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Dal Futurismo al l`assurdo. L`arte totale di Beniamino Joppolo

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Dal Futurismo al l`assurdo. L`arte totale di Beniamino Joppolo
Katia Trifirò
Dal Futurismo al­l’assurdo.
L’arte totale di Beniamino Joppolo
Le Lettere
INDICE GENERALE
Premessa........................................................................................... p.
I. Una tentazione essenzialistica:
prodromi per la fondazione di un’arte totale....................... »
7
11
1. Messina-Firenze, gli esordi poetici al­l’ombra del
Futurismo.............................................................................. » 11
2. La tela deformata dei racconti, camera oscura di
drammaturgia........................................................................ » 48
3. Autobiografia mascherata. I romanzi e l’indagine
sul­l’esistenza........................................................................... » 97
II. Anti-mimesi onirica del reale. Una scrittura o-scena.......... » 147
1. Distruzione, rinascita, abumanesimo. Dal romanzo
alla scena, l’arte e l’uomo in metamorfosi............................ » 147
2. Faust e Prometeo: un’idea alchemica del teatro.................. » 184
3. Da Milano a Parigi. Ascesa e caduta di un drammaturgo
“cancellato”........................................................................... » 197
III. Dalle avanguardie primonovecentesche al­l’assurdo.
Proposte di periodizzazione per un teatro abumanista.......... »215
1. L’evasione fantastica: 1941-1943, una stagione di
visioni colorate...................................................................... » 215
2. Aspettando l’abuomo. Il corpo bombardato della
parola (1945-1948)................................................................ » 241
3. Tra utopia e disincanto: l’ultima stazione (1955-1960)........ » 260
Bibliografia....................................................................................... » 281
Indice dei nomi................................................................................. » 293
II
Anti-mimesi onirica del reale
Una scrittura o-scena
1. Distruzione, rinascita, abumanesimo. Dal romanzo alla scena, l’arte e
l’uomo in metamorfosi
Follia e bestialità deformano orrendamente l’uomo, prigioniero di una
schiavitù morale che lo svuota di volontà propria riducendolo a pedina del caso sullo scacchiere della guerra. Automa intrappolato nel ricatto inumano del potere e della ricchezza, egli è corrotto dal­l’odio, dalla
politica, dalle ideologie, potenti «narcotici» di cui la natura si serve per
vendicarsi della distruzione subita dagli uomini, mettendoli l’uno contro l’altro sino al reciproco annientamento. Con i «muscoli della libertà»
atrofizzati, popoli abbrutiti, comandati da padroni malvagi, ricchi e potenti, e «schiavi spinti alla cieca in grigioverde» si agitano sgraziatamente
nella «buffonata sconcia» della crudeltà, che si nutre di miseria, malattia,
pena, degenerando l’uomo nelle convulsioni più aberrate della ferocia,
della «bruta colluttazione fisica», del­l’involuttimento nella violenza. La
metamorfosi in bestia diviene cifra allegorica di una condizione umana
degradata, smarrita, mutilata per la quale l’evoluzione dal regno animale
si è interrotta, o meglio si è invertita, senza più possibilità di distinguere
il volto del­l’individuo che la guerra ammassa in «oceano scintillante di
sangue di urli formicolanti di vermi al sole o immobili di viola nel gelo»,
mentre nei paesi di campagna guadagni illeciti, corruzione e commercio
con gli sfollati avviano una «piccola borghesia avvilita» e, nel­l’alveo metropolitano, lo spettro del­l’alienazione spersonalizzante incombe subdolo
sulle nuove forme di schiavitù industriale:
[…] masse di uomini dai muscoli potentemente tesi dalla disperazione, che
con facce e con occhi esasperati nel­l’aria correndo si aggiravano in officine
lucide e inesorabili d’acciaio, si divincolavano, si agitavano, salendo e scendendo, avanti e inditero, e altre masse che si curvavano a quattro gambe
sulla terra e assieme a cavalli e a bovi e ad attrezzi di acciaio scavavano a
solchi la terra, i mezzo a blocchi di ghiaccio, tutte e due le masse, o in mezzo
148
dal futurismo all’ASSURDO
a gocce di sudore pietrificate dal caldo e componenti un’enorme statua di
perline1.
Così, ne La giostra di Michele Civa, agli occhi allucinati del protagonista eponimo, sottoufficiale che si arruola volontario nel­l’aviazione militare per un premio di ventiduemila lire, appare la visione paurosa del­
l’umanità ridotta a merce, bestia muta, massa informe dal­l’«incubo di lucidità» della seconda guerra mondiale e dalle sue conseguenze, devastanti
sia sul piano del­l’assetto sociale, radicalmente sconvolto, sia, a causa di
una irrefrenabile azione deformante e violenta, sul­l’esistenza stessa degli
uomini, al punto che «bisognava con rabbia con crudeltà rimpastarli tutti
per rimetterli nella forma del­l’uomo e rifarli nuovi». In uno scambio definitivo tra essere umano e materia inanimata, il treno sul quale Civa torna
a casa per la licenza diventa «un essere fornito di ragionamento e di sensi
che gli consentono di aprirsi e seguire una strada che pensa, traccia, vede
e sente sotto le rotaie», mentre chi vi è dentro «è un insetto schiacciato
dal­l’incubo del mostro che se lo trascina dietro». Il viaggio che il protagonista compie verso sud, dove Messina bombardata è ancora proiezione
biografica e microcosmo di una civiltà in disfacimento, sembra alludere,
nel processo consueto di intreccio narrativo e denuncia, in cui romanzo
e storia si sovrappongono per eludere le maglie rigide della censura, alla
bestialità del­l’ultimo viaggio con cui uomini e donne sono condotti da
prigionieri ai campi di sterminio:
Nei corridoi dei sottopassaggi la gente si accalcava come una mandra di
bestiame serrato appiccicato dal sudore in un’unica massa, urlava, si spingeva, c’era un’infinità di militari, un megafono trasmetteva spiegazioni in
tedesco e in italiano, che nessuno ascoltava, si finiva con lo sboccare su di
uno spiazzale della panchina del porto, si entrava nella nave traghetto per
essere trasportati in Sicilia, come bauli o casse o sacchi. Lo stato d’animo
esasperato di un baule, o di una cassa, o di un sacco sentiva di avere Michele
Civa quella mattina2.
In una ideale definizione dei poli di indagine attraverso i quali Beniamino
Joppolo scruta l’essenza umana per restituirla, attraverso la trasfigurazione letteraria, mascherata nella forma di personaggi-simbolo intrisi di
autobiografismo, affidando alla finzione artistica il necessario sondaggio
sul­l’esistenza che l’incalzare dei fatti storici impone ai suoi protagonisti,
1
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, Milano, Bompiani, 1945, ora in B. Joppolo,
Tutto a vuoto, La giostra di Michele Civa, Un cane ucciso, a cura di L. Falcone e G. Joppolo, Marina di Patti, Pungitopo, 2010, p. 106. Tutte le citazioni sono tratte da quest’ultima
edizione.
2
Ibidem.
