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Jack London LA STRADA

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Jack London LA STRADA
Jack London
LA STRADA
LA STRADA
Racconti autobiografici nei quali London mette a punto le svariate
esperienze della sua esistenza: il vagabondaggio, gli amici raccolti sulla
strada, le prime donne e così via. La sua principale prerogativa è quella di
mettere a nudo tutto se stesso, di raccontare fatti accaduti in verità. Racconti
avventurosi i suoi, densi di tensione drammatica e soprattutto specchio di
sé, sempre.
JACK LONDON
Nacque a S. Francisco di California il 12 gennaio 1876 e morì suicida il 22
novembre 1916 nel suo splendido ranch. Come la maggioranza degli
scrittori americani fece molti «mestieri», si buttò nella vita giovanissimo e
poi scrisse. A 17 anni fu marinaio, girovago, seguace dell'esercito di Coxey,
cercatore d'oro nell'Alaska; in seguito lo vediamo studente a Oakland e poi
all'Università di California. Abbandonò, poi, la stessa per lavorare in una
lavanderia. Politicamente fu socialista entusiasta, soprattutto dopo la lettura
del «Manifesto» di Marx-Engels, ma contemporaneamente predicava il
culto del «Superuomo» nietzschiano. Affascinato dall'idea imperialistica
della «forza» e della «conquista» così come poteva vederla in Kipling, amò
anche «il mito» della «belva bionda» di H. S. Chamberlain.
Nel 1899 i giornali cominciarono ad accettare i suoi scritti ed egli si dedicò
completamente all'arte. Guadagnò moltissimo e in fretta; con la stessa fretta
dilapidò i suoi patrimoni. «Il richiamo della foresta» fu il primo suo grande
successo. Seguirono «Il lupo di mare», «Martin Eden», «John Barleycorn».
Scrisse in tutto una cinquantina di romanzi. Nel 1913 gli stessi erano
tradotti in 11 lingue e London era all'epoca uno degli scrittori più ricchi e
letti di tutto il mondo. Spirito solitario e prevalentemente romantico si
trovò, comunque, sempre disadattato in un mondo ostile. Mondo verso il
quale egli perse la sua battaglia perché contro di esso seppe contrapporre
solo un altro grande gesto romantico: il suicidio.
INDICE
Ragazzi di strada e «gatti allegri»
Confessione
Duemila vagabondi
Figure
Tori
Beccato
Il penitenziario
Prendere un treno
Vagabondi che scompaiono nella notte
"Speakin' in general, I'ave tried 'em all,
The 'appy roads that take you o'er the world.
Speakin' in general, I'ave found them good
For such as cannot use one bed too long;
Bust must get 'ence, the same as I 've done,
An' go observin' matters till they die".
Sestina del "Tramp Royal"
[Parlando in generale le ho provate tutte,
le strade felici che ti portano per il mondo.
Parlando in generale, le ho trovate buone
per uno che non possa usare troppo a lungo lo stesso letto,
ma debba andare, proprio come ho fatto io,
e osservare le cose prima che siano morte.]
RAGAZZI DI STRADA E «GATTI ALLEGRI»
Ogni tanto, sui giornali, sulle riviste, sui dizionari biografici, ritrovo
tratteggiata la storia della mia vita; e, raccontato con belle parole, io
apprendo che per studiare sociologia mi feci vagabondo. Molto bello e
molto premuroso, da parte dei miei biografi, ma inesatto. Io mi feci
vagabondo... be', per via della vita che avevo in me, del desiderio di
vagabondaggio che avevo nel sangue e che non mi dava riposo. La
sociologia fu incidentale; venne dopo, nello stesso modo in cui chi va a
caccia in palude si bagna. Mi misi per «la strada» perché non potevo farne a
meno; perché non avevo in tasca i soldi del biglietto ferroviario; perché ero
fatto in modo tale che non riuscivo a passare tutta la vita «allo stesso turno»;
perché... insomma perché era più facile farlo che non farlo.
Accadde nella mia città, Oakland, quando avevo sedici anni. A
quell'epoca mi ero già fatto un certo nome nella cerchia ristretta degli
avventurieri, che mi battezzarono Principe dei Pirati Ostricari. E' vero,
quelli esterni alla nostra cerchia, per esempio i marittimi portuali, gli
scaricatori, i marinai degli yacht, e i proprietari legittimi dei vivai delle
ostriche, mi dicevano «duro», «barbone», «cialtrone», «ladro», «predone» e
varie altre belle cosette - che erano tutti complimenti per me e che
contribuivano ad accrescere il capogiro che mi dava l'altezza a cui ero
asceso. A quell'epoca non avevo letto il «Paradiso Perduto» e in seguito,
quando di Milton lessi «Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso»
mi feci convinto che le grandi menti seguono gli stessi canali.
Fu a quest'epoca che una concatenazione fortuita di eventi mi fece
intraprendere la mia prima avventura sulla Strada. Successe che nel campo
delle ostriche non c'era nulla da fare; che a Benicia, quaranta miglia, avevo
certe coperte che intendevo prendere; e che a Port Costa, diverse miglia da
Benicia, una barca rubata stava all'ancora sotto la tutela dello sceriffo. Ora
di questa barca era proprietario un mio amico, chiamato Dinny McCrea.
L'aveva rubata e lasciata a Port Costa Bob detto «Whiskey», altro mio
amico (Povero Bob! Lo scorso inverno ripescarono il suo corpo riempito di
buchi per opera di non si sa chi). Qualche tempo prima avevo risalito il
fiume per raccontare a Dinny Mc Crea che cosa n'era della sua barca; e
Dinny McCrea mi aveva offerto dieci dollari, se gliel'avessi portata a
Oakland.
Il tempo mi pesava e sul ponte mi misi a sedere e ne parlai con Nickey
detto «il Greco», altro ozioso pirata ostricaro. Dissi: «Andiamo» e Nickey
era disposto. Era al verde. Io avevo cinquanta centesimi e una barchetta. I
cinquanta centesimi li investii e sulla barchetta ottenni un prestito sotto
forma di galletta, carne in scatola, e una bottiglia da dieci centesimi di
senape francese. (A quei tempi ci piaceva molto la senape francese). Poi,
nel tardo pomeriggio, issammo la nostra minuscola vela e partimmo.
Viaggiammo tutta la notte, e la mattina dopo, con la prima splendida marea,
un vento teso in poppa, traversammo gli Stretti di Carquinez per entrare a
Port Costa. Era lì la barca rubata, a pochi passi dal pontile. Le fummo
accanto e ammainammo la nostra piccola vela. Mandai Nickey a levare
l'ancora, mentre io cominciavo a staccare gli ormeggi.
Un uomo corse sul pontile gridando. Era lo sceriffo. All'improvviso mi
venne in mente che avevo trascurato di farmi dare l'autorizzazione scritta da
Dinny McCrea, di prendere possesso della barca. Sapevo anche che lo
sceriffo voleva mettere per lo meno una multa di venticinque dollari per la
cattura della barca a Bob detto «Whiskey» e per la custodia della barca
stessa. E i miei ultimi cinquanta centesimi li avevo spesi per la carne in
scatola e per la senape francese, e il mio compenso, comunque, sarebbe
stato di soli dieci dollari. Diedi un'occhiata a Nickey. L'ancora andava su e
giù, lui la stava manovrando. «Reggi» gli sussurrai e risposi con un urlo agli
urli dello sceriffo. Il risultato fu che parlavamo tutti e due insieme, e i nostri
pensieri parlati si trovano a mezz'aria e facevano confusione.
Il tono dello sceriffo si fece più imperioso e io fui costretto ad ascoltarlo.
Nickey continuava a far forza sull'ancora, e io pensai che poteva rompersi
una vena. Quando lo sceriffo ebbe finito con le minacce e con gli
avvertimenti, gli chiesi chi fosse. Rapidamente, facevo un po' di conti. Ai
piedi dello sceriffo c'era una scala a pioli che scendeva fino all'acqua, e alla
scala era ormeggiata una scialuppa. C'erano anche i remi. Ma era assicurata
con un lucchetto. Giocai tutto su quel lucchetto. Sentii sulla guancia la
brezza, vidi sorgere la marea, guardai i restanti ormeggi che trattenevano la
mia barca, diedi un'occhiata alle drizze, vidi che tutto era sgombro, e allora
la smisi di fingere.
«Sotto!» urlai a Nickey, e mollai gli ultimi ormeggi, e intanto ringraziavo
la mia buona stella perché Bob detto «Whiskey» li aveva fermati a nodo
quadro, e non più complesso.
Lo sceriffo era sceso giù per la scala e con la chiave trafficava al
lucchetto. L'ancora fu a bordo e l'ultimo ormeggio fu sciolto nello stesso
istante in cui lo sceriffo liberava la scialuppa e balzava ai remi.
«Volta!» gridai a Nickey. Lo sceriffo stava per raggiungere la nostra prua.
Ci colse un soffio di vento, e partimmo. Una cosa grandiosa. Lo sceriffo era
in piedi sulla sua barca e fece impallidire lo splendore di quella giornata con
la vivacità del suo linguaggio. E piangeva dalla voglia di avere con sé
un'arma. Capite, era un altro rischio che avevamo corso.
In ogni modo, noi non stavamo rubando la barca. Non era dello sceriffo.
Gli rubavamo soltanto i quattrini della multa, che era una sua forma
particolare di gratifica. E neanche questo furto dei quattrini della multa era
per noi; era per il mio amico Dinny McCrea.
In pochi minuti fummo a Benicia, e pochi minuti dopo le mie coperte
erano a bordo. Portai la barca giù in fondo al pontile dei vapori, donde si
poteva vedere chi ci venisse dietro. Nickey e io tenemmo consiglio di
guerra. Eravamo distesi sul ponte con il sole caldo, la brezza fresca sulle
guance, con la marea che tumultuava intorno a noi. Era impossibile
ritornare a Oakland prima del pomeriggio, quando la corrente si fosse
disposta a favore. Ma immaginammo che a quell'ora lo sceriffo avrebbe
tenuto d'occhio gli Stretti di Carquinez, e che non ci restava altro che
attendere il prossimo riflusso, alle due del mattino dopo, quando col buio
avremmo potuto sfuggire a questo Cerbero.
Dunque stavamo distesi sul ponte, fumando una sigaretta, ed eravamo
contenti di ritrovarci vivi. Sputai fuori bordo e calcolai la velocità della
corrente.
«Con questo vento, si potrebbe arrivare al Rio Vista» dissi.
«E sul fiume il tempo è buono» disse Nickey.
«E l'acqua è bassa», dissi io. «E' il miglior momento dell'anno per arrivare
a Sacramento»,
Ci alzammo in piedi e ci guardammo. Lo splendido vento occidentale si
riversava su di noi come un vino. Tutti e due sputammo fuori bordo e
calcolammo la corrente. Ora io affermo che fu colpa della marea e del vento
propizio, che fecero appello al nostro istinto di marinai. Se non fosse stato
per la marea e per il vento, si sarebbe interrotta la catena degli avvenimenti
che mi spinsero sulla Strada.
Non dicemmo una parola, mollammo gli ormeggi e alzammo la vela. Le
nostre avventure sul Rio Sacramento non fanno parte di questa storia.
Raggiungemmo la città di Sacramento e attaccammo a un pontile. L'acqua
era bella, e passammo gran parte del nostro tempo a nuotare. Sulla spiaggia
vicino al ponte della ferrovia facemmo amicizia con un branco di ragazzi
che nuotavano anche loro. Fra una nuotata e l'altra si stava sulla spiaggia a
parlare. Questi parlavano in un modo diverso dai ragazzi che di solito
facevano razza con noi. Era un vernacolo completamente nuovo. Questi
erano autentici ragazzi di strada, e a ogni loro parola avvertivo sempre più
imperioso su di me il fascino della strada.
«Quand'ero in Alabama», attaccava uno; oppure, un altro: «Risalendo
sulla C. & A., da K. C.» al che un terzo: «Sul C. & A. non ci sono scalini ai
vagoni chiusi». E io me ne stavo disteso sulla sabbia ad ascoltare. «Era una
piccola città dell'Ohio sulla Riva del Lago, la parte meridionale del
Michigan» attaccava un ragazzino, e un altro: «Mai viaggiato con la 'palla
di cannone' sullo Wabash?»; e poi ancora: «No, ma sono andato sul Postale
Bianco, da Chicago». «A proposito di ferrovie, aspetta di vedere quella
della Pennsylvania, quattro binari, niente cisterna della acqua, l'acqua si
prende al volo, è una cosa da vedere». «La Northern Pacific ormai è una
brutta ferrovia». «A El Paso mi beccarono, insieme a Moke Kid». «A
proposito di posti, aspetta di vedere la parte francese, fuori di Montreal.
Non una parola d'inglese, sai, dicono "Mongee, Madame, mongee, no spika
da French" e tu ti gratti lo stomaco, fai vedere che hai fame, e quella ti dà un
tòcco di pancetta su un pezzo di pane».
E io continuavo a giacere sulla sabbia e ad ascoltare. Questi sì che erano
vagabondi veri, altro che i pirati ostricari. Un mondo nuovo mi si rivelava in
ogni parola detta, un gergo nuovo, allusivo, che aveva tutto il fascino
dell'avventura. Benissimo; avrei affrontato questo mondo nuovo. Mi
allineavo con questi ragazzi di strada. Ero forte quanto loro, e scattante e
avevo un cervello buono quanto il loro.
Dopo la nuotata, inoltrandosi la sera, si vestivano e andavano in città. Io
con loro. I ragazzi, e me lo raccontavano nel loro strano gergo,
cominciavano a mendicare quattrini sul corso della cittadina. In vita mia
non avevo mai fatto una cosa simile, e mi fu difficile digerirla, una volta
imboccata la Strada. Avevo idee assurde, riguardo all'accattonaggio. A
quell'epoca io ero convinto che fosse meglio rubare piuttosto che
mendicare; e che la rapina era meglio ancora perché rischio e castigo erano
proporzionalmente maggiori. Come pirata ostricaro, avevo già contratto un
debito con la giustizia, e per pagarlo mi sarebbe occorso un migliaio d'anni
nelle prigioni dello Stato. La rapina era una cosa da uomini, mentre
mendicare era un atto sordido, spregevole. Ma nei giorni a venire dovevo
cambiare idea, senz'altro, e giunsi a considerare l'accattonaggio come una
cosa divertente, come una gara di umorismo, come un esercizio per i nervi.
Quella prima notte però non ce la feci; e il risultato fu che quando i
ragazzi furono pronti ad andare al ristorante e a mangiare, io non lo ero. Me
l'offrì, se non ricordo male, un ragazzo chiamato «Meeny Kid», e difatti
mangiammo insieme. Ma mentre si mangiava, io meditavo. Si diceva che il
ricettatore era mala persona quanto il ladro: «Meeny Kid» aveva mendicato,
io ne profittavo. Conclusi che il ricettatore era molto peggio del ladro, e che
questo non doveva succedere mai più. Infatti non successe. Il giorno dopo
mi diedi da fare come tutti gli altri.
Le ambizioni di Nickey detto il «Greco» non portavano sulla Strada. Non
ci sapeva proprio fare, trascorse una notte su una barca e poi riprese il
fiume, verso San Francisco. L'ho ritrovato or è una settimana, a un incontro
di pugilato. Ha fatto progressi. Aveva un suo posto d'onore in un angolo. E'
manager dei campioni e ne va orgoglioso. Insomma, a suo modo, nel mondo
dello sport locale, è una stella di prima grandezza.
«Un ragazzo non è ragazzo-di-strada se prima non è andato sul 'monte',»
questa la legge della Strada così come la sentii esposta a Sacramento. Va
bene, avrei asceso il monte, mi sarei immatricolato. «Il monte» fra
parentesi, era la Sierra Nevada. Tutta la banda andava sul monte in gita, e
naturalmente ci sarei andato anch'io. Era la prima avventura sulla Strada,
per «French Kid». Era appena scappato di casa, a San Francisco. Ora
toccava a lui, e a me. Di passata, vorrei far notare che il mio vecchio titolo
di «principe» era scomparso. Ora mi avevano ribattezzato, mi chiamavano
«il marinaio», e in seguito mi ribattezzarono ancora «Frisco Kid», e cioè il
ragazzo di San Francisco, quando ebbi messo le Montagne Rocciose fra me
e il mio stato d'origine.
Alle 10,20 pomeridiane il treno transcontinentale della Central Pacific
usciva dalla stazione di Sacramento, rotta verso Oriente - l'orario resta ben
impresso nella mia memoria. Eravamo una decina, della banda, e nel buio si
camminava davanti al treno, per salirci al volo. Tutti i ragazzi del posto che
ci conoscevano vennero a vederci, a «sfotterci» possibilmente. Si
divertivano così, ed erano una quarantina, pronti. Il loro capo era un ragazzo
di strada chiamato Bob. Era nato a Sacramento, ma si era messo sulla Strada
e aveva girato tutto il paese. Prese me e French Kid in disparte e ci consigliò
qualcosa del genere: «Noi si prova a sfottervi, va bene? Allora, appena vi
capita, saltate sopra, e restateci fino al Bivio di Roseville, e lì attenti perché
la polizia è rognosa».
Fischiò la locomotiva ed ecco il treno. C'era posto a sufficienza per tutti,
tre vagoni accessibili. Avremmo preferito saltare sul treno senza far troppo
fracasso, ma quella quarantina di amici facevano folla e non ci
risparmiarono la loro fragorosa pubblicità. Perciò seguii il consiglio di Bob,
e mi misi subito sul tetto del vagone postale. E lì rimasi, con il cuore che mi
batteva più del normale. Il personale viaggiante stava nella parte anteriore
del treno, ma dopo una corsa di mezzo miglio vennero a cercarci. Ce l'avevo
fatta soltanto io.
Alla stazione, con accanto due o tre che avevano assistito all'incidente,
giaceva French Kid, e aveva perso tutte e due le gambe. Era caduto, era
scivolato, e le ruote avevano fatto il resto. In questo modo avvenne la mia
iniziazione alla Strada. Due anni dopo rividi French Kid e gli esaminai i
moncherini. Era un atto di cortesia. Agli storpiati piace farsi esaminare i
moncherini. Uno degli spettacoli più interessanti della Strada è l'incontro fra
due storpiati. La comune inabilità è fruttuosa sorgente di conversazione; e si
dicono come successe, descrivono quello che sanno dell'amputazione,
giudicano criticamente il proprio chirurgo e l'altrui, e alla fine si appartano
in un angolo, si tolgono le bende e confrontano i moncherini.
Ma l'incidente occorso a French Kid lo seppi soltanto qualche giorno
dopo, nel Nevada. La banda arrivò in pessime condizioni, perché c'era stato
un incidente ferroviario. Joe detto il Beato camminava con le stampelle, e
gli altri, come minimo, si grattavano le lividure.
Nel frattempo io me ne stavo sul tetto del carro postale, cercando di
rammentare dove fosse il Bivio di Roseville, borgo contro il quale mi aveva
messo in guardia Bob. Non rammentavo se era la prima o la seconda
fermata. Per sicurezza, aspettai a scendere sul piano del vagone solo dopo la
seconda fermata. E neanche allora scesi. Per me questo era un gioco nuovo,
e mi sentivo più sicuro dov'ero. Ma non dissi mai alla banda che ero rimasto
lassù tutta la notte, traversando la Sierra, nella tormenta fino all'altro
versante, a Truckee, dove arrivai alle sette del mattino. Infatti questa era una
triste storia, e avrebbe fatto morir dal ridere tutti quanti. E' questa la prima
volta che io confesso la verità su quella prima corsa in montagna. In quanto
alla banda, decisero che potevo andar bene, e quando rientrai a Sacramento,
ero ragazzo di strada, in piena regola.
Eppure avevo molto da imparare. Mi fu mentore Bob, e andava
benissimo. Ricordo che una sera (il tempo era bello e noi si andava in giro a
spassarcela) persi il cappello durante una rissa. Eccomi per strada a capo
scoperto, e venne Bob al soccorso. Mi tirò in disparte e mi disse che cosa
fare. Il suo consiglio m'intimidiva un po'. Ero appena uscito di prigione,
dove ero rimasto tre giorni, e sapevo bene che se la polizia mi «pizzicava»
ancora, io ero «fregato» per sempre. Avevo fatto la montagna; nella banda
andavo a gonfie vele, e tutto sommato mi conveniva seguire il consiglio di
Bob.
Ci appostammo a un cantone di via K, mi pare, dove fa angolo con la
Quinta. Bob osservava il copricapo di tutti i cinesi di passaggio. Di solito mi
chiedevo come riuscissero, questi ragazzi di strada, a girare con in testa un
bel cappello da cinque dollari, e ora capivo. Li prendevano ai cinesi, come
stavo per fare anch'io. Ero nervoso, con tutta quella gente in giro, mentre
Bob era freddo come' un iceberg. Più di una volta, quando feci l'atto, tutto
nervoso, di balzare su un cinese, Bob mi trattenne. Voleva che prendessi un
cappello buono, che mi stesse bene; e dopo una decina di cappelli
impossibili, eccotene uno nuovo ma non della mia misura. E quando ne
capitò uno nuovo e di misura giusta, eccoti che la testa era troppo larga o
troppo stretta. Mamma mia, quanto era difficile Bob. Ero così stufo che
avrei afferrato un copricapo qualsiasi.
Finalmente eccoti il cappello, l'unico cappello di Sacramento che andasse
bene a me. Capii che era il predestinato non appena lo guardai. Diedi
un'occhiata a Bob. Lui scrutò i paraggi, attento alla polizia, poi fece di sì
con il capo. Levai il cappello di testa al cinese e me lo misi. Poi corsi via.
Sentii Bob che gridava, lo intravidi nell'atto di bloccare l'irato mongolo, e di
fargli lo sgambetto. La strada non era affollata come via K, e tirai avanti
tranquillo, trattenendo il fiato e congratulandomi con me stesso per il
cappello e per il comportamento.
Ma poi, all'improvviso, da un cantone alle mie spalle, comparve il cinese
a capo scoperto. Lo accompagnavano altri due cinesi, seguiti da cinque o sei
fra uomini e ragazzi. Balzai fino all'angolo davanti, traversai la strada, girai
il cantone. Ero convinto di averlo giocato e mi rimisi al passo. E invece
dietro di me, all'angolo, rieccoti il tenace mongolo. Era la vecchia storia
della lepre e della tartaruga. Non riusciva a correre svelto come me, eppure
resisteva, anfanando al trotto ingannevole, e sprecando molto fiato in
fragorose imprecazioni. Chiamava tutta Sacramento a testimone del
disonore che gli era stato fatto, e buona parte di Sacramento lo sentiva e gli
si metteva dietro. E io correvo come la lepre, ma sempre il persistente
mongolo mi raggiungeva, con crescente tumulto. E alla fine, quando al suo
seguito si fu aggiunto un poliziotto, abbandonai ogni remora, e corsi almeno
venti isolati di fila. E non rividi mai più quel cinese. Il cappello era uno
Stetson bello e nuovo di zecca, e tutta la banda me lo invidiò. E poi era un
simbolo, un segno, che ce l'avevo fatta. Lo portai un anno intero.
I ragazzi di strada sono in gamba, quando li prendi da soli e ti raccontano
«come è andata», ma credete pure a me, attenti a quando corrono in branco.
Allora sono dei lupi, e come i lupi sono capaci di travolgere l'uomo più
forte. Non sono vigliacchi. Son pronti a buttarsi addosso a un uomo e capaci
di tenerlo con tutta la forza del loro corpo asciutto, fino a ridurlo inerme.
L'ho visto fare più d'una volta, e so quello che sto dicendo. Di solito il
motivo è la rapina. E attenti al «braccio forte». Tutti i ragazzi della banda
con cui viaggiavo ne erano esperti. Persino French Kid, prima di perdere le
gambe.
Ho netta dinanzi a me l'immagine di quello che vidi ai «Salici». Con
questo nome si indicava un boschetto su un vasto terreno vicino alla
stazione della ferrovia, a non più di cinque minuti dal cuore di Sacramento.
E' notte e la scena è illuminata dal chiarore fioco delle stelle. In mezzo a un
branco di ragazzi di strada vedo un bracciante, infuriato, che li insulta, e non
ha paura, fiducioso della sua forza. Pesa all'incirca cento e ottanta libbre, ha
i muscoli sodi, ma non sa che cosa l'aspetta. I ragazzi gli mostrano i denti.
Non è una bella cosa. Scappano via da tutte le parti, mentre l'uomo si
scatena, gira su se stesso. Accanto a me c'è un ragazzo di strada,
soprannominato il «Barbiere». Non appena l'uomo gli volta le spalle lui fa
un balzo innanzi e gli pianta un ginocchio contro la schiena, poi gli passa il
braccio destro sul collo, premendo con l'osso del polso contro la vena
giugulare. Con tutta la sua forza il «Barbiere» tira all'indietro. La leva è
possente, e poi l'uomo non riesce a respirare. Questo è il «braccio forte».
L'uomo resiste, ma in pratica è ridotto all'inerzia. I ragazzi di strada gli
sono addosso da ogni parte, gli si aggrappano alle braccia, alle gambe, al
corpo, e come un lupo al collo di un alce il «Barbiere» non molla, continua
a tirarlo all'indietro . L'uomo finisce a terra, scompare sotto il mucchio. Pur
cambiando posizione, il «Barbiere» continua a non mollare. Mentre alcuni
ragazzi «ripuliscono» la vittima, altri gli tengono le gambe perché non possa
scalciare. Meglio ancora, tolgono all'uomo le scarpe. In quanto a lui, è
sconfitto. Battuto. E poi, per via del braccio forte alla gola, non riesce a
prendere fiato. Gli viene un brutto rantolo, e i ragazzi scappano. Non lo
vogliono uccidere. Tutto fatto. Una parola e subito tutti mollano la presa, e i
ragazzi si sparpagliano, uno di loro con in mano le scarpe. Sa dove
ricavarne mezzo dollaro. L'uomo si tira su a sedere e si guarda intorno,
rintontito e inerme. Anche se volesse, sarebbe disperato un inseguimento
nel buio, a piedi nudi. Indugio un momento a guardarlo. Si tocca la gola,
continua quel suo rantolo secco, volta il capo in modo buffo, come a
controllare se il suo collo è slogato. Poi me la filo a raggiungere la banda, e
non rivedo più quell'uomo. Ma è anche vero che lo rivedo sempre, lì seduto
al lume delle stelle, rintontito, un poco impaurito, disorientato, con quello
strano movimento della testa e del collo.
Gli ubriachi sono preda particolare dei ragazzi di strada. Di continuo
vanno in cerca di ubriachi da ripulire. Si nutrono di ubriachi, come i ragni si
nutrono di mosche. La ripulitura di un ubriaco è a volte spettacolo
divertente, specialmente se l'ubriaco è inerme e nessuno interviene. Al
primo colpo partono, dell'ubriaco, danaro e gioielli. Poi i ragazzi si siedono
attorno alla vittima, per una specie di rito. A un ragazzo piace la cravatta.
Via la cravatta. A un altro va bene la biancheria intima, e allora via la
biancheria, e c'è il coltello pronto per accorciare gambe e braccia. A volte si
chiama qualche amico vagabondo a prendere giubba e calzoni, che ai
ragazzi vanno troppo larghi. E alla fine se ne vanno, lasciando vicino
all'ubriaco il mucchio degli stracci che nessuno ha voluto.
Mi torna un'altra immagine. E' notte fonda, la mia banda cammina sul
marciapiede, in periferia. Dinanzi a noi, alla luce elettrica, un uomo traversa
diagonalmente la strada. Nel suo modo di camminare c'è qualcosa di
anfanante, di incerto. Subito i ragazzi annusano il gioco. Quest'uomo è
ubriaco. Raggiunge il marciapiede opposto e si perde nel buio d'uno
sterrato. Nessun grido di caccia, ma il branco si lancia all'inseguimento. In
mezzo allo sterrato gli piomba addosso. Ma che succede? Forme ringhianti,
strane, piccole, oscure, minacciose, sorgono fra il branco e la preda. E' un
altro branco di ragazzi di strada, e veniamo a sapere che quell'ubriaco è
preda loro, che lo seguono da una decina di isolati, più di quanto abbiamo
fatto noi. Ma il nostro è un mondo primevo. Questi lupi sono cuccioli. (In
realtà non uno di loro aveva dodici, tredici anni. In seguito ne ritrovai
qualcuno, appresi che appunto quel giorno avevano superato la montagna e
che venivano da Denver e da Salt Lake City). Il nostro branco scatta avanti.
I cuccioli del lupo urlano e strillano e si battono come piccoli demoni.
Tutt'intorno all'ubriaco divampa la lotta per il suo possesso. Crolla in mezzo
alla mischia, e la rissa infuria sul suo corpo, alla maniera dei greci e dei
troiani sopra il corpo e le armi di un eroe abbattuto. Fra urli e lacrime e
gemiti, i cuccioli del lupo vengono spossessati, e l'ubriaco è del mio branco.
Ma io rammento sempre il poveretto e il suo smarrito stupore all'improvviso
imperversare della lotta lì sullo sterrato. Lo rivedo ancora, vago nel buio,
titubante, stupito, instupidito, che bonariamente cerca di farla da paciere in
mezzo a quella baraonda di cui non afferra il significato, e poi la sua
espressione sinceramente offesa quando proprio a lui, che non ha fatto del
male a nessuno, tante mani si aggrappano per tirarlo giù.
Preda favorita dei ragazzi di strada sono i braccianti girovaghi. Siccome
lavorano, e vanno in giro con il rotolo della coperta, di solito si suppone che
abbiano su di sé qualche spicciolo; e proprio a quello mirano i ragazzi di
strada. La caccia a questo poveretto avviene spesso sotto le tettoie, nei
granai, nelle sale d'aspetto della stazione, ai margini della città, e il tempo
adatto per la caccia è la notte, quand'egli cerca un posto per srotolare la
coperta e dormire.
Vittime dei ragazzi di strada sono anche i cosiddetti «gatti allegri»: con il
termine si deve intendere il novizio della strada, ma il novizio adulto, o per
lo meno il ragazzo cresciuto. Un autentico ragazzo di strada, anche se da
poco ha fatto la sua scelta, non è mai «gatto allegro», è un professionista
della strada, e così viene talvolta definito nel suo strano gergo. Io, che pure
non fui mai ragazzo di strada in senso professionistico, neanche fui però
«gatto allegro». Ci fu un poco il sospetto che tale io fossi, nel periodo in cui
da «Frisco» fui ribattezzato «Jack il marinaio». Ma una breve conoscenza
da parte di chi nutriva tale sospetto bastò a convincerli del contrario, e
diventai presto ragazzo di strada in piena regola. Anzi, fra i ragazzi di strada
io assunsi presto i modi di quella ristretta aristocrazia che della strada
costituisce la nobiltà: gli aggressori, i primordiali, le bestie bionde, per dirla
con Nietzsche.
Quando rientrai dal Nevada seppi che qualche pirata fiumarolo aveva
rubato la barca di Dinny McCrea. (Strano ma a tutt'oggi io non rammento
cosa ne sia stato della barca che portò me e Nickey «il Greco» da Oakland a
Port Costa. So che lo sceriffo non l'ebbe, e so che non ci portò sul fiume
Sacramento, e questo è tutto ciò che so.) Con la perdita della barca di Dinny
McCrea io mi legavo alla Strada; e quando fui stufo di Sacramento dissi
addio alla banda (la quale, amichevolmente, tentò di tirarmi giù dal treno
merci mentre me ne andavo via dalla città) e imboccai la valle di San
Joaquin. La Strada mi aveva preso e non voleva lasciarmi e in seguito dopo
i viaggi per mare, e dopo le diverse cose che mi capitò di fare, io ritornai
alla Strada, a far parte dell'aristocrazia stradarola, e a tuffarmi in un bagno
di sociologia che m'inzuppò fino alla pelle.
CONFESSIONE
C'è una donna nello Stato del Nevada a cui un tempo io mentii
continuamente, concretamente, svergognatamente, per una faccenda d'un
paio d'ore. Non voglio qui chiederle scusa. Lungi da me. Ma voglio
spiegare. Purtroppo non so il suo nome, men che mai il suo indirizzo
attuale. Se i suoi occhi dovessero posarsi su queste righe, spero che vorrà
scrivermi.
Fu a Reno, nel Nevada, estate del 1892. Era tempo bello e la città era
piena di ladri e d'imbroglioni, per non dire nulla della vasta orda di
vagabondi affamati. Erano proprio loro a far di Reno una città «affamata».
Battevano alla porta di servizio delle case dei cittadini fino a che la porta
non rispondeva più.
Città difficile per «sbafare», così dicevano i vagabondi a quell'epoca. So
di aver saltato parecchi pasti, e so anche che un brutto giorno non mi ressi
più, misi di mezzo il facchino e invasi il vagone privato di un milionario
iterante. Il treno partì non appena io fui sul predellino, e mi diressi verso
quel milionario con il facchino un passo dietro di me che cercava di
prendermi. Faceva un caldo mortale, perché nell'istante stesso in cui
raggiunsi il milionario, il facchino raggiungeva me. Non c'era tempo per le
formalità. «Mi dia un quarto di dollaro per mangiare» sbottai. E giuro che il
milionario si mise una mano in tasca e mi diede... solo... esattamente... un
quarto di dollaro. Sono convinto che tale fu il suo stupore che obbedì
automaticamente, e da allora mi sono sempre acutamente rammaricato di
non avergli chiesto un dollaro. So che me l'avrebbe dato. Saltai giù dal
predellino di quel vagone privato con il facchino che cercava di darmi un
calcio in faccia. Mi mancò. E' tremendo il tuo svantaggio quando tenti di
saltare giù dallo scalino più basso di un vagone senza romperti il collo,
mentre al tempo stesso un etiope furibondo, sulla predella, cerca di darti il
piedone in faccia. Ma il quarto di dollaro lo ebbi, eccome!
Ma torniamo alla donna cui svergognatamente mentii. Fu la sera del mio
ultimo giorno a Reno. Ero andato a veder correre i cavalli, e avevo saltato il
pranzo, voglio dire il pasto di mezzogiorno. Avevo fame e oltre tutto si era
organizzato un comitato di salute pubblica per sbarazzare la città dagli
affamati come me. Già parecchi miei fratelli famelici eran stati rastrellati da
John Law, cioè dai tutori della legge, e io sentivo le valli assolate della
California che mi chiamavano da oltre i picchi della Sierra. Mi restavano da
compiere due atti prima di scrollarmi dalle scarpe la polvere di Reno.
Dovevo, nottetempo, prendere il bagagliaio del treno diretto a occidente. E
poi dovevo trovar qualcosa da mangiare. Persino la gioventù esita dinanzi a
una notte di viaggio a stomaco vuoto, su un treno che squarcia l'atmosfera
passando per tormente, gallerie, nevi eterne di montagne che aspirano al
cielo.
Ma quel qualcosa da mangiare, ecco il difficile. Una decina di case mi
sbatterono fuori. In qualche caso ricevetti solo battute offensive e
informazioni sul posto chiuso in cui avrei potuto finire. E il peggio è che
affermazioni simili erano vere. Ecco perché quella notte io puntavo verso
occidente. John Law, la maledetta Legge, batteva la città, cercando ansioso
affamati e senzatetto, perché il suo posto chiuso era fatto appunto per
costoro.
In altre case le porte mi furono sbattute in faccia, interrompendo la mia
umile e cortese richiesta di qualcosa da mangiare. In una casa neanche mi
aprirono la porta. Io stavo in veranda a bussare e loro mi guardavano dalla
finestra. Addirittura, tirarono su un robusto bamboccio perché mi potesse
vedere, sulle spalle dei maggiori: vedere il vagabondo che non avrebbe
ottenuto nulla da mangiare.
Cominciavo a pensare che per mettere qualcosa nello stomaco avrei
dovuto rivolgermi ai poveri. Infatti sono i poveri, i poverissimi, a costituire
l'ultima risorsa del vagabondo che ha fame. Sui poveri si può sempre
contare. Non scacciano mai chi ha fame. Più volte, infatti gli Stati Uniti, mi
han rifiutato da mangiare le case grandi sulla collina; e sempre ho ricevuto
cibo dalle baracche coi vetri rotti e le finestre piene di stracci, e le madri
stanche morte di lavoro. Ah, chi ha bisogno di carità, vada dai poveri e
vedrà, perché i poveri sono sempre caritatevoli. I poveri non danno e non
negano quel che loro avanza. Non gli avanza nulla. Danno, e mai negano, di
quello di cui han bisogno, e spesso è un bisogno crudele. Un osso a un cane
non è carità. Carità è l'osso spartito con il cane quando tu hai la stessa fame
del cane.
In particolare ci fu una casa che mi respinse quella sera. Le finestre della
veranda davano sulla sala da pranzo, e dalle finestre vidi un uomo che
mangiava una focaccia, una grossa focaccia imbottita di carne. Io stavo
sulla porta e parlandomi quest'uomo continuava a mangiare. Era un uomo
ricco e dalla sua ricchezza nasceva il risentimento contro i suoi fratelli meno
fortunati.
Interruppe la mia richiesta di qualcosa da mangiare, così: «Io credo che tu
non abbia voglia di lavorare».
Che discorso era questo? Io non avevo fatto parola di lavoro. L'argomento
della conversazione era «il cibo». In realtà io non avevo voglia di lavorare.
Volevo prendere, quella notte, il treno verso occidente.
«Tu non lavoreresti neanche se te ne capitasse l'occasione» insisté.
