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LA DONNA E L*AMORE

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LA DONNA E L*AMORE
Ciantelli Naomi
Gori Lucrezia
Okere Donna
Introduzione:
L’amore ha rappresentato uno dei temi fondamentali della poesia di tutti i
tempi e non c’è stato poeta che non l’abbia trattato.
Esse era visto come una forza crudele che travolgeva tutti i sentimenti
umani, ma era considerato anche in maniera più raffinata ed aristocratica ,
circondato di grazia.
Entrambe le tendenze furono assunto da alcuni poeti latini come Lucrezio,
che lo rappresentò drammaticamente violento, o come Catullo che invece lo
vedeva più in forma gentile.
Nella lirica dei poeti provenzali l’amore è assunto come tema dominante e
si tratta di un “ amore cortese”, un sentimento puro dell’anima rivolto ad una
donna irraggiungibile, un sentimento che racchiude in se il suo fine e che può
realizzarsi anche senza il contatto diretto con la donna amata.
L’amore educa ed esalta il cuore degli amanti e quanto più puro e
svincolato da rapporti fisici, tanto più nobile e appagante.
Gli stilnovisti portarono a perfezione il processo di spiritualizzazione del
sentimento dell’amore.
Essi sostengono che la nobiltà non è una virtù che si possa ereditare dagli
antenati, ma è una conquista personale.
Ed è il principio secondo il quale la donna può influire nel perfezionamento
morale dell’uomo amato.
La donna degli stilnovisti non vale tanto per la sua bellezza fisica, quanto
per le virtù che sprigiona dalla sua presenza,che abbassa l’orgoglio di chi la
guarda e rende mansueto anche l’uomo più iracondo.
L’amore per gli stilnovisti, è un sentimento profondo che si vive nell’intimo
della coscienza individuale e suscita nell’animo un’infinità di reazioni sia
gioiose che angosciose, che turbano la coscienza del poeta.
VITA AUTORE: Dante Alighieri nacque a
Firenze nel 1265 in una famiglia della
piccola nobiltà fiorentina . il suo primo e
più importante maestro di vita fu
Brunetto Latini che in quegli anni ebbe
una notevole influenza sulla vita politica
e sociale di Firenze. Dante nasce in un
ambiente cortese ed elegante, impara da
solo l’arte della poesia e conosce
importanti letterati come Guido
cavalcanti, Lapo Gianni e Ciro da Pistoia.
Ancora giovanissimo conobbe Beatrice, a
cui dante è legato da un amore profondo
e sublimato dalla spiritualità
stilnovistica. Beatrice muore nel 1290,
e questa data segna per Dante un
momento di crisi: l’amore per la giovane
donna si trasforma assumendo un valore
sempre più finalizzato all’impegno
morale, alla ricerca filosofica alla
passione per la verità e la giustizia che
infine portano Dante ad entrare
attivamente nella vita politica della
città. La sua carriera politica raggiunge
l’apice nel 1300 quando Dante , guelfo di
parte bianca, venne eletto priore;
egli è un politico moderato convinto che la
città dovesse essere liberata dalle
ingerenze del potere del papa.
L’anno successivo papa Bonifacio VIII
decise di far intervenire i francesi con
l’intenzione di far eliminare i guelfi bianchi
dalla scena politica; Dante perciò si reca
dal papa per convincerlo ad evitare
l’intervento, ma con ritardo. I francesi
erano già entrati a Firenze e il poeta fu
ingiustamente esiliato dalla città.
Per Dante l’esilio rappresenta un momento
di sofferenza e di dolore e al tempo
stesso uno stimolo per la sua produzione
letteraria e poetica: lontano da Firenze
egli può vedere in modo più nitido la
corruzione , l’egoismo , l’odio che
governano la vita politica, civile e morale.
La denuncia e il tentativo di indirizzare
l’uomo sulla diretta via ispira la nuova
poesia di Dante che prende forma nella
Divina Commedia.
Negli anni dell’esilio Dante viaggia per
l’Italia Settentrionale e Meridionale,
chiede ospitalità alle varie corti e
continua a sostenere le sue idee politiche
Negli ultimi anni visita la corte di Can
Grande della Scala , a Verona, e di Guido
Novello a Ravenna, dove muore nel 1321
LE OPERE:
1295 – vita nova:La sua nuova vita nasce dall’amore
del giovane Dante per Beatrice ed è una
raccolta delle poesie giovanili, collegate da parti
in prosa scritte tra il 1293 e il 1295. l’amore
non viene descritto nella sue forma sensibile e
terrena, ma come un sentimento che porta ad un
ideale di vita più alto.
