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Thomas Jefferson, la Costituzione federale e la sua interpretazione

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Thomas Jefferson, la Costituzione federale e la sua interpretazione
Thomas Jefferson, la Costituzione
federale e la sua interpretazione
Di
Walter Giannò
1
Capitolo Primo
Thomas Jefferson e la Dichiarazione d’indipendenza
Thomas Jefferson1 è forse il più importante e controverso pensatore
politico americano di tutti i tempi: la sua influenza (libertario,
democratico, repubblicano-agrario) si avverte ancora oggi2.
Oltre che uomo politico e diplomatico, era filosofo, naturalista,
architetto, inventore e agricoltore scientifico. Fra gli uomini di stato
americani, solo Lincoln avrebbe dimostrato altrettanta abilità
nell’esprimere chiaramente le proprie idee3.
Egli aveva uno spirito umanitario in anticipo sui tempi: nel
Parlamento della Virginia, infatti, lottò contro l’applicazione della
pena di morte, meno che nei casi di tradimento e di assassinio, contro
1
Thomas Jefferson nacque il 13 aprile 1743 a Shadwell, in Virginia. Compì i suoi studi superiori al college William and
Mary di Williamsburg, a stretto contatto con la società più colta e raffinata della colonia. A vent’anni entrò nello studio
legale di George Wythe, uno dei più eminenti giuristi del paese, e si avviò alla carriera forense. Nel 1769 fu eletto
rappresentante della contea di Albemarle alla “House of Burgesses”, ossia l’assemblea legislativa della Virginia e fu da
allora sempre riconfermato in tale ufficio. Nel 1774 Jefferson vergò il suo primo scritto importante, l’Esposizione
sommaria dei diritti dell’America britannica. Nel 1775 fu eletto dalla convenzione della Virginia rappresentante della
colonia al Congresso continentale, in cui si riunirono a Filadelfia i delegati di tutte e tredici le colonie americane della
Gran Bretagna. Nel giugno del 1776 egli fu incaricato, insieme ad altri, di redarre un documento in cui fossero chiariti i
motivi della decisione delle colonie; il comitato ristretto, a sua volta, incaricò lui di redarre la Dichiarazione
d’indipendenza del 4 luglio. Nel 1779 fu eletto governatore della Virginia. Nel 1783 tornò al Congresso e l’anno dopo
fu nominato commissario in Europa con l’incarico di negoziare trattati di commercio con le varie nazioni d’oltre
Atlantico. Tornato in patria, fu nominato segretario di Stato dal presidente Washington. Nel 1796 divenne vicepresidente degli Stati Uniti e quattro anni dopo fu egli stesso eletto presidente. Nel 1804 fu rieletto a stragrande
maggioranza per un altro quadriennio. Morì il 4 luglio 1826. (da Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a
cura di Alberto Aquarone, Bologna, Il Mulino, 1961, pp. 26-29).
2
Thomas Jefferson, Political Writings, a cura di Joyce Appleby e Terence Ball, Cambridge, Cambridge university
press, 1999, p. 10.
3
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Milano, Bompiani,
2005, p. 85.
2
il lavoro forzato dei condannati mandati a costruire strade e canali,
contro la schiavitù4.
Fu colui che scrisse la Dichiarazione d’indipendenza, votata dal
Congresso di Filadelfia il 4 luglio 1776, dopo quindici mesi di
Rivoluzione americana. Il testo venne redatto da un comitato di cinque
rappresentanti: oltre a Thomas Jefferson, rappresentante della
Virginia, John Adams del Massachusetts, Benjamin Franklin della
Pennsylvania, Roger Sherman del Connecticut e Robert R. Livingston
del New York. Il documento, presentato il 28 giugno e approvato il 2
luglio dalle delegazioni di dodici Stati (quella del New York si
astenne), fu firmato da John Hancok del Massachusetts e Charles
Thomson della Pennsylvania, rispettivamente presidente e segretario
del Congresso.
Gli uomini che elaborarono e approvarono questo storico documento
non si accontentarono di una semplice Dichiarazione d’indipendenza.
Essi si ispiravano a un “elementare rispetto delle opinioni
dell’umanità” ed erano preoccupati di esporre le cause “che li
costringevano alla separazione” e la filosofia che la giustificava. Né
queste cause furono addotte per giustificare in sé un così estremo
passo, ma piuttosto per dimostrare che, da parte di re Giorgio III, c’era
“un piano per ridurli sotto un dispotismo assoluto”. È significativo che
fin dall’inizio, nella loro storia nazionale, gli Americani prendessero
posizione in fatto di principi e proclamassero una concezione
filosofica5.
Jefferson fu invitato a scrivere la Dichiarazione per via della sua fama
di scrittore. John Adams, a proposito, scrisse: “Portava con sé la
4
Claude G. Bowers, Jefferson e Hamilton: la lotta per la democrazia in America, Rocca San Casciano, Cappelli, 1955,
p. 115-116.
5
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, Torino, Einaudi, 1947, p. 98.
3
reputazione dell’arte letteraria ed un felice talento per il suo
comporre”6.
Il celebre scritto rappresenta un compendio del pensiero dei Lumi, in
versione repubblicana e rivoluzionaria: “Tutti gli uomini sono creati
uguali. Il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inalienabili, tra i quali vi
sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità. I governi sono stati
istituiti tra gli uomini per assicurare tali diritti, e derivano i loro giusti
poteri dal consenso dei governati. Ogniqualvolta una forma di governo
diventa negativa per il raggiungimento di questi scopi, il popolo ha il
diritto di mutarla o di abolirla e di istituire un nuovo governo,
basandolo su principi e organizzandone i poteri nel mondo che, a suo
giudizio, sembri più adatto al raggiungimento della sua sicurezza e
della sua felicità”7.