Guardai il viso mite di sua moglie e capii che senza la presenza di questo
cerbero avrei avuto anch'io un pezzetto di quella focaccia. Invece il Cerbero
s'ingozzava di focaccia e io capii che bisognava placarlo se volevo ottenerne
una parte. Per questo trassi un sospiro e accettai la sua etica sul lavoro.
«Ma certo che ho voglia di lavorare», mentii.
«Non ci credo», ribatté.
«Mi metta alla prova», risposi, mentendo ancora.
«Va bene», disse. «Ci troviamo all'angolo fra la via tale e la via talaltra»
(mi sono scordato l'indirizzo) «domani mattina. Sai, dov'è quella
costruzione bruciata, e ti metto al lavoro, coi mattoni».
«Va bene, signore, ci sarò».
Fece un grugnito e continuò a mangiare. Io aspettavo. Dopo un paio di
minuti alzò gli occhi con in viso l'espressione di chi pensa - credevo-che-tute-ne-fossi-andato e chiese:
«Allora?»
«Io... io aspettavo qualcosa da mangiare», dissi gentilmente.
«Lo sapevo che non hai voglia di lavorare», ruggì.
Aveva ragione, naturalmente; ma era una conclusione a cui poteva essere
giunto non per un nesso logico, ma leggendomi il pensiero. Tuttavia chi
mendica alle porte deve essere umile, per questo accettai la sua logica come
avevo accettato la sua etica.
«Vede, ho fame», dissi, sempre in tono gentile. «Domani ne avrò anche di
più. Pensi quanta fame avrò dopo aver maneggiato mattoni tutto il giorno,
senza nulla da mangiare. Ora, se lei mi dà qualcosa da mangiare, domani
sarò in buona forma, per quei mattoni».
Considerò gravemente la mia supplica, e intanto continuava a mangiare,
mentre sua moglie si trattenne dall'intervenire in mio favore.
«Ora ti dico cosa faccio», disse fra una boccata e l'altra. «Domani vieni al
lavoro, e a metà della giornata ti anticipo il necessario per mangiare. Voglio
vedere se di lavorare hai voglia oppure no».
«Ma intanto...» cominciai, ma quello m'interruppe.
«Se ti do qualcosa da mangiare non ti rivedo più. Ah, li conosco i tipi
come te. Guarda me. Io non debbo un soldo a nessuno. Non son mai caduto
così in basso da chiedere da mangiare a qualcuno. Il mangiare me lo sono
sempre guadagnato. Il guaio tuo è che sei pigro e dissoluto. Ti si legge in
faccia. Io ho sempre lavorato e son stato onesto. Mi son fatto così come
sono. E tu puoi fare lo stesso, se lavori e ti comporti onestamente».
.«Come lei?» chiesi.
Ahimè, non l'ombra dell'umorismo era mai penetrata nell'animo di
quest'uomo indurito dal lavoro.
«Sì, come me», rispose, con la voce convinta e vibrante.
«Ma se diventassimo tutti come lei», dissi, «mi permetta di dirle che non
ci sarebbe più nessuno a maneggiare mattoni».
Giuro che ci fu il lampo di un sorriso negli occhi di sua moglie. In quanto
a lui, rimase basito, non saprò mai se per la mia impudenza o per la
tremenda possibilità di un genere umano riformato che non gli avrebbe più
consentito di far maneggiare i mattoni da qualcuno.
Urlò: «Non voglio più sprecare parole, con te. Fuori di qui, vagabondo
ingrato».
Strusciai i piedi per terra, in modo da far intendere che me ne volevo
andare e chiesi ancora:
«Non mi dà proprio niente da mangiare?»
Di scatto si alzò in piedi. Era un uomo grosso. Io ero straniero in una terra
estranea, e John Law, la maledettissima Legge, mi cercava. Mi affrettai ad
andarmene.
«Ma perché ingrato?» mi chiedevo mentre sbattevo il cancello. «Che cosa
mi ha dato per potermi chiamare così?» Mi voltai e dalla finestra lo vidi
ancora. Era tornato a divorare la sua torta.
Ormai m'ero perso di coraggio. Passai davanti a parecchie case senza più
azzardarmi. Tutte le case mi parevano eguali, e nessuna mi pareva «buona».
Dopo aver percorso cinque o sei isolati, mi scrollai di dosso la timidezza e
mi diedi coraggio. Questo mendicare cibo era come un gioco di carte,. e se
non mi piaceva la «mano» potevo sempre chiedere di cambiarla. Decisi di
affrontare la prossima casa. Mi ci avvicinai mentre s'addensava il
crepuscolo, dalla porta di cucina.
Bussai pian piano e quando vidi il volto gentile della donna di mezza età
che aprì la porta, come un'ispirazione mi venne in mente la «storia» che
avrei raccontato. Perché si deve sapere che il successo di un mendicante
dipende dalla sua capacità di raccontare una storia buona. Innanzi tutto e
all'istante, il mendicante deve saper pesare la sua vittima. Poi deve inventare
una storia che faccia appello alla personalità, al temperamento di quella
vittima particolare. E a questo punto sorge la difficoltà maggiore:
nell'istante stesso in cui la vittima viene pesata occorre che cominci la
storia. Non c'è un attimo per la preparazione. Come in un lampo egli deve
indovinare la natura della sua vittima e confezionare un racconto che vada a
segno. Se vuole avere successo, il vagabondo dev'essere un artista. Deve
creare spontaneamente, istantaneamente, e non su di un tema scelto nella
pienezza della propria fantasia, ma sul tema che legge in faccia alla persona
che apre la porta, sia uomo, donna o bambino, dolce o irosa, generosa o
taccagna, buona o cattiva, ebrea o cristiana, nera o bianca, fraterna o colma
di pregiudizi razziali, provinciale o universale, insomma tutto quel che può
essere una persona. Ho spesso pensato che proprio all'addestramento dei
miei anni di vagabondaggio si debba il mio successo come scrittore di
storie. Per ottenere il cibo di cui vivere, ero costretto a raccontar storie che
suonassero vere. Lì, sulla porta di cucina, spinto da necessità inesorabile, un
uomo si costruisce la capacità di convincere il suo prossimo riconosciuta
poi dai critici autorevoli come essenziale all'arte del racconto. E credo anche
che il mio tirocinio di vagabondo abbia fatto di me un realista. Il realismo,
ecco la sola merce di scambio per ottenere da mangiare in cucina.
Dopo tutto l'arte non è altro che consumato artifizio, e proprio l'artifizio
salva molti racconti. Rammento di aver mentito alla stazione della polizia di
Winnipeg, Manitoba. Viaggiavo verso occidente, sulla Canadian Pacific.
Naturalmente la polizia volle sentire la mia storia, e io gliela feci sentire,
inventandola lì per lì. Erano gente di terra, proprio nel cuore del continente,
e dunque, per loro, quale storia poteva andar meglio che una storia
marinara? Impossibile farmi un trabocchetto su questo terreno. E perciò
raccontai loro la lacrimevole istoria della mia vita a bordo di quella nave
d'inferno che era la «Glenmore». (Una volta l'avevo vista, questa
«Glenmore», all'ancora nella Baia di San Francisco).
Dissi loro che ero inglese, apprendista di bordo. E loro dissero che non
parlavo come un ragazzo inglese. Toccava a me inventare, all'istante. Ero
nato e cresciuto negli Stati Uniti. Alla morte dei miei genitori, i nonni mi
avevano mandato in Inghilterra, e poi mi avevano messo a bordo della
«Glenmore». Spero che il comandante della «Glenmore» mi perdonerà,
perché feci di lui un tale ritratto, quella sera alla stazione di polizia di
Winnipeg! Che crudeltà! Che brutalità! Che ingegno diabolico per la
tortura. Spiegai perché avevo disertato la «Glenmore», a Montreal.
Ma perché mi trovavo nel cuore del Canada, diretto a occidente, se i miei
nonni vivevano in Inghilterra? Inventai prontamente una sorella sposata che
viveva in California. Avrebbe badato lei a me. Mi dilungai a descriverne il
carattere affettuoso. Ma quei poliziotti avevano il cuore duro, non
mollavano. Ero salito in Inghilterra a bordo della «Glenmore»; nei due anni
trascorsi prima della diserzione a Montreal, che cosa aveva fatto la
«Glenmore», dove era stata? E subito io mi portai dietro per il mondo questi
terricoli. Sballottati dal mare grosso e tempestati dall'acqua salsa, eccoli con
me ad affrontare il tifone al largo della costa giapponese. Con me
caricarono e scaricarono in tutti i porti dei Sette Mari. Me li portai dietro in
India, a Rangoon, in Cina, e li misi a spaccare ghiaccio attorno a Capo Horn
e finalmente gettare l'ancora a Montreal.
Allora quelli dissero di aspettare un momento, e un poliziotto uscì nella
notte mentre io mi scaldavo alla stufa, e intanto cercavo di prevedere quale
trappola intendevano tendermi.
Dentro di me feci un gemito a vedere lui che entrava dietro al poliziotto.
Quegli orecchini d'oro non glieli aveva messi una zingara, e quella pelle
conciata come il cuoio non era opera dei venti della prateria; non era certo
la tormenta e la china d'un monte a dargli quell'andatura ondeggiante. E in
quegli occhi quando si levarono su di me io vidi nettissimo il dilavare del
mare. Ecco un altro tema, ahimè, con cinque o sei poliziotti a guardare me
che non avevo mai navigato sui mari della Cina, né avevo mai doppiato
Capo Horn, né posato gli occhi sull'India e su Rangoon.
Ero disperato. La catastrofe mi stava dinanzi, incarnata in questo figlio
del mare dagli orecchini d'oro e dalla pelle conciata. Chi era? Che cos'era?
Dovevo risolverlo prima che lui risolvesse me. Dovevo prendere un
orientamento nuovo, altrimenti quei maledetti poliziotti mi avrebbero
orientato verso una cella, verso un tribunale, verso altre celle. Se era lui il
primo a interrogare, prima che io sapessi quanto sapeva lui, ero perso.
Ma tradii forse la mia disperazione a quegli occhi di lince messi a guardia
del pubblico benessere a Winnipeg? No. Affrontai quell'annoso marinaio
con occhi lieti, sorridendo, simulando il sollievo che prova il naufrago
quando finalmente gli si getta una ciambella di salvataggio. Ecco un uomo
che capiva e che poteva verificare la mia storia in faccia a questi tangheri
che non capivano nulla. O almeno, questa fu la parte che cercai di recitare.
Gli fui addosso, lo tempestai di domande, su di lui. Dinanzi ai miei giudici
dovevo provare il carattere del mio salvatore, prima che lui salvasse me.
Era un marinaio buono. Alle mie domande i poliziotti cominciavano a
spazientirsi.
Alla fine uno mi disse di tacere. Tacqui: ma mentre tacevo, la mia mente
s'affaticava a inventare, a tracciare la scena del prossimo atto. Ormai sapevo
quanto mi bastava per tirare avanti. Era francese. Aveva navigato su
mercantili francesi, tranne un unico viaggio su nave inglese. E finalmente ah che fortuna! - non navigava più da venti anni.
Il poliziotto lo sollecitò a interrogarmi.
«Hai fatto scalo a Rangoon?» chiese.
Annuii. «Sbarcammo il terzo ufficiale. Febbre».
Se mi avesse chiesto che tipo di febbre avrei risposto «enterica», pur
ignorando il significato della parola. Ma non me lo chiese. La prossima
domanda fu:
«Com'è Rangoon?»
«Bella. Piovve di continuo durante la nostra permanenza».
«Andasti a terra?»
«Certo», risposi. «.Eravamo in tre, apprendisti».
«Ti rammenti il tempio?»
«Quale tempio?» domandai.
«Quello grande, in cima alla scalinata».
Se rammentavo il tempio, dovevo anche descriverlo. Mi si apriva il
baratro. Feci cenno di no.
«Si vede da tutto il porto», m'informò. «Non occorre scendere a terra per
vedere il tempio».
Mai odiato un tempio come quello, in vita mia. E su quel tempio
m'impuntai.
«Non si vede dal porto», contraddissi. «Non si veda dalla città. Non si
vede dalla cima della scalinata. Perché...» e qui tacqui per ottenere l'effetto,
«perché non c'è tempio a Rangoon».
«Ma l'ho visto con i miei occhi», esclamò il marinaio.
«Successe nel ... ?» chiesi.
«Nel settantuno».
«Fu poi distrutto nel grande terremoto del 1887», spiegai. «Era molto
antico».
Ci fu una pausa. Il marinaio era tutto preso dall'immagine giovanile del
tempio visto dal mare.
«La scalinata c'è ancora», l'aiutai. «Quella si vede da tutto il porto. E tu
rammenti quell'isoletta a destra di chi entra in porto?» Immagino che ci
fosse, perché lui annuì (ma io ero anche pronto a farla spostare a sinistra).
«Sparita», dissi, «ora sono sette braccia d'acqua».
Avevo guadagnato il tempo di ripigliare fiato. Mentre il marinaio
meditava sui cambiamenti che apporta il tempo, io stavo preparando i tocchi
finali della mia storia.
«Rammenti la dogana di Bombay?»
La rammentava.
«Distrutta da un incendio», annunciai.
«Ti rammenti Jim Wan?» chiese a sua volta.
«Morto», dissi. Non avevo la minima idea di chi fosse questo Jim Wan.
Adesso ero di nuovo sul ghiaccio sottile.
«Ti rammenti Billy Harper, di Sciangai?» mi affrettai a chiedergli.
L'annoso marinaio cercava di rammentare, ma il Billy Harper della mia
fantasia stava al di là della sua memoria sbiadita.
«Ma certo che ti rammenti Billy Harper», insistei. «Lo conoscono tutti. E'
lì da quarant'anni. Be', c'è ancora, ecco tutto».
E allora successe il miracolo. Il marinaio si rammentò di Billy Harper.
Forse c'era davvero un Billy Harper, e forse era a Sciangai da quarant'anni e
ci stava ancora; per me era una novità.
Per un'altra mezz'ora il marinaio e io continuammo a parlare in quella
maniera. Alla fine disse ai poliziotti che ero quel che dicevo di essere, e
trascorsa la notte e fatta colazione mi lasciarono libero di riprendere il
viaggio verso occidente, dalla sorella sposata che avevo a San Francisco.
Ma torniamo alla donna di Reno che mi aprì la porta al crepuscolo. Mi
bastò una occhiata al suo viso gentile per trovare la chiave. Diventai un
ragazzo dolce, ingenuo, sfortunato. Non riuscivo a parlare. Aprii la bocca e
subito la richiusi. In vita mia non avevo mai chiesto da mangiare, a nessuno.
Il mio imbarazzo era doloroso, estremo. Avevo vergogna. Proprio io che
consideravo l'accattonaggio come una deliziosa follia, all'improvviso ero
diventato un ragazzo dalla moralità borghese. Soltanto i morsi della fame
potevano spingermi a una cosa degradante e ignobile come il mendicar cibo.
E cercavo di dipingermi in faccia tutta la vacua malinconia del giovane
ingenuo, ma anche affamato, che non è avvezzo a mendicare.
«Hai fame, povero ragazzo», disse la donna.
Avevo lasciato che fosse la prima a parlare.
Feci di sì con il capo e deglutii.
«E' la prima volta che... lo chiedo», balbettai.
«Vieni, entra». La porta si spalancò. «Noi abbiamo già finito di mangiare,
ma il fuoco è acceso e ti posso preparare qualcosa».
Mi scrutò bene quando fui alla luce.
«Magari il mio ragazzo fosse sano e forte come te», disse: «Invece non è
forte. A volte crolla. Proprio nel pomeriggio è caduto e si è fatto male,
povero caro».
Era proprio la voce di una mamma, ineffabilmente tenera, che mi fece
venire voglia di essere suo figlio. Guardai il ragazzo, che stava seduto al
tavolo con la testa fasciata. Non si mosse, ma i suoi occhi, chiari alla luce
della lampada, erano fissi su di me, uno sguardo teso e sorpreso.
«Come il mio povero babbo», dissi. «Anche lui cadeva per terra. Una
specie di vertigine. I medici non sapevano che dire. Non riuscirono mai a
stabilire che cosa avesse».
«E' morto?» chiese la donna con tono gentile, mettendomi dinanzi cinque
o sei uova cotte.
«Morto». Trangugiai. «Due settimane fa. Ero con lui quando successe.
Traversavamo la strada insieme. Crollò all'improvviso. Non riprese più
coscienza. Lo portarono in una drogheria, e li dentro morì».
E subito costruii la pietosa storia di mio padre - di come, dopo la morte di
mia madre, insieme, dalla fattoria, eravamo andati a San Francisco, di come
la pensione (era un veterano) e i pochi altri soldi che aveva non ci
bastavano; e di come aveva tentato di fare il rilegatore di libri. Raccontai
anche i miei guai in quei primi giorni dopo la perdita del padre, solo e
abbandonato per le strade di San Francisco. Mentre la buona donna
preparava biscotto, pancetta e altre uova, e mentre io mi tenevo al suo passo
spolverando tutto quel che mi metteva dinanzi, arricchivo il ritratto del
povero orfanello e aggiungevo altri particolari. Ma che povero figliolo! Ci
credevo anch'io, come credevo nelle bellissime uova che stavo divorando.
Mi sarei pianto addosso. E so che le lacrime di tanto in tanto fecero
capolino nella mia voce. Ero assai efficace.
Di fatti, a ogni tocco che aggiungevo al quadro, quell'anima gentile mi
dava altra roba. Mi preparò un desinare, da portar via con me. Ci mise altre
uova sode, pepe e sale, altre cose, una grossa mela. Mi diede anche tre paia
di calze di lana, pesanti e rosse. E intanto continuava a cucinare e io a
mangiare. M'ingozzavo come un selvaggio; ma d'altra parte era duro un
viaggio clandestino sul treno al di là della Sierra, e io ignoravo quando e
dove avrei trovato il mio prossimo pasto. E intanto, come una testa di morto
a una festa, tacito e immoto, il ragazzo suo sfortunato sedeva e mi fissava,
dall'altra parte del tavolo. Immagino che per lui io rappresentavo il mistero,
l'avventura - tutto ciò che era negato a quella flebile scintilla di vita che era
in lui. Eppure non riuscii a evitar di chiedermi, un paio di volte, se per caso
non mi vedeva fin nel fondo del mio cuore mendace.
«Ma dove vai?» mi chiese la donna.
«Salt Lake City», dissi. «Ci ho una sorella, sposata». (Per un istante
pensai di farla Mormone, ma poi decisi di no). «Suo marito fa lo stagnino,
ha una sua impresa».
Io sapevo che quando si ha un'impresa, quel mestiere rende un mucchio di
soldi. Ma ormai avevo parlato. Bisognava che spiegassi.
«Se glieli avessi chiesti mi avrebbero mandato i soldi del viaggio»,
spiegai. «Ma hanno avuto la loro parte di guai, malattie, lavoro... Il socio lo
ha messo di mezzo. Per questo non ho voluto chiedere i soldi. Sapevo di
potercela fare, in qualche modo. Li ho lasciati credere che ne avevo
abbastanza per arrivare a Salt Lake City. Lei è molto cara, molto gentile.
Con me è sempre stata buona. Ha due figlie, più giovani di me. Una è
appena una bambina».
Fra tutte le sorelle sposate che io ho distribuito nelle varie città degli Stati
Uniti, la sorella di Salt Lake City è quella che preferisco. Ed è proprio reale.
Quando parlo di lei, quasi la vedo, con le sue figlie, e col marito stagnino. E'
una donna grande, materna, robusta e ridondante, insomma il tipo, capite?,
che sa sempre cucinare cose buone e non si arrabbia mai. Suo marito è un
tipo tranquillo, bonaccione. A volte mi pare di conoscerlo benissimo. E
chissà, può anche darsi che un giorno io l'incontri davvero. Se l'annoso
marinaio si rammentava di Billy Harper, perché non avrei dovuto, un
giorno, conoscere il marito di mia sorella, quella che abita a Salt Lake City?
D'altro canto io avverto la certezza che non incontrerò mai, in carne e
ossa, i miei numerosi genitori e nonni, perché invariabilmente li
ammazzavo. Il modo preferito per farli fuori era l'attacco cardiaco, anche se
qualche volta facevo morire la mamma, o la nonna, di consunzione, di
polmonite o di tifo. E' vero, come possono attestare i poliziotti di Winnipeg,
che i miei nonni vivono in Inghilterra; ma questo successe molto tempo fa
ed è lecito supporre che oramai siano morti. In ogni modo, non mi hanno
mai scritto.
Spero proprio che la donna di Reno possa leggere queste righe, e perdoni
la mia condotta sgraziata e mendace. Non le chiedo scusa, perché non provo
vergogna. Era la giovinezza, la gioia di vivere, il desiderio di fare
esperienza che mi guidò a quella porta. Spero di averle fatto del bene. In
ogni modo oggi potrà riderci sopra, sapendo come in realtà stavano le cose.
Per lei la mia storia era «vera». Credeva in me e in tutta la mia famiglia,
ed era colma di sollecitudine per il rischioso viaggio che mi attendeva, fino
a Salt Lake City. Questa sollecitudine mi diede quasi dolore. Mentre me ne
andavo, con il desinare in mano e le tasche gonfie di calze di lana spesse, le
venne in mente un nipote, o forse uno zio, insomma un parente, che faceva
il ferroviere, e che oltre tutto avrebbe preso quello stesso treno su cui
intendevo salire di nascosto. Proprio quel che ci voleva! Mi avrebbe
accompagnato alla stazione, gli avrebbe detto la mia storia, mi avrebbe fatto
nascondere sul vagone postale. Così senza pericolo e senza disagio, sarei
giunto fino a Odgen. Salt Lake City era poche miglia più avanti. Mi sentii
mancare il cuore. E lei si eccitava sempre di più a questo suo progetto e io,
con il cuore che mi mancava, dovetti fingere gioia ed entusiasmo per la
soluzione delle mie difficoltà.
La soluzione! Ebbene, quella notte ero diretto a occidente, e mi trovavo
invece preso in una trappola che voleva portarmi nella direzione opposta.
Era veramente una trappola e non ebbi il coraggio di dirle che era tutta una
miserabile bugia. E mentre la lasciavo credere che ero felice, mi rovistavo il
cervello in cerca di una via d'uscita. Non c'era via d'uscita. Mi avrebbe
accompagnato al vagone postale - così diceva lei - e poi quel suo parente
ferroviere mi avrebbe accompagnato fino a Ogden. E poi avrei dovuto fare
la strada a ritroso per quelle centinaia di miglia di deserto.
Ma quella notte mi assisté la fortuna. Proprio quando lei si preparava a
mettersi il cappellino e ad accompagnarmi, scoprì che s'era sbagliata. Quel
suo parente ferroviere non doveva partire stanotte. Gli avevano cambiato
turno. Sarebbe partito solo fra due notti. Ero salvo, perché evidentemente la
mia impavida giovinezza non mi consentiva di aspettare due giorni.
Ottimisticamente, l'assicurai che partendo subito sarei arrivato prima a Salt
Lake City, e me ne andai con la sua benedizione e coi suoi auguri che mi
suonavano nelle orecchie.
Ma quelle calze di lana erano una manna. Lo so. Quella notte sul vagone
me ne misi un paio, e il treno partì verso occidente.
DUEMILA VAGABONDI
Una volta ebbi la fortuna di far parte di un branco che contava duemila
vagabondi. Il branco veniva chiamato «l'esercito di Kelly», dal nome del
capo che, con i suoi eroi, «prendeva» un treno dopo l'altro nel selvaggio
occidente; ma ebbero la peggio dopo traversato il Missouri e si scontrarono
con l'oriente, il quale non aveva intenzione alcuna di regalare i mezzi di
trasporto a duemila vagabondi. Per qualche tempo l'esercito di Kelly
giacque inerme a Council Bluffs. Il giorno che mi unii a loro, reso disperato
dall'indugio, decisi di «prendere» un treno.
Era uno spettacolo davvero imponente. Il generale Kelly cavalcava un bel
morello, e con le bandiere al vento, al ritmo d'una musica marziale di
tamburi e cornamuse, una compagnia dopo l'altra, in due divisioni, i
duemila vagabondi contromarciarono di fronte a lui e incontrarono la strada
ferrata nel villaggio di Weston, che distava sette miglia. Essendo l'ultimo fra
le reclute, appartenevo all'ultima compagnia dell'ultimo reggimento della
seconda divisione. Non solo, ero nell'ultima fila dell'estrema retroguardia.
L'esercito si accampò a Weston, ai margini della strada ferrata, anzi fra un
binario e l'altro, perché le linee erano due, quella di Chicago, Milwaukee e
San Paul e quella di Rock Island.
Era nostra intenzione prendere il primo treno di passaggio ma quelli della
ferrovia annusarono il nostro piano e ci sconfissero. Non ci fu alcun primo
treno. Bloccarono le due linee e non fecero uscire alcun treno. Intanto,
mentre noi tenevamo il campo fra i binari morti, la brava gente di Omaha e
di Council Bluffs entrava in agitazione. Si preparavano a formare massa,
prendere un treno a Council Bluffs, portarcelo, farcene regalo. Ma quelli
della ferrovia fecero fallire anche questo piano. Non aspettarono che la
brava gente facesse massa. Il secondo giorno all'alba, una locomotiva, con
un solo vagone, arrivò alla stazione e si fermò. A questo segno, che la vita
riprendeva sui binari morti, tutto l'esercito si schierò di fianco alla strada
ferrata.
Ma non ci fu mai ritorno di vita più mostruoso come quella volta sui
binari morti. Da occidente giunse il fischio della locomotiva. Veniva nella
nostra direzione, cioè verso oriente. A oriente volevamo andare. Un brivido
di attesa percorse i nostri ranghi. Il fischio imperversava, furibondo, e il
treno arrivò tuonando, alla massima velocità. Non esisteva al mondo
vagabondo capace di saltarci sopra. Poi fischiò un'altra locomotiva, e arrivò
un altro treno a tutta velocità, e poi un altro, e un altro, treno dopo treno, sì
che alla fine i treni erano composti di vetture-passeggeri, vagoni-merci,
pianali, locomotive a rimorchio, vagoni postali, ferrivecchi, tutto il riffaraffa
pescato ai depositi della ferrovia. Quando fu completamente ripulito il
deposito di Council Bluffs, un solo vagone attaccato a una locomotiva (era
un vagone privato) partì verso oriente e sui binari ricadde la morte.
Passò quel giorno, poi il giorno dopo, e nulla si muoveva, e nel frattempo
i duemila vagabondi se ne restavano accanto ai binari, battuti dalla
tormenta, dalla pioggia, dalla grandine. Ma quella notte la gente brava di
Council Bluffs ebbe la rivincita su quelli della ferrovia. Una folla raccoltasi
a Council Bluffs traversò il fiume, raggiunse Omaha, dove si aggregò
un'altra folla, per un'incursione sui depositi della Union Pacific. Prima
catturarono una locomotiva, poi misero insieme un treno, e poi le due folle
riunite ci salirono sopra, traversarono il Missouri e irruppero su Rock Island
per consegnarci il treno. Quelli delle ferrovie tentarono di sventare questo
piano, ma non ci riuscirono, con terrore mortale del caposezione, e di un
altro funzionario di Weston. I due, sotto ordine telegrafico segreto,
cercarono di far naufragare il treno dei nostri simpatizzanti interrompendo il
binario. Ma ormai noi ci eravamo fatti sospettosi, e avevamo le nostre brave
pattuglie in esplorazione. Colto in flagrante nel suo tentativo di far
naufragare il treno, e circondato da venti vagabondi infuriati, il caposezione
col suo assistente si preparavano ad affrontare la morte. Non rammento che
cosa fosse a salvarli, a meno che non si trattasse dell'arrivo del treno.
Ma l'avremmo scontata anche noi, e duramente. Nella fretta, quelle due
folle di simpatizzanti avevano trascurato di formare un treno
sufficientemente lungo. Non c'era posto bastante per far salire duemila
vagabondi. Allora vagabondi e simpatizzanti decisero di far festa,
fraternizzarono, cantarono, e si divisero, quelli del posto per ritornare al
treno che avevano catturato a Omaha, i vagabondi a piedi, la mattina dopo,
per una marcia di centoquaranta miglia fino a Des Moines. Solo dopo
passato il Missouri l'esercito del generale Kelly cominciò a marciare, e non
salì mai più a bordo di un treno. Era costato alle ferrovie montagne di
quattrini, ma aveva agito per ragioni di principio, spuntandola.
Underwood, Leola, Menden, Avoca, Walnut, Marno, Atlantic, Wyoto,
Anita, Adair, Adam, Casey, Stuart, Dexter, Carlham, De Soto, Van Meter,
Booneville, Commerce, Valley Junction - come mi tornano alla mente i
nomi delle città quando consulto la carta e ricostruisco il nostro cammino
nella lontana campagna dello Iowa! E gli ospitali contadini di quello Stato!
Uscirono coi carri per portare il nostro bagaglio, ci davano un pasto caldo a
mezzogiorno, lungo il cammino; sindaci di graziose cittadine facevano
discorsi di benvenuto e ci spingevano a proseguire; deputazioni di fanciulle
e ragazze uscivano incontro a noi, e i buoni cittadini si facevano vivi a
centinaia, ci prendevano a braccetto e marciavano insieme a noi per la
strada principale. Era giornata di circo quando arrivavamo in città, ma era
sempre giornata di circo, perché le città erano parecchie.
A sera il nostro campo era invaso da intere popolazioni. Ogni compagnia
aveva il suo falò e attorno a ogni falò ci si dava da fare. I cuochi della mia
compagnia, la compagnia L , erano artisti della danza e del canto, e ci
offrivano la parte maggiore del nostro spasso. In un'altra parte del campo
agiva un gruppo canoro, e una delle voci più belle apparteneva al
«Dentista» dato in prestito dalla compagnia L, e noi ne eravamo molto fieri.
Costui, inoltre, levava i denti a tutto l'esercito, e siccome le estrazioni
avvenivano di solito all'ora dei pasti, le nostre digestioni erano stimolate
dalla varietà dell'incidente. Il Dentista non aveva anestetico, ma fra di noi ce
n'erano sempre due o tre pronti a offrirsi volontari, per reggere fermo il
paziente. Oltre ai vari trattenimenti delle compagnie e al gruppo canoro, di
solito si tenevano le funzioni religiose, e di continuo si ascoltavano discorsi
politici. Tutte queste cose succedevano contemporaneamente, era una festa
continua e scatenata. Infatti in mezzo a duemila vagabondi si può trovare
parecchio talento. Rammento che avevamo una buona squadra di baseball e
la domenica, per tenerci in esercizio, si battevano le squadre locali. A volte
anche due volte ogni domenica.
Lo scorso anno, durante un giro di conferenze, a bordo di un pullman (ma
di quelli veri) entrai a Des Moines. Nei sobborghi della città avevo visto le
fornaci e avevo sentito qualcosa al cuore. Proprio lì, alle fornaci, una decina
d'anni prima, l'esercito si era lasciato andare per terra, giurando
solennemente che i piedi dolevano e che non si marciava più. Prendemmo
possesso della fornace e dicemmo a Des Moines che eravamo venuti per
restare - che eravamo decisi a non andarcene più. Des Moines era ospitale,
ma questo era veramente troppo. Basta un breve calcolo mentale. Duemila
vagabondi, che mangino tre robusti pasti, fanno seimila pasti al giorno,
quarantaduemila pasti alla settimana, centosessantottomila pasti nel mese
più corto che abbia il calendario. Non era roba da poco. Non avevamo soldi.
A Des Moines la decisione.
Des Moines era disperata. Eravamo accampati, si facevano discorsi
politici, concerti di musica sacra, si cavavano denti, si giocava a baseball e a
sette e mezzo, si consumavano i nostri seimila pasti quotidiani, e pagava
Des Moines. Des Moines andò a lagnarsi con le ferrovie, ma quelli duri;
dissero che non ci facevano salire sui treni, e basta. Permetterci di salire
significava stabilire un precedente, e non dovevano esserci precedenti. E noi
si continuava a mangiare. Questo il fattore terrorizzante della situazione.
Eravamo diretti a Washington e Des Moines avrebbe dovuto vuotare le
casse comunali per pagarci il biglietto, anche con lo sconto, e d'altra parte se
fossimo rimasti ancora, le casse comunali avrebbero dovuto vuotarle lo
stesso, per farci mangiare.
Il problema fu risolto da un genio locale. Non volevamo andare a piedi.
Benissimo. Saremmo andati con un mezzo. Da Des Moines a Keokuk sul
Mississippi scorre il Fiume Des Moines. Un tratto lungo trecento miglia.
Potevamo passare di lì, e una volta provvisti di materiale natante, potevamo
percorrere il Mississippi fin nell'Ohio, poi prendere l'Ohio per poi
raggiungere Washington.
Des Moines aprì una sottoscrizione. Cittadini provvisti di senso civico
diedero diverse migliaia di dollari. Legname, funi, chiodi, cotone per
stoppare arrivarono in grandi quantità, e sulle rive del Des Moines
s'inaugurò un'era terribile, quella delle costruzioni navali. Ora, il Des
Moines è un misero corso d'acqua, cui è stato indebitamente concesso il
titolo di fiume. Nella nostra vasta terra occidentale noi lo chiameremmo
ruscello. Gli abitanti più anziani crollavano il capo e dicevano che non ce
l'avremmo fatta, non c'era acqua per galleggiarci. A Des Moines non
importava, pur di sbarazzarsi di noi, e non importava nulla neanche a noi,
che eravamo ottimisti e ben nutriti.
Mercoledì 9 maggio 1894, partimmo e cominciò una colossale merenda.
Des Moines se l'era cavata a buon mercato, e certamente deve una statua
bronzea al genio locale che la tolse dai pasticci. Vero, Des Moines dovette
pagare le nostre barche; avevamo mangiato sessantamila pasti, lì alle
fornaci; e ci portavamo dietro altri dodicimila pasti, come precauzione
contro la carestia nei posti selvaggi; ma pensate che cosa sarebbe successo
se fossimo rimasti a Des Moines undici mesi invece che undici giorni. E
poi, nel partire, promettemmo a Des Moines che saremmo ritornati, nel caso
che fosse impossibile stare a galla sul fiume.
Andava benissimo avere con noi quei dodicimila pasti, in consegna
all'intendente, e chi stava con lui li trovò squisiti; poi all'improvviso
l'intendente sparì e la mia barca, fra le altre, non lo rivide mai più. La
formazione di compagnia andò disfatta senza speranza durante il viaggio
fluviale. In ogni accampamento di uomini si troverà sempre una certa
percentuale di pelandroni, di incapaci, di gente ordinaria e di gente attiva.
Sulla mia barca c'erano dieci uomini, ed erano il fior fiore della compagnia
L. Ogni uomo si dava da fare. Per due motivi io facevo parte di questo
gruppo. Prima di tutto perché ero di quelli che si danno da fare e non
battono la fiacca, e poi perché ero Jack detto «il Marinaio». Mi intendevo di
barche e di navigazione. Noi dieci ci scordammo gli altri quaranta della
compagnia L, e al primo pasto saltato ci scordammo anche dell'intendente
scomparso. Eravamo indipendenti. Percorrevamo il fiume con mezzi nostri,
rimediando da mangiare, battendo tutte le altre barche della flotta, e, ahimè
debbo dirlo, qualche volta appropriandoci delle riserve che i contadini
avevan messo da parte per l'esercito.
Per buona. parte di quelle trecento miglia fummo sempre d'una mezza
giornata, o di una giornata intera, in vantaggio sull'Esercito. Eravamo
riusciti a procurarci diverse bandiere americane. Quando ci si avvicinava a
una cittadina, e quando si vedeva sulla riva un gruppo di contadini, si
levavano in alto le bandiere, ci battezzavamo «barca di avanguardia»,
chiedevamo dove fossero le provviste raccolte per l'Esercito.
Rappresentavamo l'Esercito, naturalmente, e ci facevamo consegnare le
provviste. Ma non c'era in noi nulla di meschino. Non prendevamo mai più
di quanto ci occorresse, però di tutto prendevamo il meglio. Per esempio, se
un contadino filantropo aveva regalato parecchi dollari di tabacco lo
prendevamo. Prendevamo anche burro e zucchero, caffè e cibi in scatola;
ma quando le provviste consistevano di sacchi di fagioli e farina o di due,
tre manzi macellati, ce ne astenevamo risolutamente e si tirava innanzi,
lasciando la disposizione di consegnare tali provviste alle barche
dell'intendenza, che avevano il compito di seguirci.
Fra tutti e dieci si campava della ricchezza della terra. Per molto tempo il
generale Kelly tentò invano di raggiungerci. Mandò due rematori su una
barca leggera, a fondo piatto, per fermarci e porre fine alla nostra carriera di
pirati. Ci raggiunsero, sì, ma erano due e noi eravamo dieci. Il generale
Kelly aveva dato loro l'autorità di farci prigionieri, e così ci dissero. Quando
noi esprimemmo la nostra poca disposizione a darci prigionieri, quelli
corsero alla prossima città per invocare l'aiuto delle autorità. Noi
scendemmo immediatamente a terra e cucinammo la cena prima del tempo;
e sotto il manto delle tenebre aggirammo città e autorità.
Di parte del viaggio tenni un diario, e rileggendolo adesso noto una frase
che ricorre continuamente, e cioè «bella vita». Facevamo una bella vita.
Disdegnavamo finanche il caffè bollito nell'acqua. Lo facevamo con il latte,
e questa meravigliosa bevanda la chiamavo, rammento, «Vienna pallida».
