Dal Futurismo al l`assurdo. L`arte totale di Beniamino Joppolo
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Dal Futurismo al l`assurdo. L`arte totale di Beniamino Joppolo
Katia Trifirò Dal Futurismo all’assurdo. L’arte totale di Beniamino Joppolo Le Lettere INDICE GENERALE Premessa........................................................................................... p. I. Una tentazione essenzialistica: prodromi per la fondazione di un’arte totale....................... » 7 11 1. Messina-Firenze, gli esordi poetici all’ombra del Futurismo.............................................................................. » 11 2. La tela deformata dei racconti, camera oscura di drammaturgia........................................................................ » 48 3. Autobiografia mascherata. I romanzi e l’indagine sull’esistenza........................................................................... » 97 II. Anti-mimesi onirica del reale. Una scrittura o-scena.......... » 147 1. Distruzione, rinascita, abumanesimo. Dal romanzo alla scena, l’arte e l’uomo in metamorfosi............................ » 147 2. Faust e Prometeo: un’idea alchemica del teatro.................. » 184 3. Da Milano a Parigi. Ascesa e caduta di un drammaturgo “cancellato”........................................................................... » 197 III. Dalle avanguardie primonovecentesche all’assurdo. Proposte di periodizzazione per un teatro abumanista.......... »215 1. L’evasione fantastica: 1941-1943, una stagione di visioni colorate...................................................................... » 215 2. Aspettando l’abuomo. Il corpo bombardato della parola (1945-1948)................................................................ » 241 3. Tra utopia e disincanto: l’ultima stazione (1955-1960)........ » 260 Bibliografia....................................................................................... » 281 Indice dei nomi................................................................................. » 293 II Anti-mimesi onirica del reale Una scrittura o-scena 1. Distruzione, rinascita, abumanesimo. Dal romanzo alla scena, l’arte e l’uomo in metamorfosi Follia e bestialità deformano orrendamente l’uomo, prigioniero di una schiavitù morale che lo svuota di volontà propria riducendolo a pedina del caso sullo scacchiere della guerra. Automa intrappolato nel ricatto inumano del potere e della ricchezza, egli è corrotto dall’odio, dalla politica, dalle ideologie, potenti «narcotici» di cui la natura si serve per vendicarsi della distruzione subita dagli uomini, mettendoli l’uno contro l’altro sino al reciproco annientamento. Con i «muscoli della libertà» atrofizzati, popoli abbrutiti, comandati da padroni malvagi, ricchi e potenti, e «schiavi spinti alla cieca in grigioverde» si agitano sgraziatamente nella «buffonata sconcia» della crudeltà, che si nutre di miseria, malattia, pena, degenerando l’uomo nelle convulsioni più aberrate della ferocia, della «bruta colluttazione fisica», dell’involuttimento nella violenza. La metamorfosi in bestia diviene cifra allegorica di una condizione umana degradata, smarrita, mutilata per la quale l’evoluzione dal regno animale si è interrotta, o meglio si è invertita, senza più possibilità di distinguere il volto dell’individuo che la guerra ammassa in «oceano scintillante di sangue di urli formicolanti di vermi al sole o immobili di viola nel gelo», mentre nei paesi di campagna guadagni illeciti, corruzione e commercio con gli sfollati avviano una «piccola borghesia avvilita» e, nell’alveo metropolitano, lo spettro dell’alienazione spersonalizzante incombe subdolo sulle nuove forme di schiavitù industriale: […] masse di uomini dai muscoli potentemente tesi dalla disperazione, che con facce e con occhi esasperati nell’aria correndo si aggiravano in officine lucide e inesorabili d’acciaio, si divincolavano, si agitavano, salendo e scendendo, avanti e inditero, e altre masse che si curvavano a quattro gambe sulla terra e assieme a cavalli e a bovi e ad attrezzi di acciaio scavavano a solchi la terra, i mezzo a blocchi di ghiaccio, tutte e due le masse, o in mezzo 148 dal futurismo all’ASSURDO a gocce di sudore pietrificate dal caldo e componenti un’enorme statua di perline1. Così, ne La giostra di Michele Civa, agli occhi allucinati del protagonista eponimo, sottoufficiale che si arruola volontario nell’aviazione militare per un premio di ventiduemila lire, appare la visione paurosa del l’umanità ridotta a merce, bestia muta, massa informe dall’«incubo di lucidità» della seconda guerra mondiale e dalle sue conseguenze, devastanti sia sul piano dell’assetto sociale, radicalmente sconvolto, sia, a causa di una irrefrenabile azione deformante e violenta, sull’esistenza stessa degli uomini, al punto che «bisognava con rabbia con crudeltà rimpastarli tutti per rimetterli nella forma dell’uomo e rifarli nuovi». In uno scambio definitivo tra essere umano e materia inanimata, il treno sul quale Civa torna a casa per la licenza diventa «un essere fornito di ragionamento e di sensi che gli consentono di aprirsi e seguire una strada che pensa, traccia, vede e sente sotto le rotaie», mentre chi vi è dentro «è un insetto schiacciato dall’incubo del mostro che se lo trascina dietro». Il viaggio che il protagonista compie verso sud, dove Messina bombardata è ancora proiezione biografica e microcosmo di una civiltà in disfacimento, sembra alludere, nel processo consueto di intreccio narrativo e denuncia, in cui romanzo e storia si sovrappongono per eludere le maglie rigide della censura, alla bestialità dell’ultimo viaggio con cui uomini e donne sono condotti da prigionieri ai campi di sterminio: Nei corridoi dei sottopassaggi la gente si accalcava come una mandra di bestiame serrato appiccicato dal sudore in un’unica massa, urlava, si spingeva, c’era un’infinità di militari, un megafono trasmetteva spiegazioni in tedesco e in italiano, che nessuno ascoltava, si finiva con lo sboccare su di uno spiazzale della panchina del porto, si entrava nella nave traghetto per essere trasportati in Sicilia, come bauli o casse o sacchi. Lo stato d’animo esasperato di un baule, o di una cassa, o di un sacco sentiva di avere Michele Civa quella mattina2. In una ideale definizione dei poli di indagine attraverso i quali Beniamino Joppolo scruta l’essenza umana per restituirla, attraverso la trasfigurazione letteraria, mascherata nella forma di personaggi-simbolo intrisi di autobiografismo, affidando alla finzione artistica il necessario sondaggio sull’esistenza che l’incalzare dei fatti storici impone ai suoi protagonisti, 1 B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, Milano, Bompiani, 1945, ora in B. Joppolo, Tutto a vuoto, La giostra di Michele Civa, Un cane ucciso, a cura di L. Falcone e G. Joppolo, Marina di Patti, Pungitopo, 2010, p. 106. Tutte le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione. 2 Ibidem. Anti-mimesi onirica del