Comments
Description
Transcript
Diapositiva 1 - Renato Pilutti
Uno sguardo sui principali autori e sulle dottrine filosofiche, teologiche e scientifiche dal IV al XVI secolo …heri dicebamus I Nello scorso Anno Accademico abbiamo insieme percorso un itinerario difficile e nello stesso tempo entusiasmante: abbiamo esplorato gli antichi Miti e accolto il lento protendersi della Ragione filosofica da quei Miti e Racconti. Abbiamo ammirato l’acume scientifico dei primi sapienti che si facevano le domande fondamentali sull’uomo e sul mondo, e -come cuore del corso- abbiamo trattato i grandi filosofi greci, che si sono posti i quesiti fondamentali sulla Natura e sull’Uomo, sull’Essere, sul Bene, sul Vero, i famosi concetti trascendentali … …heri dicebamus II Abbiamo insieme attraversato il lungo cammino della grande Filosofia antica del nostro Occidente, incontrando figure gigantesche come quelle di Eraclito, Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro … … avvicinandoci progressivamente al punto di cesura decisivo tra un prima e un poi, alla nascita di Gesù di Nazaret, detto il Cristo, che divide il tempo e la storia. Abbiamo un poco sorvolato i primi quattro secoli, ma ecco che ora ci viene incontro un gigante, sant’Agostino (d’Ippona o da Tagaste), che però noi qui -in sede filosofica- chiameremo semplicemente Agostino. Agostino: biografia I (354-430) Aurelio Agostino nasce a Tagaste (una città dell’attuale Algeria non distante dal confine tunisino). Studia a Tagaste, Madaura e Cartagine. A diciannove anni è riconosciuto eccellente retore, iniziando a fare il “professore” di grammatica e retorica latine. Conosce una donna a Cartagine (Floria Emilia, come suggerisce Jostein Gaarder in Vita brevis?) e con lei ha un figlio, Adeodato (dato da Dio). Parte per l’Italia e va a Roma nel 383 e poi a Milano, dove si compie il grande cambiamento, dopo l’incontro con il vescovo Ambrogio. A Cassiciaco fonda il primo gruppo di studio e meditazione sulla Scrittura con un gruppo di amici, tra i quali il suo biografo Possidio. Agostino: biografia II Nel 387 torna in Africa, dopo la morte della madre Monica. A Tagaste fonda un cenobio per studiare le Scritture, si trasferisce per un breve periodo a Cartagine e poi ad Ippona, dove è ordinato sacerdote. Nel 395 è nominato vescovo di quella città, l’attuale Hannàba in Algeria. Muore durante l’assedio di Ippona da parte dei Vandali di Genserico. La considerazione e l’importanza di Agostino sarà immensa fino a oggi, sia in ambito cristiano sia extra. Agostino: formazione A diciannove anni Agostino è già considerato vir eloquentissimus atque doctissimus, in realtà essendo un ottimo retore e grammatico latino. Uomo vivacissimo e inquieto conosce un cambiamento quando incontra la filosofia ciceroniana dell’Ortensio, opera perduta, che lo avvicina al pensiero greco-latino. Lo colpisce come un dardo che dà una ferita inguaribile il problema del male, cui dedicherà molti sforzi di riflessione teologica e filosofica. Il male come dimensione generale della vita umana: metafisica, fisica e morale. Agostino: manicheo! Il tema del male gli fa credere alla veridicità della dottrina del sacerdote orientale Mani, che riteneva vi fossero due principi originari: quello del Bene e quello del Male perennemente in lotta. Agostino approfondisce il tema acquisendo coscienza che il principio stesso del male è nell’uomo, nella sua possibilità di scelta, nella sua libertà. Ecco che Agostino coglie nel primato della spiritualità la chiave fondamentale di lettura dell’essere umano, ereditando la lezione platonica tramite la dottrina di Plotino. Agostino: il dubbio e Dio 1200 anni prima di Cartesio, Agostino indica, dubitando, la dottrina psicologica del soggetto, dell’uomo che fonda la sua stessa ragion d’essere sul dubbio, sulla riflessione intorno alla verità. Il coglimento della verità, così come in Platone (con la reminiscenza) e Plotino (con l’illuminazione), dà ad Agostino la certezza che la verità si fondi sulla sua eternità trascendente, illuminata dal Verbo stesso di Dio, ratio superior: “(…) noli de te exire, in teipsum redi, quia in interiore homine habitat veritas (…)”. Agostino: filosofia e religione L’illuminazione divina è per Agostino l’inizio di ogni sapienza: tutto deriva da Dio, soprattutto la verità, che si può manifestare, sia nella sua veste religiosa della fede, sia nella sua veste intellettiva della ragione. Con uno dei suoi aforismi, che spesso si configurano come ossimori, Agostino afferma che il cristianesimo è la vera filosofia: con ciò egli non intende dire che il cristiano debba rinunziare alla riflessione razionale, ma che questa è illuminata dalla fede nelle cose celesti che riguardano Dio e che sono state rivelate all’uomo dalla Scrittura e dalla Persona di Gesù Cristo. Agostino: la sapienza vera San Bonaventura da Bagnoregio avrebbe intitolato 900 anni dopo Agostino la sua opera maggiore: Itinerarium mentis in Deum, Itinerario della mente verso Dio: è la posizione agostiniana. Tutte le discipline della scienza umana, per Agostino, debbono essere al servizio della ricerca di Dio, che nella sua essenza resta inaccessibile, ma a cui ci si può avvicinare se gli occhi della ragione si alleano alla visione di fede. Nulla del mondo sfugge alla scienza divina e pertanto, trattando della scienza divina, si possono conoscere anche le cose del mondo. Agostino: Dio-Trinità Ma Dio, che “è colui che è” (ejeh asher ejeh, Esodo 3, 14), e anche l’ipsum esse subsistens, cioè l’essere stesso sussistente, vere esse enim semper eodem modo esse, il vero essere che è sempre nello stesso modo, impassibile ed immobile, ma che nel contempo contiene la dinamicità che è propria dell’anima umana, unica sua analogia accessibile all’uomo stesso. L’anima, infatti, agisce sia come memoria, sia come intelligenza, sia come volontà, e pertanto Dio stesso può essere detto nella sua unica natura come mens, notitia et amor, Padre Figlio e Spirito. Deus, per Agostino, non è solo il Padre, ma la Natura stessa di Dio vivente nelle tre Persone: e in questo il nostro grande padre latino si differenzia da molta teologia greco-alessandrina (Cirillo, in parte Origene stesso, Eutiche, etc.). Agostino: la creazione, il tempo e l’anima I Per Agostino Dio è l’essere, l’intelligenza e la volontà per sé sussistenti, uno e unitrino, atto d’essere atemporale. La creazione è invece vestigium Dei, libero atto d’amore creativo. Ciò che è nel e del mondo deriva il suo essere e il suo esistere dalla libera volontà creatrice di Dio; tutto ciò che esiste o che può esistere secondo una ratio seminalis di Dio stesso, da lui deriva e ha l’essere. Ogni essere creato da Dio è limitato e finito: dall’Infinito e dall’Incondizionato di Dio deriva il finito e il condizionato delle creature, tra le quali l’uomo. Agostino: la creazione, il tempo e l’anima II Il tempo stesso è con-creato con le creature che stanno dentro al tempo (forse qui non siamo tanto distanti da alcune teorie astrofisiche contemporanee), e quindi il tempo ha un inizio e una fine, ma il tempo esiste solo in quanto presente, poiché il passato e il futuro non esistono più o non esistono ancora: pertanto, per Agostino si può dire che solo alla mente esiste un presente del passato come memoria e un presente del futuro come attesa e speranza. È l’anima che percepisce il tempo come durata, comprendendo confusamente che questa durata è dentro l’atemporalità dell’eterno, cioè di Dio. Agostino: il male e la libertà Per Agostino il male esiste, ma il male non ha l’essere, essendo l’essere solo di Dio, perché il male è una mancanza, una privazione (defectio boni, mancanza di bene) e l’uomo lo può declinare in tre modi: - male metafisico: defectio boni, cioè non-essere. - male fisico: cui l’uomo si deve adattare cercando i rimedi della ragione naturale, - male morale: esso deriva dall’esercizio del libero arbitrio che però per Agostino è limitato, e vedremo più avanti questo difficile tema. Agostino: la grazia e la libertà nell’uomo I L’occasione per trattare il tema in tutta la sua profondità per Agostino è la cosiddetta “polemica antipelagiana”, dal nome di un monaco irlandese che aveva una visione antropologica e teologica molto diversa dal maestro numida. Pelagio riteneva che l’uomo stesso con le sue opere avrebbe deciso della propria salvezza, mentre Agostino era più propenso alla centralità della Grazia divina, che ogni anima credente deve umilmente chiedere a Dio per la propria salvezza. Il rapporto tra grazia e opere risale a san Paolo (Lettera ai Romani) di cui Agostino era attento interprete: il tema è quello della debolezza umana e dell’umiltà che Agostino predica come virtù somma, e quindi dell’affidamento a Dio. Agostino: la grazia e la libertà nell’uomo II Grazia e Libertà sono i temi che resteranno nella discussione teologico-morale fino a Lutero e ai nostri giorni. Agostino, fondamentalmente pessimista sulla natura umana, ritiene che solo la fede nell’imperscrutabile e libera volontà di Dio possa trovarsi la salvezza, non data (o non solo) per atto di giustizia e riparazione, ma gratia gratis data, per infinità bontà del Creatore stesso. Per Agostino, solo il sacrificio sulla croce di Gesù Cristo ha potuto dare soddisfazione all’infinita offesa inferta a Dio dall’uomo che gli ha preferito nel tempo i beni finiti piuttosto che Lui stesso. L’unico sacrificio di espiazione e soddisfazione degno dell’infinità divina. Agostino: le “due città” e la storia Nella vita dell’uomo, nella storia umana vi è una continua tensione, fra la “città dell’uomo” (civitas terrena) che egli ha costruito nella storia (civiltà, regni, battaglie, conquiste, sconfitte, etc.) e la “città di Dio” (Civitas Dei), preparata per l’uomo, ma che attende dall’uomo una sua disposizione spirituale ad accedervi. Nella grande opera omonima Agostino traccia una specie di teologia della storia o teodicea, per rappresentare la possibilità che nella Chiesa universale di Cristo, cioè nella “chiamata di tutti i popoli e genti di ogni tempo e luogo” si possa realizzare alla fine la ricongiunzione e la riconciliazione tra “le due città” (mundus reconciliatus), nella vita eterna. L’eredità di Agostino Non è facile dire qui quale e quanta sia l’eredità di Agostino nel tempo, e nel nostro tempo in particolare. Se lo si considera come pensatore cristiano, si tratta indubbiamente del più grande Padre latino della Chiesa; se lo si considera come filosofo, si tratta forse del maggior pensatore neo-platonico, ma caratterizzato da una personalità così autonoma e particolare che la dizione “pensatore neo-platonico” sembra molto riduttiva. Se infine lo si considera come “pensatore” tout court, si tratta della figura iniziale e forse più importante della cultura occidentale ai suoi primordi, e dell’autore di una sintesi insuperata tra cultura greco-latina e cultura biblica, fonti immortali per tutti e per ciascuno di noi. La sua eredità odierna, peraltro ripresa in molti autori contemporanei e nella ricerca antropologica (Husserl, Jung, etc.), nonché dal papa Benedetto XVI, è fortemente attuale e meritevole di grande attenzione, per la perspicacia profondissima delle sue riflessioni sulla struttura naturale (psicologia) dell’uomo e sul suo rapporto con la trascendenza. Agostino: le opere principali e alcuni studi Opere di Sant’Agostino: De Civitate Dei, De Trinitate, Confessiones, De Doctrina Christiana, De libero arbitrio, Soliloquia, Commentarium ad Johannem, Expositio super Psalmos, De immortalitate animae, Litteras, Contra accademicos, etc. edizione latino-italiana, diretta da A. Trapè, cura di vari, ed. Città Nuova, Roma 1965 e sgg., e sul web in www.augustinus.it Opere politiche, ne Il pensiero politico cristiano, vol II, a cura di G. Barbero, Utet, Torino 1965 La vita di sant’Agostino, scritta da Possidio, trad. it. A cura di M. Pellegrino, “Verba seniorum”, 4, Alba 1955 M. Pellegrino, Le “Confessioni” di Sant’Agostino, Studium, Roma 1956 A. Pincherle, Sant’Agostino, Laterza, Bari 1939 H. Marrou, Sant’Agostino, Mondadori, Milano 1965 P. Brown, Agostino, Einaudi, Torino 1971 Proclo I (412-485) L’impero romano d’Occidente, con la morte di Agostino si avviava al declino. In Oriente brillava ancora la luce della filosofia neo-platonica, di cui Proclo fu sommo esponente. Nato a Costantinopoli, studio ad Alessandria e ad Atene con insigni maestri della tradizione platonica così come la portarono avanti Plotino e Porfirio, Olimpiodoro, Plutarco e Siriano. Da Plotino, Proclo