Anti-mimesi onirica del reale 149
se la cornice familiare è osservatorio privilegiato per misurare nello spazio
angusto delle relazioni domestiche il grado di ingiustizia e violenza che la
più ampia stanza della tortura sociale esaspera, sul piano macroscopico
della storia sono la dittatura, la guerra e l’esplosione della bomba atomica
a costituire, per l’autore, prova di un oscuro male contenuto alle radici
del­l’umanità, ancora sfigurata dai residui bestiali di una incompiuta evoluzione, che solo l’atto liberatorio e distruttivo di una catarsi palingenetica può avviare. Considerando il «supernazionalismo risorgimentale» che
in Italia e in Germania ha condotto al fascismo e al nazismo, e, per un
altro verso, l’eccesso di «tecnicismo» in «scienza arte filosofia, politica,
sociologia» come forme di un «umanesimo decaduto», «manifestazioni
patologiche» di una condizione giunta al­l’eccesso, egli auspica un ritorno
al­l’uomo attraverso il superamento delle limitazioni che la degenerazione
dei tempi ha comportato, profetizzando l’avvento del­l’abuomo, riconciliato con se stesso e con il creato, superiore combinazione di atomi che
appartengono, allo stesso tempo, a tutto l’universo, in ogni sua componente, e alla materia divina, secondo un principio spirituale di Unità panica e cosmica3.
L’elemento autobiografico sigla la memoria della vita in caserma4 che
funge da scenario al romanzo, innestando su un fatto di cronaca realmente accaduto la trasfigurazione della trama di eventi in epifania di
immagini, che accolgono sin dalle prime pagine «un inarrestabile lievitare della violenza», attraverso l’abolizione di ogni confine tra esterno e
interno del­l’uomo, così che «espressionismo figurativo» ed «espressionismo psicologico»5 si fondono scatenando la peculiare cifra fantastica
del­l’autore. Come conferma, ancora una volta, La doppia storia, che funziona da prezioso e insostituibile archivio per la scrittura joppoliana, restituendoci il clima e i motivi che accompagnano la nascita del romanzo,
nel confronto serrato con Migneco («Peppe») attraverso cui rileviamo,
inoltre, un interessante dato sui rapporti del nostro con gli artisti coevi e
il fermento di idee che ne anima i dialoghi:
B. Joppolo, L’abumanesimo, cit.
Joppolo ricevette la cartolina di chiamata alle armi il giorno stesso del matrimonio
con la pittrice Carla Rossi (1942), per seguire un corso di addestramento a Nettuno: «insofferente della disciplina militare, segue il corso in abiti borghesi ed alla fine è assegnato
al II Reggimento Artiglieria di Cremona. È poi decentrato nel­l’alto Bergamasco, insieme a
Giacomo Manzù, perché sospetto di sobillare i soldati alla resistenza, con l’aiuto del soldato
Fantasio Piccoli [lo stesso che cura la regia de I carabinieri, Bologna, 1945, ndr]. Qui, su un
episodio di cronaca, […] costruisce il romanzo La giostra di Michele Civa […] Bontempelli
vi ravviserà reminiscenze del proprio realismo magico», M. De Paolis Raffaele, Nota biobibliografica, cit., p. 222.
5
Vanni Bramanti, Un groviglio di filo. Appunti sulla narrativa di Joppolo, in Aa.Vv.,
Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, cit., p. 63.
3
4
150
dal futurismo all’ASSURDO
In caserma compiva i suoi soliti giri e quasi giornalmente visitava tutta la
città. In una delle tante visite che si scambiavano con Peppe, che era ufficiale
a Brescia, un giorno questi gli suggerì di scrivere un libro, partendo da un
fatto reale senza più abbandonarsi alla fantasia astratta. Peppe sosteneva che
se il suo temperamento era portato alla fantasia astratta, anche senza volere
il suo temperamento avrebbe intriso un libro scritto su dati reali persino
veristici. Procedendo in questo modo avrebbe evitato il vuoto a cui quasi
sempre conduce la pura fantasia, e nello stesso tempo questa, essendo in
lui inevitabile, avrebbe acquistato un sapore più specioso e più unico. Giacomo obiettò, sul momento, che si poteva agire con la procedura inversa,
partire dalla fantasia astratta per arrivare al reale, e il risultato sarebbe stato
lo stesso. Peppe insistette dicendo che non si può degradare la fantasia nel
vero, ma al contrario decantare la realtà nella fantasia, e quindi ne risultava
che non era lo stesso. Giacomo ci pensò su e fini col dare ragione a Peppe.
E il caso lo aiutò. Si verificò una strana coincidenza. Un aviatore bombardò,
in un piccolo centro, e mitragliò una giostra nella quale molti bambini giocavano su cavallucci di legno giranti attorno a un asse. Nello stesso periodo
al reggimento era arrivato il bando di un volontariato per l’aviazione con
un premio di sedicimila lire. Tra i volontari c’era un ragazzo magro, triste,
terreo ed esasperato. Giacomo lo scelse come eroe della sua storia, che partendo dal reale doveva arrivare al fantastico. E scrisse il libro. Dal bisogno
minimo, da sedicimila lire viste come una somma importante, a poco a poco,
il sergente volontario assurge al fantastico sociale e al fantastico ideale, ed
elimina, attraverso alcuni loro rappresentanti fisici, i principi di “Ricatto,
Propaganda, Bestialità e Comando” per una umanità migliore e più alta.
Riguardo al bombardamento e mitragliamento della giostra con i bambini lo
aveva mantenuto su un piano puramente fantastico di probabilità, ma non
avvenuto nella realtà. Scrisse il libro in poco tempo, lo lesse a molti, chiese,
si fece spiegare, dire cosa ne pensavano, e concluse che Peppe aveva avuto
ragione nel suggerirgli quella procedura6.
Una accentuata dimensione simbolica del romanzo lo colloca in posizione ibrida nella narrativa del dopoguerra, anche per la presenza destabilizzante dei moduli espressivi topici della scrittura joppoliana che,
riconosciuti dallo stesso autore, risolvono in esplosioni allucinatorie, cifra
fantastica, allegorie zoomorfe le zone oscure del reale, eretto sul materiale incandescente delle vicende belliche, dissolvendo in puri contorni
iconici la consistenza dei personaggi – attraverso il consueto repertorio
di statue, fotografie, ombre che mutano lo spessore fisico in immagine,
ridotta talvolta a singola parte del corpo smembrata dal­l’insieme – e affidando ai caratteri antirealistici del racconto la fitta trama di significati che
definiscono un perentorio rifiuto della guerra, un’ansia di ribellione com-
B. Joppolo, La doppia storia, cit., pp. 631- 632.
6
Anti-mimesi onirica del reale 151
pleta verso ogni forma di autorità, l’atto di accusa contro lo sgretolamento della condizione umana, così che la riflessione storica si spalanca sul
(non)senso del­l’esistenza. Proprio l’ambizione alla totalità, il progetto di
convogliare nella vicenda di Michele Civa una narrazione di simboli, avevano indotto la critica, anni dopo la prima edizione, a definirla «un’opera
che ben poco ha a che fare con i romanzi sulla guerra e sulla resistenza,
di impianto tanto spesso memorialistico, apparsi fino alla fine degli anni
Quaranta e anche oltre»:
[…] da porre fra quelle opere che, sulla scommessa della scrittura letteraria,
giocano un’infinità di carte ideologiche e morali, nella ricerca appunto della
struttura totale capace di sopportare al proprio interno tutto ciò che si può
predicare del­l’uomo nella sua storia e nella sua situazione esistenziale, di
fronte al­l’azione e di fronte alla coscienza […]7.
