudini e fragilità egli riconosce la propria sensibilità ansiosa e tormentata,
la costante ricerca di una felicità destinata a restare irraggiungibile. Anche lo stile si adatta
a rispecchiare le oscillazioni e le ambiguità psicologiche dei personaggi: il registro epico e solenne, che ben esprime le imprese gloriose e le nobili gesta degli eroi, si alterna o si fonde con
quello lirico e sentimentale, che dà voce alle perplessità dell’animo, alle angosce, alle inquietudini che si accompagnano al doloroso sentimento del vivere.
Laboratorio per l’esame
4
2° Argomento a sostegno
della tesi
Si pone in evidenza la diversa caratterizzazione delle
due eroine.
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Fra i motivi che muovono più profondamente l’ispirazione di Tasso vi è senza dubbio la partecipazione dei paesaggi naturali alle emozioni e ai sentimenti umani. All’interno della Gerusalemme liberata è lo scenario naturale a costituire lo strumento di espressione più idoneo a
esprimere l’interiorità dei personaggi, che in esso si riflettono e si riconoscono come in uno
specchio: si pensi, ad esempio, alla voce del vento leggero che sembra richiamare Erminia al
suo pianto (e parle voce udir tra l’acqua e i rami / ch’ai sospiri ed al pianto la richiami). Il motivo
della natura incontaminata che si pone in armonia con l’animo del protagonista e ne rispecchia
l’evoluzione è, infatti, facilmente rintracciabile nell’episodio della fuga di Erminia: è evidente
il significato simbolico dello scenario naturale, rappresentato con le sembianze della selva
oscura prima, del locus amoenus poi. La natura appare, inoltre, come luogo incontaminato
di idilliaca pace, ritratto secondo i canoni tradizionali e denso di ricordi letterari, e tuttavia
pervaso da struggente e inedita malinconia; domina nella narrazione un tono elegiaco, che
dissemina la descrizione naturalistica di sfumature tenuti e delicate e rallenta il ritmo del
racconto grazie a un sapiente uso dell’enjambement. La quiete e la serenità del paesaggio che
Erminia al risveglio scopre lungo le rive del Giordano si contrappongono all’atmosfera violenta
e crudele della guerra dalla quale ella fugge.
All’interno del Furioso, un paesaggio descritto non in modo realistico o verosimile, fantastico
e labirintico, nel quale i personaggi continuano a perdersi, concorre a trasmettere al lettore
l’impressione di un movimento incessante e vorticoso delle vicende, che non approda ad alcuno sviluppo. Nell’episodio della fuga di Angelica, lo scenario naturale assume una funzione
simbolica, che muta al variare dello stato d’animo della protagonista: le selve spaventose e
oscure, i luoghi selvaggi, solitari e disabitati ben rappresentano la paura e lo smarrimento
della principessa, così come il buio della notte, al quale segue poi la luce del giorno; sono ora
il boschetto leggiadro, leggermente mosso dal vento, l’erba tenera e nuova percorsa da due
limpidi ruscelli le cui acque producono una piacevole armonia a rappresentare il rasserenarsi
dell’animo, il senso di protezione e di sicurezza che lo pervade.
3° Argomento a sostegno
della tesi
Si evidenziano analogie e
differenze nella rappresentazione del paesaggio.
Diverso è, infine, l’epilogo della vicenda: superba e sdegnosa, Angelica finirà col rifiutare
l’amore di tutti i più grandi paladini cristiani e guerrieri saraceni. Sottraendosi al ruolo di oggetto passivo del desiderio maschile, ella deciderà di sposare, infrangendo ogni convenzione
e norma della rigida gerarchia sociale dell’Alto Medioevo, un semplice soldato, non esitando a
rendere ben visibile in incisioni e graffiti il proprio amore per Medoro.
Erminia, al contrario, alla ricerca di una felicità in amore destinata a sfuggirle, sceglie di sottrarsi al flusso degli eventi per dedicarsi alla riconquista della pace interiore nell’atmosfera
idillica del luogo pastorale. La scelta di Erminia, che offre al poeta lo spunto per una polemica
anticortigiana entro cui contrapporre le inique corti alla quiete dell’umile vita agreste, è dunque condivisa da Tasso: in questi versi egli esprime il rapporto conflittuale con la corte ferrarese, che risponde al suo bisogno di protezione e di tranquillità economica ma al contempo
suscita il suo sdegno per l’ipocrisia e la falsità dilaganti.
4° Argomento a sostegno
della tesi
Si rileva il diverso epilogo
della fuga e si sottolinea
la vicinanza spirituale che
lega Tasso a Erminia.
È forse questo il punto che mette d’accordo entrambi i poeti: essi condivisero la condizione di
intellettuale cortigiano e furono entrambi consapevoli della duplicità della propria posizione,
della quale riconoscevano privilegi e limiti.
Conclusione
Si individua un motivo che
pare mettere d’accordo entrambi i poeti.
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Laboratorio per l’esame
5
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 1006-1007
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «Intellettuali umanisti e rapporto fra Cristianesimo e cultura laica» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 1006-1007.
• Pico della Mirandola, Dignità dell’uomo (• T77)
• Coluccio Salutati, Primato della vita attiva (• T123)
• Cristoforo Landino, Elogio della vita meditativa (• T124)
• Coluccio Salutati, Fede e grammatica (• D1)
• Leonardo Bruni, La supremazia dell’impegno civile (• D2)
• Erasmo da Rotterdam, Lo studio dei classici (• D3)
• Carlo Dionisotti, Chierici e laici (• D4)
Schedatura dei documenti
•T77 Pico della Mirandola, Dignità dell’uomo
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Finalmente l’ottimo artefice
[…] accolse perciò l’uomo come
opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli
parlò: «Non ti ho dato, Adamo,
né un posto determinato, né un
aspetto tuo proprio, né alcuna
prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto
appunto, secondo il tuo voto e il
tuo consiglio, ottenga e conservi.
La natura determinata degli altri
è contenuta entro leggi da me
prescritte. Tu te la determinerai,
da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo
del mondo perché di là meglio tu
scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né
terreno, né mortale né immortale,
perché di te stesso quasi libero e
sovrano artefice ti plasmassi e ti
scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare
nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il
tuo volere, nelle cose superiori che
sono divine». […]
Il testo manifesta l’antropocentrismo umanista: esalta la dignità dell’uomo, unica creatura
sottratta al determinismo delle
leggi divine e naturali e lasciata
libera di plasmare se stessa e
il proprio destino esercitando il
libero arbitrio, supremo privilegio concesso all’umanità. Perciò, l’uomo può determinare la
propria condizione, scegliendo
liberamente fra la dimensione
terrena e quella celeste.
Orazione in latino (periodo storico 14861487).
Occorre ampliare le informazioni su Pico della
Mirandola (1463-1494),
esponente dell’Umanesimo fiorentino passato alla storia per la sua
memoria prodigiosa. La
sua opera, espressione
di una cultura vasta ed
eterogenea, testimonia
l’aspirazione a cogliere
analogie e corrispondenze tra le più disparate
discipline e teorie. Egli
coniuga, in particolare,
la riflessione etica e religiosa con l’affermazione
della dignità dell’uomo,
l’unica creatura a cui Dio
ha concesso il libero arbitrio, la suprema facoltà
di decidere della propria
sorte e del proprio ruolo
nell’universo.
Idea centrale
L’autore afferma la
centralità nell’universo
dell’uomo.
Messaggio dell’autore
Indurre l’uomo a divenire artefice del proprio
destino e a prendere
coscienza della propria
superiorità rispetto alle
altre creature.
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Laboratorio per l’esame
1
•T123 Coluccio Salutati, Primato della vita attiva
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Infatti, sebbene la vita solitaria sia ritenuta più sicura, non lo è
tuttavia; occuparsi onestamente
di attività oneste, se non è santo,
è più santo che oziare in solitudine.
Infatti la santa rusticità giova solo
a sé, come dice San Girolamo; una
santità attiva, invece, edifica molti, perché si mostra a molti; e molti
porta seco sulla via del cielo, perché
ad essi porge l’esempio.
È un detto di Platone, anzi della
stessa filosofia, che i sapienti debbono occuparsi dello Stato perché
i malvagi e i disonesti non s’impadroniscano del timone abbandonato con danno e rovina dei buoni. E
questo io penso da quel che è capitato a me […]. Questo solo tuttavia
io posso dire a voce alta, che, almeno con l’animo, non ho mai cessato
di appoggiare il bene e di auspicare
la cessazione del male.
Testo di natura argomentativa, stabilisce un confronto fra
coloro che scelgono di onorare
Dio, praticando l’ascetismo in
solitudine, e coloro che preferiscono coniugare la preghiera
con una vita attiva e socialmente impegnata.
Epistola in latino (periodo storico 1398).
Si deve fare riferimento
al concetto di humanitas, termine che definisce un nuovo modello di
uomo, in contrapposizione a quello medioevale.
Pur affondando le radici
nella cultura greco-latina, il nuovo uomo si fa
portatore di virtù morali,
intellettuali e pragmatiche compatibili con la
fede cristiana.
Laboratorio per l’esame
2
A sostegno della superiorità
della vita attiva l’autore cita
modelli illustri di santità accompagnata
dall’impegno
civile e sottolinea l’importanza dell’esempio moralmente
positivo, che genera desiderio
di emulazione. Si fa appello
anche all’autorità di Platone,
che esalta l’alto valore morale
dell’impegno politico e civile
degli intellettuali.
L’ultimo argomento a sostegno della tesi è il riferimento
alla propria esperienza personale presso la cancelleria della
Repubblica di Firenze.
Idea centrale
L’impegno politico e civile, superiore alla vita
contemplativa, è una
straordinaria forma di
carità cristiana.
Messaggio dell’autore
Esortare gli uomini di
cultura a mettere al
servizio della collettività le proprie conoscenze e competenze.
È inoltre opportuno precisare che il concetto
di humanitas non può
prescindere dagli studia
humanitatis, percorso
di formazione culturale adatto a realizzare
nell’uomo le sue migliori
qualità.
In merito alla carriera politica dell’autore, è bene
ricordare che Coluccio
Salutati fu cancelliere
della Repubblica di Firenze dal 1375 fino alla
morte.
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•T124 Cristoforo Landino, Elogio della vita meditativa
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Non possono dunque compiersi le
cose che convengono alla vita attiva senza la speculazione. E questo
è chiaro in Marta e Maria. […] Tanto
più eccellente è dunque la ricerca
della verità, in quanto genera anche quelle virtù che abbiamo detto
riguardare l’azione, a cui reca aiuto,
ed inoltre raggiunge quel mondo
divino a cui l’azione non può aspirare. Non per altra ragione, io credo,
l’eterno Iddio volle che Mosè, capo
supremo degli ebrei, promulgasse
quelle leggi che dovevano insegnare
al popolo le azioni giuste ed oneste
[…] sulla cima di un altissimo monte. Con ciò Dio, architetto di tutte le
cose, volle particolarmente indicare
che quanto giova al governo della
cosa pubblica può essere ritrovato
dagli uomini solo attraverso l’investigazione delle cose supreme. […]
Riusciranno molto più giovevoli le
virtù che si celebrano nella conoscenza del vero, che non quelle che
si travagliano nell’azione. […]
In forma di dialogo, si inserisce
nel dibattito tra vita attiva e
vita contemplativa affermando il primato dell’attività intellettuale, la quale non deve
perseguire alcun scopo pratico.
Trattato
filosofico
(periodo storico 14721473).
Occorre ampliare le informazioni su Marta
e Maria, le due sorelle
protagoniste di un episodio del Vangelo di
Luca, nel quale la prima
rappresenta la vita contemplativa, la seconda
la vita attiva; a quest’ultima Gesù fa notare che
la scelta giusta è quella
della sorella, perché rivolta a Dio, sommo bene.
A sostegno della supremazia
della vita contemplativa, l’autore chiama in causa l’autorità dei testi sacri: sono infatti
citati un passo del Vangelo di
Luca e un episodio narrato nella Bibbia.
Il monte Sinai, su cui Dio consegnò a Mosè le tavole delle
leggi, simboleggia la solitudine
e lo slancio verso il cielo necessari all’attività intellettuale,
base indispensabile per l’impegno politico e civile.
Idea centrale
Affermare il primato
dell’attività contemplativa sulla vita attiva,
della quale la prima costituisce, comunque, il
presupposto indispensabile.
Messaggio dell’autore
Indurre il lettore a privilegiare la vita contemplativa.
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3
Laboratorio per l’esame
3
•D1 Coluccio Salutati, Fede e grammatica
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Per chi voglia iniziarsi alla dottrina di Cristo attraverso le sacre
scritture, concederai tu pure la necessità di una preparazione grammaticale. Come potrebbe infatti
venire a conoscenza della Scrittura
sacra chi fosse ignaro di studi letterari? […] Non vedi a che punto
l’ignoranza della grammatica ha
condotto i religiosi, e quanti altri,
come loro, ne sono digiuni? Essi
non capiscono quello che leggono,
né possono offrire agli altri cose da
leggere. […]
Si sottolinea la necessità di coniugare fede religiosa e studi
letterari: la lettura delle Sacre
Scritture non può, infatti, prescindere da una formazione
culturale di base.
Epistola in latino (periodo storico inizio
1400).
Occorre ricordare che gli
studia humanitatis, percorso di formazione culturale del nuovo ideale
di umanità elaborato in
età umanistico-rinascimentale, comprendono,
accanto ai testi sacri, autori classici latini e greci.
L’attitudine filologica tipicamente umanistica si
traduce in campo religioso nella riscoperta del significato autentico delle
Sacre Scritture; un simile
obiettivo necessita, tuttavia, di una formazione
culturale di base.
Si allude alla decadenza del
clero, spesso incapace per
ignoranza di svolgere la propria
funzione di mediatore fra testi
sacri e fedeli.
Idea centrale
Il vero cristiano è colui che, grazie a una
formazione adeguata,
legge, comprende interpreta correttamente
i testi sacri.
Messaggio dell’autore
Indurre il destinatario a
condividere l’importanza della preparazione
culturale in vista della
lettura diretta dei testi
sacri.
•D2 Leonardo Bruni, La supremazia dell’impegno civile
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Fra gli insegnamenti morali con
i quali si forma e si educa la vita
umana, tengono in certo modo il
posto più alto quelli che concernono gli Stati e il loro governo, poiché
una disciplina del genere tende a
procacciare le felicità a tutti gli uomini. […] Il bene, quanto più ampiamente si estende, tanto più divino
deve considerarsi […].
Il testo afferma il primato della
politica, strumento di felicità
per tutti gli uomini: gli studia
humanitatis non conducono gli
intellettuali a un vuoto formalismo, bensì a una conoscenza
vasta, varia e approfondita, la
cui applicazione pratica costituisce una vera e propria forma
di carità cristiana.
Epistola in latino (periodo storico fine Trecento-inizio Quattrocento).
Si può ricordare che l’autore partecipa al dibattito tra vita attiva e vita
contemplativa che si verifica a Firenze tra XIV e
XV secolo.
Idea centrale
L’affermazione del primato della politica fra
gli insegnamenti morali, in quanto forma di
carità cristiana.
Messaggio centrale
Indurre i lettori a dedicarsi allo studio della
politica.
Laboratorio per l’esame
4
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•D3 Erasmo da Rotterdam, Lo studio dei classici
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Gli scrittori degli autori profani formano e affinano la mente del fanciullo e la dispongono meravigliosamente all’intelligenza delle Sacre
Scritture: è quasi una specie di un
sacrilegio precipitarsi subito sui testi sacri senza la necessaria disposizione. […] Tanto più che, come la
Sacra Scrittura non dà molto frutto
se si rimane fermi alla lettera, così
è possibile trarre non poco vantaggio dalla poesia di Omero e Virgilio,
a condizione che ci si ricordi che è
tutta allegorica […].
Lo studio dei classici prepara
alla comprensione delle Sacre
Scritture, ed è quindi funzionale alla formazione del buon
cristiano; è, però, necessario
interpretarne il significato non
alla lettera, bensì in senso allegorico, ricercando in essi un
significato simbolico che alluda a Dio.
Trattato (periodo storico inizio Cinquecento).
È opportuno ampliare le
informazioni sull’autore,
Erasmo da Rotterdam
(1466-1536), fra i maggiori esponenti della
cultura umanistico-rinascimentale, che nella
propria opera ne propone i motivi e gli ideali,
coniugati con una forte
tensione morale e religiosa e una vastissima
conoscenza dei classici e
della filosofia.
Idea centrale
Lo studio dei testi classici è indispensabile
alla lettura e alla comprensione delle Sacre
Scritture.
Messaggio dell’autore
Esortare i lettori a formarsi sui testi classici,
benché profani.
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Laboratorio per l’esame
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•D4 Carlo Dionisotti, Chierici e laici
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
[…] Quale fosse la situazione pubblica […] degli uomini di lettere nella società del primo Cinquecento.
Credo di poter rispondere che su un
centinaio di scrittori la metà sono
laici che vivono del loro patrimonio
familiare, arte o mestiere, senza
a quanto pare alcuna dipendenza
economica dalla Chiesa. Nell’altra
metà una ventina sono cardinali e
vescovi, una dozzina sono appartenenti a ordini religiosi […], una
ventina infine in tutto o in parte
dipendono per la loro sussistenza
da benefici ecclesiastici e di buona
o cattiva voglia sottostanno agli
obblighi inerenti a essi benefici.
Nella prima metà del XVI secolo numerosi intellettuali dipendono economicamente da benefici o cariche ecclesiastiche;
tale situazione limita, a parere
dell’autore, in qualche modo la
loro libertà di pensiero e di parola e ne condiziona l’ideologia.
Saggio storico (periodo
storico 1977).
Può essere opportuno
evidenziare come il papato conosca nella prima
metà del Cinquecento
una vistosa limitazione
della capacità di controllare e influenzare la
comunità cristiana europea. Il successo della
Riforma protestante e
la conseguente frattura dell’unità religiosa
europea costituiscono,
infatti, l’epilogo di una
lunga serie di crisi che
nei secoli precedenti
hanno indebolito l’istituzione ecclesiastica: dalla cattività avignonese
(1309-1377) allo Scisma
d’Occidente (1378), fino
alla nascita nella prima
metà del Quattrocento
della corrente del conciliarismo, volta a limitare
l’autorità del pontefice.
Anche all’interno delle
forze fedeli a Roma non
mancano, poi, occasioni
di dibattito: da un lato,
la polemica contro la
corruzione del papato
e l’inadeguatezza delle
gerarchie ecclesiastiche
e del clero; dall’altro,
l’affermazione di una
nuova religiosità fondata
sull’esperienza interiore
e sulla centralità del rapporto individuale con Dio.
In tale contesto, la scelta
della carriera ecclesiastica costituisce per molti
intellettuali una valida
alternativa alla vita di
corte, in quanto garantisce loro maggiore stabilità e autonomia.
Laboratorio per l’esame
6
Idea centrale
Quasi la metà degli
intellettuali del primo
Cinquecento dipende
economicamente dalla
Chiesa.
Messaggio dell’autore
Gli uomini di lettere
dipendenti in termini
economici dalla Chiesa
sono inevitabilmente
condizionati nell’ideologia e nel pensiero.
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TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta
Introduzione
La cultura medioevale è teocentrica: la fede religiosa è la
chiave privilegiata di interpretazione del mondo, della natura
e dell’uomo; la conoscenza non può trovare verità se non in
Dio.
Problema
Quale relazione si stabilisce fra la visione laica dell’uomo e
del mondo degli intellettuali umanisti e il rigorismo cristiano
della precedente età medioevale?
Tesi
Il rinnovamento culturale operato in età umanistica nel nome
della riscoperta della cultura antica si attua all’interno di un
quadro ideologico ancora profondamente cristiano: la diffusione della visione laica del mondo, benché riservi maggiore
attenzione alla dimensione terrena dell’uomo, non esclude la
dimensione ultraterrena. L’obiettivo primario degli intellettuali umanisti è, infatti, la conciliazione fra cultura classica e
tradizione cristiana, tra etica pagana e morale cristiana.
1° Argomento a sostegno della tesi
Se l’età medioevale aveva riservato attenzione primaria alla
dimensione eterna e ultraterrena, l’Umanesimo riscopre la
dimensione fisica e naturale dell’uomo, espressa nell’affermazione del suo diritto a realizzare i bisogni materiali
e a ricercare la felicità sulla terra, e restituisce equilibrio al
rapporto tra corpo e anima, tra azione contemplazione. Ne
consegue che:
• la vita attiva è considerata lo strumento privilegiato per
collaborare alla realizzazione del disegno provvidenziale:
è quanto affermano Leonardo Bruni e Coluccio Salutati,
i quali esaltano, anche con l’esempio dell’impegno personale, la partecipazione attiva dell’intellettuale alla vita
politica.
• La vita contemplativa conserva ancora la sua dignità e
continua a essere per molti intellettuali, fra i quali Cristoforo Landino, concettualmente superiore; essa, però,
non è più sufficiente a consentire la piena realizzazione
dell’individuo, “uomo integrale”, fatto di corpo e di anima, partecipe della dimensione materiale e di quella divina (Pico della Mirandola).
2° Argomento a sostegno della tesi
Il fine ultimo dell’impegno attivo e della partecipazione alla
vita politica dell’intellettuale umanista è di natura morale,
come afferma Leonardo Bruni: esso consiste nel dare felicità
a tutti gli uomini, come Dio chiede a ogni vero cristiano.
3° Argomento a sostegno della tesi
È convinzione diffusa presso gli umanisti che cultura pagana e tradizione cristiana non siano tra loro incompatibili e
debbano dunque trovare una conciliazione all’interno degli
4° Argomento a sostegno della tesi
La principale alternativa alla corte, presso la quale vive o
gravita la maggior parte dei letterati e degli artisti attivi in
quest’epoca, è la Chiesa, la quale sostituisce il mecenatismo
dei principi e dei signori italiani (Carlo Dionisotti). Vi sono nu-
studia humanitatis. In tal senso è significativo il pensiero
espresso da Erasmo da Rotterdam e da Coluccio Salutati.
merosi intellettuali i quali, benché privi di vocazione, scelgono la condizione ecclesiastica, attratti dai vantaggi economici derivanti dai benefici ecclesiastici, che implicano, del resto,
obblighi piuttosto modesti.
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
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Laboratorio per l’esame
7
laboratorio per l’esame
Volume 1, pp. 1008-1009
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento: «La percezione della guerra e dei cambiamenti degli strumenti bellici nel
Rinascimento» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 1008-1009.
• Leonardo da Vinci, Le macchine da guerra (• T127)
• Francesco Guicciardini, Dalla cavalleria alla fanteria (• D1)
• Ludovico Ariosto, La machina infernal (• D2)
• Ruzante, Una visione antieroica della guerra (• D3)
• Remo Ceserani, Lidia De Federicis, I fatti economici e sociali della “nuova” guerra (• D4)
Schedatura dei documenti
•T127 Leonardo da Vinci, Le macchine da guerra
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Avendo, Signor mio illustrissimo,
visto e considerato oramai ad sufficienza le prove di tutti quelli che
si reputono maestri e compositori
de instrumenti bellici, et che le invenzione e operazione di dicti instrumenti non sono niente alieni
dal comune uso, mi exforzerò […]
farmi intender da V. Excellentia,
aprendo a quella li secreti mei, e
appresso offrendoli ad omni suo
piacimento in tempi opportuni,
operare cum effecto circa tutte
quelle cose che sub brevità in parte saranno qui di sotto notate […].
Leonardo descrive con cura e
precisione le caratteristiche peculiari delle macchine da guerra
che è in grado di costruire.
Lettera (periodo storico
1482).
È opportuno un rapido
accenno alla figura di
Leonardo da Vinci (14521519), grande protagonista del Rinascimento,
del quale incarna l’ideale
dell’eclettismo: uomo di
cultura e artigiano, egli
fu artista e scienziato,
ingegnere e architetto.
Sono assenti la partecipazione
emotiva ai loro effetti sul campo
di battaglia e il giudizio etico nei
confronti della guerra.
Idea centrale
L’elenco e l’esaltazione
della originalità e della
funzionalità delle macchine da guerra create e
costruite dal mittente.
Messaggio centrale
Convincere il destinatario, Ludovico il Moro
duca di Milano, a usufruire dei suoi servigi.
•D1 Francesco Guicciardini, Dalla cavalleria alla fanteria
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi la
guerra molto più co’ cavalli di armadura grave che co’ fanti, ed essendo le macchine che si usavano
contro alle terre in comodissime a
condurre e a maneggiare, […] piccolissime erano le uccisioni, rarissimo
il sangue che vi si spargeva […]. Ma
sopravenendo re Carlo in Italia, il
terrore di nuove nazioni, la ferocia
de’ fanti ordinati a guerreggiare in
altro modo, ma sopra tutto il furore
delle artiglierie, empiè di tanto spavento […].
Il testo evidenzia le drammatiche conseguenze della discesa
del re di Francia Carlo VIII in
Italia, e soprattutto dell’impiego di nuove tattiche militari e
armi da fuoco, che aumentano
il numero dei morti. Sono significativi l’uso dei superlativi
(piccolissime le uccisioni, rarissimo il sangue) e di sinonimi
quali terrore, ferocia, furore,
che esprimono lo stato d’animo della popolazione italiana,
incapace di difendersi.
Trattato di storiografia
(periodo storico 15371540).
È bene ricordare che il re
di Francia Carlo VIII, sceso in Italia e fra il 1494 e il
1495, attraversò l’intera
penisola senza incontrare particolare resistenza
e opposizione, evidenziando la debolezza politica e militare degli stati
italiani nel contesto europeo.
Idea centrale
La
testimonianza
dei devastanti effetti dell’introduzione di
nuove armi e di nuove
tecniche di combattimento.
Messaggio dell’autore
Convincere il lettore
della drammaticità delle conseguenze della
“nuova” guerra.
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Laboratorio per l’esame
1
•D2 Ludovico Ariosto, La machina infernal
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Come trovasti, o scelerata e brutta
/ invenzion, mai loco in uman core?
/ Per te la militar gloria è distrutta,
/ per te il mestier de l’arme è senza
onore; / per te è il valore e la virtù
ridutta, / che spesso par del buono
il rio migliore: / non più la gagliardia, non più l’ardire / per te può in
campo al paragon venire.
L’anafora per te sottolinea la
responsabilità dell’invenzione
scelerata e brutta delle armi da
fuoco, colpevoli di aver privato
il mestiere della guerra di ogni
onore, di impedire il confronto
fra le virtù individuali sul campo di battaglia.
Poema epico-cavalleresco (periodo storico
1516).
Al tempo della cavalleria era il duello, lo scontro individuale fra due
campioni degli eserciti
avversari, a determinare
l’esito delle battaglie.
Idea centrale
La “nuova” guerra sminuisce il valore e la virtù
individuali, al punto che
spesso il codardo sembra più coraggioso.
Messaggio dell’autore
La condanna delle armi
da fuoco e delle nuove
tattiche di combattimento.
•D3 Ruzante, Una visione antieroica della guerra
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Ruzante: […] Che credete che sia
ad essere in quel paese? Che non
conosci nessuno, non sai dove andare, e vedi tanta gente che dice:
“Ammazza, ammazza! Dàgli, dàgli!”. Artiglierie, schiopponi, balestre, frecce: e ti vedi qualche tuo
compagno morto ammazzato, e
quell’altro che ti è ammazzato vicino. E quando credi di scappare, vai
in mezzo ai nemici: e uno che scappa dargli una schioppettata nella
schiena. Vi dico che ha gran coraggio chi si mette a scappare. Quante
volte credete che io abbia fatto il
morto, e mi sia lasciato passare sopra i cavalli?
In una visione antieroica della
guerra, il poeta evidenzia il disorientamento del soldato in
un luogo sconosciuto, la paura
dell’ostilità dei nemici, il terrore della morte; inaspettata è
soprattutto la celebrazione del
coraggio necessario alla fuga.
Dialogo in antico dialetto padovano destinato alla rappresentazione teatrale (periodo
storico prima metà del
Cinquecento).
È opportuno ampliare le informazioni sulla
produzione
letteraria
di Ruzante, che con le
sue opere teatrali porta
in scena la dimensione
umana del mondo contadino.
Laboratorio per l’esame
2
Idea centrale
Porre in evidenza gli
aspetti antieroici disumani della guerra.
Messaggio dell’autore
Ogni aspetto della
guerra, persino la fuga,
richiede una buona
dose di coraggio.