prese alcuni principi fondamentali: - la provenienza di tutti gli esseri dall’Uno, Proclo II - l’Uno è oltre l’essere delle cose, - L’Uno è oltre il tutto, oltre ogni distinzione di generi e specie, - L’Uno è inconoscibile e ineffabile, - dell’Uno non può dirsi e predicarsi alcunché, poiché ogni predicazione porta limitazione … Dell’Uno, quindi, si può dire solo mediante negazioni: l’Uno non è … non è … non è, applicando una teoria riflessiva del silenzio, detta apofatica. Proclo III Dall’Uno tutto procede in modo triadico, perché l’Uno permane in sé, pur generando ciò che appare all’essere, il molteplice fuori di sé, ma che deve ritornare all’Uno per i suoi limiti. La processione avviene secondo una certa scalarità per cui ogni essere deriva dal superiore e produce l’inferiore in un rapporto di causalità e partecipazione (sembra il contrario dell’evoluzione darwiniana!), ma il tutto è per poi essere ricongiunto all’Uno, in un sommo atto di intuizione estatica, che supera ogni discorso (diànoia) e ogni intellezione umana (nòesis). La chiusura delle scuole filosofiche Nel 529 l’imperatore Giustiniano ordinò la chiusura di tutte le scuole filosofiche di Atene. Per l’impero esse sostenevano dottrine incompatibili con quella cristiana, che era diventata, con Teodosio I, religio principis et imperii. In ogni caso la tradizione filosofica classica, soprattutto quella platonica, sopravvisse e si innestò comunque nel filone filosofico-religioso cristiano. Un’opera fondamentale di quest temperie fu la raccolta denominata corpus dyonisianum, di autore ignoto, ma solitamente attribuita a un Dionigi l’Areopagita. Il corpus dionysianum È composto da quattro trattati di enorme importanza teologico-filosofica: De coelesti hierarchia, De ecclesiatica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia. L’ispirazione di questi testi è senz’altro platonicoplotiniana, ponendo il tema dell’Uno come fonte di ogni essere, di cui si può dire solo negando ogni possibilità di definizione, essendo possibile solo l’illuminazione della manifestazione dell’Uno (teofania) che esprime il molteplice delle cose del mondo e dell’uomo stesso. Da sant’Agostino a Boezio In Occidente la teologia e la filosofia agostiniana si diffondono sempre di più e vengono raccolte nel VI secolo in particolare da Severino Boezio. Amico e consigliere di re Teodorico, cadde in disgrazia per un supposto accordo con il basileus di Costantinopoli e fu imprigionato. In carcere scrisse la grande opera De consolatione philosophiae, che segna l’inizio della riflessione filosofica alto-medievale. Boezio si occupò anche dei testi aristotelici traducendo l’Organon, cioè le Categorie, il De interpretatione, gli Analitici primi e secondi e i Topici. Spiegare la Logica e la Metafisica platonico-aristotelica furono la sua missione filosofica più ambiziosa, che gli riuscì solo in parte. Severino Boezio (480-526) Nel De consolatione philosophiae Boezio invita alla contemplazione di Dio in questa vita nel mondo, che è come un inserto nell’eternità (interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio). Straordinaria e insuperabile è la sua definizione antropologica dell’uomo: “persona est rationalis naturae individua substantia”, la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale. Dalla rinascita carolingia al XII sec. A volte si sente parlare di “secoli bui” con riferimento a quel periodo che gli storici, nell’arbitraria classificazione a posteriori, chiamano “Medioevo”. Vi è da chiedersi “Medioevo” rispetto a chi, a cosa? Certamente rispetto agli studiosi degli ultimi duecento anni, che si sentono in grado quasi di dominare il passato … e alcuni aggiungono “secoli bui”. Ma “bui” perché? Se il Medioevo ha avuto pensatori come Boezio, come Abelardo, come Anselmo, come Tommaso, come Bonaventura? I secoli VII-XII Forse si possono individuare due linee di pensiero nella christianitas medievale, quella degli “agostinisti” intrisi di pessimismo antropologico, come Pier Damiani e san Bernardo, e altri pensatori più fiduciosi nella ragione umana e nella possibilità autoredentiva dell’uomo, come Abelardo, i Vittorini e i filosofi della scuola di Chartres. In questi secoli, comunque, il minimo comun denominatore è quello teologico, per cui la filosofia occidentale è del tutto assorbita nella riflessione teologica, come stiamo constatando. Giovanni Scoto Eriugena (810-877) Dotto e pensatore ardito del IX secolo, agostiniano nella struttura del pensiero, Giovanni Scoto Eriugena non fu considerato molto ortodosso dalla Chiesa, perché considerava la ragione come ausilio indispensabile della fede: fede e ragione non potevano essere disgiunte nella vita spirituale dell’uomo. Egli sosteneva che “senza la ragione la fede è lenta, ma senza la fede la ragione è vuota”. Ben si capisce come ci si stia muovendo verso altri lidi intellettuali, che troveranno un paio di secoli dopo emuli straordinari come Anselmo d’Aosta e Abelardo, sia pure su fronti diversi. Per Giovanni Scoto Eriugena ”Dio è creatura increata creante e il mondo naturale è natura creata creante“ (evoluzionismo in nuce). Il problema degli universali La domanda derivava dalla tradizione aristotelica così come l’aveva trasmessa Porfirio (nell’Isagoge): le idee universali che abbiamo delle cose corrispondono alle cose stesse come concrete e reali? Il dibattito fu accanito tra tesi estreme: tra il realismo (cf. Gerberto d’Aurillac) che sosteneva come le idee universali fossero realtà in sé, e il nominalismo (cf. Roscellino di Compiegne, aristotelico, maestro di Abelardo) che sosteneva l’opposto, che cioè le idee sono solo i nomi che diamo alle cose. Berengario di Tours propose invece la tesi intermedia della dialettica tra i nomi/idee e le cose stesse. Intanto nella Chiesa reagivano personaggi come Pier Damiani che trovava inaccettabile inquadrare le realtà del mondo in concetti logici che pretendessero di comprendere l’infinità di Dio-Creatore. La “Scuola di Chartres” Il XII secolo vide uno straordinario risveglio spirituale, scambi tra mondi diversi (anche per le Crociate); fu allora che fiorirono diverse scuole teologico-filosofiche, come quella di Chartres. Alcuni nomi: Adelardo di Bath, che conobbe Euclide tramite gli arabi; Bernardo e Thierry di Chartres, Gilberto Porrettano, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla … Questi autori sostenevano che la scienza nutrita dalla ragione non è che la spiegazione con linguaggio umano del linguaggio divino, che altrimenti resterebbe incomprensibile all’uomo. Pietro Abelardo (1079-1142) Troppo nota è la sua storia dolorosa e intensa con Eloisa, perché ivi ci soffermiamo. Qui parliamo della sottolineatura potente della ragione, che Abelardo, forse con forza maggiore di altri, sostenne al prezzo di scontri ed esili. Per Abelardo la logica della ragione era precisazione di termini, liberazione da oscurità incomprensibili, chiarezza. … ma diceva: “Io non voglio essere filosofo contraddicendo san Paolo; né voglio esser un Aristotele per separami da Cristo”. San Bernardo di Chiaravalle (1091-1159) Fu l’avversario per eccellenza di Abelardo. Ma Bernardo faceva parte di un contesto monastico che si opponeva a quella che veniva ritenuta un’eccessiva sottolineatura della ragione a scapito della fede in Dio. In un certo senso troviamo su fronti opposti Reims, Laon, Parigi e Chartres, da un lato e Citeux, Clairvaux e Signy dall’altro, le città mercantili e universitarie vs. i monasteri benedettini nelle varie congregazioni nascenti (Cistercensi, etc.). Per Bernardo in Abelardo c’è l’usurpazione totale del ruolo della fede da parte della ragione, poiché l’uomo non può “levarsi superbamente faccia a faccia con Dio in un’intuizione solamente intellettuale”… I “Vittorini” Se san Bernardo tendeva a privilegiare la fede per amore di Dio sul sapere razionale, come in un perenne moto dialettico, nell’Abbazia parigina di San Vittore, si cercò di conciliare fede e ragione. I due maggiori rappresentanti di tale tendenza furono Ugo, sassone e Riccardo, scozzese. Da loro pervenne la sintesi che meglio rappresenta la collaborazione e quasi la fusione di ragione e fede, di mente e cuore, il progresso spirituale rappresentato dai tre momenti: cogitatio, meditatio, contemplatio, cioè i gradi che innalzano le creature al Creatore. Riccardo addirittura parla di: dilatatio mentis, sublevatio mentis e infine di alienatio mentis. Anselmo d’Aosta I (1033-1109) Nato a Pavia, Anselmo fu monaco a Bec in Normandia, e poi consacrato vescovo di Canterbury; non ebbe vita facile con i potenti del tempo (re Guglielmo II). Scrisse alcune opere che furono fondamentali per la ricerca filosofica e teologica successiva: Monologion, Proslogion, De Veritate, De libertate arbitrii, Cur Deus homo, etc.. Il suo attributo di “padre della Scolastica” deriva dal fatto che per primo concepì la possibilità di una teologia come scienza. Anselmo d’Aosta II Fides quaerens intellectum, era il suo motto, cioè un atteggiamento di apertura alla potenzialità conoscitiva della ragione, ma illuminata dalla fede: non solo ratio e non solo auctoritas, dunque. Vi è per Anselmo una ratio fidei, cioè una possibilità di sviluppare la conoscenza tramite l’affidamento alla fede, che non riduce la ragione, bensì la rinforza. Ciò è possibile perché la ragione umana stessa è parte, se pure sbiadita e indebolita, della Ragione divina, che governa tutte le cose. È la debolezza della ragione umana che dice perché essa stessa debba operare indefinitamente senza la pretesa di comprendere totalmente quella divina. Ragione e fede sono dunque per Anselmo due momenti di un unico processo conoscitivo, che cresce in funzione dell’armonia che l’anima umana riesce e dar loro. Anselmo d’Aosta III Anselmo si impegnò a riflettere sull’esistenza di Dio in modo originale, sia rispetto ai predecessori, sia rispetto ai pensatori successivi, come san Tommaso d’Aquino. Se vi sono, dice Anselmo, cose buone che conosciamo, non vi può essere che un Summum Bonum che tutte le ricomprende e riassume, come Bene in sé. Summe Bonum è anche Summe Magnum, e infine Esse Summum Omnium. Questo Essere è dunque Id quo magis cogitari nequit, Ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, l’Essere Assoluto, cioè Dio stesso. Anselmo d’Aosta IV La cosiddetta “prova ontologica” dell’esistenza di Dio suscitò non poche perplessità successive. Sostenitori della prova ontologica anselmiana nella storia della filosofia furono san Bonaventura, Leibniz e Hegel: per costoro l’esse in mente coincide con l’esse in re. La realtà corrisponde alla razionalità. Altri, da Gaunilone di Tours (monaco benedettino), a san Tommaso d’Aquino a Kant, tale ragionemotivazione non si reggeva sul piano razionale, perché non sarebbe possibile un passaggio dall’ordine logico all’ordine ontologico, così tout court. Il XIII secolo Secolo fondamentale, è il periodo di Tommaso e Bonaventura, il secolo della grande filosofia e teologia “scolastica”. La grande novità culturale è costituita dalla scoperta dell’opera integrale di Aristotele, di fisica, metafisica, politica e morale. Fonti importanti della riscoperta aristotelica furono gli arabi Avicenna e Averroè. … ma fu Tommaso d’Aquino a tentare di utilizzare la ragione aristotelica nella teologia e filosofia cristiane. I due ordini mendicanti fondati al tempo, rispettivamente da Francesco d’Assisi e Domenico Guzman, i francescani e i domenicani si riferirono alla tradizione agostiniana, più platonica, e a quella aristotelica, mediante Tommaso. Le filosofie araba ed ebraica Le relazioni tra la filosofia araba e quella cristiana sono indubbie: infatti furono i cristiani di Siria (cf. Scuola di sant’Efrem il Siro di Nisibis di Edessa) a tradurre in arabo le opere di Aristotele e degli altri antichi filosofi (Platone). Non a caso l’imperatore Zenone la chiuse per il suo “nestorianesimo” (visione teologica che considerava solo la natura umana di Gesù Cristo). Le tendenze filosofiche arabe, in qualche modo influenzate, oltreché dalle dottrine islamiche, dalle opere della classicità filosofica greco-antica si possono dividere in orientali e occidentali. Alfarabi (sufita) e Avicenna Alfarabi di Bagdad (950 ca) era un platonico-aristotelico classico, accettando egli dai due grandi greci anche la divisione dei saperi, a partire dalla teologia o metafisica, secondo la quale Dio stesso muove tutto (primo motore non mobile). L’intelletto umano, invece, procede da Dio stesso per illuminazione. Avicenna (Ibn Sina, 