Così, nel 1989, Giorgio Bàrberi Squarotti introducendo La giostra di Michele Civa per le edizioni della Pungitopo, ne sosteneva la distanza dalle opere
nate dal­l’esperienza della guerra come testimonianza del trauma profondo
e angoscioso determinato da essa in un personaggio popolare, di impianto
fondamentalmente realistico e documentario, da Calvino e Pavese, Vicentini e Viganò, Rigoni Stern e Lunardi, Berto e Tobino e tanti altri ancora,
riscontrando, semmai, pur con profonde differenze, l’unico punto di riferimento, almeno cronologico, in Uomini e no di Vittorini, per una comune
presa di posizione «sulla condizione umana di fronte alla storia e alla vita».
Sono, infatti, una «pietà anonima per la vita», una tristezza sentita
«sin dalla matrice materna per le ingiustizie della vita», insieme alla comprensione di un «reciproco dispregiarsi dei poveri a tutto favore dei ricchi» ad insinuare in Michele Civa l’urgenza di una missione rigeneratrice,
da assumersi nei confronti propri e del­l’umanità, elaborata sulla direttrice teorica del­l’uccisione dei principi di Ricatto, Propaganda, Comando,
Bestialità, strumenti con cui i veri principi da eliminare, Potere e Ricchezza, ombre del puro principio di Reggenza degli uomini, tengono in
scacco l’esistenza individuale e collettiva. In un cortocircuito abbacinante
tra pulsioni fantasticate di morte e omicidi veramente compiuti – seppur
al di fuori di qualsivoglia criterio di verosimiglianza –, tra fatti reali e
dialoghi immaginati, l’(anti)eroismo di Civa si identifica con il recupero
della speranza di rendere se stesso più degno «di vivere» e di dire di aver
avuto «uno scopo nel nascere», tramutando la propria vicenda personale
in esemplare, al fine di ristabilire una giustizia per gli uomini, compromessa dalle deformazioni alle quali la guerra costringe, e di redimerne
G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 260.
7
152
dal futurismo all’ASSURDO
l’esistenza dalla violenza, attraverso l’esasperazione della violenza stessa,
«diventando superbestia» e lavorando al­l’eliminazione del­l’uomo, finché
questo «non sarà diventato uomo e non avrà cessato di essere bestia»:
Se l’uomo fosse uomo sarebbe spaventoso ucciderlo. Ma l’uomo non è ancora uomo, esso ha soltanto il conato, il sogno, l’incubo di essere uomo. Se
fosse uomo non potrebbe rendere schiavo l’altro uomo come una bestia
qualsiasi per farlo lentamente morire nella fatica senza sosta e senza speranza, nella miseria e nella fame, ponendo tra se stesso e gli altri insormontabili
barriere come si trattasse di esseri superiori di fronte a bestie. L’uomo è
ancora bestia, […] tanto è vero che gli uomini tra loro si trattano con lo
stesso metodo con cui sono trattate le bestie. E non può uccidere le bestie
colui che è ancora esso stesso bestia. Almeno per solidarietà di classe. Se lo
fa, esso stesso può essere impunemente ucciso8.
L’estrema, radicale forza provocatoria contenuta in questo paradosso
innesta un dibattito critico che si avvale principalmente del­l’apporto di
Joppolo e di Audiberti, il quale individua nel romanzo alcuni aspetti centrali per la sua teoria «abumanista», traducendolo in francese9, e inaugura
una dialettica feconda lungo l’asse Italia-Francia partecipata da numerosi studiosi, il cui esito è un numero monografico dei «Quaderni del
Novecento francese»10, pubblicato nel 1984, contenente altri due saggi
joppoliani che concorrono a definire la teoria del­l’abuomo. Il volume del
1951 L’abumanesimo, cui sono anteposte, in premessa, le riflessioni di
Audiberti, è dunque la sintesi programmatica, come abbiamo ipotizzato
nel primo capitolo, di una visione negativa del­l’uomo del Novecento, e,
più in generale, del­l’umanità di ogni tempo, se il frutto del­l’evoluzione
si è rivelato marcio, infetto, cancrenoso, producendo, con l’atomica, la
disintegrazione definitiva del concetto di uomo.
La poetica joppoliana, impregnata dal bisogno di affermazione etica
che si esplica in tutte le forme della sua produzione, non è, pertanto,
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 154.
Jacques Audiberti, Cheveaux de bois, Paris, Editions du Chêne, 1947. Due anni più
tardi Audiberti traduce e presenta Un cane ucciso (Le chien, le photographe et le tram, Paris,
Corrêa, 1951).
10
Aa.Vv., Abumanesimo: Audiberti, Joppolo, «Quaderni del Novecento francese», cit.
Contiene Orizzontalità (1940) e Tutto è al­l’altezza del­l’uomo (1945) di Joppolo, la prefazione
di Audiberti alla traduzione francese del romanzo e un intervento su Quelques pages d’un
Cahier manuscrit du Retour du Divin, i saggi di Giroud (Abhumanisme audibertien, une
transmutation généralisée), Guérin (L’Abhumanisme dans le théâtre d’Audiberti e una nota
bio-bibliografica), Margarito (Néologismes de discours dans deux textes d’Audiberti), Zoppi
(Toast à l’Abhumanisme?), Gianolio (Audiberti / Joppolo al di là di ogni possibile traduzione),
Tedesco (L’esordio narrativo di Beniamino Joppolo), Perrone (L’esistenzialismo narrativo di
Joppolo tra ipotesi surrealista e scrittura espressionistica), Bruno (Il film e l’immaginario, ricordo di Beniamino Joppolo), De Paolis Raffaele (Beniamino Joppolo. Nota bio-bibliografica).
8
9
Anti-mimesi onirica del reale 153
scindibile dal rapporto con i fatti storici che la generano e, per queste
ragioni, non si comprende se la volontà totalizzante di erigere un’opera
dalla portata teorica fondante viene separata dal­l’espressione puramente
artistica che poesia, racconto, romanzo, teatro, pittura, critica esibiscono.
Indagando quanto espresso in forma narrativa ne La giostra di Michele
Civa, Audiberti condensa il senso storico della posizione teorica di Joppolo applicandola al­l’impeto distruttivo e paradossale con il quale viene
prefigurata l’abolizione del male per tramite del­l’esacerbazione del male
stesso:
La parola uomo, scelta per stabilire una netta distinzione tra uomo e bestia, e che comporterebbe un intero contenuto di umanità nel senso alto
che al termine “umano” si dà in sede etica e logica, la parola uomo, dopo
millenni di esperienze, si è rivelata insufficiente e priva di significato ai fini
di un netto distacco dalla bestia. In sede storica l’umanesimo avrebbe dovuto significare l’estremo sviluppo del carattere “umano” del­l’uomo attraverso l’esasperazione del principale carattere del­l’uomo stesso, il razionale.
Senonché è avvenuto che proprio l’umanesimo, attraverso l’esasperazione
di questo carattere tipico del­l’uomo, il razionale, ha tracciato una parabola
che da Cartesio e Galileo va a finire alla bomba atomica e allo scientifico e
razionale sviluppo della parte meno umana del­l’uomo, la ferocia bestiale
organizzata e scientifica contro l’uomo stesso peggio che contro la bestia.
