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viii “rapporti tra diritto comunitario e diritto degli stati membri”

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viii “rapporti tra diritto comunitario e diritto degli stati membri”
INSEGNAMENTO DI
DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
LEZIONE VIII
“RAPPORTI TRA DIRITTO COMUNITARIO E
DIRITTO DEGLI STATI MEMBRI”
PROF. GIUSEPPE RUBERTO
Diritto dell’Unione Europea
Lezione VIII
Indice
1
L’adattamento Dell’ordinamento Italiano Al Diritto Comunitario. -------------------------------------------------- 3
1.1.
1.2.
1.3.
L’ADATTAMENTO AI TRATTATI ISTITUTIVI E MODIFICATIVI DELLE COMUNITÀ EUROPEE. --------------------- 3
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO COMUNITARIO DERIVATO. ----------------------------------------------------------- 4
IL RUOLO DELLE REGIONI NELL’ATTUAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO. ------------------------------------- 6
2
I Rapporti Tra Diritto Comunitario E Diritto Interno Alla Luce Dell’elaborazione Giurisprudenziale Della
Corte Di Giustizia E Della Corte Costituzionale. -------------------------------------------------------------------------------- 9
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Diritto dell’Unione Europea
Lezione VIII
1 L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto
comunitario.
1.1.
L’adattamento ai Trattati istitutivi e modificativi delle
Comunità europee.
Le norme contenute nei Trattati istitutivi delle Comunità europee e in quelli che li
hanno successivamente modificati sono state recepite dagli Stati membri con le procedure
previste dalle rispettive carte costituzionali. La Costituzione della Repubblica Federale di
Germania, ad esempio, prevede che, per la realizzazione dell’Europa unita, la Federazione
può trasferire <<diritti di sovranità mediante legge, con l’assenso del Bundesrat>>.
L’Italia ha dato esecuzione ai Trattati comunitari seguendo le medesime procedure
previste per la ratifica dei trattati internazionali, cioè attraverso il ricorso ad una legge
ordinaria di autorizzazione alla ratifica del Trattato (da parte del Presidente della
Repubblica), contenente l’ordine di esecuzione dello stesso.
Questa soluzione ha tuttavia sollevato dubbi in dottrina. Molti hanno rilevato infatti
che le limitazioni di sovranità derivanti dall’appartenenza alle Comunità europee e
all’Unione europea potessero essere introdotte solo attraverso una norma costituzionale.
Sulla questione si è pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza 7 marzo 1964, n.
14, Costa c. Enel, in Foro it., 1964, I, p. 465), affermando che il ricorso alla legge ordinaria
per il recepimento dei Trattati comunitari trova giustificazione nel disposto dell’art. 11 della
Costituzione, secondo cui l’Italia <<consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo>>. In
particolare, secondo la Corte, questa norma non si limita a consentire le limitazioni di
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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sovranità ma riveste anche carattere procedurale, ammettendo che dette limitazioni possano
essere adottate senza procedere ad una revisione costituzionale.
Il riconoscimento della possibilità di dare esecuzione ai Trattati mediante legge
ordinaria ha tuttavia comportato problemi di non poco conto. Fin dalla citata sentenza del
1964, la Corte Costituzionale ha infatti ritenuto applicabile anche alle leggi di ratifica dei
Trattati comunitari il principio secondo cui lex posterior derogat anteriori, ammettendo così
che una legge nazionale successiva potesse derogare le norme comunitarie (sia quelle dei
Trattati che, a maggior ragione, quelle di diritto derivato). Questa posizione è stata
contrastata immediatamente dalla Corte di giustizia, che ha sottolineato la posizione di
superiorità delle norme comunitarie rispetto a quelle nazionali, inducendo, col tempo, anche
la Corte costituzionale ad accettare questo orientamento (del contrasto giurisprudenziale tra
Corte costituzionale e Corte di giustizia ci occuperemo nel par. 2).
Sulla questione non ha inciso la modifica dell’art. 117 Cost., introdotta dalla legge
costituzionale n. 3/2001, che si limita a dare atto della partecipazione dell’Italia
all’ordinamento comunitario, affermando che: <<la potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali>>, senza tuttavia definire
alcuna procedura per consentire limitazioni di sovranità.
1.2.
L’adattamento al diritto comunitario derivato.
Il problema dell’adattamento al diritto comunitario derivato riguarda essenzialmente
gli atti che non sono direttamente applicabili negli Stati membri, cioè le direttive. I
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regolamenti e le decisioni, infatti, non necessitano di una norma interna di attuazione, salvo
diversa previsione dell’atto stesso.
