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quando finisce la vita
PAOLO BECCHI QUANDO FINISCE LA VITA La morale e il diritto di fronte alla morte Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–2445–4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: aprile 2009 Indice Prefazione ............................................................................. 11 Nota al testo .......................................................................... 13 PARTE I La morte e la morale ............................................................ 15 Premessa .......................................................................... 17 Capitolo I Il dilemma dell’eutanasia volontaria ................................. 19 Capitolo II Lineamenti di un’etica cadaverica .................................... 39 Capitolo III A cuore battente ................................................................ 59 Corollario A chi dà, sarà dato ............................................................ 71 1. Il problema: la scarsità degli organi, 71 – 2. Le tentazioni del mercato, 74 – 3. Donazione e distribuzione: il criterio della reciprocità, 79 – 4. Reciprocità debole e logica del dono, 84 9 10 Indice PARTE II La morte e il diritto ............................................................. 89 Capitolo I Definizione di morte e suo accertamento nella legislazione italiana ................................................................ 91 1. Cenni sull’avvento della nozione di morte cerebrale, 91 – 2. La l. 578/1993 riguardante l’accertamento e la certificazione della morte e il connesso regolamento n. 582 del 1994, 95 – 3. Il nuovo regolamento del 2008 riguardante le modalità per l’accertamento e la certificazione della morte, 106 – 4. Elementi per una critica radicale, 111 Capitolo II Trapianto di organi e tessuti da soggetti definiti cadaveri ............................................................................... 115 1. Gli organi e i tessuti prelevabili, 115 – 2. La manifestazione di volontà in merito alla donazione degli organi (con particolare attenzione alla l. 91/1999), 116 – 3. La disciplina “transitoria” prevista dall’attuale legge, 126 – 4. L’ordinanza e i decreti attuativi del Ministero della Sanità, 132 Capitolo III Cremazione e dispersione delle ceneri .............................. 143 1. La dispersione delle ceneri nella l. 130/2001. Significato e limiti, 143 – 2. La cremazione nella l. 130/2001, 148 – 3. L’attuale confusa situazione normativa tra riforma nazionale del settore funerario in itinere e leggi regionali in vigore, 153 – 4. Il problema dell’affidamento delle urne cinerarie, 165 Indice dei nomi ...................................................................... 171 Prefazione In questo lavoro tento un accostamento alla questione della morte in una prospettiva etica e giuridica. L’idea che lo guida è la seguente: la morale e il diritto moderni si sono occupati prevalentemente della condizione umana tra i due estremi ben definiti della nascita e della morte; gli enormi sviluppi tecnologici e scientifici applicati alla medicina ci pongono tuttavia di fronte a una situazione radicalmente nuova: procreazione artificiale (all’inizio) e prolungamento artificiale (alla fine) non possono non richiamare l’attenzione sulla tutela della persona sia prima della sua nascita sia dopo quella condizione di morte cerebrale che per molti oggi identifica la morte reale. E come già esiste una tutela della vita prenatale (per quanto in relazione agli interessi della madre e comunque con dei limiti legali per quel che concerne l’interruzione di gravidanza), non si vede per quale ragione non dovrebbe pure esistere una tutela della vita che sta spegnendosi. Alla vita organica che si sviluppa gradualmente riconosciamo una certa tutela, dovremmo fare la stessa cosa per la vita organica che altrettanto gradualmente finisce. Beninteso, tutto ciò non vuole mettere in discussione la liceità dei trapianti: quello che piuttosto si intende sostenere è che essi vanno sottoposti non — come si è fatto finora — ad una pretesa definizione scientifica della morte (la cosiddetta “morte cerebrale”), bensì a determinate regole etiche e giuridiche. I morti cerebrali non sono ancora completamente morti e pertanto non possiamo trattarli come cadaveri, ma per loro è già iniziato il processo del morire e in quel processo, in presenza di determinate condizioni, è ammissibile il prelievo dei loro 11 12 Prefazione organi. Questa è la tesi principale che vorrei dimostrare offrendo nella prima parte i lineamenti di una tanatologia critica etica e giuridica e nella seconda sottoponendo ad un esame critico la legislazione italiana in merito alla definizione e all’accertamento della morte, nonché in merito al prelievo degli organi sulla base di tali presupposti. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che anche i cadaveri non sono puramente e semplicemente delle cose con le quali si può fare quel che si vuole. Anche i defunti hanno una loro dignità. E dignità in questo contesto significa trattarli pietosamente: la pietà è un sentimento che sembra avere a che fare più con la morale che con il diritto, e tuttavia una traccia di essa è ancora presente nei codici penali (che tutelano il sentimento religioso e la pietà dei defunti), a testimonianza del fatto che neppure una società secolarizzata come la nostra può fare a meno di essa. Ecco perché l’ultimo capitolo della seconda parte affronta problematiche funerarie come la cremazione e la dispersione delle ceneri che negli ultimi anni hanno subìto notevoli innovazioni nella nostra legislazione. Paolo Becchi Nota al testo Le origini della prima parte di questo lavoro vanno ricercate nel saggio: La morte. La questione irrisolta, pubblicato nella parte monografica della rivista “Ragion pratica” (anno X, 2002, n. 19, pp. 179– 218), dedicata a “Questioni di fine vita”, che ho curato insieme a Donato Carusi. L’articolo è confluito in una mia dispensa universitaria, da tempo esaurita, dal titolo La morte nell’età della tecnica. Lineamenti di una tanatologia etica e giuridica, Genova, Compagnia dei Librai, 2002, pp. 19–71. Il Corollario è stato recentemente pubblicato con il titolo Il problema dell’allocazione degli organi. Plaidoyer per una terza via tra il “puro” dono e il “libero” mercato, in Aa.Vv., Filosofia e realtà del diritto. Studi in onore di Silvana Castignone, a cura di I. Fanlo Cortés e R. Marra, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 233– 247. Viene qui riprodotto con qualche modifica. Nella seconda parte sono confluiti, pressoché integralmente rielaborati, i seguenti lavori: Definizione di morte e suo accertamento, Trapianti di organi e tessuti da soggetti definiti cadaveri e Cremazione e dispersione delle ceneri, tutti apparsi in I diritti della persona. Tutela civile, penale, amministrativa, a cura di P. Cendon, Torino, UTET Giuridica, 2005. Il primo e il terzo saggio nel volume III (rispettivamente il primo alle pagine 797–807, e il secondo alle pagine 757–771), il secondo nel volume IV (alle pagine 91–106). Ringrazio per la loro fattiva collaborazione i dottori Rosangela Barcaro, Carlo Barbieri e Roberto Morani. A quest’ultimo devo in particolare la messa in opera del progetto editoriale, l’aiuto nella correzione delle bozze, nonché la realizzazione dell’indice dei nomi. 13 Capitolo III A cuore battente Quanto detto presuppone, ovviamente, che si tratti di cadaveri e su questo presupposto è fondata la nostra legislazione, come del resto quella di molti altri paesi; ma l’ipotesi più inquietante è che i soggetti a cui si prelevano gli organi cadaveri non lo siano ancora1. Per chiarire questo aspetto bisogna anzitutto considerare come viene definita la morte di una persona. Sino a qualche decennio fa si riteneva che la morte fosse la cessazione totale ed irreversibile di ogni funzione vitale dell’organismo e questa veniva attestata dall’arresto cardiocircolatorio e dall’assenza del respiro. È questa la tradizionale definizione del criterio di morte per arresto cardiorespiratorio o cardiopolmonare. Con lo sviluppo delle tecniche rianimatorie ci si trovò negli anni Sessanta di fronte alla possibilità di tenere in vita persone in condizione disperata garantendo artificialmente la respirazione e la continuazione del battito cardiaco. Ma se da un lato le procedure di rianimazione potevano in tal modo consentire di salvare la vita di pazienti, grazie all’aiuto di un respiratore che suppliva momentaneamen1 Su questo punto si vedano le due seguenti antologie: Aa.Vv., Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, a cura di R. Barcaro e P. Becchi, Napoli, ESI, 2004; Aa.Vv., Finis vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, a cura di R. De Mattei, Soveria Mannelli (CZ ), Rubbettino, 2007. Cfr. ora anche P. Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, Brescia, Morcelliana, 2008 e R. Barcaro, P. Becchi, P. Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, Milano, Franco Angeli, 2008. Importante, infine, anche il volume di C.A. Defanti, Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 59 60 PARTE I | La morte e la morale te ad alcune funzioni vitali dell’organismo, dall’altro comportò pure che altri pazienti non uscivano più dallo stato di coma: il cuore continuava a battere, ma il cervello era irrimediabilmente danneggiato. Il coma era dunque irreversibile e, viste le condizioni cliniche generali, il soggetto sembrava destinato ad andare incontro ad arresto cardio– circolatorio entro breve tempo. Ebbene una Commissione di Harvard, formata prevalentemente da medici, fu incaricata di studiare la questione e nel 1968 pubblicò una relazione finale nella quale veniva affermato che pazienti i quali si trovassero in quelle condizioni di coma irreversibile in realtà non erano più pazienti, ma cadaveri2. Nacque così la nuova definizione di morte come cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, che in molte legislazioni sui trapianti costituisce la condizione necessaria per effettuare il prelievo. Quella che sino ad allora era stata una prognosi infausta, diventava una diagnosi di morte. La nuova definizione ottenne il plauso pressoché generale: essa infatti consentiva di staccare il respiratore senza che questo potesse comportare alcun problema etico e giuridico, dal momento che il soggetto sottoposto a misure rianimatorie veniva preventivamente dichiarato morto. Ma essa consentiva altresì di tenere acceso il respiratore dopo aver definito morto il paziente, in modo da poter avere una banca di organi freschi — prelevabili a cuore battente — da poter essere utilizzati per i trapianti, i quali potevano così avvenire nelle migliori condizioni. Ora se sullo staccare il respiratore si poteva essere d’accordo, sul tenerlo attaccato in quelle condizioni l’accordo di per sé non era per 2 Cfr. Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School, A Definition of Irreversible Coma, in “Journal of American Medical Association”, 205, 1968, 6, pp. 337–340. Il testo dichiarava esplicitamente: «Il nostro obiettivo principale è di definire come un nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità di una definizione è legata a due ragioni: 1) il miglioramento delle procedure di rianimazione e di mantenimento in vita ha prodotto una moltiplicazione dei tentativi di salvare anche persone in condizioni disperate. A volte questi sforzi colgono successi soltanto parziali che hanno come risultato un individuo il cui cuore continua a battere, ma il cui cervello è irreversibilmente danneggiato. Questa situazione comporta difficoltà enormi per i pazienti permanentemente privi delle capacità intellettive, per le loro famiglie, per gli ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno dei posti letto occupati da questi pazienti in coma. 2) I criteri di morte obsoleti possono generare controversie in caso di reperimento di organi da destinare al trapianto» (p. 337). Mentre il primo motivo porta a ritenere lecita l’interruzione del trattamento, il secondo rivela già lo scopo pratico connesso ai trapianti. 3 | A cuore battente 61 nulla pacifico. Si trattava infatti di tenere in una sorta di vita simulata un organismo umano, per uno scopo a lui del tutto estrinseco. Questa nuova possibilità offerta dalla tecnica poteva sin dall’inizio anche avere effetti dirompenti per l’etica della professione medica. Il rischio per il medico era quello di cominciare a considerare i pazienti non più come uomini sofferenti per una malattia o morti a causa di essa, bensì come macchine le cui parti potevano essere a piacimento sostituite o al limite (nel caso della morte cerebrale) rottamate. Eppure la definizione di Harvard — soprattutto per i vantaggi che offriva riguardo ai trapianti — non incontrò resistenze. L’ostacolo venne semplicemente aggirato definendo morto il paziente sottoposto al prelievo e considerando decisivo il fatto che utilizzando i suoi organi si potevano salvare altre vite umane. L’immediato effetto benefico finì per occultare i rischi a lungo termine. Una delle poche voci fuori dal coro fu rappresentata da Hans Jonas che subito mise il dito nella piaga, con un saggio che rimase un classico nella letteratura3. Ma la sua critica risultò allora per i più una fumosa speculazione filosofica, priva di reale fondamento scientifico, dal momento che la morte cerebrale veniva interpretata come la dissoluzione del centro integrativo dell’intero organismo e quindi come morte di quella individualità corporea nella sua interezza. Su questa premessa, in fondo, si reggeva la scientificità della definizione della morte cerebrale supportata dalla convinzione che le funzioni vitali del corpo di un individuo cerebralmente morto potessero comunque essere mantenute per breve tempo. 