Superare dunque il termine uomo con un nuovo termine, abuomo, che può
voler dire scaturito dal­l’uomo, superato o anche staccato dal­l’uomo, contro
l’uomo così come contro una qualunque bestia a lui inferiore anche se con
parvenze umane. Come giungere a ciò? Non forse attraverso l’esasperazione
del razionale divenuto ferocia, seguendo l’antico metodo del liberarsi da un
male esaurendolo sino in fondo?11
Michele Civa è l’estremo teorizzatore e il lucido portatore di questo elemento «razionale divenuto ferocia», assumendo su di sé la violenza non
come arma di distruzione agita contro gli uomini ma come strategia di annientamento dei principi che essi rappresentano, strumento di un fatale
e furioso disegno della «natura che si vendica con gli uomini per tutte le
creature vive della terra del mare e del­l’aria che essi abbattono ogni giorno nella morte. E così fa scannare gli uomini tra loro». Il profilo del doppio («Michele Civa ascoltava sempre Michele Civa parlare su di un piano
sempre più lucido») si insinua tra le pieghe di una coscienza assassina
annichilita dalla violenza del Ricatto, «divenuto persona» nel colonnello
Masi che offre un premio in denaro in cambio del­l’arruolamento volontario in aviazione, e dalla suggestione ambigua della Propaganda, con cui
il sottotenente De Carli turba le anime e le menti ma «senza agire, senza
11
Premessa a B. Joppolo, L’abumanesimo, cit., pp. 3-4.
154
dal futurismo all’ASSURDO
fare», rimanendo per questo nella «categoria dei padroni che devastano
gli schiavi con in più la malsana e sadica gioia di farli impazzire»:
In infermeria diceva ai soldati che la peggiore malattia era fare il soldato e
la guerra senza sentirla, e che dunque le loro malattie particolari non erano
niente. Nelle camerate sostava davanti ai letti e lo prendeva la commozione
nel­l’osservare certi pettini colorati da fiera, certe soste dei soldati stanchi
sui letti, certi asciugamani, tutte quelle piccole furberie che il soldato usa
durante tutta la giornata per ricordarsi e illudersi, minuto per minuto, che è
ancora un essere con qualche probabilità di ridiventare uomo. […] Poi usciva per le strade, e la sua principale occupazione, nella cittadina, era quella
di denudare col pensiero giornalmente, tutti quegli schiavi spinti alla cieca
in grigioverde, vestirli di abiti da uomini liberi, farli correre con volti finalmente gioiosi, farli ridere12.
L’antimilitarismo di De Carli, al quale Joppolo affida la sua orazione civile
sulla illogicità della guerra, si può caricare di valore positivo solo se, da
mera Propaganda, si attiva in vera rivoluzione:
Ecco, vedi, non è che io non ami il mio paese, la questione è un’altra, ed è
che io non sento né l’italianismo né il francesismo né l’inglesismo né il russismo né il germanismo né l’americanismo. Sarei tuttavia capace di morire
per uno di questi ismo se esso coincidesse con una rivoluzione. Una volta
sarei morto volentieri per il francesismo quando questo coincideva con la
rivoluzione, oggi potrei morire per il russismo perché questo coincide con
un’altra rivoluzione che sogno, tutti gli uomini portati alla dignità umana
collettiva e singola, sarei morto anche per l’italianismo del rinascimento se si
fosse posto sul piano di rivoluzione mondiale da imporre. Del resto è tutto
una tragica buffonata una bruta colluttazione fisica13.
Si intravede qui la concezione di un “comunismo umanitario” al quale
Joppolo dedica ampio spazio teorico nel­l’impianto narrativo dei due romanzi inediti del 1947, I gesti sono eterni e Notti cariche di teorie, e che è
oggetto di una sistematizzazione più complessa, incrociando la prospettiva storica e l’utopia, nel saggio inedito Gesù (1948), che offre il punto di
vista di una interpretazione politica del cristianesimo:
Gesù ebbe del­l’uomo tale idea divina e dignitosa da dover certamente avere
un supremo fastidio di fronte a una umanità organizzata su basi di assoluta
e promiscua ingiustizia. […] Certo Gesù ebbe un supremo disprezzo per
ricchi e per potenti. […] è condizione veramente innaturale e contro armonia universale predestinata che una creatura divina serva e l’altra comandi,
12
13
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 90.
Ivi, p. 141.
Anti-mimesi onirica del reale 155
[…] sia per chi comanda come per chi serve. La parabula di colui che deve
riconciliarsi col nemico per non essere cacciato in prigione, dove pagherà fin l’ultimo spicciolo, è molto chiara: lo schiavo, il prigioniero, è tanto
deforme quanto il ricco e il potente […] È in errore chi vuol vedere Gesù
come un attivista rivoluzionario, ma è altrettanto in errore chi vuol vederlo
come un indifferente sociale e politico, indifferente perché tutto preso dal
problema mistico. Il particolare sociale e politico di Gesù si può racchiudere
nel seguente ragionamento: amare con gioia, umiltà, povertà di spirito, la
condizione umana in cui ci troviamo, qualunque essa sia, onde non turbare
il nostro ciclo di eternità, che deve essere lo scopo ultimo di ogni umana
creatura; non odiare la sorte toccataci; sottrarci pacificamente alla schiavitù
[….]; condannare, negandogli qualunque possibilità di accesso al ciclo del­
l’eternità, il reazionario statico, con una lotta sorda, mai scoperta, isolandolo, disprezzandolo. Il reazionario, lo statico, è colui il quale, rifiutandosi di
accedere alla visione di una migliore società, che il rivoluzionario ha avuto,
[…] provoca disastrose conseguenze di deformazione sul volto della logica e
armonica predestinazione universale. […] In sede sociale e politica fu Gesù
in rivoluzionario contrario alla rivoluzione come capovolgimento. […] Ma
ancor di più Gesù, anche se fu contrario ai rapidi capovolgimenti, diffidò
della stasi e della condizione di reazionario sterile. In realtà tutta la maniera
di vivere di Gesù, l’errare, l’accettare da chiunque e il dare a chiunque,
l’avere in comune cibi e denaro e casa e spighe e pane e campi, tutto ciò
dimostra che Egli era assolutamente lontano e indifferente al concetto di
proprietà privata14.
Definendo la rivoluzione comunista come la logica conseguenza della
rivoluzione francese e della rivoluzione cristiana, secondo una ideale discendenza storica da Achille ed Ettore a Gesù, da Gesù a Robespierre, da
Robespierre a Lenin (Notti cariche di teorie, p. 175), ne La doppia storia,
infine, Joppolo chiarifica ancora il rapporto tra comunismo e cristianesimo, affermando che «solo dopo la realizzazione del comunismo si sarebbe potuto arrivare al diritto di parlare di una “società cristiana”»:
Per una ragione inesplicabile Gesù era nato prima di Marx. Marx, in una logica storica, avrebbe dovuto nascere prima di Cristo, avrebbe dovuto, prima
del Messia, essere l’ultimo dei Profeti per preparare il terreno alla rivelazione e alla distensione per la comprensione, in parità raggiunta, tra gli uomini. Forse Cristo era nato prima per addolcire l’urto tra le classi. Ma, dopo
questa fase di addolcimento, ci sarebbe stata una parentesi con prevalenza
di Marx, per ritornare poi a Cristo e alla sua rivelazione, ricomponendo le
logiche storiche, perfettamente fusi cristianesimo e comunismo15.