In Italia l’attuazione delle direttive è stata spesso tardiva. Il loro recepimento,
inizialmente, è avvento attraverso il ricorso ad una legge con cui il Parlamento delegava il
Governo ad emanare dei decreti legislativi di attuazione delle norme comunitarie. Sia
l’approvazione della legge delega che dei successivi decreti legislativi richiedevano tuttavia
tempi eccessivamente lunghi.
Con la legge 9 marzo 1989, n. 86, nota come legge “La Pergola”, è stata introdotta
una specifica procedura per velocizzare i tempi di attuazione degli atti comunitari. E’ stata
prevista infatti l’approvazione annuale, da parte del Parlamento, di un disegno di legge del
Governo (c.d. “legge comunitaria”) contenente l’indicazione delle direttive e degli altri atti
comunitari che devono essere recepiti nell’ordinamento nazionale.
La legge comunitaria può dare attuazione agli obblighi comunitari:
- dettando direttamente le norme di adattamento (procedura questa piuttosto
dispendiosa e quindi poco seguita nella prassi);
- conferendo al Governo una delega legislativa (è questa la soluzione più frequente);
- dettando disposizioni che autorizzano il Governo ad emanare un regolamento di
attuazione delle direttive comunitarie, purché esse riguardino materie di
competenza statale esclusiva e non coperte da riserva assoluta di legge. Se la
materie è già disciplinata con legge (ma non riservata alla legge) il regolamento
governativo può modificarla.
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La legge “La Pergola” è stata sostituita dalla legge 4 febbraio 2005 n. 11, che ha
confermato lo strumento della legge comunitaria. Tra le novità introdotte dalla legge vi è il
riconoscimento al Governo della facoltà di adottare <<provvedimenti, anche urgenti,
necessari a fronte di atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali delle Comunità
europee e dell'Unione europea che comportano obblighi statali di adeguamento solo
qualora la scadenza risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge
comunitaria relativa all'anno in corso>> (art. 10, comma 1). In sostanza la norma consente
al Governo, anche in assenza di una delega del Parlamento, di adottare decreti-legge o atti
amministrativi per adeguare l’ordinamento italiano agli obblighi comunitari che devono
essere attuati entro un termine anteriore alla presumibile entrata in vigore della legge
comunitaria annuale.
Resta, in ogni caso, la possibilità per il Parlamento di attuare gli obblighi comunitari
anche al di fuori della legge comunitaria, mediante leggi contenenti norme dettagliate
ovvero leggi che si limitano a fissare i principi e i criteri direttivi ai quali dovrà conformarsi
il legislatore delegato. Questa scelta consente al Parlamento di esaminare in maniera più
attenta i provvedimenti di maggiore rilevanza (Gaja).
1.3.
Il ruolo delle Regioni nell’attuazione del diritto comunitario.
La legge “La Pergola” prevedeva che le Regioni, nelle materie di competenza
concorrente, non potessero dare attuazione alle direttive comunitarie se non dopo l’entrata
in vigore della prima legge comunitaria successiva alla notifica della direttiva. Questa
disposizione è stata modificata dalla legge 24 aprile 1998 n. 128, che ha previsto che le
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Regioni possano dare immediata attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di
competenza concorrente, pur riconoscendo al legislatore statale la competenza ad emanare
nelle medesime materie norme di principio, che prevalgono sulle disposizioni contrarie
dettate a livello regionale. Analoga previsione è oggi contenuta nell’art. 16 della legge n. 11
del 2005, che rimette alla legge comunitaria l’indicazione dei <<principi fondamentali non
derogabili dalla legge regionale o provinciale sopravvenuta e prevalenti sulle contrarie
disposizioni eventualmente già emanate dalle regioni e dalle province autonome>>.
Il ruolo delle Regioni nell’attuazione del diritto comunitario ha trovato
riconoscimento, a livello costituzionale, con la riforma del Titolo V della Costituzione,
adottata con legge costituzionale n. 3 del 2001. L’art. 117, comma 5, Cost. prevede infatti
che le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro
competenza (sia esclusiva che concorrente), <<provvedono all'attuazione e all'esecuzione
degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza>>.
L’esercizio del potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni inadempienti
agli obblighi comunitari, già contemplato dall’art. 9, comma 4, della legge “La Pergola”, è
stato disciplinato nel dettaglio dalla legge 1 marzo 2002 n. 39, le cui disposizioni sono state
poi riprodotte nell’art. 11, comma 8, della legge n. 11/2005. Detta norma attribuisce allo
Stato il potere di adottare decreti legislativi o regolamenti di attuazione nelle materie di
competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome al fine di porre rimedio
all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie. La norma
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precisa che gli atti normativi adottati dallo Stato in via sostitutiva si applicano a decorrere
dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della normativa comunitaria da parte
delle Regioni e delle Province autonome e perdono comunque efficacia dalla data di entrata
in vigore della normativa di attuazione di ciascuna Regione e Provincia autonoma.
