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DIECI NOBEL PER IL FUTURO

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DIECI NOBEL PER IL FUTURO
DIECI NOBEL PER IL FUTURO
Il 6 giugno di quest'anno si è tenuto presso il Centro Congressi della CARIPLO il primo
dei tre appuntamenti in cui si articola l'edizione 1996 di "Dieci Nobel per il futuro". In
questo primo incontro sono stati trattati i problemi inerenti il rapporto tra sviluppo
scientifico-tecnologico, politica energetica e ambiente.
Rubbia (Nobel per la Fisica 1984) ha inizialmente analizzato quelle che sono state le
scelte operate negli ultimi venti-trent'anni in materia di politica energetica soprattutto da
parte dei paesi industrializzati: dai combustibili fossili alla grande speranza rappresentata
dal nucleare, dal potente ritorno in auge dei combustibili fossili -soluzione mai
accantonata in quanto poco temuta o più facilmente accettata- ai tentativi fatti per
ottenere forme di energia alternativa.
L'analisi è stata indubbiamente precisa e puntuale. In particolare Rubbia si è soffermato
ad analizzare le diverse strade via via intraprese dal punto di vista dei costi e dei rischi
connessi alla scelta dell'una piuttosto che dell'altra forma di energia.
Sul fatto che il consumo energetico andrà via via intensificandosi sia nei paesi
industrializzati che in quelli in via di sviluppo si è tutti d'accordo (il World Energy
Council prevede un'incremento del consumo di energia elettrica nei paesi avanzati pari al
50-75% per il 2020), così come pure sul fatto che oggi, rispetto al passato, si è in grado
di ottenere eguali risultati consumando molta meno energia (risparmio però compensato
da una sempre maggiore domanda).
Si discute, invece, molto sull'identificazione della sorgente.
I combustibili fossili materia prima d'elezione dalla quale si è ricavata energia per
moltissimo tempo, e dai quali ne traiamo tuttora, hanno il grosso limite delle emissioni
di CO2. Queste, è ormai universalmente e "ufficialmente" riconosciuto, stanno sempre
più influenzando l'andamento climatico con conseguenze a breve e lunga scadenza
tutt'altro che rosee: progressivo aumento della temperatura del pianeta -il famigerato
effetto serra-, sconvolgimento delle stagioni ecc. (non va dimenticato che i combustibili
fossili -carbone, petrolio e derivati, gas naturale- rappresentano praticamente l'unica
sorgente di energia per molti paesi dell'area asiatica in via di sviluppo ai quali non può
essere imposto ora un utilizzo limitato, in quanto consci delle conseguenze, dopo averne
fatto noi occidentali uso incontrollato per decenni). D'altro canto l'energia nucleare, per
diverso tempo più conveniente di ogni altra forma (oltre alla convenienza argomentazione molto forte nella scelta della politica energetica da perseguire- a favore
del nucleare era il possibile affrancamento dai paesi produttori di petrolio), ha subito un
duro colpo in seguito ai gravissimi incidenti accaduti e alle loro conseguenze o alle
possibili paventate conseguenze. Nè si può fare affidamento sulle forme di energia
alternativa. Oltre agli alti costi non si può pensare di riuscire a soddisfare il fabbisogno
energetico di un qualsiasi paese industrializzato solo avvalendosi di tali sistemi che
derivano energia da sorgenti "a bassa densità" (per fare un'esempio se si volesse, oggi in
Italia, produrre la stessa energia attualmente ricavata mediante combustibili fossili
sfruttando l'energia solare si dovrebbe ricoprire con pannelli solari una superficie pari a
~ 2.3 volte quella italiana!). Le ricerche in questa direzione, sottolinea Rubbia, non
vanno comunque abbandonate, fermo restando il grossissimo limite di cui si è detto.
Nel tirare le somme Rubbia sottolinea come ognuna delle scelte delineate in materia di
politica energetica sia valida sempre che si sia pronti ad accettarne costi e conseguenze.