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Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
•D4 Remo Ceserani, Lidia De Federicis, I fatti economici e sociali della “nuova” guerra
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Gli avvenimenti di quel tempo non
furono determinati soltanto da
fattori militari, ma anche da fattori economici e politici intrecciati
a quelli militari. Ne enumeriamo
alcuni:
– la pur lenta ma continua ripresa
economica […];
– l’incremento demografico e la
presenza di masse numerose
di uomini espulsi dal processo
produttivo […];
– il miglioramento nelle tecniche
estrattive del ferro e produttive
di armi e bombarde e la presenza di finanziatori e mercanti
d’armi […];
– la forza armata di tipo nuovo
[…] mise in crisi il sistema delle
compagnie di mercenari […];
– i nuovi eserciti formati essenzialmente da fanteria di estrazione plebea, […] furono un fattore importante nel determinare il nuovo livello dei conflitti
politici fra le classi sociali.
Sono elencati i fattori economici, sociali, politici che dalla
fine del Quattrocento introdussero un nuovo modo di produrre armi e di combattere, o
che ne furono conseguenza.
Saggio (periodo storico
1986).
È opportuno approfondire le informazioni
su alcuni aspetti della
vita sociale, politica ed
economica che caratterizzano il Cinquecento,
secolo in cui si assiste
a una ripresa della crescita della popolazione,
decimata dalle epidemie del Trecento. Per
far fronte all’incremento
demografico e reperire
risorse si rende necessario ricorrere a varie e
mirate strategie, quali la
semina dei terreni incolti
a scapito delle aree boschive, la bonifica delle
paludi, l’introduzione di
un nuovo sistema di rotazione delle colture. Ciò
nonostante, un numero
crescente di persone non
riesce a mantenere un
livello di vita dignitoso e
deve arrangiarsi in vari
modi per non morire di
fame: si diffondono i fenomeni del banditismo
e del vagabondaggio,
soprattutto nelle città.
Numerosi anche coloro
che, provenienti dalle regioni più povere o dai sovraffollati centri urbani
si arruolano nell’esercito,
in cerca di occupazione:
in molte zone d’Europa
la guerra diventa una
costante ineliminabile.
Alcuni Stati europei danno vita a eserciti permanenti, che costituiscono
un importante fattore di
stabilizzazione sociale,
in quanto garantiscono
uno stabile impiego a
larghe masse della popolazione.
Idea centrale
L’analisi dei fattori economici e politici che
mutarono il modo di
combattere del Cinquecento.
Messaggio dell’autore
Un profondo legame
unisce i diversi aspetti
della vita associata.
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Laboratorio per l’esame
3
TRACCIA DI LAVORO: Modello di scaletta
Introduzione
Fra XV e XVI secolo, numerosi avvenimenti economici, politici e tecnico-scientifici imprimono un rapido progresso alla
produzione delle armi da fuoco, che diventano sempre più
efficaci, sicure e pratiche.
Problema
Quali conseguenze provoca l’introduzione delle nuove armi
da fuoco in età Rinascimentale?
Tesi
L’invenzione di nuove armi da fuoco ha conseguenze importanti, che non coinvolgono solo l’arte della guerra, ma anche
fattori economici, politici sociali.
1° Argomento a sostegno della tesi
Conseguenze in ambito militare:
• sul campo di battaglia, l’abilità e la forza individuale cedono il passo alla forza d’urto dei proiettili, con conseguente aumento di importanza della fanteria, armata di
picche e appoggiata dalle armi da fuoco, a scapito della
cavalleria: è quanto lamenta Ariosto in un passo dell’Or-
lando Furioso, in cui attribuisce all’invenzione scelerata
e brutta delle armi da fuoco la responsabilità di aver privato il mestiere della guerra di ogni onore, impedendo il
confronto fra le virtù individuali sul campo di battaglia.
• In generale, alla tattica dell’assedio subentra la guerra di
movimento.
2° Argomento a sostegno della tesi
Conseguenze in ambito sociale:
• la cavalleria feudale, composta da aristocratici, perde
prestigio sociale a vantaggio della fanteria armata, di
estrazione plebea, preparando, come osservano Ceserani
e De Federicis, nuovi conflitti sociali.
3° Argomento a sostegno della tesi
Conseguenze in ambito politico ed economico:
• la necessità di impiegare un numero sempre più elevato
di soldati bene armati mette fine al sistema delle compagnie di ventura, non più in grado di dotarsi delle costose armi da fuoco;
• nascono i grandi eserciti permanenti formati da sudditi,
come del resto auspica in quegli anni lo stesso Machiavelli nel trattato Dell’arte della guerra (1519-1520), in cui
sostiene la necessità per ciascuno Stato di rinunciare
all’impiego di truppe mercenarie per dotarsi di un proprio
esercito di leva;
• al declino del feudalesimo e delle istituzioni politiche locali e regionali, prive dei mezzi finanziari occorrenti per
dotare gli eserciti delle nuove costosissime armi, corrisponde l’affermarsi delle moderne monarchie nazionali,
che organizzano un sistema di prelievo fiscale necessario
a mantenere l’esercito.
4° Argomento a sostegno della tesi
Conseguenze in ambito artistico-letterario:
• la forza d’urto delle nuove armi mette in crisi la tradizionale architettura militare di difesa, destinata a crollare
sotto il fuoco dell’artiglieria: torri e cortine murarie alte
e merlate scompaiono, sostituite da bastioni e terrapieni
muniti di artiglieria da difesa.
• G
li intellettuali si dividono fra chi rimpiange il tradizionale
modo di combattere, come Ariosto, o denuncia la crudeltà
della “nuova” guerra, come Guicciardini e Ruzante, e chi
al contrario, come Leonardo da Vinci, ignora qualunque
implicazione di natura etica e morale per porre le proprie
competenze a disposizione delle nuove armi da fuoco.
Conclusione
Si ribadisce la tesi.
Laboratorio per l’esame
4
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laboratorio per l’esame
Analisi del testo
Volume 2, pp. 88-89
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 88-89.
• Giambattista Felice Zappi, Sognai sul far dell’alba (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
Feci un sogno, sul far del giorno, e mi pareva di essermi trasformato in un cagnolino; sognai che avevo al collo un bel
nastro e una macchia di pelo bianco in mezzo al petto. Mi trovavo in un prato nel quale era seduta Clori (la donna amata
dal poeta), in un bel gruppo scelto di fanciulle raffinate; (prendevamo piacere l’uno dall’altra) ci dilettavamo l’un l’altra.
Clori diceva: Corri, Lesbino; e io correvo. Proseguiva: Dove hai lasciato, o dove se ne è andato, il mio Tirsi (nome pastorale
dell’autore), il tuo Tirsi, cosa fa, cosa fai? Io andavo latrando, e volevo dire: Sono io. Mi prese in braccio, mi alzai sulle
zampe posteriori, protese le belle labbra verso le mie: quando stava per baciarmi, mi svegliai.
2. Analisi del testo
2.1 Il componimento riprende lo schema metrico del sonetto, costituito da quattordici versi endecasillabi suddivisi in
quattro strofe, delle quali le prime due di quattro versi ciascuna (quartine), le restanti di tre versi l’una (terzine). Il poeta
adotta nelle quartine lo schema ABAB ABBA, nelle terzine la successione a rime alterne CDC DCD. La facilità delle rime
corrisponde all’aggraziata leggerezza del contenuto.
2.2 In una lieve e aggraziata miniatura tipica della lirica arcadica, il sonetto propone il motivo della dama che vezzeggia
il cagnolino nel quale l’io lirico sogna di essersi trasformato. In particolare, la prima quartina segna il passaggio dallo
stato di coscienza (Sognai… sognai) all’ingresso nell’atmosfera incantata del sogno (e mi parea) e alla conseguente
metamorfosi della realtà (ch’io fossi trasformato…); la seconda strofa tratteggia l’ambientazione campestre di maniera
(un praticello) dominata dalla presenza dell’amata, alla cui descrizione concorre il ricorso alla terminologia mitologica
(Clori, ninfe, Lesbino). Le parole pronunciate in discorso diretto da Clori conferiscono, quindi, continuità al sonetto nel
passaggio dalle quartine alle terzine e introducono il motivo dell’ambiguità dell’io lirico, che si identifica allo stesso
tempo con Tirsi (il nome arcadico di Zappi era Tirsi Leucasio) e con il cagnoletto Lesbino. Vezzeggiativi e diminutivi
(cagnoletto, praticello, Lesbino) evocano la velata sensualità che pervade l’intero componimento; il tenue gioco dei
sensi si manifesta soltanto nell’ultima strofa, segnata però dallo svanire del sogno e dal brusco ritorno alla realtà (io
mi svegliai).
L’ambiente sociale a cui si fa riferimento è quello aristocratico elegante e raffinato del Settecento.
2.3 L’atmosfera onirica e incantata del sonetto è pervasa dai teneri e delicati sentimenti d’amore dell’io lirico, che vi esprime
la malinconia per il distacco dall’amata e il rimpianto per l’incontro con la dama, soltanto sognato; il tormento d’amore
è stemperato dalla leggerezza espressiva e dalla musicalità semplice ed elegante del sonetto.
2.4 Nel sonetto ricorre la figura retorica del chiasmo, consistente nella reciproca inversione del costrutto in due frasi contigue;
chiaramente individuabile ai versi 3 e 4 (al collo un vago laccio avea / e una striscia di neve in mezzo al petto), 7 (io d’ella,
ella di me), 8 (Corri Lesbino; ed io correa) e 13 (il suo bel labbro al labbro mio), il chiasmo conferisce al componimento una
discreta ritmicità.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Il sonetto contiene tutti gli elementi tipici della lirica arcadica: su uno scenario campestre convenzionale posano in
atteggiamenti languidi e sospirosi amante e amata, protagonisti di stucchevoli cerimoniali amorosi e teneri tormenti.
Il gusto per il travestimento si traduce nella consuetudine di darsi nomi ricavati dalla tradizione idillico-pastorale
(Clori, Tirsi) e nel ricorso alla terminologia mitologica (ninfe, Lesbino); costantemente sottinteso è il gioco dei sensi,
sfumato nel tenue lirismo di un mondo sottratto a problemi e preoccupazioni contingenti. Nel sonetto in analisi
ricorrono i toni sdolcinati prodotti da vezzeggiativi e diminutivi (cagnoletto, praticello, Lesbino) e dagli interventi
in discorso diretto di Clori; i complimenti galanti ai versi 6 (in un bel coro eletto) e 13 (il suo bel labbro); l’ingenuità
leziosa e la sensualità velata ai versi 7 (io d’ella, ella di me prendeam diletto), 12 (M’accolse in grembo) e 13 (inchinò il
suo bel labbro al labbro mio). Su un contenuto tenue e sfumato prevalgono i valori melodici: ne nasce la predilezione
per uno stile aggraziato, un uso elegante e chiaro della parola, una sintassi lineare e semplice, ritmi armoniosi e
musicali.
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Laboratorio per l’esame
1
3.2 Il sonetto di Zappi evidenzia notevoli analogie con la canzonetta Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli. L’illustre
esponente dell’Arcadia affronta il tema convenzionale dell’addio all’amata, vero e proprio tópos della tradizione lirica
amorosa che offriva in proposito modelli illustri, primo fra i quali Chiare, fresche et dolci acque di Francesco Petrarca. Rolli
esprime la malinconia per l’assenza della donna amata con l’aggraziata leggerezza e la musicalità semplice ed elegante
che caratterizzano la miglior produzione arcadica. Alla solitudine del poeta fa da sfondo il silenzio dello scenario naturale,
il bosco solitario, i cui elementi assumono inattesi caratteri antropomorfi e diventano gli interlocutori privilegiati del
malinconico soliloquio dell’io lirico, che dispera di rivedere l’amata. La drammaticità del tormento interiore è, tuttavia,
stemperata dall’aggraziata eleganza dell’espressione e dalla dolce musicalità della lirica, ottenuta, come nel sonetto di
Zappi, attraverso la facilità delle rime, l’insistita presenza di figure retoriche della ripetizione, come il chiasmo e l’anafora,
che accentuano la ritmicità, le iterazioni di parole identiche o simili, l’uso di diminutivi e vezzeggiativi. Ad accomunare i
due componimenti è anche la struttura circolare, che in entrambi conduce l‘io lirico a spaziare da un presente di solitudine
e dolore alla felicità del passato, generata da un incontro amoroso realmente avvenuto o soltanto sognato, fino al
conclusivo ritorno al presente.
3.3 È la preziosa eleganza dell’ambientazione a rinviare al famoso episodio della vergine cuccia raccontato da Parini nel
Giorno, poema composto a partire dal 1763 nel quale il precettore incaricato dell’istruzione di un giovane aristocratico
ne racconta le gesta con sguardo all’apparenza ammirato e accondiscendente, svelandone in realtà con sarcasmo e
feroce ironia le futili e oziose occupazioni, la corruzione morale e l’inettitudine. Dalla voce del narratore-precettore
affiora la ferma e severa condanna di Parini nei confronti dell’aristocrazia del suo tempo, incapace di far fronte ai propri
doveri sociali e di porsi alla guida della società. Protagonista dei versi del Parini è di nuovo un cagnolino, definito con
analogo ricorso a vezzeggiativi e a formule mitologiche, che ne fanno la vergine cuccia de le Grazie alunna. Tuttavia,
proprio l’attribuzione di toni prima epici e poi drammatici a un episodio banale, il calcio sferrato da un servo al cane che
l’ha morso a un piede, conferisce alla vicenda una connotazione fortemente ironica, alla quale subentra, nella seconda
parte dell’episodio, lo sdegno morale del poeta per l’ingiusto licenziamento del servo, ridotto in povertà. La leggerezza
dei temi dei contenuti messi in versi dall’arcade Zappi stridono, dunque, fortemente con la ferma e sdegnosa denuncia
sociale di Parini, che pone l’accento sulla mancanza di umanità del ceto nobiliare rappresentato e dell’intero ambiente
aristocratico settecentesco che fa da sfondo all’episodio.
LA STESURA DEL TESTO
Commento
Introduzione all’autore e al contesto storico-letterario
Giambattista Felice Zappi nacque a Imola nel 1667; conseguita a Bologna la
laurea in legge, si trasferì a Roma dove nel 1690 con il nome di Tirsi Leucasio fu tra i quattordici fondatori dell’Arcadia, diventando ben presto il più
acclamato della prima generazione di arcadi. Morì a Roma nel 1719; la sua
produzione, una settantina di componimenti in tutto, fu pubblicata postuma
a cura della moglie, la poetessa Faustina Maratti.
Nei suoi componimenti egli canta la propria vicenda d’amore, secondo i temi
e i modi del movimento. Le sue liriche si caratterizzano per un sentimentalismo di maniera, lezioso e artificioso; una musicalità dolce e aggraziata fa di
alcuni sonetti di argomento amoroso tenui ed eleganti quadretti di maniera.
L’Accademia dell’Arcadia nasce a Roma nel 1690 su iniziativa di alcuni intellettuali e scrittori che si riuniscono intorno al salotto letterario dell’ex regina
di Svezia Maria Cristina; centro di confluenza dell’opposizione al Barocco, l’Accademia restaura la tradizione classica e si fa interprete delle esigenze di una
società aristocratica elegante e raffinata, fautrice di un nuovo gusto poetico. I
suoi fondatori formulano un programma di rinnovamento letterario, alla cui base
sta un’esigenza di naturalezza e semplicità, di ordine ed equilibrio, di misura e
chiarezza espressiva. Strumento e guida per la nuova poesia sono i classici antichi e i poeti italiani di buon gusto, come il Petrarca e gli emuli cinquecenteschi,
nella cui imitazione gli arcadi introducono una grazia tipicamente settecentesca
e la tendenza ad attenuare il realismo a favore di una composta musicalità del
verso. Ne nasce una poesia amabile ed elegante, le cui forme garbate esprimono
il sentimento amoroso e appagano il gusto della società aristocratica dell’epoca.
Laboratorio per l’esame
2
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni biografiche sul percorso
artistico dell’autore
e il contesto in cui
ha operato.
Notizie fornite dalla
trac­c ia integrate con
alcune conoscenze personali.
Precisazione del
con­­testo letterario
nel quale l’autore ha
operato.
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La reazione antibarocca dell’Arcadia si esaurisce, tuttavia, nell’ambito
prevalentemente formalistico: manca nei suoi esponenti la consapevolezza
che un vero rinnovamento dovrebbe compiersi anzitutto nella dimensione
interiore e spirituale del letterato e nei contenuti della sua opera. L’Arcadia,
in sostanza, non sa trarre ispirazione dalla nuova visione del mondo che
si diffonde in Italia e in Europa nel corso del Seicento. Come il Barocco,
essa continua a proporre l’evasione dalla realtà, non più in direzione delle
astruse meraviglie del concettismo, bensì verso un mondo fittizio idillico e
sottilmente sentimentale, dove gli affetti e gli stati d’animo si attenuano
in una musicalità languida, sullo sfondo di una natura irreale e stilizzata.
L’analisi del significato
Zappi predilige, dunque, una poesia di ispirazione bucolica, entro la quale
egli canta la propria vicenda d’amore secondo i temi e i modi dell’Accademia.
Non fa eccezione il sonetto in analisi, al centro del quale troviamo il motivo
tipicamente arcadico della dama che vezzeggia un cagnolino, in cui il poeta
sogna di essersi trasformato. Su uno sfondo campestre convenzionale, tipico
della tradizione idillica, Zappi mette in scena cortigiani e dame, travestiti
da pastori, pastorelle e ninfe: amante e amata, protagonisti di stucchevoli
cerimoniali amorosi e teneri tormenti, vi posano in atteggiamenti languidi e
sospirosi; costantemente sottinteso è il gioco dei sensi, sfumato nel tenue
lirismo di un mondo sottratto a problemi e preoccupazioni contingenti.
L’atmosfera onirica e incantata del sonetto è pervasa dei teneri e delicati
sentimenti d’amore dell’io lirico, che vi esprime il rimpianto per l’incontro
soltanto sognato e la malinconia per il distacco dall’amata.
Il componimento evidenzia una struttura circolare, che procede da uno stato
di coscienza dell’io lirico (Sognai… sognai), riferito al passato remoto come
azione definitivamente compiuta, all’atmosfera incantata del sogno (e mi
parea), alla cui irrealtà ed evanescenza contribuiscono l’ambientazione
campestre di maniera (un praticello) e il ricorso alla terminologia mitologica
(Clori, ninfe, Lesbino). La trasformazione onirica del mondo reale (ch’io fossi
trasformato) è raccontata all’imperfetto, nel suo progressivo compiersi nel
passato (Era, sedea…); il racconto del sogno d’amore appare pervaso da una
velata sensualità (io d’ella, ella di me prendeam diletto), che si manifesta
soltanto nell’ultima strofa, nella quale il ricorso al passato remoto riferisce lo
svanire dell’illusione e il brusco ritorno allo stato di coscienza (io mi svegliai).
L’atmosfera sfumata entro cui si sviluppa il sogno d’amore dell’io lirico,
l’atteggiarsi dei protagonisti, il travestimento pastorale e il ricorso alla
terminologia mitologica contribuiscono ad attenuare la naturale intensità
del sentimento amoroso e a farne un piacevole e galante gioco di maniera,
espresso in uno stile aggraziato ed elegante, con una musicalità semplice
e armoniosa. Ci troviamo dunque in presenza di una lirica non da leggere,
bensì da ascoltare.
Come sottolineava causticamente Giuseppe Baretti (1719-1789) nelle
pagine del suo periodico «La frusta letteraria», nonostante i propositi di
rinnovamento del gusto poetico espressi dai fondatori dell’Accademia,
manca all’Arcadia la capacità di operare una vera riforma dei contenuti,
che continuano a proporre l’evasione dalla realtà verso un mondo fittizio
idillico e sentimentale, dove gli affetti e gli stati d’animo si attenuano in
una musicalità languida e composta, sullo sfondo di una natura irreale e
schematizzata.
Ad analoghe considerazioni conduce la celebre canzonetta Solitario bosco
ombroso di Paolo Rolli, che evidenzia notevoli analogie con il sonetto di Zappi.
L’illustre esponente dell’Arcadia affronta il tema altrettanto convenzionale
dell’addio all’amata, vero e proprio tópos della tradizione lirica amorosa che
offriva in proposito modelli illustri, primo fra i quali Chiare, fresche et dolci
acque di Francesco Petrarca.
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Dati contenuti nella
risposta 3.1 e integrazioni personali.
Esplicitazione del Rielaborazione della
messaggio.
parafrasi (risposta 1).
Dati contenuti nella
risposta 2.2.
Dati contenuti nella
risposta 2.3 e integrazioni personali.
Confronto con altri Dati relativi alla rispointellettuali e lette- sta 3.1.e integrazioni
rati del Settecento. personali.
Dati relativi alla risposta 3.2.
Laboratorio per l’esame
3
Eppure, l’opera dei grandi autori viene riletta in modo riduttivo, privata del
suo spessore artistico e morale e ridotto a modello di buongusto ed eleganza
formale. In sostanza, non ci si può attendere dall’Arcadia la consistenza
dell’impegno civile e morale e la profondità e complessità dei sentimenti
che caratterizzano negli stessi anni la poesia influenzata dall’Illuminismo e
la lirica preromantica. La leggerezza dei temi e dei contenuti messi in versi
dall’arcade Zappi stridono, infatti, con la sdegnata denuncia sociale che trova
spazio in un’altra opera del Settecento italiano, il Giorno di Parini, con il quale
il sonetto condivide la preziosa eleganza dell’ambientazione aristocratica.
Nel poemetto satirico il narratore dà voce alla severa condanna dell’autore
nei confronti dell’aristocrazia del suo tempo, della quale racconta le gesta con
sguardo all’apparenza ammirato e accondiscendente, svelandone in realtà
con sarcasmo le futili occupazioni, la corruzione morale e l’inettitudine ad
adempiere i propri doveri sociali. In particolare, nell’episodio della vergine
cuccia affiora la condanna del ceto aristocratico settecentesco, incapace
di porsi alla guida della società: protagonista anche in questo caso è un
cagnolino, definito con ricorso a vezzeggiativi e a formule mitologiche
analoghe a quelle impiegate da Zappi. Tuttavia, proprio l’attribuzione di
toni prima epici e poi drammatici al banale episodio riferito, il calcio sferrato
da un servo al cane che l’ha morso a un piede, conferisce alla vicenda una
connotazione fortemente ironica, alla quale subentra, nella seconda parte
dell’episodio, lo sdegno morale del poeta per l’ingiusto licenziamento del
servo, ridotto in povertà. Parini pone l’accento sull’assoluta mancanza di
umanità del ceto nobiliare e dell’intero ambiente aristocratico settecentesco
che fa da sfondo all’episodio.
L’analisi del significante
In totale adesione al sistema tematico ed espressivo della lirica arcadica,
anche nel sonetto in esame i valori melodici e musicali prevalgono sui
contenuti tenui e sfumati.
Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura assai antica nata
nell’ambito della Scuola Siciliana come breve poesia musicata (è questo il
significato del termine provenzale sonet). Proprio le potenzialità musicali
del sonetto devono avere indotto Zappi ad adottarne lo schema metrico: il
componimento in analisi era probabilmente destinato alla recitazione, così
come avveniva per la maggior parte delle liriche arcadiche. Il poeta adotta
nelle quartine lo schema ABAB ABBA, nelle terzine la successione a rime
alterne CDC DCD. La facilità delle rime corrisponde all’aggraziata leggerezza
del contenuto.
La presenza insistita di numerosi tópoi della lirica idillico-pastorale, la quale
prevede la ripetizione di elementi fissi e l’uso continuo di variazioni all’interno
di un sistema tematico ed espressivo chiuso, si traduce in campo lessicale
in frequenti ripetizioni di vocaboli identici o simili: si noti, per esempio, la
ripetizione del verbo sognai, in posizione iniziale ai versi 1 e 3, che segnala il
passaggio dallo stato di coscienza all’atmosfera onirica del sogno. Il ricorso
alla terminologia mitologica (ninfe, Lesbino) e l’uso insistito di vezzeggiativi
e diminutivi (cagnoletto, praticello, Lesbino) evocano la velata sensualità che
pervade l’intero componimento. La presenza dell’anafora (vv. 1 e 3, sognai;
vv. 2, 7 e 11, ch’io, io) e di figure retoriche dell’ordine, come il chiasmo e
l’inversione (v. 3), concorre a movimentare una sintassi semplice e lineare
e accentua la ritmicità del testo, conferendo alla lirica una dolce musicalità.
Laboratorio per l’esame
4
Rielaborazione delle
informazioni e delle
conoscenze contenute
nella risposta 3.3.
Metrica.
Risposta alla domanda
2.1 e integrazioni per­
sonali.
Il lessico.
Le figure retoriche.
Risposta alla domanda
2.4.
La sintassi, il ritmo.
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Analisi del testo
Volume 2, pp. 102-105
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 102-105.
• Miguel de Cervantes, La finta Dulcinea (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
1.1 Il brano può essere suddiviso nelle seguenti macrosequenze:
a. giunti nel Toboso, don Chisciotte incarica Sancho Panza di trovare Dulcinea, nobile signora frutto delle sue fantasticherie cavalleresche;
b. con uno stratagemma, Sancho induce il cavaliere a riconoscere l’amata nobildonna in una povera contadina incontrata
per strada;
c. don Chisciotte offre i propri servigi alla falsa Dulcinea, che lo insulta.
1.2 Giunti nei pressi del Toboso, piccolo villaggio della Mancia, don Chisciotte, che arde dal desiderio di incontrare Dulcinea,
la dama a cui intende dedicare le proprie imprese, incarica Sancho Panza di trovarla e di offrirle i suoi servigi. L’impresa
è però impossibile, poiché la nobile signora è il frutto delle fantasticherie dell’allampanato cavaliere. Il fido scudiero,
tuttavia, non si perde d’animo e in un vero e proprio capovolgimento dei ruoli induce Don Chisciotte a riconoscere l’amata
Dulcinea in una contadina incontrata per strada. L’ignara popolana non sembra però gradire le profferte amorose dei due
strani individui e li liquida sgarbatamente. Don Chisciotte matura allora la convinzione che la nobildonna sia vittima di
un terribile incantesimo, che ne ha alterato l’aspetto fisico e la perfetta bellezza.
2. Analisi del testo
2.1 Don Chisciotte e Sancho Panza costituiscono, per aspetto fisico e mondo interiore, l’uno l’antitesi comica dell’altro: attempato nobiluomo il primo, alto, secco e allampanato, la testa piena di fantasie letterarie che ne alterano la percezione della
realtà; contadino tarchiato e ben pasciuto il secondo, dotato di solido pragmatismo e di buon senso popolare. I due personaggi costituiscono dunque una coppia di perfetti opposti e risultano per certi aspetti addirittura complementari, al punto
da scambiarsi i ruoli, come accade nell’episodio in analisi. In questa occasione l’esigenza di assolvere un incarico impossibile,
trovare una nobildonna che non esiste, spinge Sancho ad assecondare e addirittura stimolare la capacità visionaria di don
Chisciotte, insolitamente lucido e concreto in tale circostanza, inducendolo ad alterare la propria visione della realtà e a
riconoscere nelle tre contadine in groppa agli asini Dulcinea e le sue damigelle.
2.2 Spinto dall’esigenza di rendere credibile lo stratagemma escogitato, Sancho abbandona il registro linguistico concreto
e popolare con cui comunemente si esprime per adottare lo stile enfatico e retorico dell’allampanato hidalgo, intriso di
riferimenti libreschi e di espressioni tratte dai poemi cavallereschi: si noti in tal senso la descrizione delle tre contadine e
delle loro cavalcature in particolare, che il rozzo scudiero chiama erroneamente canee anziché chinee, intendendo riferirsi
ai cavalli pregiati adatti a lunghi viaggi e generando un involontario effetto comico.
2.3 Lo stesso don Chisciotte si lascia, a sua volta, facilmente indurre dallo scudiero ad alterare l’evidenza dei fatti in senso
allucinatorio: poco fiducioso nelle proprie capacità di analisi e nelle proprie facoltà mentali, egli sembra dare per scontato
che la realtà non si limita all’esperienza dei sensi, ma comprende aspetti illusori e immaginari che egli è disposto ad accettare. Ecco allora che in chiusura di episodio, pur di piegare la crudezza della realtà alle fantasie, il cavaliere si spinge fino a
elaborare un’assurda spiegazione al contrasto tra realtà (le tre contadine in groppa a degli asini) e immaginazione (Dulcinea
e le damigelle su nobili cavalcature), ossia l’incantesimo di cui Dulcinea sarebbe vittima.
2.4 Dal colorito scambio di battute tra i protagonisti e le contadine emerge il duro scontro fra realtà e illusione, fra normalità
e follia: la pazzia di don Chisciotte consiste nel proposito di trasformare il grigiore della realtà quotidiana con la propria
fantasia, mutando gli oggetti e le situazioni più banali in personaggi e circostanze fantastiche del mondo immaginario
in cui egli crede di vivere e all’interno del quale accetta di giocare il proprio ruolo fino in fondo. Nell’episodio in analisi, le
rozze espressioni delle popolane non riescono a infrangere la delirante illusione a cui Sancho l’ha condotto.