Della mancata attuazione degli obblighi comunitari è sempre responsabile, nei
confronti della Comunità europea, lo Stato membro, anche se l’inadempimento è
imputabile ad uno Stato federato, ad una Regione o ad un ente territoriale autonomo.
Per evitare tale responsabilità, la nostra Costituzione, all’art. 120, comma 2, ha riconosciuto
espressamente al Governo il potere di <<sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città
metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria>>, rimettendo alla legge la definizione delle
<<procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione>>. A disciplinare la
procedura di esercizio dei poteri sostitutivi è intervenuta la legge 5 giugno 2003 n. 131 (c.d.
legge La Loggia), il cui art. 8 dispone che: <<il Presidente del Consiglio dei ministri, su
proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti
locali, assegna all'ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti
o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l'organo
interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri,
adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito
commissario>>.
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2 I rapporti tra diritto comunitario e diritto interno
alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale della
Corte di giustizia e della Corte costituzionale.
Il problema dei rapporti tra norme interne e norme comunitarie ha dato luogo ad una
prolungata contrapposizione tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, che si sono divise
sulla collocazione da attribuire alle norme comunitarie nell’ambito della gerarchia delle
fonti del diritto interno.
Inizialmente la Corte costituzionale ha individuato il criterio per risolvere il contrasto
tra diritto interno e diritto comunitario nel principio della successione delle leggi nel tempo.
In particolare la Corte, con la sentenza 7 marzo 1964, n. 14 (giudizio Costa c. Enel), dopo
aver giudicato legittimo il ricorso alla legge ordinaria per il recepimento dei Trattati
comunitari in virtù della previsione dell’art. 11 della Costituzione, ha affermato che le
norme dei Trattati hanno il rango di leggi ordinarie e come tali possono essere modificate o
abrogate da una legge interna successiva. In definitiva, secondo la Corte costituzionale, la
legge interna successiva contrastante con la norma comunitaria è pienamente efficace e deve
essere applicata dal giudice italiano, ferma restando la responsabilità dello Stato per
violazione degli obblighi comunitari.
Le conclusioni della Corte costituzionale sono state immediatamente contrastate dalla
Corte di giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla medesima causa Costa contro Enel , ad essa
approdata attraverso un ricorso pregiudiziale. In particolare, con la sentenza 15 luglio 1964
(C-6/64, Costa c. Enel, in Raccolta, 1964, p. 1127), la Corte di giustizia ha affermato la
prevalenza del diritto comunitario su quello interno partendo dalla considerazione che, con
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l’istituzione della Comunità europea, gli Stati membri “hanno limitato, sia pure in campi
circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i
loro cittadini e per loro stessi”. Secondo la Corte, la conseguenza della rinuncia degli Stati
membri ai propri poteri sovrani in favore della Comunità è “l’impossibilità per gli Stati di
far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di
reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere
opponibile all’ordine comune”. D’altra parte, ha precisato la Corte, “se l’efficacia del diritto
comunitario variasse da uno Stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò
metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del trattato”. Una conferma della supremazia
del diritto comunitario, secondo la Corte, è inoltre rinvenibile nella previsione dell’art. 189
TCE (oggi art. 249 TCE) - che sancisce l’obbligatorietà e l’efficacia diretta dei regolamenti
negli Stati membri – la quale perderebbe significato “se uno Stato potesse unilateralmente
annullarne gli effetti con un provvedimento legislativo che prevalesse sui testi comunitari”.
Dopo la pronuncia della Corte di giustizia, il problema dei rapporti tra diritto interno
e diritto comunitario è stato nuovamente affrontato dalla Corte costituzionale con le
sentenze Frontini del 1973 e Industrie chimiche del 1975.
Con la sentenza 27 dicembre 1973, n. 183 (giudizio Frontini e altri c.
Amministrazione delle Finanze), la Corte costituzionale ha riconosciuto, per la prima volta,
la prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi nazionali, anche successive, affermando
che esse, in virtù della previsione dell’art. 11 Cost., acquistano rango costituzionale.
