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la pena di morte fra sociologia e pedagogia
LA PENA DI MORTE
FRA SOCIOLOGIA E PEDAGOGIA
di Aldo Bergamaschi
I
LA PENA DI MORTE FRA SOCIOLOGIA E PEDAGOGIA
A ld o B e r g a m a s ch i
INDICE
Introduzione......................................................................................... i
Parte I - Il dibattito storico
Approccio al tema .............................................................................. 1
La lezione biblica ............................................................................... 2
Natura e razionalità ............................................................................ 5
Storicismo e profezia.......................................................................... 8
Cristo tra filosofia e teologia ............................................................ 12
La Summa galeotta (1)...................................................................... 15
La Summa galeotta (2)...................................................................... 19
La Civiltà Cattolica in nevrosi (1) ................................................... 23
La Civiltà Cattolica in nevrosi (2) ................................................... 26
La Civiltà Cattolica in nevrosi (3) ................................................... 29
La Civiltà Cattolica in nevrosi (4) ................................................... 33
Beccarla tra storia e verità (1) .......................................................... 37
Beccarla tra storia e verità (2) .......................................................... 41
Filangeri tra verità e sofisma ............................................................ 44
Parte II - Le antinomie psico-sociologiche
La punta dell’iceberg........................................................................ 48
La struttura ipocrita .......................................................................... 48
Le Veltanschauungen occulte........................................................... 51
Le indignazioni equivoche ............................................................... 51
Guerra di nervi tra porci e lupi ......................................................... 52
L’etica cristiana e la metànoia.......................................................... 52
Cristo non fa da giudice.................................................................... 54
Il Clitofonte e il disimpegno educativo ............................................ 54
E’ necessario educare ....................................................................... 55
La tragica ironia manzoniana ........................................................... 55
i
Non erigere un falso altare davanti al vero Dio
Introduzione
Se la pena di morte fosse un caso di morale imposto all'uomo da realtà esterne al suo essere, sarebbe, forse, di facile soluzione. In mancanza di altri strumenti si potrebbe sempre ricorrere a quello
della maggioranza, anche se la maggioranza non è mai criterio di verità. Ma poiché il caso della
pena di morte emerge dal di dentro della realtà uomo, ed è perciò più un franamento immanente al
suo sistema che un problema posto alla sua intelligenza, occorre chinare la testa e indagare, con amore e sincerità, dentro al territorio uomo. Per facilitarci il compito proviamo, intanto a raccordare
il diario di bordo di due grandi esploratori della natura umana, di Freud e di Platone. Oseremmo dire: della psicologia e della filosofia, del passato e del futuro. A giudizio di Freud (a) sono due i fattori che ci rendono stranieri gli uni agli altri in questo mondo. Il primo fattore è la delusione provocata dalla guerra (b), il secondo è il nostro atteggiamento verso la morte. Perché i popoli e le nazioni, in guerra come in pace, si disprezzino, si odino, si detestino l'un l'altro è un vero mistero. Psicanaliticamente parlando siamo di fronte alla persistenza degli atteggiamenti psichici più primitivi,
più antichi e più rozzi. Per quanto attiene alla morte c'è in noi la tendenza a eliminarla dalla vita,
dalla nostra vita naturalmente. Per quanto attiene alla morte altrui, l'uomo civile evita di parlarne
quando l'altro, appunto, è presente. Ma laddove l'uomo civile tace parla l'uomo primitivo. Costui, da
un lato prendeva la morte sul serio, dall'altro lato la negava. La contraddizione era possibile perché
egli assumeva una posizione radicalmente diversa per la morte dell'estraneo e del nemico, dall'atteggiamento che aveva nel confronti della propria morte. La morte altrui non presentava difficoltà
perché era la distruzione dell'individuo odiato. Per Freud la cosidetta storia universale, che i nostri
figli imparano a scuola, non è altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli. “L'oscuro senso di
colpa che domina l'umanità fin dai tempi più antichi - egli dice - e che in varie religioni si è consolidato nell'idea di una colpa primordiale, di un peccato originale, è probabilmente la manifestazione
di un delitto di sangue (... ), un parricidio”. Atteso che per l'uomo primordiale la propria morte fosse irrapresentabile e irreale quanto lo è oggi per ognuno di noi, vi era un caso in cui le due opposte
concezioni della morte venivano in contatto e in conflitto: quello in cui l'uomo delle origini vedeva
morire uno dei suoi congiunti. Nel suo dolore doveva apprendere che anche noi possiamo morire
giacché ognuno di quel congiunti era parte del suo diletto lo. Ma d'altra parte questa stessa morte gli
stava bene perché ognuna di quelle persone amate era pure, per un certo verso, estranea. L'ambivalenza della legge emotiva - ancora forte in noi - ammetteva che quei cari morti erano stati anche
estranei e nemici e che, come tali, avevano suscitato in lui sentimenti ostili. Da questo conflitto emotivo è nata, per Freud, tutta la psicologia. Di fronte al cadavere della persona amata, l'uomo primitivo immaginò gli spiriti e in quanto si sentiva colpevole per il senso di soddisfazione che si mescolava al cordoglio, questi spiriti divennero demoni di cui si doveva aver paura. Di fronte al cadavere della persona amata comincia a destarsi il primo e più importante imperativo della coscienza
morale: “Non uccidere”. Il quale imperativo fu esteso via via agli estranei e al nemico. Una proibizione così imperiosa, infatti, può essere rivolta solo contro un impulso altrettanto forte. Abbiamo,
dunque, nel sangue la voglia di uccidere. Nei nostri moti inconsci sopprimiamo ogni giorno, ogni
ora, tutti coloro che ci sbarrano la via, chiunque ci abbia offeso e danneggiato. Freud, quasi a suggello delle sue riflessioni, cita qui il paradosso del “mandarino”. “Nel Père Goriot - egli dice - Balzac allude a un passo di un'opera di Rousseau in cui questi chiede al lettore quel che farebbe qualora
potesse, senza lasciar Parigi e senza venir scoperto, uccidere con un semplice atto di volontà un
vecchio mandarino di Pechino. Rousseau lascia capire di non dare due soldi per la vita di questo dignitario. Dopo di allora “tuer son mandarin” (uccidere il proprio mandarino) è divenuta un'espressione proverbiale per indicare questa segreta prontezza a uccidere che si ritrova anche negli uomini
dei nostri giorni” (e).
ii
Platone, da parte sua, aveva già esplorato il paradosso del mandarino nel secondo libro della Repubblica e aveva negato la sua fiducia all'uomo storico così com'è. Dal dato di fatto che commettere
ingiustizia è per natura un bene, subirla un male e che v'è più male a subirla che bene a commetterla, nasce l'accordo o patto sociale di non farsi a vicenda ingiustizia. Così le leggi hanno l'ingrato
compito di fissare ciò che è “legittimo”. Per cui la giustizia sta in mezzo fra il meglio (poter commettere ingiustizia senza pagare la pena) e il peggio (ricevere ingiustizia senza potersi vendicare).
Dunque, la signora giustizia non è amata come un bene ma è tenuta in onore perché manca la forza
di commettere ingiustizia. Questa catastrofica definizione della giustizia coinvolge la definizione
dell'uomo a livello inconscio. Immaginiamo di concedere a tutti e due - al giusto e all'ingiusto storici - di fare qualunque cosa vogliano, poi seguiamoli per vedere quale desiderio li guidi. Ebbene, ci
accadrà di cogliere il giusto nell'atto di dirigersi verso la stessa mèta dell'ingiusto, spinto dalla voglia di dominare gli altri: cosa che tutti, per natura, ricercano come un bene e da cui si astengono
solo perché la legge li,costringe a rispettare l'eguaglianza. Questa ipotesi ha la sua conferma in un
episodio leggendario che va sotto il nome di “anello di Gige”. A Gige, infatti, si offerse la possibilità di poter fare tutto ciò che voleva senza il timore di essere veduto o scoperto. Ecco come. Egli
era pastore alle dipendenze di Candaule re di Lidia (d). Un giorno un nubifragio e una scossa tellurica squarciarono la crosta terrestre nel luogo dove egli stava pascolando l'armento. Discese, pieno
di stupore, in quella voragine e di meraviglia in meraviglia arrivò a un cavallo di bronzo provvisto
di aperture; vi si affacciò e vide giacervi un cadavere di proporzioni sovrumane che teneva in mano
un anello d'oro. Gige prese quell'anello e tornò all'aperto. Attraverso una serie di constatazioni empiriche scoperse che l'anello aveva una facoltà prodigiosa: quella di renderlo invisibile agli altri
quando il suo castone era girato verso la sua persona, nella parte interna della mano. Gige brigò subito per essere uno dei messi da inviare al re per il resoconto annuale dei greggi e quando giunse da
lui gli sedusse la moglie e, con l'aiuto di lei, lo assali e l'uccise. Cosi conquistò il potere. Supponiamo ora - prosegue Platone - che ci siano due di tali anelli, e che l'uno se lo infili il giusto e l'altro
l'ingiusto. Ebbene, nessuno sarebbe tanto adamantino da restare giusto e da avere la forza di astenersi dal toccare la roba altrui, quando gli si offrisse l'opportunità di rubare, di entrare nelle case, di
unirsi con chi volesse, di ammazzare, di liberare dalle catene chi desiderasse e di fare ogni cosa come un dio tra gli uomini. Ambedue moverebbero alla stessa mèta! Questa è la prova decisiva che
nessuno è giusto di proposito e ciò perché nessuno considera un bene la giustizia. Privatamente ogni
uomo giudica assai più vantaggiosa l'ingiustizia che la giustizia. Supponiamo, ora, che uno disponga della facoltà di cui dispose Gige e non consenta mai a commettere una ingiustizia. Quanti venissero a saperlo lo giudicherebbero ben disgraziato e sciocco. Eppure nei loro conversari lo loderebbero, pronti però a ingannarsi l'un l'altro, tanta è la paura di soffrire una ingiustizia. Supponiamo,
infine, che i due anelli siano stati infilati da un vero giusto e da un vero ingiusto. Tenendoli ben separati nelle loro scelte, potremo dare un giudizio sulla loro vita. Criterio sovrano della nostra ricerca
sarà quello di considerarli ambedue perfetti nel loro sistema di vita. E anzitutto lasciamo che l'ingiusto attenda ai propri atti d'ingiustizia con la preoccupazione di non farsi scoprire. Il colmo dell'ingiustizia, infatti, consiste nel dare l'impressione di essere giusto senza esserlo. Dobbiamo permettere all'ingiusto di essere tale al più alto grado e di procurarsi nel contempo la più alta fama di
uomo giusto. Lasciamogli usare oratoria e violenza, appoggio di amici e di danaro, per esercitare
persuasione, per corrompere, per coprire. Di fronte mettiamo, ora, il giusto, uomo semplice e d'animo nobile, che non voglia sembrare ma essere onesto. Non deve sembrare giusto, del resto riceverà
onori e doni a motivo di ciò. Di tutto dobbiamo spogliarlo fuorché della giustizia e dobbiamo porlo
nella condizione opposta del primo, tanto che abbia la maggior fama d'ingiusto senza commettere
ingiustizia. Proceda incrollabile sino alla morte e dia pure l'impressione per tutta la vita di essere ingiusto anche se in realtà è giusto, affinché giunti i due al limite estremo della giustizia e dell'ingiustizia sì possa giudicare chi di loro è più felice. Non ci sono dubbi: se così è, il (giusto verrà flagellato, torturato, gettato in ceppi, avrà bruciati gli occhi e, infine, dopo aver sofferto ogni sorta di mali, sarà crocifisso (e).