980-1037) fu il massimo filosofo musulmano orientale. Persiano di nascita scrisse la sua opera maggiore in arabo (Sufficientiae, cioè aš-Šifa), nella quale comprese logica, fisica, matematica, scienze naturali, psicologia e metafisica. Avicenna I Avicenna divise i temi in: logica, propedeutica alla filosofia, filosofia speculativa (fisica, matematica e teologia) e filosofia pratica (etica, economia e politica), e la teologia in prima (quella di derivazione greca) e seconda (di derivazione islamica). La sua gnoseologia è aristotelica, ma anche platonica (e potremmo dire quasi agostiniana e pre-cartesiana), perché ammette la possibilità della coscienza di sé anche prescindendo dall’esperienza. Per lui tutti gli esseri sono necessari anche se, in sé, contingenti: io nasco per decisone altrui, e quindi sono necessitato a nascere, ma poi muoio, e dunque la mia è una struttura ontologica contingente. Avicenna II La serie delle cause non è però infinita, cosicché si deve giungere ad una causa-incausata, a un essere necessario e non contingente. In questa prospettiva Avicenna è aristotelico, attribuendo solo all’essere necessario l’essenza in sé e per sé, e all’essere contingente l’essenza per analogia. Egli segue Aristotele anche nella teoria della potenza e dell’atto, come principio di mutamento in altro in quanto altro, distinguendo tra potenza attiva (agente) e passiva nel paziente: ciò si manifesta dalla potenza pura, materia prima fino all’atto puro, l’essere necessario. Avicenna III Solo Dio è l’Essere necessario, che crea incessantemente, Egli è il Bene assoluto, agente dall’eternità mediante una Intelligenza prima, che possiede essenza ed esistenza, e altre dieci Intelligenze in grado di colmare tutte le gradazioni dell’essere che le separa dall’Uno, da Dio stesso. La Decima Intelligenza è quella che dà la forma corporeitatis a tutti gli esseri che esistono come emanazioni, a partire dall’intelletto umano. Algazali I (1058-1111) Algazali fu un pensatore, potremmo dire, ortodosso dell’Islam, poiché si oppose sia ad Alfarabi sia ad Avicenna. Era soprattutto un teologo, e quindi legato a una visione del mondo e del rapporto con Dio di tipo fideistico. La sua Destructio philosophorum provocò più tardi la reazione di Averroè con la Destructio destructionis philosophorum. Per Algazali il mondo è stato creato da Dio dal nulla, per cui il succedersi degli eventi è dovuto solamente all’onnipotenza di Dio stesso. Algazali II Filosofo (suo malgrado in qualche modo), teologo e sufi, fu uno scrittore mistico e spirituale. Da Bagdad, dove studiava e insegnava, si portò in Siria per condurre una vita ascetica e contemplativa, condividendola a volte con dei discepoli. Il suo ritiro e scuola sufistica fu a Tus, e la sua ricerca fu essenzialmente mistica: potremmo pensarlo come un emulo dei Padri del deserto della tradizione cristiana dei primi quattro secoli dopo Cristo. Averroè I (1126-1196) Averroè o Ibn Rušd, studiò a Cordoba teologia, giurisprudenza, medicina, matematica e filosofia. Dedicò la sua vita di studio a commentare essenzialmente i testi aristotelici, dividendoli in tre parti: a) i commentari minori, dove le sue tesi si mescolano a quelle del maestro di Stagira, b) i commentari maggiori dove si distingue meglio il suo pensiero, c) i piccoli commenti, destinati ad allievi e studenti. Averroè II Per Averroè Dio estrae le forme delle cose materiali dalla potenza della materia pura, e quindi propone una creazione, una generazione di ogni cosa determinata. Circa l’anima spirituale, o intelletto agente, Averroè non ammette la sopravvivenza individuale al corpo, ma il ricongiungimento all’Intelletto agente universale, tesi questa combattuta da Tommaso d’Aquino. Il più importante contributo di Averroè lo troviamo probabilmente nel suo studio del rapporto tra teologia e filosofia. Averroè III Egli teorizzò una sorta di “doppia verità” delle cose, che la filosofia e la teologia comprendono diversamente: a) la filosofia con il suo metodico procedere logico e scientifico, b) la teologia con la metafore e il sapere allegorico. Non vi è una gerarchia tra i due saperi, ma una integrazione che permette all’intelletto umano una più completa conoscenza delle opere dell’intelligenza divina: mentre il Corano si esprime per essere compreso dall’uomo comune, il testo filosofico va oltre l’allegoria cogliendo la verità intelligibile. La Kabbala e la filosofia ebraica La filosofia ebraica può essere fatta iniziare da Filone Alessandrino (ca 25 a.C. - ca 40 d.C.), che cercò di conciliare la tradizione giudaica con la filosofia greca, specialmente di tradizione platonica. La qabbālāh, cioè la “tradizione” propose la teoria emanazionista di stampo neoplatonico, con un inizio risalente al X secolo e uno sviluppo fino al XIV, soprattutto per merito del filosofo giudeo-spagnolo chiamato Avicebron (testi kabbalistici: lo Jezirah, la Creazione, e lo Zohar, lo Splendore). Avicebron (Salomon Ibn Gabirol) I (1021-1070) La sua opera principale Fons vitae, fu scritta in arabo, e perciò fu ritenuto al suo tempo arabo. La sua impostazione filosofica è senz’altro neoplatonica, concependo l’esistenza di tutti gli esseri come “emanazioni divine”, per cui l’unica possibilità di accedere alla nozione di Dio è la via dell’intuizione estatica. Dio, per Avicebron, crea attraverso l’Anima del mondo che procede da lui, ed è materia e forma della creazione. Avicebron (Salomon Ibn Gabirol) II Avicebron sostenne la “natura ilemorfica” delle creature (composizione di materia e forma), e quindi il loro limite, rispetto alla semplicità e unitarietà ontologica di Dio. Questa natura, però, è graduata nelle varie forme dell’essere: ad esempio la forma corporeitatis dell’uomo comprende, sia la vita vegetativa (in comune con il mondo vegetale) sia la vita sensitiva (in comune con la vita animale), sia vita intellettiva (tipica dell’uomo). Bonaventura da Bagnoregio riprese alcuni suoi temi. Mosè Maimonide I (1135-1204) Nel suo trattato forse più importante, La guida dei perplessi, di impostazione aristotelica, egli cerca di dare alla teologia una base razionale filosofica. Ciò che nella Bibbia si mostra in contrasto con le acquisizioni della ragione e della scienza, deve essere interpretato in maniera allegorica, ma nella concezione di “Dio” Maimonide si avvicina a Platone, concependo la Divinità come “onnipotenza” assoluta e quindi in grado di creare dal nulla. Mosè Maimonide II Maimonide ebbe non pochi problemi dai suoi correligionari, che lo ritenevano troppo razionalista, ma la sua ricerca procedette, in parte ispirata dagli scritti di Alfarabi e Avicenna, anticipò alcune determinazioni teoriche di Tommaso d’Aquino, come sul tema delle prove dell’esistenza di Dio, anche se scegliendo prevalentemente affermazioni “negative”, cioè “Dio non è …, non è …, non è …, non è …, per cui, non essendo ciò che l’intelligenza umana può dire, supera infinitamente ogni concetto dicibile”. Filosofia araba e aristotelica in Occidente Nel XII e XIII molti centri culturali cristiani, ebraici e arabi presenti sul territorio europeo, dalla Spagna all’Italia favorirono il lavoro di capaci e tenaci traduttori per la traduzione in latino -anche attraverso un passaggio nelle nascenti lingue “volgari”- delle opere dei filosofi arabi di cui abbiamo parlato, e delle opere di Aristotele. Centri come Toledo, Padova, Oxford o la Palermo di Federico II di Svevia, operarono alacremente sui testi antichi di origine siriaca, araba e greca. La reazione ecclesiastica Anche se molti lavori di traduzione avvenivano in ambienti ecclesiastici, la prevalenza delle dottrine aristoteliche (ad es. la Fisica aristotelica vs. il Timeo platonico) non mancò di preoccupare gli ambienti ufficiali della Chiesa cattolica nelle sue varie articolazioni, reagisce, con divieti e proibizioni delle dottrine aristoteliche, ritenute troppo razionaliste. Pensatori come Avicenna, Averroè, e al-Gazzālī, dal 1223 al 1263, furono messi all’indice dai papi Gregorio IX, Innocenzo IV e Urbano IV. Ma ciò non sortì grandi effetti, perché stava per iniziare la stagione della grande “scolastica” con Tommaso d’Aquino, che già stava studiando e producendo testi fondamentali per la teologia e la filosofia del tempo, e oltre. Origine e strutture delle università dell’Occidente medievale I Il lungo lavoro di ripresa e assorbimento della grande filosofia greco-araba creò le condizioni per la fondazione di Studia e di Universitates studiorum atti a sviluppare liberamente gli studi nuovi, mediante forme di associazionismo libero e diverso dalla tradizione monastica e abbaziale. Centri come Bologna, Parigi, Oxford, Colonia diventano luoghi di irradiazione formidabile delle idee e degli autori più controversi, soprattutto della tradizione aristotelica. Origine e strutture delle università dell’Occidente medievale II Accanto agli studi teologici e filosofici si sviluppa la Facultas artium, nella quale si organizzano liberamente i corsi di medicina e diritto, secondo i propri iura et libertates e senza condizionamenti ecclesiastici (cf. scuola di medicina di Salerno). Tra i grandi centri universitari si devono annoverare fin dalle origini Parigi, Bologna, Padova, Tolosa, Oxford, Colonia. Si iniziò, da Parigi a Oxford a Bologna a comporre la possibilità di studiare ancora i Padri (Agostino in primis), insieme con le nuove dottrine provenienti dalla tradizione greco-araba, anche se nel XIII sec. si realizzò il progressivo distacco della filosofia dalla teologia. Filosofia e Teologia nel XIII secolo I Il fondo platonico-agostiniano di questi saperi permase dai tempi dei Padri fino al XIII secolo. Il tema era quello tra fede e intelletto: l’intelletto, creato da Dio, non può che essere, secondo questa impostazione teoretica, il mezzo che permette alla verità, e alla verità della fede, di estrinsecarsi. Intelletto e fede sono perciò strettamente connessi, perché il primo è illuminato dalla fede e questa è aiutata dall’intelletto. La novità è dunque costituita da una sorta di affrancamento dell’intelletto dalla fede, con la ripresa scolastica dell’aristotelismo. Filosofia e Teologia nel XIII secolo II La filosofia, fino ad allora quasi sinonimico procedere della dottrina della fede, la teologia, inizia un percorso autonomo, affidato alla pura ragione naturale. Iniziano a quel punto due itinerari, che possiamo così definire: a) prosecuzione della tradizione platonicoagostiniana di una teologia filosofica cristiana, facente capo a Bonaventura da Bagnoregio; b) inizio della scolastica, basata su una forma di aristotelismo cristianizzato ad opera di Tommaso d’Aquino. Francescani e domenicani, gli ordini mendicanti fondati da Francesco d’Assisi (1182-1226) e Domenico Guzman (1170-1221), sono dunque i protagonisti del rinnovamento del pensiero cristiano del XIII secolo. L’agostinismo francescano Prima di Bonaventura, vanno annoverati alcuni maestri insigni come Guglielmo di Auxerre, Guglielmo di Alvernia e Alessandro di Hales. Il compito affidato a costoro dalle autorità ecclesiastiche fu quello di “depurare” in qualche modo le dottrine aristoteliche alla luce della tradizione agostiniana: la principale mediazione riguardò il tema dell’anima spirituale. Costoro accolsero la definizione di anima forma corporis, ma mantennero anche la nozione platonico-agostiniana di un’anima come entità autonoma dal corpo. I concetti di intelletto possibile e di intelletto agente di derivazione aristotelica furono declinati in linguaggio agostiniano come ratio inferior e ratio superior. Bonaventura da Bagnoregio I (1221-1274) Nel pieno dell’ascesa dell’aristotelismo, paladino della ragione naturale, Bonaventura si erse come paladino della nobile tradizione derivante dalla sintesi agostiniana del pensiero platonico, trasmesso negli ultimi otto secoli. Allievo di Alessandro di Hales a Parigi, divenne magister stimato e onorato, al punto da assurgere alla posizione di “padre generale” dell’Ordine francescano. Bonaventura continuò la sua ricerca lungo la traccia delle Confessiones agostiniane e del Proslogion di Anselmo, attendendo a un itinerario della mente verso Dio, affidato primariamente alla preghiera e alla contemplazione del Sommo bene. Bonaventura da Bagnoregio II Itinerarium mentis in Deum è infatti il titolo della sua opera maggiore, con la quale Bonaventura descrive il “viaggio dell’anima” verso Dio unitrino. Dalla contemplazione del mondo, l’anima si ritira in se stessa, e poi procede verso l’alto, cercando l’impronta (vestigium) di Dio e la sua luce trinitaria. L’uomo può accogliere Dio nella propria anima (è la capacitas Dei agostiniana), nelle sue facoltà operative di intelletto e volontà. L’anima infine conosce la luce divina tramite la scientia e la sapientia, che corrispondono alla ratio inferior e alla ratio superior di Agostino. Bonaventura da Bagnoregio III Per Bonaventura la conoscenza certa (certitudinis cognitio) è possibile solo se l’intelletto è illuminato dalla luce divina, con le sue rationes aeternae. La luce del Verbo è la stessa logica umana argomentante. L’argomento dell’esistenza di Dio in Bonaventura è rigorosamente anselmiano,e perciò è indubitabile la sua presenza come creatore e come luce di verità. Alla fine, dunque, la stessa filosofia, che comunque ha un suo procedimento autonomo, altro non è che espressione del Verbo come medium omnium scientiarum, e principium essendi et cognoscendi. I domenicani, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino Mentre i francescani difendevano l’agostinismo spirituale e filosofico, i padri domenicani si proposero di recuperare la filosofia aristotelica entro uno schema che scongiurasse il rischio di un panteismo di stampo neoplatonico. Le due più autorevoli figure di quelle cultura furono Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Il primo fu a Parigi e poi a Colonia, dove fu anche maestro di Tommaso. Alberto e Tommaso dissero sempre che nei temi di fede avrebbero seguito Agostino, ma nelle “cose della fisica” Aristotele sarebbe stato il loro maestro. Roberto Grossatesta (1168-1253) Della scuola di Oxford il francescano Roberto Bighead fu molto importante per i suoi studi di ottica, di astronomia e fisica. La sua intuizione della luce come origine e fonte della materia lo colloca tra i primi che intuirono in qualche modo l’ipotesi di una fondazione dell’universo dalla luce, che si estrinseca secondo leggi matematiche. Per Grossatesta la matematica è la fonte descrittiva della natura, ma va sperimentata nell’ambiente fisico, per poter essere considerata veritativa. Ruggero Bacone (1214-1292) Anche questo studioso, come il suo predecessore oxfordiano diede una grande importanza alla matematica. Ruggero Bacone considera l’ottica matematica come fonte di tutte le possibilità di misurazione della natura (tradizione agostiniana), ma l’esperienza deve confermare tutto ciò che gli assiomi matematici pretendono dimostrare. Il sapere per Bacone salva gli uomini dalla malvagità della menzogna e dell’ignoranza, e quindi collabora alla costruzione della respublica fidelium. Raimondo Lullo I (1232-…) L’impegno di studio e ricerca di Raimondo Lullo è dedito per tutta la vita alla scoperta e all’applicazione di un metodo, o di una “scienza generale applicabile a tutte le conoscenze con dei principi generalissimi in cui è contenuto il principio delle scienze particolari come il particolare nell’universale”. Egli desidera spiegare concetti e temi della conoscenza mediante una simbologia alfanumerica, che riesca ad evitare l’equivocità del discorso logico-argomentativo. Egli chiama questo metodo ars combinatoria, volendo, in definitiva, far coincidere la logica con la metafisica, cioè con il rispecchiamento concettuale preciso del reale stesso. Raimondo Lullo II Egli ritiene che questo metodo sia in grado di dare conto di tutta la realtà, così come è conosciuta e creata da Dio stesso. Per rinforzare il suo metodo Raimondo ricorre esplicitamente alle dottrine anselmiane e agostiniane, e in ultima analisi platoniche, della scala degli esseri, che derivano dal grado superlativo appartenente solo a Dio. In definitiva, Lullo sogna di ricondurre a unità un sapere che l’aristotelismo averroista, a suo parere, stava conducendo verso una dicotomia “pericolosa” tra scienza e fede, tra filosofia e teologia. Sigieri di Brabante I (1240-1284) Maestro “delle arti”, cioè filosofo, autorevole mentore dell’aristotelismo averroista presente a Parigi nel XIII secolo, fu Sigieri di Brabante. Per lui non faceva problema dirsi e operare come “filosofo” poiché tale sapere doveva essere distinto e distante dalla teologia: la sua tesi, spiccatamente averroistica sosteneva che tutto derivasse da Dio come prima causa, causante un’Intelligenza prima, a sua volta causa del molteplice, che si genera e si coorrompe in un eterno e ciclico ritorno. Sigieri di Brabante II In contrasto con Tommaso d’Aquino, Sigieri sostiene la pura realtà della potenza e dell’atto, negando ogni differenziazione tra essenza ed esistenza. Per lui esiste ed è solo la materia come principio di individuazione che è forma sostanziale. Ogni intelligenza separata è unica, questo come in Tommaso, dottrina condannata nel 1277 dal vescovo di Parigi Stefano Tempier. Si distacca dall’averroismo per la dottrina dell’intelletto, che egli ritiene, non solo unico come possibile, ma anche individualizzabile, pur restando distinto dall’anima vegetativa . Solo Dio è intelletto agente, cosicché quello umano può congiungersi ad esso tramite una graduale crescita spirituale. Tommaso d’Aquino (1225-1274) Tommaso, figlio del conte d’Aquino nasce a Roccasecca (Latina) e studia, fattosi domenicano, prima a Napoli e poi a Parigi e a Colonia con Alberto Magno. Diventa magister a Parigi nel 1257, dove torna nel 1269. Nel frattempo sviluppa in Italia molte sue opere usufruendo delle traduzioni delle opere di Aristotele dal greco di frate Guglielmo di Moerbecke, suo amico. Nel 1270 insegna all’università di Napoli: chiamato al secondo Concilio di Lione, muore in viaggio nell’abbazia di Fossanova a 49 anni. Tommaso d’Aquino. Le fonti Il pensiero di Tommaso d’Aquino non è riconducibile a una mera revisione dell’aristotelismo tornato in auge, poiché è molto di più e molto altro: infatti nella sua elaborazione teoretica convergono, non solo le tesi del grande Stagirita, ma anche quelle di Agostino, Gregorio Magno, Boezio, lo pseudo-Dionigi, il liber de causis (Proclo?), Avicenna e altri. In ogni caso l’aristotelismo fu senz’altro la fonte principale dell’elaborazione tommasiana: fisica e metafisica, teologia, logica e teoria della scienza risentirono fortemente di tutti questi afflati. Tommaso d’Aquino. Metafisica: Materia e Forma, Potenza e Atto Il tema principale della metafisica tommasiana, da cui partiamo nella nostra trattazione, è la distinzione radicale tra essenza ed atto d’essere (cioè esistenza). Materia e forma, negli essere molteplici costituiscono la sostanza, o essenza, cui si aggiunge l’atto d’essere o esistenza. Nelle sostanze materiali vi è poi la potenza e l’atto, cioè il poter essere qualcosa e l’esserlo effettivamente (cf. il marmo e la statua compiuta). Tommaso d’Aquino. Metafisica: le Sostanze spirituali Le sostanze spirituali (intelligenze pure o angeli), invece, sono forme pure senza materia, ma non sono atti puri, in sé, poiché anch’esse mostrano la composizione di essenza e atto d’essere, in quanto sostanza. Esse sono infatti create da Dio, che solamente è Atto puro d’essere. L’atto, dunque, prevale anche sulla forma, è l’ipsum esse, è la radice di ogni realtà, esistenzialità purissima, principio formale e sostanziale di ogni cosa e di tutte le cose. Tommaso d’Aquino: l’esistenza di Dio I Per Tommaso la dimostrazione anselmiana dell’esistenza di Dio non è plausibile, poiché non distingue l’esse in intellectu dall’esse in re: egli infatti giudica indebito il passaggio tra il pensare una cosa e l’esistenza di essa come necessaria. Per Tommaso bisogna passare attraverso la considerazione del sensibile, a posteriori, per mostrare anche l’esistenza di Dio. Egli dunque propone cinque “cause” cosmologicometafisiche, correlate e armonicamente strutturate come un percorso. Tommaso d’Aquino: l’esistenza di Dio II La prima via si desume dal moto: ora, siccome tutto ciò che si muove è mosso da una causa, esisterà una causa prima che ha dato origine al moto, poiché non è possibile andare indietro all’infinito: questo primo motore è Dio. La seconda via si desume dalla causa efficiente: anche in questo caso, come nel precedente, vi deve essere una causa prima, che è Dio. La terza via concerne le nozioni di possibile e di necessario: le cose che vediamo possono essere o non essere, cioè contingenti, non avendo in sé la ragione della propria esistenza: un tempo dunque non avevano l’esistenza, e perciò … Tommaso d’Aquino: l’esistenza di Dio III … devono aver avuto una causa necessaria, sempre esistente, indipendente da altre cause (causa sui), e questa causa non può che essere Dio, che è l’essere per sé necessario. La quarta via si desume dai gradi che si riscontrano nelle cose: vi sono il più e il meno, il più e il meno perfetto, il minore e il maggiore dell’essere, del bene, del vero, del bello, e perciò vi è il fondamento di questi valori (trascendentali) che è Dio stesso. La quinta via si desume dal governo delle cose e dalla finalità di ciascuna e di tutte: ogni cosa non può che tendere al suo fine, per cui il “Fine ultimo” consiste in Chi ha dato ordine a tutti i fini, cioè Dio. Tommaso d’Aquino: la Creazione e la Natura. Ragione e Fede Per Tommaso le cinque vie mostrano l’esistenza di Dio, ma anche che Egli è il Creatore del mondo, anche se filosoficamente non si può mostrare né l’eternità né la creazione del mondo. La filosofia, invece, può mostrare che tutte le creature sono nature reali (Aristotele), non “partecipazione di forme eterne” (Platone): esse sono rette dal principio di causalità, in un contesto di mutue relazioni,e costituiscono il contesto della filosofia naturale. Anche se tutte le creature sono sostenute nel loro essere e nel loro operare da Dio, ciascuna di esse è causa prossima, reale e concreta di se stessa: Tommaso rifugge dallo “spiritualismo idealista platonico-agostiniano”, dando senso a una natura che esiste certamente in quanto creata da Dio, ma dotata di un “destino” proprio. Tommaso d’Aquino: l’Uomo, l’Anima, l’Intelletto Le creature dotate di materia e forma (materia signata quantitate), per Tommaso, sono gli uomini. Egli va oltre la posizione agostiniana che riteneva l’anima razionale entitativamente separabile dalla forma sostanziale del corpo, sostenendo che l’anima è la forma sostanziale del corpo, ma che, in quanto operativamente razionale, non necessita degli organi corporei, e pertanto è immortale. L’anima e il corpo sono dunque nella vita umana un sun-òlon, un sinolo, per poi separarsi all’atto della morte corporea. Tommaso d’Aquino: la Conoscenza Per Tommaso la psicologia (scienza del pensiero pensante) e la gnoseologia (teoria della conoscenza) dipendono dal flusso causato dalla sensazione derivante dall’organo di senso esterno, unificata e interpretata dal senso interno presente nell’intelletto. Non vi sono dunque illuminazioni divine nella conoscenza, ma processi naturali che permettono lo sviluppo della conoscenza delle cose esterne, mediante l’intelletto agente di ciascun uomo. L’intelletto è quindi una facoltà individuale dell’uomo, che funziona di per sé senza bisogno di una continua illuminazione divina (Agostino e Avicenna). Tommaso d’Aquino: la Morale L’intelletto umano, insieme con la volontà, è la fonte dell’azione umana libera, cui spetta la conoscenza del bene e il suo tendere verso il bene stesso (sinderesi). L’intelletto è ratio causa libertatis, mentre il senso morale è un’impronta divina nell’anima umana: lex naturalis est nihil aliud quam participatio legis aeternae in rationali creatura. La legge naturale (divina) è conosciuta tramite una particolare disposizione presente nella ragione umana, la sinderesi, cioè la capacità di tendere al bene di “chi è intelligente”, esercitata attraverso la volontà. Subordinata alla legge naturale è la legge umana positiva (le leggi scritte). Tommaso d’Aquino: la Politica Anche per quanto concerne l’arte della politica Tommaso si collega alla visione aristotelica: homo non solum animal rationale, sed etiam animal sociale est. Pertanto, l’uomo si deve occupare della politica, come “bene comune”, che deve essere perseguito nell’ordine terreno delle cose, con razionalità e misura. Tommaso non prefigura forme di società democratiche, attribuendo al princeps/potestas publica una specie di delega razionale di governo, ma certamente in vista di una gestione equa e giusta. Una sorta di welfare ante litteram? Tommaso d’Aquino: Filosofia e Teologia I Tommaso, con la ripresa e la valorizzazione piena delle dottrine aristoteliche, in questo modo sottolinea il valore della ragione, autonoma nel suo proprio