Mentre noi eravamo in testa a scremare il meglio, e l'intendente indietro,
lontanissimo il grosso dell'Esercito, che stava nel mezzo, pativa la fame. Per
l'Esercito era dura, lo ammetto, ma noialtri dieci eravamo individualisti.
Avevamo iniziativa, intrapresa. E credevamo ardentemente che il cibo
toccasse a chi arriva primo, al più forte. Per un tratto l'Esercito rimase
quarantotto ore senza mangiare; e poi giunse a un villaggio di un trecento
abitanti, del quale non ricordo il nome, ma mi sembra che fosse Red Rock.
Questo villaggio, come ogni centro abitato che noi traversavamo, aveva
nominato un comitato di salute pubblica. Contando cinque persone per
famiglia i focolari accesi a Red Rock erano sessanta. Il comitato di salute
pubblica ebbe una paura folle allo irrompere di duemila vagabondi affamati,
che ormeggiarono le barche in due, tre file, lungo la riva del fiume. Il
generale Kelly era uomo giusto. Non aveva alcuna intenzione di esercitare
modi rudi sul villaggio. Non pretendeva che sessanta famiglie potessero
fornire duemila pasti. E poi l'Esercito aveva la sua cassa del tesoro.
Ma il comitato di salute pubblica perse la testa. «Nessun incoraggiamento
all'invasore» fu il suo programma, e quando il generale Kelly chiese di
comprare del cibo, gli fu rifiutato. Non avevano nulla da vendere, e il
danaro del generale Kelly non era buono in quel borgo. Allora il generale
Kelly passò all'azione. Squillarono le trombe. L'Esercito lasciò le barche e
in cima alla riva si dispose in formazione di combattimento. Il comitato era
lì, a vedere. Il discorso del generale Kelly fu breve. Disse:
«Ragazzi, da quand'è che non mangiate?»
«Dall'altro ieri», gridarono tutti.
«Avete fame?»
Una possente affermazione di duemila bocche squassò l'atmosfera. Allora
il generale Kelly si rivolse al comitato di salute pubblica:
«Signori, voi vedete la situazione. Da quarantotto ore i miei uomini non
mangiano nulla. Se li lascio scatenare sulla vostra città, non sarò
responsabile di quel che succede. Sono disperati. Mi sono offerto di
comprar da mangiare, ma voi non volete vendere. Adesso ritiro l'offerta e
chiedo. Vi do cinque minuti per decidere. O mi macellate sei manzi o io
scateno i miei uomini. Signori, cinque minuti».
L'atterrito comitato di salute pubblica guardò i duemila vagabondi
affamati e crollò. Neanche attese lo scorrere dei cinque minuti. Non voleva
correre rischi. La macellazione dei manzi cominciò subito, e anche la
raccolta delle provviste, e l'Esercito mangiò.
Eppure i dieci sgarbati individualisti continuavano a stare in testa e a
prendere tutto quel che capitava. Ma stavolta il generale Kelly ci bloccò.
Mandò uomini a cavallo lungo le due rive, mettendo in guardia contro di noi
contadini e abitanti delle città. Fecero molto bene questo lavoro. I contadini
sinora ospitali ci fecero un'accoglienza di gelo. Non solo, chiamavano gli
sceriffi quando noi si ormeggiava a riva, e scioglievano i cani. Lo so ben io:
due cani mi presero, con il filo spinato fra me e il muro. Stavo portando due
secchi di latte per fare il caffè alla nostra maniera. Però non feci danno al
filo spinato. Solamente, il caffè dovetti farmelo alla plebea, con l'acqua, e
dovetti anche darmi da fare per procurarmi un altro paio di pantaloni. Mi
chiedo, gentile lettore, se tu hai mai provato a saltare del filo spinato
tenendo un secchio di latte per mano. Dopo di allora ho sempre nutrito un
pregiudizio contro il filo spinato, e ho raccolto dati statistici sull'argomento.
Non potendo più condurre una vita decente fino a che il generale Kelly
tenesse due uomini a cavallo innanzi a noi, rientrammo nell'Esercito per
suscitarvi la rivoluzione. Fu cosa da poco, ma bastò a devastare la
compagnia L della Seconda Divisione. Il capitano della compagnia L si
rifiutò di riconoscerci; disse che eravamo disertori, traditori e birbanti; e
quando ebbe dall'intendenza le razioni a secco della compagnia L, non ce ne
fece parte. Quel capitano non ci voleva bene, altrimenti non ci avrebbe
rifiutato il cibo. Subito facemmo lega con il primo tenente. Venne con noi
portando dieci uomini e la sua barca e noi in cambio lo eleggemmo
capitano, della compagnia M. Il capitano della compagnia L fece un gran
baccano. Ci furono addosso il generale Kelly, il colonnello Speed e il
colonnello Baker. Ma noi resistemmo, in venti, e la nostra rivoluzione fu
ratificata.
Ma non ci curammo mai dell'intendenza. Eran migliori le razioni che i
nostri ragazzi in gamba si procuravano dai contadini. Ma il nuovo capitano
dubitava di noi. Aveva paura di perderci una volta partiti, quella mattina, e
per questo convocò un fabbro che ribadisse la sua qualità di capitano. A
prua della nostra barca, dall'una e dall'altra parte, furono saldati due pesanti
anelli di ferro, e sulla barca del capitano furono messi due grossi ganci,
sempre di ferro. Poi le due barche furono accostate, i ganci inseriti negli
anelli ed eccoci ben saldati. Non si poteva più perdere quel capitano. Ma
noialtri eravamo irreprimibili. Con le nostre stesse pastoie creammo un
artificio che ci consentì d'impastoiare ogni altra barca della flotta.
Come tutte le grandi invenzioni, anche questa nostra fu accidentale. Lo
scoprimmo urtando in un ostacolo lungo un tratto di rapida. La barca di
testa rimase incastrata e si fermò, e la barca di coda girò nella corrente,
facendo perno sulla barca di testa. Io stavo a prua della barca di coda e
tenevo il timone. Invano tentai di tenermi al largo. Allora ordinai agli
uomini della barca di testa di passare nell'altra. Subito la barca di testa si
liberò dall'incaglio e gli uomini ci tornarono a bordo. Dopo di allora ogni
tipo di ostacolo non ci fece più paura. Non appena la barca di testa urtava,
gli uomini saltavano sulla barca di coda. Naturalmente la barca di testa
superava l'ostruzione, e la barca di coda a sua volta ci andava a sbattere.
Come automi, i venti uomini dalla barca di coda saltavano su quella di testa
e toccava alla barca di coda superare a sua volta l'ostacolo.
Le barche usate dall'Esercito erano tutte eguali, basse, tozze, piatte,
rettangolari, larghe sei piedi, profonde un piede e mezzo. Così, una volta
agganciate le nostre due barche, io me ne stavo a prua a pilotare
un'imbarcazione lunga venti piedi che conteneva venti robusti vagabondi
intenti al remo e alla pagaia, carichi di coperte, attrezzi da cucina e la nostra
intendenza privata.
Ma demmo altri guai al generale Kelly. Aveva ritirato gli uomini a
cavallo e aveva messo al loro posto tre barche poliziotte che viaggiavano in
avanguardia e non consentivano a nessuno di superarle. L'imbarcazione che
conteneva la compagnia M dava parecchio filo da torcere alle barche
poliziotte. Avremmo potuto superarle facilmente ma era contro le regole.
Per questo ci tenevamo a rispettosa distanza e si aspettava. Sapevamo che
dinanzi a noi c'era campagna vergine, generosa non ancora sfruttata;
aspettavamo. Ci serviva acqua mossa, e girando un'ansa o incontrando una
rapida sapevamo di già quel che sarebbe successo. Tonfa! La barca
poliziotta numero uno va su un masso e si blocca. Bum! La poliziotta
numero due segue l'esempio. Tum! La numero tre segue il destino comune.
Naturalmente la stessa cosa succede alla nostra barca, ma in un batter
d'occhio gli uomini della barca di testa sono sulla barca di coda; in un batter
d'occhio gli uomini della barca di. coda ritornano al posto loro e si fila via.
«Fermatevi, accidenti a voi!» gridano le barche poliziotte. «E come
possiamo, accidenti al fiume!» lamentiamo noi superandole, trascinati
dall'indomabile corrente che ci spazza via fuori di vista verso l'ospitale
campagna che rifornisce la nostra intendenza privata con il fior fiore dei
suoi doni. Ricominciamo a bere il caffè cotto nel latte e a capire che il cibo
tocca a chi se lo procura.
Povero generale Kelly! Ricorse a un altro accorgimento. Tutta quanta la
flotta ci passò avanti. La compagnia M della Seconda Divisione partì dal
posto che le spettava nella fila, cioè ultima. E bastò un giorno a ristabilire
questo ordine barchereccio, innanzi a noi, venticinque miglia di acqua
cattiva - tutta rapide, secche, ostacoli e macigni. Proprio per via di questo
tratto d'acqua gli anziani di Des Moines crollavano il capo. Quasi duecento
barche affrontarono quell'acqua innanzi a noi, e si ammucchiarono nella
maniera più sbalorditiva. Noi traversammo quella flotta bloccata come una
salamandra nel fuoco. Non c'era modo di evitare macigni, secche e ostacoli,
tranne che scendendo a riva. Noi non li evitammo. Ci andammo sopra, uno,
due, uno, due, barca di testa, barca di coda, avanti e indietro tutta la ciurma.
Quella notte ci accampammo soli e riposammo al campo tutto il giorno
dopo, mentre l'Esercito rattoppava le sue navi scassate e faticava a
raggiungerci.
Non c'era modo di fermare la nostra malizia. Issammo un albero,
levammo una vela, cioè una coperta, e ci bastavano poche ore di viaggio per
stare in testa, mentre l'Esercito doveva sgobbare oltre l'orario per non
perderci di vista. Il generale Kelly dovette fare ricorso alla diplomazia.
Nessuna barca doveva più toccarci. Senza discussione, eravamo la ciurma
più scatenata che avesse mai navigato sul Des Moines. Fu levato il bando
delle barche poliziotte. Venne a bordo il colonnello Speed, e con questo
distinto ufficiale avemmo l'onore di arrivare prima a Keokuk sul
Mississippi. E voglio dire subito una cosa, al generale Kelly e al colonnello
Speed: eravate eroi, tutti e due, ed eravate uomini e mi dispiace, almeno al
dieci per cento, del fastidio che vi diede la barca di testa della compagnia
M.
A Keokuk tutta quanta la flotta fu legata assieme a formare un enorme
galleggiante, e dopo un giorno con il vento a spingerci, ci prese a rimorchio
un vapore e ci portò lungo il Mississippi fino a Quincy, Illinois, dove ci
accampammo sull'altra riva del fiume, all'Isola dell'Oca. Qui fu abbandonata
l'idea del galleggiante unico, le barche furono unite a gruppi di quattro, e
collegate da tavole. Qualcuno mi aveva detto che, fra le città della sua
grandezza, Quincy era la più ricca degli Stati Uniti. A sentire questo, mi
venne un impulso irresistibile a profittarne. Un vagabondo come si deve non
poteva ignorare un borgo così promettente. Traversai il fiume su una piroga,
ma ritornai da Quincy su una grossa barca fluviale, carica dei risultati della
mia intraprendenza. Naturalmente mi tenni tutto il danaro che avevo
raccolto pur pagando il nolo della barca; feci anche la mia prima scelta in
fatto di biancheria, calze, abiti usati, camicie, eccetera; e quando la
compagnia M ebbe preso tutto quel che voleva, avanzava ancora un
rispettabile mucchio che fu assegnato alla compagnia L. Ahimè, ero giovane
e prodigo a quei tempi! Raccontai un mucchio di «storie» alla brava gente
di Quincy, e ogni storia era «buona»; ma da quando scrivo sulle riviste,
rimpiango la ricchezza di queste storie, la fecondità d'invenzione che ho
sperperato in quei giorni a Quincy, Illinois.
Fu a Hannibal, Missouri, che i dieci invincibili si sfasciarono. Non era nel
programma. Insieme a un altro me ne andai di soppiatto. Lo stesso giorno
Scotty e Davy guadagnarono in tutta fretta la sponda dell'Illinois; riuscirono
ad andarsene anche McAvoy e Fish. Sono sei su dieci; quel che successe ai
restanti quattro, non lo so. Come campione di vita sulla Strada, ecco una
citazione dal diario dei giorni successivi alla mia diserzione.
«Venerdì 25 maggio. Lasciato con un compagno l'accampamento
sull'isola. Scesi sulla sponda dell'Illinois e percorsi a piedi sei miglia fino a
Fell Creek. Sei miglia fuori strada, poi trovato un carretto e su quello a
Hull's, sullo Wabash. Incontrati McAvoy, Fish, Scotty e Davy, anche loro
venuti via dall'Esercito.
«Sabato, 26 maggio. Alle 2,11 antimeridiane preso il rapido che
rallentava a un incrocio. Scotty e Davy rimasti a terra. Noi quattro scesi a
Bluffs., quaranta miglia più avanti. Nel pomeriggio, mentre stavo
mangiando, Fish e McAvoy saliti su un merci.
«Domenica 27 maggio, Alle 3,21 preso il rapido e trovato a bordo Scotty
e Davy. All'alba scesi tutti a Jacksonville. Ci passa il treno, e intendiamo
prenderlo. Il mio compagno se ne va, e non ritorna. Immagino che abbia
preso il merci.
«Lunedì 28 maggio. Il compagno scomparso non si fa vivo. Scotty e
Davy andati da qualche parte a dormire, e non ritornano in tempo per
prendere il passeggeri delle 3,30. Io lo prendo e vado fino a Masson City,
25000 abitanti. Preso un treno-bestiame e viaggiato tutta la notte.
«Martedì 29 maggio. Arrivato a Chicago alle 7 antimeridiane.. .».
Anni dopo, in Cina, ebbi il dolore di apprendere che il trucco da noi
escogitato per navigare sulle rapide del Des Moines - il sistema uno-due,
testa-coda - non era affatto originale. Appresi che da migliaia d'anni i
barcaioli di fiume cinesi ricorrevano allo stesso sistema nell'affrontare
«acque cattive». Fu però pur sempre una buona trovata, anche se non
fummo noi i primi a ricorrervi. Risponde alla prova della verità del dottor
Jordan: «Funzionerà? Ci affideresti la vita?»
FIGURE
"What do it matter where or 'ow we die,
So long as we've our ealth to watch it all?"
Sestina del "Tramp Royal"
[Che cosa importa come o dove si muore
finché c'è la salute che provvede?]
Il maggior fascino della vita d'un vagabondo sta forse nell'assenza di
monotonia. Nella terra del vagabondo il volto della vita è proteico - una
fantasmagoria che muta di continuo, dove accade l'impossibile, e l'inatteso
balza su dalla macchia a ogni svolta della strada. Il vagabondo non sa mai
quel che può succedere fra un istante: perciò vive solo nel presente. Ha
imparato quanto sia futile proporsi un fine, e sa la gioia del lasciarsi andare
ai capricci del Caso.
Spesso ripenso ai giorni del mio vagabondare e sempre mi stupisce la
rapida successione di immagini che mi balzano nella memoria. Non importa
da dove comincia il mio pensiero; ogni giorno, fra tutti i giorni, è un giorno
a parte, con una provvista tutta sua di figure in rapido movimento. Per
esempio, ricordo una mattinata estiva a Harrisburg, Pennsylvania, e subito
mi viene alla mente quel beneaugurante inizio della giornata, una seduta con
due anziane signorine, e non in cucina, ma nel tinello, con loro a tavola
accanto a me. Mangiammo uova, sull'apposito portauova! Non mi era mai
capitato prima, neanche avevo mai sentito parlarne. Da principio ero un po'
impacciato, lo confesso; ma avevo fame e non mi vergognavo. Riuscii a
dominare il portauovo, e anche le uova in una maniera che stupì un poco le
due signorine.
Perché le due signorine mangiarono come due canarini, un uovo per una
che mordevano a bocconcini e la stessa cosa facevano con la fettina di pane
tostato. Nei loro corpi scorreva lenta la vita, il sangue era sottile; e avevano
dormito al caldo, tutta la notte. Io invece avevo trascorso la notte fuori,
consumando molto combustibile del mio corpo per tenermi caldo,
andandomene da un posto chiamato Emporium, nella parte settentrionale
dello stato. Fettine di pane tostato! Ciascuna fettina per me era un boccone,
appena appena un morso. E' noioso dover tendere la mano per pigliare
un'altra fettina, quando sono tanto numerosi i bocconi che senti di poter
mandare giù.
Quando ero un ragazzo piccolo, avevo un cagnolino chiamato Punch. Gli
davo da mangiare io stesso. Qualcuno in casa aveva ucciso delle anatre e si
fece un bel pasto di carne. Finito di mangiare, preparai per Punch - un bel
piatto di ossa e di bocconcini. Uscii per darglielo. Ora volle il caso che fosse
venuto in visita un tale da una fattoria vicina e con lui era venuto un
Terranova così grosso che pareva un vitello. Posai il piatto per terra. Punch
scodinzolò e prese a mangiare. Aveva dinanzi a sé almeno una mezz'ora di
felicità. Ci fu un improvviso accorrere. Punch fu spazzato via come un
fuscello da un ciclone, e il Terranova piombò sul piatto. Nonostante il suo
stomaco enorme, dovevano averlo allenato a mangiare in fretta perché, in
quell'attimo prima di prendersi un calcio nelle costole che gli diedi io, fece
fuori l'intero contenuto del piatto. Ripulito, completamente. Un'ultima
linguata e persino il grasso scomparve.
Come questo Terranova si comportò al piatto del mio cagnolino Punch,
così io mi comportai alla tavola di quelle due signorine di Harrisburg. La
ripulii. Non ruppi nulla, ma spazzai via uova, pan tostato e caffè. La serva
ne portò ancora, ma io le diedi molto da fare, perché ne dovette portare di
nuovo, e poi dell'altro. Il caffè era molto delizioso, ma non avrebbero
dovuto servirlo in tazze così piccole. Che tempo avevo di mangiare se ci
voleva tanto a preparare tante tazzine di caffè?
In ogni modo diedi alla mia lingua il tempo per muoversi. Quelle due
signorine, con la loro carnagione bianca e rosea e i riccioli grigi, non
avevano mai guardato il viso lucido dell'avventura. Avevano trascorso
un'intera vita facendo sempre lo stesso turno, per dirla nel linguaggio di
noialtri vagabondi. Nel profumo dolciastro e negli angusti confini della loro
esistenza senza fatti, io recavo l'aria vasta del mondo, carica di odori forti,
di sudore, di lotta, di terre strane, lontane. E graffiavo le loro mani morbide
con calli delle mani mie, quel callo erto che viene dal maneggio della fune e
della pala. E questo io feci, non soltanto per una spacconeria di gioventù,
ma per provare, a lavoro compiuto, il diritto che avevo a ricevere la loro
carità.
Ah, mi par di rivederle quelle care, dolci signorine, con me seduto alla
loro tavola dodici anni or sono, a discorrere della mia posizione nel mondo,
a ignorare il loro gentile consiglio, come si conveniva a un tipo diabolico
quale ero io, a farle emozionare non soltanto con il racconto delle mie
avventure, m a anche con le avventure di tutti gli altri con cui mi ero trovato
spalla a spalla, e di cui avevo goduto la confidenza. Me l'ero fatte tutte mie,
le avventure degli altri, voglio dire; e se le due brave zitelle fossero state
meno fiduciose e sprovvedute, avrebbero potuto incastrarmi benissimo nella
mia cronologia. Bene, bene e allora? Era un giusto baratto. Io rendevo a
prezzo pieno le molte tazzine di caffè, e le uova e il pan tostato. Offrivo loro
uno spasso degno d'una regina. Il semplice fatto di avermi seduto alla loro
tavola era un'avventura, e un'avventura non ha prezzo, in ogni caso.
Dopo aver lasciato le due zitelle, mentre percorrevo la strada, presi il
giornale da sopra la soglia di qualcuno che si alzava tardi, e in un parco
erboso mi distesi per entrare in contatto con le ultime ventiquattro ore del
mondo. E proprio nel parco conobbi un altro vagabondo che mi raccontò la
storia della sua vita e cercò di farmi arruolare nell'Esercito degli Stati Uniti.
Lui aveva ceduto all'ufficiale addetto al reclutamento e stava per entrare
nell'Esercito, e non capiva perché non potessi fare anch'io la stessa cosa.
Aveva fatto parte dell'Esercito di Coxey nella marcia su Washington di
diversi mesi prima, e questo sembrava aver fatto sorgere in lui il gusto della
vita militare. Anch'io ero un veterano: non ero forse stato soldato semplice
alla compagnia L della Seconda Divisione dell'Esercito Industriale di Kelly?
La suddetta compagnia era comunemente nota sotto il nome di «Spinta del
Nevada». Ma l'esperienza militare aveva avuto su di me l'effetto opposto;
perciò lasciai che quel vagabondo se ne andasse per i fatti suoi, mentre io
cercavo di procurarmi da cenare.
Fatto questo, mi accinsi a superare il ponte sul Susquehanna, verso la riva
occidentale. Ho dimenticato il nome della ferrovia che correva su quella
riva, ma una mattina che me ne stavo disteso sull'erba mi venne l'idea di
andare a Baltimore; dunque a Baltimore stavo andando su quella ferrovia,
comunque si chiamasse. Era un pomeriggio caldo, e proprio sul ponte vidi
diverse persone che si buttavano in acqua dai piloni, per nuotare. Giù i
panni e dentro anch'io. L'acqua era bellissima; ma quando uscii per
rivestirmi mi accorsi che mi avevano derubato. Qualcuno mi aveva
ripassato i panni. Ora ditemi voi se essere derubato è un'avventura. Ho
conosciuto uomini che, derubati, han continuato a parlarne per tutta la vita.
Certo, il ladro che mi ripassò i panni non ne ricavò molto - trenta o quaranta
centesimi in spiccioli, il tabacco e le cartine per le sigarette; ma io non
avevo altro, cioè il ladro mi aveva tolto più di quanto si possa rubare alla
maggioranza degli uomini, perché gli uomini, gli altri, hanno sempre
qualcosa d'avanzo a casa, mentre io non avevo neanche una casa. Era una
banda piuttosto dura quella intenta al nuoto. Mi feci coraggio, e mi guardai
bene dal lamentarmi. Chiesi da fumare, e giuro che era delle mie la cartina
in cui arrotolai il tabacco.
Traversato il ponte fui sulla riva occidentale, dove correva la ferrovia che
intendevo prendere. Non c'era stazione in vista. Come prendere un merci
senza prima raggiungere una stazione, ecco il problema. Notai che la
ferrovia s'impennava in salita, e sapevo che un merci non poteva affrontarla
a grande velocità. Ma a quale velocità? Sul lato opposto della ferrovia
sorgeva un alto argine. Proprio in cima, vidi sporgere la testa di un uomo.
Forse lui sapeva a che velocità i treni affrontavano la salita, e quando
sarebbe passato il prossimo diretto al sud. Gli gridai le mie domande e lui
mi fece cenno di salire.
Obbedii, e quando fui in cima, trovai quattro altri uomini distesi nell'erba
con lui. Studiai la scena e capii quello che erano: zingari americani. Nello
spiazzo che si stendeva fra gli alberi, oltre il bordo dell'argine, vi erano
diversi carri assortiti. Brulicavano nell'accampamento bambini laceri e
seminudi, ma io notai che stavano ben attenti a non avvicinarsi e a non
infastidire gli uomini. Diverse donne scarne, brutte, disfatte dal lavoro
trafficavano nelle faccende del campo e notai una che se ne stava sola sul
sedile d'uno dei carri, la testa piegata in avanti, le ginocchia contratte verso
il mento, tenute fiaccamente fra le braccia. Non aveva un'aria felice.
Sembrava anzi che non le importasse di nulla, e in questo mi sbagliavo,
perché seppi poi che di una cosa le importava. Nel suo viso si leggeva la
misura piena della sofferenza umana e c'era in più l'espressione tragica
dell'incapacità di soffrire ancora. Niente poteva più ferirla, questa sembrava
dire il suo viso; ma anche in questo mi sbagliavo.
Giacevo sull'erba, in cima all'argine e parlavo con questi uomini. Erano
parenti, fratelli. Io ero un vagabondo americano, ed essi erano zingari
americani. Conoscevo il loro gergo quanto bastava per conversare, ed essi
conoscevano il gergo mio. Nel loro gruppo c'erano altri due uomini, al di là
del fiume, a dar spettacolo di sé come fachiri iteranti. Chi fa questo
mestiere, in gergo si chiama «musher»; ma non bisogna confondere questo
«musher» zingaro con il «musher» del Klondike, anche se all'origine la
parola è forse la stessa, una corruzione del francese "marcher", che significa
appunto marciare, camminare, iterare. Il particolare mestiere di quei due
«musher» di là dal fiume era la riparazione degli ombrelli; ma non mi fu
detto quale altra abilità si nascondesse dietro questo mestiere ufficiale, e
non sarebbe stato corretto chiedere di più.
Era una splendida giornata. Non spirava un alito di vento, e noi ci
godevamo il calore vibrante del sole. Da ogni parte sorgeva il sonnolento
ronzio degli insetti, e l'aria balsamica era piena degli odori della dolce terra
e delle creature verdi che crescevano. Eravamo troppo impigriti per fare
altro che conversare ininterrottamente, a voce bassa. E poi, all'improvviso,
la pace e il silenzio furono stravolti dall'uomo.
Due ragazzini di otto o nove anni, scalzi, eran venuti meno a qualche
regola del campo - che cosa fosse non so; e un uomo disteso accanto a me si
levò a sedere all'improvviso e li chiamò. Era il capo della tribù, un uomo
dalla fronte stretta, gli occhi a mandorla, le labbra sottili, i tratti del viso
contorti e sardonici, i quali spiegavano perché al suono della sua voce i due
ragazzi presero a saltare, tesi come un cervo impaurito. Si leggeva loro in
viso la paura allarmata e terrorizzati si volsero per scappare. Gridò loro di
tornare indietro, e un ragazzo ubbidì, riluttante, il corpo scarno che pareva
voler rappresentare la sua lotta interiore fra paura e ragione. Voleva
ritornare. L'intelligenza e l'esperienza passata gli dicevano che tornare
indietro era minor male che fuggire; ma per quanto il male fosse minore, era
pur sempre tale da mettere le ali alla sua paura e da spingere i suoi piedi alla
fuga.
Indugiava, si dibatteva fino a che non fu giunto al riparo dagli alberi. Lì si
fermò. Il capo della tribù non gli andò dietro. Saltò sopra un carro e prese
una frusta pesante. Poi ritornò al centro dello spiazzo e ci rimase immobile.
Non parlava. Non faceva gesti. Era la Legge, spietata e onnipotente. Si
limitava a stare lì in piedi, aspettando. E io sapevo, lo sapevano tutti, che i
due ragazzi al riparo degli alberi erano consapevoli di che cosa egli
aspettasse.
Il ragazzo che prima indugiava ora lentamente si fece avanti. Gli si
leggeva in viso una vibrante risoluzione. Non vacillò. Aveva deciso di
ricevere il castigo. E badate bene, il castigo non era per l'infrazione
originaria, ma per essere fuggito. E in questo il capo della tribù si
comportava come si comporta l'esaltata società in cui egli vive. Noi
puniamo i nostri criminali, e quando scappano e fuggono via, andiamo a
riprenderli e il castigo aumenta.
Il ragazzo venne diritto incontro al capo, fermandosi alla distanza giusta
per la portata della frusta. La frusta sibilò nell'aria e io rimasi sorpreso per la
gravità del colpo. La carne si fece bianca dove il flagello aveva morso, e
poi, al posto del bianco ecco il lividore da cui gocciava sangue scarlatto
dove la pelle si era rotta. Di nuovo si levò la frusta e l'intero corpo del
ragazzo ebbe un tremito nell'attesa del colpo, anche se egli non si mosse da
dov'era. La sua volontà reggeva bene. Sorse un secondo livido, poi un terzo.
Solo al quarto colpo il ragazzo strillò. E non riusciva più a stare immobile, e
da quel momento, colpo dopo colpo, saltava strillando; ma non fece alcun
tentativo di fuggire. Se quell'involontario saltellio lo metteva fuori della
portata della frusta, lui badava bene a rientrarci. E quando fu tutto finito una dozzina di colpi - se ne andò, gemendo e frignando, fra i carri.
Il capo restò immobile, in attesa. Uscì da sotto gli alberi il secondo
ragazzo. Ma questo non venne avanti diritto. Venne come un cane umiliato,
ossesso da una paura che gli fece azzardare qualche passo di fuga. Ma
ritornò, avvicinandosi sempre di più all'uomo, gemendo, emettendo versi
con la gola, versi animaleschi, inarticolati. Mi accorsi che non guardava mai
l'uomo. Teneva gli occhi sempre fissi sulla frusta, e in quegli occhi c'era un
terrore che mi faceva star male - il terrore folle di un ragazzo trattato
incredibilmente male. Ho visto uomini forti crollare di qua e di là fuor della
battaglia e agitarsi nei rantoli della morte, li ho visti a decine squassati per
aria dalle granate esplosive, e, i loro corpi squarciati; credetemi, quello
spettacolo era allegro, da ridere e da cantare, in confronto al modo in cui mi
colpì la vista di quel povero bambino.
Cominciò la fustigazione. Confrontata a questa, la fustigazione del primo
ragazzo era stata uno scherzo. Subito il sangue cominciò a ruscellargli giù
per le gambe sottili. Saltava e si contraeva fino a sembrare una sorta di
grottesca marionetta azionata dai fili. Dico «sembrare» perché gli urli
smentivano quest'apparenza e riportavano alla realtà. I suoi urli erano
striduli, laceranti; mai una nota rauca, solo la sottile asessualità che ha la
voce di un bimbo. Venne il momento che il poveretto non ne poté più. Perse
la ragione e tentò di fuggire. Ma stavolta l'uomo gli andò dietro a
riprenderlo, a riportarlo sullo spiazzo.
Poi ci fu un'interruzione. Sentii uno urlo strozzato, selvaggio. La donna
seduta sul carro era scesa e correva a interporsi. Balzò fra l'uomo e il
ragazzo.
«Ne vuoi anche tu, vero?» disse l'uomo con la frusta. «Va bene, allora».
Vibrò la frusta contro di lei. Siccome aveva la gonna lunga, non tentò di
colpirla alle gambe. Le diede il flagello sul viso, che lei cercava di riparare
come meglio poteva, con le mani e con gli avambracci, ritraendo la testa fra
le spalle scarne, e sulle spalle riceveva i colpi. Madre eroica! Sapeva quel
che stava facendo. Il ragazzo, che continuava a strillare, fuggiva adesso
verso i carri.
E mentre questo accadeva i quattro uomini giacevano accanto a me senza
muovere un dito. E neanch'io mi mossi, e lo dico senza vergogna, anche se
la mia ragione era costretta a combattere duramente contro l'impulso
naturale a levarmi per intervenire. Conoscevo la vita. Quale vantaggio per la
donna, o per me, lasciarmi pestare a morte da cinque uomini lì sulla riva del
Susquehanna? Una volta vidi impiccare un uomo e per quanto l'anima mia
urlasse la sua protesta, la mia bocca non gridava. Se lo avesse fatto, molto
probabilmente avrei avuto il cranio schiacciato dal calcio di una rivoltella,
perché era legge che quell'uomo venisse impiccato. E qui, in questo gruppo
di zingari, voleva la legge che quella donna venisse frustata.
Ma anche così il motivo per cui, nell'uno e nell'altro caso, io non
intervenni, non fu ciò che ho detto, e cioè che tanto voleva la legge. No, il
motivo vero fu che la legge era più forte di me. Se non fosse stato per quei
quattro uomini accanto a me sull'erba, molto volentieri sarei accorso contro
l'uomo con la frusta. E, se escludiamo la possibilità che mi si avventasse
contro una delle varie donne del campo, in mano un coltello o un bastone,
sono sicuro che lo avrei conciato a dovere, quell'uomo. Ma con quei quattro
stesi sull'erba, per me non c'era proprio nulla da fare. Erano loro a fare la
legge più forte di me.
Ah, credetemi, soffrii. Avevo già visto picchiare una donna, spesso, ma
non avevo mai assistito a uno strazio come questo. Sulle spalle il vestito era
ridotto in brandelli. Un colpo sfuggito alla sua guardia le aveva disegnato in
faccia un livido sanguinante, dal mento alla guancia. Non un colpo, non
due, non dieci, non venti, ma interminabili, infiniti i colpi di frusta
cadevano, s'attorcigliavano attorno a lei. Ero in un bagno di sudore,
ansimavo, con le mani stringevo l'erba così forte che la sradicai. E di
continuo la mia ragione continuava a sussurrare: «Pazzo! Pazzo!» Quel
livido in faccia quasi mi fece scattare. Accennai ad alzarmi in piedi, ma la
mano dell'uomo accanto a me mi si posò su una spalla e mi costrinse a star
giù..
«Calma, amico, calma» mi avvertì a bassa voce. Lo guardai. I suoi occhi
mi fissavano senza vacillare. Era un uomo grosso, largo di spalle e forte di
muscolatura; e il suo viso era pigro, flemmatico, indolente, ma anche
gentile, seppure senza passione, quasi senz'anima, un'anima fioca, senza
malizia, senza morale, bovina, ostinata. Era un animale, con appena un
bagliore d'intelligenza, un bruto bonario con la forza e il calibro mentale di
un gorilla. Premette leggermente la mano su di me e io sentivo il peso dei
suoi muscoli. Guardai gli altri bruti, due dei quali imperturbati, senza alcuna
curiosità, mentre il terzo si godeva lo spettacolo; allora mi ritornò la
ragione, i miei muscoli si rilassarono e mi lasciai di nuovo andare sull'erba.
Tornai con la mente alle due zitelle con cui avevo fatto colazione al
mattino. Meno di due miglia, il volo di un corvo, mi separavano da loro.
Qui, nella giornata senza vento, sotto il sole benefico, una sorella di quelle
due donne veniva percossa da un mio fratello. Ecco una pagina di vita che
quelle due donne non avrebbero mai visto, e meglio così; anche se, non
vedendo, mai avrebbero potuto sapere che cosa sia l'amore per una sorella,
mai avrebbero conosciuto di che argilla può essere fatta una donna. Perché
non è dato, a nessuna donna, di vivere in una casa angusta e profumata ed
essere al tempo stesso sorella di tutto il mondo.
La fustigazione era finita, e la donna, che non urlava più, tornò a sedersi
sul carro. Le altre donne non le si avvicinarono. Avevano paura. Ma
vennero più tardi, dopo che fu trascorso un giusto intervallo. L'uomo ripose
la frusta e tornò fra noi, buttandosi a terra vicino a me. La fatica gli dava un
respiro ansante. Con la manica della giubba si asciugò il sudore dagli occhi,
e mi guardò con aria di sfida. Ricambiai lo sguardo; quello che aveva fatto
non mi riguardava. Non me ne andai subito. Rimasi lì disteso per un'altra
mezz'ora: in tali circostanze così voleva l'etichetta, il tatto. Mi arrotolai una
sigaretta col tabacco che mi diedero loro, poi presi giù per l'argine della
ferrovia, fornito ormai delle informazioni necessarie per prendere il
prossimo merci diretto al sud.
Ebbene, che cosa? Una pagina di vita, ecco tutto; e ci sono molte pagine
peggiori, assai peggiori, che ho visto. Spesso ho sostenuto (con l'aria di
scherzare, credeva chi mi ascoltava) che il tratto principale che distingue
l'uomo dagli altri animali è questo: l'uomo è il solo a maltrattare le femmine
della sua specie. Ecco una cosa di cui mai si rende colpevole un lupo, o un
coyote. Neppure il cane, degenerato dall'essere addomesticato, fa una cosa
simile. In questo il cane conserva gli istinti selvatici, mentre l'uomo i suoi
istinti selvatici li ha in larga misura persi o, per lo meno, ha perso quelli
buoni.
Pagine peggiori, nella mia vita, di questa che ho descritto? Leggete i
rapporti sul lavoro infantile negli Stati Uniti - a est, a ovest, a nord, a sud,
dovunque - e saprete che tutti noi, profittatori come siamo, abbiamo
composto e scritto le peggiori pagine, molto peggiori che la fustigazione di
quella donna sul Susquehanna.
Andai avanti un cento passi, a un punto donde era più facile salire sul
treno. Lì avrei preso il merci nel momento in cui rallentava sulla salita, e qui
trovai una decina di vagabondi che intendevano fare la stessa cosa. Diversi
giocavano a sette e mezzo con un vecchio mazzo di carte. Ci partecipai
anch'io. Uno scozzava il mazzo. Un negro. Era grasso, giovane, con una
faccia di luna piena. Sorrideva bonario. Un sorriso che gli veniva spontaneo.
Dandomi la prima carta, si fermò un momento e disse:
«Senti, ma non t'ho già visto?»
«Certo», risposi. «E non avevi addosso quei panni lì».
Rimase perplesso.
«Ti rammenti di Buffalo?» chiesi.
Allora mi riconobbe, e ridendo mi salutò come un vecchio compagno;
infatti a Buffalo gli avevano messi i panni a strisce per un certo periodo nel
Penitenziario della contea di Erie. Per questo, anche a me era successo lo
stesso scherzo, per un po' di tempo.
Il gioco continuava e io seppi qual era la posta. Giù per riva, verso il
fiume, scendeva un sentiero stretto e ripido che portava a una sorgente. Noi
giocavamo sulla riva, chi perdeva doveva andare alla sorgente con un
barattolo di latte condensato, a prendere acqua per i vincitori.