iii
La tesi di Platone sembra essere questa: sul piano storico il giusto ha e avrà sempre la peggio. Per
sanare questo mostruoso dato di fatto occorre costruire, a colpi di buona educazione e di buone leggi una “repubblica” in cui il giusto possa trovarsi e sentirsi a casa sua. Ed è appunto questo il tentativo perseguito da Platone mediante il rigoroso controllo delle nascite e dell'educazione messo in
atto dai giudici e dai medici (f). Oppure occorre chiamare a raccolta i giusti, originati dalla mtànoia
nella Eccklesia. Ed è stato questo il tentativo di Cristo. Con il rigoroso e volontario controllo sui
movimenti della soggettività, per il tramite della “confessione pubblica, la Eccklesia potrà mostrare
al mondo in che cosa consista la salvezza portata nella storia da un Messaggio ultrastorico. Ma nella
misura in cui, la Eccklsìa concepita da Cristo, si trasforma in una clinica spirituale per pacificare le
coscienze che aspirano alla felicità ultraterrena senza attuare la giustizia fra loro, il Messaggio di
Cristo non potrà mai più sanare i rapporti socio-economici quaggiù sulla terra. L'uomo, infatti, sembra più proclive a volersi sentire accarezzare da una “religione” che scuotere nel profondo dalla rinascita spirituale predicata e richiesta da Cristo. L'uomo religioso, anzi, piuttosto che fare la giustizia quaggiù dice che la Fede consiste nel credere che l'avremo soltanto lassù. Egli ha torto ma chi
può correggere un atto di fede che non è Fede? Diciamolo con chiarezza: i buoni - se ve ne sono al
mondo - potranno cessare il lamento contro i cattivi - e ve ne sono sicuramente al mondo - soltanto
se faranno Eccklesìa fra di loro. Del resto la loro sorte terrena è segnata: faranno società religiosa
costellata di riti e di cerimonie, di gerarchie e di gruppi legiferanti e asserenti verità eterne, or patteggiando or facendo le vittime nei confronti delle potenze terrene, ma nulla muterà quaggiù nei
rapporti fra uomo e uomo e intatte resteranno le fabbriche dei cattivi, ed essi, i buoni, con stupore
reciproco, continueranno a scaricare la colpa delle ingiustizie terrene sui cattivi, di cui proporranno,
almeno in cuor loro, l'uccisione e lo sterminio, pensando di essere i soli esemplari umani degni di
morire di vecchiaia.
Note
(a) Cf. Considerazioni attuali sulla guerra e la morte 1915, p. 15 e ss., in Perché la guerra?, Boringhieri, Torino 1975.
(b) Freud si riferisce, in ispecie, alla prima guerra mondiale.
(c) Per l'esattezza riportiamo il passo del Père Goriot: Rastignac incontra il suo amico Bianchon nel
giardino del Lussemburgo. “E perché quest'aria grave?” gli domandò lo studente in medicina,
prendendolo sotto il braccio per passeggiare insieme dinanzi al palazzo. “Sono tormentato da
brutte idee”. “Di qual genere? Ma dalle idee si guarisce”. “E come?” “Soccombendovi!”. “Tu
ridi senza sapere di che si tratta. Hai letto “Rousseau?” “Si”. “Ti ricordi di quel punto in cui egli domanda al lettore ciò che farebbe nel caso in cui potesse arricchirsi uccidendo in Cina,
con la sola volontà, un vecchio mandarino, senza muoversi da Parigi?”. “Sì. Ebbene?”. “Ma,
io sono al trentatreesimo mandarino”. Freud cita Balzac fidandosi, acriticamente, dell'attribuzione del passo. Se consultiamo, infatti, il grande dizionario Larousse, alla voce “mandarin”
(nella espressione le bouton du mandarin o tuer le mandarin) troviamo che il paradosso fu attribuito, a torto, sia a Rousseau sia a Chateaubriand. Sotto il profilo psicanalitico è forse interessante sottolineare il fatto che Balzac, romanziere peraltro, ritenga l'episodio degno della
firma di Rousseau, e anche il fatto che Freud aggiunga questa postilla: “Rousseau lascia capire
di non dare due soldi per la vita di questo dignitario”.
(d) Cf. l'episodio, in altra versione, in Erodoto (Storie, L. I, c. II) e anche in Cicerone (I doveri, L.
III, 38) che, tra l'altro, si dimostra un poco risentito.
(e) Roussean allude a questo passo nella Professione di fede del Vicario (Emilio, L. IV) e dice che
Platone, descrivendo il giusto immagi-nario, descrive fedelmente Gesù Cristo. Ma Rousseau
allude altresì all'anello di Gige ne Les réveries du promeneur solitaire (sesta promenade). Ascoltiamolo e capiremo perché Balzac può avergli attribuito il paradosso del “mandarino”. “Se
iv
fossi rimasto libero, oscuro, isolato - ed ero fatto per restare tale - avrei fatto soltanto del bene,
perché non ho nel cuore il germe di alcuna passione nociva. Se fossi stato invisibile e onnipotente come Dio, sarei stato benefico e buono come lui. La forza e la libertà fanno gli uomini
eccellenti; la debolezza e la schiavitù hanno sempre fatto soltanto dei cattivi. Se avessi posseduto l'anello di Gige, esso mi avrebbe sottratto alla dipendenza degli uomini e li avrebbe messi
sotto la mia. Mi sono spesso chiesto, nel far i miei castelli in aria, quale uso avrei fatto di
quell'anello, poiché accanto al potere c’è purtroppo la tentazione d'abusarne”. Rousseau abbozza qui il panegirico della sua indole buona e altruista e il lettore potrà udirne tutte le sfumature leggendo il testo completo. Ma poi, tornando al punto dolente, si rimette in linea con la
diagnosi platonica. “Non c'è che un sol punto - egli continua - sul quale la facoltà di penetrare
da per tutto invisibile avrebbe potuto far nascere velleità, alle quali a stento avrei resistito; e
entrato una volta in questi traviamenti, nessuno può dire dove avrebbero finito per condurmi.
Conosce male la natura umana e la mia stessa indole chi sostenesse per lusingarmi che non sarei stato sedotto da questa facilità d'errore e quanto meno che la ragione mi avrebbe arrestato
su quella china fatale. Sicuro di me sotto ogni altro aspetto sento che sarei stato perduto solamente da quella attrazione. Colui, che la potenza mette al disopra dell'uomo, deve essere al disopra delle debolezze dell'umanità, senza di che quell'eccesso di forza non servirà che a metterlo, di fatto, al disotto degli altri e di quel che sarebbe stato egli stesso, qualora fosse restato
loro eguale. Tutto ben considerato credo che farei meglio a buttar via il mio anello magico
prima che m'abbia fatto commettere qualche sciocchezza”.
(f) Mentre la Repubblica di Platone resta, insieme, e l'atto di accusa alla Polis storica, che in nome
della santità delle sue leggi ha ucciso il più giusto degli uomini (Socrate), e il tentativo di crearne una ad essa alternativa; tutti i movimenti socialisti cercano un tipo di Stato in cui i lavoratori (o la classe operaia) abbia il potere (la fonte di tutte le tentazioni). Platone è ancora da
attuare e resta una utopia; ma laddove il socialismo è realtà si è esattamente costituita la Repubblica platonica, in cui, cioè, i politici (pilotati dal partito) comandano, gli operai e i contadini lavorano, i militari difendono.
L’autore
v
Parte prima
Il dibattito storico
Capitolo 1
Ohè, montoni, date una mano
al Pastore che cerca la smarrita.
L’ovile non è gratuito dove
nessuno nasce“agnello”
Approccio al tema
Il problema della “pena di morte” nasce quando nasce l'omicidio. E l'omicidio nasce nell'humus del disimpegno educativo. La società deve sempre discutere il problema della pena di morte - o
comunque della “delinquenza” - perché non vuole discutere problemi più delicati e più veri, come il
controllo dell'apparecchio psichico e lo sviluppo dei suoi contenuti nella interiorità del bambino, del
fanciullo, del giovane.
Freud può spalancare tutte le segrete dell'inconscio senza violare la intimità, perché, pur non avendo alcuna fiducia nell'uomo, lo libera sostanzialmente dalla responsabilità di attuare un suo dover essere. Cristo che, invece, mostra nel cuore dell'uomo - l'area della libertà creata - l'officina di
tutti i mali del mondo, è un rigido moralista perché accusa direttamente l'uomo e la sua libertà! Una
società in cui la legge protegge l'egoismo privato non deve meravigliarsi se è costretta a fare i conti
con le forme più ardite di delinquenza. Qualche pio credente - più pio che credente - vorrebbe che
Dio sterminasse i “cattivi”, come se fosse Dio a produrli. Dio, semmai, tenterà dì salvarli a dispetto
della società che li genera, li alleva, li celebra. Quando lo stomaco di una società è pieno di cammelli, il diritto e la religione sono costretti a colare il moscerino. I cammelli sono tutte le follie dell'inconscio freudiano accondiscese, il moscerino si identifica con il quesito farisaico: “Pena di morte
o no?”.
Il famoso padre Eligio - cui piacciono più Le Vacche che i cammelli - all'indirizzo dei rapimenti
ha dichiarato: “Il rimedio per impedire alla delinquenza di prosperare è semplice e drastico: la mia
proposta è la pena di morte. Ma non quella tradizionale, bensì fatta precedere da una tortura cinese
della durata di ventiquattr'ore”. E questo - crediamo - il tipico atteggiamento dell'anti-profeta totalmente assimilato a un sistema di cui vuole essere il solo privilegiato e indisturbato saccheggiatore.
Gesù, tuttavia, ama tenere un'altra strada. Egli, per esempio, è il solo che si interessa alla smarrita
mentre le novantanove non arrivano a percepire tutte le conseguenze di quel dramma singolo. Egli,
infatti, sa che mancando ad essa l'assistenza pedagogica si tramuterà, a furia di vivere nella solitudine del deserto, in un lupo rapace. E nei confronti di un lupo, quale altra logica resta da scandire all'infuori della battuta di caccia? (1).