1304-1306 – de vulgari eloquentia: con questo
trattato, scritto in latino, Dante vuole dare agli
scrittori delle regole sull’arte dell’uso
dell’italiano volgare.in tale opera il poeta apre
una questione linguistica molto importante;
ovvero se la lingua volgare può sostituire il
latino.
1304-1307-convivio:Dante scrive il convivio nei primi
anni dell’esilio, in lingua volgare, con lo scopo di
ricordare alle persone che governavano, che lo
studio della filosofia e il rispetto delle leggi
morali sono una condizione necessaria per la
convivenza degli uomini in società
1310-1313 – De monarchia: in questo trattato
scritto in latino, Dante affronta il tema a lui più
caro:quello politico. Per il poeta l’unica forma di
governo che possa assicurare la pace è la
monarchia, una monarchia universale che riflette
l’unicità e l’universalità del Regno di Dio.
Le rime: si tratta della raccolta , ordinata dai
posteri, dei componimenti che Dante scrive nel
corso della sua vita e che riflettono i temi ,
della filosofia , della politica , dell’amore
cortese , dell’esilio.
1306-1310 – la Divina Commedia: tale opera è il
capolavoro di Dante che racchiude tutta
l’esperienza della sua vita civile, umana, politica
e spirituale. È composta da tre cantiche,
ciascuna delle quali comprende 33 canti, scritte
in terzine di endecasillabi. Le tre cantiche ,
Inferno , Paradiso , Purgatorio vengono
completati in anni diversi.
Tanto gentil e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umilta' vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi si' piacente a chi la mira,
che da' per li occhi una dolcezza al
core,
che 'ntender non la puo' chi no la
prova;
e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.
tanto nobile interiormente e tanto degna
d'onore la mia signora, quando saluta
qualcuno, che la lingua di chi riceve tale saluto
ammutollisce e trema e gli occhi non osano
guardare.
Ella cammina, circondata da lodi, benevola e
umile, e sembra che sia una creatura scesa dal
Cielo sulla terra per compiere miracoli.
Appare così bella a chi la guarda che attraverso
gli occhi dà al cuore una dolcezza che può
essere compresa sola da chi la prova:
e sembra che dalle sua labbra provenga un
soffio dolce e pieno d'amore che dice all'anima
di sospirare
I TEMI DELLA POESIA:
è questa la poesia che viene considerata uno dei più alti esempi rappresentativi del Dolce Stilnovo dove Dante
descrive le virtù dell’amata e gli effetti che la sua apparizione suscita non solo nell’autore ma anche negli
altri:
il tema della prima strofa è il saluto che la donna rivolge quando passa per la via e suscita in chi la guarda un
profondo rispetto ì, tanto che ammutolisce e abbassa gli occhi.
Nella seconda strofa viene introdotto il tema della donna angelo
Nelle ultime due strofe il poeta analizza gli effetti beatificanti prodotti dalla sua apparizione.
Le virtù di Beatrice sono la gentilezza intesa nel senso di nobiltà d’animo, l’onestà e l’umiltà.
Tali virtù si manifestano attraverso l’apparizione e il saluto.
SINTASSI E LESSICO
Sul piano sintattico si nota il prevalere di proposizioni consecutive che sottolineano in modo lineare lo stretto
rapporto che intercorre tra le virtù della donna e gli effetti benefici che esse provocano.
Per la descrizione di Beatrice e dei suoi gesti sono riservate le proposizioni principali.
Sul piano lessicale una della parole chiave è “pare” che insieme a “mostrare” mette in risalto il pieno
manifestarsi delle virtù di Beatrice.
Il ritmo del sonetto è lento e solenne grazie all’organizzazione dei suoni all’interno del componimento e
all’usare parole con consonanti aspre e doppie.
FIGURE METRICHE
Anafore, anastrofi e similitudini.
: “ e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”
qui l’autore paragona la sua amata ad un angelo sceso, mandato dal cielo per mostrare un miracolo di Dio
Nasce a Genova il 12 ottobre del 1896. Trascorre
l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e Monterosso,
luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua
poesia. Di salute malferma, compie studi irregolari,
nutrendo una forte passione, oltre che per la
letteratura e la poesia, anche per il canto. Nel 1917
viene chiamato alle armi come ufficiale di fanteria.
Dopo la guerra stringe rapporti sia con gli scrittori
che a Genova frequentano il Caffè Diana in Galleria
Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia
con il gruppo torinese di Piero Gobetti, che negli anni
venti cerca di attuare una resistenza culturale al
fascismo, in opposizione al futurismo e al
dannunzianesimo. Nel 1925 pubblica, proprio per le
edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, e firma
il manifesto antifascista di Croce.