Alla prima mano lo sconfitto fu il negro, quello che serviva. Prese il suo
barattolo e scese giù per la riva, mentre noi restammo lì a prenderlo in giro.
Bevemmo come pesci. Quattro viaggi dovette fare soltanto per me, e gli
altri esagerarono anche loro, con la sete. Il sentiero era molto ripido e
qualche volta il poveretto scivolò nel risalire, versando l'acqua, e dovette
tornare giù a prenderne ancora. Ma non si arrabbiò, anzi rideva di cuore,
come ridevamo noi; e proprio per questo scivolava tanto spesso. E poi ci
andava assicurando circa le immense quantità di acqua che avrebbe bevuto
quando toccasse di perdere a un altro.
Calmata la nostra sete, cominciò un'altra partita. Perse daccapo il negro, e
daccapo noi bevemmo a sazietà. La terza e la quarta partita finirono allo
stesso modo, e ogni volta il negro dalla faccia di luna piena quasi scoppiava
di gioia al pensiero della sorte che il Caso gli riserbava. E anche noi quasi
scoppiammo di gioia. Ridevamo come tanti ragazzi, come tanti dèi, lì sulla
riva del fiume. So di aver riso tanto che a un certo punto stava per
scoperchiarmisi la testa, e bevvi da quel barattolo fino a gonfiarmi la pancia
d'acqua. Poi sorse una discussione grave: su chi sarebbe riuscito a salire sul
merci, non appena rallentasse per via della salita, con il peso di tutta l'acqua
che avevamo in corpo. E questo particolare della situazione mise il negro
fuori combattimento. Per almeno cinque minuti dovette smetterla di portare
acqua, e si rotolava per terra dal gran ridere.
Sul fiume le ombre si facevano sempre più lunghe, venne il crepuscolo
morbido e fresco, e noi dagli a bere acqua, e il nostro coppiere color
dell'ebano continuava a portarcene. Già scordata la donna percossa di un'ora
fa. Quella era una pagina letta e voltata; adesso avevo da fare con questa
pagina nuova, e al fischio della locomotiva su per la salita, sarebbe finita
anche questa pagina, per fare posto a un'altra; e così va avanti il libro della
vita, pagina dopo pagina, pagine a non finire. Quando uno è giovane.
Poi facemmo un altro gioco, e stavolta il negro non perse. La vittima era
un vagabondo magro dall'aria dispeptica, quello che fra tutti aveva riso di
meno. Dicemmo che non volevamo più acqua, ed era poi la verità. Neanche
tutta la ricchezza di questo mondo, neanche un maglio pneumatico avrebbe
potuto costringerci a mandarne giù una goccia ancora. Ormai la mia
carcassa ne era satura. Il negro parve dispiaciuto, poi colse l'occasione e
disse che lui ne voleva. E diceva sul serio. Ne ebbe, poi ancora, poi ancora.
Anche il vagabondo malinconico andò su e giù per la riva, e ogni volta il
negro chiedeva altra acqua. Bevve più acqua lui di tutti gli altri messi
insieme. Il crepuscolo sfumava a poco a poco nella notte, e quello
continuava a bere. Credo che se non si fosse sentito il fischio della
locomotiva, sarebbe ancora lì a mandar giù acqua e a vendicarsi sul
malinconico vagabondo, su e giù per la riva.
Invece si udì il fischio. La pagina era chiusa. Balzammo in piedi e ci
disponemmo lungo il binario. Il merci arrivò tossendo e sputazzando su per
la salita, coi fari che trasformavano la notte in giorno e disegnavano nette le
nostre figure. Passò la locomotiva, e tutti noi correvamo insieme al treno,
alcuni montando sui predellini, altri balzando sui carri vuoti. Io montai su
un pianale mezzo carico di legname e mi trovai un angolino comodo.
Giacqui supino, con il giornale sotto la testa, come cuscino. Sopra di me le
stelle ammiccavano e ruotavano, a squadroni, avanti e indietro, ogni volta
che il treno prendeva una curva, e guardando le stelle m'addormentai. La
giornata era finita, una mia giornata fra tante giornate. Domani sarebbe stato
un altro giorno. E io ero giovane.
TORI
Se il vagabondo dovesse all'improvviso sparire dagli Stati Uniti, ne
seguirebbe diffusa miseria per molte famiglie. Il vagabondo infatti permette
a migliaia di uomini di guadagnarsi onestamente da vivere, di educare i
propri figli, di allevarli nel timore di Dio, nell'industriosità. Lo so. Un
tempo mio padre fu sceriffo e per vivere dava la caccia ai vagabondi. La
comunità gli pagava un tanto a testa per tutti i vagabondi che prendeva, e
credo anche che prendesse una certa somma per ogni miglio percorso. Modi
e mezzi erano sempre, in casa nostra, un problema pressante, e la quantità di
carne a tavola, il paio di scarpe nuove, la passeggiata quotidiana, il libro di
testo scolastico, tutto dipendeva dalla fortuna di mio padre, nella caccia. Io
rammento l'ansia repressa e l'attesa con cui ogni mattina desideravamo
sapere quali erano stati i risultati della fatica della scorsa notte - quanti
vagabondi aveva messo assieme e quante possibilità c'erano di farli
condannare. Fu proprio grazie a questo che in seguito, fattomi vagabondo
anch'io, riuscii a sfuggire a qualche sceriffo predace, e non riuscivo a non
provare tristezza per i ragazzi e le ragazze in casa di quello sceriffo; pareva
a me, in un certo senso, di aver defraudato questi piccoli di qualcuna fra le
cose buone della vita.
Ma è tutto nel gioco. Il vagabondo sfida la società e i cani da guardia
della società campano su di lui. A certi vagabondi piace farsi prendere dai
cani da guardia, specialmente d'inverno. Certo, i vagabondi si scelgono, per
ciò fare, una comunità dove le prigioni siano «buone», e cioè prigioni dove
non si lavori, e il rancio sia sostanzioso. Ci sono anche stati, e forse ci sono
ancora, tutori dell'ordine i quali dividono la taglia coi vagabondi che hanno
arrestato. Sceriffi di questo tipo non hanno neanche più bisogno di mettersi
in caccia. Un fischio e il gioco gli è alla mano. E' sorprendente la quantità di
soldi che si possono fare sui vagabondi. In tutto il Sud, al tempo del mio
vagabondare, ci sono campi di prigionia e piantagioni, dove i proprietari
acquistano il tempo dei vagabondi condannati, e dove i vagabondi debbono
lavorare. Ci sono posti come le cave di Rutland, nel Vermont, dove si
sfruttano i vagabondi, dove l'energia immeritata che essi hanno in corpo,
messa assieme a forza di non fare nulla, viene estratta a beneficio di quella
particolare comunità.
Ora, io non so nulla delle cave di Rutland, Vermont. Sono molto contento
di non saperne nulla, quando rammento che per poco non ci finii anch'io. I
vagabondi si passano la parola, e di quelle cave sentii parlare, per la prima
volta, mentre ero nell'Indiana. Ma quando arrivai nel New Erigland ne
sentivo parlare ormai continuamente, e sempre con un grande agitar di
segnali di pericolo. «Vogliono uomini per le cave», dicevano i vagabondi di
passaggio. «E non danno mai meno di novanta giorni». Quando arrivai nel
New Hampshire sapevo tutto su queste cave ed evitavo i guardiani della
ferrovia, i «tori» e gli sceriffi come mai avevo fatto prima.
Una sera andai al deposito delle ferrovie di Concord e trovai un merci già
composto e pronto a partire. Avvistai un vagone vuoto, aprii la porta
scorrevole, entrai. Era mia speranza superare il Fiume Bianco, l'indomani
mattina; così sarei entrato nel Vermont a non più di mille miglia da Rutland.
Ma poi, avanzando sempre più verso il nord, sarebbe aumentata la distanza
fra me e il punto pericoloso. Sul vagone trovai un «gatto allegro» che
mostrò insolita trepidazione al mio ingresso. Mi aveva scambiato per un
frenatore, e quando seppe che ero soltanto un vagabondo, attaccò a parlare
delle cave di Rutland quale causa della paura che avevo suscitato in lui. Era
un giovane campagnolo e sinora aveva fatto solo brevi viaggi locali.
Il merci si mosse, noi ci stendemmo in un angolo e ci addormentammo.
Un paio d'ore dopo, a una fermata, fui destato dal rumore della porta di
destra che si apriva lentamente. Il «gatto allegro» dormiva. Io non mi mossi,
anche se abbassai le palpebre lasciando agli occhi appena una fessura da cui
guardare. Dalla porta fu spinta una lanterna, seguita da una testa. L'uomo ci
scoprì e per un istante stette a guardarci. Mi aspettavo una violenta
espressione da parte sua, o il consueto: «Giù di lì, figlio d'un rospo!» E
invece l'uomo (era un frenatore) cautamente richiuse la porta piano piano.
Questo a me parve molto insolito e sospettoso. Ascoltai e sentii il
chiavistello che andava al suo posto. La porta era serrata da fuori. Non
potevamo più aprirla da dentro. Una rapida via d'uscita dal vagone ci era
preclusa. Attesi qualche secondo, poi andai alla porta di sinistra e la saggiai.
Non era ancora serrata. L'aprii, calai a terra, me la chiusi alle spalle. Poi,
passando fra i respingenti fui sull'altro lato del treno. Aprii la porta che
l'uomo aveva chiuso, salii, e richiusi alle mie spalle. Adesso le due entrate
erano accessibili. Il «gatto allegro» continuava a dormire.
Il treno si mosse. Arrivò alla successiva fermata. Sentii passi sulla ghiaia.
Poi la porta di sinistra si aprì fragorosamente. Il «gatto allegro» si destò, io
feci finta di destarmi; ci tirammo su a sedere guardando l'uomo e la sua
lanterna. Non sprecò tempo, passò subito al sodo.
«Voglio tre dollari», disse.
Noi ci alzammo in piedi e ci avvicinammo a lui, per conferire.
Esprimemmo la nostra assoluta e devota, disposizione a dargli i tre dollari,
ma gli spiegammo anche che la nostra maledetta malasorte imponeva che
questo desiderio restasse insoddisfatto. Il frenatore non ci credeva. Cercò di
trattare. Si sarebbe contentato anche di due dollari. Noi lamentammo la
nostra condizione di povertà. Lui disse cose poco complimentose, ci chiamò
figli d'un rospo, ci mandò all'inferno e più in là. Poi passò alle minacce.
Spiegò che se noi non accettavamo, lui era pronto a chiuderci dentro e
portarci fino al Fiume Bianco, e poi consegnarci alle autorità. Ci spiegò
inoltre tutto, sulle cave di Rutland.
Quest'uomo pensava di averci in pugno. Non stava forse a guardia
dell'unica porta, non aveva forse chiusa lui personalmente la porta opposta
pochi minuti prima? Fece una gran risata. «Non c'è fretta», disse. «Ho
chiuso quella porta dal difuori, alla fermata precedente». Era così implicita
la convinzione che la porta fosse chiusa dal difuori che le sue parole
suonavano convincenti. Il «gatto allegro» infatti ci credette e disperò.
L'uomo pronunciò il suo ultimatum. O noi si tirava fuori due dollari, o lui
ci chiudeva e ci consegnava allo sceriffo di Fiume Bianco - ciò che
significava novanta giorni e le cave. Ora, gentile lettore, supponi che l'altra
porta fosse stata davvero serrata. Guarda la precarietà della vita umana. Per
la mancanza di un dollaro, io sarei andato alle cave e avrei fatto tre mesi lo
schiavo. E lo stesso il «gatto allegro». Forse dopo quei tre mesi sarebbe
uscito marcato per tutta la vita, al delitto. E in seguito ti avrebbe magari
rotto il cranio, il cranio tuo, con uno sfollagente, nel tentativo
d'impossessarsi del danaro esistente sulla tua persona - e se non il tuo
cranio, allora il cranio di qualche creatura povera e inoffensiva.
Ma la porta non era serrata, e io soltanto lo sapevo. Insieme al «gatto
allegro» chiesi misericordia. Mi unii alle suppliche e ai lamenti per pura
malignità, immagino. Ma feci del mio meglio. Raccontai una «storia» che
avrebbe sciolto il cuore di qualsiasi brutto ceffo; ma non bastò a sciogliere il
cuore di questo arraffatore di quattrini. Quando si fu convinto che non
avevamo soldi, chiuse la porta e la serrò, poi attese un momento, caso mai
noi l'avessimo ingannato e ci decidessimo a dargli i due dollari.
A questo punto io mi volli sfogare. Lo chiamai figlio d'un rospo. Lo
chiamai anche con altri nomi che lui aveva dato a me. E poi ci aggiunsi
qualche cosina di mio. Io venivo dall'Ovest, dove gli uomini san dire le
parolacce, e non volevo permettere che questa mezza cartuccia d'un
tanghero del New England mi superasse in vivezza e vigore espressivo. Da
principio quello cercò di buttarla in ridere. Poi fece lo sbaglio di tentar di
replicare. Io gliene dissi qualcun'altra ancora, gli levai per così dire la pelle
e gli ci strofinai sopra qualche alato e fiammante epiteto; ero pieno di
sdegno contro questa creatura meschina, la quale, mancandomi un dollaro,
era pronta a consegnarmi a tre mesi di schiavitù. E poi, mi si era insinuata
nella mente l'idea che prendesse una parte dei soldi assegnati allo sceriffo.
Ma lo fregai. La lacerazione nei suoi sentimenti valeva diversi dollari.
Tentò di spaventarmi minacciando di venirmi addosso e di pestarmi a calci.
In cambio io gli promisi una pedata in faccia mentre saliva. Io avevo il
vantaggio della posizione, e lui lo vedeva. Perciò tenne la porta chiusa e
chiese aiuto dal resto del personale del treno. Li sentivo rispondere e pestare
la ghiaia, incontro a lui. E intanto l'altra porta non era serrata, e loro non lo
sapevano; e intanto il «gatto allegro» era pronto a morire di paura.
Ah, io ero un eroe, con la via della ritirata alle mie spalle. Continuai a
insultare il mio uomo e i suoi amici soci fino a che non ebbero aperta la
porta e al lume delle lanterne scorgevo le loro facce infuriate. Per loro era
semplicissimo. Ci avevano messi alle corde, dentro il vagone, ed erano
pronti a venire ad ammanettarci. Partirono. Io non diedi calci in faccia a
nessuno. Spalancai la porta opposta, e uscii insieme al «gatto allegro». Il
personale del treno ci corse dietro.
Superammo - se ricordo bene - una balaustrata di pietra. Ma non ho dubbi
nel ricordo del posto dove ci trovammo. Nel buio caddi sopra una lapide di
tomba. Il «gatto allegro» cadde su un'altra. E su quel cimitero scampammo
alla morte. Forse gli spettri avran pensato proprio questo. Di sicuro lo
pensarono i ferrovieri, perché quando uscimmo dal cimitero per entrare in
un bosco oscuro, rinunciarono all'inseguimento e ritornarono al treno. Poco
dopo, il «gatto allegro» e io ci trovammo al pozzo di una fattoria. Volevamo
bere un po' d'acqua, ma notammo una cordicella che pendeva da un lato del
pozzo. La tirammo su, e in capo alla cordicella trovammo un gallone di
panna. E questo fu il mio maggior accostamento alle cave di Rutland,
Vermont.
Quando i vagabondi si passano parola, riguardo a una città, che i «tori»
sono nemici, la città bisogna evitarla, o se non è possibile, bisogna
traversarla in silenzio. Ci sono città che vanno sempre traversate in quel
modo. Per esempio Cheyenne, sulla Union Pacific. Aveva fama in tutto il
paese di città nemica, e tutto dipendeva dalle fatiche di un certo Jeff Carr
(se ricordo bene il suo nome). In un istante questo Jeff Carr rompeva la
faccia a un vagabondo. Senza discutere. In un attimo lo agguantava, in un
attimo lo pestava con due pugni, con un bastone, con tutto quello che gli
capitava fra le mani. Dopo aver così maltrattato il suo vagabondo, lo
spediva fuor di città, promettendogli il peggio se si fosse fatto rivedere. Jeff
Carr sapeva il fatto suo. Nord, sud, est, ovest, fino agli estremi confini degli
Stati Uniti (compreso Canada e Messico), i vagabondi, dopo il pestaggio,
passavano parola che Cheyenne era territorio nemico. Per fortuna io non
incontrai mai Jeff Carr. Traversai Cheyenne durante una tempesta. Quella
volta erano con me ottantaquattro vagabondi. La forza del numero ci
induceva a non badare a tante cose, ma non di certo a Jeff Carr. La fama di
Jeff Carr colpiva la nostra fantasia, smorzava la nostra virilità, e tutta la
banda aveva una paura mortale d'incontrarlo.
Di rado vale la pena di fermarsi a discutere coi «tori», quando ci sono
ostili. Bisogna andarsene e subito. Mi ci volle un po' di tempo per imparare
questo; ma il tocco finale me lo diede un «toro» di New York City. Dopo di
allora è stato per me un processo automatico tagliare la corda al comparire
di un «toro». Questo processo automatico è diventato una molla della mia
condotta, carica e pronta a scattare. E non mi passerà mai. Avessi anche
ottanta anni, dovessi trascinarmi per strada sulle stampelle, se a un tratto un
poliziotto allungasse le mani contro di me, io so che lascerei cadere le
stampelle per correre come un daino.
Il tocco finale alla mia educazione in fatto di «tori» lo ebbi a New York
City in un caldo pomeriggio autunnale. Era una settimana di afa. Avevo
preso l'abitudine di darmi da fare al mattino, e di passare il pomeriggio nel
piccolo parco che si trova vicino a Newspaper Row e al municipio. Da
quelle parti potevo comperare sulle bancarelle libri di scarto (rovinati
durante la stampa o durante la legatura) per pochi centesimi. Poi, ancora nel
parco, c'erano edicole, dove potevi comprare ottimo latte gelido,
sterilizzato, a un centesimo il bicchiere. Ogni pomeriggio mi sedevo su una
panca a leggere, e facevo la mia deboscia lattea. E ogni pomeriggio me ne
andavo dopo aver bevuto dai cinque ai dieci bicchieri. Il tempo era
terribilmente caldo. Eccomi, dunque, mite e studioso vagabondo bevitore di
latte, e, sentite cosa mi toccò in cambio. Un pomeriggio arrivai al parco, con
sottobraccio un libro appena acquistato e una gran sete di latte in corpo. In
mezzo alla strada, davanti al municipio, notai, mentre andavo all'edicola del
latte, che si era formata una folla. Proprio dove avrei traversato la strada,
così mi fermai per vedere la causa di quest'adunanza di uomini curiosi. Da
principio non riuscii a vedere nulla. Poi, dal rumore che sentii e da quel
poco che intravidi, seppi che si trattava di un gruppo di persone che
giocavano a pee-wee. Ora, questo gioco non è permesso per le strade di
New York. Io non lo sapevo, ma lo appresi assai presto. Ero lì fermo da una
trentina di secondi, il tempo per capire il motivo dell'assembramento,
quando sentii qualcuno gridare «Toro!» Sapevano il fatto loro. Scapparono.
Io no.
L'assembramento si era sciolto all'istante, sparpagliandosi sul
marciapiede, dal lato del parco. Saranno stati una cinquantina del gruppo
originario, tutti volti nella stessa direzione, dispersi. Notai il «toro», un
poliziotto robusto, in abito grigio. Avanzava al centro della strada, senza
fretta, come bighellonando. Ma mi accorsi anche che cambiò rotta e che
puntava, obliquamente, verso lo stesso marciapiede a cui ero diretto io.
Continuava a camminare piano, tagliando fuori la folla, e allora mi resi
conto che la sua rotta e la mia erano destinate a incontrarsi. Ero così
ingenuo, in fatto di cattive azioni che, nonostante quanto sapevo dei «tori» e
dei loro modi, in realtà non avevo appreso nulla. Non mi sarei mai sognato
che un «toro» ce l'avesse con me. Dato il mio rispetto della legge ero
persino pronto a fermarmi e a lasciarmelo passare dinanzi. La sosta ci fu,
ma non per mia volontà, e fu una sosta all'indietro. Senza avviso, quel
«toro» all'improvviso mi si scagliò contro e mi colpì al petto con ambedue
le mani. Nel medesimo istante, a parole, bollò sinistramente la mia
genealogia.
Ribollì tutto il mio sangue di americano libero. Trovarono la voce, dentro
di me, tutti i miei antenati amanti della libertà. «Come sarebbe a dire?»
chiesi. Capite, volevo una spiegazione. E l'ebbi. Bang! Il manganello mi
piombò sul capo, e io stavo arretrando come un ubriaco, mentre le facce
incuriosite degli astanti mi vacillavano avanti e indietro come le onde del
mare e il prezioso mio libro da sotto il braccio mi cadeva per terra, e il
«toro» veniva avanti con il manganello pronto a picchiare ancora. E in quel
momento vertiginoso io ebbi una visione. Vidi il manganello calarmi molte
volte sul capo; vidi me stesso sanguinante, pesto, brutto, in un tribunale,
sentii l'accusa di malcostume, turpiloquio, resistenza alla forza pubblica e
altre cose, letta da un cancelliere; e mi vidi sull'isola di Blackwell. Ah,
sapevo il gioco. Persi subito ogni interesse per le spiegazioni. Mi sentivo
male, eppure corsi. E sarò sempre a correre, fino al mio ultimo giorno, ogni
volta che un «toro» attacca una spiegazione a manganellate.
Ecco, anni dopo il periodo del mio vagabondare, quando studiavo
all'Università di California, una sera andai al circo. Dopo lo spettacolo e il
concerto indugiai a guardare come funziona l'apparato dei trasporti in un
grande circo. Partiva quella notte, il circo. Accanto a un falò incontrai un
gruppo di ragazzini. Saranno stati una ventina, e dalle parole che si
scambiavano seppi che intendevano scappare con il circo. Ora gli uomini
del circo non apprezzano il fastidio di avere attorno un branco di monelli, e
bastò una telefonata al comando di polizia per bloccare questo progetto.
Mandarono una squadra di poliziotti ad arrestare i ragazzini per aver violato
l'ordinanza sul coprifuoco delle nove pomeridiane. I poliziotti circondarono
il falò e ci si avvicinarono lentamente, nel buio. Al segnale irruppero e tutti
insieme agguantarono i ragazzini come chi ficchi le mani in un cesto di
anguille.
Ora, io non sapevo nulla dell'arrivo della polizia; e quando vidi questa
improvvisa irruzione di «tori» dai bottoni metallici con l'elmo in testa, e
tutti tendevano le mani, dentro di me furono sopraffatte tutte le forze, e la
stessa stabilità del mio essere. Restava solo, in azione, il processo
automatico, a scappare. E scappai. Non m'accorgevo neanche di scappare.
Non m'accorgevo di nulla. Era un fatto, come dicevo, automatico. Non c'era
motivo alcuno per cui dovessi correre. Non ero più un vagabondo. Ero un
normale cittadino, facevo parte della comunità. Questa era la mia città. Non
ero colpevole di alcuna cattiva azione. Ero universitario. Avevo i documenti
in regola, indossavo un abito buono, non ci avevo mai dormito dentro.
Eppure corsi, alla cieca, all'impazzata, come un daino impaurito, per un
intero isolato. E quando mi fui rimesso, notai che ancora stavo correndo. Ci
volle un vero e proprio sforzo di volontà per fermare le gambe.
No, non ce la farò mai. E' più forte di me. Quando arriva un «toro», io
scappo». E poi io ho l'infelice facoltà di andare in prigione. Sono stato più
volte in prigione quando ero un vagabondo. Una domenica mattina vado a
fare una gita in bicicletta in compagnia di una signorina. Prima che
oltrepassiamo i limiti della città, ci fermano per aver superato un pedone sul
marciapiede. Decido di starci più attento. La volta dopo vado in bicicletta
dopo buio e la mia lampada ad acetilene non fa il suo dovere. Cerco in ogni
modo di tenere desta la debole fiamma, perché so qual è la disposizione. Ho
fretta e pedalo alla velocità d'una lumaca per non spegnere la fiamma
vacillante. Raggiungo i limiti della città; sono oltre la giurisdizione
dell'ordinanza, e attacco a pigiare forte per riguadagnare il tempo perduto.
Ma mezzo miglio avanti mi «pizzica» un poliziotto e la mattina dopo tratto
la mia libertà. La città aveva proditoriamente esteso i suoi limiti di un
miglio e mezzo, e io non lo sapevo, ecco. Rammentavo il mio diritto
inalienabile alla libertà di parola e di adunanza pacifica, e attacco un
comizio sulle convinzioni politico-economiche che mi ronzano per la testa,
ma quel poliziotto mi fa scendere dal podio e mi porta in prigione, da cui
poi esco, ma dopo aver pagato la cauzione. Non serve. In Corea mi
arrestavano un giorno sì e uno no. L'ultima volta che capitai in Giappone fu
sotto il pretesto che ero una spia russa. Il pretesto non era mio, ma finii in
prigione lo stesso. Per me non c'è speranza. Il destino vuole che io faccia il
carcerato. E questa è una profezia.
Una volta, a Boston Common, ipnotizzai un «toro». Era passata la
mezzanotte e lui mi aveva incastrato, ma io riuscii a convincerlo tanto bene
che alla fine mi prestò un quarto di dollaro e mi diede l'indirizzo di un buon
ristorante. Poi ci fu un «toro» a Bristol, New Jersey, che mi prese e poi mi
lasciò andare e lo sa il Cielo se non aveva provocazioni a sufficienza per
mettermi dentro. Lo colpii come - scommetto - non fu mai colpito in vita
sua. Successe in questo modo. Verso mezzanotte io salii su un merci che
usciva dalla stazione di Filadelfia. I ferrovieri mi avvistarono. Il treno stava
uscendo dal dedalo dei binari, lentamente, della stazione-merci. Salii sopra
una seconda volta e daccapo mi trovarono. Capite, il treno dovevo prenderlo
«fuori» perché era un merci in piena regola, con tutte le porte chiuse e
sigillate.
La seconda volta che mi trovarono il ferroviere mi fece una bella predica.
Mi disse che io rischiavo la vita, che quello era un merci veloce e che
andava forte. Gli risposi che anche io ero abituato ad andare forte, ma non
servì a nulla. Disse che non mi permetteva il suicidio, e io invece mi ci
provai per la terza volta, mi misi fra i due respingenti. Erano i più miseri
respingenti che io avessi mai visto - non parlo dei respingenti veri, i
respingenti di ferro collegati dall'anello e che giocano l'uno sull'altro. Sto
parlando degli assali che collegano i vagoni merci poco sopra i respinti.
Quando si viaggia fra un vagone e l'altro, ci si mette su questi assali, avendo
i respingenti fra i piedi.
Ma gli assali che mi toccarono non erano quelli larghi e generosi che di
solito, a quell'epoca, si trovavano sui carri ferroviari chiusi. Al contrario,
erano molto stretti, non più di un pollice e mezzo. Non riuscivo a tenerci
sopra neanche la metà della pianta del piede. E non c'era nulla a cui tenermi,
con le mani. Certo, c'erano i bordi dei due carri, ma si trattava di superfici
piatte e perpendicolari. Non c'era appiglio. Non potevo premere il palmo
delle mani, per sostenermi. Ma me la sarei anche cavata, se il sostegno per i
piedi non fosse stato così esiguo.
Uscito da Filadelfia, il merci cominciò ad acquistare velocità. Allora capii
che cosa intendeva il ferroviere quando parlava di suicidio. Il merci andava
sempre più veloce. Era un merci direttissimo, e niente lo avrebbe fermato.
In quel tratto della Pennsylvania correvano quattro binari affiancati, e il
treno mio, diretto a oriente, non doveva preoccuparsi di incrociare quelli
diretti in senso opposto, né di essere superato da quelli diretti dalla sua
parte. Il binario era tutto per lui, e lo usava. Io ero in una situazione
precaria. Mi tenevo su quelle ristrette sporgenze con una striscia di piede, il
palmo delle mani pressato disperatamente contro il bordo piatto e
perpendicolare del vagone. I due vagoni si muovevano, si muovevano
individualmente, su e giù, avanti e indietro. Avete mai visto un cavaliere da
circo, in piedi su due cavalli in corsa, ciascun piede su un cavallo diverso?
Bene, proprio questo stavo facendo io, e con diverse difficoltà. Il cavaliere
posava sui suoi piedi naturali, mentre io posavo su una striscia appena dei
piedi miei; lui piegava gambe e corpo, acquistando la forza dell'arco e la
stabilità di un centro di gravità basso, mentre io ero costretto a stare diritto e
a tenere le gambe stese, lui viaggiava con la faccia in avanti, mentre io stavo
di lato. Non solo, se fosse crollato lui, avrebbe fatto un capitombolo sulla
segatura, mentre io sarei finito a pezzi sotto le ruote.
E quel merci viaggiava veramente forte, rombando, urlando, vacillando
all'impazzata nelle curve, tonando sulle caviglie, con una estremità che si
sollevava mentre quella opposta si abbassava, e io pregavo e supplicavo che
il treno si fermasse. Ma non doveva fermarsi. Per la prima volta - e l'ultima
- avevo sulla strada tutto quel che potevo desiderare. Abbandonai i
respingenti e riuscii a mettermi su una scaletta laterale; fu un lavoro
rognoso, perché non avevo mai trovato bordi di vagoni così parsimoniosi di
appigli, per le mani e per i piedi.
Sentii la locomotiva fischiare, e sentii anche scemare la velocità. Sapevo
che il treno non doveva fermarsi, ma ero deciso a tentare, se avesse
rallentato a sufficienza. A questo punto la via libera faceva una curva,
traversava un ponte su un canale, e traversava la città di Bristol. Questa
combinazione imponeva di rallentare la velocità. Io mi tenevo aggrappato,
in attesa, alla scaletta laterale. Non sapevo che era la città di Bristol quella a
cui ci stavamo avvicinando. Non sapevo neanche che bisogno ci fosse di
rallentare. Sapevo soltanto una cosa, che volevo scendere. Tesi gli occhi nel
buio in cerca di un passaggio a livello su cui atterrare. Ero quasi in fondo al
treno, e prima che il mio vagone entrasse in città la locomotiva avrebbe
passato da un pezzo la stazione, per poi riacquistare velocità.
Poi eccoti la strada. Era troppo buio per vedere quanto fosse larga e che
cosa ci fosse dall'uno e dall'altro lato. Sapevo che mi ci voleva tutta quanta
la strada se dovevo restare in piedi dopo l'urto. Mi lasciai andare di lato. A
dirlo è facile. Ma «lasciarsi andare» significa proprio questo: sulla scaletta
lasciai andare il mio corpo il più lontano possibile nella direzione in cui
andava il treno - per avere il maggior spazio di manovra al momento della
caduta. Poi balzai fuori e mi tenni indietro, con tutta la mia forza, come se
volessi toccare terra con la nuca. Tutta questa fatica serviva a
controbilanciare per quanto possibile la spinta in avanti che il treno dava al
mio corpo. Quando i miei piedi furono sulla ghiaia, il mio corpo era piegato
a un angolo di quarantacinque gradi. Avevo in. qualche misura ridotto la
spinta in avanti, perché quando i miei piedi toccarono terra, non caddi
immediatamente a faccia in avanti. Il mio corpo si innalzò, raggiunse la
perpendicolare, cominciò a piegarsi in avanti. In verità il mio corpo
conservava la spinta che io gli avevo, dato, ma non i miei piedi che, al
contatto con la terra, avevano perso ogni spinta. E io dovetti restituire ai
piedi questa spinta facendoli correre più svelti che potevo, in avanti, per
serbarmeli sotto il corpo. Risultato: i miei piedi traversarono la strada con
uno stamburamento rapido ed esplosivo. Non osavo fermarli. Se lo avessi
fatto, sarei caduto in avanti. Toccava a me continuare a correre.
Ero un proiettile involontario, e mi chiedevo che cosa c'era sull'altro lato
della strada, e speravo che non fosse un muro di pietra o un palo telegrafico.
E proprio allora urtai qualcosa. Orrore! Lo vidi appena un istante prima del
disastro, proprio un «toro», in piedi nel buio. Crollammo a terra, insieme,
rotolando più volte; e il processo automatico fu tale, in questa miserevole
creatura, che al momento stesso del cozzo tese le mani, mi agguantò, deciso
a non lasciarmi più andare, Fummo tutti e due fuori di combattimento, ma
lui si resse a questo povero vagabondo fino a che non ebbi ripreso i sensi.
Se quel «toro» avesse avuto un poco di fantasia, avrebbe pensato che io
fossi un viaggiatore giunto da altri mondi, il marziano in arrivo. Infatti le
sue parole furono: «Da dove vieni?» Le successive sue parole, prima che
avessi tempo di rispondere, furono: «Ho proprio intenzione di arrestarti».
Affermazione, immagino, completamente automatica. In realtà era un
«toro» di cuore buono, perché dopo che gli ebbi raccontato una «storia» e lo
ebbi aiutato a spolverarsi i panni, mi concesse il prossimo merci per
abbandonare la città. Io trattai due punti: che il treno fosse diretto ad
oriente, e che non fosse un merci coi vagoni tutti serrati. Accettò, e in
questo modo, grazie alle convenzioni del Trattato di Bristol, evitai d'essere
pizzicato.
Ricordo un'altra notte, in quella parte del paese, quando di poco scampai a
un altro «toro». Se non l'avessi incocciato, l'avrei assorbito in me, perché
venivo giù dall'alto, senza freni, con diversi altri «tori» a un passo dietro di
me, decisi a prendermi. Successe in questo modo. Vivevo dentro uno
stallatico, a Washington. Avevo una cella e innumerevoli coperte da
cavallo, tutte per me. In cambio di questa sontuosa sistemazione, ogni
mattina curavo un'intera fila di cavalli. Se non fosse stato per i «tori», forse
ci sarei ancora.
Una sera., verso le nove, rientravo per andare a letto, e trovai che si
giocava a dadi, forte. Era giorno di mercato, e tutti i negri avevano soldi.
Ma sarà meglio spiegare come era fatto quel posto. Lo stallatico affacciava
su due strade. Io entrai dall'ingresso principale, traversai l'ufficio, raggiunsi
il vicolo fra le due file di celle disposte per tutta la lunghezza dell'edificio,
che davano sull'altra strada. A mezza via, lungo questo vicolo, fra due file di
cavalli e sotto la lampada a gas, c'era una quarantina di negri. Mi unii a loro
come spettatore. Ero a secco e non potevo giocare. Un negro stava
«passando» senza tirare. Sfidava la sorte, a ogni suo «passare» aumentava la
posta. Per terra c'erano quattrini di ogni genere. Una cosa affascinante. A
ogni «passata» aumentava straordinariamente la sorte sfavorevole a questo
negro che «passava». C'era grande eccitazione. E proprio allora si sentì un
gran tonfo tonante alle porte che davano sulla strada di dietro.
Qualche negro scattò nella direzione opposta. Io sostai un momento ad
arraffare ogni tipo di danaro che stava per terra. Non era furto; era
semplicemente consuetudine. Tutti quelli che non scappavano, arraffavano.
Si spalancarono le porte e irruppe una squadra di «tori». Noi fuggimmo
nella direzione opposta. Nell'ufficio era buio, e la porta stretta non poteva
permetterci di passare tutti assieme. Le cose cominciavano a congestionarsi.
Un negro si tuffò dalla finestra, altri lo seguirono. Dietro di noi i poliziotti
cominciavano ad arrestare gente. Un negro grosso e io ci avventammo alla
porta. Era più grosso di me, mi spinse di lato e passò per primo. Un istante
dopo un manganello lo colpì al capo e crollò come un manzo. Un'altra
squadra di «tori» ci aspettava da quella parte. Sapevano di non poter
fermare la fuga con le mani, per questo menavano il manganello. Inciampai
sopra il negro abbattuto, mi buttai fra le gambe di un «toro» e fui libero. E
come corsi! Proprio davanti a me c'era un mulatto, di corporatura magra, e
mi misi al suo passo. Conosceva la città meglio di me, e sapevo che lui
correva verso la salvezza. Ma d'altronde, lui mi prese per un «toro» che lo
rincorreva. Non si voltò a guardare. Correva, e basta. Ma io avevo fiato e mi
tenevo al suo passo, e per poco non l'ammazzai. Alla fine, sfiatato,
inciampò, cadde in ginocchio e mi si arrese. E quando scoprì che non ero un
poliziotto, io mi salvai soltanto perché lui non aveva più fiato in corpo.
Ecco perché me ne andai da Washington: non per via del mulatto, ma per
via dei «tori». Andai alla stazione e presi il primo vagone chiuso
sull'espresso della Pennsylvania. Dopo che il treno ebbe preso velocità,
m'accorsi dello sbaglio. Era una ferrovia a quattro binari e le locomotive
facevano acqua in corsa. Diversi vagabondi mi avevano avvisato di non
salire su un vagone chiuso d'un treno le cui locomotive fanno acqua in
corsa. Ora vi spiego. Fra i binari stanno certi bassi trogoli di metallo. La
locomotiva, passando a tutta velocità, lascia cadere nei trogoli una specie di
tubo. Il risultato è che tutta l'acqua viene assorbita dal tubo, fin dentro il
tender.
Da qualche parte fra Washington e Baltimore, mentre me ne stavo a
sedere sulla piattaforma d'un vagone, una bella spruzzata cominciò a
riempire l'aria. Non faceva male. Ah, ah, pensavo io, è tutto un bluff, questa
presa d'acqua in corsa non fa poi male a chi stia sul primo vagone. Cosa
importa questa spruzzatina? Poi cominciai a meravigliarmi di quest'artificio.