2.5 Cervantes ricorre all’espediente narrativo del casuale ritrovamento, in un mercato di Toledo, di un antico manoscritto
arabo che egli si accinge a tradurre; l’autore intende, in tal modo, conferire veridicità e autenticità alle vicende narrate, che
si presentano come un documento storico e non come invenzione della sua fantasia. Il narratore può, inoltre, mantenere
distinta la voce dell’autore arabo, tale Cide Hamete Benengeli, dalla propria, conservando distacco e libertà di giudizio
nei confronti della materia narrata, soprattutto quando si tratta di episodi particolarmente inverosimili. Ciò provoca il
carattere estremamente composito della voce narrante. La realtà si frantuma in una molteplicità di punti di vista e di
atteggiamenti in conflitto fra loro, all’interno della quale il lettore deve districarsi interpretando le vicende narrate come
meglio crede: nel romanzo, infatti, tutto può essere allo stesso tempo se stesso e qualcos’altro.
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3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Il romanzo offre un ritratto ironico e parodistico del mondo feudale e della cavalleria da tempo tramontati, ma ai quali
l’alta società spagnola del Seicento sembrava ancora aggrappata, incapace di rinunciare definitivamente ai propri privilegi. L’intento satirico è, inoltre, alimentato dall’esperienza autobiografica di Cervantes, che partecipò alla battaglia
di Lepanto contro i Turchi (1571) e fu, dunque, un vero “eroe” in termini cavallereschi; tuttavia, egli non ne ricavò alcun
riconoscimento o vantaggio, e trascorse invece molti anni della sua vita successiva in povertà, forse in carcere. Ciò che
l’autore intende dunque porre in evidenza è lo stridente contrasto fra la percezione comunemente diffusa del valore dei
soldati che combattono realmente in difesa della cristianità e l’esagerata esaltazione dei cavalieri immaginari prodotti
dalla letteratura cavalleresca. Inoltre, nell’opera è innegabile l’intento di porre in ridicolo proprio quella letteratura cavalleresca che era tanto in auge nella Spagna del XVI secolo, la quale divorava romanzi di enorme successo di pubblico,
ma di mediocre qualità letteraria.
3.2 L’opera esprime il disorientamento che seguì negli animi degli intellettuali più sensibili ai radicali mutamenti introdotti
nella percezione del mondo dalla rivoluzione scientifica dalla fine del XVI secolo: crollata ogni certezza sull’evidenza
dell’universo tolemaico, che aveva garantito per secoli la conoscibilità del mondo e la centralità dell’uomo nell’universo,
si diffuse la consapevolezza della vanità delle azioni umane, incommensurabilmente piccole e inconsistenti a paragone
con l’improvvisa scoperta della dimensione infinita dell’universo, insieme all’impossibilità di conoscere le verità assolute
del mondo e di attribuire ad esso un significato univoco. Lo scambio di ruoli fra Sancho e don Chisciotte a cui assistiamo
nel brano in analisi è proprio il simbolo della molteplicità di interpretazione a cui l’esperienza dei sensi conduce, crollate
le certezze e le verità che per secoli erano parse indiscutibili.
3.3 Nell’interpretazione dell’età umanistico-rinascimentale, la pazzia evidenzia la compresenza di due aspetti contrastanti e
contraddittori. A tale proposito è emblematica la distinzione proposta da Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della follia (1511),
trattato in forma di monologo in cui la stessa Follia, chiamata a tessere il proprio elogio, distingue fra un’insania tragica e
funesta, che alimenta le più turpi passioni e gli istinti delittuosi dell’individuo, e una follia positiva e benefica, una specie di
alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzioni e alle costrizioni sociali e lo conduce a un rovesciamento nella
percezione della realtà. La follia, strumento di lettura dell’universo, si fa dunque portatrice di una capacità critica straordinaria, in grado di rivelare la demenza del mondo “normale” il quale, spinto dalle convenzioni sociali e morali, rincorre falsi
ideali e valori rinunciando ad assecondare in modo più autentico e sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni.
Sulla linea della contraddizione anche l’interpretazione della pazzia proposta da Ariosto nell’Orlando furioso, il cui titolo
pone fin da subito in evidenza il tema centrale della follia, la quale trasforma le vicende del più grande paladino di Francia
in paradigma della generale dissennatezza umana. Il senno di Orlando, perduto per amore di Angelica, viene poi recuperato
da Astolfo in un immaginifico viaggio nel cielo della luna, dove finiscono ammassate le cose perdute sulla terra: sulla luna
è assente la follia, che non abbandona mai il nostro pianeta, mentre vi spicca per quantità il senno. Il lettore è dunque
indotto a concludere che la pazzia è condizione universale imprescindibile dalla natura umana, una modalità esistenziale
dell’uomo, dalla quale si esce solo occasionalmente e per farvi inevitabile ritorno, come dimostra l’esempio di Astolfo che,
recuperato il proprio senno sulla luna, finirà per perderlo nuovamente. In particolare nell’ironia di Ariosto è possibile riconoscere il lato positivo della follia, la sua capacità critica e dissacrante nei confronti delle regole morali e delle convenzioni
sociali che imprigionano l’individuo in un ruolo innaturale, che non gli corrisponde.
Nel romanzo di Cervantes, la follia rappresenta le inquietudini e le contraddizioni proprie di individui divenuti incapaci di
orientarsi in un universo che non è più a misura d’uomo, uno strumento di evasione da una realtà dominata dal disincanto
e dalla perdita di valore della vita e della storia degli uomini: è emblematico, in tal senso, l’episodio della battaglia contro
i mulini a vento. Il folle cavaliere mostra al lettore la delusione di fronte a una realtà che annulla l’immaginazione, le
proprie aspettative e impedisce la realizzazione di un progetto di vita entro cui l’individuo possa riconoscersi e identificarsi; egli esprime, per contrasto, l’esigenza di far emergere la propria individualità, al di fuori dei rigidi schemi sociali,
attraverso l’affermazione della fantasia, del sogno, dell’illusione.
LA STESURA DEL TESTO
Commento
La struttura
Introduzione all’opera e al contesto storico, culturale e letterario
L’ingegnoso cavaliere don Chisciotte della Mancia: è questo il titolo completo
dell’opera in prosa che sviluppa in due libri pubblicati a distanza di dieci anni
l’uno dall’altro (1605 e 1615) le bizzarre avventure di un nobiluomo di campagna, un hidalgo spagnolo di nome Alonso Quijano: morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi al punto da perdere il contatto con la realtà, il
protagonista si convince di poter emulare egli stesso le gesta dei cavalieri
erranti.
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2
Il metodo applicato
Indicazioni utili a Dati contenuti nella
de­lineare le caratte- trac­
cia e integrazioni
ristiche generali del­ per­sonali.
l’opera.
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Divenuto così il cavaliere don Chisciotte della Mancia, si mette in viaggio per la
Spagna per difendere i deboli e riparare i torti, trascinando con sé lo scudiero
Sancho Panza, un villano del posto, e dedicando le proprie imprese alla nobile
dama Dulcinea del Toboso, che altri non è che una contadina sua vicina. Purtroppo per don Chisciotte, la Spagna del suo tempo non è più quella del mondo
feudale: in mancanza di avventure, egli comincia con visionaria ostinazione a
rileggere la realtà con gli occhi della fantasia, trasfigurando gli oggetti più banali e le situazioni più prosaiche in personaggi e circostanze proprie del mondo
romanzesco e fantastico in cui egli crede di vivere. Accettando di giocare il proprio ruolo fino in fondo, egli combatte avversari immaginari uscendone sempre
sconfitto e suscitando l’ilarità di chi assiste alle sue folli gesta.
Funge da modello a quello che è stato definito il primo romanzo moderno
della letteratura mondiale il genere picaresco, nato in Spagna alla metà del
XVI secolo: si tratta di una narrazione condotta in prima persona in cui si
descrivono le avventure vissute dalla nascita fino alla maturità dal protagonista, attore e vittima di spietate ribalderie. Del genere picaresco Don
Chisciotte condivide il motivo del vagabondare del protagonista in cerca di
affermazione, così come la struttura non convenzionale, che prevede un susseguirsi di avventure ed episodi senza alcun apparente fine logico, secondo
uno schema detto “a schidionata”. Lo stile è burlesco ed eroicomico: eventi
apparentemente seri sono messi alla berlina o, viceversa, situazioni comiche
e assurde sono presentate in uno stile epico. Il contrasto insanabile tra stile e
contenuto è responsabile dell’effetto irresistibilmente satirico.
Anche per questi aspetti il romanzo può essere considerato una delle prime
manifestazioni della cultura barocca: l’opera esprime il disorientamento degli
intellettuali più sensibili di fronte ai radicali mutamenti nella percezione del
mondo e della condizione umana introdotti dalla scienza alla fine del XVI
secolo. Crollata ogni certezza sull’evidenza dell’universo tolemaico, che aveva
garantito per secoli la conoscibilità del mondo e la centralità dell’uomo, si
diffonde la consapevolezza dell’impossibilità di conoscere le verità assolute
e di attribuire alla realtà un significato univoco. La realtà si frantuma allora in
una molteplicità di punti di vista e di interpretazioni contrastanti.
La follia di don Chisciotte rappresenta le inquietudini e le contraddizioni di
un’umanità divenuta incapace di orientarsi in un universo che non è più a
misura d’uomo, uno strumento di evasione da una dimensione dominata dal
disincanto e dalla perdita di valore della vita e della storia degli uomini. La
capacità visionaria dell’allampanato cavaliere è espressione della delusione
di fronte alla realtà, che annulla l’immaginazione e impedisce la realizzazione
di un progetto di vita entro cui l’individuo possa riconoscersi e identificarsi;
l’hidalgo sembra dare per scontato che la realtà non si limita all’esperienza
dei sensi, ma comprende aspetti illusori e fantastici che egli è disposto ad accettare, giocando il proprio ruolo fino in fondo. Nell’universo di don Chisciotte ogni cosa può essere allo stesso tempo se stessa e qualcos’altro. Come
nell’interpretazione umanistico-rinascimentale, anche in Don Chisciotte la
follia è una positiva e benefica forma di alienazione mentale che sottrae l’individuo alle convenzioni e alle costrizioni sociali le quali lo spingono a inseguire falsi valori e ideali, rinunciando ad assecondare in modo più autentico e
sincero la propria coscienza e le proprie pulsioni.
Contribuisce alla moltiplicazione delle interpretazioni e dei punti di vista l’espediente narrativo messo in atto da Cervantes, il quale finge di aver casualmente ritrovato, in un mercato di Toledo, un antico manoscritto arabo
che egli si accinge a tradurre: le vicende narrate si presentano quindi come
un documento storico e non come invenzione della fantasia dell’autore. Il
narratore può, inoltre, mantenere distinta la voce dell’autore arabo, tale Cide
Hamete Benengeli, dalla propria, caratterizzata da distacco e da libertà di
giudizio nei confronti della materia narrata, soprattutto quando si tratta di
episodi particolarmente inverosimili, come nel brano in analisi.
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Il romanzo e il contesto storico.
Il contesto letterario.
Il contesto culturale. Dati contenuti nella
ri­sposta 3.2 e integrazioni personali.
Dati contenuti nella
risposta 3.3 e integrazioni personali.
Dati contenuti nella
risposta 2.5 e integrazioni personali.
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3
Ne deriva il carattere estremamente composito della voce del narratore,
che comprende in sé la voce di chi traduce e commenta il manoscritto arabo; la voce di colui che ha materialmente redatto il manoscritto originario;
le molteplici voci (narratori di secondo grado) che raccontano vicende secondarie adottando il punto di vista di svariati personaggi, incluso il protagonista. La realtà si frantuma quindi attraverso una molteplicità di punti
di vista e di atteggiamenti in conflitto fra loro, mostrando le proprie innumerevoli sfaccettature. Spetta dunque al lettore interpretare le vicende
narrate come meglio crede.
L’analisi del significato
Nell’episodio in analisi, è Sancho, contadino grasso e tarchiato solitamente
portatore di un pragmatico buon senso, a spingere un insolito don Chisciotte, straordinariamente lucido e concreto in questa circostanza, ad alterare
la propria visione della realtà e a riconoscere nelle tre contadine in groppa agli asini Dulcinea e le sue damigelle. Giunti nel Toboso, don Chisciotte
incarica Sancho Panza di trovare Dulcinea, nobile signora frutto delle sue
fantasticherie cavalleresche, alla quale intende dedicare le proprie imprese.
Con uno stratagemma, Sancho induce il cavaliere a riconoscere l’amata in
una povera contadina incontrata per strada: l’esigenza di assolvere a un
incarico impossibile, trovare una nobildonna che non esiste, spinge infatti lo scudiero ad assecondare e addirittura a stimolare la capacità visionaria di don Chisciotte. Lo stesso hidalgo appare, del resto, ben disposto
ad alterare l’evidenza dei fatti in senso allucinatorio: poco fiducioso nelle
proprie capacità di analisi e nelle proprie facoltà mentali (o per lo meno,
a me sembrano tali), egli sembra dare per scontato che la realtà non si
limita all’esperienza dei sensi, ma comprende aspetti illusori e immaginari
che egli è disposto ad accettare nonostante appaiano del tutto inverosimili
(non riusciva a vedere in lei se non una ragazza del paese, e neanche bella
di viso). Non a caso, è proprio un persuaso don Chisciotte a escogitare, in
chiusura di episodio, un’assurda spiegazione al contrasto tra apparenza e
realtà pur di piegare la crudezza della realtà alle fantasie, in questo caso di
Sancho: Dulcinea sarebbe vittima di un terribile incantesimo, che ne altera
e ne deforma la bellezza e l’eleganza.
A nulla servono le rozze ma realistiche espressioni delle popolane, che non
riescono a infrangere la delirante illusione a cui lo scudiero l’ha condotto. Ciò che emerge dal colorito scambio di battute tra i protagonisti e le
contadine è proprio il duro scontro fra realtà e illusione, fra normalità e
follia: la pazzia di don Chisciotte consiste nel fermo proposito di ricostruire
il mondo esterno con la propria fantasia, di trasformare il grigiore della
realtà quotidiana, gli oggetti più banali e le situazioni più prosaiche nelle
forme fantastiche e cavalleresche del mondo romanzesco in cui egli crede
di vivere.
L’analisi del significante
La frantumazione della verità, il perenne oscillare tra illusione e realtà, tra lucidità e follia è reso nel Don Chisciotte dai dialoghi che, contrapponendo il registro linguistico dell’hidalgo a quelli di Sancho e delle rozze contadine, consente
all’autore di dare voce ai diversi punti di vista, stabilendo fra loro un rapporto
dialettico.
La vivacità del dialogo è garantita dallo stridente contrasto fra lo stile enfatico e retorico dell’allampanato cavaliere, intriso di riferimenti libreschi e di
espressioni tratte dai poemi cavallereschi, e il registro linguistico concreto
e popolare proprio dello scudiero e delle popolane, disseminato di rozze e
colorite espressioni, che esprimono il duro scontro fra realtà e illusione, fra
normalità e follia.
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4
Enunciazione sinte- Rielaborazione dei dati
tica dell’argomento contenuti nelle rispodel brano ed espli- ste 1.1 e 1.2.
citazione del messaggio.
Dati contenuti nelle risposte 2.1 e 2.3 e integrazioni personali.
Dati contenuti nella
risposta 2.4 e integrazioni personali.
I registri linguistici.
Dati contenuti nella
risposta 2.4 e integrazioni personali.
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Nell’episodio in analisi, l’esigenza di rendere credibile il proprio stratagemma
induce Sancho ad abbandonare il registro linguistico concreto e popolare con
cui comunemente si esprime per adottare i modi di espressione del cavaliere:
si noti in tal senso la descrizione delle tre contadine e in particolare delle
cavalcature, che il rozzo scudiero, intendendo riferirsi ai cavalli pregiati adatti
a lunghi viaggi, chiama erroneamente canee anziché chinee, generando un
involontario effetto comico. Lo scambio dei ruoli a cui si assiste nell’episodio
in questione non fa che confermare ulteriormente la sensazione del lettore
che all’interno del romanzo ogni cosa possa essere allo stesso tempo se stessa e qualcos’altro, per cui egli è costretto a interpretarla come meglio crede.
Dunque, anche le scelte narrative e formali concorrono a confermare l’impossibilità di conoscere le verità assolute del mondo e di attribuire ad esso un
significato univoco, insieme al disincanto e alla perdita di valore della vita e
della storia degli uomini.
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Dati contenuti nella
risposta 2.2 e integrazioni personali.
Dati contenuti nella
risposta 2.1 e integrazioni personali.
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laboratorio per l’esame
Analisi del testo
Volume 2, pp. 147-150
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 147-150.
• Molière, La visita di un medico particolare (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
Tra finzione e realtà: l’“accurata” visita di un falso medico a un malato immaginario.
2. Analisi del testo
2.1 L’autore intende ridicolizzare la classe medica del Seicento, il cui totale disinteresse per il paziente è ben evidenziato
dall’augurio al malato di malattie d’eccezione praticamente incurabili, dal ricorso a un linguaggio incomprensibile, infarcito di oscure parole in latino, dalla proposta di cure dannose, quali l’amputazione di un arto sano, dall’abitudine infine
di riunirsi a consulto solo dopo l’avvenuta morte del paziente, per verificare cosa si sarebbe dovuto fare per guarirlo. Lo
scopo dell’autore è dunque quello di mettere in guardia il pubblico da medici senza scrupoli, pronti ad approfittare delle
ossessioni e delle fragilità dei pazienti.
2.2 Borghese di mezza età ossessionato dalla paura delle malattie anche se in ottima salute, Argante ostenta soggezione
nei confronti di medici e farmacisti tanto da dare credito a qualunque cura o rimedio essi suggeriscano. Desideroso di
avere un medico in famiglia, il vecchio ipocondriaco medita persino di far sposare la figlia Angelica al nipote del dottor
Purgone, benché la ragazza sia innamorata di un altro. Attraverso questo personaggio Molière rappresenta in chiave
comica e caricaturale la categoria dei vecchi egocentrici che, presi dalle proprie manie e ossessioni, tentano di soffocare
la libertà e la vitalità dei giovani in nome dei propri interessi.
2.3 Allo scopo di svelare al padrone la disonestà di dottori e farmacisti, interessati soltanto a derubarlo, la scaltra cameriera
Tonina si presenta travestita da medico itinerante di grande fama il quale, venuto a conoscenza dello straordinario caso
di Argante, desidera sottoporlo a una visita accurata. Le diagnosi assurde del finto medico, del tutto contrarie alle cure
finora prescritte ad Argante dall’imbroglione Purgone, e l’efficace imitazione del linguaggio medico, che la cameriera
ha acquisito negli anni trascorsi al servizio del malato immaginario, ottengono l’effetto sperato: appagate la vanità
e l’ipocondria di Argante, il falso medico ne conquista la cieca fiducia, screditando ai suoi occhi il dottor Purgone, il
cui nome non figura nell’elenco di grandi medici. È di effetto comico soprattutto la lunga lista di malattie d’eccezione,
ciascuna accompagnata dall’aggettivo “bello”, pronunciato in contrapposizione alle comuni malattie, sminuite dall’uso
dei diminutivi. Altrettanto ridicolo il ripetersi della diagnosi (I polmoni) a ogni pseudo-sintomo lamentato da Argante,
così come gli insulti al medico curante (Ignorante) e la serie di parole latine, volta a tratteggiare un’ironica parodia del
linguaggio medico.
2.4 Persino i nomi dei dottori che hanno in cura Argante contribuiscono a tratteggiare la grottesca parodia della classe medica
del tempo: il dottor Purgone, il nipote Percacus e il farmacista Centodori, per i quali il malato immaginario costituisce
una fonte inesauribile di guadagno, sembrano assecondare anche nel nome la vera e propria ossessione che egli ha per
il corretto espletamento delle funzioni intestinali.
2.5 Contribuiscono a generare un effetto ironico e grottesco il ricorso a un registro linguistico formale, la presenza di un
lessico specialistico infarcito di latinismi, l’avvicendarsi di un ritmo ora lento nella parte iniziale e conclusiva, dove prevalgono battute lunghe e frasi complesse, ora concitato in quella centrale, alla cui vivacità contribuiscono la ripetizione
insistita della diagnosi (I polmoni!), le reiterate esclamazioni (Ignorante!) e il rapido scambio di brevi battute.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
Tartufo (1664) e Il malato immaginario (1673), vere e proprie commedie della doppiezza e dell’ipocrisia, rappresentano
per il critico Luigi Lunari uno degli aspetti più autentici del Seicento, secolo del formalismo e dell’apparenza dietro i quali
si cela lo scontro fra vecchio e nuovo. Costretto fra la Controriforma cattolica, che con il Concilio di Trento (1545-1563)
aveva imposto dogmi e messo a punto rigorosi strumenti di controllo, censura e repressione, e la rivoluzione scientifica,
che rifiutava verità precostituite e autorità consolidate in nome dell’esperienza pratica e dell’osservazione diretta della
realtà, il Seicento si presenta come un secolo di profonde incertezze e di trasformazioni irreversibili. La cultura secentesca,
privata dalle recenti scoperte scientifiche dei sistemi teorici che per secoli avevano assicurato all’uomo la comprensione
dell’universo, ora è costretta ad affidarsi come strumento di conoscenza alla sola esperienza dei sensi, le cui percezioni
appaiono, tuttavia, circoscritte al “qui e ora”, risultano spesso ingannevoli e sempre diverse da individuo a individuo, e
sono pertanto prive di valore generale o universale.
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1
In un mondo in cui tutto si trasforma nel tempo e nello spazio, in cui nulla resta mai uguale a se stesso e ogni
cosa appare effimera e in continua mutazione, la differenza fra apparenza e realtà si annulla. In tal senso, risultano estremamente significative le sopra citate commedie di Molière, entrambe giocate sul contrasto fra realtà e
apparenza, sul doppio registro dell’ipocrisia e della simulazione, dal quale scaturiscono le situazioni più comiche
e divertenti: nel Tartufo, in particolare, il protagonista incarna il tipo dell’ipocrita, dell’uomo devoto che cela con
disinvoltura i propri appetiti sessuali dietro un’apparente spiritualità e maschera il suo arrivismo sociale con un
mistico disprezzo dei beni terreni. Egli rappresenta, a parere di Lunari, la cattiva applicazione alla condotta pratica
o addirittura l’abuso dell’«antica mentalità mistica, dogmatica e contemplatrice» ereditata dai secoli passati,
costretta ora a fare i conti, nel mutato contesto storico e culturale, con l’affermazione della scienza sperimentale
inaugurata da Galilei. Lo spirito scientifico e pragmatico, a sua volta, rischiava di degenerare nella cialtroneria,
mirabilmente rappresentata nel Malato immaginario e della quale offre un’ironica rappresentazione l’intera classe
medica che lo asseconda. I dottori e i farmacisti che frequentano la casa di Argante si rivelano, infatti, astuti imbroglioni pronti, pur di arricchirsi, ad accontentare persino nel nome le manie del vecchio ipocondriaco e a propinargli
tanto inutili quanto costosi intrugli.
LA STESURA DEL TESTO
Commento
Introduzione all’autore e al contesto storico-culturale
Vero e proprio genio del teatro, Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière (16221673), rappresenta alcuni degli aspetti più attuali e caratteristici del Seicento
barocco. Attore e capocomico francese, fautore di una rivoluzionaria riforma
teatrale, Moliere rielabora la tradizionale Commedia dell’Arte, semplice
canovaccio sul quale improvvisano i tipi fissi e convenzionali delle maschere,
arricchendo di spessore umano e sfaccettature la psicologia dei singoli
personaggi e dotando il testo di maggiore completezza e di autonomia dalla
rappresentazione teatrale.
Sottoponendo a un’analisi spietata l’umanità del suo tempo e portandone
in scena i comportamenti sociali tipici e la mentalità dominante, Molière
concretizza l’intento prioritario di divertire attraverso un’ironia dissacrante
e corrosiva, che mette a nudo le ipocrisie, le falsità e le simulazioni che
dominano nei rapporti fra gli individui.
Il Seicento è stato infatti definito il secolo del formalismo e dell’apparenza,
dietro i quali si celano le profonde incertezze e le irreversibili trasformazioni
che lo caratterizzano. Combattuta fra la Controriforma cattolica, che con il
Concilio di Trento aveva imposto dogmi e messo a punto rigorosi strumenti
di controllo, censura e repressione, e la rivoluzione scientifica, che rifiutava
verità precostituite e autorità consolidate in nome dell’esperienza pratica e
dell’osservazione diretta della realtà, la cultura del Seicento perde fiducia
nei sistemi teorici che per secoli avevano assicurato la comprensibilità
dell’universo; essa è ora costretta ad affidarsi nella conoscenza della
realtà alla sola esperienza dei sensi, le cui percezioni, appaiono, tuttavia,
circoscritte al “qui e ora”, risultano spesso ingannevoli e sono sempre diverse
da individuo a individuo, dunque prive di valore generale o universale. In un
mondo in cui nulla resta mai uguale a se stesso, ma tutto si trasforma nel
tempo e nello spazio, appare effimero e in continua mutazione, la differenza
fra apparenza e realtà si annulla, essere e apparire si confondono fino a
coincidere.
Proprio l’ultima commedia portata in scena da Molière prima della morte, Il
malato immaginario, appare incentrata sul contrasto fra apparenza e realtà,
le quali risultano difficili da individuare. Il protagonista è Argante, borghese
di mezza età ossessionato dalla paura delle malattie e dotato invece di
ottima salute. Egli ostenta soggezione nei confronti di medici e farmacisti
tanto da dare credito a qualunque cura o rimedio essi suggeriscano.
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2
La struttura
Il metodo applicato
Indicazioni utili a
delineare il percorso
artistico dell’autore
e il contesto storico
e culturale entro cui
ha operato.
Notizie fornite dalla
traccia integrate con
al­cune
conoscenze
per­­sonali.
Dati contenuti nella risposta 3 e integrazioni
personali.
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Desideroso di avere un medico in famiglia, il vecchio ipocondriaco medita
persino di far sposare la figlia Angelica al nipote del dottor Purgone, benché
la ragazza sia innamorata del giovane Cleante. Sarà il buon senso dell’astuta
cameriera Tonina a far rinsavire Argante: per dimostrargli che i medici e i
farmacisti sono interessati soltanto al suo denaro, Tonina si finge un medico
famoso il quale, venuto a conoscenza dello straordinario caso di Argante,
desidera sottoporlo a una visita accurata. La cameriera ha così occasione di
mettere in discussione le diagnosi e le cure del dottore Purgone. La commedia si conclude con il consenso di Argante alle nozze della figlia con Cleante e
con il proposito del vecchio ipocondriaco di divenire egli stesso dottore.
L’analisi del significato
Anche nel Malato immaginario, commedia portata per la prima volta in scena
nel 1673, Moliere intende sottoporre a un’analisi spietata i comportamenti
sociali tipici e la mentalità dominante del suo tempo, allo scopo di denunciare, attraverso un’ironia dissacrante e corrosiva, le ipocrisie, le falsità e le
simulazioni che dominano i rapporti fra gli individui. Gli strumenti della satira
morale e sociale consentono dunque all’autore di raggiungere il duplice intento di divertire il pubblico e trasmettere insegnamenti morali.
Nella scena in analisi, allo scopo di svelare al padrone la disonestà di dottori
e farmacisti, la scaltra cameriera Tonina si presenta travestita da medico itinerante di grande fama. Le diagnosi assurde del finto medico, contrarie alle
cure finora prescritte ad Argante dall’imbroglione Purgone, e l’efficace imitazione del linguaggio medico, che la cameriera ha acquisito negli anni trascorsi
al servizio del malato immaginario, ottengono l’effetto sperato: appagate la
vanità e l’ipocondria di Argante, il falso medico ne conquista la totale fiducia,
screditando ai suoi occhi il dottor Purgone, il cui nome neppure figura nell’elenco di grandi medici.
Sono in particolare due le categorie di individui coperte di ridicolo da Molière, che ne porta in scena una burlesca imitazione: il malato immaginario
rappresenta in chiave comica e caricaturale la categoria dei vecchi egocentrici che, presi dalle proprie manie e ossessioni, tentano di soffocare la libertà
e la vitalità dei giovani in nome dei propri interessi. A sua volta il falso dottore costituisce una perfetta parodia della classe medica del Seicento, il cui
totale disinteresse per il paziente è ben evidenziato dall’augurio al malato
di malattie d’eccezione praticamente incurabili; dal ricorso a un linguaggio
del tutto incomprensibile, infarcito di oscure parole in latino; dalla proposta
di cure dannose, quali l’amputazione di un arto sano; dall’abitudine infine
di riunirsi a consulto solo dopo l’avvenuta morte del paziente, per verificare
cosa si sarebbe dovuto fare per evitarla.