reale 149 se la cornice familiare è osservatorio privilegiato per misurare nello spazio angusto delle relazioni domestiche il grado di ingiustizia e violenza che la più ampia stanza della tortura sociale esaspera, sul piano macroscopico della storia sono la dittatura, la guerra e l’esplosione della bomba atomica a costituire, per l’autore, prova di un oscuro male contenuto alle radici dell’umanità, ancora sfigurata dai residui bestiali di una incompiuta evoluzione, che solo l’atto liberatorio e distruttivo di una catarsi palingenetica può avviare. Considerando il «supernazionalismo risorgimentale» che in Italia e in Germania ha condotto al fascismo e al nazismo, e, per un altro verso, l’eccesso di «tecnicismo» in «scienza arte filosofia, politica, sociologia» come forme di un «umanesimo decaduto», «manifestazioni patologiche» di una condizione giunta all’eccesso, egli auspica un ritorno all’uomo attraverso il superamento delle limitazioni che la degenerazione dei tempi ha comportato, profetizzando l’avvento dell’abuomo, riconciliato con se stesso e con il creato, superiore combinazione di atomi che appartengono, allo stesso tempo, a tutto l’universo, in ogni sua componente, e alla materia divina, secondo un principio spirituale di Unità panica e cosmica3. L’elemento autobiografico sigla la memoria della vita in caserma4 che funge da scenario al romanzo, innestando su un fatto di cronaca realmente accaduto la trasfigurazione della trama di eventi in epifania di immagini, che accolgono sin dalle prime pagine «un inarrestabile lievitare della violenza», attraverso l’abolizione di ogni confine tra esterno e interno dell’uomo, così che «espressionismo figurativo» ed «espressionismo psicologico»5 si fondono scatenando la peculiare cifra fantastica dell’autore. Come conferma, ancora una volta, La doppia storia, che funziona da prezioso e insostituibile archivio per la scrittura joppoliana, restituendoci il clima e i motivi che accompagnano la nascita del romanzo, nel confronto serrato con Migneco («Peppe») attraverso cui rileviamo, inoltre, un interessante dato sui rapporti del nostro con gli artisti coevi e il fermento di idee che ne anima i dialoghi: B. Joppolo, L’abumanesimo, cit. Joppolo ricevette la cartolina di chiamata alle armi il giorno stesso del matrimonio con la pittrice Carla Rossi (1942), per seguire un corso di addestramento a Nettuno: «insofferente della disciplina militare, segue il corso in abiti borghesi ed alla fine è assegnato al II Reggimento Artiglieria di Cremona. È poi decentrato nell’alto Bergamasco, insieme a Giacomo Manzù, perché sospetto di sobillare i soldati alla resistenza, con l’aiuto del soldato Fantasio Piccoli [lo stesso che cura la regia de I carabinieri, Bologna, 1945, ndr]. Qui, su un episodio di cronaca, […] costruisce il romanzo La giostra di Michele Civa […] Bontempelli vi ravviserà reminiscenze del proprio realismo magico», M. De Paolis Raffaele, Nota biobibliografica, cit., p. 222. 5 Vanni Bramanti, Un groviglio di filo. Appunti sulla narrativa di Joppolo, in Aa.Vv., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, cit., p. 63. 3 4 150 dal futurismo all’ASSURDO In caserma compiva i suoi soliti giri e quasi giornalmente visitava tutta la città. In una delle tante visite che si scambiavano con Peppe, che era ufficiale a Brescia, un giorno questi gli suggerì di scrivere un libro, partendo da un fatto reale senza più abbandonarsi alla fantasia astratta. Peppe sosteneva che se il suo temperamento era portato alla fantasia astratta, anche senza volere il suo temperamento avrebbe intriso un libro scritto su dati reali persino veristici. Procedendo in questo modo avrebbe evitato il vuoto a cui quasi sempre conduce la pura fantasia, e nello stesso tempo questa, essendo in lui inevitabile, avrebbe acquistato un sapore più specioso e più unico. Giacomo obiettò, sul momento, che si poteva agire con la procedura inversa, partire dalla fantasia astratta per arrivare al reale, e il risultato sarebbe stato lo stesso. Peppe insistette dicendo che non si può degradare la fantasia nel vero, ma al contrario decantare la realtà nella fantasia, e quindi ne risultava che non era lo stesso. Giacomo ci pensò su e fini col dare ragione a Peppe. E il caso lo aiutò. Si verificò una strana coincidenza. Un aviatore bombardò, in un piccolo centro, e mitragliò una giostra nella quale molti bambini giocavano su cavallucci di legno giranti attorno a un asse. Nello stesso periodo al reggimento era arrivato il bando di un volontariato per l’aviazione con un premio di sedicimila lire. Tra i volontari c’era un ragazzo magro, triste, terreo ed esasperato. Giacomo lo scelse come eroe della sua storia, che partendo dal reale doveva arrivare al fantastico. E scrisse il libro. Dal bisogno minimo, da sedicimila lire viste come una somma importante, a poco a poco, il sergente volontario assurge al fantastico sociale e al fantastico ideale, ed elimina, attraverso alcuni loro rappresentanti fisici, i principi di “Ricatto, Propaganda, Bestialità e Comando” per una umanità migliore e più alta. Riguardo al bombardamento e mitragliamento della giostra con i bambini lo aveva mantenuto su un piano puramente fantastico di probabilità, ma non avvenuto nella realtà. Scrisse il libro in poco tempo, lo lesse a molti, chiese, si fece spiegare, dire cosa ne pensavano, e concluse che Peppe aveva avuto ragione nel suggerirgli quella procedura6. Una accentuata dimensione simbolica del romanzo lo colloca in posizione ibrida nella narrativa del dopoguerra, anche per la presenza destabilizzante dei moduli espressivi topici della scrittura joppoliana che, riconosciuti dallo stesso autore, risolvono in esplosioni allucinatorie, cifra fantastica, allegorie zoomorfe le zone oscure del reale, eretto sul materiale incandescente delle vicende belliche, dissolvendo in puri contorni iconici la consistenza dei personaggi – attraverso il consueto repertorio di statue, fotografie, ombre che mutano lo spessore fisico in immagine, ridotta talvolta a singola parte del corpo smembrata dall’insieme – e affidando ai caratteri antirealistici del racconto la fitta trama di significati che definiscono un perentorio rifiuto della guerra, un’ansia di ribellione com- B. Joppolo, La doppia storia, cit., pp. 631- 632. 