Ora, la Dichiarazione d’indipendenza non era una mera riedizione di
una linea politica tradizionale. Nel fornire una spiegazione alla
separazione dall’Inghilterra, Jefferson fece ricorso a verità “di per sé
evidenti” e ai “diritti inalienabili” di “tutti gli uomini”. Erano, queste,
premesse
autenticamente
rivoluzionarie
che
non
rientravano
nell’intricata congerie dei misteri della legge costituzionale, e il cui
senso appariva non oscuro, né sofisticato. Questi principi, piuttosto,
erano di natura intuitiva, facilmente accessibili alla maggioranza dei
cittadini e tali da legittimare eroiche imprese in difesa “della vita,
della libertà e del perseguimento della felicità”8.
Il documento, letto nella sua interezza, è assai più simile a una
comparsa giudiziaria che a un testo di filosofia politica. Esso è
articolato in due sezioni, la prima delle quali, teorica, pone le norme
generali che giustificano la seconda, molto più lunga, precisa e
pregnante per l’opinione pubblica, in cui è svolta una serrata
6
Ibidem, p. 126.
Adriano Prosperi e Paolo Viola, Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 2000, p. 336.
8
Peter N. Carroll, David W. Noble, Storia sociale degli Stati Uniti, Milano, Editori Riuniti, 1991, p. 113.
7
4
requisitoria contro re Giorgio III, accusato di tutta un serie di specifici
crimini contro il popolo americano. Questa struttura non poteva non
richiamare alla mente il Bill of Rights inglese del 1689, con cui il
Parlamento denunciò le colpe e i crimini del deposto re Giacomo II.
Jefferson e il Congresso ponevano così in essere un collegamento con
la Gloriosa Rivoluzione che aveva un richiamo emotivo e teorico
particolare per un pubblico uso all’interpretazione storica real Whig,
secondo qui quella era stata l’ultima battaglie inglese in difesa della
libertà prima della decadenza9.
La
Dichiarazione
d’indipendenza,
comunque,
non
coincide
pienamente con quella che avrebbe voluto davvero Jefferson. Le
celebri frasi sono le stesse, così come lo sono la struttura ed il disegno
globale – un’esposizione di principi generali seguiti da una lista di
ragguagli che espongono dettagliatamente gli atti atroci e tirannici
perpetrati dalla Corona e che si conclude con un impegno di reciproca
fedeltà
e
solidarietà.
Ma
il
progetto
della
Dichiarazione
d’indipendenza di Jefferson è un documento più stridente e radicale di
quello corretto ed adottato dal Congresso. Ad esempio, fu eliminato il
riferimento alla condanna del commercio degli schiavi. Così il testo
che comincia con una squillante affermazione della libertà e
dell’uguaglianza rimane silenzioso sulla schiavitù – un silenzio
assordante notato con particolare piacere dai critici inglesi10.
La Dichiarazione d’indipendenza, comunque, fu l’atto di secessione
dall’Inghilterra e giustificava la ribellione contro un’autorità dispotica.
La lotta contro il tiranno inglese era lotta contro gli abusi del potere
centrale, era lotta contro le ineguaglianze civili11.
Jefferson s’ispirò in particolare al preambolo, scritto da lui stesso,
della costituzione della Virginia e alla prima versione della
9
Tiziano Bonazzi, La Rivoluzione Americana, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 65.
Thomas Jefferson, Political Writings, cit., p. 16.
11
Salvo Mastellone, Storia della democrazia in Europa: dal XVIII al XX secolo, Torino, Utet, 2004, p. 17.
10
5
Dichiarazione dei diritti sempre della Virginia, scritta da George
Mason12.
Thomas Jefferson non sostenne mai l’originalità del suo scritto che
andava inteso, disse, semplicemente come “un’esperienza dello spirito
americano”. Nel proclamare “evidenti” certe verità, egli attinse alla
filosofia dei diritti naturali, che risaliva ad Aristotele e a Cicerone e
che ebbe una formulazione classica nel secondo Trattato sul governo
civile (1690) di John Locke. In base ad essa gli uomini possedevano
alcuni diritti naturali che Jefferson definì “vita, libertà e ricerca della
felicità”; i governi venivano costituiti per assicurare quei diritti,
derivavano il loro giusto potere dal consenso dei governati e potevano
essere legittimamente rovesciati se sovvertivano gli scopi per i quali
erano stati costituiti. L’effetto immediato della Dichiarazione
d’indipendenza fu quello di provocare una frattura. Applaudita
entusiasticamente da coloro che condividevano l’opinione di Thomas
Paine, autore del Common Sense, che era ora di staccarsi, essa irritò
coloro che non riuscivano a rinunciare alla fedeltà tradizionale13.
Il testo, comunque, raggiunse l’effetto desiderato: l’indipendenza fu
dichiarata e la Rivoluzione americana ebbe inizio14. Storicamente,
infatti, la Dichiarazione d’indipendenza servì a dar corpo ai simboli
dell’identità americana e a delimitare, loro tramite, l’arena del
dibattito e dello scontro politico futuri, che non poterono più seguire
strade diverse da quelle da essa fissate15.
12
Alessandro Testi, La formazione degli Stati Uniti d’America, Bologna, il Mulino, 2003, p. 69.
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 47.
14
Thomas Jefferson, Political Writings, cit., p. 17,
15
Tiziano Bonazzi, La rivoluzione americana, cit., p. 67.