Il travestimento di Tonina costituirebbe, a parere del critico Luigi Lunari, un’ironica rappresentazione della degenerazione dello spirito scientifico e pragmatico inaugurato da Galilei e diffuso dalla rivoluzione scientifica, che rischiava
talvolta di trasformarsi in cialtroneria: nel Malato immaginario, infatti, l’intera
classe medica che frequenta la casa di Argante si rivela formata da astuti imbroglioni disposti, pur di arricchirsi, ad accontentare persino nel nome le manie
del vecchio ipocondriaco e a propinargli tanto inutili quanto costosi intrugli.
Scopo dell’autore è dunque quello di mettere in guardia il pubblico da medici
senza scrupoli pronti ad approfittare delle ossessioni e delle fragilità dei propri
pazienti. Paradossalmente, nel Malato immaginario, commedia della doppiezza e dell’ipocrisia, è dunque il travestimento di Tonina a svelare la falsità e la
simulazione che dominano i reali rapporti fra gli individui.
L’autore esprime, invece, la sua ferma condanna per l’ipocrisia religiosa e la
rilassatezza morale che individua nella società del suo tempo con un’altra
delle sue più celebri e divertenti commedie, Tartufo (1664), analogamente
giocata sul contrasto fra realtà e apparenza, sul doppio registro dell’ipocrisia
e della simulazione.
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Esposizione del mes- Dati contenuti nella ri­
saggio dell’autore.
sposta 2.1.
Riassunto del contenuto della scena.
Dati contenuti nella
risposta 2.2 e integrazioni personali.
Dati contenuti nelle risposte 2.3 e 2.4 e integrazioni personali.
Confronto con un’al- Informazioni contenutra opera dell’autore. te nella risposta 3.
Laboratorio per l’esame
3
Il protagonista è un ipocrita, un uomo devoto che cela con disinvoltura i propri
appetiti sessuali dietro un’apparente spiritualità e maschera il suo arrivismo
con un mistico disprezzo dei beni terreni. Nel contesto culturale e sociale secentesco, Tartufo rappresenta, a detta di Lunari, la cattiva applicazione alla
condotta pratica o addirittura l’abuso dell’«antica mentalità mistica, dogmatica e contemplatrice» ereditata dai secoli passati, costretta ora a fare i conti
con il dilagante spirito scientifico inaugurato da Galilei.
L’analisi del significante
Le situazioni comiche scaturiscono per lo più dal contrasto fra realtà e apparenza e dalla rappresentazione in chiave burlesca e caricaturale di comportamenti e tipi della società del tempo.
Nella scena in analisi risulta di effetto comico soprattutto il lungo elenco di
malattie d’eccezione, ciascuna accompagnata dall’aggettivo “bello”, pronunciato dal falso medico in contrapposizione alle comuni malattie, disprezzate
attraverso i diminutivi. Altrettanto ridicolo il ripetersi della diagnosi (I polmoni), gridata a ogni pseudo-sintomo lamentato da Argante, così come gli
insulti rivolti al medico curante (Ignorante) e la serie di parole latine, volta a
imitare in chiave ironica e burlesca il linguaggio medico.
Persino i nomi dei dottori che hanno in cura il vecchio ipocondriaco contribui­
scono a tratteggiare la grottesca parodia della classe medica del tempo: il
dottor Purgone, il nipote Percacus e il farmacista Centodori, per i quali il malato immaginario costituisce una fonte inesauribile di guadagno, sembrano
assecondare anche nel nome la vera e propria ossessione che egli ha per il
corretto espletamento delle funzioni intestinali.
Contribuiscono a generare un effetto ironico e grottesco il ricorso a un registro linguistico formale e la presenza di un lessico specialistico infarcito di
latinismi e parole latine storpiate (Ignorantus, ignoranta, ignorantum). All’interno della scena si avvicendano ora un ritmo lento, generato dal prevalere
nella parte iniziale e in quella conclusiva di battute lunghe e frasi complesse,
ora un ritmo vivace e concitato, prodotto nella parte centrale dalla ripetizione
insistita della diagnosi del finto medico (I polmoni!), dalle reiterate esclamazioni rivolte contro l’assente dottor Purgone (Ignorante!) e da un rapido
scambio di brevi battute tra un falso medico e un malato immaginario.
Laboratorio per l’esame
4
Il lessico
Dati contenuti nelle ri­
sposte 2.3, 2.4, 2.5 e
integrazioni.
Il registro lingui­sti­co.
Il ritmo, la sintassi.
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laboratorio per l’esame
Volume 2, pp. 174-178
Articolo di giornale
Componi un articolo di giornale sull’argomento «Galileo, la Chiesa, la scienza: ieri e oggi» utilizzando il dossier che si
trova alle pagine 174-178.
• Orazio Larocca, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo (• D1)
• Alberto Gaino, Galileo nuovamente alla sbarra: assolto (• D2)
• José G. Funes, Grazie, Galileo (• D3)
SCHEDATURA DEI DOCUMENTI
• D1 Orazio Larocca, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo
Testo
Schedatura
Dopo ben 359 anni, 4 mesi e 9 giorni Galileo Galilei torna ad essere
nuovamente un “figlio legittimo”
della Chiesa cattolica. Domani, infatti, il Vaticano cancellerà definitivamente la storica condanna “al
silenzio” inflitta allo scienziato pisano il 22 giugno 1633 dal Sant’Uffizio […]. Galileo Galilei, come si sa,
per salvarsi fu costretto a pronunciare la storica “abiura” davanti al
tribunale vaticano, diventando automaticamente l’esempio tangibile
di una delle più grandi ingiustizie
perpetrate dalle autorità ecclesiastiche. Dopo quasi 360 anni da
quella iniqua condanna la Chiesa
corre ai ripari, ammettendo pubblicamente i propri errori. E lo farà
in maniera solenne, ufficiale e definitiva, con una cerimonia […] presieduta da Giovanni Paolo II, il papa
che […] da sempre va sostenendo
l’infondatezza delle accuse formulate dalle autorità ecclesiastiche
a carico di Galilei [perché siano rimosse] le diffidenze che quel caso
tuttora frappone, nella mente di
molti, alla fruttuosa concordia tra
scienza e fede, tra Chiesa e mondo. […] anche prima di Wojtyla si
sono registrati timidi ripensamenti
sul caso Galileo. Già nel 1823 papa
Pio VII […]. Una cerimonia “obbligata”, anche se tardiva, per uno
Stato, il Vaticano, che, del resto, è
attualmente all’avanguardia nella
ricerca astronomica grazie ai suoi
due mega osservatorii, quello di
Tucson, in Arizona, e la “Specola”
vaticana di Castelgandolfo.
Il calcolo esatto dei giorni, mesi
e anni trascorsi dalla condanna
intende sottolineare quanto il gesto della Chiesa sia tardivo.
Le righe iniziali forniscono le coordinate dell’informazione, indicando in particolare who (il Vaticano), what (la cancellazione della
condanna), where (nello Stato del
Vaticano), when (domani, 1° novembre 1992), why (per cancellare
una delle più grandi ingiustizie
perpetrate dalle autorità ecclesiastiche), how (con una solenne
cerimonia presieduta dal papa).
L’autore sottolinea le responsabilità della Chiesa in merito all’ingiustizia compiuta.
L’articolo ricostruisce le fasi del
percorso compiuto dalle autorità
ecclesiastiche per approdare alla
soluzione definitiva del caso Galileo.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo di giornale (pe- È necessario fare rifeririodo storico 30 ottobre mento alla controversia
1992)
sul sistema aristotelicotolemaico e alle posizioIdea centrale
ni della Curia romana. La
Celebrare la cancella- teoria eliocentrica elabozione definitiva della rata da Copernico e concondanna all’abiura e al solidata da Galilei è oggi
confino di Galileo.
universalmente condivisa, ma appariva assoluMessaggio dell’autore tamente rivoluzionaria
La Chiesa cattolica ha al tempo dello scienziato
certamente commesso pisano, quando vigeva
una grave ingiustizia l’autorità di Aristotele
nei confronti di Galileo, e della Bibbia. In alcuni
alla quale ha posto ripa- passi dell’Antico Testaro tardivamente.
mento si legge, infatti, che «la terra rimane
sempre al suo posto» e
che «il Sole sorge e tramonta tornando al luogo
dal quale si è levato». La
Chiesa riteneva dunque
eretica la teoria eliocentrica, perché in contrasto
con le Sacre Scritture, e
considerava inammissibile la venuta di Cristo,
se la Terra non fosse
stata il centro immobile
dell’universo.
Si fa menzione di un precedente
ripensamento sul caso Galileo,
durante il papato di Pio VII, all’inizio dell’Ottocento.
Si sottolinea l’impegno attuale in
campo astronomico del Vaticano.
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Laboratorio per l’esame
1
• D2 Alberto Gaino, Galileo nuovamente alla sbarra: assolto
Testo
Schedatura
Trecentosettantuno anni dopo
quello vero, si rifà il processo a
Galileo Galilei. In un palazzo di giustizia vero, con una corte per due
terzi composta da giudici veri, un
vero avvocato per difensore e lo
scienziato interpretato da un noto
professore di logica matematica:
si fa in fretta a parlare di evento.
L’aula magna è gremita […] Piergiorgio Odifreddi, l’imputato di
ieri, che, a domanda suggestiva
del presidente Romano Pettenati, non si fa pregare e trasforma
il processo a Galileo in quello alla
Chiesa […] monsignor Renzo Savarino […] ricostruisce i rapporti di
Galilei con la Roma dei gesuiti, dei
cardinali e dei papi: una realtà variegata, in cui il conflitto fra scienza e religione appare più piegato
all’ordine politico piuttosto che a
quello teologico […]. Nell’assolvere Galileo «perché il fatto non
sussiste» […] lo avvisano che «ha
diritto a un equo indennizzo per i
danni subiti». La scienza è salva.
Le righe iniziali forniscono le coordinate dell’informazione, indicando in particolare who (alcuni
studiosi), what (la ripetizione del
processo a Galilei), where (in un
palazzo di giustizia), when (371
anni dopo quello vero), why (per
testare la validità dell’esito del
processo storico e dimostrare
l’innocenza dello scienziato), how
(davanti a una folla incuriosita).
Il matematico e logico Piergiorgio
Odifreddi è Galileo, pronto a trasformare il processo a suo danno
in processo alla Chiesa di Roma.
Renzo Savarino, rappresentante
dell’autorità ecclesiastica, interpreta la condanna come conseguenza del pesante clima politico
creatosi dentro la Curia romana in
seguito alla Riforma protestante.
L’esito del processo vede l’assoluzione con formula piena di Galilei.
Laboratorio per l’esame
2
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo (periodo stori- Occorre fare riferimento
co 8 febbraio 2004)
alla Chiesa di Roma al
tempo della Riforma proIdea centrale
testante e della ControriLa cronaca della ripe- forma cattolica: sententizione del processo a dosi minacciate da avverGalilei, 371 anni dopo la sari esterni, i riformatori,
condanna.
e da nemici interni, gli
eretici, con il Concilio di
Messaggio centrale
Trento (1544-1563) le auL’ingiustizia della con- torità ecclesiastiche imdanna subita da Galileo posero dogmi e misero a
nel processo storico.
punto rigorosi strumenti
di controllo, censura e
repressione, alcuni dei
quali già impiegati in età
medioevale.
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• D3 José G. Funes, Grazie, Galileo
Testo
[…] il 2009 sarà l’Anno internazionale dell’astronomia, dichiarato
dall’Organizzazione delle Nazioni
Unite per celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime
osservazioni astronomiche, che
Galileo Galilei realizzò nel 1609
puntando il suo cannocchiale verso il cielo, su iniziativa dell’Unione internazionale di astronomia
[…] e dell’Unesco. In Italia, paese
promotore dell’iniziativa, questa è
nota anche come Anno galileiano.
[…] qual è la posizione della Chiesa
in relazione al caso Galileo? Non
posso rispondere da esperto, né
da persona neutrale. Appartengo
alla Chiesa. […] Penso che il caso
Galileo non si potrà mai chiudere
in un modo soddisfacente per tutti. Io credo che l’umanità e la Chiesa debbano essergli riconoscenti
per il suo impegno a favore del
copernicanesimo […]. La Chiesa
in qualche modo ha riconosciuto
i suoi sbagli. Forse si poteva fare
meglio: sempre si può far meglio.
Schedatura
Si forniscono le coordinate essenziali dell’informazione.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo (periodo stori- L’autore è membro del
co 27 novembre 2008) clero nonché il direttore
della Specola vaticana,
Idea centrale
l’osservatorio astronoCelebrare l’importanza di mico e centro di ricerca
Galilei nell’Anno interna- scientifica della Chiesa
zionale dell’astronomia, cattolica sito a Castelil 2009, a lui dedicato, e gandolfo, nei pressi di
analizzare il significato Roma.
e le finalità dell’astronomia per scienziati e gente comune.
Messaggio dell’autore
La Chiesa ha riconosciuto tardivamente i propri
errori verso Galilei.
L’autore manifesta sincera gratitudine per l’impegno di Galilei ed
esprime, invece, un giudizio negativo sul comportamento della
Chiesa nei secoli successivi alla
condanna.
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Laboratorio per l’esame
3
LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
Bibbia e Natura: due libri che parlano al cuore e alla mente
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il contenuto dell’articolo, di cui si
indica anche la destinazione editoriale.
Giornalino scolastico
È opinione diffusa e condivisa che la visione del mondo e dell’uomo proposta dalla religione
cristiana e la concezione scientifica così come essa è andata delineandosi negli ultimi quattrocento anni siano in conflitto tra loro, se non addirittura incompatibili. Lo testimonierebbe il
caso di Galileo Galilei, la cui vicenda, culminata nella condanna all’abiura, costituirebbe il simbolo per eccellenza della libera intelligenza scientifica schiacciata dal potere dogmatico della
Chiesa. Eppure, i recenti sviluppi del caso e la definitiva cancellazione della condanna di Galilei
da parte della Chiesa porterebbero a credere che fede e scienza non siano incompatibili, ma, al
contrario, complementari.
Introduzione
Ci si chiede se il caso Galilei non dimostri che fede e
scienza non sono incompatibili, ma, al contrario, complementari.
La tradizionale visione della religione cristiana, basata sulla Bibbia, ha dominato l’Europa per
molti secoli, permettendone lo sviluppo morale, civile, sociale ed economico. L’emancipazione
della cultura scientifica dalla religione e dalla teologia inizia in età umanistico-rinascimentale,
con il declino del provvidenzialismo medioevale e l’esaltazione del libero arbitrio dell’uomo
(homo faber fortunae suae).
Nei primi anni del Seicento il rapporto fra scienza e religione assume i contorni di un vero e
proprio scontro, fomentato da un lato dall’atteggiamento diffidente e repressivo della Chiesa,
impegnata nella lotta alla Riforma protestante, dall’altro dalla cosiddetta “rivoluzione scientifica” che, avviata dalle nuove teorie astronomiche, avrebbe in seguito modificato radicalmente tutti i campi del sapere.
Corpo principale
dell’articolo
Si ricostruisce il caso Galilei,
dalle origini alla conclusione.
Il 13 marzo 1610, il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei rende noti al mondo i risultati dell’osservazione diretta del cielo compiuta al telescopio. Lo scienziato pisano rivela che l’universo
non corrisponde affatto al sistema gerarchico e chiuso proposto dalla tradizione aristotelicotolemaica. Esso appare piuttosto come uno spazio senza confini, percorso da corpi celesti di
materia corruttibile che ruotano insieme alla Terra intorno al Sole, posto al centro del mondo.
Queste scoperte, ora universalmente condivise, erano rivoluzionarie al tempo di Galilei, in cui
vigeva l’autorità di Aristotele e della Bibbia; in alcuni passi dell’Antico Testamento si legge,
infatti, che «la Terra rimane sempre al suo posto» e che «il Sole sorge e tramonta tornando al
luogo dal quale si è levato». La Chiesa di Roma riteneva dunque eretica la teoria eliocentrica,
perché in contrasto con le Sacre Scritture, e considerava inammissibile la venuta di Cristo, se
la Terra non fosse stata il centro immobile dell’universo.
È proprio dalla teoria eliocentrica elaborata dal polacco Niccolò Copernico e consolidata in seguito da Galilei e Newton che nasce il rifiuto del dogmatismo e del principio di autorità e il
conseguente processo di ripensamento e ridefinizione dei saperi che si espresse, a partire dal
Seicento, nel libero esercizio della ragione e nel nome della piena e completa autonomia della
ricerca scientifica.
La pubblicazione delle sue scoperte conferisce a Galileo fama e fortuna, ma genera al tempo
stesso i primi dissapori con le gerarchie ecclesiastiche che, attraverso la congregazione dell’Indice, dapprima lo invitano a non divulgare le tesi eliocentriche dell’astronomo polacco, pena
il carcere (1616); quindi, a seguito della pubblicazione del nuovo trattato Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo (1632) lo processano presso il Tribunale della Santa Inquisizione,
che il 22 giugno 1633 lo condanna all’abiura delle proprie convinzioni eliocentriche, all’isolamento e al confino.
Galileo diventa così il simbolo della lotta della scienza e del progresso contro l’oscurantismo
della religione, l’emblema della libera intelligenza oppressa dal potere dogmatico.
Prima fase
Le prime conferme della teo­
ria eliocentrica e la conseguente condanna all’abiura.
Laboratorio per l’esame
4
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Nel corso del Seicento i suoi discepoli ne diffondono le teorie e le scoperte, ma le idee dello
scienziato pisano saranno a lungo guardate con sospetto dal mondo cattolico, a causa della
censura posta in atto dalla Chiesa. La rivalutazione delle sue opere ha inizio un secolo dopo,
nel Settecento, per opera del filosofo tedesco Immanuel Kant, che ne sottolinea il ruolo fondamentale nello sviluppo del sapere e della conoscenza.
Oggi, nel Ventunesimo secolo, la scienza ha privato il mondo e i suoi fenomeni di ogni carattere
sacro, per cui non è più necessario ricorrere a Dio per spiegarne il funzionamento: l’universo ci
appare ormai governato da leggi fisiche immutabili, scoperte le quali ogni realtà all’apparenza
misteriosa trova una spiegazione logica e naturale. I progressi della scienza e della tecnica sembrano, dunque, determinare una sempre più decisa riduzione del valore e del ruolo della teologia
e della religione, i cui insegnamenti paiono ormai superati o addirittura contraddetti dalle nuove
scoperte. Eppure, la religione cristiana è sopravvissuta all’evoluzione scientifica e tecnologica
degli ultimi quattrocento anni, benché non eserciti più il ruolo egemonico dei secoli passati.
Dunque, fede e scienza non sembrano essere necessariamente incompatibili: esse appaiono,
al contrario, complementari. È quanto dimostra lo stesso Galilei nella “lettera copernicana” inviata nel 1613 al matematico don Benedetto Castelli, a seguito di un’interessante discussione
svoltasi presso la corte di Cosimo II de’ Medici in merito alla possibilità di conciliare il versetto
della Bibbia in cui si narra che Giosuè fermò il Sole con la teoria eliocentrica copernicana. Lo
scienziato chiarisce che la Bibbia è certamente verità rivelata in materia di fede, indispensabile
alla salvezza dell’anima: tuttavia, tale verità è espressa nel linguaggio semplice ed elementare
accessibile all’umanità primitiva dell’epoca lontana in cui fu scritta e necessita pertanto di
un’interpretazione che consenta di andare oltre l’interpretazione letterale. Anche la Natura è
verità, in quanto emanazione di Dio, ma espressa in un linguaggio matematico, dunque chiaro
e accessibile all’uomo attraverso gli strumenti conoscitivi, grazie ai quali egli ne comprende le
leggi. In conclusione, sostiene Galilei, fede e scienza agiscono in due settori di verità diversi e
autonomi, per cui non può esserci contraddizione.
Ancora oggi, la religione corrisponde a un bisogno insito nell’animo di numerosi individui, i
quali trovano nella fede soddisfazioni di tipo emotivo; la scienza, dal canto suo, risponde a
esigenze di natura più logica e razionale. Nel corso dei secoli la scienza moderna si è imposta
dei limiti ben precisi: essa si è prefissa di indagare unicamente i fenomeni del mondo empirico per individuarne le cause “prossime”, e non le cause “prime”, rinunciando a comprendere la verità ultima delle cose e lasciando tale compito ai teologi. Dunque, gli intenti della
scienza sono distinti, ma non in contrasto col progetto conoscitivo della teologia: scienza e
religione costituiscono, in tal senso, due modi distinti ma complementari di accedere alla
conoscenza del reale.
È forse questo il senso della tardiva cancellazione definitiva della condanna di Galilei, avvenuta nel 1992. In verità, già nell’Ottocento la Chiesa di Roma aveva registrato un primo, timido
ripensamento con papa Pio VII, intenzionato ad accettare, «senza troppo rumore», l’eliocentrismo galileiano. È stato, però, Karol Wojtyla, il “papa dei diritti dell’uomo”, a sostenere l’infondatezza delle accuse formulate dalle autorità ecclesiastiche a carico dello scienziato e a
procedere alla cancellazione definitiva della condanna, avvenuta ufficialmente in Vaticano il 1°
novembre 1992, a quasi trecentosessant’anni di distanza. Obiettivo di Giovanni Paolo II era eliminare le diffidenze che quel caso tuttora frapponeva, nella mente di molti, alla collaborazione
e alla concordia fra scienza e fede. Un ripensamento tardivo, come molti hanno osservato, ma
i cui presupposti sono stati confermati dalla scelta da parte delle Nazioni Unite del 2009 come
Anno internazionale dell’astronomia, proprio per celebrare il quattrocentesimo anniversario
delle prime osservazioni astronomiche di Galileo, e dall’odierno impegno nella ricerca astronomica dello Stato vaticano, grazie ai due osservatori di Tucson, Arizona, e di Castelgandolfo,
nei pressi di Roma.
Seconda fase
La divulgazione delle teorie
di Galilei nei secoli successivi e i tardivi ripensamenti
della Chiesa di Roma, fino
alla recente proclamazione
dell’Anno galileiano.
Pur avendo conseguito negli ultimi secoli innumerevoli successi in svariati campi della conoscenza, la scienza ha comunque dei limiti propri, che non le consentono di trascendere i confini del
mondo fisico: essa è perfettamente in grado di spiegare come si nasce, si soffre, si muore, ma è
assolutamente incompetente sul perché questo avvenga. La scienza del futuro sarà mai in grado
di rispondere alle domande fondamentali della vita? Potrà l’uomo trovare soddisfacenti le eventuali risposte logiche e razionali? Non continuerà piuttosto a rivolgersi alla religione?
Conclusione
Si ribadisce l’opinione proposta in apertura.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
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Laboratorio per l’esame
5
laboratorio per l’esame
Volume 2, pp. 223-225
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento «La prevalenza del “vedere”: esattezza e misura nella descrizione scientifica
del Seicento» utilizzando il dossier che si trova alle pagine 223-225.
• Blaise Pascal, L’uomo nell’universo: finitezza e immensità (• T1)
• Benedetto Castelli, Della misura delle acque correnti (• D1)
• Francesco Redi, Generazione degli insetti (• D2)
• Lorenzo Bellini, La struttura e la funzione dei reni (• D3)
• Ezio Raimondi, La descrizione scientifica (• D4)
SCHEDATURA DEI DOCUMENTI
• T1 Blaise Pascal, L’uomo nell’universo: finitezza e immensità
Testo
Schedatura
L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e
piena maestà […]. Miri quella luce
sfolgorante, collocata come una
lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli apparisca come
un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo
riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un
tratto minutissimo in confronto di
quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo
punto, la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre: si
stancherà di concepire prima che
la natura di offrirle materia. Tutto
questo mondo visibile è solo un
punto impercettibile nell’ampio
seno della natura. Nessun’idea vi
si approssima. […] è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di
Dio che la nostra immaginazione
si perda in quel pensiero.
L’uomo, ritornato a sé, consideri
quel che è in confronto a quel che
esiste. Si veda come sperduto in
questo remoto angolo della natura; e da quest’angusta prigione
dove si trova, intendo dire l’universo, impari a stimare al giusto
valore la terra, i reami, le città e
se stesso. […] Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto
meraviglioso, cerchi, tra quel che
conosce, le cose più minute. […] si
perda in tali meraviglie, che fanno
stupire con la loro piccolezza come
le altre con la loro immensità.
L’autore rivolge all’uomo l’invito a
distogliere lo sguardo dalle realtà
sensibili e contingenti per contemplare la grandezza cosmica
della natura.
Sarà l’immaginazione a sopperire
alle fragilità e alle debolezze dei
sensi umani; in realtà, l’idea di
universo è di per sé inconcepibile,
e ciò che l’uomo riesce a immaginare non è neppure paragonabile
all’infinito.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Trattato (periodo stori- Si può fornire qualche
co 1669)
informazione sull’autore, Blaise Pascal (1623Idea centrale
1662), scienziato e filoMettere in risalto la sofo francese convinto
precarietà e la finitezza che l’uomo non possa
della condizione umana trovare appagamento
nell’universo.
alla propria sete di conoscenza né nella raMessaggio dell’autore gione, che è limitata, né
Invito a mutare la pre- nell’indagine scientifica:
sunzione di conoscere e soltanto la fede in Dio,
analizzare la realtà con il cuore e i sentimenti
la meraviglia e lo stupo- sono in grado di fornire
re di fronte al creato.
risposte sconosciute alla
razionalità.
Presa coscienza della propria fragilità e precarietà, l’uomo, colto
da smarrimento, è invitato ad
attribuire alla storia umana e a
se stesso la giusta proporzione di
finitezza.
L’autore induce quindi l’uomo a
contemplare le cose piccolissime,
così da prendere coscienza di occupare un ruolo intermedio fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Come l’infinito, anche il
nulla è incomprensibile all’uomo.
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Laboratorio per l’esame
1
Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo
[…] sia ora un colosso, un mondo,
anzi un tutto rispetto al nulla, al
quale non si può mai pervenire?
Chi si considererà in questa maniera si sentirà sgomento di se stesso
e, vedendosi sospeso, nella massa
datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà
alla vista di tali meraviglie; e credo
che, mutando la propria curiosità
in ammirazione, sarà disposto a
contemplarle in silenzio più che a
indagarle con presunzione.
Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto
al nulla, qualcosa di mezzo tra il
tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi
estremi, il termine delle cose e il
loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto
imperscrutabile: egualmente incapace d’intendere il nulla donde è
tratto e l’infinito che lo inghiotte.
Laboratorio per l’esame
2
Pascal invita, infine, l’uomo a trasformare il proprio desiderio di
conoscenza in meraviglia, a contemplare in silenzio l’infinito e il
nulla, rinunciando alla presunzione di analizzare e comprendere la
realtà in cui è immerso.
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• D1 Benedetto Castelli, Della misura delle acque correnti
Testo
Nei fiumi reali che entrano in mare
[…] si osserva che […]. Ma noi, con i
nostri principii e fondamenti, possiamo rendere la ragione di tale
effetto e dire che quell’eccesso
di quantità d’acqua sopra l’acqua
ordinaria va sempre acquistando
maggiore velocità quanto più si
accosta alla marina, e però scema
di misura, ed in conseguenza di
altezza. E questa forse dee essere
stata la cagione in gran parte per
la quale il Tevere, nella inondazione del 1198, non uscì dal suo letto
sotto Roma verso la marina”.
Schedatura
Lo scienziato procede dall’attenta
e diretta osservazione del fenomeno alla formulazione di un’ipotesi particolare, fino ad applicarla
allo studio di altri fenomeni.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Trattato scientifico (pe- È possibile fornire inriodo storico 1628)
formazioni sull’autore,
lo scienziato Benedetto
Idea centrale
Castelli, allievo di Galilei
Spiegare perché l’altez- e dedito principalmente
za degli argini dei fiumi agli studi di idraulica.
diminuisce man mano
che il loro corso si avvicina al mare.
Messaggio dell’autore
Le leggi ricavate dallo studio di un singolo
fenomeno possono essere applicate ad altri
fenomeni simili.
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Laboratorio per l’esame
3
• D2 Francesco Redi, Generazione degli insetti
Testo
Schedatura
Il primo giorno di luglio mi fu portato un bruco verde assai grosso,
trovato in un viale del giardino di
Boboli: se gli vedevano sedici gambe, com’hanno per più la maggior
parte de’ bruchi, cioè otto sotto la
gola, sei a mezzo ’l ventre, e due
nell’estremità della coda […].
Lo scienziato descrive un bruco con scrupolosa esattezza e
precisione, impiegando un lessico preciso e specialistico, che
rimanda a un significato chiaro
e inequivocabile, e una sintassi fluida, che scandisce le tappe
della ricerca; nella descrizione,
privata di ogni aspetto piacevole e ornamentale, predomina la
funzione conoscitiva.