3 Cfr. H. Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in Id., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, cit., pp. 167–184. In queste pagine sono raccolti un breve commento a caldo scritto nel 1968, il saggio vero e proprio dal titolo Against the Stream, scritto nel 1970, ma pubblicato nel 1974 e due poscritti del 1976 e del 1985: segno della costante attenzione di Jonas per questo tema. A tale proposito cfr. P. Becchi, La nuova definizione di morte e il problema del trapianto di organi, in “Ragion pratica”, XXVII, 2006, pp. 101–114; anche in “Filosofia e Teologia”, XX, 2006, 1, pp. 147–162 (il saggio è ora ricompreso nel volume P. Becchi, La vulnerabilità della vita. Contributi su Hans Jonas, cit., pp. 219–246). Tra i primi critici della definizione di morte cerebrale va pure annoverato il filosofo Josef Seifert che, da cattolico, rappresentò l’unica voce di dissenso nella Pontificia Accademia delle Scienze, la quale, nel dicembre 1989, convocò un gruppo di lavoro per esaminare la nuova definizione di morte, giungendo alla fine ad accettarla. I risultati dell’incontro sono contenuti nel volume The Determination of Brain Death and Its Relationship to Human Death, ed. by R.J. White, H. Angstwurm, I. Carrasco de Paula, Città del Vaticano, Pontificia Accademia delle Scienze, 1992. 62 PARTE I | La morte e la morale Jonas già da allora contestò tutto ciò e lo fece, a ben vedere (anche se il punto non viene da lui stesso esplicitato) sulla base del tentativo, da lui sviluppato in ricerche più risalenti nel tempo, di fondare contro le tendenze riduzionistiche allora predominanti nelle scienze una «nuova biologia» incentrata sulla funzione del metabolismo e sull’idea dell’unità psico–fisica dell’essere umano. Non è certo questo il luogo per approfondire questo aspetto4. Il fatto interessante è però che le acquisizioni delle scienze neurologiche confermano in larga parte le intuizioni di Jonas5. Vi sono almeno due argomenti che vanno qui schematicamente riassunti. Il primo è che la morte cerebrale come cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo non risulta effettivamente diagnosticabile sulla base dei criteri operazionali e test standard attualmente previsti. È quanto emerge da uno studio di Truog e Fackler, dei primi anni Novanta6. A sostegno della loro tesi, i due medici portano quattro argomenti che si possono riassumere nel modo seguente. In primo luogo, in molti pazienti giudicati in stato di “morte cerebrale”, secondo gli esami in uso, non è venuta meno la funzione endocrino–ipotalamica, segno che l’ipotalamo regola ancora l’attività ormonale; in secondo luogo, in alcuni pazienti che si trovano in tale stato è conservata l’attività elettrica in gruppi di cellule della corteccia cerebrale; in terzo L’“opera chiave” di Jonas è a tale proposito Organismus und Freiheit. Aufsätze zu einer philosophischen Biologie, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973; tr. it. Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, Torino, Einaudi, 1999, p. 26. Sul tema si veda anche Macht oder Ohnmacht der Subjektivität? Das Leibe–Seele Problem im Vorfeld des Prinzips Verantwortung; tr. it. Potenza o impotenza della soggettività? Il problema anima–corpo quale preambolo del “Principio responsabilità”, a cura di P. Becchi e R. Franzini Tibaldeo, Milano, Medusa, 2006. 5 Cfr. U. An der Heiden, G. Roth, H. Schwegler, Die Organisation der Organismen: Selbstherstellung und Selbsterhaltung, in “Funktionelle Biologie und Medizin”, V, 1985, pp. 330–346; cfr. anche G. Roth, U. Dicke, Das Hirntodproblem aus der Sicht der Hirnforschung, in Aa.Vv., Wann ist der Mensch tot? Organverpflanzung und Hirntodkriterium, hrsg. von J. Hoff und J. in der Schmitten, Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1994, pp. 51–57. 6 Cfr. R.D. Truog, J.C. Fackler, Rethinking Brain Death, in “Critical Care Medicine”, XX, 1992, 12, pp. 1705–1713. Truog ha continuato ad occuparsi del tema, cercando in lavori più recenti di trovare una diversa giustificazione etica per la donazione degli organi centrata sui principi di non maleficenza (non–maleficence) e consenso. Cfr. R.D. Truog, Is It Time to Abandon Brain Death?, in “Hastings Center Report”, XXVII, 1997, 1, pp. 29–37. L’articolo è ora tradotto in italiano nell’antologia di scritti Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, cit., pp. 205–229. 