13
6
Capitolo Secondo
Thomas Jefferson e la Costituzione federale
Gli articoli della Confederazione
La Dichiarazione d’indipendenza costituì la base ideologica della
nuova repubblica americana. Tuttavia, né il distacco dall’impero
britannico né la conseguente guerra per l’indipendenza riuscirono a
trasformare con facilità l’identità culturale della popolazione. Tredici
colonie, con tredici diverse storie e con altrettante prospettive future,
si vennero a trovare nel 1776 legate tra loro in una guerra di
liberazione. Eppure non si trattava di una guerra per la liberazione
nazionale, come Benjamin Franklin aveva ben compreso quando
aveva ammonito: “Dobbiamo sostenerci l’un l’altro, altrimenti saremo
di sicuro impiccati uno per uno”. I patrioti americani, intuendo la
mancanza di un substrato culturale unificante, tentarono, a partire dal
1776, di creare un terreno comune. Il lessicografo Noah Webster
dichiarò: “Dovremo impiegare ogni energia per rendere gli abitanti di
questo paese una nazione e per infondere in loro l’orgoglio di un
carattere nazionale”. Per questo si fece promotore di una nuova
ortografia – una lingua nazionale – al fine di rafforzare il “legame
dell’unione nazionale”. E tali progetti non fecero che rilevare le
7
tensioni di fondo che si agitavano attorno al problema centrale
dell’identità americana16.
In questo contesto, il 12 giugno 1776 il Congresso continentale
nominò un Comitato dei tredici (uno per Stato) con l’incarico di
stendere una costituzione; dopo un mese di discussioni, il Comitato
presentò una bozza di costituzione: gli articoli della Confederazione.
Elaborati in gran parte da John Dickinson della Pennsylvania, essi
prevedevano un governo centrale con poteri limitati: poteva dichiarare
guerra, concludere trattati e alleanze, ripartire le spese comuni fra gli
Stati, battere moneta, istituire uffici postali e regolare le questioni con
gli indiani. Ma gli mancavano due degli attributi essenziali della
sovranità: il potere di imporre le tasse e quello di regolare il
commercio. Tutti i poteri non specificatamente assegnati alla
Confederazione erano riservati ai singoli Stati che, sottolineavano gli
articoli, mantenevano la loro “sovranità, libertà e indipendenza”. Non
erano previsti organi esecutivi o giudiziari nazionali. I poteri della
Confederazione dovevano essere esercitati solo dal Congresso,
un’assemblea legislativa unicamerale alla quale partecipano tutti gli
stati con un voto ciascuno. I provvedimenti importanti, come i trattati,
dovevano avere l’approvazione di almeno nove stati e gli articoli
stessi non potevano essere modificati senza il consenso di tutti i tredici
Stati. Così la Confederazione proposta era poco più di quel che
Dickinson l’aveva definita: “una salda lega d’amicizia”. Ma tale era
l’ostilità contro un’autorità centrale che gli articoli non ebbero
l’approvazione del Congresso fino al novembre 1777. Durante gli otto
anni nei quali gli articoli della Confederazione rimasero in vigore
(1781-1789), gli Stati Uniti ebbero solo una sembianza di governo
nazionale, e in alcuni casi nemmeno quella. Una volta ottenuta
l’indipendenza, gli Stati diedero meno importanza all’unità e si
16
Peter N. Carroll, David W. Noble, Storia sociale degli Stati Uniti, cit., p. 126.
8
lasciarono assorbire dalle proprie faccende interne: continuavano a
esercitare diritti cui avevano espressamente rinunciato; rispondevano
in ritardo, quando lo facevano, alle richieste del Congresso e
nominavano a casaccio i delegati al Congresso stesso17.
La Confederazione Federale
Queste difficoltà incontrate dalla politica della Confederazione
condussero ai lavori della Convenzione, cominciati il 25 maggio 1787,
con lo scopo di preparare una costituzione nella quale fosse chiarita
anche la posizione del cittadino americano in quanto membro degli
Stati Uniti18. La Convenzione federale si riunì nella State House di
Filadelfia. Ogni Stato era rappresentato, tranne il Rhode Island che
aveva declinato l’invito. In totale erano presenti 55 delegati, con una
presenza media in ogni seduta di circa trenta persone. Fu
un’assemblea considerevolmente scelta, nonostante l’assenza di John
Adams e di Thomas Jefferson19.
Quest’ultimo si trovava in Francia ed era convinto che i delegati
fossero i rappresentanti di maggior talento della classe politica
americana, e che si trattasse di “un’assemblea di semidei”. Dalla
Virginia erano convenuti, ad esempio, a Filadelfia George Washington
e James Madison, da New York Alexander Hamilton, dalla
Pennsylvania Benjamin Franklin e Robert Morris20.
I delegati erano ricchi o benestanti, generali e avvocati, piantatori
schiavisti, grandi mercati e finanzieri. Erano quasi tutti nati in
America, spesso da famiglie arrivate nel secolo precedente. Erano
colti e formalmente istruiti; più della metà avevano frequentato il
college21.
17
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 66.
Salvo Mastellone, Storia della democrazia in Europa: dal XVIII al XX secolo, cit., p. 18.
19
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 67.
20
Peter N. Carroll, David W. Noble, Storia sociale degli Stati Uniti, cit., p. 127.
21
Alessandro Testi, La formazione degli Stati Uniti d’America, cit., p. 87.
18
9
Alcuni storici hanno sottolineato il fatto che la gran parte dei delegati,
dunque, fossero proprietari e avessero titoli azionari continentali o
statali; occorre, tuttavia, ricordare che la grande massa degli
Americani apparteneva alla classe media dotata di proprietà.