14
B. Joppolo, Gesù, Milano, inedito, 1948, «Archivio Contemporaneo “Alessandro
Bonsanti”. Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze», Fondo Beniamino Joppolo, pp. 27-31.
15
B. Joppolo, La doppia storia, cit., p. 436.
156
dal futurismo all’ASSURDO
La condizione di «schiavo mediocre disprezzato» in cui Michele Civa si
trova a causa del ricatto del denaro che continua a perseguitarlo con la
faccia del tenente colonnello Masi («saltellò sola senza corpo, come una
nespola risecchita, e gli occhietti e la bocca, piccola piccola questa come
quella di una vipera»), è quella del popolo privato della sua «anarchia
libera e generosa» dalla tensione alla scalata sociale, verso l’imborghesimento e l’ambizione economica, rivelata dal­l’insinuarsi dei «soldi che
scorrono come l’olio» (e il macellaio con macellazioni clandestine diventa
«ricco come un porco»)16, nei commerci illeciti dei contadini, i quali, approfittando della penuria delle merci e della presenza dei cittadini sfollati,
«credono di diventare dei signori» e dissimulano avidità e astuzie nei consueti atteggiamenti umili e sottomessi davanti ai padroni. La città, «spazio
elettivo del male»17, ha contagiato anche i luoghi periferici, dissolvendo
la possibilità di un dualismo con la campagna fondato sulla contrapposizione tra l’alienazione umana e la corruzione del denaro da una parte, la
genuinità dei costumi e l’aura materna della terra contadina dal­l’altra18.
Anzi, in un ambiguo svolgersi di affari, che nega la possibilità del ritorno
a casa come rifugio nella memoria e nelle proprie origini, degradando il
nucleo domestico e i suoi valori simbolici in covo di relazioni adulterate,
in un clima che ricorda da vicino la Napoli, milionaria! di De Filippo19,
Civa trova con delusione e sorpresa i propri familiari20, scoprendo la mi-
16
Le stesse similitudini si trovano nel romanzo breve Il ritorno di Leone (scritto nel
1959 e pubblicato postumo in due puntate su «L’osservatore politico e letterario», maggiogiugno 1981, nn. 5-6): nel confronto, questa volta, tra «la vallata» da cui il giovane protagonista decide di partire per cercare fortuna come emigrante, e l’Australia, dove «proprio
come l’olio scorrevano i soldi» (prima parte, p. 69). I viaggiatori sono aiutati da un «missionario del­l’emigrazione», Don Candeloro, ambigua e parodica figura di colui che procura
loro la cifra necessaria per predisporre la partenza, diventando, nel frattempo, «ricco come
un porco tutto d’oro» (ibidem).
17
V. Bramanti, Un groviglio di filo. Appunti sulla narrativa di Joppolo, cit., p. 63.
18
Questo topos sorregge la cornice narrativa del racconto Gli alberi di Alberto, che
descrive la delusione del protagonista di fronte al­l’indifferenza e al disincanto dei due nipotini per quel mondo del quale, tentandone la redenzione, si certifica la fine: «Quella gente
ama solo il danaro, e noi non dobbiamo tradire questi alberi, lasciandoli in mano di chi non
li ama, abbandonandoli in un’aria triste, pesante», in B. Joppolo, La nuvola verde e altri
racconti, cit., p. 143 (pubblicato su «Il settimanale», Milano, settembre-novembre 1947).
19
Nel­l’inedito I gesti sono eterni la città partenopea è esplicitamente citata: «Napoli,
come il centro più importante di tutta la zona occupata, aveva concentrato lo stato d’animo
tipico del momento […] i partiti pullulavano, il popolo voleva bere, mangiare, gozzovigliare, tutti facevano commercio con i generi portati dagli angloamericani, scatolame sigarette
vestiti, i negri vendevano per somme irrisorie interi carichi di merce assieme ai camions, le
donne si sfrenavano, c’era nel­l’aria l’agitazione di un’umanità che stretta a groppo per lungo
voleva finalmente distendersi, respirare, cantare», p. 23.
20
Bàrberi Squarotti cita invece riferimenti verghiani: «la rappresentazione della famiglia di Michele nel suo tendere verso l’ascesa dalla condizione contadina a quella superiore;
di commerciante […] è la stessa parabola che padron ’Ntoni Malavoglia vuole far descrivere
Anti-mimesi onirica del reale 157
nore considerazione in cui tutti lo tengono e la metamorfosi borghese
che ha contaminato le sorelle («delicate, artefatte, impacciate»), mentre
il padre, come un «corvo inquieto», si affanna a procurare matrimoni
vantaggiosi e a speculare, finendo col credersi un «padreterno di fronte a
quel miserabile cialtrone di carne venduta». Solo la madre riprova la «mania del guadagno» che ha frenetizzato quel mondo contadino senza più
tradizioni e dignità, sentendo empaticamente la stessa amarezza di Michele per un intero popolo e per la propria famiglia, al punto da divenire
oggetto di una allucinazione del protagonista in cui viene rifondata per
via materna l’essenza della generazione, ed invertito sin dal mito biblico
originario il ruolo di maschile/femminile, secondo il noto modulo joppoliano della rimozione del padre: «e l’uomo nato dalla gamba di legno
come da una costola di Carmela era lui, lui, Michele Civa».
Non avviene neppure qui, tuttavia, il recupero positivo di una maternità mediterranea ed accogliente, se anche la madre appartiene alla
schiera di quelle creature deformi di cui il romanzo è costellato, smaterializzandosi infine in «pallore livido» che rimane appiccicato al figlio senza
risolversi in conforto refrigerante ma acuendo dolorosamente, piuttosto,
la consapevolezza che «nulla della sua famiglia gli apparteneva più». La
donna, del resto, pur vergognandosene e condannandolo, non è immune
dal lerciume emanato dalla città che ha invaso la campagna, se ella stessa
ha allestito un banco di frutta e verdura davanti alla porta di casa perché
«c’è da guadagnare qualche cosa, con tutti questi sfollati»; ed è così che
Michele la scopre al ritorno in paese, cogliendone l’imbarazzo e la tristezza, nel netto contrasto «tra tanta gioia di vegetazione e il frutto appassito
e pallido che era il volto della madre». Ribadendo il valore simbolico
dei personaggi21, nel­l’indagine sul­l’esistenza condotta da Joppolo su un
alla propria famiglia, passando dalla condizione di pescatori a quella di commercianti con
l’affare del lupini. La prospettiva è, naturalmente, molto diversa: nel romanzo di Joppolo,
c’è in più l’accusa aspra e accanita nei confronti della volontà di ascesa economica, di ogni
tentativo di mutare il proprio stato per tendere verso la prosperità, il denaro, gli agi e le
abitudini di una condizione borghese vista come uno scopo da raggiungere in quanto è la
soddisfazione di tutti i desideri». In questo senso, l’episodio del ritorno a casa, come del
resto il tono di tutto il romanzo, ha più un valore simbolico che un andamento realistico,
«è più vicino a D’Annunzio che a Verga o a Capuana, ma anche Pavese e Vittorini sono
abbastanza lontani da Joppolo, perché non c’è ne La giostra di Michele Civa nessun intento
di viaggio nel tempo verso la naturalità primitiva, ma un preciso discorso di attuali simboli
di carattere sociale ed esistenziale», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La
giostra di Michele Civa, cit., pp. 262-263.