Sempre nel '25 esce sulla rivista milanese
«L'esame» l'articolo Omaggio a Italo Svevo, con cui
contribuisce in modo determinante alla scoperta dello
scrittore triestino, di cui negli anni successivi diviene
amico.. Nel 1927 raggiunge l'indipendenza economica
dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la
casa editrice Bemporad; e conosce Drusilla Tanzi,
moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che più
tardi diverrà sua compagna, ma che sposerà solo nel
1962.
Nel '29 è nominato direttore del Gabinetto
scientifico-letterario Vieusseux, dal quale incarico nel
‘38 verrà esonerato, avendo sempre rifiutato di
iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale è
uno dei principali animatori della vita intellettuale
fiorentina: frequenta il noto caffè degli ermetici Le
Giubbe Rosse, fa amicizia con i maggiori scrittori italiani
del tempo (Vittorini, Gadda) e inoltre allarga sempre più
i sui interessi alla cultura europea.
LE OPERE
Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca vive
attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto grazie ad
una varia attività di traduttore
Finita la guerra, si iscrive al partito d'azione, riceve un
incarico culturale dal Comitato Nazionale di Liberazione e
fonda, con Bonsanti e Loira, il quindicinale «Il Mondo». La
sua esperienza politica è tuttavia assai breve: le sue
aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea a
chiusure nazionali e provinciali, vengono fortemente deluse
dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo
e la sinistra filostalinista.
All'inizio del '48 la sua vita, fino ad allora così normale,
comincia a mutare. Si trasferisce infatti a Milano, dove
lavora come giornalista e critico letterario al «Corriere della
Sera» e al «Corriere d'Informazione». Pubblica sia una
nutrita serie di interventi di attualità culturale e politica che
tendono a sostenere una cultura borghese critica e razionale,
sia recensioni musicali (raccolte nel 1981 nel volume Prime
alla scala), reportages di viaggio in diversi paesi del mondo
(raccolti nel 1969 nel volume Fuori di casa) e numerosi brevi
racconti, la maggior parte dei quali costituiranno il volume
Farfalla di Dinard (1958).
Nel '56 esce la sua terza raccolta di poesie, per lo più
risalenti agli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra.
Negli anni Cinquanta e Sessanta viene considerato il più
grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e
liberale, tanto che riceverà diversi riconoscimenti culminanti
nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e nel 1975 nel
premio Nobel per la letteratura.
Ossi di seppia, dato alle stampe nel 1925, è il primo esempio di questo tipo di
poesia generata da un’emozione intima ed espressa attraverso
l’essenzialità degli oggetti e del linguaggio. Montale è una voce immersa
nel paesaggio, ma non direttamente partecipante alla vita, interrogata
attraverso segni, forme, suoni e movimenti, scanditi dal procedere del
tempo. La vita diventa così inafferrabile, vuota e reale, disgregandosi in
un continuo equilibrio con l’io e la sua distanza che si risolve in
angoscia e rovina.
Le occasioni, pubblicate nel 1939 da Einaudi, ridimensionano la riflessione
esistenziale della precedente poetica, la parola punta la sua attenzione
sugli oggetti, tralasciando qualsiasi aspetto meditativo e problematico
per concentrarsi sul susseguirsi di immagini nette, frutto anche di un
forte impatto di suoni, parole e frasi. La poetica diventa complicata,
ardua, impenetrabile, portatrice di un messaggio volutamente occulto,
mostrandosi, però, tesa alla ricerca del contatto con l’altro che diventa
una donna persa o irraggiungibile, o la lontananza del tempo e il suo
rievocare esperienze, oggetti e immagini sbiadite nella memoria e ormai
trascorse e intangibili.
La bufera e altro, passaggio dalla speranza della fine della guerra a un
dopoguerra angoscioso e sinistro diretto verso la fine della civiltà.
Satura raccolta uscita nel 1971,, di cui una parte era già stata pubblicata dieci
anni prima, e il suo influsso resterà tale anche nelle composizioni degli
ultimi anni, dove il poeta, sfuggendo al presente, osserva i dissensi, il
disordine e la confusione di una vita artefatta.è una raccolta di poesie
dedicate interamente alla moglie
Ho sceso, dandoti il braccio,
almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto
ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il
nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi
occorrono le coincidenze, le
prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi
crede
che la realtà sia quella che si
vede.
Ho sceso milioni di scale
dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi
forse si vede di più.