6 Anti-mimesi onirica del reale 151 pleta verso ogni forma di autorità, l’atto di accusa contro lo sgretolamento della condizione umana, così che la riflessione storica si spalanca sul (non)senso dell’esistenza. Proprio l’ambizione alla totalità, il progetto di convogliare nella vicenda di Michele Civa una narrazione di simboli, avevano indotto la critica, anni dopo la prima edizione, a definirla «un’opera che ben poco ha a che fare con i romanzi sulla guerra e sulla resistenza, di impianto tanto spesso memorialistico, apparsi fino alla fine degli anni Quaranta e anche oltre»: […] da porre fra quelle opere che, sulla scommessa della scrittura letteraria, giocano un’infinità di carte ideologiche e morali, nella ricerca appunto della struttura totale capace di sopportare al proprio interno tutto ciò che si può predicare dell’uomo nella sua storia e nella sua situazione esistenziale, di fronte all’azione e di fronte alla coscienza […]7. Così, nel 1989, Giorgio Bàrberi Squarotti introducendo La giostra di Michele Civa per le edizioni della Pungitopo, ne sosteneva la distanza dalle opere nate dall’esperienza della guerra come testimonianza del trauma profondo e angoscioso determinato da essa in un personaggio popolare, di impianto fondamentalmente realistico e documentario, da Calvino e Pavese, Vicentini e Viganò, Rigoni Stern e Lunardi, Berto e Tobino e tanti altri ancora, riscontrando, semmai, pur con profonde differenze, l’unico punto di riferimento, almeno cronologico, in Uomini e no di Vittorini, per una comune presa di posizione «sulla condizione umana di fronte alla storia e alla vita». Sono, infatti, una «pietà anonima per la vita», una tristezza sentita «sin dalla matrice materna per le ingiustizie della vita», insieme alla comprensione di un «reciproco dispregiarsi dei poveri a tutto favore dei ricchi» ad insinuare in Michele Civa l’urgenza di una missione rigeneratrice, da assumersi nei confronti propri e dell’umanità, elaborata sulla direttrice teorica dell’uccisione dei principi di Ricatto, Propaganda, Comando, Bestialità, strumenti con cui i veri principi da eliminare, Potere e Ricchezza, ombre del puro principio di Reggenza degli uomini, tengono in scacco l’esistenza individuale e collettiva. In un cortocircuito abbacinante tra pulsioni fantasticate di morte e omicidi veramente compiuti – seppur al di fuori di qualsivoglia criterio di verosimiglianza –, tra fatti reali e dialoghi immaginati, l’(anti)eroismo di Civa si identifica con il recupero della speranza di rendere se stesso più degno «di vivere» e di dire di aver avuto «uno scopo nel nascere», tramutando la propria vicenda personale in esemplare, al fine di ristabilire una giustizia per gli uomini, compromessa dalle deformazioni alle quali la guerra costringe, e di redimerne G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 260. 7 152 dal futurismo all’ASSURDO l’esistenza dalla violenza, attraverso l’esasperazione della violenza stessa, «diventando superbestia» e lavorando all’eliminazione dell’uomo, finché questo «non sarà diventato uomo e non avrà cessato di essere bestia»: Se l’uomo fosse uomo sarebbe spaventoso ucciderlo. Ma l’uomo non è ancora uomo, esso ha soltanto il conato, il sogno, l’incubo di essere uomo. Se fosse uomo non potrebbe rendere schiavo l’altro uomo come una bestia qualsiasi per farlo lentamente morire nella fatica senza sosta e senza speranza, nella miseria e nella fame, ponendo tra se stesso e gli altri insormontabili barriere come si trattasse di esseri superiori di fronte a bestie. L’uomo è ancora bestia, […] tanto è vero che gli uomini tra loro si trattano con lo stesso metodo con cui sono trattate le bestie. E non può uccidere le bestie colui che è ancora esso stesso bestia. Almeno per solidarietà di classe. Se lo fa, esso stesso può essere impunemente ucciso8. L’estrema, radicale forza provocatoria contenuta in questo paradosso innesta un dibattito critico che si avvale principalmente dell’apporto di Joppolo e di Audiberti, il quale individua nel romanzo alcuni aspetti centrali per la sua teoria «abumanista», traducendolo in francese9, e inaugura una dialettica feconda lungo l’asse Italia-Francia partecipata da numerosi studiosi, il cui esito è un numero monografico dei «Quaderni del Novecento francese»10, pubblicato nel 1984, contenente altri due saggi joppoliani che concorrono a definire la teoria dell’abuomo. Il volume del 1951 L’abumanesimo, cui sono anteposte, in premessa, le riflessioni di Audiberti, è dunque la sintesi programmatica, come abbiamo ipotizzato nel primo capitolo, di una visione negativa dell’uomo del Novecento, e, più in generale, dell’umanità di ogni tempo, se il frutto dell’evoluzione si è rivelato marcio, infetto, cancrenoso, producendo, con l’atomica, la disintegrazione definitiva del concetto di uomo. La poetica joppoliana, impregnata dal bisogno di affermazione etica che si esplica in tutte le forme della sua produzione, non è, pertanto, B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 154. Jacques Audiberti, Cheveaux de bois, Paris, Editions du Chêne, 1947. Due anni più tardi Audiberti traduce e presenta Un cane ucciso (Le chien, le photographe et le tram, Paris, Corrêa, 1951). 10 Aa.Vv., Abumanesimo: Audiberti, Joppolo, «Quaderni del Novecento francese», cit. Contiene Orizzontalità (1940) e Tutto è all’altezza dell’uomo (1945) di Joppolo, la prefazione di Audiberti alla traduzione francese del romanzo e un intervento su Quelques pages d’un Cahier manuscrit du Retour du Divin, i saggi di Giroud (Abhumanisme audibertien, une transmutation généralisée), Guérin (L’Abhumanisme dans le théâtre d’Audiberti e una nota bio-bibliografica), Margarito (Néologismes de discours dans deux textes d’Audiberti), Zoppi (Toast à l’Abhumanisme?), Gianolio (Audiberti / Joppolo al di là di ogni possibile traduzione), Tedesco (L’esordio narrativo di Beniamino Joppolo), Perrone (L’esistenzialismo narrativo di Joppolo tra ipotesi surrealista e scrittura espressionistica), Bruno (Il film e l’immaginario, ricordo di Beniamino Joppolo), De Paolis Raffaele (Beniamino Joppolo. Nota bio-bibliografica). 8 9 Anti-mimesi onirica del reale 153 scindibile dal rapporto con i fatti storici che la generano e, per queste ragioni, non si comprende se la volontà totalizzante di erigere un’opera dalla portata teorica fondante viene separata dall’espressione puramente artistica che poesia, racconto, romanzo, teatro, pittura, critica esibiscono. Indagando quanto espresso in forma narrativa ne La giostra di Michele Civa, Audiberti condensa il senso storico della posizione teorica di Joppolo applicandola all’impeto distruttivo e paradossale con il quale viene prefigurata l’abolizione del male per tramite dell’esacerbazione del male stesso: La parola uomo, scelta per stabilire una netta distinzione tra uomo e bestia, e che comporterebbe un intero contenuto di umanità nel senso alto che al termine “umano” si dà in sede etica e logica, la parola uomo, dopo millenni di esperienze, si è rivelata insufficiente e priva di significato ai fini di un netto distacco dalla bestia. In sede storica l’umanesimo avrebbe dovuto significare l’estremo sviluppo del carattere “umano” dell’uomo attraverso l’esasperazione del principale carattere dell’uomo stesso, il razionale. Senonché è avvenuto che proprio l’umanesimo, attraverso l’esasperazione di questo carattere tipico dell’uomo, il razionale, ha tracciato una parabola che da Cartesio e Galileo va a finire alla bomba atomica e allo scientifico e razionale sviluppo della parte meno umana dell’uomo, la ferocia bestiale organizzata e scientifica contro l’uomo stesso peggio che contro la bestia. Superare dunque il termine uomo con un