Curioso il fatto che Cristo venga rimproverato dai suoi contemporanei di volersi applicare allo
sforzo pedagogico oltre le sanzioni della legge e della cultura. Chi accoglie e ascolta i peccatori e
mangia con loro si muove sicuramente nell'ambiguità; ma Gesù oltreché - anzi, più che - rivolgersi
ai delinquenti che usano il pugnale (pecore diventate lupi forse per colpa dei lupi vestiti da agnelli),
si rivolge a quel delinquenti travestiti da galantuomini che, dentro al sistema, sotto l'ombrello del
diritto, senza violare la lettera delle leggi scritte, galoppano nel sociale a guisa di satiri il cui cervello è tutto intonacato con i principi economici del “sistema di libertà naturale” di Adamo Smith,
1
mescolati al sofisma etico dei “vizi privati pubblici benefici” di Bernardo de Mandeville. Costoro,
ahimè, vanno seminando delinquenza potenziale nel cuore delle giovani e indifese generazioni; e
proprio per loro Gesù ipotizza - e l'ipotesi pur essendo cocentemente pedagogica non è per nulla
giuridica - la pena di morte. “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono - Egli dice ai discepoli che stanno irrigidendosi sul piano ideologico per stabilire integralisticamente il versante dei
buoni e dei cattivi è meglio per lui che gli si metta una macina girata da asino al collo e venga scaraventato in mare” (Me 9, 42). Gesù viene a dire che la società, dovendo istituire la pena di morte
per necessità sociologica, fallisce il bersaglio. Esprimendoci per paradosso, potremmo affermare
che il delinquente istituisce la pena di morte o il ricatto mortale per la gente bene perché la gente
bene non ha saputo (o voluto) nullificarne la nascita, controllando l'espansione del proprio egoismo.
Ma procediamo con ordine perché lungo e articolato è il discorso.
La lezione biblica
Il racconto biblico delle origini, più che contenere dei fatti storici singolarmente individuati, contiene delle analisi strutturali che riguardano l'uomo in assoluto, indipendentemente dal ritmo delle
civiltà e delle culture. Ebbene il primo figlio di Eva è Caino. Partorito che lo ebbe, disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore!”. Nell'atto in cui attribuisce l'evento straordinario a Dio, sembra quasi sottrarsi alla dipendenza di Adamo. Eva sembra più “religiosa” di Adamo perché sente come il
segreto bisogno di allearsi con Qualcuno più potente di Adamo che la sottragga alla legge
“naturale” del più forte. Dio è, ora, la salvezza nella miseria perché non fu un ideale amato nell'Eden e la libertà della creatura, pur essendo orientata alla verità, è già condizionata da uno sconvolgimento iniziale di cui l'Adam (maschio e femmina) non ha più viva memoria.
Quando la salute è perduta non è più né “naturale” né gratuita e occorre gestirla con un qualche
intervento. Caino era la salute perduta, bisognava curarlo e assisterlo in quanto frutto ambiguo. Un
uomo è un grande acquisto per coltivare e dominare la terra ma è solo una speranza. Poi Eva - forse
in una fase di maggiore consapevolezza “religiosa” - partorì anche Abele, vale a dire una seconda
speranza. Che Caino fosse “lavoratore del suolo” e Abele “pastore di greggi”, denota una divisione
del lavoro liberamente assunta o imposta dall'educazione e dall'incipiente modello sociale? “Dopo
un certo tempo - prosegue il Genesi - Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore”. Come
mai, dopo un certo tempo? Forse a motivo di un intervento educativo della famiglia? Da tutto il
contesto appare che Caino non è religioso per convinzione ma solo per obbedienza. Nessuno può
penetrare nel mistero della sua interiorità, la sua malattia è profonda, ma per guarirla si rischia di
violare i cosiddetti “diritti civili”, le “libertà fondamentali” e, ahinoi, il pluralismo. Doveva Abele
cessare, lui pure, l'offerta rituale a Dio? Doveva cessare Eva di esortare Caino ad essere pio? E se il
ragazzo si fosse sentito imporre - mediante una costrizione psicologica - il ruolo di agricoltore?
Nessuno al mondo può guarire una carie sociale di questa portata. In tutta la vicenda il meno pluralista è Dio perché gradì Abele e la sua offerta mentre non gradi né Caino né la sua offerta. Rimandi
al contesto socio-pedagogico non ne esistono. Caino è una matassa che s'è arruffata con le proprie
mani dopo aver perduto progressivamente i contatti con l'altro. Ma l'occhio di Dio segue l'involuzione del profondo di Caino in Caino stesso e dopo aver discriminato fra ciò che è gradito e non
gradito, entra quasi d'impeto nel santuario del suo io e tenta il salvataggio laddove né il fratello né i
genitori riescono più a vedere per inesperienza o per incapacità: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? - domanda Dio e prosegue - Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se
non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominarlo”.
L'occhio di Dio che scopre la sua irritazione lo irrita così come irriterà Nietzsche e Sartre. Una coscienza dissestata per propria colpa trasforma la luce in tenebra. Caino invita in campagna il fratello
e alza la mano galeotta. La lezione sembra chiara: il malvagio non solo rifiuta i giudici ma anche i
pedagoghi e perfino la discriminazione fra bene e male. Caino, eliminando Abele, pensava forse di
annullare il dislivello concettuale esistente fra omicidio e rispetto della vita, per restare arbitro in2
sindacabile del campo etico. Ai due genitori sfugge, forse, la totalità del dramma del figlio perché
non avevano sufficientemente riflettuto sul loro stesso dramma. Adamo era stato chiamato
da Dio perché già alienato da se stesso (“Adamo dove sei?”), Caino è alienato dal fratello (“Dov'è
Abele, tuo fratello?”). Adamo si nasconde al dialogo con Dio, Caino dice di non sapere più dove è
Abele, adducendo il sofisma della “custodia”.
Da un lato la Bibbia vuol dire che Caino - il primo frutto dell'Adam post-edenico - è bacato e dall'altro lato vuol sottolineare che la colpevolezza è sempre dell'io, indipendentemente dal contesto
sociale. Il male affonda, in ultima istanza, le radici nell'io anche se è vero che l'io è pesantemente
esposto agli influssi negativi degli altri io. “Il male cominciando crea un piccolo modello” dice la
tacchina di Chantecler di Rostand. E Gesù quasi con formula scientifica: “E’ inevitabile che avvengano scandali ma guai a colui per cui avvengono. E’ meglio per lui che gli sia messa al collo una
pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli”
(Lc17,1). Nell'ordine del puro immanentismo naturalistico è inevitabile - è cioè di necessità sociologica - che avvengano scandali; ma sul piano della responsabilità l'accusato è sempre l'individuo
perché, nella visione di Gesù, solo l’individuo-persona è capace di metànoia (2).
L'impresa “razionalistica” di Caino proclama all'universo che nell'uomo naturale esiste una componente “irrazionale” protesa verso una illimitata espansione della propria libertà - è il momento
dionisiaco dell'etica niciana - anche a costo della distruzione e del caos. Mentre il sacrificio del
santo Abele si presenta come il momento “razionale” dell'uomo che ha saputo finalizzare le realtà
terrestri a Dio perché in Lui ha trovato il suo equilibrio e la sua maturità.
Caino tenta, dunque, di annullare Abele perché non può sopportare che vi sia distinzione alcuna
fra storia e verità (3). Dio lo maledice - emette un giudizio totalmente negativo sul suo gesto - ma
non lo uccide. Caino riconosce la propria colpa e si ritiene degno della pena di morte: pensa cioè
che chi lo incontrerà lo ucciderà. A questo punto Dio interviene ancora per proteggerlo contro la
vendetta dei facili vendicatori, pronti a iniziare una catena di morte e non di salvezza. Ognuno, tuttavia, avverte che se Dio è salvatore perché vieta di colpire Caino, sarebbe diabolico Caino se ne
profittasse per continuare a uccidere. Ed è anche bene precisare che è contro la pena di morte tanto
il cristiano cui preme la salvezza del peccatore, quanto colui che vuole praticarla senza limite alcuno.
E’noto l’episodio dell’usuraio milanese che scongiurò S. Bernardino da Siena di tuonare contro
l’usura nella speranza di restare lui solo a praticarla. Non a caso la Bibbia sottolinea il fatto che i
cainiti benché stigmatizzati da Dio e da Lui formalmente lontani - conseguano grandi risultati nella
cultura “profana”. Caino, o almeno Enoc suo figlio, il costruttore della prima città. Dunque anche
un omicida può fare qualcosa di buono, non importa se accompagnato dalla decadenza morale, come nel caso di Lamec che introduce la poligamia (4).
Note
(1) G. Schwartzemberg su Le Monde del 23-10-75 ha scritto. “Una società che accusa i suoi giovani
di tutti i mali, li tratta come nemici interiori, è una società morta”. K. Lorenz afferma che è erronea dottrina pseudo-democratica credere che “la struttura di ogni comportamento umano sia esso di origine educativa o genetica - possa essere condizionata, e quindi possa venire illimitatamente mutata e corretta”. Chi lo crede “incorre in grave colpa verso la comunità umana”
(cf. Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi 1974, p. 78). Lorenz vuol forse dire
elle esiste una soglia di abuso di se stessi, oltrepassata la quale tutto è perduto alla maniera di
Giuda. Ciò spiega l'affanno pedagogico del Buon Pastore ad evitare che un semplice smarrimento faccia di un uomo un non-uomo.
(2) Il Talmud in un qualche luogo dice che Dio ha creato la cattiva inclinazione e poi la legge come
rimedio. Alcuni testi arrivano perfino ad affermare che la conoscenza della Legge è operante
3
anche nell'al di là; per cui il fuoco infernale non ha potere su uno scriba. E questa una maniera
assai elegante per scaricare il barile fuori dell'uomo e per mettere al sicuro, con amminicoli
rituali, una classe di persone! Per quanto attiene al potere di liberarsi e di redimersi è invece
assai felice la parabola haggadica dei giusti e dei malvagi, che nel giorno del giudizio vedranno da vicino la fatidica cattiva inclinazione. Ai primi essa si mostrerà alta e massiccia come una montagna e diranno piangendo: “Come abbiamo fatto a vincerla?”. Ai secondi apparirà
sottile e fragile come un capello e piangendo ripeteranno a se stessi: “Come abbiamo fatto a
non vincerla?”.
(3) C’è chi ha visto, nel rapporto Caino-Abele una ragione dialettica utile a indagare i comportamenti individuali-sociali. Il loro etimo già declama una struttura in cui troviamo il possidente
e il nullatenente. Caino possiede un capitale, Abele è semplice proprietario di reddito. Abele
possiede tuttavia ciò che Caino non ha: l'arte della preghiera e della profezia - l'arte del poietès
-, l'arte della coerenza fra pensiero e azione. E ciò lo rende gradito a colui che è il Tutto, a
Dio. Caino sento sfuggire qualcosa alla sua padronanza, la coscienza di Abele, e non potendo
sottometterla tenta di sopprimerla. “La chiesa cattolica - ha scritto Simona Weil - essendo
quaggiù la messaggera del Tutto, non ha bisogno di essere totalitaria”.