Con te le ho scese perché
sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene
tanto offuscate,
erano le tue
Ho sceso, aiutandoti e facendomi
aiutare, moltissime scale ed ora che
tu non ci sei mi sento sempre più
solo ed ogni gradino per me è vuoto.
Anche vivendo assieme a lungo
tempo, io sono infelice in quanto il
tempo passato con te e la nostra vita
insieme non sono durati abbastanza.
Il mio viaggio dura tuttora, e non mi
servono più le coincidenze dei treni,
le prenotazioni degli alberghi, i
viaggi, le umiliazioni della gente che
crede che la vita vera sia quella che
si vede.
Ho sceso moltissime scale aiutandoti
e facendomi aiutare, non perché con
quattro occhi si vede di più e meglio.
Le ho scese con te perché sapevo che
tra di noi, i veri occhi che vedevano
la realtà più profonda, anche se
indeboliti dalla miopia erano i tuoi
I TEMI DELLA POESIA
Il poeta traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità, ricordandone
l'accentuata miopia, il buon senso e la saggezza. Montale offriva alla moglie il braccio per scendere
le scale, metaforicamente condivideva con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita e ora,
rimasto solo, ne sente la mancanza.
Previdente ed accorta, era Mosca (il soprannome datole affettuosamente dal marito) a fargli da
guida e le sue pupille offuscate erano le uniche a vedere: era lei, cioè, a cogliere con gli occhi
dell'anima il senso profondo del reale. La miopia della moglie assume un significato particolare nel
momento in cui il poeta sottolinea la propria stanchezza esistenziale: vivendo con lei, egli ha
conquistato la capacità di vedere, non teme più gli inganni e gli insuccessi, e ora le preoccupazioni
della vita gli, appaiono trappole prive di significato. Attraverso la metafora del viaggio, Montale
ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si
percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni
(trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo.
LE CARATTERISTICHE E LA STRUTTURA
Il lessico. La lingua prosastica e quasi d'uso comune (coincidenze e prenotazioni sono immagini
legate alla metafora del viaggio) non è più spigolosa come nei testi giovanili, il registro linguistico è
semplice e colloquiale nell'evocare ricordi sollecitati dalle occasioni più disparate.
La trama fonica. La semplicità del linguaggio non esclude una sapiente struttura: la bipartizione delle
strofe è sottolineata dalla ripresa dello stesso verso con una variante (vv. 1, 8), i versi 5-6-7 sono
endecasillabi, le rime (crede/vede, due/tue) legano gli ultimi versi di ogni strofa, le assonanze creano
echi fonici tra le parole-chiave (scale/offuscate, viaggio/braccio).
Giacomo Leopardi è nato nel 1798 a Recanati,
un paesino dello Stato Pontificio, situato
lontano dai grandi centri abitati, motivo per
il quale le notizie giungevano in ritardo.
Leopardi crebbe in un’ atmosfera fredda e
cerimoniosa, poiché suo padre, il Conte
Monaldo, aveva impiegato gran parte del
patrimonio ereditato al fine di riempire la
propria biblioteca di migliaia di libri e poiché
sua madre, donna rigida e severa, lo aveva
sostituito in quelli che erano gli affari della
casa. Fin da piccolo era stato educato
secondo la consuetudine aristocratica, in casa
con i suoi fratelli da un precettore
ecclesiastico che ben presto non ebbe più
niente da insegnargli. Così continuò i suoi
studi da solo, trascorrendo le sue giornate
nella biblioteca del padre, dove, grazie ai
“suoi sette anni di studio matto e
disperatissimo”, come egli stesso definì e che
gli aggravarono la salute, imparò il greco e
l’ebraico.