nuovo termine, abuomo, che può voler dire scaturito dall’uomo, superato o anche staccato dall’uomo, contro l’uomo così come contro una qualunque bestia a lui inferiore anche se con parvenze umane. Come giungere a ciò? Non forse attraverso l’esasperazione del razionale divenuto ferocia, seguendo l’antico metodo del liberarsi da un male esaurendolo sino in fondo?11 Michele Civa è l’estremo teorizzatore e il lucido portatore di questo elemento «razionale divenuto ferocia», assumendo su di sé la violenza non come arma di distruzione agita contro gli uomini ma come strategia di annientamento dei principi che essi rappresentano, strumento di un fatale e furioso disegno della «natura che si vendica con gli uomini per tutte le creature vive della terra del mare e dell’aria che essi abbattono ogni giorno nella morte. E così fa scannare gli uomini tra loro». Il profilo del doppio («Michele Civa ascoltava sempre Michele Civa parlare su di un piano sempre più lucido») si insinua tra le pieghe di una coscienza assassina annichilita dalla violenza del Ricatto, «divenuto persona» nel colonnello Masi che offre un premio in denaro in cambio dell’arruolamento volontario in aviazione, e dalla suggestione ambigua della Propaganda, con cui il sottotenente De Carli turba le anime e le menti ma «senza agire, senza 11 Premessa a B. Joppolo, L’abumanesimo, cit., pp. 3-4. 154 dal futurismo all’ASSURDO fare», rimanendo per questo nella «categoria dei padroni che devastano gli schiavi con in più la malsana e sadica gioia di farli impazzire»: In infermeria diceva ai soldati che la peggiore malattia era fare il soldato e la guerra senza sentirla, e che dunque le loro malattie particolari non erano niente. Nelle camerate sostava davanti ai letti e lo prendeva la commozione nell’osservare certi pettini colorati da fiera, certe soste dei soldati stanchi sui letti, certi asciugamani, tutte quelle piccole furberie che il soldato usa durante tutta la giornata per ricordarsi e illudersi, minuto per minuto, che è ancora un essere con qualche probabilità di ridiventare uomo. […] Poi usciva per le strade, e la sua principale occupazione, nella cittadina, era quella di denudare col pensiero giornalmente, tutti quegli schiavi spinti alla cieca in grigioverde, vestirli di abiti da uomini liberi, farli correre con volti finalmente gioiosi, farli ridere12. L’antimilitarismo di De Carli, al quale Joppolo affida la sua orazione civile sulla illogicità della guerra, si può caricare di valore positivo solo se, da mera Propaganda, si attiva in vera rivoluzione: Ecco, vedi, non è che io non ami il mio paese, la questione è un’altra, ed è che io non sento né l’italianismo né il francesismo né l’inglesismo né il russismo né il germanismo né l’americanismo. Sarei tuttavia capace di morire per uno di questi ismo se esso coincidesse con una rivoluzione. Una volta sarei morto volentieri per il francesismo quando questo coincideva con la rivoluzione, oggi potrei morire per il russismo perché questo coincide con un’altra rivoluzione che sogno, tutti gli uomini portati alla dignità umana collettiva e singola, sarei morto anche per l’italianismo del rinascimento se si fosse posto sul piano di rivoluzione mondiale da imporre. Del resto è tutto una tragica buffonata una bruta colluttazione fisica13. Si intravede qui la concezione di un “comunismo umanitario” al quale Joppolo dedica ampio spazio teorico nell’impianto narrativo dei due romanzi inediti del 1947, I gesti sono eterni e Notti cariche di teorie, e che è oggetto di una sistematizzazione più complessa, incrociando la prospettiva storica e l’utopia, nel saggio inedito Gesù (1948), che offre il punto di vista di una interpretazione politica del cristianesimo: Gesù ebbe dell’uomo tale idea divina e dignitosa da dover certamente avere un supremo fastidio di fronte a una umanità organizzata su basi di assoluta e promiscua ingiustizia. […] Certo Gesù ebbe un supremo disprezzo per ricchi e per potenti. […] è condizione veramente innaturale e contro armonia universale predestinata che una creatura divina serva e l’altra comandi, 12 13 B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 90. Ivi, p. 141. Anti-mimesi onirica del reale 155 […] sia per chi comanda come per chi serve. La parabula di colui che deve riconciliarsi col nemico per non essere cacciato in prigione, dove pagherà fin l’ultimo spicciolo, è molto chiara: lo schiavo, il prigioniero, è tanto deforme quanto il ricco e il potente […] È in errore chi vuol vedere Gesù come un attivista rivoluzionario, ma è altrettanto in errore chi vuol vederlo come un indifferente sociale e politico, indifferente perché tutto preso dal problema mistico. Il particolare sociale e politico di Gesù si può racchiudere nel seguente ragionamento: amare con gioia, umiltà, povertà di spirito, la condizione umana in cui ci troviamo, qualunque essa sia, onde non turbare il nostro ciclo di eternità, che deve essere lo scopo ultimo di ogni umana creatura; non odiare la sorte toccataci; sottrarci pacificamente alla schiavitù [….]; condannare, negandogli qualunque possibilità di accesso al ciclo del l’eternità, il reazionario statico, con una lotta sorda, mai scoperta, isolandolo, disprezzandolo. Il reazionario, lo statico, è colui il quale, rifiutandosi di accedere alla visione di una migliore società, che il rivoluzionario ha avuto, […] provoca disastrose conseguenze di deformazione sul volto della logica e armonica predestinazione universale. […] In sede sociale e politica fu Gesù in rivoluzionario contrario alla rivoluzione come capovolgimento. […] Ma ancor di più Gesù, anche se fu contrario ai rapidi capovolgimenti, diffidò della stasi e della condizione di reazionario sterile. In realtà tutta la maniera di vivere di Gesù, l’errare, l’accettare da chiunque e il dare a chiunque, l’avere in comune cibi e denaro e casa e spighe e pane e campi, tutto ciò dimostra che Egli era assolutamente lontano e indifferente al concetto di proprietà privata14. Definendo la rivoluzione comunista come la logica conseguenza della rivoluzione francese e della rivoluzione cristiana, secondo una ideale discendenza storica da Achille ed Ettore a Gesù, da Gesù a Robespierre, da Robespierre a Lenin (Notti cariche di teorie, p. 175), ne La doppia storia, infine, Joppolo chiarifica ancora il rapporto tra comunismo e cristianesimo, affermando che «solo dopo la realizzazione del comunismo si sarebbe potuto arrivare al diritto di parlare di una “società cristiana”»: Per una ragione inesplicabile Gesù era nato prima di Marx. Marx, in una logica storica, avrebbe dovuto nascere prima di Cristo, avrebbe dovuto, prima del Messia, essere l’ultimo dei Profeti per preparare il terreno alla rivelazione e alla distensione per la comprensione, in parità raggiunta, tra gli uomini. Forse Cristo era nato prima per addolcire l’urto tra le classi. Ma, dopo questa fase di addolcimento, ci sarebbe stata una parentesi con prevalenza di Marx, per ritornare poi a Cristo e alla sua rivelazione, ricomponendo le logiche storiche, perfettamente fusi cristianesimo e comunismo15. 