(4) S.Agostino, nella sua formulazione politica del peccato originale, afferma che “Caino appartiene
alla città degli uomini, Abele, alla città di Dio; il primo fondò una città, il secondo, come nomade, non la fondò” (De civ., XV, I). Caino è il simbolo della libido, Abele della caritas. La
caritas è sempre soccombente finché non si fa eccklesìa non solo nella “preghiera” ma anche
nel rapporto “lavoro-capitale”. Caino potrà essere vendicato solo quando gli Abeli gli avranno
creato attorno una fascia di luce e si saranno sottratti al fascino di un attivismo in cui all’attività contemplativa preparatoria della prassi s’è sostituita una economia che fa morir di
fame l’homo economicus.
4
Capitolo 2
Natura e Razionalità
Se il pensiero di Dio si configura, nel Genesi, come ostile alla pena di morte giuridicamente
intesa, il fare gli uomini mortali - anche sorvolando sul fatto che l’uomo ha scelto volontariamente
la morte fisica - non è la stessa cosa che uccidere per punire l’omicidio. Ci sembra questo
l’equivoco in cui è caduto Giuseppe Prezzolini (5). Egli difende la pena di morte cominciando col
dire che Dio “ci ha fatti tutti mortali”, a significare che “dopo tutto, la vita non era per lui cosa sacra”. A nostro giudizio la vita, per Dio, era tanto sacra che aveva messo in giro - con una raccomandazione ben precisa - i segnali di pericolo per un Adam molto intelligente ma privo di esperienza.
Prezzolini presuppone, erroneamente, che l’espressione “fare tutti mortali” sia sinonimo del verbo
uccidere.
Se badiamo alla dinamica del messaggio biblico la morte si presenta come uno status - potremmo
dire: come una maniera di chiudere la vita - scaturito da un certo uso che l’uomo ha voluto fare
della sua libertà. La sacertà della vita risulta appunto dal fatto che la sua amministrazione totale ci
sfugge, forse per rammentarci che dobbiamo solo promuoverla, curarla, difenderla. Il fatidico morte
morieris non è un comando ma una constatazione e rappresenta una semplice differenza specifica.
Fra i tanti modi possibili di “morire” (di chiudere la vita), l’uomo ha scelto di morire mediante la
“morte”.
Si potrebbe, infine, osservare che la morte sarebbe tragica soltanto nel pensiero se non fosse generalmente accompagnata da malattie a volte incolpevoli e a volte frutto di vizio nel senso più generico della parola (6). Nel discorso di Prezzolini Dio è preso ora come punto di riferimento insindacabile e ora come intelligenza un po’ troppo gelosa dei suoi quia e dei suoi cur. Prezzolini, per
es., non capisce perché la morte tocchi gli individui senza alcun riguardo alla loro posizione e al loro valore. Come se posizioni e valori, per Dio, fossero quelli elencati da Prezzolini; e come se questi
individui potessero accampare diritti speciali sulla durata della vita.
Il cristiano maturo non è nemmeno sfiorato dalla tentazione, per es., di pregare per non morire e
sa che la sua Fede - la cui specificità consiste nel rinnovare i rapporti umani - non lo esenta in nulla
dalla condizione umana. Egli sa molto bene che l’uomo è condannato a morte perché si è condannato a morte; e sa molto bene altresì che Cristo lo risuscita per la vita eterna. Il cristiano maturo, inoltre, non dimentica mai che quel medesimo Cristo che gli dice di tenersi pronto a stretto giro di
istante, lo sollecita a trafficare i talenti e a diventare perfetto come il Padre (7).
Se poi si passa alla natura, Prezzolini vede in essa una insanabile antinomia fra creazione e distruzione. Egli scandisce una canzone troppo volgare, ahimè, per meritare la qualifica di umoristica.
Dice infatti: “Ogni razza di animali uccide e divora quelle meno forti. E le meno forti si servono
come di cibo delle più deboli”. E ciò dimostra - sempre nell’ottica di Prezzolini - che “la storia della
natura è una epopea di morti”. Ma il vegetariano e/o carnivoro Prezzolini si è mai chiesto seriamente perché è arrivato alla sua bella e invidiabile età? Lasciamo sospeso il concorso di un Dio colpevole di troppe cose “brutte”, ma certo non possiamo ignorare che ciò è accaduto anche perché egli ha mangiato e distrutto, per i suoi bisogni, animali e vegetali più piccoli o più deboli di lui!
Se l’homo sapiens riconosce che il creato è principalmente finalizzato al suo sostentamento ed è,
globalmente parlando, a suo servizio, gli conviene procedere con molta cautela (caute! era persino il
motto di un filosofo incauto come Spinoza) nell’emettere giudizi morali sulla struttura della realtà.
Se poi l’homo sapiens ritiene di dover trovare in se stesso o nell’umanità la radice ultima del reale,
allora, nell’ipotesi che il mondo fisico gli sembri mal strutturato, insegni lui la sua morale ai pesci
grandi - e/o faccia nascere tutti i pesci uguali! - oppure fornisca una spiegazione dei fatti che appaghi sino in fondo la specie più delicata dei teneri di cuore (8).
Non è la prima volta che il pensiero umano interviene per dare o per trovare una spiegazione ai
5
fatti. Averroè, per es., dice che Dio crea il bene per il bene e il male per il bene che vi è congiunto.
E spiega poi l’esistenza del male morale nel mondo - rappresentato in concreto dai “malvagi” - in
base alla nozione aristotelica che la natura di ogni specie esige che la maggioranza degli individui
segua la norma generale e una minoranza non la segua. Per cui, la presenza di un numero esiguo di
uomini malvagi è necessaria affinché la maggioranza degli uomini buoni possa esistere. Come si
vede, la razionalità umana, applicata alla “irrazionalità” dei fatti, in questo caso, costruisce una lettura del reale che giustifica anche l’assassinio di Cristina Mazzotti.
Dopo aver guardato in bocca alla natura, Prezzolino guarda in bocca ai governi. Ma occorre subito precisare che tra la bocca della natura e la bocca dei governi esiste una sostanziale differenza;
perché mentre la prima non è opera dell’ingegno umano, i secondi, ahinoi, escono dalle officine
della razionalità umana. Se nei confronti della natura Prezzolini ha tentato l’ironia teologica, nei
confronti dei governi utilizza la satira filosofica. “Parecchi di essi — egli incalza — hanno abolito,
almeno per alcuni delitti, la pena di morte. Ma non c’è un sol governo il quale non abbia un esercito, il quale, naturalmente non viene istruito nell’arte di dare la vita e di mantenerla, ma in quella di
sopprimerla nei nemici”.
Prezzolini viene a dire che i governi hanno abolito una piccola ghigliottina in casa propria, ma ne
tengono lubrificata una potenzialmente assai più grande e temibile per la sorte del genere umano. La
i azionalità della diagnosi è totale. Gesù avrebbe detto: “Ipocriti, colate il moscerino e divorate il
cammello”. Senonché resta sospesa la conclusione impeccabilmente logica del discorso. Prezzolini,
infatti, sembra voglia coerenti i governi nel primo versante perché vuole il ripristino della pena di
morte e/o perché, forse, non osa toccare il binomio governoesercito, coessenziale al concetto di
Stato nazionale. Ebbene, proprio su questo nodo emerge il filum dello storicismo hegeliano di cui
Prezzolini ci sembra vittima illustre e inconsapevole.
Note
(5) Ci riferiamo all’accorata Lettera agli amici contrari alla pena di morte pubblicata sul Resto del
Carlino del 16-9-1975 e all’articolo, apparso sullo stesso giornale del 4-9-1975, nel quale
Prezzolini - fremente di orrore per la morte inflitta a Cristina Mazzotti - proponeva il ripristino
della pena di morte.
(6) Due limiti che il cristiano maturo può e deve combattere sia vivendo razionalmente (“ Il corpo
vale più del cibo”) sia coltivando, con impegno religioso, la ricerca scientifica. Nessuno, infatti, più del cristiano deve sentirsi mobilitato contro il peccato e contro le conseguenze del
peccato.
(7) Simona Weil - questa non-cristiana cristiana che va cercando il “patto originario fra lo spirito e
il mondo della civiltà,” e che va sospingendo i non-credenti alle fonti della verità cristiana - ha
scritto: “Nessun avvenimento è un dono di Dio, eccetto la grazia (.. .). Essere innocente vuol
dire sopportare il peso dell’intero universo. Vuol dire gettare il contrappeso, dunque la purezza non abolisce la sofferenza, anzi la scava infinitamente ma le dà un significato eterno (...).La
grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio sovrannaturale alla sofferenza bensì un impiego sovrannaturale della sofferenza” (cfr. L’ombra e la
grazia).
(8) Beniamino Franklin, dopo aver assistito a una abbondante pesca di merluzzi, concluse così il
dramma teologico dei pesci grandi che mangiano i pesci piccoli: “lo avevo sino a quel momento perseverato nella mia risoluzione di non mangiar nulla di ciò che avesse avuto vita; e,
conformemente alle massime del mio maestro Tryon, riguardai quella pesca come una specie
di assassinio (...) ma quando quei merluzzi furono portati dalla padella in tavola, mandavano
un odore che faceva gola. Esitai qualche poco tra i miei principi e l’appetito. Sovvenendomi,
però, che quando quei pesci erano stati sparati, nel loro stomaco s’eran trovati parecchi pe6
sciolini, dissi tra me: “Oh, se voi vi mangiate così l’un l’altro, io non vedo il perché noi non vi
mangeremo”. Per cui, messo da parte ogni scrupolo, me ne feci una scorpacciata, e continuai a
mangiare come gli altri, solo ritornando di tempo in tempo, così per vaghezza, alla dieta vegetale”. Franklin ha tuttavia il buon senso di aggiungere questa osservazione al suo racconto:
“Quanto riesce comodo il saper mostrarsi un animale razionale, che conosce o sa inventare un
pretesto plausibile per tutto ciò che non ha voglia di fare” (cf. Autobiografia). Il romanziere e
apologeta Roberto Ugo J3enson, invece, ha lumeggiato con rara efficacia questo tema e sotto
il profilo teologico. “La natura - egli dice - esiste nella sua totalità per il principio della reciproca sofferenza; rifiutare il Cristianesimo perché si giudica ingiusta la sua dottrina sul dolore
e cercare pace e tranquillità nel canto degli uccelli e nel germogliare dei fiori è, quasi letteralmente, come cadere dalla padella nelle brace. Perché la padella, si può dire, si sforza in certo
modo di usare del fuoco intelligentemente, mentre il fuoco, in tal caso, solo distrugge. Il Cristianesimo, a ogni modo, si sforza di affrontare i fatti e interpretarli, la natura presenta gli stessi fatti senza interpretazioni. Il laniere crocifigge la sua preda ancor viva; i fiori germogliano
sulla corruzione; il pettirosso uccide i suoi genitori; ogni vita incomincia con i dolori del parto
e continua soltanto sulla morte di elementi dell’essere che vive. L’uomo si nutre di animali; le
bestie di erba, e le erbe di minerali. Siano o meno di nostro piacimento, questi sono fatti. E il
Cristianesimo ci incoraggia a guardarli ben di fronte, e a dire che i minerali perdono il loro essere per mantenere in vita le piante, le piante per gli animali, gli animali per l’uomo. Il Cristianesimo va oltre e compie il ciclo dandoci ragione di credere che l’uomo, soffrendo, si eleva, e ascende fino a “partecipare della divina natura” dalla quale tutto procede. Se allora questi
fatti sono contrari alle nostre idee di giustizia, noi dovremmo prima correggere tali nostre idee
- che sarebbero niente meno che contrarie alla vita - della religione e della natura” (cf. Cristo
nella chiesa, Morcelliana, 1936, p. 133 e s.).
