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LA DONNA E L*AMORE
Ciantelli Naomi Gori Lucrezia Okere Donna Introduzione: L’amore ha rappresentato uno dei temi fondamentali della poesia di tutti i tempi e non c’è stato poeta che non l’abbia trattato. Esse era visto come una forza crudele che travolgeva tutti i sentimenti umani, ma era considerato anche in maniera più raffinata ed aristocratica , circondato di grazia. Entrambe le tendenze furono assunto da alcuni poeti latini come Lucrezio, che lo rappresentò drammaticamente violento, o come Catullo che invece lo vedeva più in forma gentile. Nella lirica dei poeti provenzali l’amore è assunto come tema dominante e si tratta di un “ amore cortese”, un sentimento puro dell’anima rivolto ad una donna irraggiungibile, un sentimento che racchiude in se il suo fine e che può realizzarsi anche senza il contatto diretto con la donna amata. L’amore educa ed esalta il cuore degli amanti e quanto più puro e svincolato da rapporti fisici, tanto più nobile e appagante. Gli stilnovisti portarono a perfezione il processo di spiritualizzazione del sentimento dell’amore. Essi sostengono che la nobiltà non è una virtù che si possa ereditare dagli antenati, ma è una conquista personale. Ed è il principio secondo il quale la donna può influire nel perfezionamento morale dell’uomo amato. La donna degli stilnovisti non vale tanto per la sua bellezza fisica, quanto per le virtù che sprigiona dalla sua presenza,che abbassa l’orgoglio di chi la guarda e rende mansueto anche l’uomo più iracondo. L’amore per gli stilnovisti, è un sentimento profondo che si vive nell’intimo della coscienza individuale e suscita nell’animo un’infinità di reazioni sia gioiose che angosciose, che turbano la coscienza del poeta. VITA AUTORE: Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265 in una famiglia della piccola nobiltà fiorentina . il suo primo e più importante maestro di vita fu Brunetto Latini che in quegli anni ebbe una notevole influenza sulla vita politica e sociale di Firenze. Dante nasce in un ambiente cortese ed elegante, impara da solo l’arte della poesia e conosce importanti letterati come Guido cavalcanti, Lapo Gianni e Ciro da Pistoia. Ancora giovanissimo conobbe Beatrice, a cui dante è legato da un amore profondo e sublimato dalla spiritualità stilnovistica. Beatrice muore nel 1290, e questa data segna per Dante un momento di crisi: l’amore per la giovane donna si trasforma assumendo un valore sempre più finalizzato all’impegno morale, alla ricerca filosofica alla passione per la verità e la giustizia che infine portano Dante ad entrare attivamente nella vita politica della città. La sua carriera politica raggiunge l’apice nel 1300 quando Dante , guelfo di parte bianca, venne eletto priore; egli è un politico moderato convinto che la città dovesse essere liberata dalle ingerenze del potere del papa. L’anno successivo papa Bonifacio VIII decise di far intervenire i francesi con l’intenzione di far eliminare i guelfi bianchi dalla scena politica; Dante perciò si reca dal papa per convincerlo ad evitare l’intervento, ma con ritardo. I francesi erano già entrati a Firenze e il poeta fu ingiustamente esiliato dalla città. Per Dante l’esilio rappresenta un momento di sofferenza e di dolore e al tempo stesso uno stimolo per la sua produzione letteraria e poetica: lontano da Firenze egli può vedere in modo più nitido la corruzione , l’egoismo , l’odio che governano la vita politica, civile e morale. La denuncia e il tentativo di indirizzare l’uomo sulla diretta via ispira la nuova poesia di Dante che prende forma nella Divina Commedia. Negli anni dell’esilio Dante viaggia per l’Italia Settentrionale e Meridionale, chiede ospitalità alle varie corti e continua a sostenere le sue idee politiche Negli ultimi anni visita la corte di Can Grande della Scala , a Verona, e di Guido Novello a Ravenna, dove muore nel 1321 LE OPERE: 1295 – vita nova:La sua nuova vita nasce dall’amore del giovane Dante per Beatrice ed è una raccolta delle poesie giovanili, collegate da parti in prosa scritte tra il 1293 e il 1295. l’amore non viene descritto nella sue forma sensibile e terrena, ma come un sentimento che porta ad un ideale di vita più alto. 1304-1306 – de vulgari eloquentia: con questo trattato, scritto in latino, Dante vuole dare agli scrittori delle regole sull’arte dell’uso dell’italiano volgare.in tale opera il poeta apre una questione linguistica molto importante; ovvero se la lingua volgare può sostituire il latino. 