4 3 | A cuore battente 63 luogo, alcuni pazienti continuano, insospettabilmente, a reagire agli stimoli esterni; in quarto luogo, in molti pazienti definiti cerebralmente morti sono conservati i riflessi spinali. Da tutto ciò gli autori giungevano alla conclusione, in seguito non smentita da altri ricercatori, che gli attuali mezzi clinici adoperati per accertare la morte cerebrale totale in realtà accertano soltanto la cessazione di alcune funzioni, ma non di tutte. Il secondo argomento su cui vorrei brevemente richiamare l’attenzione è che organismi clinicamente definiti in stato di morte cerebrale sopravvivono, attaccati alle macchine, molto più a lungo di quanto si potesse immaginare e ciò fa pensare che il cervello non sia così essenziale per il funzionamento dell’intero corpo come invece si riteneva. Insomma, la constatazione che la (presunta) morte del cervello sia un indicatore dell’imminenza della morte si è rivelata falsa. Ma se la morte del cervello non è più un indicatore della morte ravvicinata dell’organismo ciò significa che viene a cadere il presupposto fisiologico su cui si reggeva la morte cerebrale. Alan Shewmon, il neurologo che in ricerche risalenti alla fine degli anni Ottanta è arrivato a questa conclusione, ne ha tratto le dovute conseguenze, facendo una esplicita autocritica: lui, cattolico, che aveva difeso il criterio della morte cerebrale è giunto esplicitamente a respingere qualsiasi definizione della morte sulla base di criteri esclusivamente neurologici. Ciò che Shewmon contesta è l’idea, oggi ancora molto diffusa, che il cervello rappresenti l’organo responsabile del funzionamento integrato delle diverse parti di un organismo e che, come tale, ne costituisca il “sistema critico”. In realtà il corpo non possiede un sistema di questo genere localizzato in un organo. L’unità integrativa di un organismo non è qualcosa di imposto dall’alto (dal cervello), ma un fenomeno olistico fondato sulla mutua interazione di tutte le parti del corpo7. E questo Cfr. D.A. Shewmon, “Brain–Stem Death”, “Brain Death” and Death: A Critical Re– evaluation of the Purported Equivalence, in “Issues in Law and Medicine”, XIV, 1998, 2, pp. 125–145; il testo tradotto in italiano è contenuto in Aa.Vv., Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, cit., pp. 177–204. Secondo il neurologo questa sua idea del controllo dell’unità integrativa non localizzato nell’encefalo fornirebbe una spiegazione per le sopravvivenze prolungate (nel record del paziente denominato “TK” fino a oltre 20 anni) di soggetti, in gran parte pazienti pediatrici, nei quali erano state diagnosticate le condizioni tipiche della morte cerebrale. La permanenza di alcune funzioni, che erano ritenute di pertinenza dell’encefalo — regolazione della temperatura corporea, omeostasi 7 64 PARTE I | La morte e la morale comporta che l’essere umano non è ancora completamente morto quando è morto il suo cervello. Con questa conclusione egli ha radicalmente messo in discussione il “dogma” che l’encefalo sia l’organo unico responsabile dell’integrazione corporea e, di conseguenza, che la morte dell’encefalo provochi inevitabilmente la dis–integrazione tra le componenti del corpo e dunque il decesso. La morte dell’individuo è piuttosto il risultato di danni che interessano più sistemi di organi. Per il neurologo il raggiungimento di una soglia critica, il “punto di non ritorno”, che segna l’avvio del processo di morte e rende inefficace qualsiasi intervento medico finalizzato a scongiurare l’exitus, indica che si sta verificando la progressiva dis–integrazione corporea. Certo, anche per Shewmon non ha alcun senso continuare a tenere in vita pazienti il cui cervello ha irreversibilmente smesso di funzionare. Ma una cosa è sospendere in questi casi il trattamento di sostegno vitale, un’altra cosa intervenire su di lui per prelevargli gli organi quando si trova ancora in quella condizione ambigua di una vita che con il respiratore acceso continua, nonostante il cervello abbia smesso di funzionare. Nel 1968 contro la definizione della morte cerebrale la linea difensiva prospettata da Jonas portava in primo luogo a sospendere la respirazione artificiale, poi a lasciar passare un periodo di tempo breve, ma sufficiente per escludere la possibilità di una ripresa spontanea delle funzioni vitali, e solo successivamente a procedere al prelievo degli dei fluidi, reazione alle