Ecco una vera ferrovia! Al confronto con le nostre ferrovie primitive
dell'Ovest... E proprio in quell'istante il tender fu colmo, senza aver vuotato
il trogolo. Un'ondata di acqua mi si rovesciò addosso, da dietro il tender.
Ero inzuppato fino alla pelle, come se fossi caduto giù dal treno.
Il treno entrò in Baltimore. Come è consuetudine nelle grandi città
orientali, la ferrovia correva sotto il livello stradale, in fondo a una grande
«trincea». Quando il treno entrò nella stazione illuminata, io mi feci più
piccino che potevo sul mio vagone. Ma un poliziotto delle ferrovie mi vide
e si mise alla caccia. Altri due lo seguirono. Avevo passato la stazione e
correvo lungo il binario. Ero in una specie di trappola. Dalle due parti
sorgevano le pareti della grande trincea, e se io mi provavo a salirle, nel
caso che non ci riuscissi, ero nelle mani dei «tori». Corsi, corsi, studiando le
pareti della trincea in cerca di un posto buono per salire. Finalmente lo
trovai. Fu poco dopo aver passato un viadotto che consentiva un passaggio
al livello sopra la trincea. Salii su per l'erto pendio, lavorando di mani e di
piedi. I tre poliziotti, sotto di me, cercavano di abbrancarmi.
In cima, mi trovai in uno spiazzo vuoto. Da una parte c'era un basso muro,
che lo separava dalla strada. Non c'era tempo per un'attenta investigazione.
Li avevo alle calcagna. Mi precipitai contro il muro, lo saltai. E proprio lì
trovai una sorpresa grande. Di solito si pensa che un lato del muro sia
uguale all'altro lato. Invece questo muro era differente. Capite, lo spiazzo
era più alto rispetto al livello della strada. Dalla mia parte il muro era basso,
ma dall'altra parte, be', quando fui passato sopra, senza freni, parve a me che
cadevo a piedi avanti di precipitare in un abisso. Sotto di me, sul
marciapiede, sotto la luce di un lampione, eccoti un «toro». Saranno state
una decina di spanne, ma questa sorpresa così, a mezz'aria, mi fece
sembrare doppia la distanza.
Mi tesi e caddi. Dapprima ebbi l'impressione che sarei piombato addosso
al poliziotto. I miei panni lo sfiorarono, infatti, quando i piedi presero
contatto con il terreno, e l'urto fu esplosivo. Mi chiedo ancora come non sia
morto di paura, perché non mi aveva sentito arrivare. Daccapo, era il
marziano in arrivo. Il «toro» fece un salto, balzò via da me come fa un
cavallo dinanzi a un'auto; poi cercò di prendermi. Io non sostai a dargli
spiegazioni. Questo compito lo lasciai ai miei inseguitori, che saltavano il
muro con una certa alacrità. Ma scampai bene alla caccia. Corsi per una
strada, ne imboccai un'altra, voltai diversi cantoni e alla fine scampai.
Dopo aver speso una parte dei soldi della partita a dadi, e dopo aver
lasciato passare un'ora, ritornai alla trincea della ferrovia, poco oltre i lumi
della stazione, e aspettai un treno. Mi sì, era freddato il sangue, e tremavo
miserabilmente, coi panni bagnati che avevo indosso. Finalmente un treno
entrò in stazione. Mi tenni basso, nel buio, e riuscii a saltarci sopra mentre
usciva, stando bene attento a non scegliere il primo vagone. Stavolta sul
vagone mio non ci fu acqua presa al volo. Il treno fece quaranta miglia,
prima della successiva fermata. Scesi in una stazione illuminata che mi fu
stranamente familiare. Ero tornato a Washington. Chissà come, nella
confusione della fuga, a Baltimore, correndo per strade sconosciute,
schivando, voltando, tornando sui miei passi, mi ero sperso e avevo preso il
treno sbagliato. Avevo perso anche una nottata di sonno, avevo fatto una
fuga alla morte, e mi ritrovavo al punto di partenza. Ah, no di certo, la vita
sulla Strada non è tutta rose. Ma non ritornai allo stallatico. Avevo arraffato
qualcosa di buono, e non volevo fare i conti con i negri. Così presi il
prossimo treno in uscita e feci colazione nella città di Baltimore.
BECCATO
Arrivai alle cascate del Niagara su uno di quei vagoni scoperti che nel
nostro gergo si chiamano «gondola». Notate bene, l'accento è sulla seconda
o, pronunciata larga. Ma veniamo al dunque. Arrivai nel pomeriggio e dal
merci puntai dritto sulle cascate. Una volta che i miei occhi furono pieni
della visione dell'acqua scrosciante, fui perso, non riuscivo a staccarmi di lì
il tempo necessario a battere le case in cerca di cena. Niente riusciva a
distogliermi. Venne la notte, una bella notte con la luna, e io indugiai alle
cascate fino alle undici. Poi cercai un posto dove fare la nanna.
Dove dormire, certo, un fatto che nel nostro gergo di vagabondi americani
si esprime in tanti modi differenti. Non so come, avevo l'impressione che la
cittadina accanto alle cascate, che si chiama appunto Niagara Falls, fosse
posto non «buono» per un vagabondo, e me ne andai verso la campagna.
Scavalcai una stecconata e fui in un campo. Lì, John Law, la maledetta
legge, non mi avrebbe mai trovato. Mi complimentai con me stesso. Mi
distesi supino sull'erba e dormii come un bambino. Il caldo era così dolce
che non una volta mi destai, quella notte. Ma al primo grigiore dell'alba i
miei occhi si aprirono, e rammentai le meravigliose cascate. Saltai lo
stecconato e mi misi in cammino, per vederle ancora. Era presto, non più
delle cinque del mattino, e solo alle otto potevo cominciare a battere in
cerca di una colazione. Potevo passare sul fiume almeno tre ore. Ahimè, era
destino che il fiume non lo vedessi mai più, e neanche le cascate.
La città dormiva, quando ci entrai. Camminando per la strada silenziosa,
vidi tre uomini che mi venivano incontro, lungo il marciapiede. Vagabondi
come me, pensai, che si erano alzati presto. In questa mia supposizione mi
sbagliavo. Avevo ragione, per dir meglio, solo al sessantasei per cento. Due
terzi di ragione. I due uomini esterni erano senz'altro vagabondi, ma quello
in mezzo non lo era. Mi feci sul bordo del marciapiede per lasciar passare il
terzetto. Ma il terzetto non passò. A una parola di quello che stava in mezzo
tutti e tre si fermarono, e quello centrale mi si rivolse. Capii all'istante la
situazione. Era un finto vagabondo, e un vero poliziotto, e i due che lo
affiancavano erano suoi prigionieri. La legge era ben desta ad agguantare la
sua prima preda. E la preda ero io. Fossi stato ricco delle esperienze che
sarebbero state mie nei mesi successivi, mi sarei voltato e messo a correre
come un diavolo. Quello avrebbe potuto spararmi, ma anche cogliermi per
prendermi. Non poteva corrermi dietro; perché due vagabondi in mano
valgono più di un vagabondo che fugge. Invece, come una marionetta, io
m'arrestai quando m'ordinò di fermarmi. La conversazione fu breve.
«A quale albergo sei sceso?» chiese.
Mi aveva preso. Io non ero sceso in nessun albergo, e siccome non sapevo
il nome di alcun albergo in città, non potevo affermare di risiedere in
qualcuno di essi. E poi era troppo presto. Tutto mi era contro.
«Sono appena arrivato», dissi.
«Allora girati, e cammina davanti a me e non ti staccare troppo. C'è
qualcuno che vuole vederti».
Ero «beccato». Sapevo chi voleva vedermi. Con il poliziotto e i due
vagabondi alle calcagna, e sotto la direzione del suddetto, feci strada verso
la prigione. Lì ci frugarono e ci marcarono i nomi. Non mi ricordo, ora,
sotto quale nome mi registrarono. Diedi, come nome, Jack Drake, ma
quando mi frugarono, trovarono lettere indirizzate a Jack London. E questo
provocò guai e richiese spiegazioni, ma fino a oggi io non so se pizzicarono
Jack Drake oppure Jack London. Ma con questo o con quel nome, dovrei
essere nel registro della prigione di Niagara Falls. Bisognerebbe fare una
ricerca. Era verso la fine di giugno, 1894. Fu solo qualche giorno dopo il
mio arresto che cominciò il grande sciopero delle ferrovie.
Dall'ufficio ci portarono allo «Hobo» e ci chiusero. Lo «Hobo» (parola
americana che significa vagabondo) è quella parte della prigione dove si
chiudono, insieme, in una grande gabbia di ferro, quelli che hanno
commesso reati minori. E si chiama così perché i vagabondi costituiscono la
parte maggiore dei delinquenti minori. Ci incontrammo diversi altri
vagabondi pizzicati quella stessa mattina, e ogni tanto la porta si apriva e
altri due o tre venivano ficcati dentro. Alla fine, quando fummo in tutto
sedici, ci portarono di sopra, a giudizio. E adesso voglio descrivere per filo
e per segno quel che avvenne in tribunale, perché so che la mia sensibilità di
cittadino americano ricevette un colpo dal quale non si è più riavuta.
Eravamo sedici prigionieri, il giudice, due agenti. Non c'era cancelliere, il
suo compito lo faceva il giudice. Non c'erano testimoni. Non c'erano
cittadini di Niagara Falls presenti a vedere come si amministrava la giustizia
nella loro comunità. Il giudice dava un'occhiata all'elenco delle cause e
chiamava un nome. Si alzava un vagabondo. Il giudice guardava l'agente,
«Vagabondaggio, Vostro Onore», diceva l'agente. «Trenta giorni», diceva
Vostro Onore. Il vagabondo si metteva a sedere, il giudice chiamava un
altro nome e un altro vagabondo si alzava in piedi.
Il processo del primo vagabondo aveva preso quindici secondi. Il
processo del successivo avvenne con altrettanta celerità. L'agente disse
«Vagabondaggio, Vostro Onore», e Vostro Onore disse «Trenta giorni». E
continuò così, come un orologio, quindici secondi per vagabondo, e trenta
giorni.
Povere bestiole, pensavo fra me. Ma aspetta che venga il turno mio; gliela
faccio vedere, io, a Vostro Onore. Durante la sua esecuzione, Vostro Onore,
mosso da chissà quale capriccio, diede a uno di noi il modo di parlare. Il
caso volle che costui non fosse un vagabondo autentico. Non aveva in
faccia alcun segno del vagabondo di professione. Se si fosse avvicinato a
noi, in attesa vicino alla cisterna per il passaggio di un merci, senza esitare
lo avremmo classificato un «gatto allegro». Gatto allegro è sinonimo di
«piedidolci» nel mondo dei vagabondi. E questo «gatto allegro» era in là
con gli anni, sui quarantacinque, secondo me. Aveva le spalle un po'
incurvate, e la faccia segnata dal tempo.
Per molti anni, secondo la sua storia, aveva guidato un carro per conto di
una certa ditta (se ricordo bene) di Lockport, New York. La ditta era poi
andata in malora, e alla fine, nei tempi duri del 1893, era fallita. Lo avevano
tenuto fino all'ultimo, anche se verso la fine il suo lavoro s'era fatto
irregolare. Spiegò ampiamente le sue difficoltà nel trovare un altro lavoro
(con tanta gente disoccupata) nei mesi successivi. Alla fine, convinto che ci
fossero occasioni migliori sui Laghi, era partito per Buffalo. Naturalmente
era al verde, ed eccolo qui. Nient'altro.
«Trenta giorni», disse Vostro Onore, e fece il nome di un altro
vagabondo.
Il suddetto vagabondo si alzò. «Vagabondaggio, Vostro Onore», disse
l'agente e Vostro Onore disse: «Trenta giorni».
E così via, quindici secondi e trenta giorni a ciascun vagabondo. La
macchina della giustizia macinava facile. E' molto probabile, considerando
l'ora del mattino, che Vostro Onore non avesse ancora fatto colazione e
quindi avesse fretta. Ma il mio sangue americano si era scaldato. Dietro di
me erano generazioni e generazioni di americani. Una fra le libertà per cui
questi antenati si erano battuti, e per cui erano morti, era appunto il diritto a
un regolare processo. Questo il mio lascito, consacrato dal sangue, e io
volevo adempierlo. Va bene, dissi minaccioso fra di me, aspettiamo che mi
chiamino.
Toccò a me. Il mio nome, qualunque esso fosse, venne chiamato. Io mi
alzai. L'agente disse: «Vagabondaggio, Vostro Onore», e io cominciai a
parlare. Ma il giudice cominciò a parlare anche lui. E disse: «Trenta giorni».
Io attaccai a protestare, ma in quel momento Vostro Onore stava chiamando
il nome dopo il mio sull'elenco. Vostro Onore prese fiato il tempo per dire:
«Silenzio!» L'agente mi costrinse a sedermi. E un istante dopo il vagabondo
di turno prendeva trenta giorni, e l'altro stava per prenderli.
Dopo che fummo tutti sistemati, trenta giorni a testa, Vostro Onore si
rivolse a quello, di Lockport, il solo cui era stato permesso di parlare.
«Perché hai lasciato il tuo lavoro?» chiese Vostro Onore.
Ora quell'uomo aveva già spiegato che il lavoro aveva abbandonato lui e
la domanda lo colse di sorpresa.
«Vostro Onore», cominciò, confuso, «Non è una domanda buffa?»
«Trenta giorni in più per avere abbandonato il lavoro», disse Vostro
Onore, e la seduta si chiuse. Questo l'esito. L'uomo prese sessanta giorni, gli
altri trenta.
Ci portarono di sotto, ci chiusero, ci diedero la colazione. Fu una buona
colazione, per un carcere, e fu la migliore che mangiavo da un mesetto
circa.
In quanto a me, ero stupefatto. Eccomi lì, condannato, dopo un processo
farsesco, in cui mi avevano negato non soltanto il diritto a un procedimento
normale, ma anche il diritto a dichiararmi colpevole oppure no. Mi passava
per il cervello tutto quello per cui i miei padri si erano battuti, lo "habeas
corpus". Glielo avrei fatto vedere. Ma. quando chiesi un avvocato, mi risero
in faccia. "Habeas corpus", va bene, ma a che cosa sarebbe servito se io non
potevo comunicare con nessuno fuor della prigione? Ma io glielo avrei fatto
vedere. Non potevano tenermi in prigione per sempre. Dovevo aspettare che
mi mettessero fuori, poi li avrei messi al posto loro. Sapevo qualcosa sulla
legge e sui miei diritti, e avrei fatto vedere in che modo amministravano la
giustizia. Davanti agli occhi vedevo titoli di giornali, sensazionali, di cause
per danni, ma poi arrivarono i secondini e ci spinsero di furia in un ufficio.
Un poliziotto mi mise la manetta al polso destro. (Ah, ah, pensai, altra
cosa indegna. Aspetta solo che io esca). L'altra manetta si strinse al polso
sinistro di un negro, tanto per far coppia. Era un negro molto alto, sopra le
sei spanne, così alto che quando si stava fianco a fianco la sua mano teneva
sollevata la mia di un bel pezzo. Ma era anche il negro più felice e più
stracciato che io abbia mai conosciuto.
Eravamo tutti ammanettati a coppie. Fatto questo, tirarono fuori una
catenella, a collegare tutte quante le manette, serrate davanti e dietro alla
catena. Diedero l'ordine di marciare, e via per strada, sotto la sorveglianza
di due agenti. Il negro e io avevamo il posto d'onore, in testa alla
processione.
Dopo il chiarore sepolcrale della prigione, il sole, fuori, abbacinava. Non
sapevo che fosse così bello, io, prigioniero con il tinnio delle catene, sapevo
che non lo avrei più visto, per trenta giorni. Passammo per le strade di
Niagara Falls, fino alla stazione, guardati dai passanti, e specialmente da un
gruppo di turisti sulla veranda di un albergo a cui passammo dinanzi.
Ci fu confusione lungo la nostra catena, e con parecchio tinnio e fracasso
ci sedemmo, due a due, sul vagone per fumatori. Ardente d'indignazione
com'ero pensando all'oltraggio che mi era stato perpetrato, a me e ai miei
antenati, ero tuttavia troppo prosaico e pratico per perderci sopra la testa.
Per me era tutto nuovo. Mi aspettavano trenta giorni di mistero, e mi
guardavo intorno in cerca di qualcuno che sapesse il fatto suo. Infatti avevo
già saputo che non ero destinato a una prigione per ragazzi, affollata da un
centinaio di prigionieri come me, ma a un penitenziario vero e proprio, con
un paio di migliaia di galeotti, condannati a qualunque cosa, dai dieci giorni
ai dieci anni.
Sul sedile dietro di me, legato alla catena con il suo polso, sedeva un
uomo grosso, greve, muscoloso. Doveva avere trentacinque, quarant'anni.
Lo capii subito. Gli lessi negli occhi voglia di ridere, senso del comico,
bontà. In quanto al resto, era una bestia, completamente immorale, con tutta
la passione e la turgida violenza del bruto. Quel che lo salvava, quello che
me lo rendeva possibile, erano quegli occhi, il senso del comico, la voglia di
ridere, la dolcezza della bestia non destata.
Era il mio uomo, mi ero attaccato a lui. Mentre il mio compagno di
manetta, il negro alto, lamentava fra una risata e l'altra una sua lavanderia
che stava perdendo per via dell'arresto, e mentre il treno entrava a Buffalo,
io parlavo con l'uomo sul treno dietro di me. Aveva la pipa vuota.
Io gliela riempii con il mio prezioso tabacco, quanto bastava per fare una
decina di sigarette. Sì, più si parlava e più ero sicuro che questo era il mio
uomo, e divisi con lui tutto il mio tabacco.
Ora il caso vuole che io sia un organismo fluido, adatto alla vita per
sentirmi d'accordo con tutti o quasi. Decisi di andare d'accordo con
quest'uomo, anche se neanche mi sognavo la cosa straordinaria che stavo
compiendo. Lui non era mai stato in quel particolare penitenziario a cui
eravamo diretti, ma aveva fatto un anno, due anni, fino a cinque anni in vari
altri penitenziari, ed era colmo di saggezza. Diventammo amici, e mi
traboccò il cuore quando mi disse di seguirlo. Mi chiamava «Jack», e anche
io lo chiamavo «Jack».
Il treno si fermò a una stazione distante un cinque miglia da Buffalo e
noialtri incatenati scendemmo. Non rammento il nome di questa stazione,
ma confido che sia una delle seguenti : Rocklyn, Rockwood, Black Rock,
Rockcastle oppure Newcastle. Ma quale che fosse il nome del posto, ci
fecero camminare un poco e poi salire su un tram. Era un tram all'antica,
con due sedili a destra e a sinistra. Tutti i passeggeri che sedevano da una
parte furono invitati a spostarsi sull'altro lato, e noi, con grande strepito di
catene, prendemmo il posto loro. Rammento che vi sedemmo in faccia a
loro, e rammento anche l'espressione sul viso delle donne, le quali, senza
dubbio, ci presero per assassini e predatori condannati. Io cercavo di darmi
una faccia feroce, ma il mio compagno di manette, felicissimo negro,
continuava a roteare gli occhi, a ridere, a ripetere: «Oh Signore! Oh
Signore!».
Scendemmo dal vagone, facemmo un altro po' di strada a piedi, e ci
portarono nell'ufficio del Penitenziario della Contea di Erie. Qui ci
dovevano registrare e su un qualche registro si deve pur trovare uno fra i
miei molti nomi. Ci informarono inoltre che bisognava lasciare in ufficio
tutti i nostri oggetti: danaro, tabacco, fiammiferi, coltelli da tasca e cosi via.
Il mio nuovo compagno scosse il capo. Le sue mani erano in faccende, e
nascondeva i movimenti dietro le spalle degli altri. (Ci avevano tolto le
manette). Io lo guardavo, e seguii il suo esempio, facendo col fazzoletto un
fagottino con dentro tutte le mie cose che volevo portare dentro. I fagottini
li mettemmo nella camicia. Notai che questi nostri compagni di prigionia, a
eccezione di un paio che possedevano l'orologio, non vollero consegnare la
roba loro all'uomo dell'ufficio. Erano decisi a trafugarla in cella, a qualsiasi
costo, fidandosi della buona sorte; ma non erano però saggi come il mio
compagno, perché non ebbero l'accortezza del fagottino.
I guardiani che ci avevano accompagnati raccolsero le manette e la catena
e ripartirono per Niagara Falls, mentre noi, sotto nuova scorta, fummo
guidati dentro la prigione. Mentre eravamo in ufficio, a noi si aggiunsero
altre squadre di prigionieri di recente arrivo, sì che adesso formavamo una
colonna di quaranta o cinquanta uomini.
Sappiate, voi che mai andaste in prigione, che il traffico di una prigione è
denso come il commercio nel Medio Evo. Una volta dentro il penitenziario,
uno non si può muovere a suo piacimento. A ogni pochi passi incontra
grandi porte di acciaio o cancelli che si tengono sempre serrati. Dovevamo
andare dal barbiere, ma bisognava di continuo arrestarsi dinanzi a una porta
chiusa. Ci condussero in questo modo al nostro primo «braccio». Braccio
non vuol dire «corridoio». Immaginatevi una costruzione di mattoni, a
forma oblunga, alta sei piani, e ciascun piano con una fila di celle, diciamo
cinquanta celle per fila. Insomma, immaginatevi un cubo gigantesco, un
enorme alveare. Questo cubo posatelo per terra, e questo è ciò che si chiama
un «braccio» del Penitenziario della Contea di Erie. Per completare il
quadro, figuratevi una stretta galleria, che percorre per l'intera lunghezza
ciascuna fila di celle, e in fondo all'edificio figuratevi tutte queste gallerie
collegate da un sistema di scalette antincendio, in acciaio.
Ci fermarono al primo braccio, in attesa che una guardia aprisse una
porta. Qua e là si muovevano i reclusi, pelati e rasati, con indosso la casacca
a strisce. Uno di questi reclusi destò la mia attenzione, su nella galleria della
terza fila di celle. Stava in piedi, ma si sporgeva in avanti, le braccia posate
sulla ringhiera, e pareva che non si accorgesse della nostra presenza.
Sembrava che guardasse nel vuoto. Il mio compagno gli fece una specie di
fischio, appena udibile. Il recluso abbassò gli occhi. Si scambiarono un
qualche segnale, a gesti. Poi volò in aria il fagottino del mio compagno. Il
recluso lo prese al volo, e in un baleno il fagotto fu nascosto sotto la sua
camicia, e rieccolo intento a guardare nel vuoto. Il mio compagno mi aveva
detto di seguire il suo esempio. Scelsi il momento buono, cioè quando la
guardia mi fu di spalle, e il mio fagotto seguì la sorte del primo dentro la
camicia del recluso.
Un minuto dopo si aprì la porta, in fila entrammo dal barbiere. Ci
trovammo altri reclusi vestiti a righe. E c'erano anche i barbieri della
prigione. C'erano vasche da bagno, acqua calda, sapone, spazzole. Ci
comandarono di spogliarci e di fare il bagno, e che ciascuno strofinasse la
schiena del vicino - precauzione inutile, questa del bagno obbligatorio,
perché la prigione brulicava di insetti. Dopo il bagno, ciascuno ebbe una
sacca di tela per riporci i panni.
«Metteteci tutti i vostri panni», disse la guardia. «Non cercate di trafugare
qualcosa. Dovete allinearvi, nudi, per l'ispezione. Quelli che debbono
scontare non più di trenta giorni, si possono tenere scarpe e bretelle. Gli
altri, con più di trenta giorni, nulla».
Questo annuncio fu accolto con costernazione. Come può un uomo nudo
trafugare qualcosa a dispetto d'una ispezione? Soltanto il mio compagno e
io eravamo salvi. Ma fu a questo punto che i barbieri - reclusi anche loro - si
misero all'opera. Passavano tra questi poveri novellini della galera, e
s'offrivano volentieri di prendere in carico le loro robe, con la promessa di
restituirle il giorno dopo. Questi barbieri erano filantropi, a sentirli parlare.
Come nel caso di fra' Filippo Lippi, non ci fu mai un così pronto
scaricamento. Fiammiferi, tabacco, carta di riso, pipe, coltelli, danaro, tutto
fluiva dentro le capaci casacche dei barbieri. Facevano un bel rigonfio,
eppure le guardie finsero di non vedere. Per farla breve, non fu mai
restituito nulla. E i barbieri non avevano mai avuto alcuna intenzione di
restituire quel che avevano preso. Questa roba la consideravano legittima
proprietà loro. Era la mancia, la paga del barbiere. Vidi poi che le mance di
questo tipo, in prigione, erano molte, e avrei dovuto averne anch'io, grazie
al mio nuovo compagno.
C'erano diverse sedie e i barbieri lavoravano svelti. Mai avuto un taglio di
capelli e una sbarbatura così veloce. Ciascuno s'insaponava da sé, e i
barbieri passavano il rasoio alla velocità di un minuto per uomo. Per il
taglio dei capelli ci voleva un pochino di più. In tre minuti mi fecero fuori
una barba di diciotto giorni, e la mia testa era liscia come una biglia, con
appena appena un poco di stoppia. Barbe e baffi scomparvero come erano
scomparsi i nostri panni, e tutto il resto. Credetemi pure, quando quelli
ebbero finito, la nostra banda non aveva un gran bell'aspetto. Non mi ero
mai accorto, prima, che veramente eravamo messi male.
E poi ci fu l'allineamento - eravamo una quarantina, forse cinquanta, nudi
come gli eroi di Kipling che assalirono Lungtunpen. Frugarci fu facile.
Scarpe, noi, e nient'altro. Due o tre tipi svelti, che non s'eran lasciati
convincere dai barbieri, furono trovati in possesso di qualche oggetto, e cioè
tabacco, pipe, fiammiferi, spiccioli, oggetti che furono subito confiscati. Ciò
fatto, portarono i panni nuovi - grezze camicie carcerarie, giubbe e calzoni a
righe vistose. Avevo sempre avuto la pia illusione che il vestito a strisce
toccasse soltanto al recluso condannato per un grave reato. L'illusione
scomparve, io indossai la divisa della vergogna e provai per la prima volta
che impressione fa marciare a passo serrato.
In fila indiana, stretti l'uno a ridosso dell'altro, le mani di ciascuno sulle
spalle dell'uomo davanti, traversammo un altro «braccio». Qui ci
allinearono contro il muro, sempre in fila indiana, e ci comandarono di
denudare il braccio sinistro. Passò lungo la fila un giovane, uno studente di
medicina che faceva pratica su questo branco di bestiame che eravamo noi.
Ci vaccinò a velocità quadrupla, rispetto a quella dei barbieri. Dopo un
ultimo avviso di non strofinare su niente il braccio vaccinato, e di lasciar
scorrere il sangue, perché si formasse la crosta, ci portarono alle nostre
celle. Qui il mio compagno e io ci dividemmo, ma non prima che avesse il
tempo di sussurrarmi: «Succhiatelo».
Non appena fu chiuso, mi succhiai il braccio. E in seguito vidi uomini i
quali non avevano seguito il mio esempio, con nel braccio fori tremendi: ci
sarebbe entrato un pugno. Era colpa loro. Avrebbero dovuto succhiarsi il
braccio.
Nella mia cella c'era un altro uomo. Saremmo stati compagni di cella. Era
un bel giovane, taciturno, ma molto capace, insomma un tipo splendido
come lo si può incontrare in un viaggio che dura un giorno, e questo
nonostante il fatto che aveva appena finito di scontare due anni in un
penitenziario dell'Ohio.
Eravamo in cella da mezz'ora appena quando un detenuto avanzò lungo la
galleria e guardò nella nostra cella. Era libero di circolare per il «braccio»,
spiegò. Ed era il mio compagno di prima. Lo facevano uscire alle sei del
mattino e lo lasciavano fuori fino alle nove di sera. I superiori sapevano che
ci si poteva fidare di lui, come «uomo del braccio». A dargli la nomina era
stato un altro detenuto, uomo anche lui di fiducia dei superiori, e lo
chiamavano il «Primo Uomo del Braccio». Fra tutti in questo braccio erano
tredici. Dieci dovevano curare, ciascuno, una galleria di celle, e sopra di
loro c'erano il Primo, il Secondo e il Terzo Uomo del Braccio.
Noialtri nuovi arrivati dovevamo restare in cella per il resto della
giornata, m'informò il compagno, in modo che il vaccino potesse attecchire.
La mattina dopo ci avrebbero messi al lavoro duro nel cortile del carcere.
«Ma dal lavoro ti levo appena possibile», promise. «Faccio licenziare un
uomo qui al braccio e metto te al posto suo».
Si ficcò la mano dentro la camicia, tirò fuori il fazzoletto che conteneva i
miei tesori, me li passò fra le sbarre e tirò avanti lungo la galleria.
Aprii il fagotto. C'era tutto. Non mancava neanche un fiammifero. Diedi
al mio nuovo compagno di che farsi una sigaretta. Stavo per accendere un
fiammifero, ma lui mi fermò. Sulle nostre brandine c'era un pagliericcio
sporco e unto. Strappò una strisciolina di stoffa sottile e l'arrotolò
strettamente, telescopicamente, in modo da formare un cilindro lungo e
sottile. Lo accese con il prezioso fiammifero. Il cilindro di cotone arrotolato
non faceva fiamma. In cima si era formata una brace di fuoco che si
consumava lentamente. Sarebbe durata quattro ore, e il mio compagno di
cella la chiamava «esca». Quando stava per finire, bastava fare un'altra esca,
metterne un capo contro il capo della vecchia, soffiarci sopra, e trasferire la
brace accesa. Insomma, come conservatori di fuoco, avremmo potuto dar
dei punti a Prometeo.
Alle dodici fu servito il pasto. In fondo alla porta della nostra cella c'era
una piccola apertura, come il pertugio che si vede in certi pollai. Di lì fecero
passare due pani secchi e una gamella di «minestra». Una porzione di
minestra era formata da circa un litro di acqua calda con a galla qualche
solitaria goccia di grasso. C'era anche, nell'acqua, un poco di sale.
Bevemmo la minestra, ma non mangiammo il pane. Non che non
avessimo fame, e non che il pane fosse immangiabile. Era anzi abbastanza
buono. Ma avevamo le nostre buone ragioni per fare così. Il mio compagno
aveva scoperto che la nostra cella era piena di cimici. In ogni crepa, in ogni
interstizio fra un mattone e l'altro, dove la calce era caduta, fiorivano grandi
colonie. Gli indigeni osavano persino uscire in pieno giorno e brulicare a
centinaia sulle pareti. Il mio compagno di cella conosceva bene le abitudini
di queste bestie. Simile a Childe Roland, impavido alle labbra levò il corno
di guerra. E mai si vide guerra più terribile. Durò ore e ore. E fu un macello.
E quando gli ultimi scampati si furono ritirati nei loro ricettacoli di mattoni
e calce, il nostro lavoro era appena a metà. Masticammo gran boccate del
nostro pane, fino a ridurlo alla consistenza dello stucco. Quando un nemico
si rifugiava nell'interstizio fra due mattoni, poi prontamente ce lo
chiudevamo con un pezzo di pane masticato. Faticammo fino a che la luce
del giorno si fu fatta fioca, e fino a che fu chiuso ogni buco, ogni
nascondiglio. Io tremo ancora se penso alle tragedie di morte per fame e di
cannibalismo che di certo seguirono dietro questi baluardi otturati col pane.
Ci buttammo sulle brandine, stanchi e affamati, in attesa della cena. Fu
una bella giornata di lavoro fatto bene. Nelle settimane seguenti non
avremmo lamentato le schiere degli insetti. Avevamo saltato un pasto,
avevamo salvato la pelle a scapito dello stomaco; ma eravamo contenti.
Anche per la futilità degli sforzi umani! Il nostro lungo lavoro era da poco
finito quando una guardia aprì la porta. Si doveva fare una nuova
distribuzione di prigionieri, e ci portarono a un'altra cella, due gallerie più in
alto.
La mattina dopo, presto, aprirono le nostre celle, e lungo l'intero braccio
diverse centinaia di prigionieri si disposero a passo serrato e andarono nel
cortile della prigione per il lavoro. Il Canale Erie scorre proprio accanto al
cortile posteriore del Penitenziario della Contea di Erie. Era nostro compito
scaricare barconi fluviali e portare materiale ferroviario molto pesante, a
spalla, dentro la prigione. Mentre lavoravo considerai la situazione e studiai
la possibilità di una fuga. Neanche da pensarci. In cima ai muri
camminavano guardie armate di fucili a ripetizione e mi avevano anche
detto che nelle torrette delle sentinelle c'erano le mitragliatrici.
Non me la presi. Trenta giorni non erano poi tanti. Avrei fatto questi
trenta giorni, e avrei aumentato il bagaglio delle nozioni che mi sarebbero
servite, una volta fuori, contro le arpie della giustizia. L'avrebbero visto, di
che cosa è capace un ragazzo americano, quando i suoi diritti e i suoi
privilegi vengono calpestati come successe a me. Mi avevano negato il
diritto a essere giudicato da un tribunale; mi avevano negato il diritto a
dichiararmi colpevole o innocente; mi avevano negato ogni e qualsiasi tipo
di processo (infatti non potevo considerare processo quel che mi era toccato
a Niagara Falls); non mi avevano permesso di comunicare né con un
avvocato né con chicchessia, e quindi mi avevano negato il diritto a
chiedere un mandato di "habeas corpus"; mi avevano tagliato la barba e
rasato la testa, mi avevano vestito con le strisce del condannato; ero
costretto a faticare a pane e acqua e a marciare a quel vergognoso passo
serrato e con le guardie armate sopra di me. E tutto questo per cosa? Che
cosa avevo fatto? Quale reato avevo commesso contro i buoni cittadini di
Niagara Falls? Perché si vendicavano su di me in questo modo? Non avevo
violato l'ordinanza che colpisce chi dorme all'aperto. Quella notte avevo
dormito fuori della loro giurisdizione, in campagna. Non avevo chiesto
l'elemosina per procurarmi un pasto, né battuto le loro strade in cerca d'un
quattrino. Ecco tutto quel che avevo fatto: camminavo su un loro
marciapiede e guardavo la loro pittoresca cascata. E questo era un reato? A
rigore non ero colpevole di infrazione alcuna. Bene, una volta fuori,
gliel'avrei fatta vedere.
Il giorno dopo parlai con una guardia. Volevo far venire un avvocato. La
guardia mi rise in faccia. Lo stesso fecero le altre guardie. Ero proprio
"incommunicando", per ciò che riguardava il mondo esterno. Cercai di far
uscire una lettera, ma mi dissero che ogni lettera veniva letta, censurata o
confiscata dalle autorità della prigione, e che in ogni caso non si permetteva
di scrivere ai condannati a pene brevi. Poco dopo cercai di far trafugare una
lettera consegnandola a un detenuto che doveva uscire, ma seppi che
venivano tutti perquisiti, e se si trovava una lettera, questa veniva distrutta.
Non importa. Tutto giovava a fare del mio un caso anche più nero, una volta
fuori.
Ma col passare dei giorni di prigionia (che descriverò nel prossimo
capitolo) imparai alcune cose. Sentii dire di poliziotti, giudici, avvocati che
erano inattendibili, mostruosi. Certi detenuti mi raccontarono le loro
esperienze con la polizia delle grandi città, esperienze tremende. E più
tremende ancora le notizie, di seconda mano, riguardanti uomini che erano
morti per colpa della polizia, e che quindi non potevano più testimoniare.
Anni dopo, nel rapporto del Comitato Lexow, avrei letto storie vere e più
terribili di quelle udite in carcere. Per adesso, durante i primi giorni del mio
imprigionamento, mi veniva la pelle d'oca a sentire queste storie.
Eppure, con il passare dei giorni, cominciavo a convincermi. Vedevo coi
miei occhi, che in questa prigione succedevano cose incredibili e mostruose.
E più mi convincevo, più profondo si faceva in me il rispetto per gli
scagnozzi della legge e per tutto il sistema della giustizia penale.
Poi lo sdegno mio scemò, e al suo posto irruppe la marea della paura.
Vedevo finalmente, con occhio chiaro, che cosa avevo contro. Diventavo
triste e fiacco. Ogni giorno mi convincevo sempre di più a non far chiasso,
una volta fuori. Chiedevo soltanto, una volta fuori, l'occasione di sparire dal
paesaggio. E proprio questo feci non appena m'ebbero rilasciato. Mi tenni la
lingua fra i denti, camminai in punta di piedi e puntai sulla Pennsylvania,
fatto uomo più saggio e più umile.
IL PENITENZIARIO
Per due giorni lavorai nel cortile della prigione. Era un lavoro duro, e pur
anche dandomi malato quando ce n'era l'occasione, la parte del fesso
toccava sempre a me. Questo per via del cibo. Con quel cibo nessuno può
lavorare sodo. Pane e acqua, non ci davano altro. Una volta alla settimana
avrebbero dovuto darci la carne; ma non sempre questa carne si faceva
vedere, e siccome la parte nutriente andava persa nella cottura per fare la
minestra, non contava nulla il fatto che una volta alla settimana te la
facevano assaggiare.
E poi c'era un difetto fondamentale nella dieta di pane e acqua. Se l'acqua
era abbondante, il pane non bastava. Una razione di pane era grossa,
all'incirca, come due pugni, e di queste razioni ce ne davano tre al giorno.