È a questo periodo, 1811 – 1818, che risalgono le sue prime traduzioni ed i suoi primi
componimenti poetici. Intanto le sue convinzioni poetiche, filosofiche e politiche
maturano e con queste matura anche l’interesse di uscire dall’ambiente recanatese,
che aumenta maggiormente con la conoscenza di Pietro Giordani e con l’aggravarsi
della sua malattia agli occhi che non gli permetteva di leggere e di scrivere e che gli
aumenta il suo lato pessimista. Nonostante ciò, in questi anni compone gli “Idilli”
di cui fanno parte: “Alla sera”, “La sera del dì di festa”, “l’infinito”, “La vita solitaria” e
“Il sogno”. Poesie come fonti di medicina per la sua malattia. Nel 1822,la sua
voglia di allontanarsi da Recanati diventa realtà,e si stabilisce dagli zii materni a
Roma. Deluso torna alla sua città d’origine dove permane fino al 1824, anno della
stesura di “operette morali”, per poi ripartire un anno dopo, nel 1825, a Milano,
Bologna, Firenze e Pisa, soggiorni nei quali incontra molti intellettuali. Tornato a
Recanati ed accolto da un’atmosfera giovanile, compone: “A Silvia”, “Il sabato del
villaggio”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il passero solitario”, “Le ricordanze” e “Il
canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze dove si
innamora di tozzetti che non risponde a questo suo forte sentimento. Grazie a lui
compone “Ciclo di Aspasia”. Successivamente si trasferisce a Roma ed a Napoli dove
muore colto da un’epidemia di colera a causa dei mali che già possedeva.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Silvia, ricordi ancora
Quel tempo in cui eri in vita,
quando la bellezza rispendeva
nei tuoi pieni di allegria ed al tempo stesso schivi,
e tu lieta e pensierosa,
varcavi la soglia della giovinezza?
Risuonavano le silenziose
stanze e gli ambienti circostanti,
al tuo eterno canto
quando, occupata nei lavori domestici,
eri seduta, molto felice
per i bei sogni che avevi intenzione di fare.
Era il maggio profumato: e tu eri
solita trascorrere il giorno.
Io interrompendo i miei lavori letterali
fonti di diletto e di fatica
sui quali consumavo la mia giovinezza
e tutte le mie energie,
dai balconi della casa paterna
ascoltavo il suono della tua voce
ed il rumore prodotto dalla tua mano che
si muoveva velocemente per compiere un lavoro faticoso.
Contemplavo il cielo sereno
le vie illuminate dal sole ed i giardini,
e da una parte lontano vedevo il mare, dall’altra i monti.
Non è possibile esprimere a parole
quello che io ho provato nell’animo.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Che dolci pensieri,
che speranze, che sentimenti, oh mia Silvia!
Come ci sembravano belli e carichi di promesse
la vita ed il destino che ci attendevano!
Quando mi tornano alla mente tutte quelle speranze
un inconsolabile senso
di amarezza mi opprime,
e ricomincio a dolermi della mia sventura.
O natura, o natura
perché non mantieni nel’età adulta
quello che hai promesso nella giovinezza?
Perché inganni tanto i tuoi stessi figli?
Tu, prima che il freddo invernale facesse inaridire la
vegetazione
combattuta e sopraffatta da una malattia insidiosa
morivi, o giovane e fragile creatura. E non vedevi
il fiorire della tua gioventù;
non ti intenerivano il cuore
i dolci complimenti rivolti ora al tuoi capelli neri,
ora ai tuoi occhi pieni d’amore e capaci di suscitarlo;
né nei giorni di festa, scambiavi con le compagne
confidenze d’amore.
Poco dopo la tua morte
sarebbero crollate anche le mie dolci speranze giovanili:
anche a me il destino ha negato la giovinezza.
Ahi,
come sei invecchiata
compagna della mia giovinezza
o mia rimpianta speranze!
Questo che mi ritrovo davanti è quel mondo tanto
sognato? Sono questi i piaceri, l’amore, i progetti
le azioni di cui abbiamo parlato insieme,
o mia dolce speranza?
All’apparire della crudele verità,
tu, o infelice speranza, sei svanita: e con te la mano mi
indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba
spoglia ed abbandonata.
DA COSA è TRATTO: il testo è tratto da “Canti”, nome che Leopardi diede a quella
raccolta di liriche che pubblicò nel 1831 e che rifiutava ogni legge metrica.
ANNO DELLA COMPOSIZIONE: 1828
METRICA: canzone libera leopardiana.
Il componimento è costituito da sei strofe di diversa lunghezza nelle quali si
alternano, senza seguire un particolare schema, endecasillabi e settenari
variamente rimati.
GENERE LETTERARIO: Lirica di riflessione esistenziale.
Tale componimento poetico è una forma poetica soggettiva, al cui centro c’è l’io
dell’autore. La parola lirica deriva dal greco “lira”, strumento con il quale
venivano accompagnate queste stesure poetiche.
TEMI PRICIPALI E STRUTTURA:
Il canto presenta una struttura armonica ed equilibrata. È costituito da sei strofe, delle quali la prima è introduttiva, la seconda e la terza rievocano
la giovinezza di Silvia e del poerìta, la quarta funge da intermezzo fra passato e presente, la quinta e la sesta , anch’esse parallele, presentano la
morte fisica di Silvia e quella spirituale del poeta.