infezioni, crescita corporea — è segno della conservazione di un certo livello di attività integrata delle molteplici componenti dell’organismo. Per Shewmon dunque è errato ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore dell’imminenza della morte. Per procedere alla dichiarazione di morte non si dovrebbe dunque diagnosticare soltanto la morte cerebrale, ma si dovrebbe fare riferimento a più parametri, ossia quelli connessi all’attività respiratoria, circolatoria e neurologica. Quando risultasse chiaro che è avvenuto il superamento di un punto di non ritorno, il paziente verrebbe scollegato dalle apparecchiature per la ventilazione artificiale e dopo venti minuti di attesa, un tempo che Shewmon giudica necessario per ottenere la sicurezza dell’impossibilità di una ripresa spontanea delle funzioni vitali del soggetto, verrebbe dichiarato morto, e solo allora si potrebbe procedere al prelievo degli organi. Cfr. anche D.A. Shewmon, The Brain and Somatic Integration: Insights Into the Standard Biological Rationale for Equating “Brain Death” with Death, in “Journal of Medicine and Philosophy”, 26, 5, 2001, pp. 457–478; D.A. Shewmon, Brain–Body Disconnection: Implications for the Theoretical Basis of Brain Death, in Aa.Vv., Finis vitae: is Brain Death still Life?, a cura di R. de Mattei, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006, pp. 211–250; tr. it. Disconnessione tra encefalo e corpo: implicazioni per il fondamento teorico della morte cerebrale, in Aa.Vv., Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, cit., pp. 277–332. 3 | A cuore battente 65 organi. Non molto diverse, nei loro esiti pratici, mi sembrano le più recenti conclusioni di Shewmon, che respingendo la definizione di morte cerebrale non ha negato la liceità dei trapianti ritenendo tuttavia che essi dovrebbero avvenire dopo la cessazione definitiva del battito cardiaco e della circolazione. L’interrogativo che qui si apre è se rispettando tali criteri risulterebbero ancora fruttuosamente realizzabili i trapianti. Alcune ricerche pilota dimostrano che — perlomeno per alcuni organi — si possono ottenere buoni risultati anche effettuando il prelievo da donatori a cuore fermo8. In questo caso, tuttavia, il grosso problema è stabilire quanti minuti siano necessari prima di dichiarare la morte del paziente. E i venti minuti che vengono di norma ritenuti un lasso di tempo sicuro, sono troppi per assicurare una buona conservazione degli organi prelevati. Perlomeno per alcuni organi, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non resta quindi che il prelievo a cuore battente, con tutti i problemi giuridici ed etici che ciò comporta, una volta che si ammetta (come prima o poi si dovrà pur fare) che la morte cerebrale non è ancora la morte di una persona, che il morto cerebrale, pur avendo perso una possibilità di recupero, non è ancora un cadavere. Se le cose stanno in questi termini ciò non può non avere ripercussioni anzitutto sotto il profilo giuridico. Occorre infatti dire che se il presupposto legale per il prelievo degli organi (e la nostra legge, come vedremo, va esattamente in questa direzione) è l’accertamento della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, allora pazienti che non soddisfano quella condizione non possono essere, sotto il profilo giuridico, considerati dei cadaveri. E se non possono essere considerati tali — a rigor di legge — non si potrebbe neppure configurare la liceità del prelievo, poiché il prelievo deve avvenire da cadavere. Ma non è necessariamente questa la strada da seguire. La legislazione giapponese sui trapianti, in modo del tutto originale, evita acCfr. M. Weber, D. Dindo, N. De Martines, P.M. Ambühl, P.–A. Clavien, Kidney Transplantation from Donors without a Heartbeat, in “New England Journal of Medicine”, 347, 2002, 4, pp. 248–255. Si tratterebbe, per certi versi, di un ritorno al passato. All’inizio dell’attività del trapianto, infatti, gli organi erano prelevati da soggetti il cui decesso era dichiarato dopo alcuni minuti di arresto cardiocircolatorio. Per notizie ulteriori su questo punto cfr. R. Barcaro, P. Becchi, Introduzione a Aa.Vv., Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, cit., pp. 18–22. 