Una cosa era buona, a proposito dell'acqua, che era calda. La mattina la
chiamavano «caffè», a mezzogiorno diventava minestra, alla sera si
mascherava da te. Ma era sempre la solita vecchia acqua. I prigionieri la
chiamavano «acqua stregata». La mattina era acqua nera, e il colore
dipendeva dal fatto che ci avevano bollito dentro croste di pane bruciato. A
mezzogiorno ce la servivano dopo averne omesso il colore, con l'aggiunta
del sale e di qualche goccia di grasso. A sera ce la davano d'un colore fra la
porpora e il biondo ramato, un colore che resiste a ogni descrizione; povera
cosa con il nome di te, ma assai elegante come semplice acqua calda.
Eravamo tutti affamati, al Penitenziario della Contea di Erie. Solo quelli
condannati a pene più lunghe sapevano cosa vuol dire aver cibo a
sufficienza. Ed ecco il motivo: sarebbero tutti morti dopo un certo periodo
di trattamento come quello riservato a chi scontava una pena breve. So che
ai primi toccava cibo più sostanzioso, perché ce n'erano parecchi al
pianterreno del nostro braccio, e quando io ero di servizio, gliene rubavo
spesso. Non si vive di solo pane, specie poi se il pane è insufficiente.
Diede la notizia il mio compagno. Dopo due giorni di lavoro in cortile, mi
levarono dalla cella e mi nominarono uomo di fiducia, «uomo del braccio».
La mattina e la sera servivo il pane ai prigionieri nelle loro celle; alle dodici
invece si usava un metodo diverso. I detenuti, in lunga fila, andavano al
lavoro, rompevano il passo serrato e levavano le mani di sulla spalla del
compagno di fila. Poco oltre la soglia erano ammucchiati vassoi di pane, e
c'era anche il Primo Uomo del Braccio e due ordinari, io e un altro. Nostro
compito era quello di reggere i vassoi del pane al passaggio dei detenuti.
Non appena il vassoio, per esempio, in mano mia, era vuoto, prendeva il
mio posto l'altro uomo, con il vassoio pieno. E quando era vuoto il suo,
toccava a me sostituirlo. Così la fila passava veloce, ogni uomo tendeva la
mano destra ad afferrare la razione di pane portagli sul vassoio.
Il compito del Primo Uomo del Braccio era differente. Stava accanto al
vassoio, a sorvegliare. Quei poveri affamati non riuscivano mai a vincere il
senso di delusione, di potere una volta prendere dal vassoio due razioni di
pane anziché una. Per quanto ne so io, non successe mai. La mazza del
Primo Uomo sfrecciava come l'artiglio di una tigre, a colpire la mano che
avesse osato tanto. Il Primo Uomo era un buon giudice, anche a distanza, e
ormai aveva percosse tante mani, con quel suo bastone, che era diventato
infallibile. Non sbagliava mai e di solito puniva il colpevole levandogli
anche la sua razione e mandandolo in cella a pranzare coll'acqua calda.
Qualche volta, e mentre tutti questi affamati giacevano in cella, ho visto
un centinaio di razioni che venivano nascoste nelle celle dagli Uomini del
Braccio. Potrà sembrare assurdo, che trattenessimo questo pane. Ma era una
delle nostre «mance». Fuori del nostro braccio, eravamo maestri di
economia, e facevamo il nostro gioco in modo del tutto simile a quello dei
padroni economici della civiltà. Controllavamo le giacenze di cibo per la
popolazione, e proprio come i nostri fratelli banditi fuor delle nostre mura,
gliela facevamo pagare cara. Barattavamo il pane. Una volta alla settimana,
agli uomini che lavoravano in cortile toccavano cinque centesimi di tabacco
da masticare. Questo tabacco era la moneta del nostro regno. Di solito
scambiavamo due o tre razioni di pane per una di tabacco, e loro ci stavano,
non perché non gli piacesse il tabacco, ma perché il pane gli piaceva anche
di più. Ah, lo so, era come togliere la caramella a un bambino, ma cosa
volete? Bisognava pur campare. E di sicuro ci sarebbe stato un qualche
compenso all'iniziativa e alla intrapresa. E poi noi seguivamo il modello dei
nostri Migliori, là oltre le mura, i quali, su scala più grande, e sotto la
maschera rispettabile del mercante, del banchiere, del capitano d'industria,
facevano esattamente quello che facevamo noi. Ma poi, le cose tremende
che sarebbero successe a quei poveri disgraziati, se non fosse stato per noi,
io non so neanche immaginarmele. Il Cielo sa quanto pane mettemmo in
circolazione lì al Penitenziario della Contea di Erie. Sì, e incoraggiavamo la
frugalità e la scaltrezza... ai poveri diavoli che rinunciavano al loro tabacco.
E poi c'era il nostro esempio. Nel cuore di ogni detenuto noi fissammo
l'ambizione di diventare simili a noi e avere così la loro brava «mancia».
Salvatori della società, credo proprio di sì.
Eccoti un affamato senza tabacco. Forse uno sprecone che s'era
consumato tutto, per sé. Benissimo: aveva un paio di bretelle. Barattavamo
quelle bretelle con sei razioni di pane - oppure dodici razioni, se le bretelle
erano belle. Ora io non portavo mai le bretelle, ma non importava. Lì
accanto alloggiava un detenuto, condannato a dieci anni per omicidio.
Portava le bretelle e queste gli piacevano. Potevo barattarle con una parte
della sua carne. Carne, ecco quel che mi occorreva. O magari quel romanzo
sgualcito, in brossura? Era come aver trovato un tesoro, perché il romanzo
io potevo leggerlo e poi barattarlo con i fornai, in cambio di un dolce,
oppure coi cuochi, in cambio di altra carne con verdura, o con qualche altro
ancora, in cambio del giornale che qualche volta riusciva a filtrare, o coi
fuochisti in cambio di un caffè decente, insomma era tutto possibile. I
cuochi, i fornai, i fuochisti, eran tutti detenuti, come me, e alloggiavano nel
nostro braccio, nella prima fila di celle, sopra di noi. Insomma, un vero e
proprio sistema di baratto messo insieme nel Penitenziario della Contea di
Erie. Circolavano persino soldi. Qualche volta erano soldi trafugati da
uomini che dovevano scontare una pena breve, ma più frequentemente
provenivano dalla «mancia» dei barbieri, che colpivano i novellini, ma più
ancora dalle celle di chi scontava una pena lunga, anche se non so come se
lo procurassero.
A parte la sua posizione preminente, il Primo Uomo del Braccio andava
famoso per la sua ricchezza. Oltre alle mance di vario genere, pretendeva
mance anche da noi. Noi eravamo i coltivatori di tutta questa miseria, ma il
Primo Uomo era il nostro coltivatore generale. Le nostre mance le
ottenevamo dopo suo permesso, e questo permesso lui se lo faceva pagare.
Come ho detto, aveva fama di uomo ricco; ma il suo danaro non lo
vedemmo mai, ed egli viveva in una cella, in solitaria grandezza.
Ma che al penitenziario si facessero soldi, io lo sapevo per prova diretta,
perché fui per diverso tempo compagno di cella del Terzo Uomo del
Braccio. Possedeva più di sedici dollari. Ogni sera, dopo le nove, soleva
contare i suoi soldi, quando ci avevano ormai serrati dentro. E ogni sera
soleva ripetermi quello che mi avrebbe fatto se io lo avessi tradito con gli
altri uomini del braccio. Capite, aveva paura di essere derubato, e il pericolo
lo minacciava da tre diverse direzioni. C'erano le guardie. Un paio di
guardie potevano saltargli addosso, dargli una buona dose di botte per
insubordinazione, buttarlo nella «solitaria» (la cella d'isolamento); e nel
tafferuglio i sedici dollari sarebbero spariti. Ancora, poteva succedere che il
Primo Uomo glieli portasse via con la minaccia di licenziarlo e di
rimandarlo al lavoro duro nel cortile della prigione. E ancora, c'eravamo
noialtri dieci normali uomini del braccio. Se avessimo annusato la sua
ricchezza, era largamente possibile che, in una giornata tranquilla, tutto il
nostro branco lo mettesse in un angolo e lo buttasse giù. Ah, credetemi,
eravamo dei lupi, proprio come quei tali che fanno buoni affari a Wall
Street.
Aveva buoni motivi di temerci, e per questo io dovevo temere lui. Era un
bruto, enorme, analfabeta, ex pirata ostricaro nella baia del Chesapeake, ex
detenuto con alle spalle cinque anni di Sing Sing, e complessivamente un
bestione stupido e carnivoro. Usava prendere con le trappole i passerotti che
entravano nel braccio quando le grate erano aperte. Una volta preso
l'uccelletto, correva alla sua cella e io l'ho visto masticarne le ossa e
sputarne le penne, perché lo mangiava crudo. Ah no di certo, non lo tradii
mai con gli altri uomini del braccio. Anzi, questa è la prima volta che faccio
parola dei suoi sedici dollari.
Ma anche io ricavai da lui qualche cosa. Si era innamorato di una
detenuta che stava chiusa nel «reparto femminile». Non sapeva né leggere
né scrivere, e di solito toccava a me leggergli le lettere della donna e
scrivere per suo conto. E per questo io mi facevo pagare. Ma erano buone
lettere. Mi ci sfogavo, ci mettevo il mio più bello stile, e poi gliela
conquistai: anche se sotto sotto io credo che fosse innamorata non di lui, ma
dei miei umili scritti. Ripeto, quelle lettere erano una cosa grandiosa.
Si poteva anche ricavare qualcosa «passando» l'esca. Noi eravamo i
messaggeri celesti, i portatori di fuoco, in quel ferreo mondo di chiavarde e
sbarre. Quando a sera rientravano gli uomini dal lavoro, e venivano chiusi
in cella, avevano voglia di fumare. Allora noi facevamo scoccare la scintilla
divina, giù per le gallerie, di cella in cella, con le nostre esche accese. Quelli
che erano avveduti, o coi quali facevamo affari, tenevano queste esche
accese tutta la notte. A non tutti, però, toccava la scintilla divina. Quello che
non voleva pagare, andava a letto senza scintilla e fumo. Ma a noi cosa ce
ne importava? Avevamo sempre la meglio su di lui, e se continuava a fare il
furbo, un paio di noi gli saltavano addosso e gli davano il fatto suo.
Vedete, era questa la teoria operativa degli uomini del braccio. Eravamo
in tutto tredici. Nel nostro braccio c'era un mezzo migliaio di prigionieri. Il
compito affidatoci era quello di mantenere l'ordine. Quest'ultimo sarebbe
stato competenza delle guardie, ma ce l'avevano ceduta. Perciò dovevamo
mantenere l'ordine, in caso contrario, ci avrebbero rispediti al lavoro duro, e
non, era escluso, per dar più gusto alla faccenda, un po' di reclusione in
cella d'isolamento. Ma finché si mantenesse l'ordine, noi potevamo darci da
fare a ottenere le mance.
Fermiamoci un momento a considerare il problema. Eravamo tredici
bestie sopra mezzo migliaio di altre bestie. Era un inferno vivente, quella
prigione, e toccava a noi tredici governarlo. Considerata la natura delle
bestie, noi non potevamo governare con la cortesia. Si governava con la
paura. Naturalmente, dietro di noi, a spalleggiarci, c'erano le guardie. In casi
estremi, chiedevamo aiuto a loro; ma chiamandole troppo spesso si
sarebbero seccate, e in questo caso si sarebbero adoperate per avere uomini
fidati di maggiore efficienza, per sostituirci. Infatti noi non le chiamavamo
spesso, e le chiamavamo senza far troppo chiasso, per esempio quando c'era
da aprire la porta di una cella per metterci dentro un prigioniero refrattario.
In questo caso la guardia si limitava ad aprire la porta e poi ad andarsene
per non assistere a quel che succedeva quando cinque o sei uomini
entravano a pestare il detenuto.
Circa i particolari di questo pestaggio, non voglio dire nulla. E dopo tutto
il pestaggio era forse il meno grave degli orrori indicibili al Penitenziario
della Contea di Erie. Io dico «indicibili», ma in realtà potrei dire
«impensabili». Per me furono impensabili fino a quando li vidi, e non ero
un pulcino, conoscevo abbastanza mondo, come conoscevo certi terribili
abissi della degradazione umana. Sarebbe occorso uno scandaglio ben
profondo per raggiungere il fondo, nel Penitenziario della Contea di Erie. Io
qui mi limito a sfiorare, in modo leggero e faceto, la superficie delle cose,
così come le vidi.
A volte, per esempio al mattino, quando i prigionieri scendevano a
lavarsi, noialtri tredici eravamo praticamente soli in mezzo a loro, e tutti,
fino all'ultimo, ce l'avevano con noi. Tredici contro cinquecento, e noi
governavamo con la paura. Non potevamo permettere la minima infrazione
alle regole. Se lo avessimo fatto, saremmo stati presi. La nostra regola era
questa: appena uno apre bocca, picchiare - picchiare forte, picchiare con
qualunque cosa. Un manico di scopa, impugnata alla rovescia, in faccia,
aveva sempre un effetto calmante. Ma non era tutto. Di quest'uomo
bisognava fare un esempio; perciò la regola successiva era: avanti e insisti.
Certo, non si poteva essere certi che tutti gli uomini del braccio accorressero
a dare un aiuto in quest'opera di castigo; perché anche questa era una regola.
Ogni volta che un uomo del braccio fosse nei pasticci con un prigioniero,
dovere di tutti i suoi colleghi che per caso fossero da quelle parti era di
prestare una mano, anzi un pugno. Mai pensare al valore del caso in atto avanti e picchiare, e picchiare con qualsiasi cosa; insomma, mettere il
colpevole fuori combattimento.
Rammento un bel giovane mulatto sui vent'anni che si mise in testa la
folle idea di dover difendere i propri diritti. E i diritti li ottenne, anche; ma
non gli giovarono per nulla. Stava nella galleria più alta. Otto uomini del
braccio gli levarono di testa certe idee in un minuto e mezzo - infatti era
questo il tempo necessario per percorrere la sua galleria e per scendere
cinque rampe di scala d'acciaio. Percorse questa distanza con tutte e
ciascuna le parti della sua anatomia, tranne i piedi, e gli otto uomini non se
ne stavano con le mani in mano. Il mulatto cadde sul pavimento dove io
stavo a guardare. Si rimise in piedi e per un momento stette su, poi allargò
le braccia, emise un urlo tremendo di terrore e di dolore e di crepacuore. In
quel medesimo istante, come in una scena di magia, gli stracci della sua
divisa di carcerato gli caddero di dosso, lasciandolo completamente nudo a
versare sangue da ogni parte della superficie del corpo. Poi crollò, a
mucchio, fuori di coscienza. Aveva imparato la lezione, e tutti i detenuti
dentro quelle pareti che lo sentirono urlare anche loro avevano imparato la
lezione. E io avevo imparato la lezione mia. Non è bello vedere il cuore di
un uomo spaccato, in un minuto e mezzo.
Sentite ora come ci comportavamo nella faccenda di passare le «esche» e
ottenerne in cambio la mancia. Una fila di novellini prende alloggio nelle
tue celle. Tu passi davanti alle sbarre con l'esca. «Ehi, amico, dacci del
fuoco», dirà qualcuno. Ora, questo significa che l'uomo in cella ha con sé
del tabacco. Tu gli dai l'esca e tiri avanti. Poco dopo ritorni e, come per
caso, ti appoggi alle sbarre. «Senti, amico, non si potrebbe avere un po' di
tabacco?» Questo devi dire. Se quello non capisce il gioco, probabilmente ti
giurerà che tabacco non ce n'è. Benissimo. Gli fai le tue condoglianze e te
ne vai. Ma tu sai che la tua esca durerà solo per il resto della giornata. Il
giorno dopo tu ritorni, e lui chiede ancora: «Ehi, amico, hai da accendere» e
tu dici: «Tu non hai più tabacco, ma cosa vuoi accendere?» E neanche gli
dai da accendere. Una mezz'ora dopo, oppure una ora, due ore, tre ore, tu
sarai lì che passi e l'uomo ti chiamerà con voce dolce: «Amico, vieni qua».
E tu vai. Ficchi la mano fra le sbarre e te la trovi piena di prezioso tabacco.
Allora tu gli dai da accendere.
A volte però arriva un novellino a cui conviene non fare giochetti per
avere la mancia. Passa in giro, misteriosamente, la parola che bisogna
trattarlo per bene. Nessuno può mai sapere dove sia nata questa parola.
L'unica cosa chiara è che quest'uomo ha una maniglia. Può darsi che sia un
qualche uomo del braccio; una delle guardie in qualche altra parte della
prigione; può darsi che il buon trattamento sia stato ottenuto da uno
stoccatore di mance d'alto livello: ma comunque sia, noi sappiamo che sta a
noi trattarlo bene, se vogliamo evitare fastidi.
Noi del braccio eravamo uomini che mediano e che portano.
Organizzammo traffici fra detenuti chiusi in parti diverse della prigione, e
organizzammo lo scambio. E poi accettavamo comandi nell'una e nell'altra
direzione. A volte gli oggetti scambiati dovettero passare per le mani di una
mezza dozzina di questi mediatori, ciascuno dei quali prendeva il suo
malloppo, oppure il servigio doveva essere compensato in un altro modo.
A volte uno era in debito sui servigi resi, altre volte era lui il creditore.
Per esempio io entrai in prigione debitore verso il detenuto che aveva
trafugato le mie robe. Una settimana dopo, circa, uno dei fuochisti mi mise
in mano una lettera. Gliel'aveva data un barbiere. Il barbiere l'aveva ricevuta
dal detenuto, quello che aveva fatto entrare le mie robe. Per pagare il debito
io dovevo portare una lettera. Ma non aveva scritto lui la lettera. Il mittente
d'origine era un detenuto del suo braccio, che scontava una lunga pena. Ed
era diretta a una donna carcerata nel settore femminile. Ma se fosse davvero
diretta a lei, o se invece la donna fosse, a sua volta, un altro anello della
catena, questo non lo so. Tutto quel che sapevo era la sua descrizione fisica,
poi toccava a me fargliela avere.
Passarono due giorni, durante i quali tenni con me questa lettera; poi
venne la buona occasione. Le donne rammendavano tutti i panni logori dei
detenuti. Non pochi nostri uomini del braccio dovevano andare al settore
femminile a consegnare grossi fagotti di panni. Mi misi d'accordo con il
Primo Uomo del Braccio, a cui mi sarei accompagnato. Ci aprirono una
porta dopo l'altra e noi traversammo la prigione, diretti al posto delle donne.
Entrammo in una grande stanza dove le donne, sedute, facevano i
rammendi. I miei occhi cercavano quella donna che mi era stata descritta.
L'avvistai e le andai incontro. Stavano di guardia due matrone dagli occhi
d'aquila. Tenni la lettera sul palmo della mano e le feci cenno. Capì che
avevo qualcosa per lei; di sicuro l'aspettava, e anche lei aveva cercato
d'indovinare, al nostro ingresso, chi fosse l'uomo. Ma una delle matrone le
stava vicino, non più di un palmo. Già gli uomini stavano raccogliendo i
fagotti che poi avrebbero portato via. Il momento passava. Io indugiai con il
mio fagotto, fingendo che fosse legato male. La matrona non avrebbe
distolto gli occhi da me? Ci sarei riuscito. E allora eccoti un'altra donna che
si mette a scherzare con uno degli uomini: tende il piede per dargli lo
sgambetto, oppure lo pizzica, roba del genere. La matrona guarda da quella
parte e rimprovera la donna, aspramente. Bene, io non so se tutto questo
fosse previsto per distrarre l'attenzione della matrona, ma capii che questa
era l'occasione. La mano della mia donna si spostò, di sul grembo, fino al
fianco. Io mi chinai a prendere il fagotto. Da quella posizione le feci
scivolare la lettera in mano, e in cambio ne ebbi un'altra. Un istante dopo
avevo il fagotto in spalla, lo sguardo della matrona era ritornato su di me
perché ero l'ultimo fra gli uomini del braccio, e io correvo per raggiungerli.
La lettera avuta dalla donna io la passai al fuochista, il quale la fece avere al
barbiere, e poi al detenuto che mi aveva aiutato a far entrare la mia roba, e
finalmente al legittimo destinatario, quello che in carcere scontava una pena
lunga.
Spesso portavamo lettere, in una catena di comunicazioni così complessa
che noi non conoscevamo né il mittente né il destinatario. Noi eravamo gli
anelli di questa catena. Chissà dove, e chissà come, un detenuto mi metteva
una lettera in mano con l'avviso di passarla al prossimo anello. Tutte queste
azioni sono favori da ricambiare in seguito, quando avrei dovuto agire agli
ordini di un pezzo grosso, in questo mestiere di passare le lettere in carcere,
e dal quale avrei avuto la mia paga. Tutta la prigione era coperta da una rete
di linee di comunicazione. E noi che controllavamo questo sistema di
comunicazioni, naturalmente, siccome seguivamo il sistema della società
capitalistica, imponevamo ai nostri clienti alti balzelli. I servigi si rendono
per il profitto, con gli interessi composti, anche se noi qualche servigio lo
rendevamo per amore, anziché per profitto.
Per tutto il tempo che fui al penitenziario sgobbai forte per il mio antico
compagno. Lui aveva fatto molto per me e in cambio s'aspettava che io
facessi altrettanto. Una volta usciti, avremmo lavorato insieme, avremmo
cercato, insieme, qualche buon «lavoro». Infatti il mio compagno era un
criminale, certo, non un asso della malavita, ma un piccolo delinquente
capace d'un furto, d'una rapina e magari capace di qualcos'altro, omicidio
escluso. Per molte ore tranquille ce ne stemmo seduti accanto, a parlare.
Avevamo due o tre lavori in vista per il prossimo futuro, lavori che per me
andavano benissimo, e infatti ci intervenni anche a tracciare i particolari. Io
avevo visto e conosciuto parecchi criminali, e il mio compagno neanche si
sognava che lo prendevo in giro, con una tiritera di bugie lunga un mese.
Pensava che io fossi il padreterno, mi voleva bene perché non ero stupido, e
un po' mi voleva bene anche per quello che ero. Naturalmente io non avevo
alcuna intenzione di partecipare con lui a una vita di piccoli, sordidi crimini,
ma sarei stato un idiota a buttar via tutte le cose buone che la sua amicizia
mi rendeva possibile. Quando uno sta sulla lava rovente dell'inferno, non
può scegliere la strada da seguire, e lo stesso valeva per me al Penitenziario
della Contea di Erie. Dovevo scegliere: lavorare duro per guadagnarmi il
pane e l'acqua, o mettermi dalla parte della prepotenza. Ma per fare questo
dovevo tenermi buono il mio antico compagno.
La vita non era monotona al Penitenziario. Tutti i giorni succedeva
qualcosa: un uomo che dava fuori da matto, che impazziva sul serio, che si
picchiava, oppure un uomo, uno di noi del braccio, pigliava la sbornia.
«Rover Jack», uno dei normali uomini del braccio, era veramente in gamba,
e la nostra simpatia gliela esprimevamo nel colorito gergo dei bassifondi.
«Pittsburg Joe», che era il Secondo Uomo del Braccio, si accompagnava a
Rover Jack nelle sue mattane; e i due solevano dire che il Penitenziario
della Contea di Erie poteva strepparsi a suo piacere senza il pericolo di
essere arrestati. Io non lo seppi di sicuro, ma mi dissero che il bromuro di
potassio, preso in chissà che modo al dispensario, era la droga che usavano.
Ma io so, quale che fosse la loro droga, che a volte si ubriacavano a dovere.
Il nostro braccio era composto da feccia comune, pieno di sudiciume e di
sporcizia, la parte più sordida dell'umanità: incapaci ereditari, degenerati,
rottami, lunatici, intelletti imputriditi, mostri, storpi, insomma, l'incubo
dell'umanità. Perciò l'attacco epilettico fra noi era roba di tutti i giorni e
pareva contagioso. Quando a uno prendeva l'attacco, gli altri gli andavano
dietro. Ho visto sette epilettici contemporaneamente, che riempivano l'aria
con i loro urli, mentre altrettanti lunatici andavano su e giù farfugliando.
Agli epilettici non si dava altra cura che un secchio d'acqua fredda addosso.
Era inutile mandare a chiamare il medico o anche solo lo studente di
medicina. Non era il caso di disturbarli per questa robetta di tutti i giorni.
C'era un giovane danese sui diciotto anni, che aveva gli attacchi più
frequenti di tutti. Di solito, uno al giorno. Per questa ragione lo tenevano al
pianterreno, il più lontano possibile, in fondo alla nostra galleria. Dopo che
ebbe avuto alcuni attacchi nel cortile del carcere, le guardie non vollero più
quest'impiccio, e così rimase serrato nella sua cella di continuo, in
compagnia di un detenuto di Londra che gli stesse vicino. Ogni volta che
all'olandese veniva l'attacco, il londinese restava paralizzato dal terrore.
Il ragazzo danese non sapeva una parola d'inglese. Era garzone di fattoria,
condannato a novanta giorni per avere avuto una rissa con un tale. Come
prefazione a ciascun attacco cominciava a urlare. Ululava come un lupo.
Non solo, gli attacchi li aveva stando in piedi, una cosa che non gli giovava
affatto, perché ciascun attacco terminava con un tuffo a testa avanti, sul
pavimento. Ogni volta che sentivo sorgere l'ululato del lupo, io prendevo
una scopa e andavo alla sua cella. Ma noialtri detenuti di fiducia non
potevamo tenere le chiavi delle celle, così non potevo entrare. Stava in
piedi, al centro della cella stretta, con un tremito convulso, gli occhi
rovesciati all'indietro a mostrare soltanto il bianco e ululando come
un'anima persa. Per quanto cercassi, non mi riuscì mai di convincere il
londinese a dargli una mano. Mentre ululava e tremava, il londinese restava
accucciato sulla brandina superiore, la sguardo terrorizzato fisso su quella
figura terribile, ululante, stravolta. Era duro, per lui, povero diavolo di un
londinese. Aveva i suoi motivi, e niente affatto campati in aria, e c'è da
meravigliarsi se non era diventato matto.
Io non potevo che fare del mio meglio con la scopa. La ficcavo fra le
sbarre, la vibravo verso il petto del danese, e aspettavo. Quando si
avvicinava la crisi lui attaccava a vacillare avanti e indietro. Io seguivo i
suoi vacillamenti, perché nessuno mi poteva garantire quando avrebbe
compiuto quel suo tremendo tuffo sul pavimento. Ma quando succedeva io
ero lì, pronto, con la scopa, lo coglievo al volo e dolcemente lo calavo a
terra. Ma per quanto io cercassi, non scendeva mai a terra con tanta
dolcezza e di solito aveva il viso ammaccato dal selciato. Una volta a terra,
quando cominciavano le convulsioni, gli buttavo addosso un secchio
d'acqua. Non so se l'acqua fredda era la cosa giusta o no, ma nel
Penitenziario della Contea di Erie la consuetudine voleva così. Per lui non
fu mai fatto niente più di questo. A volte restava in quello stato, tutto
bagnato per un'ora circa, poi strisciando ritornava alla sua brandina. Io lo
sapevo, e non andavo a chiamare una guardia che lo assistesse. E poi, cosa
conta, a questo mondo un epilettico?
Nella cella accanto viveva un personaggio strano - un uomo che scontava
sessanta giorni per aver mangiato la spazzatura del bidone di Barnum, o
almeno lui raccontava così. Era una creatura ridotta davvero male, e da
principio fu molto mite e gentile. I fatti del suo processo erano quelli da lui
affermati. Era entrato sul terreno del circo e siccome aveva fame, aveva
raggiunto il bidone che conteneva i rifiuti della tavola del personale del
circo. «Ed era pane buono», mi assicurò più volte; «e carne non ce n'era»,
un poliziotto lo vide e l'arrestò, e adesso era lì.
Una volta passai dinanzi alla sua porta con un pezzo di fil di piombo
rigido in mano. Me lo chiese con tanta ansia che glielo passai fra le sbarre.
Subito, e usando niente altro che le mani, lo tagliò in tanti pezzetti, e li
piegò in modo da formare cinque o sei spille di sicurezza, molto credibili
per tali. Arrotò le punte sul pavimento di pietra. Io gli avevo fornito la
materia prima ed ebbi in cambio le spille finite; in più, lui ci aveva messo il
lavoro. Da quel giorno inaugurai un prospero commercio di spille di
sicurezza: io curavo le vendite, lui la produzione. Come salario, gli davo
razioni extra di pane, e ogni tanto un pezzo di carne e un paio di ossa da
minestra con un poco di midollo dentro.
Ma la prigione gli faceva male, e giorno per giorno diventava sempre più
violento. Gli uomini del braccio si divertivano a provocarlo. Gli riempivano
quel cervello così debole di storie di una grossa eredità che gli era stata
lasciata. E proprio per rubargliela lo avevano arrestato e messo in prigione.
Certo, lo sapeva anche lui che nessuna legge vieta di frugar nei bidoni della
spazzatura. Dunque lo avevano arrestato a torto. Era tutto un complotto per
privarlo della sua fortuna.
La prima volta che venni a sapere questa storia, gli uomini del braccio
ridevano della balla che gli avevano fatto bere. Poi lui ebbe con me un serio
colloquio, nel quale mi parlò dei suoi milioni e del complotto per
rubarglieli, e per questo mi nominava suo investigatore. Io feci del mio
meglio per calmarlo, parlandogli vagamente di uno sbaglio, e che esisteva
un uomo con nome identico al nome del legittimo erede. Lo lasciai molto
freddo, ma non riuscivo a tenergli lontani gli uomini del braccio, e quelli
continuavano a sfotterlo peggio che mai. Alla fine, dopo una scena
violentissima, mi congedò, rinnegò il mio incarico di investigatore privato,
ed entrò in sciopero. Smise il mio commercio di spille di sicurezza. Non
voleva fare più gli spilli di sicurezza e un giorno che passai dinanzi alla sua
cella mi tirò addosso la materia prima.
Non riuscii mai più a farci la pace. Gli altri uomini del braccio gli
dicevano che io ero un investigatore agli ordini dei cospiratori. E intanto
continuavano a contargli balle. Quei suoi torti immaginari gravavano sulla
sua mente, e alla fine diventò un pazzo pericoloso e omicida. Le guardie
non volevano ascoltare le sue storie di milioni rubati, e lui li accusava di far
parte del complotto. Un giorno scagliò una gamella di tè bollente su una
guardia e allora si fece un'indagine sul suo processo. Venne il giudice
istruttore e parlò con lui per qualche minuto, attraverso le sbarre della cella.
Poi lo portarono all'esame dei medici, e non tornò mai più. Mi chiedo se è
morto, e se continua a parlare dei suoi milioni, in qualche manicomio.
Alla fine venne il gran giorno, il mio rilascio. Veniva rilasciato insieme a
me il Terzo Uomo del Braccio, e la ragazza da poco dimessa era ad
attenderlo di là dalle mura. Se ne andarono insieme, felici. Insieme ce ne
andammo anche il mio amico e io, e insieme, a piedi, raggiungemmo
Buffalo. Non dovevamo stare insieme per sempre? Insieme chiedemmo
l'elemosina a favore della campagna contro gli alcoolici, e la somma
raccolta la spendemmo in boccali di birra, da tre centesimi l'uno. E di
continuo io aspettavo il momento buono per tagliare la corda. Da un
qualche vagabondo che stava per partire seppi che era da poco uscito un
merci. Di conseguenza calcolai i miei tempi. Quando venne il momento, il
mio amico ed io eravamo al saloon. Dinanzi a noi, due boccali schiumanti.
Avrei voluto dargli l'addio. Era stato tanto buono con me. Ma non osavo.
Andai nel retro del saloon e saltai lo stecconato. Fu una cosa svelta, e due
minuti dopo ero sul treno diretto a occidente di New York e verso la
Ferrovia della Pennsylvania.
PRENDERE UN TRENO
Se non gli capitano incidenti, un buon vagabondo, giovane e agile, riesce
a saltare su un treno, prima che il personale ferroviario riesca ad
accorgersene. Condizione essenziale, naturalmente, il buio della notte. Se
un vagabondo simile, in condizioni simili, decide che deve «prendere» un
treno, o lo prende, oppure è la malasorte che si è messa contro di lui. Non
c'è modo legittimo, a parte la morte, con cui i ferrovieri lo possano
«incastrare», e ci sono ferrovieri che non si sono arrestati dinanzi all'idea di
uccidere, così si afferma nel mondo dei vagabondi. Non avendone avuto
una esperienza particolare quando fui vagabondo, non posso personalmente
garantire questa nomea.
Ma questo ho sentito raccontare delle ferrovie «cattive». Quando un
vagabondo va «sotto», cioè sui binari e il treno è in movimento, non c'è
evidentemente il modo di liberarlo prima che il treno sia fermo. Il
vagabondo, ben nascosto dentro un vagone, con attorno a sé quattro ruote e
tutta la struttura del carro, ha la meglio sui ferrovieri, o almeno lo crede lui
perché un giorno si ritrova proprio sui binari, quelli di una ferrovia cattiva.
Una ferrovia cattiva è di solito quella dove, non molto tempo prima, un
ferroviere è stato ucciso dai vagabondi. Il cielo abbia pietà del vagabondo
che capita su uno di questi convogli d'una ferrovia cattiva, perché va
«sotto», a sessanta miglia orarie, non appena quelli se ne avvedono.
Il frenatore prende una coppiglia e un pezzo di corda di acciaio e lo porta
alla piattaforma del treno su cui sta viaggiando un vagabondo. Fissa la
coppiglia alla corda di acciaio, fa calare la corda in mezzo ai respingenti e
lascia che la coppiglia sporga oltre i binari. La coppiglia colpisce le traverse
fra i due binari, sbatte contro il fondo del vagone, di nuovo colpisce le
traverse, e poi il fondo del carro e ancora le traverse. Il frenatore manovra
questo suo attrezzo in su e in giù, ora da una parte ora dall'altra, lo accorcia
un poco, poi lascia che si allunghi, dando a quest'arma il modo d'ogni
possibile urto e rimbalzo. Ogni colpo della coppiglia volante è greve di
morte, e a sessanta miglia orarie essa marca un tatuaggio variabile di morti
diverse. Il giorno dopo, i resti di quel vagabondo vengono raccolti sul bordo
della ferrovia, e una riga del giornale locale fa il nome dello sconosciuto,
senza dubbio un vagabondo, magari anche ubriaco, il quale probabilmente
si era addormentato sul vagone.
Allo scopo di illustrare come un vagabondo sia capace di «prendere» un
treno, mi viene in mente adesso di raccontare la seguente esperienza. Ero a
Ottawa, diretto a occidente sulla Canadian Pacific. Tremila miglia di binari
si stendevano dinanzi a me; era l'autunno e io dovevo traversare il Manitoba
e le Montagne Rocciose. Potevo ben aspettarmi un tempo da cani e ogni
attimo di indugio accresceva l'aspra durezza del viaggio. Non solo: ero
anche schifato. La distanza da Montreal a Ottawa è di centoventi miglia.
Avrei dovuto saperlo, quando ci giunsi erano passati otto giorni. Per errore
non avevo preso la linea principale, incocciando una tratta minore che mi
fece perdere un sacco di tempo. E durante questi giorni ero campato di tozzi
rinsecchiti, avuti per carità dai contadini francesi. Oltre tutto non mi furono
sufficienti.
Di più: il mio schifo si accrebbe con quell'unico giorno che passai a
Ottawa, dove cercavo di ottenere un cambio di vestito per il mio lungo
viaggio. Voglio qui dire subito che Ottawa, fatta un'eccezione, è la città più
dura degli Stati Uniti e del Canada messi insieme, per acquistarci vestiario;
la sola eccezione è Washington D.C., che costituisce un limite. Ci passai
due settimane cercando di comprarmi un paio di scarpe, e poi dovetti andare
a Jersey City se lo volli avere.
Ma ritorniamo a Ottawa. Alle otto in punto del mattino mi misi in cerca
del vestiario. Per tutta la giornata lavorai sodo. Giuro che feci, a piedi,
quaranta miglia. Parlai con le massaie di mille case. Non ci ricavai neanche
da pagarmi il pranzo. E alle sei del pomeriggio, dopo dieci ore di sgobbo
continuo e deprimente, avevo solo una misera camicia, mentre il paio di
pantaloni che ero riuscito a farmi dare erano stretti, e oltre tutto mostravano
ogni segno di antica disgregazione.
Alle sei mollai il lavoro e mi diressi alla stazione ferroviaria, con la
speranza di beccare qualcosa da mettere in bocca. Ma mi gravava ancora
addosso la malasorte. Casa dopo casa, mi rifiutavano il cibo. Poi finalmente,
il grande dono: mi si aprì il cuore, perché in vita mia non avevo mai avuto
un dono tanto grosso: era un pacco incartato, grande come una valigia.
Corsi a uno spiazzo vuoto e l'aprii. Vidi subito una torta, poi altra torta, torte
di ogni tipo e di ogni fattura. Tutta torta. Niente pane e burro, con una bella
fetta di carne in mezzo - nient'altro che torta. E io che fra tutte le cose
odiavo quanto mai la torta. In altri tempi, sotto altri climi, gli uomini
sedevano vicino alle acque di Babilonia e piangevano. E anch'io, su quello
spiazzo vuoto della fiera capitale del Canada, anch'io mi sedetti e piansi...
sopra un mucchio di torte. Come quando un uomo china lo sguardo sul viso
del figlio morto, cosi io guardavo quella moltitudine di pasticceria.
Immagino d'essere stato un vagabondo poco grato, perché mi rifiutai di
accettare la generosità della casa che la sera prima aveva dato una festa.