14 B. Joppolo, Gesù, Milano, inedito, 1948, «Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”. Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze», Fondo Beniamino Joppolo, pp. 27-31. 15 B. Joppolo, La doppia storia, cit., p. 436. 156 dal futurismo all’ASSURDO La condizione di «schiavo mediocre disprezzato» in cui Michele Civa si trova a causa del ricatto del denaro che continua a perseguitarlo con la faccia del tenente colonnello Masi («saltellò sola senza corpo, come una nespola risecchita, e gli occhietti e la bocca, piccola piccola questa come quella di una vipera»), è quella del popolo privato della sua «anarchia libera e generosa» dalla tensione alla scalata sociale, verso l’imborghesimento e l’ambizione economica, rivelata dall’insinuarsi dei «soldi che scorrono come l’olio» (e il macellaio con macellazioni clandestine diventa «ricco come un porco»)16, nei commerci illeciti dei contadini, i quali, approfittando della penuria delle merci e della presenza dei cittadini sfollati, «credono di diventare dei signori» e dissimulano avidità e astuzie nei consueti atteggiamenti umili e sottomessi davanti ai padroni. La città, «spazio elettivo del male»17, ha contagiato anche i luoghi periferici, dissolvendo la possibilità di un dualismo con la campagna fondato sulla contrapposizione tra l’alienazione umana e la corruzione del denaro da una parte, la genuinità dei costumi e l’aura materna della terra contadina dall’altra18. Anzi, in un ambiguo svolgersi di affari, che nega la possibilità del ritorno a casa come rifugio nella memoria e nelle proprie origini, degradando il nucleo domestico e i suoi valori simbolici in covo di relazioni adulterate, in un clima che ricorda da vicino la Napoli, milionaria! di De Filippo19, Civa trova con delusione e sorpresa i propri familiari20, scoprendo la mi- 16 Le stesse similitudini si trovano nel romanzo breve Il ritorno di Leone (scritto nel 1959 e pubblicato postumo in due puntate su «L’osservatore politico e letterario», maggiogiugno 1981, nn. 5-6): nel confronto, questa volta, tra «la vallata» da cui il giovane protagonista decide di partire per cercare fortuna come emigrante, e l’Australia, dove «proprio come l’olio scorrevano i soldi» (prima parte, p. 69). I viaggiatori sono aiutati da un «missionario dell’emigrazione», Don Candeloro, ambigua e parodica figura di colui che procura loro la cifra necessaria per predisporre la partenza, diventando, nel frattempo, «ricco come un porco tutto d’oro» (ibidem). 17 V. Bramanti, Un groviglio di filo. Appunti sulla narrativa di Joppolo, cit., p. 63. 18 Questo topos sorregge la cornice narrativa del racconto Gli alberi di Alberto, che descrive la delusione del protagonista di fronte all’indifferenza e al disincanto dei due nipotini per quel mondo del quale, tentandone la redenzione, si certifica la fine: «Quella gente ama solo il danaro, e noi non dobbiamo tradire questi alberi, lasciandoli in mano di chi non li ama, abbandonandoli in un’aria triste, pesante», in B. Joppolo, La nuvola verde e altri racconti, cit., p. 143 (pubblicato su «Il settimanale», Milano, settembre-novembre 1947). 19 Nell’inedito I gesti sono eterni la città partenopea è esplicitamente citata: «Napoli, come il centro più importante di tutta la zona occupata, aveva concentrato lo stato d’animo tipico del momento […] i partiti pullulavano, il popolo voleva bere, mangiare, gozzovigliare, tutti facevano commercio con i generi portati dagli angloamericani, scatolame sigarette vestiti, i negri vendevano per somme irrisorie interi carichi di merce assieme ai camions, le donne si sfrenavano, c’era nell’aria l’agitazione di un’umanità che stretta a groppo per lungo voleva finalmente distendersi, respirare, cantare», p. 23. 20 Bàrberi Squarotti cita invece riferimenti verghiani: «la rappresentazione della famiglia di Michele nel suo tendere verso l’ascesa dalla condizione contadina a quella superiore; di commerciante […] è la stessa parabola che padron ’Ntoni Malavoglia vuole far descrivere Anti-mimesi onirica del reale 157 nore considerazione in cui tutti lo tengono e la metamorfosi borghese che ha contaminato le sorelle («delicate, artefatte, impacciate»), mentre il padre, come un «corvo inquieto», si affanna a procurare matrimoni vantaggiosi e a speculare, finendo col credersi un «padreterno di fronte a quel miserabile cialtrone di carne venduta». Solo la madre riprova la «mania del guadagno» che ha frenetizzato quel mondo contadino senza più tradizioni e dignità, sentendo empaticamente la stessa amarezza di Michele per un intero popolo e per la propria famiglia, al punto da divenire oggetto di una allucinazione del protagonista in cui viene rifondata per via materna l’essenza della generazione, ed invertito sin dal mito biblico originario il ruolo di maschile/femminile, secondo il noto modulo joppoliano della rimozione del padre: «e l’uomo nato dalla gamba di legno come da una costola di Carmela era lui, lui, Michele Civa». Non avviene neppure qui, tuttavia, il recupero positivo di una maternità mediterranea ed accogliente, se anche la madre appartiene alla schiera di quelle creature deformi di cui il romanzo è costellato, smaterializzandosi infine in «pallore livido» che rimane appiccicato al figlio senza risolversi in conforto refrigerante ma acuendo dolorosamente, piuttosto, la consapevolezza che «nulla della sua famiglia gli apparteneva più». La donna, del resto, pur vergognandosene e condannandolo, non è immune dal lerciume emanato dalla città che ha invaso la campagna, se ella stessa ha allestito un banco di frutta e verdura davanti alla porta di casa perché «c’è da guadagnare qualche cosa, con tutti questi sfollati»; ed è così che Michele la scopre al ritorno in paese, cogliendone l’imbarazzo e la tristezza, nel netto contrasto «tra tanta gioia di vegetazione e il frutto appassito e pallido che era il volto della madre». Ribadendo il valore simbolico dei personaggi21, nell’indagine sull’esistenza condotta da Joppolo su un alla propria famiglia, passando dalla condizione di pescatori a quella di commercianti con l’affare del lupini. La prospettiva è, naturalmente, molto diversa: nel romanzo di Joppolo, c’è in più l’accusa aspra e accanita nei confronti della volontà di ascesa economica, di ogni tentativo di mutare il proprio stato per tendere verso la prosperità, il denaro, gli agi e le abitudini di una condizione borghese vista come uno scopo da raggiungere in quanto è la soddisfazione di tutti i desideri». In questo senso, l’episodio del ritorno a casa, come del resto il tono di tutto il romanzo, ha più un valore simbolico che un andamento realistico, «è più vicino a D’Annunzio che a Verga o a Capuana, ma anche Pavese e Vittorini sono abbastanza lontani da Joppolo, perché non c’è ne La giostra di Michele Civa nessun intento di viaggio nel tempo verso la naturalità primitiva, ma un preciso discorso di attuali simboli di carattere sociale ed esistenziale», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., pp. 262-263. 