Laboratorio per l’esame
4
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Trattato scientifico (pe- È opportuno ricordare che
riodo storico 1668)
l’autore Francesco Redi fu
uno scienziato alquanto
Idea centrale
versatile, che si dedicò alla
La descrizione minuzio- medicina e alle scienze nasa degli insetti oggetto turali, distinguendosi per le
di studio.
meticolose e attente descrizioni.
Messaggio dell’autore
L’attenta osservazione
diretta di un fenomeno
o di un oggetto è indispensabile alla sua conoscenza.
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• D3 Lorenzo Bellini, La struttura e la funzione dei reni
Testo
Schedatura
Un giorno stavamo sezionando
una cerva quando, estratti i visceri, spinto solo dal mio genio mi ac- Condotto dalla propria disposiziocinsi a preparare i reni, e tentando ne alla curiosità (genio), lo scienuna preparazione diversa da quella ziato approda a nuove scoperte.
in uso […] mi si rivelarono dei vasi
sottili come capelli […]. Dato che si
trattava di un fatto nuovo, investigando, in seguito, con maggiore
attenzione e diligenza il rene stesso, ne potei identificare la struttura che tosto descriverò […].
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Trattato scientifico (pe- È opportuno ricordare la
riodo storico 1643-1704) figura di Lorenzo Belli­
ni (1643-1704), medico e
Idea centrale
a­na­tomista.
La descrizione minuziosa dell’esperimento Si può fare riferimento al
compiuto.
nuovo metodo di indagine e di studio della natuMessaggio dell’autore ra che nel corso del SeiLa disposizione alla cu- cento si sostituisce allo
riosità conduce lo scien- studio dei filosofi antichi
ziato a nuove scoperte. e delle Sacre Scritture:
tale metodo, che è detto
sperimentale, prevede
l’osservazione
diretta
del fenomeno naturale
che si intende conoscere,
la successiva elaborazione di ipotesi e la loro verifica sperimentale, con
conseguente formulazione di quanto scoperto
in termini matematici.
Solo in questo modo un
fenomeno naturale può
dirsi conosciuto.
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Laboratorio per l’esame
5
• D4 Ezio Raimondi, La descrizione scientifica
Testo
Schedatura
È un ritratto al rallentatore, costruito pezzo per pezzo, sotto uno
sguardo che soppesa colori e rapporti, rimandando più volte, dove
sembra necessario per la chiarezza
piena del dato, alla lucida, immobile tavola di illustrazione […].
Si compie così, con un rimando di
riepilogo alla “figura” una sorta
di operazione gnoseologica in duplex, che toglie al procedimento
scientifico ogni aspetto edonistico
e ornamentale […] la descrizione
è divenuta funzionale e conoscitiva perché alla lettera si presenta
come un esercizio o diciamo meglio, per adottare la terminologia
degli scienziati, un esperimento.
L’autore sottolinea l’importanza
delle illustrazioni come strumenti
di chiarezza ed evidenzia la funzione puramente conoscitiva della descrizione scientifica.
Laboratorio per l’esame
6
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Saggio letterario (perio- Si può ricordare la collabodo storico 1974)
razione di numerosi artisti ai trattati scientifici,
Idea centrale
dei quali realizzarono
Illustrare le caratteri- illustrazioni sempre più
stiche della scrittura precise e dettagliate.
scientifica nel Seicento.
Ezio Raimondi (1924) è
Messaggio dell’autore un noto saggista e critiIndurre il lettore a rico- co letterario italiano.
noscere tali caratteristiche.
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LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
L’uomo intende quanto ha osservato
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
Il 13 marzo 1610 il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei rende noti al mondo i risultati dell’osservazione diretta del cielo compiuta dallo scienziato pisano attraverso il telescopio. Il nuovo strumento
ottico svela allo scienziato un universo che non corrisponde al sistema chiuso, formato da cieli
solidi concentrici alla Terra e da corpi celesti di materia eterna e immutabile, disegnato dalla tradizione aristotelico-tolemaica. Davanti agli occhi di Galileo si spalanca un universo infinito, i cui
confini non sono visibili, percorso da corpi che ruotano intorno al Sole, composti di materia simile
a quella terrestre e come tale soggetta al mutamento e allo scorrere del tempo. Al cosmo finito e
gerarchico della visione aristotelico-tolemaica si sostituisce l’universo infinito di Galilei e Newton.
Ha inizio così, con uno sguardo rivolto verso il cielo, la radicale trasformazione del sapere che
nei primi anni del Seicento investe tutti i campi della conoscenza, mettendo in discussione
certezze millenarie e sistemi teorici che per secoli avevano garantito la comprensibilità dell’universo e la centralità dell’uomo. Prima di Galilei, altri scienziati esperti di astronomia avevano
negato il geocentrismo risalente al greco Tolomeo (II sec. a.C.) e prima di lui ad Aristotele (IV
sec. a.C.), confutando con esso l’antropocentrismo rinascimentale. All’origine di quella rivoluzione che sottrarrà la Terra alla sua posizione privilegiata di centrale immobilità sta l’opera del
polacco Niccolò Copernico, messa all’Indice dalla Chiesa della Controriforma. Al matematico
e astronomo tedesco Nicola Cusano (1401-1464) e al filosofo italiano Giordano Bruno (15481600) il merito di avere inferto nel XV e XVI secolo un colpo decisivo alla finitezza del mondo,
prospettando un universo infinito, confermato poi da Cartesio.
Le osservazioni di Galileo negano, dunque, scientificamente la centralità dell’uomo nell’universo e
allo stesso tempo ne pongono in evidenza la capacità di meditare sulla propria fragilità, unico tra
le creature dell’universo; proprio in questa attitudine consiste la cifra della sua grandezza. Qualche decennio dopo il filosofo francese Blaise Pascal nei suoi Pensieri (1669) affermerà in proposito:
«Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al
nulla… egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte».
Introduzione
La rivoluzione scientifica e
la radicale trasformazione
del sapere hanno inizio con
uno sguardo rivolto verso il
cielo.
Allo sgomento per la scoperta della propria precarietà subentra ben presto la volontà di comprendere l’universo e se stessi, nella consapevolezza che l’uomo può conoscere gli aspetti fenomenici della realtà attraverso procedimenti razionali e scientifici, senza tuttavia coglierne
il senso più profondo. Il processo di ripensamento e ridefinizione dei saperi prende, dunque,
l’avvio dal rifiuto del principio di autorità e si esprime nel libero esercizio della ragione.
Un nuovo metodo di indagine e di studio della natura si sostituisce allo studio dei filosofi
antichi e delle Sacre Scritture: tale metodo, che è detto sperimentale, prevede l’osservazione
diretta del fenomeno naturale che si intende conoscere, la successiva elaborazione di ipotesi
e la loro verifica sperimentale, con conseguente formulazione di quanto scoperto in termini
matematici. Solo in questo modo un fenomeno naturale può dirsi conosciuto.
1° argomento a sostegno
della tesi
Si sottolinea l’importanza
dell’osservazione nel metodo sperimentale.
La percezione della precarietà della condizione umana, del tutto provvisoria ed effimera a paragone con l’infinitezza temporale e spaziale dell’universo, genera per contrasto la rivalutazione della dimensione concreta e contingente entro cui si sviluppa l’esistenza terrena. L’uomo
del Seicento appare, dunque, pervaso da una nuova attenzione alla realtà che lo circonda, reso
curioso del mondo materiale e desideroso di un sapere concreto. Strumenti di indagine e di
conoscenza della natura a disposizione dell’uomo sono i sensi, i quali, tuttavia, forniscono percezioni soggettive e mutevoli (Cartesio) e sono in grado di cogliere solo gli aspetti fenomenici
della realtà (Pascal). Per questo è necessario farsi guidare soltanto dalla ragione, comune a
tutti gli uomini; occorre, inoltre, sopperire alle carenze sensoriali con l’ausilio di strumenti, che
si avvalgono della ricerca teorica al fine di superare i limiti della percezione umana.
2° argomento a sostegno
della tesi
La rivalutazione della dimensione concreta e contingente entro cui si sviluppa l’esistenza terrena
determina una conseguente valorizzazione dei sensi,
primo fra tutti la vista.
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Laboratorio per l’esame
7
Fra i sensi assume particolare rilievo come strumento privilegiato della conoscenza concreta
del mondo materiale la vista, alla quale viene attribuita una maggiore capacità di analisi e di
obiettivazione: “vedere” diventa dunque parte integrante del processo razionale di indagine
dei fenomeni naturali, anche grazie alla creazione e alla messa a punto di invenzioni tecniche
quali il cannocchiale, strumento ottico per la visione ingrandita di oggetti lontani, e il microscopio, in grado di fornire immagini sovradimensionate di oggetti molto piccoli.
Tesi
La percezione visiva assume nel Seicento il ruolo di
strumento privilegiato della conoscenza concreta del
mondo materiale.
Ed ecco, allora, numerosi scienziati lasciarsi guidare nell’indagine scientifica dalla disposizione
alla curiosità (quella che Lorenzo Bellini nella descrizione di un proprio esperimento chiama
genio) e dallo sguardo desideroso di scoperte, la cui osservazione dà luogo a descrizioni precise
e scrupolose degli oggetti e dei fenomeni indagati, sempre più spesso correlate a illustrazioni particolareggiate e dettagliate, in una sorta di operazione gnoseologica in duplex, come la
definisce Ezio Raimondi: un processo conoscitivo basato su due aspetti strettamente connessi, la scrittura e l’illustrazione. La stessa scrittura scientifica diventa oggetto di scrupolosa
esattezza e precisione, e acquisisce un lessico puntuale e specialistico, che rimanda a un significato chiaro e inequivocabile, una sintassi fluida, che scandisce le tappe della ricerca; nella
descrizione dell’esperimento, privata di ogni aspetto piacevole e ornamentale, predomina ora
la funzione conoscitiva.
3° argomento a sostegno
della tesi
Le descrizioni precise e scrupolose degli oggetti e dei fenomeni osservati e indagati
sono sempre più spesso correlate da illustrazioni particolareggiate e dettagliate,
rivolte alla percezione visiva.
Come osserva il critico letterario Raimondi, la vista, divenuta lo strumento principale dell’indagine scientifica, assume una particolare rilevanza anche nell’esperienza artistica del Seicento la quale, superata definitivamente la dimensione allegorica del Manierismo, vede ora
l’affermarsi di nuovi interessi naturalistici. Molti artisti collaborano alle nuove conquiste della
scienza illustrandone ad esempio le raccolte di principi e scienziati: il collezionismo, del resto,
tanto in voga all’epoca, altro non è che l’ennesima forma di indagine curiosa della realtà, che si
tenta di descrivere in maniera enciclopedica.
4° argomento a sostegno
della tesi
Anche nell’arte si affermano nuovi interessi naturalistici.
E tuttavia, anche la percezione visiva, come qualunque altra percezione sensoriale, ha dei limiti: essa può indagare unicamente i fenomeni del mondo empirico per individuarne le cause
“prossime”, e non le cause “prime”, rinunciando a comprendere la verità ultima delle cose.
Come si legge in Pascal e come rileva lo stesso Galilei, l’uomo può conoscere solo gli aspetti
fenomenici della realtà materiale, senza tuttavia riuscire a coglierne il senso più profondo. Per
questo, vedendosi sospeso – afferma Pascal – tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà
alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplare in silenzio più che a indagarle con presunzione.
Conclusione
Si ribadisce la tesi, ponendo
tuttavia in evidenza i limiti
della percezione visiva.
Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 2, pp. 223-225
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento «Le condizioni di vita nelle città industriali» utilizzando il dossier che si
trova alle pagine 1022-1023.
• Gustave Doré, Over London By Rail (• D1)
• Honoré de Balzac, Lo spaventoso spettacolo di Parigi (• D2)
• Friedrich Engels, La periferia di Manchester (• D3)
• Eric Hobsbawm, La città industriale (• D4)
SCHEDATURA DEI DOCUMENTI
• D1 Gustave Doré, Over London By Rail
Testo
Schedatura
Il prevalere di linee verticali, disegnate da una serie di camini equidistanti fra loro, guida l’occhio
dell’osservatore dagli elementi in
primo piano verso lo sfondo, dove
si susseguono altri comignoli più
piccoli, che sembrano non avere
fine.
Negli angusti spazi disegnati dalle linee verticali si affollano uomini, donne e bambini, che paiono
avere perduto ogni speranza.
La monotonia delle loro esistenze è suggerita ed enfatizzata dal
ripetersi delle linee verticali equidistanti e dei muri orizzontali, che
concedono poco spazio alla vita.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Incisione (periodo stori- È opportuno dare alcune
co 1872)
informazioni sull’autore, Gustave Doré (1832Idea centrale
1883), il pittore e incisoRappresentare le dure re francese le cui opere
condizioni di vita degli rispecchiano un gusto
operai in alcuni quartie- romantico e una visione
ri della Londra del XIX epica e drammatica delsecolo, così come esse la realtà, espressi con
apparivano dai treni che grande virtuosismo.
passavano sopra le loro
teste.
Messaggio dell’autore
Indurre a prendere coscienza delle conseguenze umane negative del
progresso industriale.
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Laboratorio per l’esame
1
• D2 Honoré de Balzac, Lo spaventoso spettacolo di Parigi
Testo
Schedatura
Uno degli spettacoli più spaventosi di questo mondo è quello offerto dall’aspetto della popolazione
parigina: gente orrenda a vedersi, smunta, gialla, tirata. Parigi è
come un enorme campo, sempre
abitato da un turbine di interessi;
sotto l’impeto della tempesta s’agita una mèsse d’uomini, falciati
dalla morte con frequenza maggiore che altrove, e che rinascono
sempre più fitti: visi preoccupati
e contorti, che sprizzano da ogni
poro lo spirito, i desideri e i veleni
che ingrossano i loro cervelli; più
maschere che facce: maschere di
debolezza, di forza, di miseria, di
gioia o d’ipocrisia; tutte sfinite,
tutte con l’impronta incancellabile
di un’avidità ansimante.
Ciò che emerge dalla scelta degli aggettivi e delle metafore è
l’alienazione spirituale, morale
e persino fisica (gente orrenda a
vedersi, smunta, gialla, tirata…
visi preoccupati e contorti… più
maschere che facce) degli abitanti
di Parigi: soprattutto l’avidità è il
motore che sospinge l’esistenza
di questi automi, colpiti da una
mortalità più elevata che altrove,
e continuamente sostituiti da altri pronti a prenderne il posto.
Laboratorio per l’esame
2
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Testo in prosa (periodo È opportuno ricordare che
storico 1833)
Honoré de Balzac (17991850) è considerato con
Idea centrale
Stendhal il fondatore del
Evidenziare l’effetto stra­ romanzo realista, nato in
niante e disumaniz­zante Francia nella prima metà
della vita nelle città indu- dell’Ottocento dall’evolustriali.
zione del romanzo storico, del quale sostituisce
Messaggio dell’autore il gusto antiquario per le
Indurre il lettore a pren- epoche passate con l’atdere coscienza degli tenzione alla realtà coneffettivi negativi ap- temporanea. Protagoportati alle popolazioni nista dei novantasei rodirettamente coinvolte manzi compresi nel ciclo
dal progresso industria- della Commedia umana
le.
è la società francese del
primo Ottocento, sottoposta a rigorosa analisi
nelle dinamiche, nella
mentalità e nella psicologia dei personaggi, che
appaiono profondamente condizionati dall’ambiente storico, sociale ed
economico in cui operano
e vivono.
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• D3 Friedrich Engels, La periferia di Manchester
Testo
Schedatura
[…] sono i resti della vecchia Manchester preindustriale, i cui antichi
abitanti si sono trasferiti con i loro
discendenti in quartieri meglio costruiti, lasciando le case, divenute
per essi troppo misere, ad una razza di operai fortemente mescolata
con sangue irlandese. Qui siamo
realmente in un quartiere quasi
dichiaratamente operaio […]. È
difficile immaginare la disordinata
mescolanza delle case, che si fa
beffe di ogni urbanistica razionale, l’ammassamento, per cui sono
letteralmente addossate le une
alle altre. E la colpa non è soltanto
degli edifici sopravvissuti ai vecchi
tempi di Manchester: in tempi più
recenti la confusione è stata portata al massimo, poiché dovunque
vi fosse un pezzettino di spazio tra
le costruzioni dell’epoca precedente, si è continuato a costruire e a
rappezzare, fino a togliere tra le
case anche l’ultimo pollice di terra
libera ancora suscettibile di essere
utilizzata.
È evidente il contrasto fra i quartieri residenziali, meglio costruiti,
in cui si sono trasferiti gli abitanti
della vecchia Manchester, e la miseria dei nuovi abitanti, costretti
a vivere in abitazioni fatiscenti e
ammassate le une alle altre.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Saggio (periodo storico Occorre ricordare la fi1845)
gura di Friedrich Engels
(1820-1895), insieme a
Idea centrale
Karl Marx firmatario del
La descrizione di un Manifesto del partito
quar­
tiere operaio di comunista e fondatore
Man­chester.
della filosofia materialistica della storia. Figlio di
un industriale tedesco, in
Messaggio dell’autore occasione di un tirocinio
Il contrasto fra la ricchez- commerciale pres­so una
za commerciale di Man- filiale inglese della ditta
chester e la miseria e lo del padre restò drammasquallore dei suoi quar- ticamente colpito dalle
tieri operai periferici.
condizioni di sfruttamento e di degrado a cui
erano costretti gli operai.
Engels sentì il dovere
morale di denunciare il sistema industriale inglese
nell’opera La situazione
della classe operaia in Inghilterra (1845).
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Laboratorio per l’esame
3
• D4 Eric Hobsbawm, La città industriale
Testo
Schedatura
E che città! Non c’era soltanto il
fatto che erano coperte da una
coltre di fumo e impregnate di cattivo odore, e che i servizi pubblici
elementari – il rifornimento di acqua, i servizi igienici, la pulizia delle strade, gli spazi aperti, e così via
– non riuscivano a tenere il passo
con l’immigrazione di massa nelle
città, causando così, specialmente
dopo il 1830, epidemie di colera,
febbre tifoidea, e un numero spaventoso e costante di morti dovute ai grandi assassini delle aree
urbane nel secolo XIX, [l’inquinamento] dell’aria e dell’acqua che
si risolvevano nelle malattie respiratorie e in quelle intestinali. Non
c’era soltanto il fatto che le nuove
popolazioni urbane, talvolta per
niente abituate alla vita non rurale, come gli irlandesi, si pigiavano
in slum [quartieri popolari] tetri e
sovraffollati, la cui sola vista raggelava il cuore degli osservatori.
Si dà risalto alle pessime condizioni igienico-sanitarie delle città industriali, responsabili di un
importante aumento del tasso
di mortalità a partire dagli inizi
dell’Ottocento, che l’autore attribuisce inoltre all’enorme afflusso
di popolazione nelle città: soggette a un continuo flusso migratorio, esse avevano rapidamente
assunto dimensioni eccessive
rispetto alla tecnologia in quel
tempo applicata alla vita urbana.
Laboratorio per l’esame
4
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Saggio storico (periodo Occorre fornire qualche
storico 1917)
informazione sull’autore,
Eric Hobsbawm, storico
Idea centrale
inglese di orientamento
Evidenziare le pessime marxista.
condizioni di vita delle
popolazioni urbane del
XIX secolo.
Messaggio dell’autore
Il progresso industriale
ha costi umani.
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LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
La vita nelle prime città industriali vista dai contemporanei
Titolo
Si propone un titolo ritenuto significativo ai fini della
tesi sostenuta nello sviluppo del saggio.
Fin dalla prima metà del XIX secolo si sviluppa in Europa un intenso dibattito sui risultati
umani della rivoluzione industriale, il complesso insieme di mutamenti e innovazioni radicali e
irreversibili che dagli ultimi trent’anni del Settecento investirono dapprima l’economia inglese
e poi quella di numerosi altri Stati del vecchio continente. Ci si interroga, in particolare, sugli
effettivi benefici apportati alle popolazioni direttamente coinvolte nel profondo e potentissimo cambiamento nel sistema di produzione, rivoluzionato dall’impiego delle nuove tecnologie
del vapore e del ferro.
Introduzione
Fin dalla prima metà del­
l’Ottocento ci si interroga
sui benefici sociali della rivoluzione industriale.
L’irreversibile mutamento dei sistemi produttivi determinò una altrettanto radicale trasformazione della società: la storia, la filosofia, l’arte e la letteratura dell’Ottocento offrono in
merito importanti testimonianze.
Tesi
La rivoluzione industriale
determinò una radicale trasformazione della società,
ampiamente documentata
da storici, artisti, letterati.
Come afferma lo storico inglese Eric John Hobsbawm in un saggio del 1972, La rivoluzione industriale e l’impero, il mutamento economico «trasformò le vite degli uomini fino a renderle
irriconoscibili», distruggendo rapidamente modi e modelli di vita tradizionali e ormai secolari,
senza sostituirli con nuovi sistemi altrettanto rassicuranti. La parte povera della popolazione,
che come sempre ne costituiva la maggioranza, vide mutare radicalmente le proprie condizioni di vita e di lavoro: privati del possesso dei mezzi di produzione, ingombranti macchine dal
costo elevatissimo, i lavoratori furono ridotti a proletari, concentrati in fabbriche e costretti a
vendere la propria opera in cambio di un salario spesso insufficiente. Per le prime generazioni
di operai ugualmente stranianti furono i ritmi e le condizioni di lavoro, dettati non più dallo
scorrere del tempo e delle stagioni, dalla varietà dei compiti e delle occupazioni, ma dalla macchina dell’orologio, che imponeva di compiere la medesima operazione all’infinito e in tempi
rapidissimi, all’interno di una più ampia e complessa interazione dei processi e delle fasi di
produzione.
La ricerca di lavoro determinò un vasto spostamento della popolazione dalle campagne verso
le città in cui si erano concentrate le nuove industrie. I centri urbani conobbero un’espansione
impressionante, che li portò a crescere per quantità (nel 1750 erano solo due le città inglesi
con più di 50.000 abitanti, ventinove cent’anni dopo) e numero di abitanti (di queste ventinove ben nove ne contano più di 100.000): le nuove città industriali si svilupparono in modo
caotico e improvvisato, estendendo le aree edificate in direzione delle campagne circostanti.
Al loro interno, i quartieri borghesi si separarono nettamente da quelli operai, che si ammassarono disordinatamente attorno alle fabbriche, nelle periferie prive dei più elementari servizi.
Le condizioni di vita di chi vi abitava erano terribili: alla periferia di Parigi, negli slum di Londra come nei quartieri popolari di Manchester, si viveva in edifici cadenti e malsani, in stanze
buie, piccole e sovraffollate, prive di acqua corrente e di rete fognaria, in condizioni di igiene
precaria. Nei quartieri operai, che Friedrich Engels definisce regno della miseria, della sporcizia
e dell’ambiente malsano, dilagavano la prostituzione e l’alcolismo, insanabili piaghe sociali.
Le epidemie di colera e di febbre tifoidea, le malattie respiratorie e intestinali causate dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua mietevano ogni giorno un numero spaventoso di vittime,
ulteriormente incrementato dai sempre più frequenti omicidi (E. Hobsbawm).
1° argomento a sostegno
della tesi
I documenti degli storici.
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Laboratorio per l’esame
5
È emblematica la serie di incisioni che nel 1872 il pittore e incisore francese Gustave Doré dedicò ai paesaggi londinesi: osservando la città dalla ferrovia, simbolo positivo della rivoluzione
industriale, il pittore mise a nudo il lato oscuro del progresso. Nelle sue incisioni egli ritrasse
con gusto drammatico e grande virtuosismo le dure condizioni di vita degli operai inglesi, così
come esse apparivano dai treni che correvano sopra le loro teste.
Nonostante simili realtà urbane, non si arrestò l’enorme flusso di disperati, i più poveri fra
i poveri, che si mettevano in marcia dalle campagne in direzione delle città industriali, dove
andavano ad ammassarsi in «quartieri tetri e sovraffollati la cui sola vista raggelava il cuore
degli osservatori». A partire dagli anni Venti dell’Ottocento emerse, infatti, in Inghilterra e in
seguito in altri paesi europei interessati dalla rivoluzione industriale la posizione di numerosi
intellettuali i quali denunciavano le drammatiche condizioni di vita e di lavoro degli operai, il
lavoro femminile e lo sfruttamento minorile come conseguenze dannose dell’industrializzazione.
2° argomento a sostegno
La testimonianza degli artisti.
Le prime grandi inchieste condotte in Francia e in Germania sulla condizione operaia risalgono
agli anni Trenta.
In Francia, il dramma degli operai industriali in Europa venne documentato dal romanzo realista (Stendhal, Balzac), che si affermò a partire dalla metà del secolo: il suo intento principale
consisteva in una fedele rappresentazione della realtà contemporanea e in una spietata analisi
della mentalità e dei modi di vita borghesi, spesso descritti in contrapposizione alla dura vita
degli operai. La rivoluzione industriale si accompagnò infatti all’emergere di una nuova classe
sociale, la borghesia, che consolidò il proprio potere nel corso dell’Ottocento ed ebbe quale
diretto antagonista il proletariato, formato dai lavoratori salariati che non possedendo i mezzi
di produzione traevano il proprio reddito dalla vendita del loro lavoro ai proprietari dei suddetti
mezzi.
3° argomento a sostegno
Il contributo dei letterati.
In Germania, è particolarmente significativa l’analisi della situazione operaia britannica di Friedrich Engels, che in occasione di un tirocinio commerciale presso una filiale inglese della ditta
del padre restò drammaticamente colpito dalle condizioni di sfruttamento e di degrado a cui
erano costretti gli operai. Engels sentì il dovere morale di denunciare il sistema industriale
inglese in un testo del 1845, nel quale non esitò a paragonare il trattamento riservato dalla
società del tempo al proletariato all’omicidio commesso da un singolo, precisando che quello
compiuto ai danni degli operai era un assassinio «mascherato e perfido… contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra un assassinio, perché non si vede l’assassino». «Data la
situazione – concludeva Engels – come è possibile che la classe più povera sia sana e possa
vivere a lungo? Che altro c’è da aspettarsi, se non una mortalità enorme?».
Studi recenti hanno effettivamente dimostrato il verificarsi in Inghilterra di un aumento del
tasso di mortalità a partire dagli inizi dell’Ottocento, attribuito all’enorme afflusso di popolazione nelle città: soggette a un continuo flusso migratorio, esse avevano rapidamente assunto
dimensioni eccessive rispetto alla tecnologia in quel tempo applicata alla vita urbana. Furono
necessarie numerose epidemie e alcune inchieste sulla situazione sanitaria nei centri urbani
per indurre le autorità centrali e locali a intraprendere seri interventi mirati a rimuovere i rifiuti
da strade e cortili, canalizzare la rete fognaria, costringere le società private che erogavano
l’acqua ad aggiungere cloro a scopo disinfettante. Grazie a questi interventi, intorno agli anni
Settanta e Ottanta dell’Ottocento l’ambiente di vita urbano cominciò gradualmente a risanarsi. Nell’arco di alcuni decenni la situazione andò dunque migliorando, fino a consentire almeno
in Inghilterra alla classe operaia di vivere meglio di quanto facesse prima dell’industrializzazione.
4° argomento a sostegno
della tesi
L’analisi dei filosofi.
Storia, filosofia, arte e letteratura documentano, dunque, una radicale trasformazione della
società, che solo a distanza di decenni apporterà effettivi benefici alle popolazioni direttamente coinvolte dalla rivoluzione industriale.
Conclusione
Si ribadisce la tesi proposta.
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laboratorio per l’esame
Relazione-ricerca
Volume 2, pp. 275-278
Imposta una ricerca raccogliendo dati e notizie sull’argomento «La pena di morte attraverso le epoche e le culture».
LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
La pena di morte: giusta punizione o vendetta legalizzata?
Titolo
Si individua un titolo ritenuto significativo rispetto
al contenuto della relazione.
La presente relazione si propone di ricostruire la storia della pena di morte attraverso i secoli
e le culture, fino ai giorni nostri, attingendo sia a fonti di natura storico-giuridica e saggisticoletteraria, sia al vastissimo patrimonio di dati e informazioni forniti dai numerosi siti internet
che si occupano di questo argomento.
Alle soglie del terzo millennio, infatti, il dibattito sulla pena di morte si presenta ancora vivace e quanto mai aperto. Secondo le stime ufficiali (Amnesty International, Nessuno tocchi
Caino), nel mondo tuttora si effettuano numerose esecuzioni capitali: poco meno di seimila
nel 2010, cifra che sembra essere confermata dai dati disponibili per i primi sei mesi del 2011.
Introduzione
Si sottolinea l’attualità del­
l’argomento e si forniscono
dati recenti.
Per pena di morte si intende l’uccisione di un individuo ordinata da un tribunale in seguito a
una condanna.