Nell’America del XVIII secolo, come sottolineò Benjamin Franklin,
erano poche le persone molto ricche, e pochissimi i poveri. La
Convenzione federale, inoltre, era probabilmente l’assemblea politica
più rappresentativa che si trovasse a quel tempo nel mondo
occidentale22.
Scopo principale della Convenzione era quello di evitare che l’autorità
si spostasse troppo a vantaggio del potere centrale e a danno del potere
locale. I membri della Convenzione si preoccuparono, perciò, di
assicurare alle autorità locali ampi poteri amministrativi. La
maggioranza nell’assemblea era convinta della bontà della soluzione
repubblicana, ma più che altro essa cercò di democratizzare il sistema
politico inglese, estendendo il diritto di suffragio e assicurando al
singolo cittadino libertà di pensiero e di azione23.
I
delegati
erano
venuti
a
Filadelfia
per
riorganizzare
la
Confederazione. Il Congresso li aveva incaricati di riunirsi “con il solo
e specifico scopo di sottoporre a revisione gli articoli della
Confederazione”. Decisero invece di mettere da parte il mandato
ricevuto, e di scrivere una nuova costituzione. Decisero di mantenere
il segreto più stretto sui lavori, andando molto al di là della pratica
comune nelle assemblee del tempo di riunirsi a porte chiuse. Ciò
consentì loro di comporre le differenze, presentando poi all’esterno
un’immagine di unità24.
Il 17 settembre 1787 la Convenzione si riunì per l’ultima seduta,
giunti al momento della sottoscrizione della costituzione. Tre soli dei
22
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, cit., p. 122.
Salvo Mastellone, Storia della democrazia in Europa: dal XVIII al XX secolo, cit., p. 18.
24
Alessandro Testi, La formazione degli Stati Uniti, cit., p. 86.
23
10
delegati presenti rifiutarono di firmarla, mentre la maggior parte di
essi ne era soddisfatta. Benjamin Franklin dichiarò che, anche se non
poteva approvarla in tutte le sue parti, era stupido di trovarla così
vicina alla perfezione e pregava chiunque non condividesse qualcuno
dei suoi punti, di dubitare per un momento della propria infallibilità e
di accettare il documento. Alexander Hamilton fece una dichiarazione
analoga; pur desiderando una forma di governo molto più accentrata e
aristocratica, si chiedeva come un vero patriota avrebbe potuto esitare
tra anarchia e convulsioni, da un lato, e ordine e progresso, dall’altro. I
delegati di dodici Stati si fecero avanti per la firma. Molti sembravano
oppressi dalla solennità del momento; George Washington se ne stava
seduto immerso in grave meditazione. Ma Benjamin Franklin pose
fine alla commozione con una caratteristica uscita: indicando il mezzo
sole dipinto in oro brillante dietro il seggio di Washington, notò che
agli artisti è stato sempre difficile distinguere un sole che sorge da uno
che tramonta. “Continuatamente, - osservò, - durante il corso della
sessione e nelle alternative di timore e di speranza per il suo esito, ho
guardato il sole che sta dietro al presidente, senza poter dire se sorga o
declini; ma ora sono finalmente felice di sapere che è un sole che
sorge e non uno che tramonta”25.
Era nata la Costituzione degli Stati Uniti d’America.
25
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, Torino, cit., p. 129.
11
La Costituzione federale
La Costituzione proponeva un originale modello statale in cui la
libertà repubblicana, il principio rappresentativo, la sovranità
popolare, le libertà e i diritti individuali convivevano con una struttura
centrale di governo efficace e dotata di estesi poteri, e ne facevano lo
strumento di coesistenza di entità politiche entro una comunità
complessa, quale le istituzioni britanniche erano state incapaci di
sorreggere. La Costituzione conteneva, cioè, quanto non si era avuto
nell’impero
britannico,
per
eccesso
di
centralismo,
nella
Confederazione, per l’eccesso opposto, e negli esempi di leghe o
repubbliche confederali antiche e moderne analizzati negli scritti di
James Madison, nel Federalist e nella Defence of the Constitution of
the United States (1787) di John Adams: un dispositivo di ripartizione
funzionale dell’autorità tra centro e periferia più efficace di quello
operante in una semplice alleanza di Stati sovrani e in grado di
controllare i poteri locali senza doverli consolidare in uno Stato
nazionale unitario26.
La Costituzione afferma l’indipendenza del potere giudiziario,
conferito a una Corte Suprema, e nei tribunali inferiori il giudizio di
colpevolezza per crimini doveva essere emesso da una giuria
popolare27.
Il potere legislativo è affidato al Congresso degli Stati Uniti, costituito
da due camere, così da contemperare la base statale e quella popolare
delle nuove istituzioni28.
26
Guido Abbattista, La Rivoluzione americana, Bari, Laterza, 1998, p. 118-119.
Salvo Mastellone, Storia della democrazia in Europa: dal XVIII al XX secolo, cit., p. 18.
28
Francesco Bonini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, Torino, Giappichelli, 2002, p. 90.
27
12
Il Senato risulta composto da due rappresentanti per ogni Stato,
qualunque sia la sua consistenza. La Virginia, che aveva quasi mezzo
milione di abitanti (compresi gli schiavi), aveva lo stesso peso in
Senato del Delaware o del Rhode Island che ne avevano venticinque
mila29.
La Camera dei Rappresentanti, invece, è eletta con suffragio diretto
sulla base di un deputato ogni trecento mila abitanti, contando gli
schiavi, che rappresentavano una componente strutturale della
popolazione in particolare degli Stati meridionali. La durata molto
breve della Camera, due anni, sottolinea la titolarità della sovranità del
popolo; il Senato, invece, ha una durata di sei anni, con rinnovo
parziale ogni due anni30.