21 «Tutta la narrazione è punteggiata di simboli: i due bambini che appaiono con le bocche sporche di caramelle e di cioccolata, la sorella di Michele che accetta in matrimonio un proprietario terriero abbastanza ricco, il pranzo che la famiglia di Michele recita come se ormai avesse assunto le abitudini e i modi borghesi, le visite (molto vittoriniane) ai personaggi influenti e potenti del paese, come il colonnello, il magistrato, con i due figli 158 dal futurismo all’ASSURDO campione antropologico specifico che si carica di universalità, la madre di Michele, «tutta pallore e malattia», con una gamba di legno, il padre mutilato, il promesso sposo della sorella («piccolo magro dal volto giallo ad azarola risecchita con attaccato sopra per naso un bitorzolo petulante, con due occhi fessi coagulati gialli e strabici e con le gambe storte»), dichiarano con l’esasperazione grottesca dei tratti fisici l’abbrutimento di una condizione umana patologica, che è ancora più evidente nella vallata, i cui abitanti si avviliscono nella stessa pena che contamina l’anima e il paesaggio. La «rabbia del caldo e del sole», gli «abissi di luce», le case e le strade «dilatate e violentate» dalla calura concorrono, anche in questo romanzo, a definire i topoi di una potenza insana sugli uomini, associata alla morte e alla follia e contrapposta alla liberazione e al sollievo che derivano dal buio, inteso come annullamento della luce e come possibilità di vita. Il calore inumano che avvolge in spire lugubri la terra siciliana arsa, inaridita e tormentata dalla luce assassina rievoca, trasfigurandolo, il paese dell’infanzia, triste chiuso e luminoso, pieno di gente malata e di poveri, che spesso si uccidevano per slanci di tristezza impiccandosi o bruciandosi come oppressi da quell’enorme luce costretta, che prometteva sconfinati mondi e che invece infine serrava e saturava l’anima sgretolandola22. Bisognoso d’evasione, secondo lo schema che proietta i protagonisti joppoliani verso un altrove materiale o metafisico, Civa insegue la modesta sorte di «poter studiare, migliorare, vedere il mondo da uomo veramente incivilito», scegliendo l’arruolamento volontario perché angustiato dalla vita, pur gonfiando nel suo «orrore della guerra» il controcanto della propaganda antibellica di De Carli («la borghesia ti darà il tozzo di pane […] e i padroni speculano sulla bile che seminano tra i servi per renderli sempre più bestie e quindi più servi»). Alla consapevolezza di essere parte di quel mondo tradizionale che la storia ha sconvolto, si aggiunge l’angoscia per la rivelazione di una umanità degenerata, che induce Civa a ribellarsi contro lo stesso De Carli, la cui propaganda è in realtà incapace di generare una rivoluzione catartica, riducendosi così a principio negativo da eliminare. Questi, emblema della condizione contro natura della guerra, è uno dei personaggi simbolo eretti dalla scrittura che il romanzo dispone all’estremo di una struttura chiastica a cui è opposto il tenente colonnello Masi, incarnante sin dai tratti fisici («La bocca senza labbra […] perfettamente inumana») la violenza del Ricatto che solletica il «muscolo del intellettuali e inerti», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 263. 22 B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 112. Anti-mimesi onirica del reale 159 danaro» nei soldati, promettendo un «premio di ventiduemilalire» per l’arruolamento volontario nell’aviazione. Si compone da qui il plot che concentra su Michele Civa il perno della narrazione, collocandolo ad un altro estremo del chiasmo, «attore della tragedia simbolica dell’uomo in rivolta contro tutti i simboli del sistema di vita che esiste nel mondo»23, contro cui, al polo speculare, si stagliano le vittime della parte più tremenda della guerra, coloro che si trovano sotto i bombardamenti. Proprio come le bestie terrorizzate quando l’uomo le vuole stanare per ucciderle. Pugni raggrinziti e immeschiniti divenuti nervi stretti a pressare gli occhi impauriti e istupiditi. Inermi, senza alcuna possibilità di difendersi aggredendo in qualche modo chi li aggredisce o anche sottraendosi alla morte con la fuga24. Sulle parole di Michele Civa pesa la memoria dei bombardamenti che Joppolo descrive, anche nella doppia storia, a Milano e a Messina, scegliendo la cifra della deformazione e del dissolvimento e assimilando alla catastrofe causata dall’uomo i cataclismi che ribellano la natura all’uomo, così che i bombardamenti e l’esplosione atomica completano il processo distruttivo di terremoti ed eruzioni, sino a comporre in unica visione la sovrapposizione degli effetti subiti dalla natura e dall’uomo, prefigurando nell’inedito I gesti sono eterni un’apocalissi che ad ogni latitudine, in Sicilia come ad Hiroshima, secondo il principio di una eterna ed universale orizzontalità, plasma nello sgomento creature vive e paesaggio: In una grande calma degli occhi e dello spirito Silvio vide perfettamente come Hiroshima era stata distrutta. Da ragazzo aveva assistito ad un’eruzione dell’Etna. Un fiume di lava grigio-scura incandescente scendeva dal vulcano per le coste della montagna con una velocità di pochi metri al minuto. L’aria su di essa aveva leggeri sussulti non appena giungeva nella zone d’ebollizione, come di veli appena visibili frammisti e sciolti tra di loro, ma subito dopo evadeva in una immobilità inumana […]. Tutta Hiroshima, animata e inanimata, in un attimo, si era trasformata in quell’aria che appena bolliva per subito dopo entrare nelle zone in cui diventava qualcosa di diverso e di chimicamente inesplorabile. […] Ed erano stati travolti colpevoli e innocenti, cose animate e cose inanimate, tutti divenuti qualcosa di diverso dell’aria e di chimicamente inesplorabile: ossa nervi vene carne occhi capelli pelle vestiti specchi cristalli mobili macchine anelli collane scarpe. Solo alla lontana periferia, dove il calore aveva resa l’aria, soltanto in ebollizione, veli appena visibili frammisti sciolti fra di loro, permanevano ancora forme di cose animate e inanimate in statue grigie che bastava appena toccare per 23 24 Ivi, p. 265. B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 151. 