1304-1307-convivio:Dante scrive il convivio nei primi anni dell’esilio, in lingua volgare, con lo scopo di ricordare alle persone che governavano, che lo studio della filosofia e il rispetto delle leggi morali sono una condizione necessaria per la convivenza degli uomini in società 1310-1313 – De monarchia: in questo trattato scritto in latino, Dante affronta il tema a lui più caro:quello politico. Per il poeta l’unica forma di governo che possa assicurare la pace è la monarchia, una monarchia universale che riflette l’unicità e l’universalità del Regno di Dio. Le rime: si tratta della raccolta , ordinata dai posteri, dei componimenti che Dante scrive nel corso della sua vita e che riflettono i temi , della filosofia , della politica , dell’amore cortese , dell’esilio. 1306-1310 – la Divina Commedia: tale opera è il capolavoro di Dante che racchiude tutta l’esperienza della sua vita civile, umana, politica e spirituale. È composta da tre cantiche, ciascuna delle quali comprende 33 canti, scritte in terzine di endecasillabi. Le tre cantiche , Inferno , Paradiso , Purgatorio vengono completati in anni diversi. Tanto gentil e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umilta' vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi si' piacente a chi la mira, che da' per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender non la puo' chi no la prova; e par che de la sua labbia si mova uno spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: Sospira. tanto nobile interiormente e tanto degna d'onore la mia signora, quando saluta qualcuno, che la lingua di chi riceve tale saluto ammutollisce e trema e gli occhi non osano guardare. Ella cammina, circondata da lodi, benevola e umile, e sembra che sia una creatura scesa dal Cielo sulla terra per compiere miracoli. Appare così bella a chi la guarda che attraverso gli occhi dà al cuore una dolcezza che può essere compresa sola da chi la prova: e sembra che dalle sua labbra provenga un soffio dolce e pieno d'amore che dice all'anima di sospirare I TEMI DELLA POESIA: è questa la poesia che viene considerata uno dei più alti esempi rappresentativi del Dolce Stilnovo dove Dante descrive le virtù dell’amata e gli effetti che la sua apparizione suscita non solo nell’autore ma anche negli altri: il tema della prima strofa è il saluto che la donna rivolge quando passa per la via e suscita in chi la guarda un profondo rispetto ì, tanto che ammutolisce e abbassa gli occhi. Nella seconda strofa viene introdotto il tema della donna angelo Nelle ultime due strofe il poeta analizza gli effetti beatificanti prodotti dalla sua apparizione. Le virtù di Beatrice sono la gentilezza intesa nel senso di nobiltà d’animo, l’onestà e l’umiltà. Tali virtù si manifestano attraverso l’apparizione e il saluto. SINTASSI E LESSICO Sul piano sintattico si nota il prevalere di proposizioni consecutive che sottolineano in modo lineare lo stretto rapporto che intercorre tra le virtù della donna e gli effetti benefici che esse provocano. Per la descrizione di Beatrice e dei suoi gesti sono riservate le proposizioni principali. Sul piano lessicale una della parole chiave è “pare” che insieme a “mostrare” mette in risalto il pieno manifestarsi delle virtù di Beatrice. Il ritmo del sonetto è lento e solenne grazie all’organizzazione dei suoni all’interno del componimento e all’usare parole con consonanti aspre e doppie. FIGURE METRICHE Anafore, anastrofi e similitudini. : “ e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare” qui l’autore paragona la sua amata ad un angelo sceso, mandato dal cielo per mostrare un miracolo di Dio Nasce a Genova il 12 ottobre del 1896. Trascorre l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua poesia. Di salute malferma, compie studi irregolari, nutrendo una forte passione, oltre che per la letteratura e la poesia, anche per il canto. Nel 1917 viene chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Dopo la guerra stringe rapporti sia con gli scrittori che a Genova frequentano il Caffè Diana in Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di Piero Gobetti, che negli anni venti cerca di attuare una resistenza culturale al fascismo, in opposizione al futurismo e al dannunzianesimo. Nel 1925 pubblica, proprio per le edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, e