21
«Tutta la narrazione è punteggiata di simboli: i due bambini che appaiono con le
bocche sporche di caramelle e di cioccolata, la sorella di Michele che accetta in matrimonio un proprietario terriero abbastanza ricco, il pranzo che la famiglia di Michele recita
come se ormai avesse assunto le abitudini e i modi borghesi, le visite (molto vittoriniane)
ai personaggi influenti e potenti del paese, come il colonnello, il magistrato, con i due figli
158
dal futurismo all’ASSURDO
campione antropologico specifico che si carica di universalità, la madre
di Michele, «tutta pallore e malattia», con una gamba di legno, il padre
mutilato, il promesso sposo della sorella («piccolo magro dal volto giallo
ad azarola risecchita con attaccato sopra per naso un bitorzolo petulante, con due occhi fessi coagulati gialli e strabici e con le gambe storte»),
dichiarano con l’esasperazione grottesca dei tratti fisici l’abbrutimento di
una condizione umana patologica, che è ancora più evidente nella vallata,
i cui abitanti si avviliscono nella stessa pena che contamina l’anima e il
paesaggio. La «rabbia del caldo e del sole», gli «abissi di luce», le case e
le strade «dilatate e violentate» dalla calura concorrono, anche in questo
romanzo, a definire i topoi di una potenza insana sugli uomini, associata
alla morte e alla follia e contrapposta alla liberazione e al sollievo che derivano dal buio, inteso come annullamento della luce e come possibilità
di vita. Il calore inumano che avvolge in spire lugubri la terra siciliana
arsa, inaridita e tormentata dalla luce assassina rievoca, trasfigurandolo,
il paese del­l’infanzia,
triste chiuso e luminoso, pieno di gente malata e di poveri, che spesso si
uccidevano per slanci di tristezza impiccandosi o bruciandosi come oppressi
da quel­l’enorme luce costretta, che prometteva sconfinati mondi e che invece infine serrava e saturava l’anima sgretolandola22.
Bisognoso d’evasione, secondo lo schema che proietta i protagonisti joppoliani verso un altrove materiale o metafisico, Civa insegue la modesta
sorte di «poter studiare, migliorare, vedere il mondo da uomo veramente
incivilito», scegliendo l’arruolamento volontario perché angustiato dalla
vita, pur gonfiando nel suo «orrore della guerra» il controcanto della propaganda antibellica di De Carli («la borghesia ti darà il tozzo di pane […]
e i padroni speculano sulla bile che seminano tra i servi per renderli sempre più bestie e quindi più servi»). Alla consapevolezza di essere parte di
quel mondo tradizionale che la storia ha sconvolto, si aggiunge l’angoscia
per la rivelazione di una umanità degenerata, che induce Civa a ribellarsi
contro lo stesso De Carli, la cui propaganda è in realtà incapace di generare una rivoluzione catartica, riducendosi così a principio negativo da
eliminare. Questi, emblema della condizione contro natura della guerra,
è uno dei personaggi simbolo eretti dalla scrittura che il romanzo dispone
al­l’estremo di una struttura chiastica a cui è opposto il tenente colonnello
Masi, incarnante sin dai tratti fisici («La bocca senza labbra […] perfettamente inumana») la violenza del Ricatto che solletica il «muscolo del
intellettuali e inerti», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele
Civa, cit., p. 263.
22
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 112.
Anti-mimesi onirica del reale 159
danaro» nei soldati, promettendo un «premio di ventiduemilalire» per
l’arruolamento volontario nel­l’aviazione. Si compone da qui il plot che
concentra su Michele Civa il perno della narrazione, collocandolo ad un
altro estremo del chiasmo, «attore della tragedia simbolica del­l’uomo in
rivolta contro tutti i simboli del sistema di vita che esiste nel mondo»23,
contro cui, al polo speculare, si stagliano le vittime della parte più tremenda della guerra,
coloro che si trovano sotto i bombardamenti. Proprio come le bestie terrorizzate quando l’uomo le vuole stanare per ucciderle. Pugni raggrinziti e
immeschiniti divenuti nervi stretti a pressare gli occhi impauriti e istupiditi.
Inermi, senza alcuna possibilità di difendersi aggredendo in qualche modo
chi li aggredisce o anche sottraendosi alla morte con la fuga24.
Sulle parole di Michele Civa pesa la memoria dei bombardamenti che
Joppolo descrive, anche nella doppia storia, a Milano e a Messina, scegliendo la cifra della deformazione e del dissolvimento e assimilando alla
catastrofe causata dal­l’uomo i cataclismi che ribellano la natura al­l’uomo,
così che i bombardamenti e l’esplosione atomica completano il processo
distruttivo di terremoti ed eruzioni, sino a comporre in unica visione la
sovrapposizione degli effetti subiti dalla natura e dal­l’uomo, prefigurando
nel­l’inedito I gesti sono eterni un’apocalissi che ad ogni latitudine, in Sicilia come ad Hiroshima, secondo il principio di una eterna ed universale
orizzontalità, plasma nello sgomento creature vive e paesaggio:
In una grande calma degli occhi e dello spirito Silvio vide perfettamente
come Hiroshima era stata distrutta. Da ragazzo aveva assistito ad un’eruzione del­l’Etna. Un fiume di lava grigio-scura incandescente scendeva dal
vulcano per le coste della montagna con una velocità di pochi metri al minuto. L’aria su di essa aveva leggeri sussulti non appena giungeva nella zone
d’ebollizione, come di veli appena visibili frammisti e sciolti tra di loro, ma
subito dopo evadeva in una immobilità inumana […]. Tutta Hiroshima, animata e inanimata, in un attimo, si era trasformata in quel­l’aria che appena
bolliva per subito dopo entrare nelle zone in cui diventava qualcosa di diverso e di chimicamente inesplorabile. […] Ed erano stati travolti colpevoli
e innocenti, cose animate e cose inanimate, tutti divenuti qualcosa di diverso
del­l’aria e di chimicamente inesplorabile: ossa nervi vene carne occhi capelli
pelle vestiti specchi cristalli mobili macchine anelli collane scarpe. Solo alla
lontana periferia, dove il calore aveva resa l’aria, soltanto in ebollizione, veli
appena visibili frammisti sciolti fra di loro, permanevano ancora forme di
cose animate e inanimate in statue grigie che bastava appena toccare per
23
24
Ivi, p. 265.
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 151.
160
dal futurismo all’ASSURDO
vedersele davanti infrante in mucchi di cenere. In realtà, tutte le cose animate e inanimate avevano oltrepassate le soglie di loro stesse per diventare
corpo unico25.