7
Capitolo 3
Storicismo e profezia
E che cosa dicevano i seguaci dello storicismo hegeliano di un secolo fa? (9). “E oramai un
secolo dacché la proposta di Beccaria sta dinanzi agli occhi del mondo, promossa da associazioni e
da scritti in tutta l’Europa e nondimeno le nazioni che rappresentano lo spirito vivente della storia
l’hanno respinta. Ciò non decide è vero, ma ciò che decide è la storia da un lato, la ragione
dall’altro.
Togliendo la pena di morte il passato non può spiegarsi. Socrate che non beve la cicuta non è più
un eroe dell’umanità. Cristo senza la croce non è il redentore del genere umano. La Rivoluzione
francese non avrebbe rigenerato il mondo”. Come se Socrate e Cristo fossero rispettivamente eroe
l’uno e salvatore l’altro a causa della pena di morte. Come se la ghigliottina, ahimé, non avesse posto fine allo sviluppo totale della Rivoluzione francese.
Se il progresso passa attraverso la pena di morte anche l’uccisione di Abele può trovare dei consensi. Per lo storicismo hegeliano da Dio viene la vita e anche la morte. Se tutto concorre al compimento dei fini dell’universo ogni forma di morte è egualmente legittima, naturale e necessaria. La
natura - che spande con larga mano la morte come la vita - non guarda ai mezzi e così lo stato ha il
dovere di mandare a morte i figli in guerra. E dunque la morte in guerra non è violenta perché morir
bisogna. La stessa guerra, anzi, è un diritto-dovere inerente alla costituzione intima della vita delle
nazioni, le quali non devono poter costituirsi a vivere se non assaggiando, di tempo in tempo, le
carni e le ossa dell’una e dell’altra. Solo così si attua il perpetuo divenire. Le guerre stanno alla storia dell’uomo come il vento e le burrasche al mare: purificano e rinnovano. Il Dio degli eserciti diventa un momento razionale nell’economia dell’universo.
Per lo stesso motivo, forse, la pena di morte non è né barbara né sbagliata ma attinge la vera felicità sociale che è quella, appunto, di tentare la “società dei buoni” (10).
Giuseppe Prezzolini, per dimostrare che non è riuscito a scoprire perché la vita è sacra, ha chiamato in causa Dio, la natura, i governi e, infine, chiama in causa la Chiesa. Essa dice che la vita è
sacra, mentre “la sua storia - sottolinea Prezzolini - è piena di battaglie combattute contro coloro
che non erano cristiani o che credevano in Cristo in un altro modo; e, come tutti sanno, ha fatto bruciare Giordano Bruno, e altre migliaia di eretici”. Non si avvede Prezzolini che il modo di ragionare
dei teologi e dei moralisti (di quella chiesa) era tutto prezzoliniano?
Ma stringiamo il discorso e domandiamo: Prezzolini approva o disapprova quella chiesa? Se
l’approva dica che è per la pena di morte perché anche la Chiesa (almeno a partire da una certa epoca) fu per la pena di morte; se la disapprova non ha che due scelte: o disapprova la pena di morte o
invoca altri argomenti per sostenerla. Ci sorprende il fatto che Prezzohni adduca qui a prova della
sua tesi una deviazione, mentre negli altri tre casi, nei quali erano in causa Dio-natura-governi, aveva utilizzato il sofisma o almeno il paralogismo.
E circa la deviazione, ci permetta Prezzolini una spiegazione che risulterà autenticamente apologetica anche se non è formalmente apologetica. La Eccklesìa di Gesù si è lentamente trasformata in
Chiesa (11) e in Societas christiana politicamente articolata; ma una societas non può non preventivare, in un qualche punto del suo sistema, la pena di morte perché ogni organismo non fondato sulla
libera unione dei cuori deve sopprimere qualcuno per mantenersi tale (12).
La stessa disavventura era toccata a Mosè, il quale, appunto, era stato costretto a introdurre la pena di morte nel “popolo di Dio” (sic!). Perché? Forse per evitare che la vita sociale cadesse tutta
sotto la logica della violenza privata, o, forse, perché qualcuno cominciò a violare una legislazione
“divina” assunta come “costituzione storica”, in forma di un patto sociale proclamato “scelta di coscienza”, ma vissuto costrittivamente (13).
In fondo, Caino non aveva trasgredito una legge scritta; ma gli omicidi, di derivazione noncainita, sì. Quando l’interiorità si ottunde occorre passare alla legge scritta. E’ difficile uscire dalla
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logica della pena di morte quando il patto sociale si è congelato in un codice, come è difficile uscire
dalla logica del dente per dente quando l’unione non è libera; ma, in certo modo, formata e tenuta
salda da eventi esterni come la persecuzione di e l’opposizione a Faraone o dal senso “razzista”,
della propria identità messianica.
Tutto questo può spiegarci, almeno in parte, perché Cristo ha tentato una eccklesia: una unità di
cuori, indipendente da motivazioni razziali, politiche e religiose. Una unità di cuori, cioè, sovranamente libera perché fondata sulla sola metànoia e non sulla “fuga dall’Egitto” o sulla conquista di
una “terra promessa”.
I primi cristiani non hanno mai pensato di uscire nel deserto per sottrarsi alla persecuzione
dell’Impero romano, perché Gesù ha introdotto nel mondo il concetto di martirio, il quale tende a
testimoniare la verità con la morte non con le armi. La verità infatti è una presenza non una potenza,
una novità non un dominio, una salvezza comune non una fonte di nuovi dualismi, il brevetto della
fratellanza non uno strumento di affermazione storica.
La legislazione mosaica denuncia già uno stato di necessità dovuto allo scoppio di un umanesimo
istintuale non sublimato da una unitas che era tutto - dall’orgoglio di gruppo al dominio messianico
- fuorché metànoia (14). E tuttavia in quella legislazione fortemente etnocentrica c’è una ricerca di
totalità che stupisce e affascina. Sono colpite, infatti, le azioni che offendono Dio come l’idolatria,
la bestemmia e le azioni che oscurano la santità del popolo eletto, come la bestialità, la sodomia,
l’incesto, l’adulterio, la mancata verginità della neo-sposa (15).
Queste deviazioni accusano la violazione di un patto e come Dio ha “fatto morire” (16) i progenitori così Mosè - di Dio facente funzione - “ fa morire” (cioè uccide) coloro che offendono Dio in
sé e nella santità del suo popolo.
In tutto questo magma etico-religioso esiste tuttavia una istanza che Cristo espliciterà come messaggio di salvezza: se si lascia passare anche una minima sporcizia personale - in ciò risiede il sigmficato del battesimo -, il letame sociale aumenterà fino alle stelle né ci sarà più spazio sopportabile
per l’altro sulla superficie della terra (17).
Allora il sogno dei “ buoni” è lo sterminio dei “cattivi”; ma ognuno è persuaso di essere “buono” e
così iniziano le deleghe che finiscono nei conflitti arinati (luoghi in cui si può praticare l’omicidio
senza sentirsi “cattivi”).
La legislazione sul sesso, per es., è assai più permissiva presso i popoli non circoncisi che presso
gli Ebrei. Essa tende a colpire più il movimento delle mani che il movimento dei genitali perché il
furto, la rapina, la stoccata compromettono la sicurezza e il godimento delle classi dominanti, mentre l’uso libero del sesso soddisfa tutti i ceti e in certo senso mantiene lo statu quo, a guisa di offa
ristoratrice.
I profeti di Israele portano quasi sempre l’attenzione e il dito accusatore nel santuario della coscienza, mentre i saggi degli altri popoli tengono d’occhio solo gli eccessi dell’uomo animale. Il
momento sconcertante della legislazione mosaica è il coinvolgimento di Dio in un codice non liberamente assunto dalle coscienze e tuttavia consequenziale per una societas tenuta in piedi da un
forte sentimento razzista cui preme ad ogni costo la purezza formale. Se la pena di morte è una necessità sociologica, introdotta per salvare il respiro a un tutto (vita sociale) tenuto in piedi da legami
estrinseci e mitici, ci sembra illecito giustificarla con la “ volontà di Dio “.