8 66 PARTE I | La morte e la morale curatamente di identificare la morte con la condizione della morte cerebrale, consentendo tuttavia in presenza di alcuni requisiti morali il prelievo degli organi in quella condizione9. Sotto il profilo morale, inoltre, il prelievo potrebbe configurarsi come una caso particolare di eutanasia, ma con la precisazione che si tratta di una caso del tutto diverso da quello che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti. Se il soggetto interessato, che in precedenza aveva acconsentito a donare gli organi, nel momento in cui subisce il prelievo è ancora in qualche modo vivo ciò vuol dire che abbiamo a che fare con una sorta di eutanasia: non più per pietà nei confronti di chi se ne va, ma per solidarietà nei confronti di coloro che restano. Rispetto al caso paradigmatico dell’eutanasia sopra considerato (quello del malato terminale cosciente che chiede di morire) qui abbiamo un paziente che ha perso in modo irreversibile la capacità di essere cosciente e che tuttavia prima di perderla ha deciso di donare i suoi organi. Ora, se egli pur essendo correttamente informato del fatto che il prelievo avviene quando il suo organismo è ancora vivo, avesse comunque dato il suo esplicito consenso, come dovremmo valutare questa sua scelta? Non si può pretendere da lui che doni i suoi organi; tanto più se il prelievo avviene quando il soggetto si trova ancora in una condizione ambigua tra la vita e la morte. Ma se decide ugualmente di farlo, dovremmo rispettare questa sua scelta. Egli non ha alcun dovere di donare i suoi organi, ma bisogna riconoscergli il diritto di farlo anche in quella condizione estrema. Se, come abbiamo visto, un malato terminale cosciente, ha il diritto (in senso morale) di morire per non far soffrire gli altri (oltre che se stesso), un paziente il cui cervello ha irreversibilmente smesso di funzionare dovrebbe avere il diritto di decidere, quando era nelle condizioni di poterlo fare, di sacrificare ciò che di vitale ancora resta di sé per la vita degli altri. 9 Sulla legislazione giapponese rimane fondamentale il volume di H. Kawaguchi, Strafrechtliche Probleme der Organanansplantation in Japan, Freiburg. i.B, edition iuscrim, 2000. Per un confronto interculturale interessante la raccolta di saggi Rechtliche und ethische Fragen der Transplantationstechnologie in einem interkulturellen Vergleich, hrsg. von H. Kawaguchi und K. Seelmann, Wiesbaden, F. Steiner, 2003. Per gli aspetti più propriamente etico– filosofici decisivo il volume di M. Morioka, Noshi no Hito, Tokio 1989 (ristampa 2000). Del medesimo autore cfr. Reconsidering Brain Death: a Lesson from Japan’s Fifteen Years of Experience, in “Hastings Center Report”, XXXI, 2001, 4, pp. 41–46. 3 | A cuore battente 67 Questa scelta sarebbe di alto valore morale e richiederebbe qualcosa di più di un mero consenso informato: occorrerebbe accertare che l’informazione data sia stata anche consapevolmente recepita dal destinatario. Solo una decisione pienamente motivata e consapevole potrà giustificare il prelievo effettuato — come oggi accade — con il respiratore acceso e controbilanciare quel ruolo reificante in cui il soggetto si viene a trovare quando in quella condizione diventa oggetto di tale intervento. Si potrà replicare che così il numero dei donatori è destinato a diminuire. Se è già difficile ottenere il consenso alla donazione di organi da cadaveri, ancora più difficile è possibile che sia ottenerlo nel caso in cui si dovesse ammettere che il prelievo avviene quando in realtà non si è ancora cadaveri. Ma non ci sono alternative eticamente sostenibili: o si stacca il respiratore e dopo un tempo ragionevole (ed il problema è proprio di stabilire quale) si procede al prelievo, rispettando le condizioni etiche già discusse, oppure lo si lascia acceso, ma allora non ci si può più trincerare dietro alla finzione della morte cerebrale e bisogna avere l’onestà di ammettere che il paziente non è ancora morto quando viene sottoposto al prelievo. Il soggetto deve sapere proprio in questo caso a cosa va incontro e la sua scelta deve essere assolutamente consapevole. Resta tuttavia da chiedersi, come già nel caso del malato terminale che chiede di morire, se il medico possa procedere al prelievo a cuore battente, senza venir meno alla sua etica professionale. (E qui, tra l’altro, il dilemma risulterebbe insolubile: solo un chirurgo infatti può realizzare questo delicatissimo intervento). Se il paziente è ancora vivo al momento dell’intervento allora sembrerebbe essere proprio l’incisione chirurgica a ucciderlo. Dovremmo pertanto concludere che anche ammesso il valore morale di donare gli organi in quella condizione, il medico dovrebbe astenersi dall’intervenire per non compiere un atto eutanasico? Non credo che si debba giungere a