Evidentemente la torta non piaceva neanche agli ospiti.
La torta segnò la crisi delle mie fortune. Non poteva succedermi nulla di
peggio; di qui in poi le cose dovevano per forza rimettersi. E così fu.
Proprio alla casa accanto mi invitarono a sedermi. Un invito simile è una
vetta di felicità. Ti fanno entrare, qualche volta ti danno la possibilità di
lavarti, poi c'è la seduta a tavola. A un vagabondo piace stendere le gambe
sotto una tavola. La casa era grande e comoda, in mezzo a vasti terreni e
begli alberi, ben distante dalla strada. Avevano appena finito di mangiare, e
mi fecero entrare direttamente in sala da pranzo - cosa di per sé assai
insolita, perché se un vagabondo ha la fortuna di ottenere un invito, lo fanno
accomodare in cucina. Un inglese bello e grigio, la matrona sua moglie e
una bellissima signorina francese vollero parlare con me mentre mangiavo.
Mi domando se questa bellissima francese ricorderà, dopo tanti anni, la
risata che fece quando dissi quelle due parole barbare: «Two-bits». Capite,
io stavo cercando di dire una parola meno volgare di «soldini». Perché di
solito gli spiccioli si chiamano «soldini». «Cosa?» disse. «Twobits» dissi io.
Trattenendo la risata chiese ancora «Cosa?» «Twobits» ripetei. E a questo
punto la signorina scoppiò a ridere. «Me lo vuoi ripetere?» domandò infine,
quando ebbe ripreso il controllo di sé. «Two-bits» E ancora una volta
scoppiò in una risata argentina. «Scusami», disse «ma che... che cosa hai
detto??» «Twobits», dissi io, «c'è qualcosa di male?»
«Che io sappia, no» riuscì a dire fra una risata e l'altra; «ma, che cosa
significa?» Glielo spiegai, ma non ricordo se in cambio ottenni questi
«Twobits», i soldini, ma dopo di allora più di una volta mi son chiesto chi di
noi fosse più provinciale.
Quando arrivai alla stazione, trovai molte cose che mi fecero schifo, un
gruppo di altri venti vagabondi che contavano di salire su un treno di vagoni
chiusi. Ora due o tre di questi vagabondi, su un vagone chiuso, un
bagagliaio, vanno anche bene. Non danno nell'occhio. Ma una ventina!
Significava guai. Nessun ferroviere ci avrebbe fatti salire a bordo.
A questo punto potrei anche spiegarvi che cosa si debba intendere per
bagagliaio chiuso, che in America si chiama «blind» (alla lettera cieco).
Certi carri postali sono costruiti senza porte, perciò quel carro è chiuso, o,
come diciamo qui «cieco». I carri postali forniti di porte le hanno però
sempre chiuse. Supponiamo che, dopo la partenza del treno, un vagabondo
raggiunga la piattaforma di uno di questi carri chiusi. Non c'è porta, oppure
la porta c'è, ma è chiusa. Nessun conduttore, nessun frenatore può dirgli di
pagare il biglietto oppure scendere. E' chiaro che il vagabondo sta al sicuro
fino alla successiva fermata. Allora deve scendere, corre avanti, nel buio, e
quando il treno si ferma, risale sul carro chiuso. Ma c'è sempre, come
vedremo, modo e modo.
Quando il treno partì, questi venti vagabondi dilagarono sui tre carri
chiusi. Alcuni ci salirono prima che il treno fosse fermo. Erano gente
impacciata e io vedevo prossima la loro fine. Naturalmente il personale
viaggiante era sull'avviso, e alla prima fermata cominciarono i guai. Io saltai
giù e corsi sul sentiero, accanto al treno. Notai che mi accompagnavano
alcuni altri vagabondi. Erano quelli, evidentemente, che sapevano il fatto
loro. Quando si sta su un treno transcontinentale, bisogna tenersi bene in
testa al veicolo, alle fermate. Correvo avanti, e correndo, uno dopo l'altro
quelli che mi accompagnavano risaltavano su. Questa manovra era un
esempio della loro abilità e della loro forza di nervi.
Ed ecco in che consiste. Quando il treno parte, il frenatore sta fuori del
vagone coperto. Egli non ha altro modo se vuol tornare nel treno vero e
proprio, che uscire dal vagone e mettersi sulla piattaforma che sta fra un
vagone e l'altro, scoperta. Quando il treno va a una tal velocità che il
frenatore si azzarda ad affrontarla, egli salta giù dal vagone, lascia passare
diversi vagoni e rieccolo daccapo sul treno. Dunque tocca al vagabondo
correre il più avanti possibile, sì che quando passa il vagone giusto il
frenatore lo ha già abbandonato.
L'ultimo vagabondo aveva saltato una quindicina di piedi prima e io
aspettavo. Il treno partì. Vidi la lanterna del frenatore sul primo vagone
coperto. Era dunque all'esterno. E vidi quei poveri incapaci starsene
distaccati lungo il binario al passaggio del treno. Non fecero neanche il
tentativo di salirci sopra. Erano battuti dalla loro stessa incapacità, fin
dall'inizio. Dopo di loro, nell'allineamento, erano i vagabondi che
conoscevano il mestiere. Lasciarono passare il primo vagone, quello
occupato dal frenatore, e saltarono sul secondo e sul terzo. Naturalmente il
frenatore saltò giù dal primo vagone per riprendere al volo il secondo, e da
questo buttò giù quelli che c'erano dentro. Ma il fatto è che io ero così
avanti che quando saltai sul primo vagone, il frenatore era già sul secondo, a
trafficare coi vagabondi di quel vagone. Cinque o sei esperti vagabondi
erano riusciti a salire sul primo.
Alla prossima fermata, correndo lungo il binario, contai che eravamo
rimasti in una quindicina. Cinque eliminati. Il processo di setacciamento era
cominciato bene, e proseguiva stazione per stazione. Adesso eravamo
quattordici, poi dodici, poi undici, poi nove, poi otto. Mi faceva pensare ai
dieci piccoli negri della filastrocca. Fra tutti quanti i negri, pensai, l'ultimo
voglio essere io. E perché no? Non ero forse dotato di forza, di agilità, di
giovinezza? (diciotto anni, e condizioni perfette). E non avevo forse
«nervi»? E soprattutto, non ero forse un vagabondo di prima classe? Non
erano forse, questi altri, dei «gatti allegri», degli incapaci? Dilettanti. Se non
ero io l'ultimo dei famosi negri, allora il gioco non valeva la candela, e io
potevo anche cercarmi un lavoro in una qualche fattoria dei dintorni.
Quando il nostro numero si fu ridotto a nove, tutto il personale viaggiante
era all'opera. Da questo momento era tutta una gara di abilità e di cervello,
con il personale in vantaggio. Uno per uno vidi scomparire gli ultimi
superstiti, sicché l'ultimo fui io. Dio, quanto ero fiero di me! Neanche un
Creso poteva andar più fiero del suo primo milione. Stavo «prendendo» il
treno a dispetto di due frenatori, un conduttore, un fuochista e un
macchinista.
Ed ecco qualche altro esempio di come riuscii a «prendere» un treno. Ben
avanti, e nel buio - così avanti che il frenatore sulla piattaforma debba per
forza scendere per prendermi - io salto su. Benissimo. Vado bene fino alla
prossima stazione. Giunti alla stazione, io scatto subito avanti per ripetere
l'operazione. Il treno riparte. Lo vedo arrivare. Non c'è luce di lanterna sul
vagone chiuso. Forse il personale ha abbandonato il treno? Non lo so. Non
si sa mai, e a ogni momento bisogna essere pronti a tutto. Quando il primo
vagone chiuso mi passa davanti, e io corro per saltarci sopra, aguzzo gli
occhi per vedere se sulla piattaforma c'è il frenatore. Per quanto ne so io
potrebbe esserci benissimo, e quando monto su per gli scalini può succedere
che la lanterna mi sbatta in testa. Lo so bene, lanterne in testa ne ho prese
almeno due o tre.
Invece no, il primo vagone chiuso è vuoto. Il treno acquista velocità. Mi
sento al sicuro fino alla prossima stazione. Ma lo sono davvero? Mi tengo
all'erta. Stanno manovrando ai miei danni, e io non so di quale manovra si
tratti. Cerco di guardare da tutte e due le parti, senza tuttavia perdere
d'occhio il tender dinanzi a me. Da una direzione, forse da tutte e tre le
direzioni, mi possono assalire.
Ah, eccolo. Il frenatore è uscito dalla locomotiva. Il primo avviso l'ho
quando il suo piede urta gli scalini sul lato sinistro del vagone chiuso. Come
un fulmine scendo dal vagone, a sinistra, e correndo sorpasso la locomotiva.
Mi perdo nelle tenebre. La situazione è identica a quando siamo usciti da
Ottawa. Io sono in testa e il treno mi deve sorpassare se vuol continuare il
suo viaggio. Le possibilità di salire restano intatte.
Sto ben attento. Vedo una lanterna avanzare verso la locomotiva, e non la
vedo rientrare dalla locomotiva. Dunque è ancora sulla locomotiva e
attaccato alla lanterna ci dev'essere un frenatore. Quel frenatore doveva
essere pigro, altrimenti avrebbe spento la lanterna invece che cercare di
schermarla, avanzando. Il treno parte. Il primo vagone è vuoto, e lo
guadagno. Come prima, il treno acquista velocità, il frenatore dalla
locomotiva raggiunge il primo vagone, io scendo dall'altro e corro avanti.
Mentre attendo nell'oscurità avverto un brivido di grande orgoglio. Due
volte il transcontinentale mi si è fermato e due volte l'ho ripreso, fermato
per me, povero vagabondo. Ho anche fermato due volte un transcontinentale
con molti passeggeri e vagoni di lusso, il postale, i duemila cavalli-vapore
che spingono il motore. E io peso appena centosessanta libbre, e non ho in
tasca una moneta da cinque centesimi.
Vedo ancora la lanterna che avanza verso la locomotiva. Ma stavolta la
vedo benissimo. Troppo in vista per avercela con me, e mi chiedo cosa sta
per succedere. Di una altra cosa debbo aver paura, ben peggio del frenatore
a bordo. Il treno guadagna velocità. Appena in tempo, prima di fare il balzo,
sul primo vagone coperto, vedo la forma scura di un frenatore, senza
lanterna. Salto giù e mi preparo a salire sul secondo. Ma il frenatore del
primo vagone è sceso anche lui e mi si è messo alle calcagna. E poi
intravedo, con un lampo, la lanterna del frenatore che sta sulla locomotiva.
Un istante dopo eccoti il secondo vagone e io ci salto sopra. Ma non
indugio. Ho già pensato la contromanovra. Mentre irrompo sulla
piattaforma sento i piedi del frenatore sugli scalini: sta per salire a bordo.
Salto giù dalla parte opposta e corro avanti, insieme al treno. Il progetto mio
è di passare in testa e salire sul primo vagone chiuso. E' questione di
secondi, perché il treno sta acquistando velocità. E poi ho il frenatore alle
calcagna. Confido d'essere miglior velocista, perché eccomi sul primo
vagone. Sto sugli scalini a guardare il mio inseguitore. Ha appena tre metri
di svantaggio e corre forte, ma ormai il treno si è avvicinato alla sua
velocità di crociera, e rispetto a me quel frenatore sta fermo. Lo incoraggio,
gli tendo la mano, ma quello esplode in un grande improperio, rinuncia e
prende il treno diversi vagoni più indietro.
Il treno acquista ancora velocità e io sto ridacchiando fra di me, quando
mi colpisce un getto d'acqua fredda. Dalla locomotiva, il fuochista mi sta
annaffiando. Avanzo dalla piattaforma fin sulla parte posteriore del tender,
dove c'è la tettoia che mi ripara. La pioggia stavolta non mi tocca. Mi fanno
male le dita mentre salgo sul tender con un pezzo di carbone in mano che
darò in capo al fuochista; ma so che se ce la faccio, fuochista e macchinista
mi massacrano. Ci rinuncio.
Alla prossima fermata scendo e poi avanti, nel buio. Stavolta, quando il
treno riparte, tutti e due i frenatori son sul primo vagone. Ho capito il loro
gioco. Vogliono impedire quel che è già successo due volte. Non posso
stavolta, salire sul secondo, traversarlo, e a corsa prendere il primo vagone.
Non appena il primo vagone è passato e io non ci salgo, quelli fanno una
bella giravolta, ciascuno dalla sua parte del treno. Salgo sul secondo vagone
e nel far questo so che un momento dopo, simultaneamente, i due fuochisti
mi saranno addosso, dalle due parti. Le due vie di salvezza sono bloccate.
Ma ce n'è una terza, verso l'alto.
Così non aspetto che arrivino i miei inseguitori. Salgo su per i ferri della
piattaforma e sto sopra la ruota del freno. Sento sugli scalini, dall'una parte
e dall'altra, i piedi dei fuochisti. Non mi fermo a guardare. Tendo le mani
fino a che non sento il bordo curvo della tettoia. Naturalmente una mano
tiene il tetto curvo del primo vagone, la seconda quello del secondo. Ormai i
fuochisti salgono su per gli scalini. Lo so, ma ho troppo da fare per
guardarli. Tutto questo avviene nello spazio di non molti secondi. Faccio
molla sulle gambe, mi isso con le braccia. Mentre tiro su le gambe, tutti e
due i frenatori cercano di afferrarmi e trovano il vuoto. Lo so, perché
stavolta abbasso gli occhi, e li vedo. E li sento anche bestemmiare.
Ora mi trovo in una situazione precaria, teso fra i bordi di due tetti di
vagoni sopra un treno in moto. Con un movimento teso e rapido trasferisco
ambedue le mani e ambedue le braccia sullo stesso vagone. Poi, tenendomi
aggrappato al tetto curvo mi porto verso la parte piana del tetto stesso, dove
mi metto a sedere per ripigliare fiato, tenendomi a un ventilatore che sporge
sopra la superficie. Sono in cima al treno, sul «ponte» come dicono i
vagabondi, e far questo, nel loro gergo, si dice per l'appunto «prendere il
ponte». E lasciatemi dire subito che soltanto un vagabondo giovane e
robusto riesce a tenersi sul ponte, e anche che questo giovanotto robusto
deve avere i nervi a posto.
Il treno continua ad acquistare velocità, e so di essere al sicuro fino alla
prossima stazione. Se rimango sul tetto dopo l'arresto del treno, lo so che
quei fuochisti mi bombarderanno con i sassi. Un fuochista robusto riesce a
far cadere un bel tòcco di pietra sul tetto di un vagone - da cinque a venti
libbre. D'altro canto, ci sono buone possibilità che alla prossima fermata i
fuochisti siano ad aspettarmi nel punto dove sono salito. Ora tocca a me fare
daccapo l'arrampicata, a un'altra piattaforma.
Tenendo alta la speranza che non vi siano gallerie, nel prossimo mezzo
miglio mi alzo in piedi e percorro cinque o sei vagoni. E lasciatemi dire che
ci vuole un certo coraggio per affrontare questo "pasear". I tetti delle
vetture-passeggeri non sono fatti per le passeggiate di mezzanotte. E se
qualcuno è convinto del contrario, io qui lo prego di non fare la prova.
Cammini pure sul tetto di un vagone che sobbalza e scarroccia, senza nulla
a cui reggersi tranne l'aria fredda e vuota, e quando arriva alla parte
incurvata del vagone, ben umida e viscida di brina, tenti di accelerare in
modo da fare il salto sul vagone successivo, incurvato anche quello, umido
e scivoloso. Credete a me, farà la prova se il suo cuore è debole o se gli gira
la testa.
Ora che il treno rallenta in vista della stazione, una mezza dozzina di
vagoni distante dal punto in cui ero caduto, scendo. Sul marciapiede della
ferrovia, nessuno. Non appena è fermo, mi lascio scivolare giù. Davanti a
me, fra me e la locomotiva, ecco due lanterne in movimento. I frenatori mi
stanno cercando sui tetti dei vagoni. Noto che il carro accanto a me è un
«quattro ruote» - e questo vuol dire che ha solamente quattro ruote.
(Quando si tratta di passare sotto un treno, badate bene a non scegliere un
«sei ruote», perché sono un disastro).
Mi abbasso sotto il treno, traverso i binari e non vi dico quanto mi auguri
che il treno stia ben fermo. E' la prima volta che passo sotto alla Canadian
Pacific, e gli accordi internazionali sono per me una novità. Cerco in ogni
modo di strisciare sotto il vagone ma, in quel punto almeno, lo spazio è
poco e io non ci passo. Proprio una novità, per me. Negli Stati Uniti sono
avvezzo a viaggiare sotto treni che si muovono rapidi, tenendomi a un
appiglio e coi piedi sull'assale dei freni, e di lì poi striscio sotto, fino al
punto in cui si trova una specie di sedile.
Tastando nel buio, imparo che c'è spazio fra l'assale dei freni e il terreno.
Devo distendermi piatto e strisciare come un verme, per farcela. Una volta
trovato il posto mio, mi metto a sedere e penso ai fuochisti: penseranno
chissà dove sono andato a finire. Il treno si avvia. Finalmente han rinunciato
a cercarmi.
Ma sarà poi vero? Alla prossima fermata vedo che ficcano una lanterna
sul carro accanto al mio. Stanno frugando fra i binari, in cerca di me.
Bisogna che me la sbrighi, e presto, striscio sullo stomaco, sotto l'assale dei
freni. Mi vedono e mi si avventano, ma lo striscio fino all'ultimo lato del
treno e mi alzo in piedi. Poi via di corsa verso la testa del treno, via fin oltre
la locomotiva e mi nascondo nel buio circostante. Sempre la stessa vecchia
situazione. Sto più avanti del treno e il treno mi deve passare avanti.
Il treno esce di stazione. C'è una lanterna sul primo carro chiuso. Sto
basso, e vedo passare un frenatore che scruta nel buio. Ma c'è una lanterna
anche sul secondo vagone. Questo frenatore mi avvista e avvisa l'altro
frenatore, e tutti e due saltano giù. Non fa nulla. Prenderò il terzo vagone
chiuso. Maledizione, c'è una lanterna anche sul terzo vagone. E' il
conduttore. Lo lascio passare. Comunque vada, ho contro di me tutto
l'equipaggio del treno. Mi volto e prendo la corsa nella direzione opposta a
quella del treno. Mi guardo indietro da sopra la spalla. Tutte e tre le lanterne
sono a terra, e gli uomini m'inseguono. Uno scatto, mezzo treno è già
passato e va abbastanza forte quando ci balzo sopra. So già che frenatori e
conduttori fra due secondi mi saranno addosso come lupi affamati. Balzo
sopra la ruota del primo freno, metto le mani sul bordo incurvato dei due
tetti, e cerco di issarmi sul «ponte», mentre i miei inseguitori delusi fanno
gruppo sul marciapiede come cani che han visto un gatto sul tetto, mi
latrano imprecazioni e dicono cose poco garbate nei riguardi dei miei
antenati.
Ma che cosa importa? Sono cinque contro uno, se contiamo anche
macchinista e fuochista, con alle spalle la maestà della legge e della potenza
di una grande società, eppure io li sto battendo. Sono troppo in fondo al
treno, e corro sopra i tetti dei vagoni fino a che mi trovo a sei o sette
piattaforme dalla locomotiva. Cautamente do un'occhiata di sotto. Sulla
piattaforma c'è un frenatore. Che mi ha visto, io lo capisco dal balzo
repentino che fa dentro il vagone. E so anche che mi sta aspettando oltre la
porta, tutto pronto ad avventarsi su di me nel momento che mi calo di sotto.
Ma io faccio finta di non saperlo, e resto lì per incoraggiarlo nel suo errore.
Non lo vedo, eppure so che una volta apre la porta e dà un'occhiatina dal
pertugio per assicurarsi che sono ancora quassù.
Il treno rallenta perché la stazione è vicina. Io fo dondolare giù le gambe,
a mo' di tentativo. Il treno si ferma. Le mie gambe continuano a dondolare.
Sento che la porta lentamente si apre. E' pronto, per me. A un tratto mi tiro
su e corro per il tetto. Proprio sulla sua testa, dove sta in agguato. Il treno è
immobile; la notte è tranquilla, e io bado bene a far parecchio rumore sul
metallo, coi piedi. Non ne sono sicuro, ma presumo che sta correndo
innanzi, convinto che io mi calerò alla piattaforma successiva. Io invece non
mi ci calo. A mezza via, lungo il tetto del vagone, dietrofront, ritorno pian
piano sui miei passi ed eccomi alla piattaforma or ora abbandonata, da me e
dal frenatore. Via libera. Scendo a terra sul lato sinistro del treno e mi
nascondo nel buio. Non un'anima m'ha visto. Scavalco la stecconata e
aspetto. Ah, ah, che sarà mai? Vedo una lanterna in cima al treno, che si
muove cercando sui tetti. Anche meglio: a terra; dall'uno e dall'altro lato del
treno muovendosi al passo con la lanterna di sopra, altre due lanterne. E'
una caccia al coniglio, il coniglio sono io. Non appena la lanterna sul tetto
mi avrà illuminato, quelli a terra, a destra o a sinistra, mi daranno la lanterna
sul capo. Mi arrotolo una sigaretta e sto a guardare il passaggio della
processione. Quando mi avranno superato, sarò ben libero di procedere
verso la testa del treno. Si mette in moto, e senza incontrare opposizione
conquisto il primo vagone chiuso. Ma prima che il treno sia ben partito, e
proprio mentre mi accendo la sigaretta, son consapevole che il fuochista è
salito sul carbone, sul dietro del tender e mi sta guardando. Mi viene una
grande apprensione. Dalla sua posizione può ridurmi in poltiglia, a colpi di
carbone. E invece mi si rivolge, e nella sua voce io noto, con sollievo,
ammirazione.
«Figlio d'un cannone», mi sta dicendo.
E' un grosso complimento e ne gioisco, come uno scolaro quando riceve
una nota di merito.
«Senti», gli dico io. «Non mi tirare più l'acqua, un'altra volta».
«Va bene», risponde e torna al suo lavoro.
Ho fatto amicizia con la locomotiva, ma i frenatori mi stanno ancora
cercando. Alla prossima fermata, i frenatori esplorano tutti e tre i vagoni
chiusi, e come prima, li lascio passare e salgo alla metà del treno. Ora tutto
il personale è alla caccia e il treno resta fermo. I frenatori debbono trovarmi
a tutti i costi, o almeno capire il perché. Tre volte il potente
transcontinentale si ferma apposta per me alla stazione, e ogni volta io
sfuggo ai frenatori e torno a bordo. Ma è una caccia disperata perché
finalmente arrivano a capire la situazione. Ho insegnato loro che non
possono fare la guardia al treno, contro di me. Debbono fare qualcosa
d'altro.
Infatti. Quando il treno si ferma per l'ultima volta, ce la mettono proprio
tutta. Ah, capisco il loro gioco. Vogliono spingermi verso il fondo del
convoglio. So il rischio che corro: una volta costretto nell'ultimo vagone, lo
staccheranno, e mi lasceranno lì. Io giro, svolto, scatto, schivo i miei
inseguitori, e guadagno la testa del treno. Ma c'è ancora un frenatore, lì che
mi aspetta. Va bene, lo farò morire sfiatato, perché io di fiato ne ho
parecchio. Corro dritto lungo il binario. Non importa. Se ha voglia di darmi
la caccia per dieci miglia, anche lui, poi, dovrà tornare sul treno e io lo potrò
prendere, alla sua velocità.
E allora corro, tenendomi a rispettosa distanza da lui, e tenendo gli occhi
aperti, caso mai compaia la lampada di qualche guardiano di bestie, che
potrebbe darmi i dolori. Ahimè, ho gli occhi fissi troppo in avanti, e
inciampo su qualcosa che mi sta proprio sotto i piedi.
Una qualche cosettina, non so, e vado a terra con un lungo capitombolo.
Appena mi sono rialzato, il frenatore mi ha già preso per il bavero. Non mi
dibatto. Penso solo a respirare profondamente e a valutarlo. E' stretto di
spalle, e come peso io sono in vantaggio di almeno trenta libbre. E poi è
stanco quanto me e se cerca di pestarmi, gli do una lezioncina.
Invece non cerca di pestarmi, anche lui è stanco, almeno quanto me. Mi
riporta al treno e qui sorge un altro possibile problema. Vedo le lanterne del
conduttore e dell'altro frenatore. Ci stiamo avvicinando. Non per nulla ho
fatto la conoscenza della polizia di New York. Non per nulla, nei posti più
vari, alla cisterna dell'acqua o in una cella di prigione, ho sentito storie
terribili su come si può maneggiare un uomo. E se questi tre avessero
appunto intenzione di maneggiarmi? Lo sa Iddio se li ho provocati
abbastanza. Rapidamente penso. Ci stiamo avvicinando agli altri due
ferrovieri. Guardo lo stomaco e la mascella del mio catturatore, e preparo il
destro e sinistro che gli darò al primo segno di guai.
Eccome! Conosco qualche altro giochetto che mi piacerebbe fare su di
lui, e quasi mi dispiace di non averlo fatto subito, nel momento che mi ha
preso. Avrei potuto fargli del male, nonostante mi stringesse al bavero. Ha
le dita strette e sepolte nel mio bavero. Ho la giubba strettamente
abbottonata. Avete mai visto un tourniquet? Be', è uno dei miei giochetti.
Non devo far altro che ficcargli la testa sotto il braccio e cominciare a
torcere. Bisogna torcere rapidamente, molto rapidamente. Io ne sono
capace: bisogna torcere con violenza e a scatti, girando, e rificcandogli la
testa sotto il braccio a ogni rivoluzione. Prima che abbia il tempo di
accorgersene, per quelle sue dita è la fine. Non riuscirà più a ritirarle. E' un
sistema di leve possente. Venti secondi dopo l'inizio della rivoluzione, gli
brucerà il sangue sulla punta delle dita, cominceranno a rompersi i tendini
delicati, e tutti i muscoli e i nervi si spezzeranno, si sbricioleranno insieme
alla carne stridula. Provatelo, se qualcuno vi ha presi per il bavero. Ma siate
svelti - svelti come il fulmine. Non solo, badate a ripararvi mentre girate riparatevi la faccia con il braccio sinistro, l'addome con il braccio destro.
Vedete, l'altro potrebbe tentare di fermarvi con un pugno del braccio libero.
Buona idea sarebbe, inoltre, quella di girare tenendosi lontani da quel
braccio libero, piuttosto che incontro ad esso. Un pugno che viene non è
mai cattivo come un pugno che va.
Quel frenatore non sa quanto egli andò vicino a stare molto, ma molto
male. Lo salva il semplice fatto che quelli non avevano intenzione di
maneggiarmi. Quando ci siamo avvicinati abbastanza, grida che mi ha
preso, e quelli fan segno al treno di andare. La locomotiva ci supera, poi tre
carri chiusi. Poi il conduttore e l'altro frenatore salgono a bordo. Chi mi ha
catturato continua a trattenermi. Capisco cosa ha in mente. Mi vuol
trattenere fino a che non sia passata la coda del convoglio. Poi salterà su e io
resterò li, fregato.
Ma il treno è passato troppo in fretta, il macchinista vuol recuperare il
tempo perduto. E poi è un treno lungo. Va molto veloce, e so che il
frenatore ne misura la velocità con apprensione.
«Pensi di farcela?» chiedo con aria innocente.
Mi lascia il bavero, corre e salta a bordo. Devono passare diversi altri
vagoni. Lo sa, e resta sul gradino, la testa sporta a guardarmi. Allora la
mossa è a me. L'ultima piattaforma. Lo so che va svelto, sempre più svelto,
ma se non ci riesco sarà solo un capitombolo per terra, ed è mio l'ottimismo
della gioventù. Non mi do via. Sto lì con le spalle basse, come a dire che ho
abbandonato ogni speranza. Ma al tempo stesso saggio con i piedi la ghiaia.
Ottima. E guardo anche la testa del frenatore. Ha fiducia: il treno va troppo
forte. Io non posso farcela.
E il treno va forte - più forte di ogni altro treno che io abbia mai
affrontato. Quando passa l'ultimo vagone io balzo, nella sua stessa
direzione. Non posso sperare di eguagliare la velocità del treno, ma posso
ridurre al minimo la differenza fra la sua velocità e la mia, e così ridurre
l'impatto, quando balzo a bordo. Nel buio pesto non vedo il corrimano di
ferro dell'ultima piattaforma; e neanche c'è il tempo per collocarlo. Punto là
dove penso che sia e al tempo stesso i miei piedi lasciano il terreno. Perdere
o lasciare. Fra un istante può darsi che io stia rotolando sulla ghiaia con le
ossa rotte, le braccia rotte, la testa. Ma le mia dita afferrano il corrimano,
sento uno strappo alle braccia che fa girare lievemente il mio corpo e i miei
piedi atterrano sul gradino con violenza secca.
Mi metto a sedere e sono molto fiero di me stesso. In tutta la mia vicenda
di vagabondo è questo il miglior salto sul treno che io abbia mai fatto. Lo so
che a notte fonda può andare sempre bene, per diverse stazioni, sull'ultima
piattaforma, ma io tendo a non fidarmi mai troppo della coda del treno. Alla
prima fermata cerco sempre di portarmi avanti, e alla seconda avanti ancora.
Ora sono relativamente al sicuro. I frenatori pensano che io sia fregato.
Ma la lunga giornata e la notte strenua cominciano a farsi sentire. E poi non
fa freddo, né tira vento e io comincio a sonnecchiare. Non bisogna, mai. Il
sonno sul binario significa la morte, così alla prossima stazione striscio
fuori e vado avanti, al secondo carro chiuso. Qui posso stendermi e dormire
- quanto tempo non so, perché mi sveglia una lanterna puntata sul mio viso.
I due frenatori mi guardano. Io mi metto sulla difensiva, chiedendomi chi
sarà il primo a picchiare. Ma non avevano affatto questa intenzione.
«Credevo di averti fregato», dice il frenatore che mi teneva per il bavero.
«Se non mi aveste lasciato andare in tempo, saremmo rimasti fregati tutti
e due», rispondo.
«Come sarebbe?»
«Avremmo fatto a botte, ecco come sarebbe», rispondo.
Si consultano e il loro verdetto può riassumersi così.
«Be', direi che puoi salire, amico. Non serve a niente cercare di lasciarti a
terra».
E se ne vanno e mi lasciano in pace fino al termine della loro tratta.
Ho detto questo come esempio di che cosa significhi «prendere il treno».
Certo, fra le tante mie esperienze ho scelto una notte fortunata, e non ho
detto nulla delle notti - molte - in cui fui travolto dal caso e ci rimasi
fregato.
In conclusione, voglio dire quel che successe quando finalmente mi
consentirono di viaggiare. Sulle linee transcontinentali, a un solo binario, i
treni danno la precedenza, si fermano al termine della loro tratta e fanno
passare quelli «passeggeri». Quando si giunse al capotratta, io scesi dal
treno e cercai subito un merci che lo seguisse. Lo trovai già composto, in
attesa. Salii su un vagone mezzo pieno di carbone e mi distesi. In un batter
d'occhio dormii.
Mi svegliò il rumore della porta che si apriva. Albeggiava, e il merci non
era ancora partito. L'alba era fredda e grigia. Un conduttore stava ficcando
la testa dentro il vagone. «Vieni fuori di lì, figlio di una buona donna!»
gridò.
Scesi, e vidi il conduttore che ispezionava ogni vagone. Quando fu fuor di
vista, pensai fra di me che non avrebbe avuto lo stomaco di ritornare al
carro appena appena esaminato. Allora salii daccapo, mi stesi e mi
addormentai.
Ora, il processo mentale di quel conduttore si dev'essere svolto in senso
parallelo al mio, perché anche secondo lui questa era la cosa giusta da fare.
Infatti ritornò e mi buttò fuori.
Ora però, ragionai, sicuramente non si sognerà che io abbia deciso di farlo
una terza volta. Risalii su quel medesimo carro. Ma decisi anche di
garantirmi. Soltanto una porta laterale si apre, perché l'altra era inchiodata.
Mi scavai un solco profondo nel carbone accosto all'altra porta e li mi
distesi. Il conduttore salì e guardò sul mucchio del carbone. Non poteva
vedermi. Mi gridò di uscir fuori. Io cercai di ingannarlo non rispondendo.
Ma quando lui cominciò a tirare pezzi di carbone sopra il mucchio e
addosso a me, mi arresi e per la terza volta fui buttato fuori. Non solo: in
termini calorosi m'informò di quanto mi sarebbe successo se mi fossi fatto
trovare ancora là dentro.
Mutai tattica. Quando un uomo ha un processo mentale parallelo al tuo, tu
all'improvviso rompi la tua linea di ragionamento ed assumi una linea
nuova. Così feci. Mi nascosi fra i vagoni fermi su un binario adiacente e
stetti a guardare. Ma certo, il conduttore tornò al solito vagone. Aprì la
porta, salì, chiamò, buttò carboni nel buco che avevo fatto. Addirittura
strisciò sul gran mucchio e guardò nel buco. Questo lo convinse. Cinque
minuti dopo il treno partiva, e lui non era in vista. Corsi di fianco al vagone,
aprii la porta e salii. Non mi ricercò più, e su quel carico di carbone io feci
esattamente mille e ventidue miglia, quasi sempre dormendo e scendendo
alle stazioni per mendicare del cibo (i treni merci ci si fermavano sempre
un'oretta). E alla fine delle mille e ventidue miglia persi quel vagone per un
felice incidente. Mi offrirono da mangiare a tavola e non esiste a questo
mondo un vagabondo che per un buon pasto regolare non rinunci ai treni.
VAGABONDI CHE SCOMPAIONO NELLA NOTTE
Nel corso dei miei vagabondaggi incontrai centinaia di miei simili, che mi
salutavano, e io salutavo loro, e insieme aspettammo alle cisterne
dell'acqua, prendemmo treni, giocammo a carte, e tutte le altre belle cose
che facevano ai miei verdi anni i vagabondi in America. Molti di loro poi
sono spariti e non li ho rivisti mai più. D'altro canto, c'erano vagabondi che
passavano e ripassavano con straordinaria frequenza, e altri che
scomparvero come fantasmi, così, non visti, e anzi mai visti. A uno di questi
io diedi la caccia per tutto il Canada - tremila miglia di ferrovia e non una
volta lo vidi. Di soprannome si chiamava «Skysail Jack». Questo nome io lo
vidi per la prima volta a Montreal. Intagliato sul legno c'era il velaccio di
una nave (in inglese si dice appunto skysail). Era eseguito alla perfezione. E
sotto «Skysail Jack». Sopra altri segni: «B.W. 10-15-94». E questo voleva
dire che l'uomo era passato per Montreal, diretto a ovest, il 15 ottobre 1894.
Aveva un giorno di vantaggio su di me. A quell'epoca il mio soprannome
era «Sailor Jack», e subito mi affrettai a inciderlo accanto al suo, con la data
e l'informazione che anche io ero diretto a occidente.
Fui sfortunato nel percorrere le successive cento miglia, e otto giorni
dopo ritrovai le tracce di «Skysail Jack», trecento miglia a ovest di Ottawa.
Era lì, graffito su una cisterna dell'acqua, e dalla data vidi che anche lui
aveva avuto un ritardo. Aveva su di me i soliti due giorni di vantaggio. Io
ero una «cometa», un «trump-royal» come si diceva a quei tempi, e anche
Skysail era così; e siccome ero orgoglioso e tenevo alla mia reputazione,
volevo raggiungerlo. Viaggiavo notte e giorno, e lo sorpassai, poi toccò a
lui sorpassare me. A volte prese un paio di giorni di vantaggio, a volte toccò
a me stare in testa. Da certi vagabondi, diretti a oriente, ebbi qualche
notizia, quando si trovava in testa; e seppi da loro che anch'egli aveva
dimostrato interesse per «Sailor Jack», e faceva domande sul mio conto.
Avremmo formato una coppia preziosa, ne sono certo, se mai ci fossimo
incontrati; ma d'incontrarci non ci riuscì. Io fui in testa per tutto il Manitoba,
fu in testa lui per lo stato di Alberta, e una mattina, grigia e aspra, alla fine
di una tratta ferroviaria poco a oriente del passo Kicking Horse, seppi che la
sera prima lo avevano visto fra passo Kicking Horse e passo Rogers. Fu
strano il modo in cui mi fu data questa informazione. Avevo viaggiato tutta
la notte su un carro ferroviario, e mezzo morto di freddo ero uscito per
elemosinare del cibo. Scorreva una nebbia gelida e diedi la stoccata a certi
fuochisti, che mi concessero gli avanzi dei loro portavivande, e inoltre mi
diedero una bella dose di squisito «Java» che nel nostro gergo vuol dire il
caffè. Lo scaldai, e quando ci sedemmo a mangiare alla mensa, entrò in
stazione un treno proveniente da ovest. Vidi una porto laterale aprirsi ed
uscire un ragazzo di strada. Nella nebbia avanzò verso di me. Era intirizzito
dal freddo, aveva le labbra illividite. Gli diedi un po' del mio Java e un po'
di mangime, seppi di Skysail Jack e poi mi parlò di sé. Incredibile, era della
mia città, Oakland, California, e faceva parte della famosa banda detta di
Boo, alla quale in qualche raro momento appartenni anch'io. Per una
mezz'ora parlammo fitto fitto, mangiando. Poi il mio merci partì, e io salii,
diretto a ovest sulle tracce di Skysail Jack.