La prima strofa si apre con il nome Silvia e termina con la parola “salivi” che ne è lì anagramma. Essa non è altro che un’unica domanda che il poeta
rivolge a Silvia, nome che vuole esprimere la sua partecipazione alla dolorosa vicenda della ragazza. Di lei viene messo in risalto un solo
particolare fisico: lo sguardo luminoso e schivo che ne sottolinea la spensieratezza.
La seconda strofa descrive la vita di Silvia e la ritrae, sullo sfondo di una primavera bella e profumata, nel momento di spensieratezza in cui pensa al
suo lieto e futuro avvenire.
La terza strofa è in parallelo con la precedente ed in essa viene descritta la vita del poeta tra gli studi ed i piaceri, tra cui vi è il rapporto con la
fanciulla, sottolineato dal suo canto che dalla finestra in cui lavorava giungeva al balcone del poeta.
La quarta strofa segna la svolta dalla gioia al dolore, dalle speranze alla delusione ed il tono evocativo si trasforma in tono polemico nei
confronti della natura che delude sempre le aspettative dell’uomo. Attraverso le rime viene sottolineato quanto essa sia responsabile del dolore
umano. Non vi è più contemplazione del sogno, bensì la fine delle speranze.
La quinta e la sesta strofa corrispondono perfettamente alla seconda ed alla terza, ma ne capovolgono la tematica. In essa vengono rappresentate
la morte fisica di Silvia e quella spirituale del poeta. Silvia, stroncata dalla malattia non poté godere della gioia che scaturisce dallo stare insieme
agli altri e dal condividere turbamenti ed e mozioni, mentre il poeta ha visto crollare tutti i suoi sogni.
SINTASSI E LESSICO:
nella lirica ci sono due toni dominanti: quello polemico e quello evocativo. Nel primo prevalgono
periodi brevi, spezzati e vi si affollano periodi retoriche, anafore e proposizione esclamative; mentre
nel secondo prevalgono periodi lunghi, ricchi di subordinate il cui ritmo è rallentato dall’utilizzo di
coppie di aggettivi. Il lessico poggia su una base linguistica che non discosta molto dall’uso. Ci
sono parole dotte, antiche ed in disuso, ed altre che danno un senso di vastità, come “vago”,
“mirava” e “da lungi”. Fra quest’ultime merita particolare attenzione l’aggettivo “vago” che nel
contesto in cui si trova può assumere vari significati, come: bello, indefinito, vagheggiato e
desiderato. Mentre nelle prime bisogna notare la parola “giovinezza” dove la a la fa apparire più
lontana,luminosa ed irrimediabilmente perduta. Insieme a “gioventù”, “giovinezza”, e “natura”,
“spema” è una delle parole chiave di questa lirica e non è un caso che i tre temi principali siano
proprio questi.
SILVIA: PERSONAGGIO REALE:
Silvia, la figura cantata da Leopardi, è un
personaggio realmente esistito. Si tratta di Teresa
Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi,
morta nel 1818 a soli ventun’anni. Nella lirica ci
appare come una donna reale, che lavora al
telaio, canta e sogna tutte le cose che sarebbero
potute avvenire se la morte non l’avesse avvolta e
portata con sé. Questa immagine ci viene
rafforzata dalla sua descrizione fisica: “ le negre
chiome”, “gli occhi ridenti e fuggitivi”, “gli sguardi
innamorati e schivi”, ma allo stesso tempo ci viene
contrastata dall’immagine evanescente e
simbolica che Silvia assume nella prima strofa,
quando varca il limite della gioventù e
nell’ultima, dove si trasfigura nella speranza.
Speranza che si sovrappone alla figura di Silvia,
perché sono legate da precise simmetrie: ad
entrambe il poeta si rivolge con un’esclamazione,
le loro morti sono espresse in modi simili e perché
i sogni che legano Silvia e il poeta erano simili a
quelli che lo legavano con la speranza.