questa conclusione, senza per questo mettere in discussione la tesi che ho precedentemente sostenuto. Il medico non deve spingersi sino al punto di uccidere un malato terminale che nel pieno possesso delle sue facoltà mentali glielo chiede, ma il caso che stiamo ora discutendo è completamente diverso. Anche se il paziente il cui cervello ha smesso di funzionare non è an- 68 PARTE I | La morte e la morale cora morto, egli è già entrato nel processo della morte, tanto che staccato dal respiratore muore in pochi minuti. Il fatto che egli attaccato al respiratore possa sopravvivere in quello stato anche per lungo tempo, non modifica nulla sulla valutazione morale e giuridica di quella condizione che la scienza medica senza eccezioni concorda nel ritenere irreversibile. A partire da quella condizione non c’è più alcun obbligo di tenere ulteriormente in vita quel paziente e staccandolo dal respiratore egli conclude in pochi minuti quel processo in cui è entrato. Anche la semplice interruzione di quel trattamento conservativo, lo staccare il respiratore, potrebbe essere considerata un’azione eutanasica: essa, infatti, pone comunque fine a quel processo. Riteniamo tuttavia che il medico in quella situazione possa sospendere quel trattamento senza per questo venir meno alla propria etica professionale. E questo perché presupponiamo che quando il cervello di un essere umano ha smesso in modo irreversibile di funzionare la mera sopravvivenza in quello stato costituirebbe una forma di accanimento terapeutico. Certo, un conto è sospendere il trattamento e lasciare che la natura faccia il proprio corso, un altro è prelevare gli organi da quella condizione, ma anche questa seconda azione non è paragonabile all’uccisione di un paziente cosciente che chiede di anticipare la propria morte. Questa azione non è diretta a uccidere, ma a salvare la vita di pazienti destinati altrimenti a morire. Nel momento in cui il medico preleva gli organi egli non sta uccidendo qualcuno che pur tra mille sofferenze continuerebbe a vivere, ma pone soltanto fine ad un processo che sarebbe comunque lecito interrompere, sospendendo la terapia intensiva, qualora il paziente non avesse acconsentito al prelievo dei suoi organi. L’unica differenza rispetto alla sospensione del trattamento consiste nel fatto che esso qui viene mantenuto un po’ più a lungo con lo scopo di procedere al prelievo degli organi in condizioni ottimali. Nel caso dell’eutanasia volontaria attiva si accorcia, con una iniezione letale, la vita del paziente cosciente onde evitargli un accumulo ulteriore di sofferenze; nel caso del prelievo degli organi, invece, si prolunga ancora per un po’ la vita di un paziente in coma irreversibile con lo scopo di restituirne ad altri una ben più piena e vitale10. Cfr., nella medesima direzione, W. Höfling, S. Rixen, Verfassungsfragen der Transplantationsmedizin. Hirntodkriterium und Transplantationsgesetz in der Diskussion, Tübin10 3 | A cuore battente 69 Se io avessi bisogno di un trapianto mi augurerei che il donatore avesse lasciato disposizioni tali da garantirmi un organo nelle migliori condizioni e assicurarmi così la possibilità di continuare a vivere. Non posso pretenderlo da lui, come non posso pretendere che se stessi annegando qualcuno debba necessariamente mettere a repentaglio la sua vita per salvare la mia, ma se qualcuno decidesse di farlo io ne gioirei e la sua azione sarebbe stata di alto valore, come lo è quella di donare i propri organi, sapendo che il prelievo avviene quando il processo di morte è già iniziato, ma non è ancora concluso, perché il respiratore ancora acceso lo ha bloccato. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, entrambi oggi non sono più soltanto soggetti alla natura, ma alla tecnica applicata alla medicina e con ciò inevitabilmente alla nostra responsabilità. gen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1996, pp. 97 ss. Nella stessa linea J. Hoff, J. in der Schmitten, Tod? in “Die Zeit”, XLVII, 13. Nov. 1992, p. 56. Vorrei ricordare che l’ipotesi qui avanzata di ammettere il trapianto di organi pur senza condividere il criterio della morte cerebrale, non incontrò il favore di Jonas, che per il resto tuttavia vedeva nelle critiche che allora in Germania si stavano diffondendo contro la nozione di morte cerebrale una sorprendente e inattesa conferma delle sue tesi. Cfr. H. Jonas, Una madre morta con un feto vivo in corpo? Due lettere, in Aa.Vv., Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, cit., pp. 71–76.