Note
(9) In Italia la pena di morte - si dice - fu abolita nel 1865. Ma tutto si svolse, anche in questo caso,
more italiota. Per sapere in quale clima fu aperto il dibattito prendiamo a guida La Civiltà
Cattolica. Nel 1863 (voi. V, p. 364) troviamo questo primo allarme: “Il Pisanelli (…) fa buccinare dai suoi trombettieri uno schema di legge per l’abolizione della pena di morte; intorno
al quale, chi volesse, può divertirsi a leggere nei giornali, come opera sovraeccellente di
9
sciocchezze, un lepido indirizzo di certe femmine milanesi che chiedono a gran voci
l’attuazione del disegno tratto fuori dal Pisanelli”. Sempre nel 1863 la C.C. (vol. VI, p. 215)
polemizza con i giovani mazziniani del Dovere i quali chiedono l’abolizione della pena di
morte. “Non sono essi forse quelli che testé supplicarono al Governo sardo, per aver licenza di
andar ad uccidere i briganti nel Regno di Napoli? Diteci, cari giovanetti. Uccidere i briganti
che è egli altro se non che un applicare la pena di morte? (…). Se intendiamo bene, voi volete
abolire la pena di morte in favore dei soli assassini, di quelli che sanno menare un colpo di
stiletto, con sangue freddo, in segreto e con precisione, all’uso di tanti vostri fratelli. Ma
quando poi si tratta di coloro che sanno menar le mani contro di voi, oh allora voi non traviati
nell’ipocrisia, voi schietti mazziniani, voi giovanetti intemerati (…) non solo non volete abolire la pena di morte, ma supplicate per ottenere la grazia di fare il boia colle vostre stesse mani”. Poi eccoci al fatidico 1865 (C.C., vol. Il, p. 112). “Una delle cose che ha sempre dato grave molestia alla Frammassoneria, così filantropica per essenza, è la pena di morte che la umana giustizia, fino ab immemorabili, ha considerata necessaria alla conservazione della pubblica tranquillità sociale e civile. (Essa) essendo vincitrice e dominante (…) si è voluto levare
anche questo bruscolo dagli occhi. Dopo le molte, la questione fu intavolata nel Parlamento
(…) il di 13 di Marzo (…). Erano presenti 244 deputati, dei quali si astennero tre. Dei 141
votanti, 150 furono per l’abolizione e 91 contro: ond’è che, con una maggioranza di 30 voti, si
promulgò: “Abolita nel Regno d’Italia la pena di morte in tutti i crimini puniti colla medesima
pena nel codice generale comune”. Dal privilegio degli assassini furono eccettuati i soldati di
terra e di mare, e i così detti briganti del Regno di Napoli. intorno alla quale eccezione l’Union
di Parigi del 15 marzo fa questa savia avvertenza: “O cotali briganti non sono che ladroni e
banditi comuni, e in tal caso hanno diritto al medesimo privilegio che i loro compagni delle
altre province. O sono gente sollevata, ribelle (se si vuole) ed armata a difesa di una nazionalità oppressa, ma non soggiogata; ed in tal caso la Camera si mostra più inesorabile contro
chi commette un delitto per esaltazione di spirito, che contro chi lo compie per malanimo e
cuore perverso”. Dopo la Camera arrivò il Senato (C.C., voi. Il, p. 493). La Commissione propose che la pena di morte si mantenesse in nove casi (l’ottavo diceva: “Grassazione con omicidio”; il nono: “Rottura o guasti sulle ferrovie con sviamenti di convogli, onde consegua la
morte di qualche persona”). Il dibattito iniziò il 20 aprile e il 22 solo sette senatori furono per
l’abolizione della pena di morte. Ai nove casi fu aggiunto, anzi, il decimo. E cioè pena capitale pel giudice corrotto che avesse recato ingiustamente sentenza di morte contro un imputato. Per cui il 27 aprile, posta ai voti l’estensione del Codice penale “modificato in senso di giusti e nuovi rigori..”, la legge fu approvata da 71 voti contro soli 16 contrari, essendo in tutto 87
i votanti. La C.C. si domanda con soddisfazione: “O l’unificazione legislativa resterà sospesa,
ovvero una delle due Camere dovrà disdire il proprio voto”. Poi gli avvenimenti politici, in
barba a tutti i dibattiti, produssero molte altre vittime ma la guerra è guerra e nessuno ne contesta la legittimità, specie quando è fatta per una causa “giusta”.
(10) Se la società dei buoni non fu inventata - come constata Prezzolini - allora nessuno è innocente
in una società come la nostra, neanche Cristina Mazzotti.
(11) La Eccklesìa si trasforma in Chiesa quando la sua componente gerarchica si coagula e si struttura in classe o, peggio, in casta. E la sorte di ogni guerriglia che si trasforma in esercito vincitore.
(12) A consolazione di G. Prezzolini dovremmo, adesso, riferire il contenuto di un articolo della
Civiltà Cattolica (1965, vol. Il, p. 385), ma rimandiamo la degustazione del ghiotto boccone al
momento in cui faremo entrare in campo lo sforzo “razionale” di S. Tommaso d’Aquino.
(13) Prezzolini stesso, alludendo al dente per dente dice: “Era un commercio di offese e per farlo
passare come santo, Mosè, politico astuto, lo fece emanare da Dio sul Sinai” (Resto del Carlino 4.9.75).
(14) Un ethos non si misura sulle promesse altamente razionalizzate dalla classe dirigente dentro il
clima della emotività liturgica (si pensi agli iterati patti di alleanza scanditi con un “sì” da
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tutto il popolo ebraico); ma nel comportamento quotidiano. Allora si vedrà che l’eroe “professante” di un giorno (anzi di un istante) è il vigliacco di tutti gli altri istanti.
(15) Ma con la prigioniera di guerra (donna di nemico), l’istinto sessuale, ahimè, si prendeva un
largo spazio di manovra (Deut. 21, 10 e Ss.).
(16) Ripetiamo: il “far morire” di Dio non si può assimilare alla “pena di morte” se non a patto di
far uso del sofisma
(17) Per questo i rapporti tra israeliti sono veramente controllati. Citiamo due soli casi. “Se uno ha
un figlio - dice il Deut., 21, 18 - caparbio e ribelle”, che non obbedisce ai genitori e “per
quanto l’abbiano castigato, non dà loro ascolto, suo padre e sua madre lo conducano dagli anziani della città (…) sia lapidato da tutti gli uomini della città (…). Togli così il suo male di
mezzo a te”. “Se viene scoperto -dice ancora il Deut., 24, 7 - che uno abbia rapito un uomo di
mezzo ai suoi fratelli, figli di Israele, lo tratti da schiavo e lo venda, quel rapitore deve morire:
togli così il male di mezzo a te”.
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Capitolo 4
Cristo tra filosofia e teologia
E tuttavia anche Platone - al quale non fu concesso il privilegio di udire la voce di Dio in un
roveto ardente (18) - si ricongiunge in qualche modo a Mosè specie laddove tenta di mettere rimedio al vero male che è di origine prenomica, anteriore cioè alla violazione della legge. Egli infatti,
dopo aver sostenuto (19) che l’uomo - unico tra gli esseri viventi - si mise ad erigere altari e statue
perché era imparentato con la divinità; sostiene anche che questo stesso uomo non riusciva a convivere con i suoi simili senza cadere nella discordia. Per cui se voleva sopravvivere doveva riguadagnare la solitudine e con essa la dispersione e la morte.
Fu così che Zeus, temendo l’estinzione della specie, inviò Ermes perché insegnasse agli uomini
l’arte politica (20). Ermes, però, cominciò col portare ad essi il pudore e la giustizia (aidos e dike),
due virtù che costituiscono il patrimonio genetico morale proprio di ogni individuo.
Esse, infatti, non furono distribuite solo ad alcuni come fossero arti - l’arte medica o l’arte muraria,
per es., sono esercitate da pochi a vantaggio di molti - ma a tutti i singoli individui; perché le città
non potrebbero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia. Zeus, poi, disse a Ermes: “
Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi
non sappia avere in sé pudore e giustizia”.
Per Mosè, Dio ha stabilito il codice oggettivo del bene e del male: chi non l’osserva è degno di
morte. Per Platone, Dio ha messo in ogni singolo pudore e giustizia, colui che non li esercita è un
uomo mancato, è un mostro anche “fisicamente”, e va eliminato. Mosè e Platone suppongono
l’esistenza del “bene oggettivo”, sia esso racchiuso in una legge scritta, sia esso scritto nelle strutture individuali. La vocazione alla socialità è come l’intonazione musicale: o è racchiusa in un diapason alle cui vibrazioni tutti devono modellare la propria voce o è patrimonio delle corde vocali
dei singoli. Ma se l’intonazione manca, bisogna ricercare l’individuo in cui manca e annullarlo come individuo “sbagliato”.
Trovata la tecnica per avviare, con la generazione originaria la “ società dei buoni “, restava il
problemadella educazione dei nuovi arrivati. Come mai gli uomini virtuosi non riescono a rendere
virtuosi i loro figli?
Protagora (21) torna a ripetere che il qualcosa di unico, di cui è necessario che tutti i cittadini
partecipino per la sopravvivenza della città, non sono le diverse arti ma la giustizia, la temperanza,
la santità, in una parola l’umana virtù. Se qualcuno - durante lo sviluppo - non vi si conforma, deve
essere ammaestrato e punito perché diventi migliore. Del resto deve essere scacciato e messo a
morte come inguaribile chi non dia ascolto pur essendo stato punito e ammaestrato.
Nella Repubblica (23), infine, Platone tenta di risolvere il tanto chiacchierato problema della prevenzione. Egli comincia col dire che la medicina dell’epoca sua è da condannare perché mantenendo a lungo in vita i corpi malati e incapaci di svolgere le loro funzioni, produce un danno per lo
Stato (24). E conclude affermando che le due arti, la giudiziaria e la medica, “cureranno quelli che
siano naturalmente sani di corpo e di anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici, lasceranno
morire chi è fisicamente malato (25), i giudici faranno uccidere chi ha l’anima naturalmente cattiva
e inguaribile”.
Nella visione cristiana del mondo l’individuo è vocazionalmente libero perché è strutturalmente
libero. E il peccato non è sinonimo né di ignoranza né di malformazione naturale, ma è opera della
volontà e perciò aperto alla redenzione. Dio vuole che il peccatore si converta e viva, non che si
converta o muoia. E ciò suppone una attenzione pedagogica direttamente proporzionale alle malattie dell’anima (26). Non a caso Gesù - al di là di tutte le note aggregazioni storiche - ha fondato una
eccklesìa, intesa come locus in cui chi è diventato creatura nuova fa qualcosa per mantenersi tale e
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per pescare altri uomini alla novità (27). Potremmo dire che il Dio riguadagnato, di competenza, da
Cristo, non ipotizza - come il Dio mosaico - la pena di morte perché è essenzialmente “salvatore” e
perché non prevede aggregazioni statali o etniche di dubbia origine storica (28). Cristo, infatti, più
che alla salvezza degli Stati - di fragile costituzione ontologica - tende alla salvezza dell’individuo,
unico ente storico cui spetta l’immortalità, chiamandolo a un tipo di aggregazione che ha come fondamento la fede-metànoia (e cioè una scelta interiore assolutamente libera) e come effetto visibile
l’annullamento immediato dell’homo hornini lupus nel rapporto di lavoro.
Dal momento in cui i pensatori cristiani hanno concepito la Chiesa come una società perfetta
(modellata sulla società politica) e lo Stato come il partner della Chiesa con compiti e doveri richiesti da Dio stesso, hanno dovuto anche concedere alle due società prerogative che a lungo andare
hanno annullato la ragion d’essere e il fine della Eccklesìa, volti alla salvezza di tutti gli uomini mediante l’azzeramento della lotta di classe e delle divisioni politico-statali necessarie portatrici di
guerre (29).
Se la Polis è la società perfetta, in quanto è l’unica autosufficiente, come mai deve instaurare la
pena di morte nel suo interno e progettare all’esterno l’attività bellica? Tutto ciò denota che l’unità
delle singole Polis è fondata su elementi naturalistici, incapaci di promuovere sia l’eguaglianza tra i
membri del gruppo, sia la fratellanza tra i gruppi. Dal momento in cui il cristianesimo inizia la sua
funerea trasformazione in “religione” (in società chiusa), non può non ipotizzare lo strumento giuridico della pena di morte. La Chiesa, infatti, per il tramite dei suoi teologi ha cominciato a parlare di
pena di morte quando ha cessato di amministrare la metànoia e di controllare il rapporto socioeconomico fra i credenti.