ambito e non in contrasto con l’insegnamento rivelato. Egli distingue in modo rigoroso la filosofia dalla teologia, attribuendo alla prima una sorta di primazia metodologica, utile, anzi indispensabile, anche per la teologia: in questo senso va inteso il suo detto Philosophia ut ancilla Theologiae. Il punto di aggancio tra i due saperi è la teologia naturale, che, sulla base del dato rivelato, pone temi accessibili anche alla pura ragione. Tommaso d’Aquino: Filosofia e Teologia II Temi come la spiritualità e l’immortalità dell’anima, preambula fidei, scientia Dei che può essere declinata anche come scientia humanissima et rationalis. Infatti, proprio l’utilizzo dei concetti metafisici, sostanza e accidente, potenza e atto, materia e forma, essenza ed esistenza, mette Tommaso nelle condizioni di poter trovare un equilibrio tra l’aristotelismo come filosofia razionale e la dottrina cristiano-cattolica. L’impostazione tommasiana, soprattutto nelle sue declinazioni più pedisseque non mancherà di creare non poche polemiche e battaglie teoretiche, che incontreremo. Tommaso d’Aquino: l’Analogia La gnoseologia di Tommaso si basa fortemente sul principio di analogia (che fu particolarmente studiato dal nostro grande conterraneo padre Cornelio Fabro). Tale principio prevede si possa conoscere comparando le cose e gli esseri, cioè gli enti; egli distingue l’analogia in due grandi strutture: a) l’analogia di attribuzione, con la quale si conosce ciò che può essere correlato a un analogato principale, ad esempio vita-vivente, dove vita è il termine di paragone; b) l’analogia di partecipazione (di proporzionalità, secondo il padre Giovanni Cavalcoli), mediante la quale si conoscono gli enti nel loro rapporto di grado, ad esempio uomo-Dio (anima spirituale-Dio) dove Dio stesso è l’analogato principale e fondante di tutta la realtà, in questo caso umana, pur nella sua irriducibile distanza e differenza ontologica. L’influenza successiva di Tommaso d’Aquino L’eredità di Tommaso d’Aquino, nonostante le “vulgate” della tarda scolastica tomista, stancamente ripetitiva e ormai messa in crisi dalla rivoluzione filosofica del XVI secolo, con una ripresa del platonismo e i prodromi della rivoluzione scientifica, resta nei secoli, e fino ai nostri giorni immensa, e oggi addirittura in ripresa. Tommaso d’Aquino è tuttora attuale con il suo metodo, con il suo umanesimo razionale, con la sua epistème metafisica, con la sua morale naturale, davvero prezioso come ricerca per i nostri tempi difficili. Tommaso d’Aquino: le opere principali e alcuni studi Summa theologica, testo lat. e trad. a cura di T. Centi O.P., EDB Bologna 1970 Summa contra Gentiles, a cura di A. Puccetti, Sei Ed., Torino 1930 De ente et essentia, testo lat. e trad. a cura di T. Centi O.P., EDB Bologna 1972 De unitate intellectus contra averroistas, a cura di B. Nardi, Sansoni, Firenze 1938 Opuscoli e testi filosofici scelti e annotati, a cura di B. Nardi, Laterza, Bari 1916 Scritti politici, a cura di A. Passerin d’Entreves, Zanichelli, Bologna1946 M. D. Chenu, Tommaso d’Aquino, Cei, Milano 1967 S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza Roma-Bari 1973 A. D. Sertillanges, San Tommaso d’Aquino, Ed. Paoline, Roma 1957 Il XIV secolo e la crisi della Scolastica Nel XIV secolo, se da un lato i regni europei si consolidano, nelle città cominciano a svilupparsi i ceti produttivi borghesi (si pensi alla nascita delle corporazioni a Firenze). Il Papato, con Bonifacio VIII si propone sempre di più come teocrazia. Vi è un gran movimento, che quasi prelude a ciò che un secolo più tardi si svilupperà come “umanesimo”. I Francescani e i Domenicani, oltre a rilanciare l’azione della Chiesa cattolica si scontrano, sia al proprio interno (i Francescani tra i conventuali e gli spirituali), sia tra di loro. I più noti rappresentanti del movimento degli spirituali furono Gioacchino da Fiore, con il suo messianismo escatologico, Ubertino da Casale e il più famoso Jacopone da Todi. Costoro riprendono pienamente lo spiritualismo agostiniano (teoria dell’illuminazione) rappresentando un baluardo contro il nascente razionalismo aristotelico-tommasiano. La “mediazione” di Enrico di Gand e di Egidio Romano In questo nascente conflitto teoretico e spirituale si ersero tra altre ( ad es. il cardinale francescano Matteo d’Acquasparta, Ruggero di Marston) due figure eminenti come Enrico di Gand (1223-1293) e Egidio Romano (1243-1316). Enrico, pur mantenendo un fondamento agostinianoavicennista nel suo pensiero, ammise la libertà di Dio creatore, ma anche l’autonomia dell’essere umano che è dotato di facoltà conoscitive autonome. Egidio, si adoperò per una conciliazione tra il tomismo aristotelico e l’agostinismo platonico. Come si vede il dibattito era vivissimo e tutt’altro che scontato, potremmo dire, alla faccia di coloro che parlano del Medioevo come di un periodo di “secoli bui”. Giovanni Duns Scoto I (1266-1308) Fu Giovanni Duns Scoto un pensatore straordinario. Studiò a Oxford e a Parigi dove pure insegnò. Duns Scoto cercò di porre all’attenzione dei contemporanei, sia i valori della ricerca razionale, sia la dottrina della fede religiosa. Due sono infatti i piani dell’indagine, quello filosofico e quello teologico: in questo ambito di confronto, per Giovanni, il platonismo agostiniano mediato tramite la razionalità aristotelico-tomista, e quest’ultimo tramite le dottrine di Avicenna, possono trovare una conciliazione, come si deve trovare tra teorie che guidano alla verità e teorie che guidano alla prassi virtuosa del bene, cioè a una moralità rispettosa della legge naturale-divina. Giovanni Duns Scoto II Giovanni tenta di salvare in tal modo il tomismo da un aristotelismo eccessivamente razionalistico e negatore dei principi fondamentali del cristianesimo. Dio creatore, libertà e volontà, individualità dell’essere umano e provvidenza. Duns Scoto cerca di mettere in relazione l’efficacia della ricerca sperimentale aristotelica, con l’esigenza di salvaguardare la spiritualità dell’anima che tramite l’intelletto apprende le cose del mondo perché è messa in grado di farlo dalla propria intrinseca struttura spirituale. Ma per Giovanni, la conoscenza degli enti non avviene per analogia come per Tommaso, in quanto non si può risalire all’Essere dagli esseri/enti, ma al contrario è dall’Essere che si deduce l’esistenza di tutti gli enti/esseri. Giovanni Duns Scoto III Perciò Giovanni, constatando l’assoluta libertà di Dio, non accettò l’ipotesi aristotelico-tomista di un’essenza staccata dall’individualità: per Duns Scoto si deve dunque parlare di differenza ontologica tra individuo e individuo: non dunque “umanità”, che resta un concetto astrattamente metafisico, ma quest’uomo qui, Pietro, quell’uomo, Carlo, quell’altro …: questa cosa e non l’altra, che Giovanni chiama appunto haecceitas, cioè questità. L’ecceità non è dunque un universale, ma un particolare, che esiste per volontà di Dio. Necessità, volontarismo e individualità sono in questo modo salvaguardati. Giovanni fu proclamato “Beato” da Giovanni Paolo II. Guglielmo d’Occam I (1295-1350 ca) Francescano, Guglielmo d’Occam fu oltremodo polemico verso l’aristotelismo e soprattutto l’averroismo. Studiò a Oxford, dove forte era l’eredità teoretica di Ruggero Bacone e di Duns Scoto. Fu sottoposto ad un processo inquisitoriale per sospetto d’eresia, perché vicino al capo degli frati francescani “spirituali” Michele da Cesena. Sparì dalla circolazione dopo essersi rifugiato a Monaco presso Ludovico il Bavaro a Monaco dove incontrò Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun. Scrisse moltissimo e mori in un anno imprecisato forse di peste, durante l’epidemia che sconvolse l’Europa tra il 1348 e il 1350. Guglielmo d’Occam II Guglielmo oppose al concetto del Dio dei filosofi, di origine greca, il “pensiero di pensiero”, un Dio che è volontà e libertà, onnipotenza e infinitezza. Dio per lui può fare tutto quello che non è contradditorio, per cui non vi è legge di natura necessaria, perché è tutta continuamente a disposizione della volontà di Dio (in questo senso si pensi alla “miracolistica di Lourdes”), e quindi, per Guglielmo, nulla si può dare se non per volontà di Dio. Diceva: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, gli enti esistono solo se necessari: si tratta del famoso detto che dettò il motto del “rasoio di Occam”. Guglielmo d’Occam III Per Occam le creature di Dio sono solo “enti individuali”, non c’è posto per i generi e le specie aristotelico-tomiste. Per lui non vi è neppure la struttura comune che Duns Scoto aveva chiamato formalitates communes, che poi sarebbero state individualizzate nell’haecceitas, la questità. L’universale per Occam è una fictio, una costruzione della mente, che serve solo a catalogare e a classificare. Generi e specie universali sono solo “termini” che vengono utilizzati come strutture di relazione descrittiva. La conoscenza si fonda, per Guglielmo, sull’intuizione immediata del concreto individuo quale si presenta alla mente dell’osservatore, il quale dà un nome alla cosa. Guglielmo d’Occam IV Gli universali,i generi e le specie sono solo una terminologia intenzionale, non descrittiva e definitoria: infatti per Occam solo il soggetto e il predicato di una frase hanno un significato rispondente alla realtà, come “categoremi”. Dire che “Pietro è un uomo, ma anche un animale”, non significa dire che Pietro possiede l’umanità o l’animalità, né che l’uomo o l’animale sono una parte di Pietro: significa semplicemente che Pietro è creatura tale per cui si attagliano gli attributi di “uomo” e di “animale”. Guglielmo d’Occam V Non vi è dunque, per Guglielmo, inerenza tra l’attribuzione e il soggetto, ma semplice accostamento, né si può dire che gli effetti prodotti siano originati da specifiche cause (prodromi di Hume!). Per l’Occam l’effetto non è dovuto necessariamente a una causa efficiente, ma a una catena teoricamente infinita di atti e di fatti che concorrono alla costruzione dell’effetto stesso: perciò la causa ultima e visibile è solo “occasione” dell’effetto. Ecco l’occasionalismo di Occam! Tali teorie, fondamentalmente “” ebbero effetti notevoli anche sul pensiero socio-politico di stampo anglosassone, con la rigorosa distinzione tra ciò che concerne la Chiesa e ciò che riguarda il potere civile. L’occamismo, i “fisici parigini”, i “logici nuovi”, i “calculatores” Ne ricordiamo tre, tra non pochi studiosi del tempo. Nicola d’Autrecourt: nato attorno al 1300, studiò teologia e arti alla Sorbonne, e fu inquisito per il suo scetticismo antimetafisico radicale e sottoposto al giudizio papale; come Guglielmo d’Occam si rifugiò presso Ludovico il Bavaro. Giovanni Buridano: nato verso la fine del XIII sec. nell’Artois, morì verso il 1360. Maestro alla scuola delle arti a Parigi, si occupò di logica, di filosofia della natura e di etica. Criticò la fisica aristotelica del moto, e seguì l’Occam in logica, manifestando una linea scettica. Celebre è l’apologo dell’asino indeciso che a lui si riferisce. Nicola Oresme: nato verso la metà del XIV sec., fu maestro delle arti a Parigi. Studioso di matematica e delle “calculationes”, nonché della geometria euclidea, Nicola applicò le figure geometriche all’indagine delle qualità fisiche. Ipotizzò, tra i primi, (dopo Roberto Grossatesta) l’eliocentrismo. Morì nel 1382. La politica. Dante, Occam, Marsilio da Padova, Giovanni di Jandun Citiamo questi quattro autori per non dimenticare l’importanza di quella che oggi chiameremmo “riflessione politologica”. Questi tre autori, così diversi tra loro, posero come tema centrale la distinzione radicale tra potere spirituale della Chiesa e gestione del potere temporale, da affidare a strutture civiche laiche, fossero l’impero o le autorità comunali. Dante, Guglielmo d’Occam, Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun testimoniarono l’esistenza di un tema e problema che nei secoli successivi e fino quasi ai giorni nostri avrebbe avuto grande importanza. La mistica. Meister Eckhart I (1250-1325 ca) Maestro Johannes Eckhart, domenicano della Turingia, studiò a Strasburgo e a Colonia. Divenne maestro di sacra teologia e insegnò a Parigi. Subì vari processi ecclesiastici perché sospettato di eresia, e molte sue tesi vennero condannate. Scrisse molte opere esegetiche e trattati filosofico-teologici, tra i quali ricordiamo l’Opus tripartitum. Insieme con Eckhart vanno ricordate anche altre figure contemporanee, come Enrico Seuse, Johannes Tauler, o