firma il manifesto antifascista di Croce. Sempre nel '25 esce sulla rivista milanese «L'esame» l'articolo Omaggio a Italo Svevo, con cui contribuisce in modo determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni successivi diviene amico.. Nel 1927 raggiunge l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la casa editrice Bemporad; e conosce Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che più tardi diverrà sua compagna, ma che sposerà solo nel 1962. Nel '29 è nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, dal quale incarico nel ‘38 verrà esonerato, avendo sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale è uno dei principali animatori della vita intellettuale fiorentina: frequenta il noto caffè degli ermetici Le Giubbe Rosse, fa amicizia con i maggiori scrittori italiani del tempo (Vittorini, Gadda) e inoltre allarga sempre più i sui interessi alla cultura europea. LE OPERE Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca vive attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto grazie ad una varia attività di traduttore Finita la guerra, si iscrive al partito d'azione, riceve un incarico culturale dal Comitato Nazionale di Liberazione e fonda, con Bonsanti e Loira, il quindicinale «Il Mondo». La sua esperienza politica è tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, vengono fortemente deluse dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo e la sinistra filostalinista. All'inizio del '48 la sua vita, fino ad allora così normale, comincia a mutare. Si trasferisce infatti a Milano, dove lavora come giornalista e critico letterario al «Corriere della Sera» e al «Corriere d'Informazione». Pubblica sia una nutrita serie di interventi di attualità culturale e politica che tendono a sostenere una cultura borghese critica e razionale, sia recensioni musicali (raccolte nel 1981 nel volume Prime alla scala), reportages di viaggio in diversi paesi del mondo (raccolti nel 1969 nel volume Fuori di casa) e numerosi brevi racconti, la maggior parte dei quali costituiranno il volume Farfalla di Dinard (1958). Nel '56 esce la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra. Negli anni Cinquanta e Sessanta viene considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e liberale, tanto che riceverà diversi riconoscimenti culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura. Ossi di seppia, dato alle stampe nel 1925, è il primo esempio di questo tipo di poesia generata da un’emozione intima ed espressa attraverso l’essenzialità degli oggetti e del linguaggio. Montale è una voce immersa nel paesaggio, ma non direttamente partecipante alla vita, interrogata attraverso segni, forme, suoni e movimenti, scanditi dal procedere del tempo. La vita diventa così inafferrabile, vuota e reale, disgregandosi in un continuo equilibrio con l’io e la sua distanza che si risolve in angoscia e rovina. Le occasioni, pubblicate nel 1939 da Einaudi, ridimensionano la riflessione esistenziale della precedente poetica, la parola punta la sua attenzione sugli oggetti, tralasciando qualsiasi aspetto meditativo e problematico per concentrarsi sul susseguirsi di immagini nette, frutto anche di un forte impatto di suoni, parole e frasi. La poetica diventa complicata, ardua, impenetrabile, portatrice di un messaggio volutamente occulto, mostrandosi, però, tesa alla ricerca del contatto con l’altro che diventa una donna persa o irraggiungibile, o la lontananza del tempo e il suo rievocare esperienze, oggetti e immagini sbiadite nella memoria e ormai trascorse e intangibili. La bufera e altro, passaggio dalla speranza della fine della guerra a un dopoguerra angoscioso e sinistro diretto verso la fine della civiltà. Satura raccolta uscita nel 1971,, di cui una parte era già stata pubblicata dieci anni prima, e il suo influsso resterà tale anche nelle composizioni degli ultimi anni, dove il poeta, sfuggendo al presente, osserva i dissensi, il disordine e la confusione di una vita artefatta.