Presente fin dall’antichità negli ordinamenti giuridici come forma di vendetta privata e legalizzata, per secoli fu considerata la naturale punizione per chi si fosse macchiato di crimini gravissimi; la sua applicazione restò a lungo ignorata come problema etico e morale. La condanna
a morte ebbe, dunque, in origine una funzione retributiva, che consisteva nel rendere giustizia
alle vittime, stabilendo una perfetta corrispondenza fra la colpa commessa, l’omicidio, e la
punizione inflitta, la morte; si pensi, per esempio, alla “legge del taglione”, principio di diritto
in uso presso le popolazioni antiche che prevedeva la possibilità per la persona offesa di infliggere all’offensore una punizione uguale al danno ricevuto.
La stessa Chiesa cattolica interpretò per secoli la pena capitale come strumento di espiazione
del peccato commesso: non a caso il primo trattato della letteratura europea contro la pena di
morte, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764), venne inserito nell’Indice dei libri proibiti.
Occorrerà attendere l’Illuminismo e il XVIII secolo per trovarsi per la prima volta di fronte a un
serio e ampio dibattito sulla liceità e sull’opportunità della condanna a morte.
Gli illuministi sostenevano che la legittimazione del potere del sovrano derivasse esclusivamente dal patto sociale: sottoscrivendo una sorta di contratto i cittadini cedevano parte delle loro
libertà individuali allo Stato e accettavano di assoggettarsi alle sue leggi in cambio di sicurezza
e benessere. La teoria contrattualistica della convivenza sociale attribuiva allo Stato la funzione
di garante del bene collettivo e dei diritti naturali di tutti gli individui, ossia di quelle prerogative
che appartengono all’uomo per natura: la vita, la sicurezza, la libertà, la proprietà e la felicità.
Proprio il dibattito sui diritti naturali ebbe importanti ripercussioni sul piano del diritto penale,
come testimonia l’opera di Cesare Beccaria, intellettuale di spicco dell’ambiente culturale milanese autore nel 1764 del trattato Dei delitti e delle pene: Beccaria si propone di incidere concretamente sulla legislazione esistente, evidenziandone lacune e storture. L’opera affronta la
questione sul piano giuridico-politico e morale-psicologico, unendo lucidità razionale e compassione verso il condannato. Muovendo dalla teoria contrattualistica, l’illuminista condanna in una
serrata argomentazione il ricorso alla tortura e alla pena di morte in quanto lesive dei diritti naturali: come si legge nel capitolo ventotto, se «la sovranità e le leggi […] non sono che una somma
di minime porzioni della privata libertà di ciascuno», il quale vi rinuncia a favore di un interesse
collettivo che tuteli tutti in modo uguale, nessun individuo è disposto a delegare ad altri il potere
di ucciderlo, rinunciando al «massimo tra tutti i beni, la vita». La pena di morte, conclude dunque
Beccaria, non è un diritto dello Stato, bensì una guerra della nazione contro un cittadino.
Svolgimento
Si fornisce una definizione
di pena di morte e si ricostruiscono le tappe storiche
del dibattito, dall’antichità
ai giorni nostri; si analizza,
infine, la situazione attuale.
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Ribadita, così, l’ingiustizia giuridica della pena di morte, Beccaria ne dimostra l’inutilità quanto a funzione intimidatoria, che consiste da un lato nell’impedire al colpevole di commettere
nuovi delitti, dall’altro nell’indurre altri individui a desistere dal compiere reati simili. In realtà,
sostiene Beccaria, l’effetto deterrente di una pena non deriva dalla sua intensità o crudeltà,
ma dalla certezza che si sarà in qualche modo puniti. La forza dell’intimidazione non dipende
dall’intensità della pena, ma dalla sua estensione nel tempo: la totale e prolungata perdita
della libertà inflitta con l’ergastolo è di gran lunga più efficace della condanna a morte.
Il trattato di Beccaria fu all’origine dell’abolizione della pena di morte avvenuta fin dallo stesso
XVIII secolo in alcuni Stati europei, primo fra tutti il Granducato di Toscana al tempo di Pietro
Leopoldo di Lorena, che il 30 novembre 1786 la abrogò per tutti i reati con l’emanazione del
nuovo codice penale toscano. Come si evince dall’articolo LI del suddetto codice, il granduca
intendeva moderare una legislazione troppo severa e obsoleta, non più adeguata alla realtà
della Toscana del suo tempo. I capisaldi del nuovo codice penale prevedevano: l’abolizione del
ricorso alla tortura, pratica disumana che non garantisce l’emergere della verità e non tutela i
diritti del singolo né della collettività; la certezza e la proporzionalità delle pene alle colpe commesse e il loro carattere strettamente personale, con conseguente abolizione della confisca
dei beni del reo ai familiari innocenti; l’abolizione della pena di morte per qualunque reato, in
quanto inadatta a consentire la correzione del reo, membro anch’egli della società, e incapace
di soddisfare il danno privato o pubblico arrecato; tale condanna sarebbe stata sostituita con
«la pena dei lavori pubblici». Al Granducato seguirono, poi, la Repubblica Romana di ispirazione mazziniana nel 1849 e la piccola Repubblica di San Marino nel 1865. L’Italia abrogò la
condanna capitale per tutti i reati, ad eccezione dei crimini di guerra e del regicidio, nel 1889,
per reinserirla nel codice nel 1930 e abolirla definitivamente nel 1948.
Oggi, i paesi del mondo che hanno deciso di abolirla per legge o di fatto sono 155, mentre sono
42 quelli che fanno ancora ricorso alla pena capitale. Come si legge nel rapporto sulla situazione attuale pubblicato nel 2011 dall’associazione Nessuno tocchi Caino, che dal 1993 si batte
contro la pena di morte, l’Asia è il continente nel quale si pratica la quasi totalità delle esecuzioni capitali del mondo, almeno 5746 nel 2010, pari al 98,4%, in aumento rispetto al 2009. In
America, gli Stati Uniti sono l’unico paese del continente che ha eseguito condanne a morte
nel 2010, per un totale di 46; nel continente africano, sei paesi hanno compiuto nello stesso
anno 43 esecuzioni. In Europa è la Bielorussia l’unica eccezione in un continente altrimenti
libero dalla condanna a morte, con 2 esecuzioni nel 2010 e altrettante nel 2011.
Vi è un altro dato rilevante: dei 42 Stati mantenitori della pena di morte, 35 sono paesi posti
sotto il controllo di un governo dittatoriale, autoritario o illiberale: fra questi spiccano per numero di esecuzioni la Cina (5000 esecuzioni nel 2010), l’Iran (546) e la Corea del Nord (60), che
detengono questo triste primato. Occorre, tuttavia, precisare che molti di questi paesi non
forniscono dati ufficiali, per cui il numero di esecuzioni potrebbe essere superiore alle stime.
Come chiarisce Amnesty International nel Rapporto annuale sulla pena di morte, datato 27
marzo 2012, molte sentenze capitali sono state eseguite per reati quali l’adulterio e la sodomia
in Iran, la blasfemia in Pakistan, la stregoneria in Arabia Saudita, il traffico di droga in oltre dieci paesi. Lo stesso rapporto sottolinea, inoltre, come nella maggior parte dei paesi non democratici numerose condanne capitali siano state emesse o eseguite in seguito a procedimenti
giudiziari che non hanno rispettato gli standard internazionali in materia di equità e sulla base
di «confessioni estorte con la tortura o altre forme di coercizione».
Appare dunque evidente che la battaglia per l’abolizione della pena di morte in questi paesi
debba essere necessariamente preceduta dalla lotta per l’affermazione della democrazia e la
promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Fra i paesi mantenitori della pena di morte sono sette quelli che per sistema politico, rispetto
dei diritti umani e tutela delle libertà economiche possono essere considerati democratici liberali: oltre alla già citata Bielorussia, ricordiamo gli Stati Uniti, il Giappone, Taiwan, il Botswana,
l’india e l’Indonesia. È soprattutto nei confronti di questi paesi che associazioni e organizzazioni internazionali si mobilitano da anni promuovendo campagne in difesa dei diritti umani
sanciti nella Dichiarazione universale (1948).
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Fra le più attive ricordiamo Amnesty International, un’Organizzazione non governativa indipendente fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson: Amnesty ha fatto propri i principi
della solidarietà e della protezione internazionale dei diritti umani e si impegna a «svolgere attività di ricerca e azione finalizzata a prevenire ed eliminare gravi abusi di tali diritti». La Comunità
di Sant’Egidio, nata a Roma nel 1968, è oggi un’«Associazione pubblica di laici della Chiesa» che
dalla metà degli anni Novanta ha esplicitato il proprio impegno abolizionista attraverso appelli e
petizioni per la salvezza dei condannati a morte, operando sia a livello governativo, nei contatti
diretti con rappresentanti politici, sia sostenendo la società civile. Il 18 dicembre 2007, grazie
al contributo della Comunità di Sant’Egidio e dopo una campagna ventennale dell’associazione
Nessuno tocchi Caino e di Amnesty International, l’Onu ha approvato una storica risoluzione
su iniziativa italiana per la moratoria universale, ossia per una sospensione internazionale delle
esecuzioni capitali. Purtroppo, non tutti i paesi hanno rispettato tale risoluzione.
Oggi, il Rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte sottolinea che anche
nei paesi che continuano a ricorrere massicciamente alla pena di morte si sono compiuti graduali progressi: in Cina, ad esempio, la condanna capitale è stata abolita per 13 reati di natura economica; negli Stati Uniti d’America, il Connecticut è diventato il diciassettesimo Stato
abolizionista. «Sono piccoli passi avanti, ma misure di questo genere hanno ultimamente dimostrato di poter condurre alla fine della pena capitale. Non succederà improvvisamente, ma
siamo convinti che arriverà il giorno in cui la pena di morte sarà consegnata alla storia» (Salil
Shetty, Segretario generale di Amnesty International).
A che punto è oggi il dibattito sulla pena di morte?
In merito all’utilità e alla legittimità della pena di morte l’opinione pubblica mondiale è tuttora
divisa. Sono, infatti, ugualmente numerosi gli argomenti favorevoli e contrari alla pena capitale.
Coloro che sostengono la pena di morte si appigliano a esigenze di giustizia, secondo le quali
spetta allo Stato il compito di tutelare i cittadini che rispettano le leggi da coloro che le trasgrediscono. In particolare, la pena di morte ottempererebbe a due principi di giustizia: il
principio di retribuzione, per cui la gravità di alcuni reati è tale che l’unica punizione adeguata
ad essi risulta essere la morte; il principio di prevenzione, che consiste nel dovere dello Stato
di impedire a soggetti socialmente pericolosi di reiterare il reato.
Coloro che si oppongono alla pena di morte si appellano soprattutto a ragioni morali: nessun
individuo, anche se rappresentante dello Stato, ha il diritto di togliere la vita a un altro, a prescindere dalla gravità delle colpe da questi commesse. Infatti, ogni volta che lo Stato punisce
l’omicidio con la pena di morte commette a sua volta un omicidio, che è però destinato a
restare impunito, contrariamente a quanto stabilisce la legge dello Stato stesso. Non va, poi,
dimenticato che in alcuni paesi del mondo la pena di morte è prevista non solo per i reati più
gravi, come l’omicidio, ma anche per la rapina, l’adulterio, o per reati di coscienza e di opinione. Quanto alla funzione deterrente della pena di morte, occorre ricordare che fra condanna a
morte e uccisione passano di norma molti anni, per cui al momento dell’esecuzione l’opinione
pubblica ha dimenticato crimine e condannato, con conseguente vanificazione della funzione
esemplare della pena.
L’applicazione della pena di morte rende, infine, impossibile porre rimedio a un eventuale errore giudiziario, né consente al condannato di riabilitarsi.
In conclusione, la pena capitale non contribuisce a difendere la vita umana: essa la rende, al
contrario, meno sacra e inviolabile, in quanto incoraggia, anziché frenare, le pulsioni omicide. A
nostro parere, una sola è la ragione che deve prevalere e guidarci nell’assumere una posizione
in merito: l’imperativo morale del “non uccidere”.
Conclusione
Si propongono alcune considerazioni sul potere deterrente della pena di morte e si analizzano gli aspetti
umani e morali della questione; si formula, infine,
un giudizio personale.
Nella stesura della presente relazione sono state utilizzate le seguenti fonti:
Bibliografia e sitografia
• B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, Letterautori, volume 2, Bologna, Zanichelli, 2011
• www.wikipedia.org
• www.nessunotocchicaino.it
• www.amnesty.it
• www.santegidio.org
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Volume 2, pp. 330-331
Saggio breve
Componi un saggio breve sull’argomento «Il percorso di formazione di Candido» utilizzando il dossier che si trova alle
pagine 330-331.
• Voltaire, La caricatura di Pangloss-Leibniz (• D1)
SCHEDATURA DEL DOCUMENTO
Testo
Schedatura
Pangloss insegnava la metafisicoteologo-cosmo-scemologia. Provava in modo ammirevole che non
c’è effetto senza causa, e che, nel
migliore dei mondi possibili, il castello di monsignor il barone era il
più bello dei castelli e la signora la
migliore delle baronesse possibili.
«È dimostrato – diceva – che le
cose non possono essere altrimenti: poiché, tutto essendo fatto
per un fine, tutto è necessariamente per il fine migliore. Notate
che i nasi sono stati fatti per reggere occhiali, perciò abbiamo degli
occhiali. Le gambe sono visibilmente costituite per calzare brache, e abbiamo delle brache. […]
Di conseguenza, coloro che hanno
affermato che tutto è bene hanno
detto una sciocchezza, bisognava
dire che tutto è per il meglio».
Candido ascoltava con attenzione, e credeva con innocenza […]
Ne concludeva che dopo la felicità
d’esser nato barone di Thunderten-Tronckh, il secondo grado di
felicità […] e il quarto nell’ascoltare maestro Pangloss, il più grande
filosofo della provincia e di conseguenza di tutta la terra.
Voltaire realizza una caricatura
del filosofo tedesco Gottfried Leibniz nel personaggio di Pangloss,
insegnante di metafisico–teologo
–cosmo–scemologia; l’espressione è coniata dall’autore per ridicolizzare la filosofia ottimistica di
Leibniz.
Il ragionamento di Pangloss, i
cui presupposti sono dati dogmaticamente per dimostrati, lo
conduce a constatazioni insignificanti sui rapporti fra le cose, a far
discendere conseguenze logiche
da cause assurde, ma affermate
con assoluta sicurezza.
La celeberrima frase coniata da
Leibniz, «Viviamo nel migliore dei
mondi possibili», è decontestualizzata e fatta oggetto di scherno
dal narratore, che la ripete come
un ritornello.
Candido condivide il modo di ragionare di Pangloss e lo considera
il più grande filosofo della terra.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Romanzo (periodo sto- Occorre precisare il penrico 1759)
siero di Gottfried Leibniz
(1646-1716), filosofo teIdea centrale
desco che si era interLa piena fiducia del rogato sul problema
giovane Candido nelle della conciliabilità tra la
parole del suo maestro, presenza del male nel
che egli considera il più mondo e l’esistenza di
grande filosofo di tutta Dio, creatore dell’univerla terra.
so e principio di bontà e
giustizia. Per giustificare
Messaggio dell’autore i mali e le imperfezioni
Si evidenzia l’ingenuità apparenti del mondo,
di Candido, propenso egli sosteneva che esso
per indole e inesperien- è il migliore tra i mondi
za a condividere l’otti- possibili, in quanto cremismo del maestro.
ato da un Dio perfetto.
Leibniz aveva infatti elaborato la teoria filosofica secondo la quale Dio,
nella sua onnipotenza,
avrebbe potuto creare
infiniti mondi diversi;
tuttavia, essendo il suo
disegno finalizzato al
bene dell’umanità, aveva scelto di creare il migliore possibile, quello in
cui anche il male avrebbe concorso a realizzare
l’armonia dell’universo
alla quale tendeva il progetto divino.
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Laboratorio per l’esame
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LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Qualcosa di Candido in ciascuno di noi
Struttura
Titolo
Alla fine del Seicento il filosofo tedesco Gottfried Leibniz (1646-1716) si era interrogato sul problema della conciliabilità tra la presenza del male nel mondo e l’esistenza di Dio, creatore dell’universo e principio di bontà e giustizia. Per giustificare i mali e le imperfezioni apparenti del mondo, sosteneva che esso è il migliore tra i mondi possibili, in quanto creato da un Dio perfetto.
Leibniz aveva infatti elaborato la teoria filosofica secondo la quale Dio, nella sua onnipotenza,
avrebbe potuto creare infiniti mondi diversi; tuttavia, essendo il suo disegno finalizzato al bene
dell’umanità, aveva scelto di creare il migliore possibile, quello in cui anche il male avrebbe concorso a realizzare l’armonia dell’universo alla quale tendeva il progetto divino.
La celeberrima frase coniata da Leibniz, «Viviamo nel migliore dei mondi possibili», fu spesso
decontestualizzata e guardata con scherno e malignità da alcuni suoi contemporanei. Fra questi spicca Voltaire, che nel romanzo Candido realizzò una caricatura del filosofo tedesco sotto
le spoglie del dottor Pangloss, insegnante di metafisico-teologo-cosmo-scemologia, espressione coniata dall’autore per ridicolizzare la filosofia ottimistica di Leibniz.
Nel romanzo, alla figura dell’ottimista Pangloss si contrappone il personaggio di Martino, vecchio letterato amareggiato da decenni di lavoro editoriale e compagno di avventure di Candido,
il quale nega in nome della ragione il ruolo della Provvidenza nella storia dell’uomo e sostiene la presenza nel mondo di forze del male forti tanto quanto quelle del bene. Nella figura
di Martino Voltaire intendeva rappresentare il filosofo, scrittore, enciclopedista e giornalista
francese Pierre Bayle (1647-1706), fautore della teoria dell’ateismo virtuoso, secondo la quale
la vita morale è indipendente dai principi religiosi che si professano: il bene e il male non sono
prerogative di una fede o di una dottrina; chiunque può vivere in modo onesto e virtuoso seguendo la ragione e il buon senso, a prescindere dall’esistenza di Dio.
I personaggi del Candido non hanno, dunque, alcuna verosimiglianza o credibilità agli occhi del
lettore, che è piuttosto indotto a considerarli “tipi”, emblematici rappresentanti di categorie sociali, religiose e soprattutto ideologiche. Proprio per questo il Candido è stato definito antiromanzo: così, se Pangloss è l’irriducibile ottimista e Martino incarna il pessimismo assoluto, Candido si fa portavoce dell’ideologia illuminista dell’autore, il quale, pur ammettendo l’esistenza di
un’entità superiore divina, alla quale andava attribuito l’ordine dell’universo, rifiutava di credere
a un qualsiasi intervento di Dio nel mondo, in cui l’uomo aveva il potere di agire liberamente.
Cacciato dal castello dello zio barone in Westfalia, Candido è costretto a lunghe peregrinazioni che
lo portano a percorrere gran parte del mondo allora conosciuto, sperimentando quotidianamente
e sulla propria pelle il dolore, l’ingiustizia e l’infelicità che caratterizzano l’esistenza umana; egli
verifica, così, concretamente l’infondatezza delle teorie ottimistiche di Pangloss. A Costantinopoli, meta ultima del suo viaggio, Candido approda infine a una visione realistica e concreta della
vita, che lo porta a riconoscere l’inutilità di indagare problemi che vanno oltre la comprensione
umana: solo il lavoro quotidiano è in grado di liberare l’uomo dalla noia dell’esistenza. Ad analoga
considerazione approdano il saggio derviscio, sorta di santone orientale, e il vecchio contadino
turco con i quali Candido, Martino e Pangloss si confrontano nelle ultime pagine del libro.
Constatato così il fallimento del pensiero filosofico, rivelatosi incapace di interpretare la realtà,
il romanzo si conclude con l’esaltazione dell’impegno concreto e del ripiegamento nella dimensione individuale dell’esistenza, che consentono di vivere con serenità.
Introduzione
Si illustrano le caratteristiche del Candido e il contesto filosofico entro cui si
colloca.
Proprio il carattere esemplare dei personaggi di Voltaire consente al lettore di identificarsi ora
con l’uno, ora con l’altro, verificandone o condividendone l’ideologia.
Tesi
Il carattere esemplare dei
personaggi di Voltaire consente al lettore di identificarsi con una delle fasi del
percorso di formazione di
Candido e condividerne l’ideologia.
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Ciascuno di noi è stato o è ancora il giovane Candido, ingenuo sognatore avido di conoscenza
propenso per indole e inesperienza all’ottimismo e dunque a disposto ad accordare piena fiducia alle parole del suo maestro, che egli considera il più grande filosofo della provincia e di
conseguenza di tutta la terra. Di Pangloss egli condivide l’ottimistica convinzione che quello in
cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili, certi che il Dio buono e giusto di cui ci garantiscono la presenza nell’universo tutte le religioni tradizionali non possa consentire il male nel
mondo se non per preparare il bene. Il dolore, l’ingiustizia, la sofferenza dell’umanità acquisirebbero, dunque, un significato preciso all’interno del più ampio disegno divino, che conduce la
storia e gli uomini verso il ritorno di Cristo e l’avvento del suo regno di pace e giustizia. Appare
evidente la funzione rassicurante e consolatoria della visione provvidenzialista, da Voltaire attribuita a Leibniz/Pangloss, ma comune a quasi tutte le più diffuse religioni: le sofferenze e le
violenze ingiustamente subite nella vita terrena sarebbero un giorno risarcite da Dio. Il dolore
esistenziale costituirebbe, anzi, il segno distintivo di meriti acquisiti agli occhi di Dio, pronto a
ricompensarli con la salvezza eterna.
1° argomento a sostegno
della tesi
L’identificazione con il giovane Candido e con l’ottimista Pangloss.
E tuttavia, come nel romanzo di Voltaire, anche il giovane lettore crescerà con Candido: l’esperienza concreta della vita potrà allora spingerlo a verificare la fondatezza dell’ottimismo giovanile, fino a constatarne l’astrattezza e l’irrazionalità. Forse la ragione lo indurrà a condividere il
cupo pessimismo del vecchio Martino e a negare alcun ruolo sulla terra alla Provvidenza divina.
Abbracciando un’ideologia laica e razionalista, il lettore rinuncerà ad affidare ad altri il proprio
destino e prenderà coscienza del compito che lo attende, costruire da sé la propria felicità.
2° argomento a sostegno
della tesi
L’identificazione con il Candido che fa esperienza della vita e con il pessimista
Martino.
Più probabilmente, ci attesteremo sulle posizioni del Candido adulto e disilluso, per il quale
diventa sempre più difficile conciliare il male sulla terra con la bontà e la giustizia dei disegni
divini e appare inutile indagare problemi che vanno oltre la comprensione umana: solo l’impegno concreto e il ripiegamento nella dimensione individuale dell’esistenza consentono di vivere con serenità. Così, constatata l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, ci augureremo
come Voltaire la presenza di un principio divino in grado di indirizzare al bene l’intera umanità.
3° argomento a sostegno
della tesi
L’identificazione con il Candido adulto e con Voltaire.
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Laboratorio per l’esame
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laboratorio per l’esame
Volume 2, pp. 410-411
Articolo di giornale
Componi un articolo di giornale sull’argomento «Mirandolina: attualità del personaggio settecentesco» utilizzando il
dossier che si trova alle pagine 410-411.
• Attilio Momiliano, Goldoni, principe dei nostri poeti settecenteschi (• D1)
• Eligio Possenti, La servetta prima attrice (• D2)
• Anna Maria Guarnieri, Goldoni, incredibilmente moderno (• D3)
SCHEDATURA DEI DOCUMENTi
• D1 Attilio Momiliano, Goldoni, principe dei nostri poeti settecenteschi
Testo
La locandiera è una delle comme­
die che meglio guidano il lettore
allo studio di Goldoni come princi­
pe dei nostri poeti settecenteschi.
[…] Attorno alla figura della pro­
tagonista, mantenuta nell’ambito
d’una civetteria onesta e graziosa,
modulata sopra un tema fra can­
zonatorio e patetico, si svolge un
episodio d’una morbidezza, d’una
fugacità, d’una leggerezza sette­
centesche: e la protagonista, quel­
la regina dei cuori, anche se non è
incipriata e in guardinfante, ci fa
ripensare al secolo in cui come non
mai la donna fu signora e sovrana.
Tutta la commedia ha un delicato
sapore di rievocazione storica: e
perciò questa volta la solita chiusa
rosea del Goldoni è perfettamente
intonata.
Schedatura
Sia la vicenda al centro della com­
media, il gioco di seduzione or­
dito da Mirandolina ai danni del
cavaliere misogino, sia la prota­
gonista, dotata di una civetteria
aggraziata e mai immorale, sia
infine la conclusione, l’annuncia­
ta intenzione di Mirandolina di
sposare un suo pari, si accordano
perfettamente al contesto sto­
rico, sociale e culturale in cui La
locandiera è ambientata.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Saggio letterario (perio­ Occorre fare riferimento
do storico 1955)
alla situazione della Re­
pubblica di Venezia alla
Idea centrale
metà del Settecento,
La commedia e la sua dominata da una ristret­
pro­tagonista rispec­chia­ ta oligarchia lontana dai
no perfettamente la fermenti politici, sociali e
cul­tura e i costumi del culturali che percorrono
pe­riodo storico a cui ap­ l’Europa e avviata a un
partengono.
lento ma inesorabile de­
clino: nel 1797 Napoleone
Messaggio dell’autore Bonaparte la cederà agli
La locandiera va letta austriaci.
come una perfetta rie­
vocazione storica del
Settecento.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
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Laboratorio per l’esame
1
• D2 Eligio Possenti, La servetta prima attrice
Testo
Schedatura
Con questa commedia, il Goldoni
promosse la servetta a prima at­
trice. Una rivoluzione addirittura.
Mentre per l’innanzi la servetta
delle commedie stava nel fondo
della scena […] eccola qui, sempre
servetta, ma in piena luce di ribal­
ta. […] In pieno Settecento, nel
secolo più smanceroso, incipria­
to e titolato, far piovere, su una
donnetta della servitù, gli onori
riservati fino allora alla prima at­
trice e farla applaudire dalle mor­
bide manine delle incipriate dame
veneziane, era un ardimento non
soltanto artistico.
Con l’andar degli anni Mirandoli­
na è un personaggio che accresce
il suo fascino e il suo significato e
dà nuove luci alla commedia nella
quale ella domina con grazia, fi­
nezza, intelligenza, vincendo una
leggiadra battaglia a vantaggio
del sesso femminile […].
Si sottolinea la straordinaria rivo­
luzione operata da Goldoni all’in­
terno del teatro comico tradizio­
nale: con Mirandolina il perso­
naggio della servetta tipico della
Commedia dell’Arte guadagna il
centro della ribalta e da figura di
contorno diventa un personaggio
dotato di spessore psicologico e
forza di volontà, caratterizzato
da estrema disinvoltura nei com­
portamenti, anche seduttivi. Una
rivoluzione, dunque, non solo ar­
tistica, ma soprattutto sociale.
Il perfetto equilibrio di intelligenza
e civetteria fanno di Mirandolina
un’antesignana sosteni­tri­ce del­
l’emancipazione femminile che si
realizzerà concretamente soltanto
due secoli dopo, pronta a rivendi­
care l’autonomia e la libertà della
donna dal mondo maschile.
È soprattutto il fascino insolito e
aggraziato della protagonista a
proiettare sull’opera teatrale luci
sempre nuove, offrendo a critica
e pubblico molteplici e insolite in­
terpretazioni.
Laboratorio per l’esame
2
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo di giornale (pe­ Occorre fare riferimen­
riodo storico 28 marzo to alla riforma artistica
1953)
operata da Goldoni, vol­
ta a restituire al teatro
Idea centrale
comico dignità culturale
La locandiera ha rivolu­ attraverso la rappresen­
zionato non solo il tea­ tazione della vita quoti­
tro comico, ma anche le diana dei ceti medi. Ispi­
convenzioni sociali del randosi al Mondo, ossia
suo tempo.
alla realtà del suo tem­
po, e al Teatro, ovvero
Messaggio dell’autore alla pratica del palcosce­
Mirandolina è un per­ nico, Goldoni trasforma
sonaggio totalmente la rappresentazione “a
innovativo rispetto alla soggetto” della Comme­
tradizione teatrale pre­ dia dell’Arte in comme­
cedente e alle conven­ dia “di carattere”, basata
zioni sociali del Sette­ non più sull’improvvisa­
cento.
zione degli attori attor­
no a un canovaccio, ben­
sì sulla recitazione di un
testo interamente scrit­
to, e sostituendo le ma­
schere della tradizione
con personaggi realistici
e socialmente identifi­
cabili, dotati di spessore
psicologico.