Tuttavia questa soluzione impediva al giudice nazionale di disapplicare le norme interne in
contrasto con il diritto comunitario, dovendo questi, una volta ravvisato il contrasto,
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limitarsi a sollevare la questione di legittimità costituzionale. Con la successiva sentenza 30
ottobre 1975, n. 232 (giudizio I.C.I.C. S.p.a. c. Ministero del Commercio con l’Estero) la
Corte ha confermato il suddetto orientamento, affermando che una legge che violi gli
obblighi comunitari è costituzionalmente illegittima per “contrasto con i principi enunciati
dagli artt. 189 e 177 del Trattato istitutivo della C.e.e. (oggi artt. 249 e 234), che comporta
violazione dell'art. 11 della nostra Costituzione, in base al quale l'Italia ha aderito alla
Comunità consentendo, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
richieste per la sua istituzione e per il conseguimento dei suoi fini di integrazione,
solidarietà e comune sviluppo economico e sociale degli Stati europei, e quindi anche di
pace e giustizia fra le Nazioni”. La Corte ha negato tuttavia al giudice italiano il potere di
disapplicare le leggi interne in contrasto con le norme comunitarie anteriori, ritenendo
necessaria la loro abrogazione da parte del Parlamento ovvero una pronuncia di
incostituzionalità della Corte costituzionale.
Anche questo orientamento è stato prontamente confutato dalla Corte di giustizia.
Con la sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978 (C-106/77, Amministrazione delle Finanze c.
Simmenthal S.p.a., in Raccolta, 1978, p. 629), invero, la Corte comunitaria ha ribadito la
preminenza del diritto comunitario su quello interno affermando che le norme comunitarie
direttamente applicabili prevalgono sempre sulle norme interne, anche successive,
incompatibili. La Corte ha altresì puntualizzato che la prevalenza del diritto comunitario
non può essere assicurata dallo Stato membro attraverso un procedimento teso
all’annullamento della norma interna previa declaratoria di illegittimità costituzionale,
rilevando che il principio della preminenza del diritto comunitario postula che “qualsiasi
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giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare
integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli,
disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore
sia successiva alla norma comunitaria (…) senza doverne chiedere o attendere la previa
rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.
Dopo la sentenza Simmenthal la Corte costituzionale è stata costretta a rivedere il
proprio orientamento. Con la sentenza 8 giugno 1984, n. 170 (Granital S.p.a. c.
Amministrazione delle Finanze) la Consulta ha infatti riconosciuto al giudice italiano il
potere di disapplicare le norme interne contrastanti con i regolamenti comunitari, deducendo
che: “le disposizioni della CEE immediatamente applicabili entrano e permangono in
vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata
dalla legge ordinaria dello Stato, che fa parte di un ordinamento giuridico distinto”. In altre
parole, secondo la Corte, la legge interna in contrasto con la norma comunitaria non è
inapplicabile perché costituzionalmente illegittima ma per l’esistenza di una sorta di
“riserva di campo” garantita alla fonte comunitaria dall’art. 11 Cost., cioè di uno spazio
proprio assicurato alle norme comunitarie (solo a quelle dotate di efficacia diretta
naturalmente, cioè Trattati, regolamenti e alcune direttive), nel cui ambito la legge non può
entrare (Gaja). La Corte costituzionale è in tal modo pervenuta alle medesime conclusioni
del supremo giudice comunitario, senza tuttavia sposare la sua concezione “monista”
secondo la quale il diritto interno e quello comunitario sono integrati in un unico
ordinamento giuridico. Secondo la Corte costituzionale, invero, non può parlarsi di
supremazia dell’uno o dell’altro ordinamento, trattandosi di ordinamenti “autonomi e
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distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal
Trattato”. Più precisamente, così si è espressa la Corte: “Il regolamento…è reso efficace in
quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le
confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni. Diversamente accadrebbe, se
l'ordinamento della Comunità e quello dello Stato - ed i rispettivi processi di produzione
normativa - fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, tuttavia, essi, per quanto
coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. Proprio in ragione, dunque, della
distinzione fra i due ordinamenti, la prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va
intesa come si è con la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge
interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale è interamente attratta
sotto il diritto comunitario. La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della
fonte statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con
una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. Fuori
dall'ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così
configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia; e
d'altronde, è appena il caso di aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l'atto del
legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità”.
Un breve cenno merita infine la sentenza Fratelli Costanzo del 22 giugno 1989 (C103/88, in Raccolta, 1989, p. 1839), con cui la Corte di giustizia ha affermato che l’obbligo
di disapplicare le norme interne incompatibili con le norme comunitarie produttive di effetti
diretti incombe non solo sulle autorità giurisdizionali ma anche su quelle amministrative.
Secondo la Corte, invero, sarebbe “contraddittorio statuire che i singoli possano invocare
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dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva…e al contempo ritenere che
l’amministrazione non sia tenuta ad applicare le disposizioni della direttiva disapplicando
le norme nazionali ad essa non conformi”. Detto orientamento è stato ribadito dalla Corte
costituzionale con la sentenza 11 luglio 1989, n. 389.
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