è una raccolta di poesie dedicate interamente alla moglie Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue Ho sceso, aiutandoti e facendomi aiutare, moltissime scale ed ora che tu non ci sei mi sento sempre più solo ed ogni gradino per me è vuoto. Anche vivendo assieme a lungo tempo, io sono infelice in quanto il tempo passato con te e la nostra vita insieme non sono durati abbastanza. Il mio viaggio dura tuttora, e non mi servono più le coincidenze dei treni, le prenotazioni degli alberghi, i viaggi, le umiliazioni della gente che crede che la vita vera sia quella che si vede. Ho sceso moltissime scale aiutandoti e facendomi aiutare, non perché con quattro occhi si vede di più e meglio. Le ho scese con te perché sapevo che tra di noi, i veri occhi che vedevano la realtà più profonda, anche se indeboliti dalla miopia erano i tuoi I TEMI DELLA POESIA Il poeta traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità, ricordandone l'accentuata miopia, il buon senso e la saggezza. Montale offriva alla moglie il braccio per scendere le scale, metaforicamente condivideva con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita e ora, rimasto solo, ne sente la mancanza. Previdente ed accorta, era Mosca (il soprannome datole affettuosamente dal marito) a fargli da guida e le sue pupille offuscate erano le uniche a vedere: era lei, cioè, a cogliere con gli occhi dell'anima il senso profondo del reale. La miopia della moglie assume un significato particolare nel momento in cui il poeta sottolinea la propria stanchezza esistenziale: vivendo con lei, egli ha conquistato la capacità di vedere, non teme più gli inganni e gli insuccessi, e ora le preoccupazioni della vita gli, appaiono trappole prive di significato. Attraverso la metafora del viaggio, Montale ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo. LE CARATTERISTICHE E LA STRUTTURA Il lessico. La lingua prosastica e quasi d'uso comune (coincidenze e prenotazioni sono immagini legate alla metafora del viaggio) non è più spigolosa come nei testi giovanili, il registro linguistico è semplice e colloquiale nell'evocare ricordi sollecitati dalle occasioni più disparate. La trama fonica. La semplicità del linguaggio non esclude una sapiente struttura: la bipartizione delle strofe è sottolineata dalla ripresa dello stesso verso con una variante (vv. 1, 8), i versi 5-6-7 sono endecasillabi, le rime (crede/vede, due/tue) legano gli ultimi versi di ogni strofa, le assonanze creano echi fonici tra le parole-chiave (scale/offuscate, viaggio/braccio). Giacomo Leopardi è nato nel 1798 a Recanati, un paesino dello Stato Pontificio, situato lontano dai grandi centri abitati, motivo per il quale le notizie giungevano in ritardo. Leopardi crebbe in un’ atmosfera fredda e cerimoniosa, poiché suo padre, il Conte Monaldo, aveva impiegato gran parte del patrimonio ereditato al fine di riempire la propria biblioteca di migliaia di libri e poiché sua madre, donna rigida e severa, lo aveva sostituito in quelli che erano gli affari della casa. Fin da piccolo era stato educato secondo la consuetudine aristocratica, in casa con i suoi fratelli da un precettore ecclesiastico che ben presto non ebbe più niente da insegnargli. Così continuò i suoi studi da solo, trascorrendo le sue giornate nella biblioteca del padre, dove, grazie ai “suoi sette anni di studio matto e disperatissimo”, come egli stesso definì e che gli aggravarono la salute, imparò il greco e l’ebraico. È a questo periodo, 1811 – 1818, che risalgono le sue prime traduzioni ed i suoi primi componimenti poetici. Intanto le sue convinzioni poetiche, filosofiche e politiche maturano e con queste matura anche l’interesse di uscire dall’ambiente recanatese, che aumenta maggiormente con la conoscenza di Pietro Giordani e con l’aggravarsi della sua malattia agli occhi che non gli permetteva di leggere e di scrivere e che gli aumenta il suo lato pessimista. Nonostante ciò, in questi anni compone gli “Idilli” di cui fanno parte: “Alla sera”, “La sera del dì di festa”, “l’infinito”, “La vita solitaria” e “Il sogno”. Poesie come fonti di medicina per la sua malattia. Nel 1822,la sua voglia di allontanarsi da Recanati diventa realtà,e si stabilisce dagli zii materni a Roma. Deluso torna alla sua città d’origine dove permane fino al 1824, anno della stesura di “operette morali”, per poi ripartire un anno dopo, nel 1825, a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, soggiorni nei quali incontra molti intellettuali. Tornato a Recanati ed accolto da un’atmosfera giovanile, compone: “A Silvia”, “Il sabato del villaggio”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il passero solitario”, “Le ricordanze” e “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze dove si innamora di tozzetti che non risponde a questo suo forte sentimento. Grazie a lui compone “Ciclo di Aspasia”. Successivamente si trasferisce a Roma ed a Napoli dove muore colto da un’epidemia di colera a causa dei mali che già possedeva. Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi? Sonavan le quiete stanze, e le vie d'intorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Silvia, ricordi ancora Quel tempo in cui eri in vita, quando la bellezza rispendeva nei tuoi pieni di allegria ed al tempo stesso schivi, e tu lieta e pensierosa, varcavi la soglia della giovinezza? Risuonavano le silenziose stanze e gli ambienti circostanti, al tuo eterno canto quando, occupata nei lavori domestici, eri seduta, molto felice per i bei sogni che avevi intenzione di fare. Era il maggio profumato: e tu eri solita trascorrere il giorno. Io interrompendo i miei lavori letterali fonti di diletto e di fatica sui quali consumavo la mia giovinezza e tutte le mie energie, dai balconi della casa paterna ascoltavo il suono della tua voce ed il rumore prodotto dalla tua mano che si muoveva velocemente per compiere un lavoro faticoso. Contemplavo il cielo sereno le vie illuminate dal sole ed i giardini, e da una parte lontano vedevo il mare, dall’altra i monti. Non è possibile esprimere a parole quello che io ho provato nell’animo. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore. Anche perìa fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovinezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova, mia lacrimata speme! Questo è il mondo? questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi, onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte delle umane genti? All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano. Che dolci pensieri, che speranze, che sentimenti, oh mia Silvia! Come ci sembravano belli e carichi di promesse la vita ed il destino che ci attendevano! Quando mi tornano alla mente tutte quelle speranze un inconsolabile senso di amarezza mi opprime, e ricomincio a dolermi della mia sventura. O natura, o natura perché non mantieni nel’età adulta quello che hai promesso nella giovinezza? Perché inganni tanto i tuoi stessi figli? Tu, prima che il freddo invernale facesse inaridire la vegetazione combattuta e sopraffatta da una malattia insidiosa morivi, o giovane e fragile creatura. E non vedevi il fiorire della tua gioventù; non ti intenerivano il cuore i dolci complimenti rivolti ora al tuoi capelli neri, ora ai tuoi occhi pieni d’amore e capaci di suscitarlo; né nei giorni di festa, scambiavi con le compagne confidenze d’amore. Poco dopo la tua morte sarebbero crollate anche le mie dolci speranze giovanili: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahi, come sei invecchiata compagna della mia giovinezza o mia rimpianta speranze! Questo che mi ritrovo davanti è quel mondo tanto sognato? Sono questi i piaceri, l’amore, i progetti le azioni di cui abbiamo parlato insieme, o mia dolce speranza? All’apparire della crudele verità, tu, o infelice speranza, sei svanita: e con te la mano mi indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia ed abbandonata. DA COSA è TRATTO: il testo è tratto da “Canti”, nome che Leopardi diede a quella raccolta di liriche che pubblicò nel 1831 e che rifiutava ogni legge metrica. ANNO DELLA COMPOSIZIONE: 1828 METRICA: canzone libera leopardiana. Il componimento è costituito da sei strofe di diversa lunghezza nelle quali si alternano, senza seguire un particolare schema, endecasillabi e settenari variamente rimati. GENERE LETTERARIO: Lirica di riflessione esistenziale. Tale componimento poetico è una forma poetica soggettiva, al cui centro c’è l’io dell’autore. La parola lirica deriva dal greco “lira”, strumento con il quale venivano accompagnate queste stesure poetiche. TEMI PRICIPALI E STRUTTURA: Il canto presenta una struttura armonica ed equilibrata. È costituito da sei strofe, delle quali la prima è introduttiva, la seconda e la terza rievocano la giovinezza di Silvia e del poerìta, la quarta funge da intermezzo fra passato e presente, la quinta e la sesta , anch’esse parallele, presentano la morte fisica di Silvia e quella spirituale del poeta. La prima strofa si apre con il nome Silvia e termina con la parola “salivi” che ne è lì anagramma. Essa non è altro che un’unica domanda che il poeta rivolge a Silvia, nome che vuole esprimere la sua partecipazione alla dolorosa vicenda della ragazza. Di lei