A questo proposito invita a una valutazione fatta sul confronto tra le varie possibilità e
non fatta sulla proposta presa singolarmente: il nucleare -questo vale ovviamente per
ogni possibile alternativa- non è da preferirsi a priori rispetto a una qualsiasi altra forma
di energia: è da preferirsi come la migliore delle soluzioni possibili.
La seconda parte della relazione di Rubbia è stata dedicata alla (ri)presentazione nonchè
sponsorizzazione del progetto da lui stesso proposto alla comunità scientifica nel 1993
relativo all'ottenimento di una nuova forma di nucleare, pulito e a basso costo (il noto
Amplificatore di Energia dove viene sfruttata la tecnologia degli acceleratori di
particelle).
Jean Marie Lehn (Nobel per la Chimica 1987) ha sottolineato come sia a suo modo di
vedere assolutamente ingiustificato il sospetto che moltissime persone nutrono nei
confronti della scienza, del mondo scientifico e dello sviluppo scientifico-tecnologico.
Quello della Natura Pura è un mito, è una religione: la Natura non è nè buona nè cattiva,
non si conserva, non è "immutabile": semplicemente "è".
Le trasformazioni cui assoggettiamo la natura sono necessarie, le nuove tecnologie
danno a noi e alle generazioni a venire "nuove libertà": noi non abbiamo il diritto anzi
abbiamo il dovere di garantire ai nostri figli un mondo più libero in cui si viva meglio e
in cui la qualità della vita sia migliore. Gli avvenimenti luttuosi, a volte catastrofici, che
si sono accompagnati all'introduzione di nuove soluzioni tecnologiche non sono una
conseguenza delle trasformazioni o dell'innovazioni in se. La scienza non è cattiva:
cattivo, o non corretto, è l'uso che delle nuove risposte della scienza a specifici problemi
e bisogni fa l'industria privata. Sempre poi a sottolineare come lo sviluppo scientifico
non sia di per se stesso cattivo, non possa essere associato a connotazioni morali, Lehn
ricorda come spesso siano proprio nuove tecnologie a risolvere problemi causati da altre
tecnologie. Il rischio 0 non esiste; l'eliminazione totale del rischio limita le libertà del
singolo e la democrazia: i rischi sono a priori giustificati e giustificabili. Non abbiamo il
diritto di bloccare lo sviluppo.
Infine, a proposito del tema fondamentale dell'incontro Lehn spende le ultime parole del
suo intervento: "Noi consumiamo molta più energia dei paesi in via di sviluppo: per uno
sviluppo sostenibile questa differenza deve essere portata a 0".
"Io non sono uno scienziato, sono un'imprenditore." Comincia così il simpatico e
stimolante intervento di Gunter Pauli per il quale trovare un'etichetta, un ruolo è molto
difficile vista la poliedricità e il gran numero di interessi e competenze. La prima
Rivoluzione Verde, ci racconta, resasi necessaria negli anni sessanta e settanta in
conseguenza del più alto aumento demografico mai registratosi e della conseguente
abnorme domanda di cibo, ha condotto a un maggiore sfruttamento della terra attraverso
l'introduzione di nuove tecnologie, di pesticidi, di fertilizzanti, e ancora attraverso la
selezione delle sementi.
Questo ammodernamento ha portato a notevoli incrementi di produttività della terra.
Oggi analoghi incrementi non sono più possibili: la terra non può dare più di quanto già
fornisce e di conseguenza siamo chiamati, con mezzi nuovi, ad ottenere di più da quanto
già ottenuto: questa sarà la seconda Rivoluzione Verde.
Pauli fa così tutta una serie di esempi per dimostrare come oggi la produzione di diverse
risorse, di diversi beni comporti un'utilizzo limitato della materia prima impiegata.