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• D3 Anna Maria Guarnieri, Goldoni, incredibilmente moderno
Testo
Schedatura
Tipologia testuale
“L’amore nella Locandiera, così
come in tutte le commedie di Gol­
doni, viene rifiutato, respinto. È
un sentimento sempre disatteso,
che intimorisce, a cui si rinuncia.
Anche Mirandolina […] è una don­
na assolutamente pratica, molto
dinamica. […] Lei ha la sua fab­
brichetta, non ha tempo né per
sventagliarsi né per concedersi
distrazioni pericolose. Mirando­
lina ha bisogno di vivere con or­
dine: la sua scelta per Fabrizio, il
cameriere cui l’aveva destinata il
padre morendo, è la logica con­
seguenza di questo pensare. Gli è
affezionata, naturalmente, ma se
anche non lo fosse, lo sposereb­
be lo stesso. Perché è una donna
sola, perché ha bisogno di vivere
ordinatamente. […]
Tutto Goldoni è incredibilmente
moderno, basta far piazza pulita,
appunto, degli ori, e leggere at­
tentamente le sue parole. E quello
di Mirandolina non è un gioco. È la
realtà: tenere a bada i clienti senza
che disertino il suo locale ma an­
che senza farsi insidiare.
Appagata dalla buona gestione
della locanda, che le consente li­
bertà e indipendenza economiche,
Mirandolina non è attratta da nes­
suno dei tre nobili che la corteggia­
no, non è allettata dalla ricchezza
e dai privilegi sociali che essi rap­
presentano: sa che la disobbe­
dienza alla volontà del padre, che
le ha indicato nel servitore Fabrizio
il marito ideale, e l’infrazione delle
regole sociali con un matrimonio di
convenienza sarebbero aspramen­
te condannate all’interno della
società settecentesca e rischie­
rebbero di compromettere il buon
andamento degli affari.
Per questo, in conclusione di
commedia, ella comunica agli al­
tri personaggi e al pubblico la sua
intenzione di sposare il fedele e
laborioso Fabrizio: la decisione
non nasce dal sincero innamora­
mento per il servitore, bensì dal
pragmatismo della donna d’affa­
ri, dall’intenzione pratica di con­
ferire a se stessa e alla gestione
della locanda una stabilità e una
sicurezza maggiori. L’amore resta
nella Locandiera un sentimento
disatteso e respinto, al quale si
è disposti a rinunciare in nome di
valori più semplici e concreti.
Articolo (periodo stori­
co 1993)
Integrazioni personali
Idea centrale
Mirandolina, moderna
e razionale donna d’af­
fari, rinuncia all’amore
per prag­matismo e sen­
so dell’utile.
Messaggio dell’autore
La modernità di Goldoni
trova nel personaggio
di Mirandolina un valido
esempio.
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Laboratorio per l’esame
3
LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
Mirandolina ancora sulla scena
La felicità? È sapersi accontentare
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il con­
tenuto dell’articolo, di cui si
indica anche la destinazio­
ne editoriale.
«La Nuova Venezia», Venezia
Benché siano trascorsi quasi duecentosessant’anni dalla prima rappresentazione della Locandiera, la commedia conferma attraverso i secoli la propria modernità.
È soprattutto il fascino insolito e aggraziato della protagonista a proiettare sull’opera teatrale
luci sempre nuove, offrendo a critica e pubblico molteplici e diverse interpretazioni. La com­
media, in tre atti, fu composta nel 1751 da Carlo Goldoni (1707-1793) e portata in scena per la
prima volta il 26 dicembre 1752 al teatro Sant’Angelo di Venezia: vi si racconta la vicenda di
Mirandolina, padrona di una locanda a Firenze, che gestisce con l’aiuto del fedele servitore
Fabrizio. La bella locandiera riesce a far innamorare di sé i personaggi maschili della commedia,
il Marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita, che rappresentano rispettivamente la nobil­
tà decadente e la borghesia da poco affermatasi e arricchitasi. Solo il Cavaliere di Ripafratta
sembra resisterle, e Mirandolina applica le sue arti seduttive per soggiogarlo al suo fascino.
Raggiunto infine il suo scopo e costretto il Cavaliere misogino a confessare il suo amore per lei
davanti a servi e avventori, Mirandolina annuncia che sposerà Fabrizio, uomo della sua stessa
condizione sociale, l’unico in grado di aiutarla nella gestione della locanda. Il Cavaliere fugge
disperato e i due nobili spasimanti sono congedati.
È proprio in nome della modernità dell’opera che la compagnia del Teatro Goldoni di Venezia ha
deciso di ricordare l’anniversario della prima della Locandiera portando nuovamente in scena
l’indimenticabile personaggio goldoniano che nel corso dei secoli si è prestato a molteplici e
talvolta contraddittorie interpretazioni, alcune delle quali senza dubbio estranee alle intenzio­
ni e alla consapevolezza del suo creatore. Attori e registi ne hanno infatti rappresentato l’ag­
graziato compendio di vizi e di virtù, il perfetto equilibrio di concretezza borghese e civetteria
femminile, proponendola ora come un’antesignana del femminismo del Novecento, ora come
un’incarnazione dello spirito borghese settecentesco.
Introduzione
Si forniscono informazioni
sulla commedia di cui Mi­
randolina è protagonista.
Le coordinate
dell’informazione
Who: la compagnia del Tea­
tro Goldoni di Venezia.
What: una nuova rappre­
sentazione teatrale della
Locandiera di Goldoni.
Where: a Venezia.
When: nel dicembre 2012.
Why: per celebrare i 260 anni
dalla prima rappresentazione.
Corpo principale
dell’articolo
Si spiega il “come” (how),
soffermandosi sulla molte­
plicità di letture e interpre­
tazioni a cui la commedia
e la sua indimenticabile
protagonista nel corso dei
secoli si sono prestate.
Da un lato, una rivoluzionaria sostenitrice di quell’emancipazione femminile che si realizzerà
concretamente soltanto due secoli dopo, pronta a rivendicare l’autonomia e la libertà della
donna dal mondo maschile; dall’altro una borghese moderatamente riformista, immersa nella
dimensione storica e culturale del Settecento, pronta a fare i conti con le barriere sociali del
suo tempo e con la convenzionalità dei rapporti borghesi ponendo un freno alle proprie rivendi­
cazioni. Mirandolina parrebbe, dunque, per alcuni aspetti precorrere i tempi ed essere per altri
profondamente radicata nel clima storico, sociale e culturale del suo tempo. Proprio in questa
sintesi di elementi contraddittori risiederebbe il segno distintivo del personaggio goldoniano.
Laboratorio per l’esame
4
Una prima interpretazione
Mirandolina pare da un lato
precorrere i tempi e dall’al­
tro essere profondamente
radicata nel suo secolo.
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Tuttavia, come si è detto, accade spesso, soprattutto ai grandi protagonisti del teatro, che
le interpretazioni e i significati ad essi attribuiti nel corso del tempo non corrispondano alla
consapevole intenzione di chi li ha creati.
Nessun intento rivoluzionario o sovversivo pervade la commedia: l’immobilismo politico e sociale
che caratterizzava la Repubblica di Venezia alla metà del Settecento, mentre l’Europa intera era
percorsa dalle istanze di progresso e rinnovamento propugnate dall’Illuminismo, sembra tra­
smettersi alle vicende e ai personaggi: dall’inizio alla fine della commedia nulla cambia, perché
nulla di fatto poteva cambiare. L’autore, evitate accuratamente le grandi questioni sociali, politi­
che e religiose ampiamente dibattute dai contemporanei, porta in scena la sola realtà quotidia­
na, ritratta nella sua dimensione privata, al centro della quale pone la piccola borghesia venezia­
na, ben riconoscibile benché la commedia sia ambientata a Firenze, e i valori semplici e positivi
che essa rappresenta: onestà, operosità, buon senso, rispetto dell’ordine e delle regole sociali,
concretezza e pragmatismo. Nessun rimpianto per il passato, nel quale affondavano le radici
i patrimoni e i privilegi dell’aristocrazia; nessuna aspirazione a un futuro diverso. I protagonisti
della commedia, incarnazione della visione fortemente moderata della società propria di Goldo­
ni, affrontano con buon senso pratico e moderazione i piccoli e grandi problemi che l’esistenza
quotidiana porta con sé, evitando di farsi illudere da desideri irrealizzabili, come un improvviso
arricchimento o una rapida scalata sociale. Così è per Mirandolina, che nel corso dell’intera com­
media recita e rispetta il proprio ruolo sociale di esponente della classe piccolo-medio borghese,
che grazie al proprio lavoro gode di un certo benessere economico. Appagata dalla buona gestio­
ne della locanda, che le consente libertà e indipendenza economiche sufficienti a non doversi
impegnare nella ricerca di un marito, Mirandolina non è attratta da nessuno dei tre nobili che la
corteggiano, non è allettata dalla ricchezza e dai privilegi sociali che almeno due di essi rappre­
sentano (il Marchese di Forlipopoli, dilapidato il patrimonio, ha persino venduto il proprio titolo
nobiliare): sa che la disobbedienza alla volontà del padre, che le ha indicato nel servitore Fabrizio
il marito ideale, e l’infrazione delle regole sociali con un matrimonio di convenienza sarebbero
aspramente condannate all’interno dell’immobilismo che caratterizza la sonnolenta Venezia,
avviata all’inevitabile declino. Una Repubblica quella veneziana in cui la borghesia non avanzava
alcuna rivendicazione di potere e di partecipazione al governo, né osava mettere in discussione i
privilegi dei nobili o la gerarchia tra ceti sociali.
Certamente La locandiera dovette apparire innovativa ai contemporanei di Goldoni, il quale
rivoluzionava con Mirandolina il personaggio della servetta, tipico della Commedia dell’Arte,
ponendola ora al centro della ribalta, che ella domina con grazia e intelligenza, oscillando tra
concretezza borghese e civetteria femminile: da figura di contorno a personaggio capace e
assennato, dotato di forza di volontà, caratterizzato da estrema disinvoltura nei comporta­
menti, anche seduttivi. Eppure, come ha sottolineato il critico letterario Attilio Momigliano,
Mirandolina è un personaggio dalla civetteria onesta e graziosa, modulata sopra un tema fra
canzonatorio e patetico, d’una morbidezza, d’una fugacità, d’una leggerezza settecentesche:
persino nel ruolo della seduttrice spregiudicata ella si mantiene all’interno degli schemi dettati
dai modelli maschili, basati sui rapporti di forza anche quando si tratta d’amore.
Sono soprattutto i monologhi a rivelare al pubblico la visione della vita della locandiera, le aspet­
tative sul futuro, la volontà di accontentarsi, l’assenza di grandi pretese: il buon senso pratico
e il bisogno di vivere con ordine, evidenziato da Anna Maria Guarnieri in un articolo di qualche
anno fa, le impediscono di aspirare a mete lontane dal suo mondo, le vietano di fare sogni irrea­
lizzabili. Per questo, in conclusione di commedia, ella comunica ai personaggi e al pubblico la sua
intenzione di sposare il fedele e laborioso Fabrizio, ex popolano che certo non incarna il miglior
partito a disposizione, ma con cui condivide e mette in pratica gli stessi valori e che, essendo sul
piano sociale ed economico inferiore a Mirandolina, le consentirà di assumere il ruolo dominante
all’interno della famiglia. Le parole della locandiera generano nel pubblico il sospetto che la de­
cisione di sposarsi non nasca dal sincero innamoramento, quanto piuttosto e ancora una volta
dal pragmatismo della donna d’affari, dall’intento pratico di conferire a se stessa e alla gestione
della locanda una stabilità e una sicurezza maggiori: l’amore resta nella Locandiera un sentimen­
to disatteso e respinto, al quale si è disposti a rinunciare in nome di valori più semplici e concreti
(A.M. Guarnieri). È certo, invece, che compiendo in totale autonomia questa scelta ella afferma
ancora per una volta, forse l’ultima, la propria libertà ed emancipazione, benché tale decisione
la collochi sotto la tutela di una figura maschile, il marito, individuato fra l’altro nell’assoluto
rispetto della volontà del padre e dunque in continuità con la tutela paterna.
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Confutazione e proposta di
una seconda interpretazione
Si fanno alcune considera­
zioni sulla reale validità di
questa lettura e si propone
un’interpretazione alterna­
tiva: Mirandolina è in tutto
espressione dell’immobi­
lismo sociale e culturale
del suo tempo, del quale
rispetta regole e conven­
zioni.
Laboratorio per l’esame
5
Dunque un finale inevitabile, già scritto nell’ambientazione storica, sociale e culturale della
vicenda. Un finale lieto soltanto in apparenza, in quanto mascherato da una scelta misurata
e moderata, dettata dalla volontà di accontentarsi. Un vero e proprio suicidio individuale e
sociale, afferma Pietro Genesini in un recente saggio sulla commedia.
Forse, ha ipotizzato lo stesso Genesini, in altre circostanze di luogo o di tempo Mirandolina
avrebbe potuto prendere una decisione diversa, come ad esempio sposare il Cavaliere: allora,
però, anche la commedia sarebbe stata interamente diversa.
Laboratorio per l’esame
6
Conclusione
Si conferma l’interpretazio­
ne proposta.
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laboratorio per l’esame
Analisi del testo
Volume 2, pp. 451-452
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 451-452.
• Vittorio Alfieri, Sublime specchio di veraci detti (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
La descrizione del poeta, che occupa quasi interamente le quartine, prende l’avvio dal capo, si sofferma sulla struttura
complessiva del corpo (sottil persona) scendendo fino ai piedi (in su due stinchi schietti), per poi indugiare con maggiore
attenzione sul volto.
2. Analisi del testo
2.1 È soprattutto il verso 4 (capo a terra prono) a segnalare nella descrizione fisica un aspetto della personalità alfieriana,
alla quale il poeta attribuisce implicitamente la tendenza alla riflessione e alla meditazione.
2.2 Nell’uso degli avverbi di tempo (v. 10) sempre e mai, quest’ultimo posto ulteriormente in rilievo dalla rima in –ai (v. 10,
mai; v. 12, assai), emerge la figura retorica dell’antitesi che trasmette al lettore l’immagine di un io lirico combattuto tra
emozioni e tendenze contrastanti, destinato a non trovare pace.
2.3 Nelle terzine, il ritratto psicologico del poeta ne delinea le qualità morali e spirituali all’insegna del conflitto interiore
e della mutevolezza degli stati d’animo, come ben esprime la lunga sequenza di antitesi, anticipata fin dal verso 2 (in
corpo e in anima): emerge l’immagine di un animo combattuto tra due forze contrastanti e di uguale intensità, ragione
e cuore, alla cui insoddisfazione esistenziale sembra poter offrire sollievo soltanto la ricerca della solitudine.
2.4 L’ultima antitesi del sonetto, proposta al verso 14 (grande, o vil) dalla domanda retorica conclusiva, introduce il tema
della meditazione sulla morte, interpretato come strumento di giustizia che consente di individuare i veri valori umani
e di riconoscere i giusti meriti del singolo, e al tempo stesso esplicita l’aspirazione alla grandezza spirituale e alla gloria
eterna alle quali il poeta chiaramente ambisce.
2.5 Alfieri adotta nel sonetto-autoritratto uno schema ritmico estremamente semplice (ABAB ABAB CDC DCD), basato
sull’alternanza di quattro rime, due per le quartine, due per le terzine.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Il poeta scrisse il sonetto-autoritratto sul retro di un dipinto eseguito nel 1793 dal pittore francese François-Xavier Fabre,
che vi dipinse un Alfieri dall’espressione altera e determinata, ritraendone gli occhi azzurri, i capelli rossi, la fronte alta; il
poeta appare in abito nero, jabot plissettato e cappa dalla fodera rossa, che lo avvolge passando sotto il braccio destro.
Spicca in primo piano la mano destra, che risalta sullo sfondo scuro e sulle fredde tonalità dell’abito; sul fondo rosso
della cappa, la mano sinistra reca all’anulare l’anello su cui è visibile l’immagine di Dante Alighieri. Dal ritratto di Fabre
Alfieri fece trarre un’incisione che divenne il frontespizio delle Tragedie.
3.2 L’immagine di un animo combattuto tra emozioni e forze contrastanti e ugualmente intense emerge con maggiore
evidenza in altri componimenti, quali, ad esempio, il sonetto Tacito orror di solitaria selva, di poco posteriore a quello
in analisi: composto durante un soggiorno in Alsazia, vi si esprime il fiero isolamento dell’io lirico il quale, sentendosi
estraneo al proprio tempo, riesce a trovare consolazione al disagio esistenziale solo nel contatto con luoghi deserti e
selvaggi, che gli riempiono il cuore di malinconica dolcezza. Sono analoghe per contenuto e disposizione dell’animo
alcune descrizioni di paesaggi selvaggi e primordiali inserite nella Vita, autobiografia composta a Parigi nel 1790: vi
emergono soprattutto la noia e l’insoddisfazione esistenziale, che spingono il poeta a cambiare ininterrottamente luogo,
a ricercare e percorrere con un’inquieta impazienza paesaggi cupi e primordiali, terribili e sublimi. Tuttavia, mentre nel
componimento alsaziano il carattere irruente e passionale di Alfieri si esprime non solo nei termini del conflitto interiore,
ma anche in funzione dell’opposizione eroica ai tempi e a qualunque forma di tirannide, nell’autoritratto non è possibile
rintracciare tale atteggiamento, nonostante il verso 10 possa riferirsi a questo stato d’animo del poeta (irato sempre).
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Laboratorio per l’esame
1
LA STESURA DEL TESTO
Commento
La struttura
Introduzione all’autore e all’opera
Con il suo spiccato individualismo e le idee appassionatamente libertarie,
Vittorio Alfieri (1749-1803) fu tra i più importanti autori del Settecento.
Diviso in due parti, il libro delle Rime comprende circa 300 componimenti
composti durante tutto l’arco della vita. Nel 1779 fu pubblicata una prima
edizione, che comprendeva le rime scritte fino a quella data. Nel 1804 uscirono
postume quelle che il poeta compose in seguito. Si tratta di poesie d’occasione,
scaturite dall’urgenza delle passioni e delle vicende biografiche dell’autore,
che le definì «sfoghi» dell’animo; a riprova della loro origine contingente
alcune liriche, come quella in oggetto, sono precedute dalla registrazione
della data di composizione (9 giugno 1786) e da un’annotazione di carattere
biografico (In letto), il cui tenore spesso domestico genera un curioso effetto
di dissonanza rispetto all’impeto eroico e generosamente passionale dei
versi. Le rime costituiscono, nel complesso, una sorta di diario lirico di Alfieri,
sollecitato da avvenimenti e riflessioni propri dell’esistenza quotidiana, i quali
non sono, tuttavia, immediatamente e materialmente trascritti e registrati,
bensì mediati e dominati attraverso un’assidua disciplina letteraria. Come
nel Canzoniere di Petrarca, modello stilistico, linguistico e tematico delle
Rime alfieriane, la poesia si configura come strumento di conoscenza di sé,
meditazione sulla propria singolare grandezza, mezzo per riconquistare l’unità
morale e spirituale.
Alla tendenza all’introspezione e alla volontà di dominio dell’urgente materia
autobiografica corrispondono uno stile energico e vibrante, un linguaggio
magniloquente e retorico, ritmi rapidi e spezzati, prodotti dal costante ricorso
a cesure forti ed enjambement, che distruggono la musicalità del verso.
L’analisi del significato
In ossequio alle tendenza tipicamente settecentesca dell’artista a fare di se
stesso e della propria originale individualità l’oggetto dell’opera d’arte, il sonetto
condensa in pochi cenni un ritratto fisico e morale del poeta, che contiene tutti gli
elementi destinati a fissarsi nello stereotipo dell’eroe romantico, affascinante,
solitario e ribelle, in perenne conflitto con il mondo e con se stesso.
Il componimento esordisce con un’apostrofe metaforica allo specchiosonetto, al quale si chiede un ritratto fisico e interiore la cui sincerità è posta
in evidenza nel primo verso (veraci detti). È forse questa la parte più datata
del sonetto, che non a caso scomparirà nelle riprese degli autori successivi,
fra i quali i giovani Foscolo e Manzoni.
Segue, poi, una sezione descrittiva (vv. 3-8), composta di enumerazioni in
cui domina variamente l’accoppiata aggettivo + sostantivo, che propone il
ritratto fisico del poeta, il quale occupa il resto delle quartine. La descrizione
prende l’avvio dal capo, si sofferma sulla struttura complessiva del corpo
(sottil persona), scendendo fino ai piedi (in su due stinchi schietti), per poi
indugiare con maggiore attenzione sul volto: il poeta ha capelli rossi e radi,
capo per lo più rivolto verso il basso, bei denti e carnagione del viso chiara.
L’influenza della poesia petrarchesca sulla descrizione fisica è innegabile;
unica deroga al modello in favore dell’autenticità del ritratto è il colore rosso
dei capelli, che subentra all’oro della chioma di Laura.
Il verso 8 segna quindi il punto di passaggio fra la dimensione esteriore e
l’interiorità dell’io lirico, alla quale aveva del resto già alluso il verso 4 (capo a
terra prono), attribuendo implicitamente al poeta la tendenza alla riflessione
e alla meditazione. Le qualità morali e spirituali si delineano nelle terzine
all’insegna del conflitto interiore e della mutevolezza degli stati d’animo,
come ben esprime la lunga sequenza di antitesi, anticipata fin dal verso 2 (in
corpo e in anima).
Laboratorio per l’esame
2
Il metodo applicato
Indicazioni utili a Integrazioni personali e
de­lineare le caratte- di studio.
ristiche generali del­
l’opera.
Precisazione della
tra­­dizione poetica
nel­­la quale la lirica
si inserisce.
Rielaborazione delle in­
formazioni contenute
nel­­la risposta 1.
Rielaborazione delle in­
formazioni contenute
nel­­la risposta 2.1.
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Ne emerge un carattere irruente e passionale, mutevole e tormentato (or
duro, acerbo, ora pieghevol, mite; / irato sempre, e non maligno mai; […] per
lo più mesto, e talor lieto assai): in tal senso, è particolarmente significativa
la metafora al verso 8 (pallido in volto, più che un re sul trono), che rinvia al
tema del tiranno, un motivo ricorrente nel pensiero e nell’opera di Alfieri. Il
poeta, nemico di ogni tirannia, finisce con il riconoscere in se stesso i tratti di
un sovrano assiso in trono: egli sembra dunque accettare che l’inquietudine
e l’ansia di libertà che lo animano non siano rivolte contro un avversario
esterno, ma contro se stesso o una parte di sé, esprimendo in tal modo un
profondo disagio interiore.
Anche nell’autoritratto caratteriale ed emotivo è evidente l’influenza dell’opera
petrarchesca, dalla quale Alfieri ricava l’immagine dell’io lirico combattuto tra
due forze contrastanti e di uguale intensità (beni terreni e desiderio di salvezza
per il poeta aretino, ragione e cuore per l’astigiano), alla cui insoddisfazione
esistenziale sembra poter offrire sollievo soltanto la ricerca della solitudine.
È quanto emerge con maggiore evidenza in altri componimenti, quali, ad
esempio, il sonetto Tacito orror di solitaria selva, di poco posteriore a quello
in analisi: composto durante un soggiorno in Alsazia, vi si esprime il fiero
isolamento dell’io lirico il quale, sentendosi estraneo al proprio tempo, riesce a
trovare consolazione al proprio disagio esistenziale solo se immerso in luoghi
deserti e selvaggi, che gli riempiono il cuore di malinconica dolcezza. Analoghe
al sonetto sopra citato per contenuto alcune descrizioni di paesaggi selvaggi
e primordiali inserite nella Vita, autobiografia composta a Parigi nel 1790: vi
emergono soprattutto la noia e l’insoddisfazione esistenziale, che spingono
il poeta a cambiare ininterrottamente luogo, a ricercare e a percorrere con
un’inquieta impazienza paesaggi cupi e primordiali, terribili e sublimi. Tuttavia,
diversamente da quanto accada in Petrarca, nel componimento alsaziano il
carattere irruente e passionale di Alfieri si esprime non solo nei termini del
conflitto interiore, ma anche in funzione dell’opposizione eroica alla tirannide;
neppure nel sonetto alfieriano in esame è possibile rintracciare l’opposizione
eroica ai tempi e alla tirannia esterna ben evidente in Tacito orror di solitaria
selva, nonostante il verso 10 possa riferirsi a questo stato d’animo dell’io lirico
(irato sempre).
La sequenza delle antitesi e l’accostamento di termini e concetti di senso
opposto all’interno della stessa frase o del medesimo verso ruotano attorno
al perno del verso 11 (la mente e il cor meco in perpetua lite), che con sentenza
lapidaria porta in primo piano il conflitto fra le componenti nell’io lirico, il
cuore e la mente, e ne fa allo stesso tempo uno specchio dei tempi, in bilico
tra razionalità illuministica e passione romantica.
La sequenza di antitesi confluisce nelle antonomasie del verso 13, in cui i
personaggi omerici di Achille, sinonimo di eroismo e coraggio, e Tersite, prototipo
del vile, esprimono la percezione della coesistenza in sé di alte aspirazioni
eroiche e del senso doloroso del proprio limite umano. Essi anticipano,
inoltre, l’ultima antitesi del sonetto, proposta al verso 14 (grande, o vil) dalla
domanda retorica conclusiva. La meditazione sulla morte, sentita come pietra
di paragone della propria grandezza e nobiltà spirituale, come strumento di
giustizia che consente di individuare i veri valori umani, di riconoscere i giusti
meriti del singolo, ribalta in senso paradossale la prospettiva del sonetto.
L’autoritratto fu scritto sul retro di un ritratto di Alfieri eseguito nel 1793
dal pittore francese François-Xavier Fabre, che ritrasse l’espressione altera
e determinata del poeta, gli occhi azzurri e i capelli rossi, la fronte alta,
dipingendolo in abito nero, jabot plissettato e cappa dalla fodera rossa che
lo avvolge passando sotto il braccio destro. Il dipinto mostra in primo piano
la mano destra dell’astigiano, che spicca sullo sfondo scuro e sulle fredde
tonalità dell’abito; sullo sfondo rosso, la mano sinistra, che reca all’anulare la
corniolina sulla quale è incisa l’immagine di Dante. Dal ritratto di Fabre Alfieri
fece trarre un’incisione che diventò il frontespizio delle Tragedie.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
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Esplicitazione del
messaggio, ponendo attenzione alle
scelte espressive
do­minanti.
Informazioni e conoscenze contenute nella risposta 2.2 e integrazioni personali.
Si esplicita lo stato Rielaborazione delle
d’animo dominante. informazioni contenute nella risposta 2.3.
Confronto con componimenti che propongono una situazione simile.
Informazioni e conoscenze contenute nella risposta 3.2 e integrazioni personali.
Conoscenze contenute
nella risposta 2.4 e integrazioni.
Confronto con il di- Informazioni e conopinto di Fabre.
scenze espresse nella
risposta 3.1.
Laboratorio per l’esame
3
L’analisi del significante
Come nel contenuto, così nella forma Alfieri si discosta dal modello
petrarchesco, al cui stile limpido e armonioso sembra preferire modalità di
scrittura più aspre e frammentate.
Il poeta fa proprio lo schema metrico del sonetto, struttura cara a Petrarca
nella quale adotta uno schema ritmico estremamente semplice (ABAB ABAB
CDC DCD), basato sull’alternanza delle quattro rime, due per le quartine, due
per le terzine. Alle rime facili delle prime due quartine seguono, però, nelle
terzine la rima in -ai (v. 10, mai; v. 12, assai), che conferisce rilievo agli avverbi
e in -ite (v. 9, mite; v. 11, lite; v. 13, Tersite), a sottolineare il conflitto interiore
dell’io lirico, rappresentato dall’antitesi Achille-Tersite.
Il lessico, aulico e solenne, evidenzia l’allitterazione delle consonati r e l in
alternanza ai versi 9-12, in corrispondenza del contrasto fra le emozioni aspre
e violente e i sentimenti miti e pacati che percorrono l’animo del poeta. La
sintassi, lineare, mostra le frequenti ellissi del verbo e il prevalere di uno
stile nominale, nel quale si assiste a una spiccata predilezione per lo schema
binario (v. 1, sublime specchio / veraci detti; v. 9, duro, acerbo / pieghevol, mite),
la cui infrazione al verso 5, nel quale è presente un chiasmo (sottil persona in
su due stinchi schietti), concorre a spezzare il ritmo e sottolinea una tensione
stilistica distante dall’armonia e dall’equilibrio della tradizione petrarchesca.
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4
Metrica
Informazioni contenute nella risposta 2.5 e
integrazioni.
Il lessico
La sintassi
Il ritmo
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laboratorio per l’esame
Volume 2, pp. 524-526
Articolo di giornale
Componi un articolo di giornale sull’argomento «Jacopo Ortis: l’eternità di un “classico”» utilizzando il dossier che si
trova alle pagine 524-526.