Perdemmo tempo ai passi, trascorsi due giorni senza mangiare, e il terzo
giorno feci a piedi undici miglia prima di trovare cibo, eppure riuscii a
superare Skysail Jack lungo il fiume Fraser, nella Columbia Britannica. Poi
fui su un treno passeggeri, così guadagnavo tempo; ma forse anche lui era
su un «passeggeri», e con più fortuna o abilità di me, arrivò prima di me alla
Missione.
Era questa Missione una testa di tratta, quaranta miglia a est di
Vancouver. Dal bivio si poteva procedere in direzione sud attraverso lo
Washington e l'Oregon per ricongiungersi con la Northern Pacific.
Mi chiesi quale strada avrebbe preso Skysail Jack, perché pensavo di
essere in testa. In quanto a me, intendevo proseguire verso ovest, a
Vancouver. Andai alla cisterna dell'acqua per lasciarci questa informazione,
ed eccolo, appena inciso, con la data di quello stesso giorno, il soprannome:
Skysail Jack. Mi affrettai verso Vancouver. Ma era già andato. Si era
imbarcato immediatamente e ancora viaggiava verso occidente, in quella
sua avventura mondiale. Certo, Skysail Jack, eri un «trump-royal», e il tuo
compagno era il «vento che pesta il mondo». Mi levo il cappello dinanzi a
te. Tu fosti «soffiato nel vetro», certo. Una settimana dopo anch'io
m'imbarcai e a bordo del vapore «Umatilla» avanzavo lungo la costa, verso
San Francisco. Skysail Jack e Sailor Jack - ah, se mai fossero stati insieme.
La cisterna dell'acqua è la guida del vagabondo. Non per oziosa sicumera
i vagabondi incidono soprannomi, date e maledizioni. Più e più volte mi
sono capitati vagabondi i quali con ansia mi domandavano se io avevo visto
da qualche parte il tale o il talaltro nostro compagno, o il suo soprannome. E
più di una volta sono stato in grado di dare il soprannome più recente, la
cisterna dell'acqua e la direzione che aveva preso. E subito il vagabondo a
cui avevo dato l'informazione partiva in traccia del suo amico. Ho
conosciuto vagabondi che, cercando di rintracciare un amico, avevano
traversato l'intero continente e poi erano tornati indietro.
Il soprannome, che i vagabondi chiamano «Monica», è una specie di
nome di viaggio che il vagabondo assume o accetta quando gli viene
imposto dai suoi simili. Per esempio «Leary Joe», era timido, e i suoi
compagni lo vollero ribattezzare Leary, che significa sfrontato. Nessun
vagabondo che abbia stima di sé accetterebbe di farsi soprannominare
«Stew Bum». A pochissimi vagabondi importa che si ricordino i loro
soprannomi passati, coi quali abbiano fatto qualche lavoro ignobile, e allo
stesso modo son rari i soprannomi basati su di un mestiere, anche se ricordo
di aver conosciuto i seguenti: «Moudler Blackey», «Painter Red», «Chi
Plumber», «Boilertnaker», «Sailor Boy» e «Printer Bo». «Chi» (ma
pronunciato sciai) è Chicago detta in gergo.
Di solito il soprannome viene tratto dalla città donde sono partiti: per
esempio «New York Tommy», «Pacific Slim», «Buffalo Smithy», «Canton
Tom», «Pittsburg Jack», «Syracuse Shine», «Troy Mickey», «K. L. Bill»,
«Connecticut Jimmy». Poi c'era «Slim Jim, of Vinegar Hill, who never
worked and never will» [Jim lo Smilzo di Monte Aceto, che non lavorò mai
e non ne ebbe mai voglia], «Shine» è sempre un negro, così chiamato, forse,
perché il viso dei negri di solito è lustro. «Texas Sbine» o «Toledo Sbine»
indicano a un tempo razza e luogo di nascita.
Fra quelli che nel soprannome indicavano la razza, ricordo i seguenti:
«Frisco Sheeny», «New York Irish», «Michigan French», «English Jack»,
«Cockney Kid» e «Milwaukee Dutch». Altri par che traggano il
soprannome dal colore che la natura mise loro addosso, come per esempio:
«Chi Withey», «New Jersey Red», «Boston Blackey», «Seattle Browney» e
«Yellow Dick» e «Yellow Belly». Quest'ultimo era un creolo del
Mississippi, ma io sospetto che il soprannome glielo abbiano messo gli altri.
«Texas Royal», «Happy Joe», «Bust Connors», «Burley Bo», «Tornado
Blackey»e «Toch McCall» usavano più fantasia nel ribattezzarsi. Altri, con
minore fantasia, portano il nome della loro singolarità fisica, come:
«Vancouver Slim», «Detroit Shorty», «Ohio Farry», «Long Jack», «Big
Jim», «Little Joe», «New York Blink», «Chi Nosey» e «Broken-backed
Ben».
Parte a sé fanno i ragazzi di strada, che si divertono a mettersi una
quantità infinita di soprannomi. Per esempio i seguenti, che ho incontrato
personalmente qua e là: «Buck Kid», «Blind Kid», «Midget Kid», «Holy
Kid», «Bat Kid», «Swift Kid,», «Cookey Kid», «Monkey Kid», «Jowa
Kid», «Corduroy Kid», «Orator Kid» (chissà come gli fu messo) e «Lippy
Kid», un tipo insolente, statene certi.
Alla cisterna dell'acqua di San Marcial, New Mexico, una decina di anni
or sono, era il seguente biglietto di viaggio a uso e consumo dei vagabondi:
1. Sul corso si può far bene
2. I tori non incornano
3. Alla baracca dei ferrovieri si può fare un sonnellino
4. Treni verso nord niente buoni
5. Privati niente buoni
6. Ristoranti buoni solo per i cuochi
7. La stazione ferroviaria buona solo di notte.
Un po' di spiegazione: il numero uno significa che sul corso della città si
può con qualche successo chiedere l'elemosina. Numero due: la polizia non
importuna i vagabondi. Numero tre: si può dormire alla baracca dei
ferrovieri. Il numero quattro non è molto chiaro, non si capisce se i treni
diretti a nord son buoni per viaggiarci o per mendicarci. Il numero cinque
significa che le case di abitazione non sono buone con i mendicanti, e il
numero sei significa che solo i vagabondi che sono stati cuochi riescono a
farsi dare del cibo ai ristoranti. Il numero sette non lo capisco bene: non
capisco se la stazione ferroviaria è buona per mendicarvi di notte, o se è
buona solo per i vagabondi che sono stati cuochi, per mendicarvi di notte,
oppure se qualsiasi vagabondo, cuoco o non cuoco, può di notte dare una
mano d'aiuto al cuoco della stazione - sporco lavoro di sguattero - e in
cambio ottenere, a mo' di pagamento, qualcosa da mangiare.
Ma per tornare ai vagabondi che spariscono nella notte ne rammento uno
che conobbi in California. Era svedese, ma viveva da tanto tempo negli Stati
Uniti che non ne indovinavi la nazionalità. Bisognava che te la dicesse lui.
Infatti era venuto negli Stati Uniti poco più che lattante. Lo conobbi per la
prima volta nella città montanara di Truckee. «Da che parte, amico?» fu il
nostro saluto. «Verso est» fu la risposta che ci scambiammo. Erano in
parecchi a voler salire sul transcontinentale, quella notte, e nella confusione
persi lo svedese. E persi anche il transcontinentale.
Arrivai a Reno, Nevada, sopra un carro che fu subito messo su un binario
laterale. Era una domenica mattina, e dopo aver scarpinato in cerca di una
colazione andai a un campo dove giocavano gli indiani, ed eccoti lo
svedese, molto interessato. Naturalmente stemmo insieme. Era la sola
persona che conoscevo, in quella regione, e anche lui non conosceva altra
gente. Stemmo insieme come una coppia di eremiti scontenti, e insieme
passammo la giornata, andammo insieme a cerca di un pranzo e nel tardo
pomeriggio tentammo di salire a bordo di un merci. Ma lui si fece beccare,
così dovetti andarmene da solo, per farmi beccare anch'io in mezzo al
deserto, venti miglia più avanti.
Fra tanti posti desolati, quello dove mi beccarono era proprio al limite. Lo
chiamavano stazione e consisteva d'una baracca buttata assurdamente in
mezzo alla sabbia e alla saggina. Tirava un vento freddo, si avvicinava la
notte, e il solitario telegrafista, che viveva nella baracca, aveva paura di me.
Sapevo di non poter sperare mangime né letto, da lui. Proprio per via di
questo manifesto timore io non gli credetti quando mi disse che i treni verso
est non si fermavano mai, lì. E poi, non mi avevano appunto sbattuto fuori
da un treno diretto a est, in quel punto preciso, cinque minuti prima? Mi
assicurò che si era fermato per ordine superiore. Mi disse che c'erano
appena una quindicina di miglia fra lì e Wadsworth, e che facevo meglio ad
andarci. Io decisi di attendere, ed ebbi il piacere di vedere due merci diretti
a ovest passar via senza fermarsi, e un merci diretto a est. Mi chiesi se per
caso non c'era sopra lo svedese. Mi toccava correre il rischio fino a
Wadsworth, e difatti lo corsi, con grande sollievo del telegrafista, perché mi
scordai di bruciargli la baracca e di trucidarlo. I telegrafisti me ne debbono
essere molto grati. Dopo cinque o sei miglia dovetti scendere e lasciare che
il transcontinentale se ne andasse per suo conto. Andava forte, ma scorsi
una figura sul primo carro chiuso, che mi parve lo svedese.
Per diverso tempo non lo rividi. Traversai quelle centinaia di miglia
desertiche del Nevada, viaggiando di notte sui transcontinentali e
contentandomi, di giorno, di qualche treno locale, giusto per dormirci. Era il
principio dell'anno e faceva freddo su quelle alture. Qua e là si vedeva la
neve, tutte le montagne erano incappucciate di bianco, e di notte ne soffiava
un vento miserabilmente freddo. Non era terra da indugiarci sopra. E
rammentati, caro lettore, che il vagabondo percorre questa terra senza
riparo, senza danaro, mendicando, dormendo di notte senza nemmeno una
coperta, cosa che può intendere solo chi ne ha fatto esperienza.
Di prima sera giunsi alla stazione di Ogden. Il transcontinentale della
Union Pacific viaggiava verso est, e io avevo una gran voglia di far
conoscenza con qualcuno. Nell'intrico dei binari dinanzi alla locomotiva
intravidi una figura che si stagliava appena contro il chiarore. Era proprio lo
svedese. Ci stringemmo la mano come due fratelli che non si vedono da
tanto tempo, e scoprimmo che avevamo tutti e due le mani guantate. «Dove
hai preso questi guanti?» chiesi. «Nella cabina di una locomotiva», rispose;
«e tu dove li hai presi?» «Erano di un fuochista» dissi io; «se li è
dimenticati».
Prendemmo un vagone chiuso, quando il transcontinentale uscì, e lo
trovammo molto freddo. La ferrovia si inoltrava in una gola fra le montagne
coperte di neve e noi due eravamo scossi dal tremito, ma intanto ci
scambiammo confidenze su come avevamo coperto il tratto fra Reno e
Ogden. La notte prima io avevo chiuso gli occhi per una ora appena, e
questo vagone chiuso non era sufficientemente comodo per consentirmi un
sonnellino. A una fermata andai verso la locomotiva. Avevamo un attacco
doppio, cioè due locomotive, per superare quel tratto in salita.
La cabina della locomotiva di testa, poiché tagliava il vento, doveva
essere molto fredda, perciò scelsi quella della seconda, che era riparata dalla
prima. Mi feci avanti a tentoni, e trovai il posto occupato. Avvertii la forma
di un corpo di giovane. Dormiva profondamente. Stringendoci, c'era posto
anche per due sulla cabina, e io appunto spinsi il giovane più in là e mi
ficcai accanto a lui. Fu una notte «buona». I frenatori non ci diedero
fastidio, e in un baleno mi addormentai anch'io. A un tratto mi destarono
faville roventi e grandi scossoni,, sì che mi accostai ancora di più al giovane
e mi svanì completamente il sonno fra il tossicchiare delle locomotive e il
verso stridulo delle ruote.
Il transcontinentale era giunto a Evanston, Wyoming, e non andava oltre.
C'era stato un incidente, più avanti, e la linea era bloccata. Avevano
recuperato il macchinista morto e lo stato del suo corpo manifestava il
pericolo della via. Era rimasto ucciso anche un vagabondo, ma non avevano
recuperato il suo corpo. Parlai con il ragazzo. Aveva tredici anni. Era
scappato di casa, da qualche parte dell'Oregon, e viaggiava verso est per
raggiungere la nonna. Mi parlava dei crudeli maltrattamenti di casa sua, e
mi parve sincero; e poi, non c'era bisogna che mentisse a me, vagabondo
innominato come lui.
E questo ragazzo andava forte, certo. Non gli sembrava mai abbastanza il
terreno coperto. Quando i dirigenti della ferrovia decisero di rispedire il
transcontinentale là donde era venuto, poi su una tratta minore fino alla
secondaria dell'Oregon, per ricongiungersi infine alla Union Pacific, al di là
dell'incidente, quel ragazzo risalì al posto suo e disse che era deciso a
restarvi. Ma questo era troppo per lo svedese e per me. Significava finire
quella notte gelida viaggiando, per guadagnare, stringi stringi, una dozzina
di miglia. Dicemmo che volevamo attendere che rimuovessero il treno
dell'incidente, e intanto avremmo fatto una bella dormita.
Ora non è facile entrare, di notte, in una città sconosciuta, senza un soldo,
a mezzanotte, col gelo, e trovare da dormire. Lo svedese non aveva un
quattrino. In totale io avevo un decino e due nichelini. Da un ragazzo di
questa città sapemmo che la birra costava cinque centesimi, e che i saloon
stavano aperti tutta la notte. Proprio quel che ci voleva per noi. Due
bicchieri di birra ci sarebbero costati dieci centesimi, e con il caldo e le
sedie, si poteva dormire sino all'indomani. Ci dirigemmo verso le luci di un
saloon, camminando alla svelta, con la neve che cricchiava sotto i piedi, e
un venticello freddo che ci soffiava addosso.
Ahimè, avevamo frainteso le indicazioni di quel ragazzo del posto. La
birra a cinque centesimi la davano in un solo saloon della città, e non era
questo. Eppure quello in cui entrammo andava benissimo. Una benedetta
stufa rombava arroventata; c'erano poltrone accoglienti, con il fondo di
giunco, e un barista dall'aspetto non troppo gradevole il quale ci guardò
insospettito al nostro ingresso. Uno non può passare giorni e notti filate,
sempre con gli stessi panni, montando sui treni, affrontando la fuliggine e la
cenere e serbare un bell'aspetto. L'aspetto nostro era decisamente contro di
noi; ma che cosa ce ne importava? In tasca avevo i soldi.
«Due birre» dissi io al barista con aria noncurante, e mentre ce le serviva,
lo svedese e io ci appoggiamo al bar e in segreto desideravamo quelle due
poltrone accanto alla stufa.
Il barista ci mise davanti le due birre schiumanti e con gesto orgoglioso io
posai i dieci centesimi. E qui stava il mio sbaglio. Non appena ne seppi
l'entità, ero ben pronto a tirar fuori l'altro decino, restando con in tasca un
nichelino solo, io straniero in questa città straniera. Avrei pagato senz'altro.
Invece il barista non mi diede il modo di riparare all'errore. Non appena i
suoi occhi ebbero avvistato il decino da me deposto, afferrò i due bicchieri,
uno per mano, e versò la birra nell'acquaio che stava dietro il bar. E al
tempo stesso, guardandoci con aria malevola, disse:
«Avete le croste al naso. Avete le croste al naso. Avete le croste al naso.
Capito!».
Io non avevo croste, e neanche ne aveva lo svedese. I nostri nasi erano in
ordine. Il significato diretto delle sue parole era un altro, e per noi
incomprensibile, ma il significato indiretto ci era chiarissimo: non gli
piaceva la nostra faccia, ed evidentemente la birra costava dieci centesimi.
Io mi frugai in tasca e misi giù un altro decino osservando, sbadatamente:
«Ah, credevo che fosse un locale da cinque centesimi.
«I tuoi soldi qui non sono buoni» rispose, spingendo sul bancone le due
monete verso di me.
Tristemente me le rimisi in tasca, tristemente desiderammo la benedetta
stufa e le poltrone, e tristemente uscimmo nella notte gelata.
Ma mentre si usciva, il barista, sempre furibondo, ci gridò dietro: «Avete
le croste al naso, capito!».
Dopo di allora ho visto parecchio mondo, ho viaggiato per terre e fra
genti strane, ho aperto parecchi libri, ho assistito a molte conferenze; ma
fino a oggi, pur avendoci pensato a lungo, profondamente, non sono riuscito
a indovinare il significato di quella enigmatica affermazione del barista di
Evanston, Wyoming. I nostri nasi erano in ordine.
Quella notte dormimmo sulle caldaie di un impianto per l'energia
elettrica. Come scoprimmo questo posto per dormire, non me lo ricordo.
Forse ci andammo d'istinto, come fanno i cavalli che d'istinto trovano
l'acqua, o i piccioni viaggiatori che d'istinto ritrovano la loro colombaia. Ma
non è piacevole il ricordo di quella notte. Oltre noi, sopra quelle caldaie,
c'era un'altra decina di vagabondi e faceva troppo caldo. A completare il
quadro della nostra miseria, il macchinista non ci permetteva di scendere e
metterci in piedi. La scelta era una sola: o le caldaie, o fuori nella neve.
«Avete detto che volete dormire, e allora, accidenti, dormite» disse rivolto
a me che ero sceso disfatto dal gran calore.
«Acqua», ansimai, asciugandomi il sudore sugli occhi. «Acqua!».
Indicò la porta e mi disse che laggiù, da qualche parte, nel buio, avrei
trovato un fiume. Mi diressi al fiume, mi persi nel buio, due o tre volte
inciampai e caddi, mi arresi, mezzo congelato ritornai sopra le caldaie.
Quando mi fui disgelato, provai più sete di prima. Intorno a me i vagabondi
gemevano, singhiozzavano, sospiravano, ansimavano, si giravano, si
rivoltolavano grevi nel loro tormento. Eravamo tante anime perdute messe a
rosolare in una graticola d'inferno, e il macchinista, Satana Incarnato, ci
dava una sola alternativa, gelare nel freddo esterno. Lo svedese si tirò su a
sedere e con passione diede l'anatema alla voglia di vagabondare che adesso
scontava soffrendo di queste durezze.
«Quando torno a Chicago», perorò, «voglio trovarmi un lavoro e
tenermelo fino a che l'inferno non si geli. Poi ricomincerò a fare il
vagabondo».
E, vedi l'ironia della sorte, il giorno dopo, quando il treno dell'incidente fu
rimosso, lo svedese e io uscimmo da Evanston a bordo di un vagone
frigorifero che trasportava arance dalla California solatia. Naturalmente le
celle del ghiaccio erano vuote, perché faceva già abbastanza freddo fuori,
ma non per questo ci scaldavano. Ci entrammo da certi boccaporti posti in
cima al vagone; le casse erano fatte di ferro galvanizzato, e con quel tempo
così rigido non era piacevole toccarle. E noi lì, tremanti e scossi, a battere i
denti. Tenemmo consiglio e si decise di restare lì, nelle casse del ghiaccio,
notte e giorno, fino ad uscire dalla deplorevole zona degli altipiani e
scendere nella valle del Mississippi.
Ma bisognava mangiare, e decidemmo che alla prossima fermata
bisognava darsi da fare in cerca di mangime, per poi tornare subito alla
nostra ghiacciaia. Arrivammo alla città di Green River nel tardo
pomeriggio, ma troppo presto per la cena. Prima dell'ora del pasto è il
momento peggiore per bussare alle porte di servizio; ma noi ci facemmo
coraggio, ci calammo dalla scaletta laterale quando il treno fu in stazione e
facemmo il giro delle case. Subito ci separammo, ma con l'intesa di
ritrovarci al carro frigorifero, Da principio mi andò male, ma alla fine, con
un paio di regalini dentro la camicia, corsi al treno. Stava uscendo di
stazione e andava forte. Il vagone in cui ci eravamo rifugiati era ormai
passato, e a una decina di carri di distanza io mi aggrappai alla scaletta, salii
svelto fino in cima e mi lasciai cadere in una cassa da ghiaccio.
Però mi aveva visto un frenatore dal suo sgabuzzo, e alla prossima
fermata, Rock Springs poche miglia avanti, ficcò il capo nella mia cassa e
disse: «Vieni fuori, figlio di un rospo! Vieni fuori!» Mi agguantò per i
calcagni e mi tirò fuori. Insomma, il treno speciale per gli aranci della
California continuò la sua corsa senza di me. A bordo ci restava lo svedese.
Cominciava a cadere la neve. Si annunciava una notte fredda. Dopo buio
cercai alla stazione e trovai un carro frigorifero vuoto. Ci salii, ma non sui
cassoni del ghiaccio, sul carro vero e proprio. Chiusi ben bene le pesanti
porte, e siccome i bordi erano guarniti di gomma, il carro risultava sigillato
a prova d'aria. Le pareti erano spesse. Non c'era modo che vi entrasse il
freddo esterno. Ma l'interno era freddo come l'esterno. Come elevarne la
temperatura, ecco il problema. Ma un vecchio vagabondo sa sempre il fatto
suo. Tirai fuori di tasca tre o quattro giornali. Li bruciai, uno alla volta, sul
pavimento del carro. Si levò il fumo, fino in cima. Ora non un grammo di
calore poteva sfuggire, e comodo e caldo passai una bellissima nottata. Non
mi destai neanche una volta.
Al mattino nevicava ancora. Mentre cercavo di far colazione, persi un
merci diretto a est. Più tardi provai con due altri merci ma mi buttarono
fuori da tutti e due. Per tutto il pomeriggio non passarono treni diretti a est.
La neve cadeva più fitta che mai, ma al crepuscolo uscii sul primo vagone
chiuso di un treno transcontinentale. Mentre salivo a bordo del vagone
chiuso da una parte, qualcun altro ci saliva dalla parte opposta. Era il
ragazzo fuggito dalla famiglia nell'Oregon.
Ora, il primo carro chiuso di un treno veloce che corre nella tormenta non
è di sicuro una festa. Ci passa il vento, colpisce la parete opposta e torna
indietro. Alla prima fermata, essendo calate le tenebre, andai a parlare con il
fuochista. Mi offrii di spalare il carbone sino al termine della sua corsa, che
era Rawlins. La mia offerta fu accettata. Dovevo lavorare fuori, sul tender,
nella neve, spaccando i pezzi di carbone con una mazza e passandoglielo
con la pala fin dentro la cabina. Ma siccome non dovevo lavorare di
continuo, di tanto in tanto potevo entrare in cabina a riscaldarmi.
«Ehi», mi disse il fuochista, alla prima mia sosta per ripigliare il fiato.
«Là sul primo carro coperto c'è un ragazzino. Ha parecchio freddo».
Sulle locomotive della Union Pacific le cabine sono spaziose, e il ragazzo
lo sistemammo nel cantuccio caldo davanti all'alto sedile del fuochista, e lì
il ragazzo subito si addormentò. Arrivammo a Rawlins a mezzanotte. La
neve era più fitta che mai. Qui la locomotiva doveva andare al deposito per
essere sostituita con una locomotiva nuova. Quando il treno si arrestò, dai
gradini della locomotiva io caddi difilato fra le braccia di un omaccione che
indossava un grosso cappotto. Cominciò a farmi domande, e io prontamente
gli chiesi chi fosse. Con altrettanta prontezza m'informò che egli era lo
sceriffo. Ritirai le corna e ascoltai e risposi.
Cominciò descrivendomi il ragazzo che ancora dormiva in cabina.
Rapidamente pensai. Evidentemente la famiglia era sulle tracce del figlio e
lo sceriffo aveva ricevuto per telegrafo istruzioni dall'Oregon. Sì, il ragazzo
lo avevo visto. Per la prima volta a Ogden. La data corrispondeva alle
informazioni dello sceriffo. Ma il ragazzo doveva essere rimasto indietro,
spiegai, perché lo avevano fatto scendere da questo stesso transcontinentale,
questa notte stessa, uscendo da Rock Springs. E continuavo a pregare che il
ragazzo non si destasse, non scendesse dalla cabina rovinandomi ogni cosa.
Lo sceriffo mi mollò per intervistare i frenatori, ma prima di andarsene
disse:
«Amico, questa città non è posto per te. Capito? Prendi questo treno, e
bada di non sbagliarti. Se ti ritrovo dopo che il treno è partito...».
L'assicurai che non per mio desiderio mi trovavo nella sua città; che il
solo motivo per cui mi trovavo qui era che il treno ci si fermava; e che non
mi avrebbe mai più rivisto, appena fossi uscito da questa benedetta città.
Mentre andava a parlare con i frenatori, saltai di nuovo in cabina. Il
ragazzo era sveglio e si stava strofinando gli occhi. Gli dissi la notizia e gli
sconsigliai di restare dentro la locomotiva che andava al deposito. Per farla
corta, il ragazzo ripartì su quella stessa locomotiva, ma non in cabina, bensì
allo scoperto, con l'istruzione di chiedere il permesso al fuochista, alla
prima fermata. In quanto a me, mi fregarono. Il fuochista nuovo era giovane
e non scozzonato abbastanza da rompere le regole della Compagnia contro i
vagabondi in locomotiva; perciò respinse la mia offerta di spalargli il
carbone. Spero che il ragazzo ci sia riuscito, perché una notte allo scoperto
con la tormenta significava la morte.
Strano a dirsi, io non ricordo più in che modo mi buttarono fuori a
Rawlins. Rammento di aver guardato il treno, che immediatamente fu
ingoiato dalla tempesta di neve, e d'essermi avviato verso un saloon per
riscaldarmi. Qui c'era luce e calore. Tutto funzionava a pieno regime. Faro,
roulette, dadi, poker e a fare allegra la serata contribuiva qualche allegro
vaccaro. Ero già riuscito a fraternizzare con questa gente e mandavo giù il
mio primo bicchiere a loro spese, quando una mano greve mi calò sulla
spalla. Mi volsi e sospirai. Era lo sceriffo.
Senza dire una parola mi portò fuori, nella neve.
«C'è un treno speciale per gli aranci, giù alla stazione», disse.
«Ma la notte è fredda», dissi io.
«Parte fra dieci minuti», disse lui.
Tutto qui. Non ci fu discussione. E quando quel treno speciale fu partito,
mi ritrovai nelle casse del ghiaccio. Pensai che prima di giorno mi si
sarebbero congelati i piedi, e per le ultime venti miglia fino a Laramie stetti
in piedi nel portello e danzavo su e giù. C'era troppa neve, i frenatori non
potevano vedermi, e a me non importava nulla, del resto, che mi vedessero.
A Laramie con un quarto di dollaro mi pagai una colazione calda, e
immediatamente dopo fui a bordo di un vagone chiuso, un bagagliaio, parte
di un transcontinentale che doveva arrampicarsi sino al passo, attraverso la
spina dorsale delle Montagne Rocciose. Di giorno non si sale su un
bagagliaio; ma con quella tormenta in cima alla Montagne Rocciose,
dubitavo che i frenatori avrebbero avuto lo stomaco di farmi scendere. E
infatti non mi fecero scendere. Anzi, a ogni fermata venivano a vedere se
non mi ero ancora gelato.
Al monumento ad Ames, proprio in cima alle Montagne Rocciose - non
ricordo che altezza - il frenatore venne a trovarmi per l'ultima volta.
«Ehi, amico», disse. «Vedi quel merci sul binario accanto che ci ha dato
la precedenza?»
Lo vidi. Proprio nel binario accanto, neanche due metri. Ma con quella
neve riuscivo appena a scorgerlo.
«Bene, in uno di quei carri c'è una parte dell'Esercito di Kelly. Hanno
sotto di sé due palmi di paglia, e sono in tanti da scaldare il carro».
Il suo consiglio fu buono, e io lo seguii, pronto tuttavia, caso mai fosse un
tiro birbone quello che voleva farmi il frenatore, a risalire sul carro chiuso
del transcontinentale. Invece andò benissimo. Trovai il carro - un grande
carro frigorifero con una porta aperta per la ventilazione. Ci salii. Incontrai
la gamba di un uomo, poi il braccio di un altro. La luce era fioca, e non
riuscivo a veder altro che gambe e braccia e corpi inestricabilmente confusi.
Mai visto un simile garbuglio di umanità. Erano tutti distesi sulla paglia,
uno sull'altro, uno sotto l'altro, uno attorno all'altro. Ottantaquattro robusti
vagabondi pigliano parecchio posto, se tu li stendi. Gli uomini che
calpestavo si risentivano. I loro corpi, sotto di me, parevano le onde del
mare, e mi davano un'involontaria spinta in avanti. Non riuscivo a trovare
paglia su cui mettere i piedi, perciò pestavo altri corpi ancora. Cresceva il
risentimento e con esso il mio moto in avanti. Persi l'appoggio e caddi
seduto, all'improvviso. Purtroppo, ero seduto sulla testa di un uomo. Un
istante dopo si era alzato sulle mani e sulle ginocchia, furibondo, e io
volavo per aria. Quel che va su deve pur ritornare giù, e io venni giù, sulla
testa di un altro uomo.
Quel che successe dopo è molto vago nella mia memoria. Fu come
passare dentro una macchina trebbiatrice. Fui strapazzato da un capo
all'altro del carro. Quegli ottantaquattro vagabondi mi levarono la pula di
dosso, fino a che, per non so quale miracolo, trovai un pezzetto di paglia su
cui riposare. Adesso ero un iniziato di questa folla allegra. Per tutto il resto
della giornata viaggiammo nella tempesta, e per ingannare il tempo fu
deciso che ciascuno raccontasse una storia. Fu convenuto che ciascuna
storia doveva essere buona, e inoltre che fosse una storia mai sentita prima.
In caso contrario, il castigo era la macchina trebbiatrice. Nessuno fallì. E io
debbo a questo punto dire che mai in vita mia assistetti a una così
meravigliosa deboscia di contastorie. Ecco ottantaquattro uomini di tutto il
mondo - con me ottantacinque; e ciascuno disse un capolavoro. E questo per
forza: o capolavoro, oppure macchina trebbiatrice.
Nel tardo pomeriggio arrivammo a Cheyenne. Più che mai imperversava
la tempesta, e anche se l'ultimo pasto consumato era la colazione, nessuno
aveva il coraggio di andarsene a rimediare la cena. Per tutta la notte
corremmo nella tormenta, e il giorno dopo ci trovammo sulle dolci pianure
del Nebraska, sempre in corsa. Il sole benedetto scintillava su una terra che
sorrideva, e da ventiquattro ore non si toccava cibo. Sapemmo che il merci
sarebbe entrato in una città verso mezzogiorno, se non rammento male,
chiamata Grand Island.
Facemmo una colletta e mandammo un telegramma alle autorità di quella
città. Il testo del messaggio diceva che ottantaquattro vagabondi, sani e
affamati, sarebbero giunti verso mezzogiorno, e che non sarebbe stato male
far trovare pronto il pranzo. Alle autorità di Grand Island si presentava
questa scelta: darci da mangiare, sbatterci in prigione. In questo secondo
caso avrebbero dovuto darci da mangiare egualmente, e fu dunque saggezza
decidere che un pasto a testa era la spesa minore.
A mezzogiorno, quando il merci giunse a Grand Island noi eravamo
seduti sopra i vagoni dondolando le gambe al sole. Tutta la polizia del borgo
faceva parte del comitato d'onore. Divisi in squadre, ci fecero marciare fino
ai vari alberghi e ristoranti, dove ci fu servito il pranzo. Ormai non
mangiavamo da trentasei ore, e non occorreva spiegarci che cosa fare. Dopo
di che fummo riaccompagnati alla stazione ferroviaria. La polizia aveva
costretto il merci ad attenderci. Il merci partì lentamente e noialtri
ottantaquattro, in fila lungo il binario, come formiche salimmo su per le
scalette laterali. Il treno era «catturato».
Quella sera non ci fu cena. O meglio gli altri non cenarono, io sì. All'ora
di cena, mentre il treno usciva da una cittadina, un uomo salì sul carro dove
io stavo giocando a «pedro» con altri tre vagabondi. La camicia dell'uomo
presentava un rigonfio sospetto. Nella mano destra aveva un secchio tutto
ammaccato da cui si levava il vapore. Io fiutai «Java». Porsi le carte a uno
che stava a guardare e chiesi scusa. Poi, all'altro capo del carro, seguito da
sguardi invidiosi, mi misi a sedere con l'uomo appena salito a bordo, divisi
con lui il caffè e la roba che aveva rimediato e che gli faceva gonfia la
camicia. Era lo svedese.
Verso le dieci di sera arrivammo a Omaha.
«Scendiamo un momento», mi disse lo svedese.
«Certo», dissi io.
Quando il merci entrò in Omaha, noi fummo pronti a scendere. Ma era
pronta anche la gente di Omaha. Lo svedese e io eravamo appesi alle
scalette esterne, pronti a calare. Invece il merci non si fermò. Non solo,
lunghe file di poliziotti, coi bottoni metallici e le stelle scintillanti alla luce
elettrica, erano disposti sui due lati del binario. Lo svedese e io sapevamo
quel che sarebbe successo se fossimo caduti fra le loro braccia. Ci tenemmo
alle scalette, e il treno continuò la corsa fino al fiume Missouri, verso
Council Bluffs.
Il «generale» Kelly con un'armata di duemila vagabondi era accampato a
Chautauqua Park, distante diverse miglia. Noi eravamo appunto la
retroguardia del generale Kelly. Scesi dal treno a Council Bluffs, cominciò
la marcia verso il campo. La notte si era fatta fredda, e grevi scrosci di
pioggia e vento ci gelavano e ci inzuppavano. Molti poliziotti ci tenevano a
bada e ci guidarono fino al campo. Lo svedese e io stavamo bene attenti e
trovammo il modo di filarcela.
Ormai la pioggia veniva giù a torrenti e nel buio non riuscivi neanche a
vederti le mani. Come due ciechi cercavamo un riparo. Ci servì l'istinto,
perché in men che non si dica trovammo un saloon - non un saloon aperto e
in affari, ma semplicemente un saloon che di notte chiudeva, e neanche un
saloon con indirizzo permanente, ma un saloon di legno, con sotto le ruote,
che si spostava da un luogo all'altro. Le porte erano serrate. La pioggia
gelida continuava a batterci. Non esitammo. Infrante le porte, entrammo.
La vita mia ha conosciuto molti accampamenti duri, ho avuto per letto
una pozzanghera, ho dormito sulla neve con due coperte, con il termometro
che segnava venticinque sotto zero (e questo è uno scherzo rispetto ai
quarantacinque e più cui può scendere la colonnina di alcool); ma voglio
dire subito che mai mi toccò accampamento peggiore, mai trascorsi una
notte più miseranda di quella che passai con lo svedese nel saloon iterante
di Council Bluffs. In primo luogo l'edificio, sospeso com'era per aria, aveva
moltissime aperture nel pavimento, attraverso le quali fischiava il vento. In
secondo luogo il bar era vuoto; non c'era acquavite in bottiglie con cui
riscaldarsi e scordare la nostra miseria. Non avevamo coperte, bagnati erano
i nostri panni, bagnata la pelle. Cercammo di dormire. Io rotolai sotto il bar,
e lo svedese rotolò sotto un tavolo. Ma con quei buchi, con quei crepacci del
pavimento, era proprio impossibile, e dopo mezz'ora io mi misi sopra il
bancone del bar. Poco dopo anche lo svedese si mise sul tavolo.
Ed eccoci lì tremanti a pregare la luce del giorno. Io so di aver tremato
fino al punto di non poter tremare più, fino a che i muscoli del tremito si
furono esauriti e ormai si limitavano a dolermi. Lo svedese gemeva,
mugolava, e ogni tanto, sbattendo i denti, mormorava: «Mai più, mai più».
Ripeteva queste parole incessantemente, mille volte e quando gli si chiusero
gli occhi, continuò a ripeterle nel sogno.
Al primo grigiore dell'alba uscimmo dalla nostra casa di dolore e una
volta fuori ci trovammo immersi in una nebbia densa e fredda. Incespicando
raggiungemmo il binari della ferrovia. Io volevo tornare a Omaha per
rimediarvi la colazione; il mio compagno proseguiva per Chicago. Era
venuto il momento di dividerci. Ci abbracciammo con le mani paralizzate.
Continuavamo tutti e due a tremare. Quando tentavamo di parlare, ci
zittivano i denti, sbattendo fra di loro. Restammo in silenzio, tagliati fuori
dal mondo; vedevamo soltanto un breve tratto di binario, le cui estremità si
perdevano nella nebbia. Ci fissavamo con occhi muti, scuotendo le nostre
mani strette in segno di affetto. Il viso dello svedese era livido di freddo, e
so che uguale doveva essere il mio.
«Mai più che cosa?» riuscii a dire.
Le parole cercavano di formarsi nella strozza dello svedese; poi fioche e
lontane, in un esiguo sussurro che gli veniva dal fondo dell'anima gelata,
ecco le parole:
«Mai più il vagabondo».
Tacque, e continuando la sua voce prese forza e robustezza,
nell'affermazione della sua volontà.
«Mai più il vagabondo. Vado a trovarmi un lavoro. Faresti meglio a fare
lo stesso anche tu. Le notti come queste significano reumatismi».
Mi agguantò la mano.
«Addio, amico», disse.
«Addio, amico», dissi.
Poi la nebbia ci ingoiò, ci divise. Era il nostro ultimo distacco. Signor
Svedese, dovunque tu sia, io spero che tu abbia trovato quel lavoro.
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