Alexis de Tocqueville nel capitolo ottavo della prima parte della
Democrazia in america, a proposito delle differenze fondamentali fra
il Senato e la Camera, scrisse che il primo non differisce dalla seconda
soltanto “per il principio della rappresentanza, ma anche per il modo
di elezione, per la durata del mandato e per la diversità delle
attribuzioni. La Camera dei rappresentanti è nominata dal popolo; il
Senato dai legislatori di ogni Stato. L’uno è il prodotto dell’elezioni
diretta, l’altro dell’elezione a due gradi… La Camera dei
rappresentanti ha funzioni solo legislative; partecipa al potere
giudiziario solo accusando i funzionari pubblici; il Senato concorre
alla formazione delle leggi; giudica i delitti politici che gli vengono
deferiti dalla Camera, ed è inoltre il grande consiglio esecutivo della
nazione”31.
Titolare del potere esecutivo è il presidente, affiancato da un
vicepresidente; entrambi erano eletti per quattro anni da un ristretto
collegio di grandi elettori scelti dagli Stati. Il presidente firma e rende
29
Adriano Prosperi, Paolo Viola, Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione americana, cit., p. 338.
Francesco Bonini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, cit., p. 90.
31
Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di Giorgio Candeloro, Milano, Rizzoli, 1998, pag. 122.
30
13
esecutive le leggi del Congresso, ma può anche respingerle con un
veto e restituirle alle assemblee per un riesame. È comandante in capo
delle
forze
armate,
stipula
trattati
internazionali
e
nomina
ambasciatori, ma molte delle sue azioni sono sottoposte al controllo
del Senato. La Costituzione può essere modificata con emendamenti,
purché questi siano proposti dai due terzi di Camera e Senato e
ratificati dai tre quarti degli Stati32.
Per quanto riguarda la ratifica della Costituzione, questa venne
effettuata da convenzioni statali appositamente elette, così da
sottolineare la complessa miscela di statale e federale, che è alla base
del dinamismo istituzionale americano33.
E Thomas Jefferson fu un ardente fautore della ratifica. Egli scrisse,
infatti, che “con tutta l’anima” desiderava che le Assemblee “accettino
la Costituzione poiché essa può assicurarci il bene che contiene e che
ritengo grande e importante”34.
La caratteristica più importante della Costituzione fu la sua nuova e
geniale divisione della sovranità fra i due governi, quelli di Stato e
quello federale. Completamente sovrani nella propria sfera, ciascuno
doveva agire direttamente sulla stessa comunità politica. Nella
Costituzione, tuttavia, non fu fatto alcun tentativo di definire i limiti
fra il potere di Stato e quello federale, né di decidere come simili
confitti di giurisdizione andassero risolti. Queste questioni avrebbero
fornito materia di dibattito per decenni e sarebbero state risolte
definitivamente solo dopo la guerra di secessione35.
Nella lettera a James Madison, datata 20 dicembre 1787, Thomas
Jefferson, allora a Parigi in qualità di ministro americano, scrisse
“poche parole sulla Costituzione proposta dalla nostra Convenzione”.
32
Alessandro Testi, La formazione degli Stati Uniti d’America, cit., p. 89.
Francesco Bonini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, cit., p. 90.
34
Claude G. Bowers, Jefferson e Hamilton: la lotta per la democrazia in america, cit., p. 120.
35
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 70.
33
14
Sostenne di essere stato compiaciuto dall’idea generale di “istituire un
governo destinato ad operare in piena tranquillità da solo, senza aver
bisogno di ricorrere continuamente ai corpi legislativi degli Stati”, e
dall’organizzazione del governo nei tre rami legislativo, giudiziario ed
esecutivo. Scrisse, inoltre, di esser stato piacevolmente sorpreso del
“diritto di veto conferito all’esecutivo con il concorso di un terzo di
entrambe le Camere, per quanto avrei preferito che il ramo giudiziario
gli fosse stato associato nell’esercizio di tale diritto, oppure che fosse
stato investito di un potere analogo e distinto”36.
Nella Costituzione del 1787, però, non fu inserita la Dichiarazione dei
diritti del 1776, ma gli autori del Federalist (Alexander Hamilton,
John Jay e James Madison) sostennero che gli articoli della
Costituzione rispecchiavano lo spirito innovatore della Dichiarazione
dei diritti37.
Se si considera, ad esempio, la clausola secondo cui “nessun titolo
nobiliare verrà assegnato in nome degli Stati Uniti”, si vede che in che
modo questa frase tendesse a istituzionalizzare apertamente quei
principi egualitari contenuti nella Dichiarazione di Jefferson e ad
assicurare, almeno in teoria, uguali diritti a tutti i cittadini.
L’eliminazione di una casta aristocratica, basata sull’ereditarietà,
liberò immediatamente chi vi apparteneva dagli obblighi sociali che
storicamente avevano costituito il bagaglio di chi godeva di uno status
sociale esclusivo38.
La difesa, comunque, del valore innovatore della Dichiarazione del
1776 fu fatta da Thomas Jefferson, secondo il quale questo documento
doveva servire da riferimento ideale per affrontare i problemi e le
conseguenze del periodo post-rivoluzionario39.
36
Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., p. 129.
Salvo Ma stellone, Storia della democrazia europea: dal XVIII al XX secolo, cit., p. 19
38
Peter N. Carroll, David W. Noble, Storia sociale degli Stati Uniti, cit., p. 133.