viene messo in risalto un solo particolare fisico: lo sguardo luminoso e schivo che ne sottolinea la spensieratezza. La seconda strofa descrive la vita di Silvia e la ritrae, sullo sfondo di una primavera bella e profumata, nel momento di spensieratezza in cui pensa al suo lieto e futuro avvenire. La terza strofa è in parallelo con la precedente ed in essa viene descritta la vita del poeta tra gli studi ed i piaceri, tra cui vi è il rapporto con la fanciulla, sottolineato dal suo canto che dalla finestra in cui lavorava giungeva al balcone del poeta. La quarta strofa segna la svolta dalla gioia al dolore, dalle speranze alla delusione ed il tono evocativo si trasforma in tono polemico nei confronti della natura che delude sempre le aspettative dell’uomo. Attraverso le rime viene sottolineato quanto essa sia responsabile del dolore umano. Non vi è più contemplazione del sogno, bensì la fine delle speranze. La quinta e la sesta strofa corrispondono perfettamente alla seconda ed alla terza, ma ne capovolgono la tematica. In essa vengono rappresentate la morte fisica di Silvia e quella spirituale del poeta. Silvia, stroncata dalla malattia non poté godere della gioia che scaturisce dallo stare insieme agli altri e dal condividere turbamenti ed e mozioni, mentre il poeta ha visto crollare tutti i suoi sogni. SINTASSI E LESSICO: nella lirica ci sono due toni dominanti: quello polemico e quello evocativo. Nel primo prevalgono periodi brevi, spezzati e vi si affollano periodi retoriche, anafore e proposizione esclamative; mentre nel secondo prevalgono periodi lunghi, ricchi di subordinate il cui ritmo è rallentato dall’utilizzo di coppie di aggettivi. Il lessico poggia su una base linguistica che non discosta molto dall’uso. Ci sono parole dotte, antiche ed in disuso, ed altre che danno un senso di vastità, come “vago”, “mirava” e “da lungi”. Fra quest’ultime merita particolare attenzione l’aggettivo “vago” che nel contesto in cui si trova può assumere vari significati, come: bello, indefinito, vagheggiato e desiderato. Mentre nelle prime bisogna notare la parola “giovinezza” dove la a la fa apparire più lontana,luminosa ed irrimediabilmente perduta. Insieme a “gioventù”, “giovinezza”, e “natura”, “spema” è una delle parole chiave di questa lirica e non è un caso che i tre temi principali siano proprio questi. SILVIA: PERSONAGGIO REALE: Silvia, la figura cantata da Leopardi, è un personaggio realmente esistito. Si tratta di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta nel 1818 a soli ventun’anni. Nella lirica ci appare come una donna reale, che lavora al telaio, canta e sogna tutte le cose che sarebbero potute avvenire se la morte non l’avesse avvolta e portata con sé. Questa immagine ci viene rafforzata dalla sua descrizione fisica: “ le negre chiome”, “gli occhi ridenti e fuggitivi”, “gli sguardi innamorati e schivi”, ma allo stesso tempo ci viene contrastata dall’immagine evanescente e simbolica che Silvia assume nella prima strofa, quando varca il limite della gioventù e nell’ultima, dove si trasfigura nella speranza. Speranza che si sovrappone alla figura di Silvia, perché sono legate da precise simmetrie: ad entrambe il poeta si rivolge con un’esclamazione, le loro morti sono espresse in modi simili e perché i sogni che legano Silvia e il poeta erano simili a quelli che lo legavano con la speranza. Giovanni Pascoli è il poeta che ha segnato il passaggio dall’Ottocento al Novecento e che ha dato via alla poesia moderna. Egli è nato a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto di dieci figli, e fin dalla fanciullezza ha goduto di un certo benessere e di una certa tranquillità, fino al 10 agosto 1867, quando suo padre, Ruggero Pascoli, venne ucciso misteriosamente. Le cause e gli ideatori di questo assassinio non vennero mai scoperti, ed è anche per questo motivo che l’animo di Pascoli per tutta la vita fu segnato da un senso incancellabile che lo condizionò nelle sue scelte, e che possiamo ritrovare anche in numerose poesie che trattano questo tema. Di lì a poco anche altri lutti colpirono la famiglia: morirono la sorella, la madre e due dei suoi fratelli. Nonostante le difficoltà economiche, continuò i suoi studi e si iscrisse alla facoltà di lettere all’Università di Bologna che poté frequentare grazie ad una borsa di studio. Durante gli anni universitari seguì con interesse le lezioni di Carducci e si accostò