La guerra è considerata uno di quei «momenti cruciali» in cui gli uomini,
per avere troppo esagerato «nella devastazione con macelli e fiumi di sangue», sono condotti a doversi «decisamente scannare tra loro», portando
così a compimento il disegno vendicativo della natura che, normalmente,
agisce ponendo una parte di uomini «in assoluta condizione di inferiorità
di fronte agli altri uomini»: questi li devastano «con la schiavitù, con la
fame, col freddo, lentamente, inavvertitamente». Ma la «reciproca inimicizia» degli uomini, disposti negli scompartimenti sociali per essere schiavi e padroni, è per Michele Civa soprattutto un’insidiosa esca del Potere
che, agito dal­l’istinto di un’autoconservazione immutabile, come un sadico giocoliere «lancia in aria ventiduemila lire», lasciando che il bisogno
di sopravvivere inciti la volontà distruttiva della classe che si strugge nella
pena e nella miseria. L’allegoria del Tradimento domina la visione politica di una società del­l’uguaglianza fondata sul­l’aiuto reciproco, il lavoro
condiviso, il comune godimento dei beni primari, attraverso cui gli uomini possono unirsi per coprire «di piante, di verde», la «crosta terrestre
arida terrea nuda», utopia dissolta dal­l’arricchirsi di pochi che, divenuti
potenti, rendono schiavi tutti gli altri uomini. Uccidere i «principi Masi e
De Carlo», che il desiderio di «quel po’ di pane di letto di caldo per non
morire, un po’ di quel bene che tutte le creature umane assieme hanno
creato sul­l’arida crosta terrestre», hanno avvelenato in Michele Civa con
la persecuzione inesorabile del ricatto e della propaganda, prelude ad
una vendetta più definitiva, mirata contro l’obiettivo di una giostra di
bambini, che l’aviatore Civa punta dal­l’alto del­l’aeroplano, conducendo
agli esiti estremi la Propaganda di De Carli:
Bisognerebbe che sbucasse improvvisamente sulla terra una bestia più organizzata del­l’uomo e che si mettesse a cacciare gli uomini nelle case, come
questi vanno a caccia dei conigli nelle tane. I bambini, i vecchi, le madri,
lanciare dentro cani e lupi e farli sbranare o se escono freddarli sulle porte.
Sì. Centinaia di migliaia di uomini congelati o invirminati dal caldo. È vero.
Ma milioni di schiavi anche. Pensiamo dunque una buona volta anche a
questi seminati per ogni angolo della terra26.
La metamorfosi in superbestia è, a questo punto, compiuta. Civa, preso
dalla «fantasticheria» di premere la mitragliatrice e sventagliare la giostra,
25
26
B. Joppolo, I gesti sono eterni, cit., pp. 227-228.
B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 143.
Anti-mimesi onirica del reale 161
è assediato dalle allucinazioni di bambini a frotte che lo processano con
facce scontente dalle ali del­l’aeroplano; appaiono figli di signori e di poveri, dinanzi ai quali l’aviatore-imputato si difende brandendo la teoria
del­l’infanzia corrotta, sempre e indipendentemente dalla classe sociale
di appartenenza, e argomenta la giustificazione alla strage con la crudele
indifferenza usata dai primi sugli «uccellini arrosto, dalle testine calve»,
nei piatti eleganti, per succhiarne «il cervelletto, il sangue, gli umori, gli
ossicini», e con la ferocia degli altri che saltando, ridendo, danzando, si
avventano sui nidi e sulle piccole creature del­l’acqua e della terra. Gli
animali, sacrificati sulla tavola e uccisi per gioco incosciente e sadico,
sono sottoposti ad una istanza di umanizzazione che, nel dolore, scatena
l’asprezza del contrasto con l’uomo-bestia, violento e tirannico sin dalle
radici della nascita, come Civa rivela al mostruoso «fanciullo precoce degenerato» materializzatosi, come ultima apparizione, per difendere la superiorità del­l’uomo rispetto alle bestie: celebrando paradossalmente, con
la deformazione del proprio sembiante umano, il non senso del­l’«elogio
umanistico»27. Il tema della fanciullezza corrotta, che, talvolta, solo una
vecchiezza finalmente liberata dal peso degli umani compromessi può riscattare, è ripreso nel­l’inedito Gli angeli senza sesso (1956), dove è espressamente negata la possibilità di una età del­l’innocenza riconducibile al­
l’infanzia, tanto più che «Il bambino non è fanciullo»:
Il bambino, ripetendo lo svolgersi della evoluzione della specie, è la prima
fase della specie, rappresenta una inconsulta, feroce graziosa fase di bestialità da animaletto commovente, ma per nulla fanciullo. Fanciullo, cioè
immerso nella trasparenza innocente della fanciullezza quale l’uomo ha
pensata la fanciullezza nei rapporti col mondo, col cosmo, con gli altri, fanciullo può divenire soltanto un uomo maturo, un vecchio, e a pochi è inoltre
questa grazia concessa28.
L’infanzia, per Michele Civa, ha inoculati i germi di una paurosa Bestialità, principio da redimere dalla vita del­l’uomo tramite, appunto, l’eliminazione dei bambini che giocano sulla giostra, colpendoli durante uno dei
voli militari. Una nuova vendetta redentrice è così portata a termine, anche se solo sul piano del­l’immaginazione: «Ho ucciso col pensiero anche
27
«Il fanciullo precoce degenerato rifà l’apologia del­l’uomo: ma appare, nel momento in
cui la pronuncia, con i tratti del “degenerato”, quasi una figura demoniaca per gli occhi accesi,
la fronte enorme (da Homunculus alchemico), il volto lungo. È la nota grottesca, che è, nelle
precedenti apparizioni, in subordine di fronte alla figuratività angelologica, ma che qui viene a
essere posta in piena luce, come correlativo figurativo del­l’ossimoro che a pronunciare l’elogio
umanistico sia un fanciullo precoce degenerato», G. Bàrberi Squarotti, Introduzione a B.
Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 274.
28
B. Joppolo, Gli angeli senza sesso, cit., pp. 15-16.
162
dal futurismo all’ASSURDO
il principio Bestialità ma non ho ucciso bambini», dice Civa, che, dopo
Masi e De Carli, assassina pure un alto ufficiale, simbolo del principio
Comando, sabotandone l’aeroplano, e si dirige, nel nome di un’anarchia
assoluta, verso l’annullamento del principio di suprema incarnazione
del male, quello della Reggenza degli uomini. Il gesto estremo di rivolta,
contenuto nella strage simbolica e potenziale sul­l’infanzia, è riscattato,
subito dopo, dal­l’atto finale che chiude il romanzo, doppiamente denso
di senso per il valore «evangelico»29 della rinuncia al denaro, frutto di una
compravendita in nome di una guerra che non è sentita come la propria,
ma di cui anzi si ha disgusto, e per il segnale utopico di una possibile
purificazione di cui è emblema proprio la vecchiezza priva dei desideri
terreni di ricchezza, ambizione, prevaricazione. E così un povero vecchio
mendicante di cibo, «cartapesta vestita di stracci», riceve dalle mani di
Civa la somma corrispondente alle ventiduemila lire che hanno simboleggiato il grado di massima ferocia del sistema di corruzione delle anime
ideato dal Potere e dalla Ricchezza, per sottomettere sempre di più gli
uomini alla schiavitù del bisogno e del compromesso. Continuando con
la metafora messianica, Civa si libera dal proprio denaro, come Giuda che
getta le trenta monete con cui ha venduto la propria fedeltà, per sentirsi
«più pulite le mani e più tagliente la coscienza»; quel premio, speso a
Milano durante la licenza in lussi inani che amplificano la mortificazione
del­l’umanità del personaggio30, in parte distrutto, per supremo disprezzo,
dinanzi a Masi e a De Carli, è lavato donandolo al vecchio come si trattasse di un «trasferimento di proprietà da una persona ingiusta a una persona giusta», episodio finale di un’azione catartica volta a ristabilire una
forma di giustizia cosmica sugli uomini e sul­l’universo. Il personaggio del
vecchio, che il «lucido riflesso di speranza» nelle pupille qualifica come
unico essere umano di tutta la narrazione, diviene così segno di una possibile redenzione dalla bestialità, del miracolo di una esistenza rinnovata,
del­l’estrema consunzione di un’età barbarica al sorgere definitivo di una
dimensione abumanista dello spirito, nel segno di una orizzontalità senza
ricchi e poveri, oppressori ed oppressi, padroni e servi.