39
Salvo Ma stellone, Storia della democrazia europea: dal XVIII al XX secolo, cit., p. 19.
37
15
Nella lettera a Madison, infatti, egli scrisse di non approvare affatto
“l’omissione di una dichiarazione dei diritti che provveda in maniera
chiara e senza l’ausilio di sofismi alla libertà di religione, alla libertà
di stampa, alla tutela contro eserciti stanziali, alle limitazioni dei
monopoli, alla garanzia eterna ed incessante delle leggi sull’habeas
corpus e delle giurie in tutti i giudizi su questioni di fatto fondati sulle
leggi del paese e non sulla legge delle nazioni”40.
Ed in un’altra lettera scritta a James Madison, in data 15 marzo 1789,
Thomas Jefferson risponde a quattro obiezioni di uno degli autori del
Federalist sull’opportunità della Dichiarazione dei diritti all’interno
della Costituzione. La prima obiezione di Madison fu che “i diritti in
questione sono riservati, in conseguenza del modo in cui sono
conferiti i poteri federali”. E Jefferson rispose che, senza dubbio, un
atto costituzionale può esser redatto in modo da non avere bisogno di
nessuna dichiarazione dei diritti, perché l’atto ha “esso stesso il valore
di una dichiarazione fin dove si estende; e se si estende a tutti i punti
di fatto, non c’è bisogno di nient’altro”. Però in atto costituzionale in
cui sono tralasciati alcuni articoli “preziosi”, una dichiarazione dei
diritti diventa necessaria, “come integrazione”. La seconda obiezione
del destinatario della lettera in questione fu che “non sarebbe possibile
redigere una dichiarazione dei diritti essenziali che abbia la necessaria
ampiezza”. E Thomas Jefferson rispose con questa metafora: “una
mezza fetta di pane è meglio di nessuna. Se non possiamo tutelare i
nostri diritti, tuteliamo almeno quelli che possiamo”. La terza
obiezione riguarda i poteri limitati del governo federale e la gelosia
dei governi subordinati, che “assicurano una garanzia che non esiste in
nessun altro caso”. E nella risposta Jefferson sostiene che la
dichiarazione dei diritti sia “il banco di prova, al quale saggeranno
tutti gli atti del governo federale”, per cui è necessaria. James
40
Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., pp. 129-130.
16
Madison, infine, sostenne che “l’esperienza dimostra l’inefficacia di
una dichiarazione dei diritti”. Jefferson gli diede ragione, ma “sebbene
non sia efficace in maniera assoluta in tutte le circostanze, è sempre di
grande peso, e raramente inefficace del tutto”. Ma rimane il fatto che
“gli inconvenienti della mancanza di una dichiarazione sono
permanenti, gravi ed irreparabili”41.
Sempre nella primavera del 1789, tuttavia, in un’altra lettera, Thomas
Jefferson scrisse che la Costituzione era indubbiamente la più saggia
di quante erano state offerte all’umanità. E dopo che alla Costituzione
fu aggiunta la Dichiarazione dei Diritti scrisse a La Fayette,
annunziandogli che l’opposizione si era quasi del tutto dileguata e che
gli emendamenti proposti dal Congresso avevano convertito al
consenso quasi tutti quelli che ancora vi facevano obiezione42.
La Costituzione del 1787 prevedeva la rieleggibilità ogni quattro anni
del presidente, titolare del potere esecutivo. Alexis de Tocqueville, nel
celebre saggio la Democrazia in America, criticò questa scelta dei
legislatori americani, sostenendo che in questo modo al presidente
fosse accordato un grande potere. “Non rieleggibile, il presidente non
sarebbe stato del tutto indipendente dal popolo, poiché avrebbe
continuato a essere responsabile davanti ad esso, ma non avrebbe
avuto un bisogno tale del favore popolare da doversi piegare a tutte le
sue volontà. Rieleggibile, il presidente degli Stati Uniti non è che uno
strumento docile nelle mani della maggioranza”43.
Thomas Jefferson, quarantasei anni prima, nella già citata lettera
scritta James Madison il 20 dicembre 1787, scrisse di disapprovare
fortemente l’abbandono nella Costituzione del principio della
rotazione nelle pubbliche cariche, “e più particolarmente nel caso del
presidente”. Questo perché “l’esperienza concorre con la ragione nel
41
Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., pp. 134-136.
Claude G. Bowers, Jefferson e Hamilton: la lotta per la democrazia in America, cit., p. 121.
43
Alexis de Tocqueville, cit., p. 136.
42
17
concludere che” il presidente “sarà sempre rieletto se la Costituzione
lo permette. La sua carica diventa così vitalizia”. Inoltre, Jefferson
sottolineò il suo timore che “il potere di rimuovere l’esecutivo ogni
quattro anni con un voto popolare è un potere che non sarà esercitato.
Il re di Polonia può venir rimosso ogni giorno dalla Dieta, e non lo è
mai”44.
Il primo presidente degli Stati Uniti, George Wahington, eletto
all’unanimità dal congresso il 4 febbraio 1789, tuttavia, dopo un
secondo mandato, rinunciò ad una nuova elezione, e così fece
successivamente anche il suo successore, John Adams, instaurando di
fatto un limite alla reiterazione dei mandati presidenziali, che fu
formalmente introdotto nel testo della Costituzione soltanto con il
XXII emendamento del 1 marzo 195145.