Giovanni Pascoli è il poeta che ha segnato il passaggio dall’Ottocento al
Novecento e che ha dato via alla poesia moderna. Egli è nato a San Mauro
di Romagna nel 1855, quarto di dieci figli, e fin dalla fanciullezza ha goduto
di un certo benessere e di una certa tranquillità, fino al 10 agosto 1867,
quando suo padre, Ruggero Pascoli, venne ucciso misteriosamente. Le cause e
gli ideatori di questo assassinio non vennero mai scoperti, ed è anche per
questo motivo che l’animo di Pascoli per tutta la vita fu segnato da un senso
incancellabile che lo condizionò nelle sue scelte, e che possiamo ritrovare
anche in numerose poesie che trattano questo tema. Di lì a poco anche altri
lutti colpirono la famiglia: morirono la sorella, la madre e due dei suoi
fratelli. Nonostante le difficoltà economiche, continuò i suoi studi e si iscrisse
alla facoltà di lettere all’Università di Bologna che poté frequentare grazie
ad una borsa di studio. Durante gli anni universitari seguì con interesse le
lezioni di Carducci e si accostò agli ideali del socialismo. Nel 1879 venne
arrestato per aver partecipato ad una manifestazione in favore dell’anarchia e
successivamente, laureatosi nel 1882, iniziò la carriera come professore di
latino e di greco. Avendo ottenuto una sicurezza economica, acquistò una casa
a Castelvecchio di Barga, dove riunì il nido familiare, uno dei temi delle sue
liriche. Avend compiuto studi anche come poeta, nel 1891 pubblicò le sue prime
raccolte di liriche: “Poemetti”, “Canti di Castelvecchio”, “Poemi conviviali” e
“Myricae”. Passato all’insegnamento universitario, ricoprì la cattedra di
letteratura latina, prima all’università di Messina, poi a quella di Pisa e di
Bologna, ed infine sostituì Carducci che si era ritirato dall’insegnamento. A
questo periodo risalgono “Odi e Inni”, “Poemi italici”, “Poemi del
Risorgimento” e “Carmina”, una raccolta di poesie latine. Nel 1908 si ammalò
gravemente e morì nel 1912 a Bologna.
Mi son seduto su la panchetta
come una volta ... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'e' stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pieta'.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?
Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a se'.
Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: Perche' non suona
dunque l'arguto pettine piu'?
Ella mi fissa timida e buona:
Perche' non suona?
E piange, piange — Mio dolce amore,
non t'hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! Si', morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so:
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormiro'.
Mi sono seduto su una panchetta (del
telaio)
Come una volta … quanti anni fa?
La tessitrice, come allora, gli fa posto
Sulla panchetta.
Lei non parla, ma ha un sorriso di dolce
commiserazione
Sia per sé, sia per il poeta;
e la sua mano bianca non regge la spola.
Piango, e le dico: come ho potuto,
dolce mio bene, partire da te?
Lei piange, e con in cenno muto mi dice:
come hai potuto?
Con un sospiro tira a sé
La cassa che contiene il pettine
Cambia la spola, passa e ripassa
Piango, e le chiedo: perché il rumoroso
pettine
Non suona più?
Lei mi guarda attentamente timida e
tranquilla:
perché non suona?
E lei piange, e piange- mio dolce amore
Non te lo hanno detto? Non lo sai?
Io sono viva soltanto nel tuo cuore.
Morta! Sono morta! Se io tesso, tesso
Soltanto per te; non so come:
in questa tela nuziale, sotto il cipresso,
dormiremo vicini quando morirai.
Nato ad Arezzo il 20 Luglio 1304,
fanciullo, dovette seguire il padre Ser
Petracco, notaio fiorentino bandito da Firenze
per le sue idee politiche, ad Avignone, allora
sede pontificia. Presso la vicina università di
Montpellier inizio, su richiesta del padre, lo
studio delle materie giuridiche che
prosegui presso l'università di Bologna. Presso
quest'ultima università ebbe tra i suoi
professori di Legge quello che sarebbe
divenuto un suo futuro maestro di poesia: Cino
da Pistoia. Ben presto si accorse però che le
materie giuridiche non erano fatte per lui
e abbandonate quelle discipline si appassionò
allo studio di Cicerone e dei poeti antichi . A
Bologna tra gli studi e i divertimenti che
Francesco non disdegnava coltivò numerose
amicizie tra cui quella con il principe romano
Giacomo Colonna.
Nel 1326 la morte del padre richiamò
Francesco, unitamente al fratello Gherardo, ad
Avignone dove i due fratelli constatarono che
l'eredità del padre non gli avrebbe consentito
di vivere ancora per molto senza trovarsi una
sistemazione. Il fratello Gherardo entrò più
tardi nell' ordine minore dei certosini e forse
anche Francesco abbracciò tale ordine.
Il ritorno ad Avignone venne caratterizzato
dall'incontro di Francesco con quella che sarebbe
divenuta l'ispiratrice di tutte le sue liriche d'amore.
Era il Venerdì Santo del 1327 quando il poeta
vide nella chiesa di Santa Chiara Laura la donna
che amerà per tutta la vita. L'amore di Francesco
per Laura, già sposata da due anni con Ugo de
Sade, fu unico e prosegui anche dopo la sua morte
che avvenne, a causa della peste, nel 1348.