agli ideali del socialismo. Nel 1879 venne arrestato per aver partecipato ad una manifestazione in favore dell’anarchia e successivamente, laureatosi nel 1882, iniziò la carriera come professore di latino e di greco. Avendo ottenuto una sicurezza economica, acquistò una casa a Castelvecchio di Barga, dove riunì il nido familiare, uno dei temi delle sue liriche. Avend compiuto studi anche come poeta, nel 1891 pubblicò le sue prime raccolte di liriche: “Poemetti”, “Canti di Castelvecchio”, “Poemi conviviali” e “Myricae”. Passato all’insegnamento universitario, ricoprì la cattedra di letteratura latina, prima all’università di Messina, poi a quella di Pisa e di Bologna, ed infine sostituì Carducci che si era ritirato dall’insegnamento. A questo periodo risalgono “Odi e Inni”, “Poemi italici”, “Poemi del Risorgimento” e “Carmina”, una raccolta di poesie latine. Nel 1908 si ammalò gravemente e morì nel 1912 a Bologna. Mi son seduto su la panchetta come una volta ... quanti anni fa? Ella, come una volta, s'e' stretta su la panchetta. E non il suono d'una parola; solo un sorriso tutto pieta'. La bianca mano lascia la spola. Piango, e le dico: Come ho potuto, dolce mio bene, partir da te? Piange, e mi dice d'un cenno muto: Come hai potuto? Con un sospiro quindi la cassa tira del muto pettine a se'. Muta la spola passa e ripassa. Piango, e le chiedo: Perche' non suona dunque l'arguto pettine piu'? Ella mi fissa timida e buona: Perche' non suona? E piange, piange — Mio dolce amore, non t'hanno detto? non lo sai tu? Io non son viva che nel tuo cuore. Morta! Si', morta! Se tesso, tesso per te soltanto; come, non so: in questa tela, sotto il cipresso, accanto alfine ti dormiro'. Mi sono seduto su una panchetta (del telaio) Come una volta … quanti anni fa? La tessitrice, come allora, gli fa posto Sulla panchetta. Lei non parla, ma ha un sorriso di dolce commiserazione Sia per sé, sia per il poeta; e la sua mano bianca non regge la spola. Piango, e le dico: come ho potuto, dolce mio bene, partire da te? Lei piange, e con in cenno muto mi dice: come hai potuto? Con un sospiro tira a sé La cassa che contiene il pettine Cambia la spola, passa e ripassa Piango, e le chiedo: perché il rumoroso pettine Non suona più? Lei mi guarda attentamente timida e tranquilla: perché non suona? E lei piange, e piange- mio dolce amore Non te lo hanno detto? Non lo sai? Io sono viva soltanto nel tuo cuore. Morta! Sono morta! Se io tesso, tesso Soltanto per te; non so come: in questa tela nuziale, sotto il cipresso, dormiremo vicini quando morirai. Nato ad Arezzo il 20 Luglio 1304, fanciullo, dovette seguire il padre Ser Petracco, notaio fiorentino bandito da Firenze per le sue idee politiche, ad Avignone, allora sede pontificia. Presso la vicina università di Montpellier inizio, su richiesta del padre, lo studio delle materie giuridiche che prosegui presso l'università di Bologna. Presso quest'ultima università ebbe tra i suoi professori di Legge quello che sarebbe divenuto un suo futuro maestro di poesia: Cino da Pistoia. Ben presto si accorse però che le materie giuridiche non erano fatte per lui e abbandonate quelle discipline si appassionò allo studio di Cicerone e dei poeti antichi . A Bologna tra gli studi e i divertimenti che Francesco non disdegnava coltivò numerose amicizie tra cui quella con il principe romano Giacomo Colonna. Nel 1326 la morte del padre richiamò Francesco, unitamente al fratello Gherardo, ad Avignone dove i due fratelli constatarono che l'eredità del padre non gli avrebbe consentito di vivere ancora per molto senza trovarsi una sistemazione. Il fratello Gherardo entrò più tardi nell' ordine minore dei certosini e forse anche Francesco abbracciò tale ordine. Il ritorno ad Avignone venne caratterizzato dall'incontro di Francesco con quella che sarebbe divenuta l'ispiratrice di tutte le sue liriche d'amore. Era il Venerdì Santo del 1327 quando il poeta vide nella chiesa di Santa Chiara Laura la donna che amerà per tutta la vita. L'amore di Francesco per Laura, già sposata da due anni con Ugo de Sade, fu unico e prosegui anche dopo la sua morte che avvenne, a causa della peste, nel 1348. Nel 1330, come cappellano, entrò al servizio della famiglia Colonna. L'occupazione gli diede l'occasione di viaggiare per la Francia, le Fiandre e la Germania. Venne accolto dai Signori che allora dominavano le città italiane conoscendo tra i più illustri