160 dal futurismo all’ASSURDO vedersele davanti infrante in mucchi di cenere. In realtà, tutte le cose animate e inanimate avevano oltrepassate le soglie di loro stesse per diventare corpo unico25. La guerra è considerata uno di quei «momenti cruciali» in cui gli uomini, per avere troppo esagerato «nella devastazione con macelli e fiumi di sangue», sono condotti a doversi «decisamente scannare tra loro», portando così a compimento il disegno vendicativo della natura che, normalmente, agisce ponendo una parte di uomini «in assoluta condizione di inferiorità di fronte agli altri uomini»: questi li devastano «con la schiavitù, con la fame, col freddo, lentamente, inavvertitamente». Ma la «reciproca inimicizia» degli uomini, disposti negli scompartimenti sociali per essere schiavi e padroni, è per Michele Civa soprattutto un’insidiosa esca del Potere che, agito dall’istinto di un’autoconservazione immutabile, come un sadico giocoliere «lancia in aria ventiduemila lire», lasciando che il bisogno di sopravvivere inciti la volontà distruttiva della classe che si strugge nella pena e nella miseria. L’allegoria del Tradimento domina la visione politica di una società dell’uguaglianza fondata sull’aiuto reciproco, il lavoro condiviso, il comune godimento dei beni primari, attraverso cui gli uomini possono unirsi per coprire «di piante, di verde», la «crosta terrestre arida terrea nuda», utopia dissolta dall’arricchirsi di pochi che, divenuti potenti, rendono schiavi tutti gli altri uomini. Uccidere i «principi Masi e De Carlo», che il desiderio di «quel po’ di pane di letto di caldo per non morire, un po’ di quel bene che tutte le creature umane assieme hanno creato sull’arida crosta terrestre», hanno avvelenato in Michele Civa con la persecuzione inesorabile del ricatto e della propaganda, prelude ad una vendetta più definitiva, mirata contro l’obiettivo di una giostra di bambini, che l’aviatore Civa punta dall’alto dell’aeroplano, conducendo agli esiti estremi la Propaganda di De Carli: Bisognerebbe che sbucasse improvvisamente sulla terra una bestia più organizzata dell’uomo e che si mettesse a cacciare gli uomini nelle case, come questi vanno a caccia dei conigli nelle tane. I bambini, i vecchi, le madri, lanciare dentro cani e lupi e farli sbranare o se escono freddarli sulle porte. Sì. Centinaia di migliaia di uomini congelati o invirminati dal caldo. È vero. Ma milioni di schiavi anche. Pensiamo dunque una buona volta anche a questi seminati per ogni angolo della terra26. La metamorfosi in superbestia è, a questo punto, compiuta. Civa, preso dalla «fantasticheria» di premere la mitragliatrice e sventagliare la giostra, 25 26 B. Joppolo, I gesti sono eterni, cit., pp. 227-228. B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 143. Anti-mimesi onirica del reale 161 è assediato dalle allucinazioni di bambini a frotte che lo processano con facce scontente dalle ali dell’aeroplano; appaiono figli di signori e di poveri, dinanzi ai quali l’aviatore-imputato si difende brandendo la teoria dell’infanzia corrotta, sempre e indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, e argomenta la giustificazione alla strage con la crudele indifferenza usata dai primi sugli «uccellini arrosto, dalle testine calve», nei piatti eleganti, per succhiarne «il cervelletto, il sangue, gli umori, gli ossicini», e con la ferocia degli altri che saltando, ridendo, danzando, si avventano sui nidi e sulle piccole creature dell’acqua e della terra. Gli animali, sacrificati sulla tavola e uccisi per gioco incosciente e sadico, sono sottoposti ad una istanza di umanizzazione che, nel dolore, scatena l’asprezza del contrasto con l’uomo-bestia, violento e tirannico sin dalle radici della nascita, come Civa rivela al mostruoso «fanciullo precoce degenerato» materializzatosi, come ultima apparizione, per difendere la superiorità dell’uomo rispetto alle bestie: celebrando paradossalmente, con la deformazione del proprio sembiante umano, il non senso dell’«elogio umanistico»27. Il tema della fanciullezza corrotta, che, talvolta, solo una vecchiezza finalmente liberata dal peso degli umani compromessi può riscattare, è ripreso nell’inedito Gli angeli senza sesso (1956), dove è espressamente negata la possibilità di una età dell’innocenza riconducibile al l’infanzia, tanto più che «Il bambino non è fanciullo»: Il bambino, ripetendo lo svolgersi della evoluzione della specie, è la prima fase della specie, rappresenta una inconsulta, feroce graziosa fase di bestialità da animaletto commovente, ma per nulla fanciullo. Fanciullo, cioè immerso nella trasparenza innocente della fanciullezza quale l’uomo ha pensata la fanciullezza nei rapporti col mondo, col cosmo, con gli altri, fanciullo può divenire soltanto un uomo maturo, un vecchio, e a pochi è inoltre questa grazia concessa28. L’infanzia, per Michele Civa, ha inoculati i germi di una paurosa Bestialità, principio da redimere dalla vita dell’uomo tramite, appunto, l’eliminazione dei bambini che giocano sulla giostra, colpendoli durante uno dei voli militari. Una nuova vendetta redentrice è così portata a termine, anche se solo sul piano dell’immaginazione: «Ho ucciso col pensiero anche 27 «Il fanciullo precoce degenerato rifà l’apologia dell’uomo: ma appare, nel momento in cui la pronuncia, con i tratti del “degenerato”, quasi una figura demoniaca per gli occhi accesi, la fronte enorme (da Homunculus alchemico), il volto lungo. È la nota grottesca, che è, nelle precedenti apparizioni, in subordine di fronte alla figuratività angelologica, ma che qui viene a essere posta in piena luce, come correlativo figurativo dell’ossimoro che a pronunciare l’elogio umanistico sia un fanciullo precoce degenerato», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 274. 28 B. Joppolo, Gli angeli senza sesso, cit., pp. 15-16. 162 dal futurismo all’ASSURDO il principio Bestialità ma non ho ucciso bambini», dice Civa, che, dopo Masi e De Carli, assassina pure un alto ufficiale, simbolo del principio Comando, sabotandone l’aeroplano, e si dirige, nel nome di un’anarchia assoluta, verso l’annullamento del principio di suprema incarnazione del male, quello della Reggenza degli uomini. Il gesto estremo di rivolta, contenuto nella strage simbolica e potenziale sull’infanzia, è riscattato, subito dopo, dall’atto finale che chiude il romanzo, doppiamente denso di senso per il valore «evangelico»29 della rinuncia al denaro, frutto di una compravendita in nome di una guerra che non è sentita come la propria, ma di cui anzi si ha disgusto, e per il segnale utopico di una possibile purificazione di cui è emblema proprio la vecchiezza priva dei desideri terreni di ricchezza, ambizione, prevaricazione. E così un povero vecchio mendicante di cibo, «cartapesta vestita di stracci», riceve dalle mani di Civa la somma corrispondente alle ventiduemila lire che hanno simboleggiato il grado di massima ferocia del sistema di corruzione delle anime ideato dal Potere e dalla Ricchezza, per sottomettere sempre di più gli uomini alla schiavitù del bisogno e del compromesso. Continuando con la metafora messianica, Civa si libera dal proprio denaro, come Giuda che getta le trenta monete con cui ha venduto la propria fedeltà, per sentirsi «più pulite le mani e più tagliente la coscienza»; quel premio, speso a Milano durante la licenza in lussi inani che amplificano la mortificazione dell’umanità del personaggio30, in parte distrutto, per supremo disprezzo, dinanzi a Masi e a De Carli, è lavato donandolo al vecchio come si trattasse di un «trasferimento di proprietà da una persona ingiusta a una persona giusta», episodio finale di un’azione catartica volta a