Nel 1330, come cappellano, entrò al servizio della
famiglia Colonna. L'occupazione gli diede
l'occasione di viaggiare per la Francia, le Fiandre e
la Germania. Venne accolto dai Signori
che allora dominavano le città italiane conoscendo
tra i più illustri letterati e poeti del tempo. Durante
questi viaggi, da relazioni superficiali, gli
nacquero i due figli Giovanni (1337) e Francesca
(1343).
Il 1 Settembre del 1340 mentre si trovava in ritiro
a Valchiria, a poche miglia da Avignone, venne,
informato da parte del Senato Romano e
dell'Ateneo di Parigi dell' offerta a essere
incoronato Poeta. Scelse, forse per vanità, l'invito
di Roma e dopo essere stato esaminato
solennemente, per tre giorni, a Napoli dal re
Roberto d'Angiò, nel giorno di Pasqua del 1341
venne cinto dalla corona di Poeta in Campidoglio.
Dal 1353 visse in Italia a Milano e in seguito a
Venezia e Padova per stabilirsi infine ad Arquà, sui
colli Euganei, dove morì il 19 Luglio 1374.
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
I suoi capelli biondi erano mossi al vento
il quale li avvolgeva in mille dolci riccioli,
e la luce ammaliante dei suoi occhi belli,
che ora è diminuita (a causa del tempo
che passa), splendeva in modo
straordinario; e mi sembrava, non so se
fosse realtà o illusione, che il suo viso si
atteggiasse a pietà: io che ero pronto
all'amore, c'è da meravigliarsi se
m'innamorai subito? Il suo portamento
non era cosa mortale, ma aspetto
d'angelo, e le parole suonavano
diversamente da voce umana; uno spirito
celeste, un vivo sole fu quel che vidi, e
anche se ora non fosse tale, una ferita
non si rimargina tendendo di meno l'arco.
Giambattista Marino nacque a
Napoli il 14 ottobre 1569. Costretto
dal padre giurista agli studi di
legge, nonostante la sua forte
inclinazione per le lettere, fu spinto
ad andarsene di casa per il suo
comportamento provocatorio e
insubordinato. Nel 1596, entrato in
contatto con gli ambienti letterari
della città, diventò segretario di
Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu incarcerato per avere
sedotto la figlia di un facoltoso
mercante, morta di aborto. Fu
incarcerato una seconda volta
l'anno dopo per avere tentato di
salvare dalla pena capitale un
amico facendolo passare per chierico
con bolle vescovili falsificate.
Fuggito a Roma, entrò al servizio di
Melchiorre Crescenzio, chierico di
camera di papa Clemente VIII,
partecipando alla vita letteraria
della città.
Dopo un soggiorno veneziano (tra il 1602
e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio
del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote
di Clemente VIII, che seguì nel 1606
nella sede vescovile di Ravenna e nel
1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo
Emanuele I di Savoia, ottenne i primi
grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in
conflitto con il poeta Gaspare Murtola,
che, invidioso dei suoi successi, arrivò a
sparargli nella pubblica via. Marino
rimase illeso, ma un giovane fu ferito al
suo posto. Murtola dovette pagare con
l'arresto e l'allontanamento dal
Piemonte, ma lo stesso Marino, per
ragioni non ben chiarite, riprovò l'onta del
carcere, da cui uscì solo nel giugno del
1612.
Nel 1615 Maria de' Medici, la vedova di
Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia,
dove, cullandosi tra gli onori e gli agi
ricercati per tutta una vita, Marino
riordinò e concluse la sua produzione
poetica. Nel 1623, nostalgico, ammalato e
stanco della vita di corte, tornò a Roma,
dove fu accolto trionfalmente ed eletto
Principe dell'Accademia degli Umoristi.
Nel 1624 si trasferì a Napoli, dove morì il
25 marzo 1625.
Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori preziosi e quelli;
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr delle rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poich’almen fur, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ‘l golfo d’oro!
I capelli sono come onde dorate, che una
navicella d'avorio sta solcando; una
mano bianca come l'avorio la conduce
attraverso quelle preziose e disordinate
ciocche di capelli.
Mentre la navicella crea dei solchi
attraverso i capelli, l'Amore raccoglie
l'oro di quelli spezzati, per formare
catene per coloro i quali non sono
abbagliati dalla sua bellezza.
Il cuore del poeta muore alla vista di
questo mare dorato, che mostra il suo
biondo tesoro.
Il naufragio in cui l'autore sta morendo è
prezioso, perché durante la sua tempesta
lo scoglio è di diamante e il golfo d'oro.
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