Quando scrisse la sua autobiografia, Thomas Jefferson diede uno
sguardo
retrospettivo
alle
sue
reazioni
al
documento
della
Costituzione: “Ricevetti una copia ai primi di novembre – scrisse – e
lessi e apprezzai tutte le sue misure con grande soddisfazione…
L’assenza di dichiarazioni chiare riguardanti la libertà di fede
religiosa, la libertà di stampa e la libertà del cittadino, sotto
l’ininterrotta protezione dell’Habeas Corpus Act e la decisione dei
processi giudiziari affidata alla giuria, nelle cause civili e penali,
eccitarono i miei sospetti e le rieleggibilità del Presidente a vita
incontrò tutta la mia riprovazione. Questi miei giudizi li espressi
liberamente nelle lettere ai miei amici, e specialmente a Madison e al
generale Washington”46.
La Costituzione federale, infine, è la più antica costituzione scritta
ancora funzionante nel mondo, ma non ha operato, nella pratica,
esattamente come ci si aspettava. Alcune disposizioni, come la
44
Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., pp. 130-131.
Francesco Bonini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, cit., p. 91.
46
Claude G. Bowers, Jefferson e Hamilton: la lotta per la democrazia in America, cit., p. 121.
45
18
procedura del collegio elettorale per l’elezione del presidente, si sono
svuotate di significato. Altre, come quelle che davano alla camera dei
rappresentanti il controllo sulla carta moneta, non si sono dimostrate
del tutto efficaci. Altre ancora, come quella che richiedeva
l’approvazione dei trattati con i due terzi dei voti del senato, hanno
ostacolato la formulazione e la conduzione di una politica estera
coerente. E, poi, la Costituzione stessa è stata qualche volta ostacolo
per mutamenti molto urgenti. Essa, comunque, è venerata dagli
americani ed ammirata dagli altri. Nonostante la sua concisione, solo
seimila parole, è un modello di stesura schematica. La sua elasticità è
stata d’importanza vitale per il suo successo. I “padri fondatori” non
commisero
l’errore
di
tentare
di
prevedere
ogni
possibile
avvenimento; essi stesero un abbozzo, non un piano dettagliato, il che
ha consentito a successive generazioni di reinterpretare la Costituzione
in accordo con le mutate circostanze47.
Nel redigere il testo costituzionale, inoltre, i padri fondatori
abbandonarono la pretesa radicale di governi centrati sull’onnipotenza
del legislativo, rappresentante l’ideale dell’unità eticosociale del
popolo; ma non tornarono allo stato misto, che esprimeva i bisogni
della società cetuali e gerarchiche. Scelsero, invece, la via di
istituzioni aperte, senza fini ultimi da perseguire, né assetti ideali da
raggiungere e che, attraverso i principi del bilanciamento dei poteri
(checks and balances) e del federalismo, ponevano in essere le
condizioni affinché gli equilibri politici creati dalla società civile, e in
quella sede mai definitivi, non tendessero a perpetuarsi attraverso la
forza delle istituzioni negando la libertà48.
47
48
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 70.
Tiziano Bonazzi, La rivoluzione americana, cit., p. 107.
19
20
Capitolo Terzo
Thomas Jefferson al potere
Thomas Jefferson, tornato in patria poco tempo dopo l’entrata in
vigore della nuova Costituzione federale, fu subito nominato dal
presidente George Washington suo segretario di Stato ed in tale carica
entrò ben presto in conflitto con il collega del Tesoro, Alexander
Hamilton, e con il partito federalista, fautore di un’interpretazione
estensiva della Costituzione nel senso di una supremazia del governo
federale su quelli statali. Dimissionario nel 1793, nel 1796 divenne
vice-presidente degli Stati Uniti nelle elezioni che portarono alla
presidenza John Adams e quattro anni dopo fu eletto egli stesso
presidente, quale candidato del partito repubblicano di tendenza
democratica e antiaccentratrice49.
Il modo con il quale Jefferson assunse la presidenza mostrò
chiaramente che la democrazia era giunta al potere. Vestito
sciattamente come al solito, egli si recò a piedi dalla modesta pensione
dove alloggiava verso la collina, su cui sorgeva il nuovo Campidoglio,
seguito da un nugolo di amici. Giunto al Senato, strinse la mano al
vicepresidente Burr, il suo recente poco scrupoloso rivale; qui
incontrò anche un altro uomo di cui diffidava, il virginiano John
Marshall, suo lontano parente, che John Adams aveva recentemente
nominato Chief Justice, cioè presidente della suprema magistratura
federale. Jefferson pronunciò uno dei discorsi migliori mai fatti da un
presidente entrante. Parte di esso fu una perorazione, molto necessaria,
in favore della conciliazione. Egli pregò i suoi concittadini di
ricordare che l’intolleranza politica è altrettanto dannosa di quella
49
Thomas Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., p. 28.
21
religiosa e di unirsi come Americani per salvare l’Unione, rendere
efficiente il governo rappresentativo e sviluppare le risorse nazionali.
Nel resto del discorso espose i principi politici del nuovo governo. Il
paese, disse, “dovrà avere un’amministrazione saggia e sobria”, cui
spetti garantire l’ordine tra gli abitanti, “lasciandoli però liberi di
regolare la propria attività e di perseguire il proprio miglioramento
senza togliere a chi lavora, il pane da lui guadagnato”. Essa doveva
poi garantire i diritti dello Stato, cercare una leale amicizia con tutte le
nazioni, “senza impegnarsi in alleanza con nessuna”. Jefferson
promise, inoltre, di mantenere l’Unione “in tutto il suo vigore
costituzionale”, di garantire “la supremazia dell’autorità civile su
quella militare” e di favorire le elezioni popolari, unico modo per
evitare le rivoluzioni50.
Egli cominciò, dunque, il suo mandato con un appello all’armonia.