Un esempio su tutti quello della birra: il 92% dell'orzo, della biomassa, viene scartato,
bruciato. Non solo: per un litro di birra necessitiamo di almeno sette litri di acqua; o
ancora l'esempio della cellulosa: il 70% dell'albero (pensiamo alle foreste tropicali)
viene bruciato; e si potrebbe continuare all'infinito.
La ricerca, sostiene Pauli, deve essere incentrata sui prodotti di rifiuto (wastes) e sul loro
reimpiego.
È nato così il programma ZERI (Zero Emission Research Initiative): il fine di questa
iniziativa non è l'ottenimento di livelli di tossicità e pericolosità trascurabili come ne
lascerebbe intendere il nome bensì l'utilizzo completo della materia prima. Sono già al
lavoro a questo scopo circa 4600 scienziati e ricercatori ai quali e già riuscita la
progettazione e la realizzazione di impianti in grado di riutilizzare completamente i
prodotti di rifiuto e in grado di ricavare da questi l'energia necessaria al funzionamento
dell'impianto in toto.
Ma chi ha interesse per questo tipo di iniziative? In parole povere chi paga le ricerche
per questo tipo di recupero? Dice Pauli: il recupero diventarà presto un affare.
Dei tre interventi quello che mi ha lasciato un po' perplesso è stato quello di Lehn. Non
metto in dubbio la buona fede dello uomo di scienza, ma non condivido quanto detto a
proposito del rischio connesso all'introduzione di nuove soluzioni tecnologiche. Non è
una buona cosa per la scienza l'accettazione del rischio a priori quantomeno dal punto di
vista psicologico: la scienza muove da certezze, da convinzioni supportate
dall'esperienza; non è una buona cosa fornire il comodo alibi del rischio necessario al
mondo scientifico. Allo stesso modo non concordo sull'ineluttabilità, sul dovere essere in
senso assoluto con una marcata caratterizzazione morale, dello sviluppo scientifico e
tecnologico; per diverse ragioni: tanto per cominciare non sarebbe male se
cominciassimo anche a preoccuparci della sempre più evidente mancanza di
corrispondenza fra sviluppo, innovazioni tecnologiche ed evoluzione culturale; e non
solo, tra sviluppo tecnologico e qualità della vita (che la scienza si propone di
migliorare); in secondo luogo non possiamo permetterci, noi, comunità mondiale il lusso
di sempre nuova tecnologia quando a fatica riusciamo, e spesso male, a controllare
quella di cui disponiamo: pensiamo all'enorme problema dei prodotti di rifiuto ecc.
L`ultima obiezione e di ordine prettamente morale: io, come singolo, -questa non è per la
verità l'opinione di chi scrive- ho tutto il diritto di scegliere la soluzione che ritengo
migliore, la strada che voglio seguire a prescindere da chi verrà dopo di me ( d'altronde
per dirla con Graucho Marx "cosa hanno fatto loro per me?"): questo non mi rende
persona meno degna, meno morale di chi si preoccupa invece delle generazioni a venire:
è semmai vero il contrario c'è forse meno moralità nel vincolare il destino collettivo a un
"presunto" bene futuro.
Non credo che per la verità Lehn intendesse esattamente esprimere con le parole che ha
utilizzate le idee che io gli ho ascritte con le precedenti obiezioni; nelle sue parole è
chiaro il desiderio, la voglia, magari espressa con troppa foga, con espressioni troppo
assolute, di combattere l'ostracismo nei confronti della scienza dovuto all'ignoranza
(molte persone ritengono ancora oggi che i prodotti, le molecole di sintesi siano
sostanzialmente diverse da quelle -le stesse- che deriviamo in natura): certo è che oggi la
scienza ha forse più il compito e la necessità di educare che quello di convincere.
Fondamentale è, a questo proposito, il confronto.
Questo giornale potrebbe riservare uno spazio alle diverse opinioni. I lettori sono invitati
a contribuire.
Gian Pietro Pertesana e Gianluigi Monticelli
Informazione Universitaria 2(2): 4 (1996)
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