le badesse Hadewijck e Gertrud der Grosse. Si tratta della “mistica renana”, assai diversa da quella precedente di un Pier Damiani, san Bernardo o dei “Vittorini”, più orientata a un neoplatonismo filtrato da Plotino e dallo Scoto Eriugena. La mistica. Meister Eckhart II Dopo la separazione tra ragione e fede, per Eckhart Dio è raggiungibile solo attraverso la fede, mediante la ricerca interiore. Poiché di Dio nulla si può dire, Dio è al di là di tutto, ma tutto è un aspetto di Dio, tutto deriva da lui, che decide creando e mantenendo nell’essere ogni cosa in piena libertà. L’anima, per Meister Eckhart, deve farsi assolutamente povera per tornare a Dio, anche al di fuori della Chiesa, sempre meno povera ed evangelica; l’anima deve fare spazio dentro se stessa, fino allo svuotamento del sé. La mistica spirituale di Eckhart ebbe seguito, filosoficamente nelle successive riflessioni di Nicola Cusano,e religiosamente nella successiva Riforma protestante. La “nuova età”. Pre-umanesimo in Petrarca e Coluccio Salutati Il XIV secolo è una fucina di novità straordinarie sotto il profilo filosofico e culturale in generale. Firenze è un luogo cruciale, nel quale avviene una ripresa di tematiche platoniche e agostiniane, contro un aristotelismo teologico, già irrigiditosi in schemi che cominciavano a risultare insufficienti a rappresentare la molteplice realtà, contraddittoria e cangiante, per cui l’arte, la poesia, la mistica platonico-agostiniana sembrava più adatta. L’attribuzione del merito di questa rinascita va riconosciuto al Petrarca (1304-1374) e al Cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati (1331-1406). Umanesimo e Rinascimento I Si è soliti accreditare una storiografia che concepisce l’apertura umanistica dell’Umanesimo, tra la fine del XIV e i primi anni del XV secolo, come cesura radicale nei confronti dei valori culturali, filosofici, estetici e morali del Medioevo. Come sempre accade nelle vicende umane, non è mai del tutto così, perché i passaggi tra una sensibilità precedente e una successiva, sono sempre graduali e contradditori. Ad esempio, se si tratta dell’attenzione all’uomo, cifra portante dell’Umanesimo, non si può negare che altrettale attenzione fosse portata dai grandi esponenti della cultura medievale, che abbiamo fin qui studiato. Altrettanto si può dire dell’attenzione ai “classici”. Su questo tema, piuttosto, si può dire che la novità dell’Umanesimo va attribuita a una maggiore attenzione filologica al testo, come è testimoniato dallo stesso Petrarca Umanesimo e Rinascimento II … e poi da autori come Lorenzo Valla , Erasmo da Rotterdam, Angelo (Ambrogini) Poliziano, Leon Battista Alberti, e altri, soprattutto i grandi artisti e scienziati del Rinascimento (Raffaello, Piero della Francesca, Masaccio, Michelangelo, Leonardo, Galileo, …), ma anche “scienziati” della politica come Macchiavelli e Guicciardini. La filologia torna ad essere parte importante di una scienza ermeneutica che permette un approccio scientifico ai testi classici, con minori edulcoramenti di tipo teologico o concordismi strumentali. Interpretazioni del Rinascimento Abbiamo appena detto che tra Medioevo, Umanesimo e Rinascimento vi sono certamente elementi di rottura, ma anche di profonda continuità. Ma gli elementi di rottura non sono certo rinvenibili nella sostanziale continuità dell’amore e dello studio dei classici greco-latini della letteratura e della filosofia … mentre quelli di rottura appartengono piuttosto allo sviluppo degli studi scientifici, che favorirono il distacco progressivo del sapere teologico da quello filosofico, e successivamente avrebbero favorito il distacco di quest’ultimo dal sapere scientifico.(basti solo ricordare il lungo percorso che da Robert Bighead, Nicola Oresme e Niccolò Copernico, portò all’affermazione dell’eliocentrismo e ai successivi approfondimenti e scoperte di Galileo e di Keplero!). Platonismo e Aristotelismo I due grandi mentori del pensiero antico, Platone e Aristotele, sono sempre presenti nella riflessione e nella ricerca della cultura europea. A partire dalla fine del XIV e con il XV sec. nelle università dominava l’aristotelismo scolastico, ma fuori, nei circoli intellettuali e nelle corti era tornato fortemente in auge il platonismo, che meglio si attagliava a stili e ad approcci alla vita più aperti e meno dogmatici. Petrarca, abbiamo visto, fu uno dei sostenitori di tale linea, derivando lungo la linea platonico-plotiniano-agostiniana una nuova sensibilità estetica e filosofica. Marsilio Ficino (1433-1499) Marsilio tradusse molti testi platonici e plotiniani, redigendo anche un’opera importante, la Theologia platonica de immortalitate animarum”, contro gli sviluppi naturalistici dell’aristotelismo. Vi è una tradizione antichissima che riguarda la rivelazione del Verbo-Lògos, risalente ai profeti orientali, come Zoroastro, a Ermete Trismegisto, a Platone e poi alla dottrina cristiana, così come commentata e trasmessa dai Padri greci, da Dionigi l’Areopagita, e infine da Agostino. Una pia philosophia che diventa anche docta religio, affine e convergente con il cristianesimo, affermante il primato dello spirito sulle cose terrene, della trascendenza sul mondo sensibile, di Dio cui l’uomo può accedere con una progressiva ascesa dell’intelletto e della volontà (atto d’amore-eros). Per Marsilio, dunque, vi è un primato del bene sull’ essere e dell’amore sul conoscere: il mondo tutto appare come manifestazione della bellezza e dell’amore di Dio stesso per l’uomo. Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) Umanista di cultura vastissima, Giovanni Pico della Mirandola visse a contato con gli ambienti più vivaci della cultura italiana, da Firenze (Marsilio Ficino e Savonarola) a Padova. Studiò la filosofia araba e d ebraica, soprattutto l’interpretazione kabbalistica delle Scritture. La Kabbala è un testo composto verso VIII/IX sec. improntato a un certo neoplatonismo alla numerologia (ghematria). Pratico di testi ermetici e di magia, concepì l’uomo (cf. Orazione sulla dignità dell’uomo) come massima opera del Creatore, superiore e compendio di tutte le creature, cui è affidato un mandato sul mondo e un impegno a sviluppare tutti propri talenti in libertà e rispetto, potendo “degenerare nelle cose inferiori, o rigenerarti nelle cose divine”. Il primo messaggio dell’Umanesimo europeo, quello di Pico. L’aristotelismo La visione aristotelica del mondo continuò a dominare nelle accademie universitarie per i secoli dal XII al XVII, anche se molte altre suggestioni, come il recupero del “divino Platone” riprendevano quota negli studi e nella considerazione generale. Nuove traduzioni di Aristotele aiutavano a comparare meglio le dottrine dei Due grandi Greci. Si trovò interesse sempre maggiore per gli scritti etici e politici dello Stagirita, lasciando con il tempo sempre più sullo sfondo gli scritti fisici e metafisici: si era oramai alla vigilia della rivoluzione filosofica e scientifica del XVI secolo! All’orizzonte stavano apparendo le sagome di Galileo Galilei e di Cartesio (Renè Descartes), che studieremo il prossimo anno. Pietro Pomponazzi I (1462-1525) Insegnò le dottrine aristoteliche a Padova, Ferrara e Bologna. È celebre soprattutto l’opuscolo De immortalitate animae, nel quale Pomponazzi spiegò l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima con la filosofia aristotelica. L’anima umana, in quanto collegata al sistema neuro-vegetativo, è in sé e per sé mortale, anche se odorat (profuma) di immortalità. L’anima è dunque un oggetto conoscibile solo in parte dalla scienza, perché la credenza della sua immortalità è affidata alla fede. All’uomo è comunque conveniente un comportamento virtuoso, non in funzione di un primo o di una punizione ultraterrena, ma perché ciò è bene in sé e premio in sé. Pietro Pomponazzi II Pomponazzi fu ritenuto ai suoi tempi il teorico della mortalità dell’anima. Nelle altre sue opere, come il De naturalium effectuum admirandorum causis sive de incantationibus e nel De fato, Pomponazzi sostenne che la stragrande maggioranza delle cause presenti e osservabili sono naturali, nel senso che derivano da intelligenze ed influenze fisiche e cosmiche. Il razionalismo del Pomponazzi è dunque ancora del tutto intriso di culture legate all’astrologia, alla magia, all’esoterismo, dove aristotelismo e platonismo quasi si mescolano, prima della rivoluzione filosofica e scientifica, improntata al naturalismo meccanicistico e naturalistico, che si sta preparando. Nel De fato, Pietro tratta il rapporto esistente tra provvidenza, fato e libero arbitrio, concludendo che ogni vita è vita ab aeterno umana ed è sottoposta a un destino necessario, definito da Dio. Niccolò Cusano (1401-1464) Nato a Kues nel dipartimento della Mosella in Francia, studiò a Heidelberg e a Padova, e infine a Colonia dove di divenne magister di sacra teologia. Niccolò Cusano ebbe incarichi importanti all’interno della Chiesa, sia di carattere teologico, sia diplomatico, partecipando attivamente alla preparazione del Concilio di Firenze-Ferrara (1437). Fu nominato cardinale e consacrato vescovo di Bressanone nel 1450. Scrisse varie opere filosofico-teologiche di grande importanza, come il De docta ignorantia, i De pace fidei, il Complementum theologicum, il De visione Dei, e, verso la fine, il De apice theoriae. Niccolò Cusano: la “dotta ignoranza” I La riflessione del cardinale di Cusa si concentra, in termini oggi potremmo dire di grande modernità, sui limiti del pensiero umano e sulle possibilità della conoscenza. L’ottimismo gnoseologico dell’aristotelismo, con Niccolò Cusano, subisce una critica radicale. Egli si sofferma sulla questione della conoscibilità dell’infinito, e nega questa possibilità per l’intelletto umano. I suoi esempi di tipo matematico-geometrico, interessano anche i ricercatori dei nostri giorni. Ad esempio l’infinità dei lati di una circonferenza, in quanto punti matematici (cf. l’esempio del poligono, che partendo dalla figura dell’ottagono inscritto nel cerchio acquisisce sempre più lati senza mai riuscire a coincidere con il cerchio stesso, oppure dalla doppia linea di numeri, la prima di interi 1 ,2, 3e ss …, la seconda dei numeri pari doppi dei primi, 2, 4, 6, e ss …, costituenti due infiniti diversi, di cui non si può dire quale sia più grande …). L’infinito è dunque l’assoluto, che nulla ha al di fuori di sé. Niccolò Cusano: la “dotta ignoranza” II L’infinito, in quanto negazione di tutte le determinazioni finite, è anche al di là degli opposti come minimo e massimo nelle grandezze, e dunque costituisce il punto dove gli opposti coincidono, la coincidentia oppositorum. Anche l’assoluto sfugge alla conoscenza dell’intelletto umano, poiché “noi non possiamo connettere insieme i contraddittori che distano all’infinito”, e dunque vi è una sorta di coincidentia contradictorium. In Cusano si nota la profonda influenza delle dottrine di Proclo e di Dionigi l’Areopagita, che gli diedero un’impronta legata a una “teologia negativa”: se non si può conoscere né l’infinito, né l’assoluto, non si può conoscere neppure Dio, di cui si possono solo predicare le caratteristiche che “non ha”. La docta ingnorantia, dunque, permette di intelligere incomprehensibiliter, una critica radicale alla gnoseologia classica. Niccolò Cusano: conoscere come congettura Non è possibile, di conseguenza, per Niccolò, conoscere nella loro intrinseca verità neppure gli Enti razionali finiti, cioè gli esseri e le cose del mondo, poiché essi sono nella loro verità solamente nella mente di Dio, che li crea. Solo per immagine razionale l’uomo può conoscerli e definirli in qualche modo. Ma tra gli enti reali creati da Dio e gli enti razionali, così come i primi possono essere conosciuti dall’uomo, resta un abisso incolmabile, solo in parte superabile con un’analogia, che resta però sfuggente partecipazione della verità. Anche la matematica come costruzione convenzionalecongetturale dell’uomo è solo uno strumento conoscitivo, se pure elevatissimo (il più elevato per Cusano), per la conoscenza delle cose, nei limiti dell’intelletto umano. Niccolò Cusano: Dio e mondo Il sistema aristotelico-tolemaico è superato da Cusano in una visione dell’universo complicata e implicata in Dio stesso, e dunque complessa, da comprendere, sia pure imperfettamente, non da spiegare. Dio è per l’universo principio e fine, così come il numero 1 è per sistema numerico, unità e infinità nel contempo. La mediazione tra Dio e mondo è per Cusano