ristabilire una forma di giustizia cosmica sugli uomini e sull’universo. Il personaggio del vecchio, che il «lucido riflesso di speranza» nelle pupille qualifica come unico essere umano di tutta la narrazione, diviene così segno di una possibile redenzione dalla bestialità, del miracolo di una esistenza rinnovata, dell’estrema consunzione di un’età barbarica al sorgere definitivo di una dimensione abumanista dello spirito, nel segno di una orizzontalità senza ricchi e poveri, oppressori ed oppressi, padroni e servi. Assecondando la prospettiva suggerita dalla scrittura, quella di una coerente parabola di attraversamento e superamento delle zone più oscu- G. Bàrberi squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 277. A Milano l’assunzione di comportamenti da ricco, che lo spingono all’ebbrezza dello sperpero di denaro, acuiscono in Michele Civa l’angosciante frustrazione di essersi venduto per una causa che non sente e che non è la sua, sfogata attraverso l’istinto di morte e violenza con cui egli tortura una prostituta: «Hai seviziato tua sorella, tua cugina, tua madre, tua figlia, una tua compagna, e questo non lo hai fatto per libidine, lo hai fatto per impotenza, per viltà, solo per questo lo hai fatto, perché non sei capace di strangolare i padroni e allora riversi la bile sui tuoi simili», B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 137. 29 30 Anti-mimesi onirica del reale 163 re della storia e della psiche, sino all’esito sconcertante della necessaria distruzione catartica che custodisce l’antidoto alla ferocia dell’uomo-bestia, si comprende la funzione del romanzo del 1949 Un cane ucciso, «naturale sbocco di un discorso narrativo che andava accentuando sempre più la propria pronuncia esistenzialistica, nei termini però di una scrittura enfatizzata di tipo espressionista»: Dall’insoddisfazione esistenziale di Tutto a vuoto, in cui si estrinsecavano immagini di dolore e di morte, alla rivolta lucidamente calcolata di Michele Civa, all’urlo irrazionale e delirante di Luca Spinòla, Joppolo, infatti, approfondiva la denunzia della degradazione e dell’alienazione umana31, lasciandola deflagrare nella violenza cosciente e allucinata che i protagonisti dei romanzi compiono in seguito alla rivelazione di una crescente degenerazione umana e sociale. Se in Michele Civa l’ansia di rivolta contro i principi che impediscono il compimento di una giustizia universale si innesca a partire dall’episodio della campagna di arruolamento volontario nell’aeronautica militare, per il giovane Luca Spinòla sono due avvenimenti di ordinaria eppure eccezionale brutalità a divenire medium iniziatico per la metamorfosi in “super-bestia”, che si compie all’insegna di una paurosa svalutazione della realtà e dell’esistenza, mantenendo, proprio nel carattere gratuito dell’atto distruttivo contro l’umanità, la disperata denuncia di una condizione da riscattare e rigenerare. Luca, piccolo impiegato modello, e Jole, la ragazza con cui egli condivide un rapporto sentimentale di odii e livori, assistono, sgomenti prima e poi infiammati da «un qualche fluido inestinguibile» e ardente, alla morte di un cane ucciso da un’automobile in corsa, che «svuotato degli intestini […] si era rialzato, con occhi vuoti, aveva camminato per cinquanta metri, come vivo, normale, ritto, poi era caduto in un rapido rotolìo di convulsioni». I due vedono poi un uomo sfracellato da un tram, nel più completo sconvolgimento di forme e colori, con il corpo ridotto a materia inanimata nella massa del paesaggio cittadino («tra rotaie, cespugli, strada, fari investirono la nebbia e plasmarono facce, tram verde, corpo sfracellato in un ammasso di cenci, carne, ossa, sangue, cartilagini, umore, arti contratti, pelle sbranata»). Avviene così la percezione di un vuoto angoscioso, riflesso negli occhi del cane e nel viluppo dei resti umani, da cui si rivela il senso doloroso di una profonda degenerazione dell’uomo, che, come nel romanzo precedente, è fissata allo stato bestiale: Io avevo potuto capire che quegli occhi e quello sfracellato mi avevano rivelato il pauroso convincimento, assoluto e senza possibilità di equivoco, mia 31 D. Perrone, Prefazione a B. Joppolo, Un cane ucciso, cit., p. 280. 164 dal futurismo all’ASSURDO avevano data la profonda convinzione che l’uomo è esattamente una bestia e la si può uccidere senza scrupolo alcuno, così come si uccidono le bestie32. Come se il vortice di insignificanza che consuma nell’aridità e nella perdita di senso potesse essere colmato solo dalla ricerca di emozioni sempre più violente, l’emersione della bestialità è il risultato fatale del processo di corruzione e degenerazione dell’uomo, di una «estrema stanchezza», «noia» e «nausea» di vivere, di una «perdizione» totale e di un approdo completamente assurdo della «attuale condizione umana […] insopportabile per l’uomo»: L’attuale condizione umana è il carcere, la bestemmia, l’abbrutimento, la bestialità, la distruzione della parte divina che ogni uomo ha in sé. L’uomo si contorce per distruggere questa condizione, per salvare la sua umanità, il suo seme di divinità. E che colpa ha egli se, nel difendersi, nel tentare la salvezza, gli capita spesso di precipitare in una prigione più orrenda, dove l’abbrutimento sarà più totale e più totale sarà la distruzione della sua parte di divinità?33 Nella consueta sovrapposizione tra vicenda del singolo e tragedia dell’uomo, sustantificando la narrazione di precisi riferimenti storici, che fondono l’orrore della cronaca e della memoria alla lucida violenza e alle fantasie allucinatorie del protagonista, il «delirio» diviene paradossale incarnazione della «verità», così che il romanzo, pur non collocandosi apertamente, come La giostra di Michele Civa, nella cornice della guerra, alla quale si allude incidentalmente, mantiene una perentoria dichiarazione di antimilitarismo che definisce, tra le pieghe del narrato, una precisa presa di posizione ideologica e politica di Joppolo: Verrà qualcuno che farà strage di bambini e di donne. Verranno macellazioni collettive in valanghe di ferri fusi e di fiamme. Fame. Odii. Livori. L’uomo parlerà di fiumi di sangue. Ma dove saranno? Macchie miserevoli che pochi vedranno e che subito saranno riassorbiti dalla terra. La verità è che l’uomo vorrebbe distruggere questa civiltà insostenibile, si accinge a distruggerla con guerre, stragi. […] Ma verrà un giorno in cui ci sarà la pazzia collettiva, la collettiva stanchezza estrema, non una sola creatura umana sarà capace di pensare più, di mettere a posto fosse anco una lancetta d’orologio, di organizzare fosse anco o interpretare tre articoli di legge messi assieme o un pensiero filosofico o scientifico, e allora sarà il crollo di questa civiltà, come per tante civiltà antiche è già avvenuto. Sarà questo forse il segno della sal- 32 B. Joppolo, Un cane ucciso, Palermo, Epos, 1985, ora in B. Joppolo, Tutto a vuoto, La giostra di Michele Civa, Un cane ucciso, cit., p. 238. 33 Ivi, p. 243.