Assecondando la prospettiva suggerita dalla scrittura, quella di una
coerente parabola di attraversamento e superamento delle zone più oscu-
G. Bàrberi squarotti, Introduzione a B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 277.
A Milano l’assunzione di comportamenti da ricco, che lo spingono al­l’ebbrezza dello
sperpero di denaro, acuiscono in Michele Civa l’angosciante frustrazione di essersi venduto
per una causa che non sente e che non è la sua, sfogata attraverso l’istinto di morte e violenza
con cui egli tortura una prostituta: «Hai seviziato tua sorella, tua cugina, tua madre, tua
figlia, una tua compagna, e questo non lo hai fatto per libidine, lo hai fatto per impotenza,
per viltà, solo per questo lo hai fatto, perché non sei capace di strangolare i padroni e allora
riversi la bile sui tuoi simili», B. Joppolo, La giostra di Michele Civa, cit., p. 137.
29
30
Anti-mimesi onirica del reale 163
re della storia e della psiche, sino al­l’esito sconcertante della necessaria distruzione catartica che custodisce l’antidoto alla ferocia del­l’uomo-bestia,
si comprende la funzione del romanzo del 1949 Un cane ucciso, «naturale
sbocco di un discorso narrativo che andava accentuando sempre più la
propria pronuncia esistenzialistica, nei termini però di una scrittura enfatizzata di tipo espressionista»:
Dal­l’insoddisfazione esistenziale di Tutto a vuoto, in cui si estrinsecavano
immagini di dolore e di morte, alla rivolta lucidamente calcolata di Michele
Civa, al­l’urlo irrazionale e delirante di Luca Spinòla, Joppolo, infatti, approfondiva la denunzia della degradazione e del­l’alienazione umana31,
lasciandola deflagrare nella violenza cosciente e allucinata che i protagonisti dei romanzi compiono in seguito alla rivelazione di una crescente
degenerazione umana e sociale. Se in Michele Civa l’ansia di rivolta contro i principi che impediscono il compimento di una giustizia universale si
innesca a partire dal­l’episodio della campagna di arruolamento volontario nel­l’aeronautica militare, per il giovane Luca Spinòla sono due avvenimenti di ordinaria eppure eccezionale brutalità a divenire medium iniziatico per la metamorfosi in “super-bestia”, che si compie al­l’insegna di una
paurosa svalutazione della realtà e del­l’esistenza, mantenendo, proprio
nel carattere gratuito del­l’atto distruttivo contro l’umanità, la disperata
denuncia di una condizione da riscattare e rigenerare.
Luca, piccolo impiegato modello, e Jole, la ragazza con cui egli condivide un rapporto sentimentale di odii e livori, assistono, sgomenti prima e
poi infiammati da «un qualche fluido inestinguibile» e ardente, alla morte
di un cane ucciso da un’automobile in corsa, che «svuotato degli intestini […] si era rialzato, con occhi vuoti, aveva camminato per cinquanta
metri, come vivo, normale, ritto, poi era caduto in un rapido rotolìo di
convulsioni». I due vedono poi un uomo sfracellato da un tram, nel più
completo sconvolgimento di forme e colori, con il corpo ridotto a materia inanimata nella massa del paesaggio cittadino («tra rotaie, cespugli,
strada, fari investirono la nebbia e plasmarono facce, tram verde, corpo
sfracellato in un ammasso di cenci, carne, ossa, sangue, cartilagini, umore,
arti contratti, pelle sbranata»). Avviene così la percezione di un vuoto angoscioso, riflesso negli occhi del cane e nel viluppo dei resti umani, da cui
si rivela il senso doloroso di una profonda degenerazione del­l’uomo, che,
come nel romanzo precedente, è fissata allo stato bestiale:
Io avevo potuto capire che quegli occhi e quello sfracellato mi avevano rivelato il pauroso convincimento, assoluto e senza possibilità di equivoco, mia
31
D. Perrone, Prefazione a B. Joppolo, Un cane ucciso, cit., p. 280.
164
dal futurismo all’ASSURDO
avevano data la profonda convinzione che l’uomo è esattamente una bestia
e la si può uccidere senza scrupolo alcuno, così come si uccidono le bestie32.
Come se il vortice di insignificanza che consuma nel­l’aridità e nella perdita di senso potesse essere colmato solo dalla ricerca di emozioni sempre
più violente, l’emersione della bestialità è il risultato fatale del processo
di corruzione e degenerazione del­l’uomo, di una «estrema stanchezza»,
«noia» e «nausea» di vivere, di una «perdizione» totale e di un approdo
completamente assurdo della «attuale condizione umana […] insopportabile per l’uomo»:
L’attuale condizione umana è il carcere, la bestemmia, l’abbrutimento, la
bestialità, la distruzione della parte divina che ogni uomo ha in sé. L’uomo
si contorce per distruggere questa condizione, per salvare la sua umanità,
il suo seme di divinità. E che colpa ha egli se, nel difendersi, nel tentare la
salvezza, gli capita spesso di precipitare in una prigione più orrenda, dove
l’abbrutimento sarà più totale e più totale sarà la distruzione della sua parte
di divinità?33
Nella consueta sovrapposizione tra vicenda del singolo e tragedia dell’uomo, sustantificando la narrazione di precisi riferimenti storici, che fondono l’orrore della cronaca e della memoria alla lucida violenza e alle
fantasie allucinatorie del protagonista, il «delirio» diviene paradossale
incarnazione della «verità», così che il romanzo, pur non collocandosi
apertamente, come La giostra di Michele Civa, nella cornice della guerra,
alla quale si allude incidentalmente, mantiene una perentoria dichiarazione di antimilitarismo che definisce, tra le pieghe del narrato, una precisa
presa di posizione ideologica e politica di Joppolo:
Verrà qualcuno che farà strage di bambini e di donne. Verranno macellazioni collettive in valanghe di ferri fusi e di fiamme. Fame. Odii. Livori. L’uomo
parlerà di fiumi di sangue. Ma dove saranno? Macchie miserevoli che pochi
vedranno e che subito saranno riassorbiti dalla terra. La verità è che l’uomo
vorrebbe distruggere questa civiltà insostenibile, si accinge a distruggerla
con guerre, stragi. […] Ma verrà un giorno in cui ci sarà la pazzia collettiva,
la collettiva stanchezza estrema, non una sola creatura umana sarà capace
di pensare più, di mettere a posto fosse anco una lancetta d’orologio, di
organizzare fosse anco o interpretare tre articoli di legge messi assieme o un
pensiero filosofico o scientifico, e allora sarà il crollo di questa civiltà, come
per tante civiltà antiche è già avvenuto. Sarà questo forse il segno della sal-
32
B. Joppolo, Un cane ucciso, Palermo, Epos, 1985, ora in B. Joppolo, Tutto a vuoto,
La giostra di Michele Civa, Un cane ucciso, cit., p. 238.
33
Ivi, p. 243.
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