Cristo incarnato, massimo assoluto e massimo limite, teandrico, divino-umano che sintetizza il Tutto. La discesa del Lògos divino in Cristo-Gesù ridà all’uomo tutta la dignità di essere a immagine di Dio Creatore. Niccolò Cusano: una nuova cosmologia Cusano mostra di intuire l’infinità dell’universo partendo dai suoi assunti circa i rapporti tra finito e infinito: tutti i parametri geocentrici per la conoscenza del mondo sono eliminati, perché insufficienti e fuorvianti per l’intelletto umano. Non vi è più la gerarchia aristotelico-tolemaica nella visione del cosmo, perché non vi è misura, né un massimo né un minimo nella concezione del Cusano. E neppure un centro e una periferia. Sembra quasi di sentir echeggiare le ultime teorie cosmologiche di un Paul Davies, (cf. Sull’orlo dell’infinito) o di Stephen Hawking (cf. Dal big bang ai buchi neri). Niccolò Cusano: la tolleranza Il cardinale di Cusa, di fronte al nuovo “nemico” costituito dai Turchi musulmani che nel 1453 avevano conquistato Costantinopoli, si oppose alla proposta di una crociata, suggerendo di avviare un dialogo per stabilire una pacifica convivenza in nome della fede in Dio (de pace fidei). Il suo discorso è aperto a tutte le religioni conosciute, poiché coglie una profonda unità nella fede nell’unico Dio, pure nella differenza dei riti. Unità nella fede in Dio e rispetto per la diversità delle declinazioni cultuali e delle confessioni religiose, in ciò il Cusano è un precursore di percorsi di dialogo che iniziarono molto vicino ai nostri tempi, prima con Giovanni XXIII e Paolo VI e successivamente con papa Wojtyla, Ratzinger e lo stesso Bergoglio, sia pure con stili molto diversi. Nicola Cusano, perciò, è un po’ nostro “contemporaneo”. Filosofia della natura e nuova scienza: Paracelso La ripresa del platonismo congiunto al pitagorismo, rimette al centro della ricerca filosofica e scientifica la matematica come scienza della natura (cf. proxime Keplero e Galilei). Personaggi come Paracelso (1493-1541), cioè Filippo Teofrasto Bombast von Hohenheim, filosofo e medico, sono emblematici di quel tempo, studiò medicina in Italia e si stabilì a Basilea, dove entrò in rapporto con Erasmo da Rotterdam. In Paracelso confluirono diversi e elementi neoplatonici, astrologici, magici e alchimistici. Egli riteneva che vi fosse una corrispondenza fra dimensioni cosmiche e le parti del corpo umano, per cui occorreva connettere tutte le conoscenze fisiche del mondo e anatomiche dell’uomo per potere, con probità, proprietà e preparazione, esercitare l’arte medica. Gerolamo Cardano e altri (1501-1576) Classico rappresentante del naturalismo rinascimentale, filosofo e inventore, Gerolamo Cardano riteneva la natura fosse retta da forze spirituali naturali, per cui ogni movimento deve essere interpretato alla luce del rapporto unitàmolteplicità, derivando quest’ultima nozione dall’Uno che è Dio stesso. Per Cardano l’esperienza del molteplice deve essere mediata dal sapere matematico, che la rende meno approssimativa. Sue opere importanti furono il De subitlitate e il De rerum varietate. Altri autori come il Giovanni Battista della Porta (1535-1615) e Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535), insieme con chi abbiamo citato furono fondamentali per preparare un percorso nuovo alla filosofia e alla scienza, combattendo le dottrine aristoteliche degli elementi, recuperando dottrine più antiche di carattere vitalistico, ilozoistico e atomistico, e preparando la strada alla riflessione filosofico-scientifica successiva di Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e Giordano Bruno. Bernardino Telesio (1509-1588) Con Bernardino Telesio abbiamo una delle prime compiute espressioni di filosofia della natura del Rinascimento, prima di Bruno. In La natura secondo i suoi propri princìpi, Telesio propone come elementi fondativi di ogni moto naturale, le nature agenti, come il caldo e il freddo, o l’inerzia e l’oscurità per quanto riguarda la materia. Tutto ciò spiega, come il moto non sia causato da agenti esterni, ma da intrinseche forze che operano nel sole e nei cieli, operando pure sulla terra. Non vi è dunque una scalarità dell’essere tra gli “enti”, né distinzione sostanziale tra organico e inorganico, ma solo una diversità di sentire più o meno. L’uomo mantiene comunque una posizione preminente, voluta da Dio e infusa in ogni singola persona: l’uomo infatti si eleva sugli altri animali perché è in grado di superare l’appetito sensibile, per desiderare beni spirituali e perfino l’immortalità, sviluppando così una sorta di morale naturale connessa con le cose divine. Tommaso Campanella I (1568-1639) Seguace di Telesio, suo conterraneo, Tommaso Campanella entrò giovanissimo nell’ordine domenicano e studiò a Napoli. Si interessò prestissimo a pratiche magico-astrologiche, e fu più volte processato per ipotesi di eresia. Coinvolto nella rivolta antispagnola del 1599, viene arrestato e incarcerato per lunghi anni. Scarcerato nel 1629, papa Urbano VIII gli fa conferire il titolo di magister. Di nuovo perseguitato dal governo spagnolo, fugge a Parigi dove gli vengono riconosciuti grandi onori negli ambienti della nuova filosofia e dove si occupa delle sue maggiori pubblicazioni. Ivi muore nel 1639. Tra le sue opere più importanti ricordiamo il De sensu rerum sive de magia, la Philosophia realis, la Città del sole, l’Apologia pro Galileo, l’Atheismus triumphatus e una imponente Theologia. Tommaso Campanella II Campanella sostiene che il linguaggio di Dio nella natura è diverso da quello delle Sacre scritture, e perciò bisogna procedere con un’analisi separata dalla dottrina religiosa o dall’indagine teologica. Cita l’esempio di un Cristoforo Colombo che secondo lui capì, della natura, più cose di Agostino (!!!). Di Telesio, frate Tommaso accoglie gli insegnamenti sui principi attivi naturali (caldo, freddo, organicità della natura, etc.). Ogni essere possiede una perceptio passionis, consapevolezza di sentire, che gli dà una sapientia intuitiva. Questa conoscenza è comunque sempre scientia sui, cioè sapere su di sé, siccome si viene, conoscendo, modificati dalla conoscenza stessa. Tommaso Campanella III Il sensus inditus o cognitio sui, è sempre alla base di ogni conoscenza. Qui Campanella anticipa alcune tesi cartesiane, sulle tracce di Agostino (“non posso ingannarmi se non sono”) e psicologiche contemporanee (una certa psicanalisi?). Tutte le cose,comunque, hanno ricevuto da Dio la capacità di autoconservarsi e di amare se stesse, conseguendo il fine proprio. Dio, che è, per Campanella, nella sua divina Trinità, come Possanza Prima, Sapienza Prima e Amor Primo, a tutti e a tutto provvede. E tra tutte le creature, in forza dello spirito diffuso, spicca l’uomo il quale è dotato da Dio di una mens, che è l’anima immortale, abitante nello spirito (platonismo e dottrine cristiane in questo quadro teoretico si incontrano). Tommaso Campanella: La Città del sole I Tra le opere di Campanella ci soffermiamo brevemente su “La città del sole”, perché parte di una sorta di genere letterario di gran momento, come vedremo. Si tratta di un ripensamento de La Repubblica di Platone, nella quale vengono ripresi i temi principali come la comunanza dei beni, la comunanza sessuale, una sorta di religione naturale, che comunque prevede la presenza di un Dio provvidente e l’immortalità dell’anima. Al vertice è posto un Sovrano, che è servito da tre “primalità” mutuate dalla S. ma Trinità: Pon, Sin e Mor. Il Sovrano è la sapienza metafisica e teologica, conoscendo la radice ultima della realtà, ma anche tutte le arti liberali e meccaniche, e dunque è depositario del sapere, supportato dalla tre “potenze” su nominate. Tommaso Campanella: La Città del sole II Il sapere è fondato su un’educazione non rigidamente collegata alle dottrine scolastiche e agli schemi libreschi, bensì all’osservazione della natura e al lavoro. Un’educazione resa accessibile a tutti e non solo a pochi privilegiati. L’utopia di Tommaso trae senso dall’aspettativa che egli aveva di una generale palingenesi, politica, scientifica, religiosa e morale, tale da rinnovare la vita degli uomini su tutta la terra “un solo ovile sotto un solo pastore” (ahi quanto attuale!). In realtà il Campanella non vuole sostituire il cristianesimo con la religione naturale, ma mostrare come il cristianesimo sia la più naturale delle religioni. La nuova scienza Con prodromi che abbiamo visto manifestarsi fin dai due secoli precedenti, dal XVI secolo si afferma sempre più una metodologia e un approccio epistemologico al sapere che si può definire “nuova scienza”. Essa avrà poi nel prosieguo ulteriore spinta dai grandi pensatori e scienziati del secolo successivo (Bacon, Descartes, Galileo, Newton …). La cifra teoretica unificante è sicuramente un deciso ritorno al platonismo come concezione in grado di unificare i saperi, sostenendo una profonda corrispondenza tra la mente umana e la natura tutta. Una notevole spinta in questo senso fu data anche dalla riscoperta dei grandi classici della scienza matematica dell’antichità. Di seguito daremo di tutto ciò una sommaria nozione. La crisi della cosmologia aristotelica La concezione della struttura cosmologica aristotelico- tolemaica, così come era stata tramandata, accolta pienamente nell’accademia europea a partire dal XIII secolo entra in crisi, a partire dalla constatazione di una rigidità e di uno schematismo che mal si attagliava alle riflessione e scoperte che stavano emergendo. Abbiamo già visto come diversi pensatori del Duecento e Trecento già mettessero in dubbio quelle ipotesi (Grossatesta, l’Oresme e altri). La visione del mondo e della terra in particolare era caratterizzata da pregiudizi e leggende, come quella sull’inabitabilità di intere zone del pianeta. La rivoluzione copernicana e le scoperte geografiche È proprio questa concezione del mondo che viene messa in crisi dalla “rivoluzione scientifica” che ha inizio nel XVI secolo! In questo secolo innanzitutto risalta la rivoluzione copernicana (Niccolò Copernico, 1473-1543)nella cosmologia e astronomia: si passa all’eliocentrismo! E poi le grandi scoperte geografiche, opera di navigatori coraggiosi come Colombo, Vespucci, Caboto, Vasco de Gama, Magellano, che contribuirono a fugare, rendendole leggendarie, opinioni consolidate sulla non raggiungibilità di certi luoghi della terra. Una ulteriore riflessione si poneva sul piano antropologico ed etico: se cioè le popolazioni autoctone incontrate dagli esploratori europei fossero da definire “selvaggi” (corrispettivo di “barbari” di greca memoria!), o possedessero essi stessi una religione naturale, una morale e uno stile di vita plausibile, anche alla luce della dottrina cristiana. La definizione di “barbari” veniva posta in discussione. Le arti meccaniche e Leonardo Detto degli esploratori e navigatori, un altro capitolo concerne i meccanici, i tecnici, i medici. Ad esempio, si può citare il grande medico Andrea Vesalio (1515-1564), che a Padova condusse straordinarie ricerche sull’anatomia umana fondata sulla dissezione dei cadaveri. La sua opera monumentale, il De corporis humani fabrica, restò a lungo un caposaldo della dottrina anatomica. Non può che essere Leonardo da Vinci (1452-1519) il mentore di questo nuovo approccio alla scienza fisica, alla meccanica e alle sue applicazioni, talmente conosciuto da non richiederci qui altro che un cenno. Il contributo scientifico del Rinascimento Di solito si pensa al Rinascimento come a una fase storica caratterizzata soprattutto dal rilancio delle discipline umanistiche e dell’arte. Certamente questo è vero, basta pensiamo al novero impressionante di artisti e letterati sommi di quel periodo. Peraltro il ‘500 è stato anche un secolo nel quale esoterismo, magia, alchimia e astrologia hanno conosciuto la massima considerazione. Il XVI secolo è anche il periodo nel quale l’ontologia e la fisica aristotelica viene superata, ma con il risultato paradossale di un ritorno alla magia e all’esoterismo più spinto, come si dice sopra. Siccome non si è più in grado di sapere ciò che è reale e ciò che è possibile, nel Rinascimento vige il detto che “tutto è possibile”. Le “meraviglie della natura” e la riscoperta dei classici Se vi è un rovescio della medaglia del detto rinascimentale appena trattato, vi è anche un “dritto”, cioè l’enorme curiosità dell’Homo rinascimentalis. Abbiamo già fatto cenno alle scoperte geografiche: l’America scoperta ed esplorata, la circumnavigazione dell’Africa