Quando si presentarono nella societas sanctorum i tre famosi peccati - adulterio, apostasia, omicidio - ognuno pensò che non potessero essere rimessi perché azzeravano tutto il messaggio evangelico, da tutti inteso come amore totale a Dio e al prossimo. E dopo il primo stordimento, anziché
riprendere, da capo, il discorso e il controllo della metàtanoia come premessa al battesimo, si fece
strada l’idea giuridica del perdono sì perdono no, spostando l’attenzione sul terreno della contrattazione emotiva. Se poi tra i “peccatori" di quella specie vi erano i potenti o i membri della gerarchia
allora l’amicizia doveva trionfare sulla verità e, per paradosso, non fu più possibile non ipotizzare la
pena di morte in un qualche paragrafo della teologia e della morale (30).
La Chiesa fu costretta a ragionare come una società politica, in cui i membri sono tali per nascita
e quindi per costrizione anziché per elezione e per conversione. Non avendo più potuto, o voluto,
controllarsi sul piano pedagogico nel settore delicato della pudicizia e della giustizia, la Chiesa ha
dovuto discutere il problema della pena di morte. Ci fu un momento in cui si potè essere “cristiani”
e commettere tutti i delitti. Ma poiché il delitto è scomodo e i cattivi di quella specie non fanno comodo a nessuno, bisognò escogitare una teologia che li eliminasse senza commettere omicidio.
L’ingrato compito se lo assunse, con grande baldanza, S.Tommaso d’Aquino.
Note
(18) I prigionieri della sua caverna -vedono, però, la realtà scorrere tra loro e la luce di un fuoco
alta e lontana.
(19) Nel Protagora, 322.
(20) Giacché la parentela con la divinità disseminava di templi le foreste, senza educarli alla convivenza.
(21) Protagora, 325.
(22) Anche all’interno del patto sociale di marca rousseauiana, le cose non vanno diversamente. “Se
qualcuno — vi si dice—dopo aver ammesso pubblicamente i dogmi (civili) si comporta come
se non vi credesse, sia punito con la morte “, perché “si è reso colpevole del più grande crimine: ha mentito innanzi alle leggi” (Il Contratto sociale, L. IV, o. VIII).
(23) La Repubblica, L. III, 410 a.
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(24) Rousseau dice apertamente che non si occuperà di un fanciullo malaticcio e cachettico, inutile
a sé e agli altri. “Che farei, prodigandogli invano le mie cure, se non raddoppiare la perdita
della società, sottraendole due uomini invece di uno? “ Egli approva la carità di chi si applica
a una simile impresa, ma lui non saprebbe vivere con uno che si curasse solamente di non morire (Emilio, L. I). In alcune cliniche tecnologicamente più progredite d’America s’è deciso —
col consenso dei genitori — di lasciar morire quei bambini che, pur potendo essere tenuti in
vita, non avrebbero una autonomia a misura d’ uomo
(25) Il principio sembra spietato, ma ha il vantaggio di non essere ipocrita. Noi sosteniamo che la
medicina ha il compito (deontologico) di salvare la vita e di correggere la natura, mentre in realtà muore chi non ha i mezzi finanziari sufficienti per curarsi. E il progresso tecnologico aumenterà le disuguaglianze e creerà problemi morali nuovi e drammatici. Non a caso Gesù dice
ai suoi discepoli di “curare gli infermi”. L’istinto dell’uomo naturale è per l’abbandono
dell’ammalato (è la legge degli animali). Le legislazioni abortiste hanno clausole ben precise
concernenti il rischio di malformazioni fisiche o mentali. E la stessa eutanasia è il tentativo di
razionalizzare l’istinto del rifiuto del dolore a livello di singolo e di gruppo. Il problema è antico come l’uomo. Erodoto dice che agli indiani Padei si attribuiscono queste usanze:
“Quando uno è malato, uomo o donna, i congiunti più stretti, se è uomo lo uccidono, dicendo
che, se lo lasciassero consumare dalla malattia, la sua carne si corromperebbe e anche se
quello protesta di non essere malato, non gli danno retta, lo uccidono e lo mangiano in un banchetto. Se si tratta di una donna, sono le donne “ che compiono l’operazione eugenetica (cfr. le
Storie, III 99).
(26) Il fenomeno dei drogati pone e porrà al cristiano un duro caso di coscienza. Quando si chiede a
costoro di denunciare gli spacciatori vi rispondono: “Sono nostri amici”. Quando in una coscienza l’amicizia ha divorato la verità occorre affidare la sua guarigione al miracolo. Se poi
chiedete ai drogati come risolverebbero il loro problema, vi rispondono che la società dovrebbe costruire delle strutture sanitarie su misura per loro. Se, infine, insistete nell’esplorare la loro visione del mondo, avrete la sorpresa di capire che la società dovrebbe fornire ai drogati dei
depuratori efficaci e rapidi, non per aiutarli a ritrovare la dimensione positiva della loro esistenza, ma per dar loro la possibilità di continuare a drogarsi per tutta la vita.
(27) Il cristiano sarà tanto più pescatore credibile di uomini, quanto più potrà mostrare - ai suoi figli
e ai non-cristiani - la Eccklésia come esempio didattico di ambiente socio-economico in cui
l’agàpe ha sostituito il rapporto di profitto esistente storicamente fra uomo-donna, uomocosmo, uomo-uomo.
(28) Il famoso “ omnis potestas a Deo “di cui parla S. Paolo nella epistola ai Romani (e. XIII) va
forse messo sul conio delle pure dichiarazioni di fatto (dove il fatto è fatto culturale). C’è forse
qualcuno, sia pure tra i teologi tradizionalisti, che attribuisca oggi a un atto creativo di Dio
l’esistenza del “ricco e del povero”, del “bene e del male”, “dei principi e dei sudditi “, anche
se tali espressioni si trovano qua e là in alcuni testi della Scrittura?
(29) Prima della conversione di Costantino, per es., i barbari, per i cristiani, sono fratelli da raggiungere e da amare; dopo la conversione di Costantino, invece, diventano progressivamente
“nemici” della “patria” e sono da combattere e da sottomettere.
(30) Non si doveva discutere se dare o non il perdono, ma chiedersi come e perché un “cristiano”
potesse commettere quei peccati. Il superamento del “rigorismo", primitivo (in genere si considera esemplare la prassi della Chiesa primitiva!) passerebbe attraverso questo scivolo: gli adùlteri trovano refrigerio nell’edictum peremptorium attribuito a Papa Callisto, gli apostati
all’epoca di S. Cipriano, gli omicidi nel Concilio di Ancira (a. 314).
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Capitolo 5
La Summa galeotta 1
I1 grande pensatore medioevale - e in ciò più medioevale che pensatore -, non trovando il coraggio (il coraggio teoretico!) di rimettere in discussione la “civiltà cristiana” così come si era configurata all’epoca sua, si propone di proteggerla dalle insidie disgregatrici delle contestazioni intellettuali. Breve: S. Tommaso, anziché ricercare con rigore scientifico i connotati della Eccklesìa voluta da Cristo, costruisce, attorno alla Chiesa ereditata dalla storia, una razionalità in cui trovi spazio onorevole la pena di morte. Egli, infatti, è costretto a domandarsi “se sia lecito uccidere i peccatori” (31) perché la Chiesa non è riuscita ad annullarne la specie neanche nel proprio seno. I recenti commentatori della Somma (32) precisano che qui il sostantivo peccatore ha il significato
forte del nostro attuale delinquente o criminale. Ma, temendo di ridurre il diritto della pubblica autorità sulla vita di quanti minacciano il bene comune, si affrettano a specificare che S. Tommaso
intende affermarlo in tutta la sua ampiezza. Fino ad includervi - osserviamo noi - l’eresia e il delitto
di opinione (33).
Tutte le epoche hanno discusso - e dovranno discutere - il problema della pena di morte. Il medioevo, ahimé - ci perdoni Lapalisse - fu costretto a discuterlo dopo la conversione di Costantino. Il
fatto che esista una “civiltà cristiana” tutta disseminata di “peccatori” in senso forte, già costituisce
uno scandalo per la ragione; ma risulta paradosso senza precedenti il fatto che si voglia eliminare
questi “peccatori” utilizzando la pena di morte. Mentre Gesù, per eliminare i “peccatori”, fonda la
Eccklesìa (come prolungamento della sua pedagogia nei secoli); i filosofi e i teologi cristiani, invece, invocano la pena di morte dicendo di averla trovata nelle Sacre Scritture (34).
I Valdesi - annotano i recenti commentatori della Somma - avevano “preteso” di dimostrare la incompatibilità della pena di morte con la lettera e con lo spirito del Vangelo. A nostro giudizio erano
nel giusto i Valdesi, quando applicavano la loro lettura del Vangelo alla Eccklesìa; ma erano metodologicamente nello stesso errore di 5. Tommaso e della teologia ufficiale, quando volevano applicare quella lettura ad una società politica su cui Cristo si è dichiarato incompetente di fatto, soprattutto perché manca in essa la unità dei cuori (il dono della Fede) e quindi il libero consenso delle
coscienze.
Al Valdese Durando di Huesca - tornato alla fede cattolica nel 1207 - Innocenzo III aveva imposto la seguente dichiarazione. “Sull’autorità civile affermiamo che essa senza peccato mortale può
infliggere la pena di morte purché sia mossa ad infliggerla non dall’odio, ma dalla giustizia, e non
proceda senza precauzione, ma con cautela” (35).
Non risulta che Gesù abbia mai detto una cosa simile all’indirizzo delle autorità politiche e civili
dell’epoca sua. Egli è Salvatore proprio perché riprende da capo il discorso attinente ai rapporti umani e perché tenta una unità di cuori che nessuna autorità politica o civile può ottenere in quanto
tale. Per Cristo sono “peccatori” allo stesso modo (in senso forte) sia i due ladroni che muoiono con
lui, sia Caifa e Pilato che li mandarono a morte. Gesù è venuto a convertire a sé (per inserirli nella
Eccklesia) i peccatori in senso forte; ma si è sempre rifiutato di Costituirsi giudice-moralista tra due
forme di delinquenza, dicendo all’una: “Tu puoi eliminare quell’altra senza commettere peccato! “
In questa logica non si capisce perché la Chiesa debba farsi distributrice di serenità morale nei confronti di aggregazioni socio-politiche che prima producono i delinquenti e poi si trovano nella necessità di doverli uccidere per poter sopravvivere.
La dottrina tradizionale della Chiesa - continuano ad annotare i recenti commentatori della
Somma - afferma che la pena di morte non è contraria alla legge divina ma che neppure è richiesta
necessariamente La sua opportunità dipende dalle circostanze.
Non ci sembra che questa prodezza dialettica serva molto a qualificare la dottrina della Chiesa nei
confronti del “buon senso” di tutte le legislazioni pre e postcristiane (36). Finché l’uomo è lupo al15
l’uomo col favore delle leggi, il “buon senso” dirà sempre di rallentare o stringere i freni secondo le
circostanze. Ma il discorso di Gesù (che dovrebbe essere quello della sua Chiesa) è rivolto a un
male di fondo che il “buon senso” si rifiuta di ammettere.