“Siamo tutti repubblicani, siamo tutti federalisti”, dichiarò nel suo
discorso inaugurale e si rifiutò di ascoltare le pressanti richieste dei
suoi sostenitori che volevano fare immediatamente piazza pulita dei
federalisti nelle cariche pubbliche. Anche se in seguito Jefferson amò
definire la sua elezione come “la rivoluzione del 1800”, essa lo fu
soltanto in parte. I repubblicani capovolsero molte iniziative politiche
dei federalisti: abolirono, ad esempio, la legge sulla naturalizzazione
del 1798, restaurando il requisito dei cinque anni di residenza per
l’acquisto della cittadinanza, e abolirono non solo l’odiata tassa sul
whisky, ma l’intero sistema di tassazione interna51.
Il maggior successo di Jefferson come presidente fu l’acquisto della
Louisiana, che comportò qualche compromesso sui principi politici.
Nel 1800, come primo passo verso il rafforzamento dell’impero
francese nel Nordamerica, Napoleone aveva concluso con la Spagna
50
51
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, cit., pp. 154-155.
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 86.
22
un trattato per il ritorno alla Francia della Louisiana, vasto territorio
che comprendeva anche New Orleans. Il trattato fu tenuto segreto e la
Spagna continuò ad amministrare il territorio, ma presto qualche
notizia cominciò a trapelare. Jefferson, pur essendo da sempre
filofrancese, era preoccupato che alle debole Spagna si sostituisse
come confinante una Francia potente e aggressiva. Nell’aprile 1802
egli scrisse che, mentre gli Stati Uniti avevano fino a quel momento
considerato la Francia loro “amico naturale”, c’era nel mondo un
“unico posto”, il cui proprietario era loro “naturale e abituale nemico”:
quel posto era New Orleans, sbocco dei prodotti di circa metà del
territorio degli Stati Uniti. “Il giorno in cui la Francia prenderà
possesso di New Orleans”, concludeva Jefferson, “dovremo unirci alla
flotta e alla nazione britannica”52.
Sicuro che questa minaccia avrebbe avuto effetto, sapendo che dopo la
breve pace di Amiens una nuova guerra con l’Inghilterra era
imminente e che, quando questa fosse cominciata, la Francia avrebbe
perso la Louisiana, Napoleone, scoraggiato di non riuscire a
schiacciare la grande ribellione del capo negro Toussaint Louverture
nell’isola di Haiti, dove nel 1802 gli insorti e la febbre gialla avevano
distrutto una guarnigione di 24.000 uomini, decise di cedere la regione
agli Stati Uniti, assicurandosi l’amicizia di questi ultimi e riempiendo
le proprie casse. Questo vasto territorio passava in possesso della
repubblica stellata per la somma di 15 milioni di dollari. Procedendo
all’acquisto, Jefferson agì senza il consenso del Congresso e “tese la
Costituzione fino a spezzarla”, poiché nessuna clausola di essa
autorizzava l’acquisto di territori stranieri53. Con questo atto, in
contrasto dunque con l’interpretazione restrittiva della Costituzione, di
52
53
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p. 88.
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, cit., p. 157.
23
cui egli stesso era sostenitore, Jefferson assicurò l’avvenire degli Stati
Uniti come potenza coloniale.
L’acquisto della Louisiana fu fondamentale per la sua rielezione alla
presidenza degli Stati Uniti, avvenuta nel 1804 ed allo scadere del
secondo mandato, Jefferson rifiutò di presentarsi una terza volta alle
elezioni presidenziali, ripercorrendo le orme dei predecessori,
nonostante che i corpi legislativi di cinque Stati gli avessero
formalmente chiesto di portarsi candidato e si ritirò a Monticello, la
dimora in stile palladiano, da lui stesso disegnata, che si era fatto
costruire nelle sue terre, nei pressi di Charlottesville. E dedicò gli
ultimi suoi anni alla fondazione dell’Università di Virginia, di cui
disegnò personalmente gli edifici e fu il primo rettore, organizzandone
tutta l’attività nazionale. Morì il 4 luglio 1826, cinquantesimo
anniversario della Dichiarazione d’indipendenza54.
Sulla sua pietra tombale si legge: “Qui fu sepolto Thomas Jefferson,
autore della Dichiarazione d’indipendenza americana, dello statuto
della Virginia per la libertà religiosa, e padre dell’Università della
Virginia”55. Non c’è alcun riferimento, dunque, alle sue cariche
politiche ricoperte, prima fra tutte la presidenza degli Stati Uniti. Ciò
avvenne per volontà dello stesso Jefferson, che volle così che si
ricordassero soprattutto i suoi tre maggiori contributi ideali56.
54
Thomas Jefferson, Antologia degli Scritti politici, a cura di Alberto Aquarone, cit., p. 29.
Thomas Jefferson, Political Writings, cit., p. 21.
56
Allan Nevins, Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, cit., p. 141.
55
24
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Indice dei nomi
25
Adams J.,
Aristotele,
Cicerone M. T.,
Franklin B.,
Dickinson J,
Giorgio III,
Locke J.,
Hamilton A.,
Hancock J.,
Jay J.,
La Fayette,
Lincoln A.,
Livingston R.,
Madison J,
Mason G.,
Morris R.,
Napoleone B.,
Paine T.,
Sherman R.,
Tocqueville A.,
Thomson C.,
Washington G.,
Webster N., 7
Indice
26
Capitolo Primo…………………………………2
Capitolo Secondo………………………………7
Capitolo Terzo………………………………..21
Bibliografia…………………………………...25
Indice dei Nomi………………………………26
27
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