e della terra intera, la raccolta di disegni botanici (cf. Albrecht Dürer, 1471-1528) e faunistici di ogni parte del mondo, di disegni degli esseri umani incontrati dai viaggiatori e dai primi missionari, della loro anatomia (cf. Leonardo!) … La varietas rerum impressiona e colpisce l’Uomo rinascimentale e lo induce a riflettere ancora più a fondo su se stesso e sul mondo. I testi degli antichi matematici (Erone, Archimede, etc.) sono riscoperti e studiati da ricercatori come Francesco Maurolico (1494-1575) e Pierre Fermat (1601-1665). Politica e religione nel Rinascimento I Abbiamo già detto di Campanella, ma anche altri autori vanno segnalati in un periodo in cui la Chiesa e l’Impero, come istituzioni, cominciavano a vivere situazioni molto critiche. Infatti stavano formandosi gli stati moderni (Francia, Spagna, Austria, etc.), che richiedevano ben altre e diverse filosofie politiche. In questo nuovo contesto, sia le ricerche e le tesi di Niccolò Macchiavelli (1469-1527), sia le utopie, come quelle del Campanella di cui abbiamo già parlato, e di Thomas More (1478-1535). Infine, fu la Riforma protestante, luterana e calvinista, che pose le basi per una trasformazione profondissima del rapporto tra politica, religione e popolo. Politica e religione nel Rinascimento II Da un lato possiamo considerare la teoria politica del Macchiavelli, improntata a un realismo che a volte è stato interpretato in forma di cinismo, la politica come valore assoluto, dall’altro si deve tenere conto delle teorie utopistiche (dal greco “nessun luogo”), che propongono ipotesi di governo assolutamente opposte. In realtà il Macchiavelli rappresenta la realtà del tempo così com’era, mentre autori come il Campanella e il More desiderano porre al centro del loro interesse la possibilità di una diversa forma di governo, più umana, comunitaria e solidale. Il More, ad esempio, in questo molto vicino al monaco domenicano, propone, nel suo capolavoro De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, forme di convivenza più rispettose della comune umanità. La Riforma La Riforma protestante fu l’ultimo straordinario atto rivoluzionario di una critica ai comportamenti della Chiesa cattolica romana, che ebbe inizio fin dal XIV secolo con predicatori, teologi e riformatori, tra i quali vanno ricordato John Wyclif (1320-1384), inglese e Jan Hus (13691415), boemo. Costoro predicavano una Chiesa diversa da quella realizzatosi storicamente nella gerarchia, una Chiesa capace di tornare alla “purezza delle origini”, capace di uscire dallo “stato di peccato” nel quale secondo loro si era venuta a trovare, e sempre di più nel tempo. Certamente molti esempi concreti rinforzavano queste tesi. Martin Lutero (1483-1546) Martin Luther entrò in monastero da una famiglia contadina. Agostiniano studiò teologia a Erfurt, influenzato dall’occasionalismo occamiano. Frate Martino fu profondamente influenzato da una visione del mondo che era, insieme, spiritualista nella tradizione agostiniana, e profondamente concreta e terragna, nella sua divisione tra le cose del cielo e le cose della vita umana. Insegnò teologia a Wittemberg, che fu poi teatro delle sue iniziali prese di posizione anticattoliche, con la pubblicazione delle novantacinque tesi della Riforma. Martin Lutero: Dio e l’uomo Il tema di Dio tormentava fortemente il frate agostiniano: nonostante sostenne ogni forma di acculturazione terrena, come con la traduzione in tedesco delle Bibbia (decisione epocale per lo sviluppo della cultura popolare germanica), Lutero riteneva che la dimensione della Fede (in questo senso profondamente occamista) fosse tutt’altra rispetto alla cultura dell’uomo e del mondo. La Fede può essere data solo dalla Grazia divina. La Fede, per Lutero, non è raggiungibile attraverso il misticismo, ma solo attraverso la pratica religiosa e l’approccio alla Sacra Scrittura. Sola Gratia, sola Fides, sola Scriptura. Martin Lutero: la giustificazione per fede I Per frate Martino solo la fede (sola fide) può salvare l’uomo, derivando tale profonda convinzione soprattutto dalla studio delle lettere paoline, in particolare la Lettera ai Romani, e dall’impostazione agostiniana. La fede per Lutero opera anche senza le opere, in una visione profondamente “antipelagiana”, deterministica e in qualche modo fatalistica. La Fede insieme con la Sacra scrittura, accessibili ambedue a chiunque si abbandoni a Dio e a Cristo, sono la via della salvezza, l’unica. Martin Lutero, perciò, si scagliò contro la tradizione delle indulgenze, quando affisse alla porta della chiesa di Wittemberg le sue tesi nel 1517. Per lui le indulgenze erano opera del demonio, non vie per la salvezza. Martin Lutero: la giustificazione per fede II Nel 1519 Martin Lutero dovette difendere a Lipsia le sue tesi davanti al teologo Johannes Eck (teologo cattolico e professore a Ingolstadt, 1486-1543) quando osò addirittura manifestare apertamente una certa adesione alle posizioni di Wyclif e Hus, rischiando molto. Lutero si avvalse del suo amico e sodale Filippo Melantone (1497-1560), umanista e professore di greco all’università di Wittemberg, per sistematizzare il suo pensiero. La supremazia della fede comportava per Lutero l’abolizione del clero e di cinque dei sette sacramenti, accettando solo il Battesimo e l’Eucaristia, in ricordo della cena del Signore. Il servizio religioso diventava quindi un atto comunitario al quale partecipava l’intero sacerdozio di tutti i credenti. Martin Lutero: la giustificazione per fede III Lutero apportò una modifica alla dottrina tomista della transustaziazione una modifica, nel senso che nel sacramento eucaristico vi era sì la presenza reale mistica di Cristo, ma il pane e il vino non si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. Tale posizione si comprende per la distanza che Lutero manteneva dalla ontologia e dalla metafisica aristotelico-tomista, che in qualche modo dava un senso filosofico alla transustaziazione, con i concetti di sostanza, materia e forma. La Riforma non aboliva dunque ogni retaggio cattolico, ma lo semplificava rendendolo oggetto di una sorta di “sacerdozio del popolo”. Martin Lutero: il libero arbitrio Un tema fondamentale che interessò il frate riformatore fu la grande questione, posta già dal suo maestro Agostino, del libero arbitrio. Martino preferì l’impostazione più radicale, che negava ogni possibilità di scelta all’uomo, e su ciò conflisse aspramente con Erasmo (da Rotterdam, 14691536), il quale invece sosteneva la possibilità ampia per l’uomo di potere decidere di sé e delle proprie azioni. Servo arbitrio, dunque, per Lutero, delle passioni e della povertà dell’uomo, mentre per Erasmo poteva darsi, sia pure nei limiti dell’essere umano, il libero arbitrio. Accanto al servo arbitrio, Lutero considerava come ineluttabile a una sorta di predestinazione del destino di ogni anima umana, sia pure mitigata dal sacrificio di Cristo, che è tale da poter salvare ogni anima che chieda la grazia. Martin Lutero: la Chiesa Giovanni Calvino La Chiesa, così come era intesa nella tradizione cattolica era dunque da Lutero scalzata da una nuova liturgia, anche se il cambiamento avvenne molto lentamente, mantenendosi a lungo i vecchi riti anche nelle aree dove il nuovo credo protestante stava affermandosi. Accanto a Lutero dobbiamo ricordare Jean Cauvin, o Giovanni Calvino (1509-1564), che fu anche più radicale di Lutero nel cambiamento, che egli guidò da Ginevra, sua città. Egli peraltro diede la maggiore sistemazione teorica alla Riforma con il suo trattato Christianae religionis institutio del 1536. Giordano Bruno I (1548-1600) Filippo Bruno, nato a Nola entrò a diciotto anni nell’ordine domenicano e prese il nome di Giordano. Studiò i platonici e gli aristotelici, ma da spirito ribelle, incorse presto nei rigori del sant’Uffizio. Riparò a Roma e poi in Liguria e a Lione e a Ginevra, dove si fece in qualche modo protestante e studiò teologia. Stette per due anni a Tolosa insegnando filosofia, e successivamente si stabilì a Parigi. Dove pubblicò Il candelaio e il De compendiosa architectura et complemento Artis Lulli. In Inghilterra pubblicò il Sigillus sigillorum e i dialoghi italiani: La cena delle ceneri, il De la causa, principio e uno, il De l’infinito, universo e mondi, lo Spaccio della bestia trionfante, e il De gli eroici furori. Giordano Bruno II Tornato a Parigi nel 1585, frate Giordano, riprese una vita raminga, a Magonza, Marburgo, Wittemberg, Praga, Francoforte sul Meno, Zurigo, e di nuovo a Francoforte dove pubblicò, tra le altre opere, il De immenso et innumerabilibus, seu de universo et mundis. Nel 1591, fidandosi della benevolenza papale tornò in Italia, a Venezia, ospite del nobile Giovanni Mocenigo, che invece lo denunziò all’Inquisizione. Fu arrestato nel 1592, e si disse pentito, ma ciò non valse a nulla, perché fu tradotto a Roma nel 1593. dopo otto anni di prigione, questa volta rifiutandosi di ritrattare, frate Giordano Bruno fu arso vivo a Roma, il 17 febbraio 1600 in Campo de’ Fiori. Giordano Bruno: la concezione copernicana dell’universo Frate Giordano non solo accettò le ipotesi cosmologiche di Copernico ma, basandosi anche sulle teorie di Cusano, propose la possibilità di infiniti mondi. Così la terra, distrutto il cosmo aristotelico, diviene un corpo celeste come tanti altri, in mondi infiniti e abitati. È superata la distinzione tra fisica celeste e fisica terrestre, ma soprattutto si è aperta all’uomo la vista su un universo infinito. L’intuizione di frate Giordano, oltre le ipotesi di Niccolò Copernico, è di una possibilità “dell’infinito universo e mondi”. Giordano Bruno: il problema dell’infinito Infinito per Bruno è il mondo, adeguato all’infinita potenza di Dio. Negare l’infinità del primo è negare l’infinità del Secondo, e quindi … Dio, per frate Giordano, è l’infinito Tutto, l’assolutamente Tutto in cui coincidono Potenza e Atto, assoluta Unità in cui gli Opposti si annullano. L’anima del mondo è intelletto universale che è causa efficiente dell’universo e dei diversi mondi. Cioè Dio, fabro del mondo. Tradizione magica, neoplatonica, avicennistica, averroistica, cusaniana, quasi tutte le teorie classiche si mediano e si mescolano nella sua visione. Giordano Bruno: la logica Se l’universo nella sua unità deve essere letto e concepito secondo la sua struttura, secondo Bruno va compreso nel processo che porta dalle ombre della verità alle idee che rispecchiano la sua struttura. I segni che rispecchiano le idee sono le basi dell’ars combinatoria di ascendenza lulliana, contrattopsta all’astrattezza della logica aristotelica e scolastica. L’arte combinatoria si congiunge con l’arte della memoria, la quale, risalendo dal molteplice ai più profondi princìpi, costruisce un sapere unitario e completo. Una concezione sostanzialmente platonica dell’universo, ove le strutture ideali che lo reggono sono le vere strutture della realtà. Giordano Bruno: etica e religione Bruno difende la bontà della natura e dell’opera dell’uomo. Questi, nei suoi eroici furori, liberato dalle passioni, tutto si converte verso Dio, diviene Dio. L’uomo dunque conquista la sua libertà, perché “comprende l’interna simmetria insita nelle cose e ha sentimento della divina armonia”. Vera religione è saper cogliere Dio dentro e dietro le parvenze del molteplice, giungendo alla radicale unità del tutto. Religione tutta filosofica quella di frate Giordano, radicalmente distinta dalle religioni storiche, compresa quella cristiana. Bruno non tralasciava l’esigenza di raccontare la religione tramite i miti scritturistici, ma … l’uomo deve poter … che cosa? … e la storia continua … se vogliamo proceder insieme anche il prossimo Anno Accademico, sperando e credendo che sarà possibile ripartire da chi venne dopo frate Giordano, che sacrificò se stesso. Allora incontreremo altri personaggi e idee, gli inglesi Bacon, Hobbes, Locke, Hume e Berkeley, il francese grandissimo Descartes e Pascal, il tedesco Leibniz, il portoghese ebreo olandese Spinoza, e i filosofi dell’Illuminismo: Voltaire, Montesquieu, Diderot, D’Alembert, Morelly, Rousseau, Vico, e poi il grande uomo dell’etica Immanuel Kant, e Schleiermacher, gli idealisti Hegel, Fichte e Schelling, e poi Schopenhauer, Feuerbach, Marx e Nietzsche; Comte, Kierkegaard, e Bergson. Heidegger, Husserl, Jaspers e Wittgenstein. Freud e Jung. Croce e Gentile. Non dimenticheremo Pareyson, Gadamer, Ricoeur … il padre Cornelio Fabro da Flumignano (Friuli), fino al nostro pensiero attuale …