letterati e poeti del tempo. Durante questi viaggi, da relazioni superficiali, gli nacquero i due figli Giovanni (1337) e Francesca (1343). Il 1 Settembre del 1340 mentre si trovava in ritiro a Valchiria, a poche miglia da Avignone, venne, informato da parte del Senato Romano e dell'Ateneo di Parigi dell' offerta a essere incoronato Poeta. Scelse, forse per vanità, l'invito di Roma e dopo essere stato esaminato solennemente, per tre giorni, a Napoli dal re Roberto d'Angiò, nel giorno di Pasqua del 1341 venne cinto dalla corona di Poeta in Campidoglio. Dal 1353 visse in Italia a Milano e in seguito a Venezia e Padova per stabilirsi infine ad Arquà, sui colli Euganei, dove morì il 19 Luglio 1374. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi che 'n mille dolci nodi gli avolgea, e 'l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi; e 'l viso di pietosi color farsi, non so se vero o falso, mi parea: i' che l'esca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di subito arsi? Non era l'andar suo cosa mortale ma d'angelica forma, e le parole sonavan altro che pur voce umana; uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale, piaga per allentar d'arco non sana. I suoi capelli biondi erano mossi al vento il quale li avvolgeva in mille dolci riccioli, e la luce ammaliante dei suoi occhi belli, che ora è diminuita (a causa del tempo che passa), splendeva in modo straordinario; e mi sembrava, non so se fosse realtà o illusione, che il suo viso si atteggiasse a pietà: io che ero pronto all'amore, c'è da meravigliarsi se m'innamorai subito? Il suo portamento non era cosa mortale, ma aspetto d'angelo, e le parole suonavano diversamente da voce umana; uno spirito celeste, un vivo sole fu quel che vidi, e anche se ora non fosse tale, una ferita non si rimargina tendendo di meno l'arco. Giambattista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge, nonostante la sua forte inclinazione per le lettere, fu spinto ad andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel 1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò segretario di Matteo di Capua, principe di Conca. Nel 1598 fu incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di aborto. Fu incarcerato una seconda volta l'anno dopo per avere tentato di salvare dalla pena capitale un amico facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate. Fuggito a Roma, entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera di papa Clemente VIII, partecipando alla vita letteraria della città. Dopo un soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606 nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che, invidioso dei suoi successi, arrivò a sparargli nella pubblica via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola dovette pagare con l'arresto e l'allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso Marino, per ragioni non ben chiarite, riprovò l'onta del carcere, da cui uscì solo nel giugno del 1612. Nel 1615 Maria de' Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, cullandosi tra gli onori e gli agi ricercati per tutta una vita, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica. Nel 1623, nostalgico, ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto trionfalmente ed eletto Principe dell'Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625. Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio un dì fendea; una man pur d’avorio la reggea per questi errori preziosi e quelli; e, mentre i flutti tremolanti e belli con drittissimo solco dividea, l’òr delle rotte fila Amor cogliea, per formarne catene a’ suoi rubelli. Per l’aureo mar, che rincrespando apria il procelloso suo biondo tesoro, agitato il mio core a morte gìa. Ricco naufragio, in cui sommerso io moro, poich’almen fur, ne la tempesta mia, di diamante lo scoglio e ‘l golfo d’oro! I capelli sono come onde dorate, che una navicella d'avorio sta solcando; una mano bianca come l'avorio la conduce attraverso quelle preziose e disordinate ciocche di capelli. Mentre la navicella crea dei solchi attraverso i capelli, l'Amore raccoglie l'oro di quelli spezzati, per formare catene per coloro i quali non sono abbagliati dalla sua bellezza. Il cuore del poeta muore alla vista di questo mare dorato, che mostra il suo biondo tesoro. Il naufragio in cui l'autore sta morendo è prezioso, perché durante la sua tempesta lo scoglio è di diamante e il golfo d'oro.