• Enzo Siciliano, Storia di un suicidio annunciato (• D1)
SCHEDATURA DEL DOCUMENTO
Testo
Schedatura
Il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis è
la storia di un suicidio annunciato come
può accadere all’uscita dall’adolescenza,
per un eccesso di vitalità, perché il mondo
non risponde alle tue esigenze, perché si
mostra ostile ai tuoi desideri […]. Jacopo
si uccide per amore e il suicidio per amore
era la malattia del secolo […].
Il fatto è che nello Jacopo Ortis quel male
è visto da Foscolo come un concreto ri­
sultato della Storia. Quel male si incrocia,
nell’infelicità esistenziale di Jacopo, […]
alla fortissima delusione politica, all’im­
potenza feroce provata di fronte alla
“svendita” di Venezia agli austriaci da
parte di Napoleone […] nell’edizione 1802
voluta e riveduta dall’autore, quella che
inviò a Goethe dopo avergli scritto una
lettera datata 16 gennaio: “[…] Ho dipinto
me stesso, le mie passioni, e i miei tempi
[…] i miei concittadini pregiano il mio stile
in un’opera dove per mancanza di modelli
ho dovuto farmi una lingua mia propria…”.
[…] Un possibile romanzo italiano aveva
esempi lontani, in Boccaccio e nei novel­
lieri rinascimentali – erano narrazioni di
commedia, di vita arguta. Poi, con il loro
magistero sulla realtà effettuale, per un
romanzo possibile, si affacciavano padri­
ni le ombre dei grandi storici, Machiavelli
e Guicciardini. Presso Foscolo c’era, ravvi­
cinato, l’esempio di Alfieri con l’ardimen­
to tragico della sua esistenza. Alfieri ave­
va scritto la Vita proprio negli anni in cui
Foscolo metteva a segno il suo Ortis. […]
I due libri costituiscono i primi palinsesti
della narrativa moderna. E Jacopo, in que­
sto quadro, è personaggio chiave.
[…] Fra i nostri classici, è quello nel quale
[…] avvertiamo quanto mai caldo l’odore
scomposto della vita, proprio l’odore e
non il profumo. Incertezze e contraddi­
zioni esistenziali lo segnano. […]
Dal conflitto è nato appunto un romanzo
rimasto tuttora esemplare.
Il romanzo ruota attorno
alla vocazione al suicidio del
protagonista, una persona­
lità all’uscita dall’adolescen­
za, immatura e contraddit­
toria, percorsa da passioni
violente, dall’irrequietudine,
dall’energia vitale e dall’in­
coerenza che accompagna­
no quell’età in ogni luogo e
in ogni epoca.
Allo stesso tempo, la vi­
cenda di Jacopo risulta con­
cretizzata e messa a fuoco
dalla realtà storica: la delu­
sione che seguì in Italia al
Trattato di Campoformio.
Il romanzo propone attra­
verso le varie fasi di elabo­
razione e riscrittura, dal 1798
al 1817, un ritratto letterario
dell’esperienza spirituale di
Fo­scolo, dall’adolescenza al­
la maturità.
Alla ricerca dei modelli del­
l’Ortis, l’autore indica no­
vellieri del Medioevo e del
Rinascimento, storici del
Cinquecento e soprattutto
il contemporaneo Alfieri, la
cui Vita fornirebbe con il ro­
manzo foscoliano lo schema
e la struttura fondamentale
del romanzo moderno.
Tipologia testuale
Integrazioni personali
Articolo (periodo storico Occorre ricordare la si­
2004)
tuazione politica dell’I­
talia alla fine del Sette­
Idea centrale
cento: gli ideali di libertà,
Sottolineare nell’Ortis la indipendenza e ugua­
valenza universale della glianza proposti dalla
vicenda e del suo prota­ Rivoluzione francese che
gonista.
nel nostro paese aveva­
no avuto tanto segui­
Messaggio dell’autore
to sembrarono trovare
L’Ortis costituisce un nella campagna d’Italia
classico senza tempo del generale Napoleone
in cui tutti, ancora oggi, Bonaparte l’occasione
possiamo riconoscerci e concreta per realizzarsi,
identificarci.
abbattendo il dispoti­
smo e creando forme di
governo liberali. Tutta­
via, la decisione di Bona­
parte di cedere Venezia
agli Austriaci in cambio
del riconoscimento del­
la Repubblica Cisalpina
(Trattato di Campofor­
mio, 1797) disattese le
aspettative dei patrio­
ti italiani, fra i quali lo
stesso Foscolo, che ma­
nifestarono apertamen­
te la loro delusione.
Nessuno dei modelli citati
sa, tuttavia, trasmettere la
sensazione della vita real­
mente vissuta come il ro­
manzo di Jacopo.
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Laboratorio per l’esame
1
LA STESURA DEL TESTO
Stesura
Struttura
Il critico Vittorio Sermonti inaugura il Festival della Letteratura in questi giorni a Bologna
“Jacopo Ortis siamo noi”
Il romanzo di Foscolo presentato come un classico senza tempo
Titolo
Si individua un titolo che
riassuma in sintesi il conte­
nuto dell’articolo.
Perché proprio Jacopo Ortis inaugura l’apertura del Festival? Lo chiediamo al critico Vittorio
Sermonti, che domani ne leggerà alcune pagine significative. «Ma perché il male di vivere è
tema moderno – risponde Sermonti – e Foscolo nel suo romanzo rappresenta il “dramma eterno
dell’uomo dominato dalla violenza e dalla paura” (Amoretti)».
Le coordinate dell’informazione
Who: Vittorio Sermonti.
What: il discorso tenuto in
occasione dell’apertura del
Festival della Letteratura.
Where: a Bologna, nell’Aula
Magna di Santa Lucia.
When: ieri.
Why: per dimostrare l’at­
tualità del romanzo di Fo­
scolo.
Al centro del romanzo c’è la vocazione al suicidio di un giovane patriota, Jacopo Ortis appunto,
il quale, esule da Venezia in seguito al trattato di Campoformio e innamorato di Teresa, già
promessa a un altro, assiste impotente al crollo dei propri ideali di patria, libertà e giustizia, al
tragico infrangersi dei suoi sogni d’amore e individua nella morte il solo riscatto al fallimento,
l’unico epilogo alle proprie angosce.
Corpo principale dell’articolo
Si spiega il “come” (how), sof­
fermandosi su alcuni a­spetti
di attualità del romanzo epi­
stolare. Si insiste, in partico­
lare, sul suo ruolo di classico
senza tempo.
La vicenda è immersa nella realtà storica: la dura esperienza della Rivoluzione Francese, la bu­
fera delle guerre napoleoniche, la delusione delle aspirazioni italiane all’indipendenza e alla li­
bertà. Ma c’è di più: il romanzo costituisce lo specchio immediato di una personalità all’uscita
dall’adolescenza, immatura e contraddittoria, percorsa da passioni violente, dall’irrequietudine,
dall’energia vitale e dall’incoerenza che accompagnano quell’età in ogni luogo e in ogni tempo.
Si tratta di una storia di amori impossibili, per la patria ceduta all’Austria in nome degli inte­
ressi politici francesi, per Teresa sacrificata alle ragioni economiche della famiglia. Amore per
la patria e amore per Teresa, pubblico e privato conducono il giovane protagonista a individua­
re nella morte il solo riscatto al fallimento. Quella di Jacopo è la lotta dell’individuo che combat­
te solitario contro i tiranni e le ipocrisie del suo tempo e trova la propria liberazione nel suicidio.
Fin dalla prima pagina il romanzo proietta il lettore entro il clima tragico e concitato delle vicen­
de, il cui fatale epilogo è preannunciato dall’amico Lorenzo fin dall’introduzione, a conferma
dell’aggettivo “ultime” contenuto nel titolo. Anche la forma epistolare concorre a coinvolgere
il lettore nell’atmosfera drammatica e convulsa degli ultimi giorni di vita di Jacopo, ponendo in
primo piano le emozioni del protagonista, sempre esasperate e oscillanti fra euforia e dispera­
zione, senza sfumature intermedie. Di tali passioni il romanzo costituisce una sorta di diario.
Allo stesso tempo, i temi affrontati nell’Ortis trascendono i confini della disperazione politica
e della sconfitta privata di un singolo individuo e sfociano in considerazioni di valore univer­
sale: egli indica nei meccanismi della storia e della natura la costante e inesorabile prevalenza
della violenza e della forza, le quali regolano i rapporti sociali e le vicende storiche in modo del
tutto indipendente dai desideri e dai sentimenti degli uomini. Sono inutili gli sforzi per vedere
concretizzati i propri alti ideali, i valori senza tempo per cui vale la pena vivere in ogni epoca:
amore, amicizia, bellezza, natura, patria, libertà. Quella contro le inesorabili leggi della storia e
della natura è una guerra vana, persa in partenza.
Il primo aspetto: i temi.
Laboratorio per l’esame
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Ed ecco allora che il suicidio, la volontaria rinuncia alla vita, assume il significato ora di estrema
protesta contro il destino, di suprema affermazione della propria volontà contro i naturali e
immodificabili meccanismi di violenza, ora di amara constatazione di sconfitta, dichiarazione
finale di impotenza, conclusiva rinuncia alla lotta.
Fra i modelli dell’Ortis compare I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe, a imitazione del
quale il romanzo di Foscolo propone un unico destinatario, le cui lettere di risposta sono omes­
se così da fare dell’opera una sorta di diario del protagonista. Al centro delle vicende in entram­
bi i romanzi, c’è il tipo dell’eroe sentimentale e infelice, in conflitto con la realtà quotidiana,
avvertita come una sorta di guerra di tutti contro tutti, nella quale egli si distingue per la
nobiltà dei suoi ideali. Il suo animo, solitario e destinato alla sconfitta, è dilaniato dall’eterno
conflitto fra cuore e ragione e sembra trovare pace e comprensione nella sola natura. È di ma­
trice certamente alfieriana l’immagine di Jacopo che combatte solitario contro i tiranni del suo
tempo in onore della libertà, che si oppone alle ipocrisie e alle convenzioni sociali della società
borghese in nome dell’amore per Teresa e trova la propria liberazione soltanto nella morte. Non
mancano, infine, citazioni da autori quali Dante, Petrarca, vicino all’animo di Jacopo immerso
nella natura, Plutarco, fedele compagno dei momenti di meditazione e di riflessione.
Il secondo aspetto: i mo­
delli e la capacità di tra­
scenderli.
A prevalere è, tuttavia, indiscutibilmente l’ispirazione autobiografica: Foscolo rappresenta nel
romanzo l’irrequietezza amorosa che lo caratterizzava, la “delusione storica” vissuta dalla so­
cietà italiana al passaggio tra Settecento e Ottocento. Non a caso, in una lettera indirizzata al
Bartholdy il 29 settembre 1808 Foscolo afferma di aver voluto conservare nell’Ortis un «monu­
mento» della sua «gioventù», «co’ suoi difetti».
La contaminazione e la contiguità di vita e letteratura fanno dell’Ortis un’opera nuova nella
storia letteraria, un’opera aperta, che risente inevitabilmente di una composizione lentamen­
te maturata e stratificata in tempi e luoghi diversi, attraverso varie fasi di elaborazione (dal
1798 al 1817): il romanzo offre dunque un ritratto letterario dell’esperienza spirituale di Foscolo
dall’adolescenza alla maturità. Dall’antefatto dell’Ortis con la nascita nel 1796 di Laura, storia
d’amore e di suicidio ispirata alla Nouvelle Héloïse di Rousseau e alla poesia notturna inglese,
al romanzo dal titolo definitivo che prende vita a Bologna nel 1798 sotto l’influsso de I dolori
del giovane Werther di Goethe, fino all’edizione londinese del 1817: le lettere che Jacopo indi­
rizza all’amico Lorenzo Alderani si adeguano al mutare del mondo interiore dello scrittore, alla
sua vitalità passionale e impetuosa, all’irrefrenabile desiderio di imporre il proprio individuale
“sentire”. E tuttavia, Jacopo non è Ugo, bensì una “maschera” del suo autore, un personaggio
che fa da schermo allo scrittore, il quale vi realizza un proprio autoritratto letterario, vi delinea
il proprio mito umano: è in Ortis che Foscolo mette a fuoco la propria crisi giovanile e trova
l’occasione per superarla, proiettandola nel suicidio del suo alter ego.
Il terzo aspetto: gli accen­
ni alle vicende biografiche
dell’autore e il loro supera­
mento.
Dunque, è la valenza universale della vicenda e del suo protagonista a fare dell’Ortis un classico
senza tempo, in cui tutti, ancora oggi, possiamo riconoscerci e identificarci. Vale a dire – con­
clude Sermonti – che Jacopo Ortis siamo noi.
Conclusione
Si ribadisce l’attualità del
romanzo.
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laboratorio per l’esame
Analisi del testo
Volume 2, pp. 563-564
Leggi il testo e svolgi la Traccia di lavoro proposta nel dossier che si trova alle pagine 563-564.
• Ugo Foscolo, Ortis visita le tombe di Santa Croce (• D1)
TRACCIA DI LAVORO: Modello di svolgimento
1. Comprensione del testo
Le tombe dei grandi parlano all’animo di Ortis.
2. Analisi del testo
2.1 Le tombe dei grandi suscitano nel giovane Jacopo un profondo sentimento di venerazione, un’emozione mista a religioso
rispetto; ad essi si unisce, però, il ricordo delle persecuzioni a cui questi personaggi furono ingiustamente sottoposti
dai potenti. Inoltre, emerge la certezza che il risarcimento postumo messo in atto con la costruzione di mausolei dai
discendenti di coloro che li perseguitarono non basta a discolpare i persecutori e contribuirà piuttosto alla caduta del
loro potere.
2.2 La visita alle tombe di Santa Croce richiama alla memoria di Jacopo il ricordo degli anni dell’adolescenza, durante i quali
la lettura appassionata delle opere dei grandi del passato ispirava nel suo animo il forte desiderio di conseguire la gloria
presso i posteri.
2.3 A distanza di anni, Jacopo sembra aver maturato la convinzione che in una società corrotta come quella contemporanea, in
cui la politica è dominata da violenza e sopraffazione, i rapporti sociali sono retti da interessi economici e utilitaristici, non
c’è più spazio per gli ideali nobili e disinteressati dell’adolescenza, definiti ora illusioni vane e irrealizzabili. Le speranze e
la vitalità del passato hanno lasciato il posto nell’animo di Ortis a una profonda stanchezza, che coinvolge la mente e il
corpo in una visione cupamente pessimistica della storia e della natura, dominate da una forza cieca e incomprensibile
per l’uomo e del tutto indifferente ai suoi valori e alle sue aspirazioni.
2.4 Ortis non desidera i favori dei potenti, in quanto non intende adeguarsi alle regole di una società ingiusta e corrotta,
nella quale non vuole assumere alcun ruolo.
2.5 La predilezione di Jacopo per Alfieri, presentato come un solitario misantropo estraneo alla mediocrità del presente e
chiuso in uno sdegnoso isolamento, assume il senso di una profonda opposizione nei confronti degli uomini potenti e
favoriti dal successo.
2.6 La lettera costituisce un ottimo esempio di prosa enfatica, caratterizzata dal prevalere di sostantivi e verbi spesso
emotivamente o moralmente connotati, che conferiscono al testo un carattere nervoso e dinamico. Inoltre un ritmo e
un tono estremamente mutevoli e altalenanti seguono il rapido susseguirsi delle emozioni nell’animo del protagonista;
ricorrono con insistenza le interrogative retoriche (Coloro che hanno eretti que’ mausolei sperano forse di scolparsi…), che
conferiscono alle affermazioni di Jacopo un tono lapidario.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
La lettera anticipa il tema conduttore dei Sepolcri, il valore delle tombe dei grandi come testimonianza di memorie patrie
e fonte di ispirazione a egregie cose. Vi si ritrovano i protagonisti delle urne de’ forti citati nel carme ai versi 151 e seguenti:
Galilei, Machiavelli, Michelangelo, ai quali sono da aggiungere Dante, presso la cui tomba Ortis sosterà a fine marzo, e
Alfieri, l’unico contemporaneo che Jacopo desideri conoscere; proprio l’astigiano in una sua opera aveva indicato i sud­
detti grandi come personaggi esemplari, perseguitati in vita e celebrati dopo la morte, da cui trarre ispirazione. Mentre,
però, la pagina dell’Ortis attribuisce ai monumenti funebri il significato di un risarcimento tardivo e inadeguato ai grandi
perseguitati, i Sepolcri affermano l’assoluta positività dell’istituzione dei mausolei, chiamati ad assolvere una precisa
funzione pubblica, patriottica e civile. È diversa anche la disposizione dell’io del protagonista: nell’Ortis è rassegnato e
sconfitto nella volontà e negli affetti, nel carme invece è investito del compito di guidare la società verso la rinascita
civile e morale.
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1
LA STESURA DEL TESTO
Commento
La struttura
Introduzione all’opera
In una lettera indirizzata all’amico Bartholdy il 29 settembre 1808 Foscolo
afferma di aver voluto conservare nell’Ortis un «monumento» della sua
«gioventù». Il romanzo offre in realtà, attraverso le varie fasi di elaborazione
che si succedono dal 1798 al 1817, un ritratto letterario dell’esperienza spirituale
di Foscolo dall’adolescenza alla maturità. Le lettere che Jacopo indirizza
all’amico Lorenzo Alderani vanno adeguandosi al mutare del mondo interiore
dello scrittore. Dall’antefatto dell’Ortis con la nascita nel 1796 di Laura, storia
d’amore e di suicidio ispirata a Rousseau e alla poesia notturna inglese; al
romanzo dal titolo definitivo che prende vita a Bologna nel 1798 sotto l’influsso
del Werther di Goethe, fino all’edizione londinese del 1817: il romanzo epistolare
dà voce alla vitalità passionale e impetuosa dell’autore, all’irrefrenabile
desiderio di imporre il proprio individuale “sentire”. La contaminazione e la
contiguità di vita e letteratura fanno dell’Ortis un’opera nuova nella storia
letteraria, un’opera aperta, che risente inevitabilmente di una composizione
lentamente maturata e stratificata in tempi e luoghi diversi.
Foscolo vi narra la sfortunata vicenda di un giovane patriota, Jacopo Ortis
appunto, il quale è costretto a lasciare la propria città, Venezia, in seguito
al trattato di Campoformio (1797); innamorato di Teresa, già promessa a un
altro, assiste impotente al crollo dei propri ideali di patria, libertà e giustizia,
al tragico infrangersi dei suoi sogni d’amore e individua nella morte l’unico
tragico epilogo alle proprie angosce. È soprattutto per la complessità psico­
logica e le caratteristiche interiori e morali del suo protagonista che l’Ortis è
stato definito il primo romanzo della letteratura italiana: Jacopo incarna il
tipo dell’eroe preromatico, sentimentale e infelice, in conflitto con una realtà
quotidiana che egli interpreta come una sorta di guerra di tutti contro tutti
e nella quale si distingue per la nobiltà dei valori e degli ideali in cui crede. Il
suo animo, dilaniato dall’eterno conflitto fra cuore e ragione, sembra cercare
comprensione nella sola natura, pare trovare pace soltanto nella morte. In
Jacopo Foscolo realizza un proprio potente autoritratto letterario, delinea il
proprio mito umano e trova l’occasione per superare la propria crisi giovanile,
proiettandola nel suicidio del suo alter ego.
Il romanzo anticipa, inoltre, alcuni dei miti e dei temi fondamentali attorno
ai quali si raccoglierà l’intera produzione letteraria di Foscolo: la tomba, con­
fortata dal pianto dei sopravvissuti, segno di gloria e testimonianza di con­
tinuità fra passato e presente; la bellezza rasserenatrice, sublime ristoro alle
angosce e alle sofferenze dell’esistenza umana; l’esilio, condizione tragica
e al tempo stesso cifra di superiorità; infine la poesia, che comprende in sé
tutti gli altri motivi, estremo risarcimento alle ingiustizie inflitte dalla storia
degli uomini, luogo di assoluta bellezza, fonte di ispirazione all’impegno ci­
vile e morale, dispensatrice di gloria e di fama eterna. Tutti questi miti, che
costituiscono l’essenza della poesia di Foscolo, si ritrovano in germe nella
prosa del romanzo epistolare.
L’analisi del significato
L’interesse di questa lettera in particolare risiede nel fatto che vi si ritrova
uno dei miti al centro dei Sepolcri, carme composto nel 1806 in margine alle
discussioni sorte intorno all’estensione alle province italiane del decreto na­
poleonico di Saint Cloud (1804), con il quale si imponevano precise limitazioni
alle sepolture. Nata da un’occasione contingente, l’opera affronta l’argomen­
to in un più vasto ambito di pensieri e di riflessioni, che ne fanno il momento
culminante della produzione foscoliana.
Laboratorio per l’esame
2
Il metodo applicato
Indicazioni utili a Dati contenuti nella ri­
de­­lineare le caratte­ sposta 3 e integrazioni
ristiche generali del­­ personali.
l’opera e a collocarla
all’interno della vi­
cenda personale e
della produzione let­
teraria dell’autore.
Enunciazione sinte­ Dati contenuti nella ri­
tica dell’argomento sposta 3 e integrazioni
del brano.
personali.
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La pagina dell’Ortis anticipa il tema conduttore dei Sepolcri, ossia il valore
delle tombe dei grandi come testimonianza di memorie patrie e fonte di ispi­
razione a egregie cose, a nobili imprese. Vi si ritrovano i protagonisti delle
urne de’ forti citati nel carme ai versi 151 e seguenti: Galilei, Machiavelli, Mi­
chelangelo, ai quali sono da aggiungere Dante, presso la cui tomba Jacopo so­
sterà nel marzo del 1799, e Alfieri, l’unico contemporaneo che il giovane esule
desideri conoscere; in una sua opera (Del principe e delle lettere) lo stesso
astigiano aveva indicato i grandi menzionati sopra come personaggi esem­
plari, perseguitati in vita e celebrati dopo la morte, da cui trarre ispirazione.
Ad accomunare le opere è, infatti, la ricerca di Jacopo e Ugo di valori a cui ispirarsi
nelle azioni dei grandi del passato. Entrambi sono convinti che quella in cui vivo­
no sia un’epoca pervasa dalla violenza e dalla sopraffazione: la politica sembra
aver tradito gli alti ideali di patria e libertà per assumere i tratti della tirannide;
i rapporti fra gli individui sono dominati dal gretto utilitarismo e dal servilismo
verso i potenti e l’intero universo appare privo di senso e incapace di perseguire
alcuna finalità. È soprattutto la letteratura a essere chiamata a sopperire alle
carenze e alle mancanze di società e politica, offrendo ispirazione e incitamento
ad agire nel presente, a sostenere la ferma volontà di affermare, nonostante i
tempi, quei valori che rendono più umani i rapporti tra gli individui, quegli ideali
che rendono l’esistenza degna di essere vissuta. Ecco allora l’adolescente Jacopo,
immerso nell’appassionata lettura delle opere dei grandi del passato, che ispira­
vano nel suo animo il forte desiderio di conseguire la gloria presso i posteri.
Ed ecco, nel cuore del carme, affermarsi la consapevolezza che l’unico bene
rimasto agli Italiani, privati di armi, ricchezze, territorio, sia la memoria della
grandezza passata. Si afferma così l’idea della memoria come patrimonio da
salvaguardare, come l’insieme degli insegnamenti, degli ideali e dei valori
che si stratificano nel tempo: il contenuto sacro della storia deve essere tra­
smesso di generazione in generazione, preparando l’umanità al futuro. Pro­
prio in epilogo di carme le leggende omeriche esemplificano l’effetto della
conservazione religiosa della memoria.
La pagina del romanzo, tuttavia, attribuisce ai mausolei il significato ridutti­
vo di un risarcimento tardivo e inadeguato ai grandi del passato, perseguitati
in vita dai potenti, celebrati dopo la morte dai discendenti dei persecutori,
che innalzando loro monumenti funebri non cancellano le colpe degli antena­
ti e contribuiscono, paradossalmente, alla caduta del proprio potere. Contro
i mausolei, pubblici sepolcri eretti ai fini dell’ostentazione del potere e non
certo per scopi esemplari, il romanzo sembra privilegiare le sepolture, intese
come luoghi privati confortati dall’affetto dei familiari, sedi della pietosa illu­
sione di poter sopravvivere alla morte.
I Sepolcri affermano, invece, l’assoluta positività e il carattere meritorio dell’i­
stituzione dei monumenti funebri, chiamati ad assolvere una precisa funzio­
ne pubblica, patriottica e civile. I grandi citati nei Sepolcri evidenziano tutti
una connotazione eroica e drammatica insieme, comune anche all’immagine
che il poeta propone di sé nella parte conclusiva del carme (E me che i tempi
ed il desio d’onore / fan per diversa gente ir fuggitivo, / me ad evocar gli eroi
chiamin le Muse…): vittime incolpevoli di un destino malvagio, essi hanno
però ottenuto un risarcimento postumo presso i posteri, che attribuirono loro
quella gloria che da vivi fu loro ingiustamente negata, quella stessa ricom­
pensa tardiva a cui aspira anche il poeta. Emblematica l’antica contesa delle
armi di Achille citata ai versi 218-220: ottenute con l’inganno (senno astuto)
e grazie al favore del potente Agamennone (favor di regi), furono dal mare,
reso tempestoso dagli dei infernali protettori dei defunti, strappate alla nave
di Odisseo e restituite alla tomba di Aiace, che avrebbe dovuto riceverle alla
morte del Pelide. Nel carme, inoltre, il sepolcro, visto come testimonianza
di continuità tra defunti e viventi, tra passato e presente, assume un signi­
ficato non solo nella dimensione affettiva e privata, ma in quella pubblica,
comunitaria e nazionale.
Copyright © 2011 Zanichelli Editore SpA, Bologna [6201]
Questo file è un’estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011
Il confronto con i
Sepolcri.
Dati contenuti nella ri­
sposta 2.1 e integrazio­
ni personali.
Dati contenuti nella
ri­­sposta 2.2 e integra­
zioni personali.
Esplicitazione ap­
pro­
fondita del si­
gnificato del brano.
Laboratorio per l’esame
3
Assai lontana e diversa risulta, del resto, la disposizione dell’io del protago­
nista, nell’Ortis rassegnato e sconfitto nella volontà e negli affetti, nel carme
investito del compito di guidare l’umanità verso la rinascita civile, morale e
spirituale. La coscienza della diversità, il senso di estraneità alla società coe­
va, rispetto alla quale Jacopo ostenta un volontario e sprezzante isolamento,
trascende i limiti dell’emarginazione sociale e si trasforma faticosamente in
volontà di agire all’interno della società stessa, in impegno civile. Dalla pro­
testa tragica e impotente del protagonista del romanzo si giunge così alla fi­
gura del poeta-vate che campeggia al centro del carme, investito del compito
di guidare le coscienze dei contemporanei verso i più alti valori etici, politici
e civili.
È emblematica, in questa prospettiva, anche la diversa rappresentazione di
Vittorio Alfieri, da sempre sorta di alter ego di Foscolo: nei Sepolcri il poeta
attribuisce all’opera e alla personalità di Alfieri un’interpretazione fortemen­
te patriottica e risorgimentale, che perdurerà per l’intero Ottocento; nel ro­
manzo, l’astigiano appare piuttosto come un misterioso misantropo triste
e solitario, estraneo alla mediocrità del presente e chiuso in uno sdegnoso
isolamento, nei cui confronti la predilezione di Jacopo trova piena corrispon­
denza nella rinuncia ad agire all’interno della società, nella visione cupamen­
te pessimistica della storia e della natura, dominate da una forza cieca e
incomprensibile per l’uomo e del tutto indifferente ai suoi valori e alle sue
aspirazioni.
L’analisi del significante
La lettera costituisce un ottimo esempio di prosa enfatica, ricca nello stile,
mutevole nel tono e nel ritmo, pronti a seguire e a registrare il rapido susse­
guirsi delle emozioni nell’animo del protagonista. La caratterizzano un lessi­
co fortemente connotato in senso emotivo o morale, il prevalere di sostan­
tivi e verbi a scapito di aggettivi e avverbi, il ricorso a coordinate, frasi brevi,
esclamazioni e interrogative retoriche (Coloro che hanno eretti que’ mausolei
sperano forse di scolparsi…), che conferiscono al testo un carattere nervoso e
dinamico e trasmettono alle affermazioni di Jacopo un tono lapidario.
Laboratorio per l’esame
4
Definizione dello sta­­­ Dati contenuti nelle ri­
to d’animo prevalen­ sposte 2.3 e 2.4 e inte­
te e delle sensazioni grazioni personali.
dominanti al­­­­­l’interno
del brano.
Dati contenuti nella
risposta 2.5 e integra­
zioni personali.
Il ritmo
Il lessico
Informazioni contenu­
te nella risposta 2.6.
La sintassi
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