I recenti commentatori della Somma dicono che il diritto (della pena di morte) resta, perché n egano è irragionevole e contrario all’insegnamento stesso della rivelazione divina che l’attribuisce
all’autorità civile. Peccato che la “rivelazione divina” sia tutta mutuata dal Vecchio Testamento e
con molta leggerezza critica (37) dopo la sequenza dei “è stato detto dagli antichi ma io vi dico”
scandita da Cristo.
La pena di morte - si insiste - non viola il diritto naturale. Ma il diritto naturale non lo violano n eanche gli schiavi in rivolta o il terzo stato in rivoluzione nell’atto in cui da condannati a morte (per
decreto della legittima autorità) si costituiscono in legittima autorità (con poteri esecutivi).
Ma torniamo a S. Tommaso. Egli, dunque, intende portare luce in un dibattito storico quando si
domanda se sia lecito uccidere i peccatori. E comincia col dare la parola ai contestatori.
“Sembra - egli dice non senza ironia - che non sia lecito uccidere i peccatori per tre motivi: 1)
perché Gesù proibisce di estirpare la zizzania e cioè i “figli del peccato”; 2) perché la giustizia umana deve conformarsi a quella divina, e questa dice: “Io non voglio la morte del peccatore ma che
si converta e viva”; 3) perché uccidere un uomo è in sè stesso un male se è vero che, come dice S.
Agostino, siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini o, come dice Aristotele, vogliamo che
gli amici vivano ed esistano”. Ma, in contrario, l’Esodo e i Salmi suonano una campana assai diversa. Il primo comanda: “Non lascerai vivere gli stregoni”. I secondi cantano: “Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione” (38).
Se il confronto è tra passi scritturali, non si capisce che cosa ci stia a fare S. Agostino e meno che
meno Aristotele. Ma S. Agostino rappresenta la tradizione culturale cristiana, Aristotele la ragione
umana. Dunque occorre catturarli alla propria tesi.
A questo punto S. Tommaso comincia a costruire dialetticamente la sua risposta, facendo uso di
analogie e di riduzioni. “Gli animali bruti - egli dice - si possano uccidere in quanto sono ordinati,
per natura, all’utilità dell’uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle perfette. Ora,
qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un essere perfetto. Perciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto il
corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso”. Secondo questa logica nulla vi sarebbe da obiettare all’autorità che ha fatto bere la cicuta a Socrate e ha
condannato Cristo alla crocifissione. Per Atene, per Roma, e per Gerusalemme, Socrate e Cristo erano due membri putridi di un tutto (la città) cui erano ordinati in quanto parti. Secondo S. Tommaso, infatti, “ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto”.
L’analogia è assunta da Platone il quale vede un perfetto parallelismo fra polis e psiche, anche se
Platone intende contestare una polis (come Atene) che ha ucciso un giusto come Socrate (39).
Quando s’è ridotto l’uomo a una parte di un tutto lo si è messo su di uno scivolo assai pericoloso. Il
cristiano non può mai prestarsi a una simile operazione: egli, infatti, concede consistenza ontologica
alle persone non agli stati (40). L’analogia così ben ricamata dal “dottore angelico” riuscì comoda a
una civiltà che non voleva sopportare gli eretici (la propria cattiva coscienza); ma riesce comoda,
ancora oggi, a quelle dittature che non vogliono sopportare i credenti in Dio o il dissenso politico.
Note
(31) Cf. La Somma teologica II-II q. 64, a2.
(32) Ci riferiamo alla traduzione e al commento curati dai Domenicani italiani, Ediz. A. Salani
1966-1975.
(33) Ne abbiamo una conferma, per es., nella q. 39, a4 della Somma Il-Il (ediz. cit., voi. XVI, p. 98).
Scrive il santo dottore:” Come dice la Scrittura, è giusto che uno sia punito nelle cose in cui
pecca. Ora, uno scismatico pecca in due cose. Primo, separandosi dalla comunione degli altri
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membri della Chiesa. E rispetto a questo è giusto che gli scismatici siano puniti con la scomunica. Secondo, perché si rifiutano di sottostare al capo della Chiesa. E, quindi, siccome non
vogliono la coercizione del potere spirituale della Chiesa, è giusto che sperimentano quella del
potere civile”. I commentatori domenicani italiani sentono il bisogno di spiegare: “Non c’è
dunque da meravigliarsi che S. Tommaso accenni in questo caso ai metodi repressivi del suo
tempo, di cui non dobbiamo scandalizzarci pensando che allora tali metodi erano comuni ad
ogni società”. Ma questa spiegazione era già stata respinta da Alessandro Manzoni, nel cap.
XXII de I Promessi Sposi, laddove parla degli errori del Card. Federigo presentati
dall’apologetica corrente come “errori del suo tempo piuttosto che suoi”. S. Tommaso pensa
la Chiesa come una società di salvezza dalla quale non ci si può impunemente staccare, mentre Gesù la presenta come area di salvezza cui si entra e si vive liberamente, in ogni istante.
(34) I Calvinisti, per es., volevano la pena di morte perché la sua soppressione sarebbe contro il precetto di Dio.
(35) Cf. Denz.-S., 725.
(36) Per scusare il “corso della storia” che ha distribuito con eccessiva generosità la pena di morte, i
commentatori Domenicani italiani dicono che bisogna tener conto della instabilità di molti regimi politici e della difficoltà di organizzare un sistema carcerario efficiente per un numero
rilevante di criminali. Se questo fosse un argomento valido, al giorno d’oggi bisognerebbe innalzare un capestro (specie in Italia) in tutte le città superiori ai centomila abitanti e farlo funzionare giorno e notte.
(37) Del Nuovo Testamento si cita il solo S. Paolo (Romani 3, 4). “L’autorità -egli dice - è al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male” e perciò essa “porta la spada “.
Nell’ipotesi che S. Paolo parli della “pena di morte”, essa è da mettere sul conto dei dati di
fatto conseguenti alla struttura di una data civitas, cui non si può applicare il concetto di convivenza ipotizzato dal messaggio di Cristo. Prima di far dire a S. Paolo che Dio avalla e consacra quella scelta giuridica, occorre vedere se Dio vuole quel tipo di convivenza.
(38) I commentatori Domenicani (italiani) della Somma, insorgono contro Scoto perché, a loro giudizio, pone le premesse dell’errore abolizionista. Egli, infatti, afferma un volontarismo radicale a proposito della legge divina. Per lui il comandamento “non ammazzare” avrebbe valore
assoluto e le sole eccezioni sarebbero poste dalla stessa volontà divina ed espresse nella Rivelazione. Per i tomisti è assurda tale posizione e lo dimostrano dicendo che è lecita la “legittima
difesa” fino all’uccisione dell’ingiusto aggressore. Se la legittima difesa è ovvia
“razionalmente” non occorre l’avallo della “Legge divina”; ma appare assai strano che la legge divina venga invocata per uccidere gli stregoni e i peccatori. L’equivoco, a nostro giudizio,
risiede nel fatto di appellarsi al Vecchio Testamento senza mai riflettere sulla Eccklesìa fondata da Cristo. Il cui compito non è quello di dire alle strutture statali: “Potete uccidere”; ma
di rendere inutili (di annullare) tutte quelle strutture che sono costrette a ricorrere alla pena di
morte per poter sopravvivere. Duns Scoto, poi, ha inteso dire che se proprio vogliamo coinvolgere Dio in questa querelle della pena di morte, allora atteniamoci al suo comandamento
(“non uccidere”); giacché Egli non può volere se non ciò che è oggettivamente buono. E se
dovremo fare delle eccezioni Lui stesso ci dirà come e quando. Duns Scoto cioè non accetta
che si stabilisca “razionalmente" che è giusto, da parte dell’uomo, praticare la pena di morte e
che poi si cerchino le pezze di appoggio nel pensiero di Dio. La legge naturale esiste sì, per il
“sottile dottore”, ma non coincide semplicemente con i dieci comandamenti. In altre parole:
non tutti i dieci comandamenti si impongono alla coscienza con la forza irresistibile di assiomi
etici (o di giudizi analitici) e se Dio non dicesse: “Non uccidere!” la “razionalità” umana praticherebbe l’omicidio con estrema disinvoltura. Ma i commentatori Domenicani hanno anche
scoperto che la filologia è venuta in aiuto al “buon senso “. Il 5° comandamento, infatti, dice
esattamente: “Non assassinare!”. E cioè: non uccidere ingiustamente, arbitrariamente (ebr. rasàh). Ma i colpevoli (i peccatori) sono uccisi “giustamente”, dunque non si viola il 5 comandamento. Se le cose sono così liquide sul piano della “razionalità” e del “buon senso”, non si
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capisce perché si voglia ancora l’avallo della Rivelazione divina. Forse Rousseau è più coerente quando fonda, in poche righe, e dai tetti in giù, la pena di morte: “I mali morali - egli dice nel Il libro dell’Emilio - sono tutti nell’opinione, fuorché uno solo:il delitto; e questo dipende da noi: i mali fisici si distruggono o ci distruggono “.
(39) Il cosiddetto particolarismo etico ha forse la sua spiegazione parziale nella struttura indifferenziata della coscienza dei primitivi. Per i quali più che l’individuo è soggetto di pensiero, di
giudizio, di decisione, l’intero corpo sociale. Presso i Germani, per es., l’omicidio non era
considerato un delitto ma solo un danno alla comunità, da ripararsi con una semplice multa.
Tacito, però, aveva detto di loro che erano “securi erga deos”. Apprezzamento che lo stesso
Hegel tradurrà con queste parole: “Degli dei si preoccupavano poco “Mentre sul fatto che i
Germani non consideravano delitto l’omicidio dirà: “Questa non è indulgenza, è ottusità, mancanza di senso morale”.
(40) Forse S. Tommaso si era lasciato travolgere dall’autorità di Aristotele, il quale aveva detto: “La
città è anteriore all’individuo perché se esso, preso a se, non è autosufficiente, sarà, rispetto al
tutto, nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti”. (Politica, L. 1, 2).
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Capitolo 6
La Summa galeotta 2
Se è vero, dunque, che l’individuo sta alla comunità come la parte al tutto, resta anche vero conclude S. Tommaso - che “se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune”.
Il principio è squisitamente “razionale” e fu sicuramente coniato - la prima volta - da chi si impossessò del potere con mezzi tortuosi o da chi non riuscì ad esercitare correttamente l’autorità ricevuta. Costui, infatti, cominciò a supporre giusta e intangibile una istituzione in cui s’era operata
l’identità fra bene comune e interesse di una classe (41). E S. Tommaso cita, a conferma della sua
argomentazione, il passo di S. Paolo “un po’ di fermento può corrompere tutta la massa”. Ma il problema consiste appunto nel sapere chi, o quale classe sociale, verifica ed esaurisce il concetto di
“fermento”. Dal punto di vista di Cristo il “fermento” - da cui i discepoli debbono guardarsi - è
quello dei farisei e di Erode.
E all’epoca di S. Tommaso dove stava di casa il “fermento”? Forse nei castelli o negli episcòpi di
quei ceti sociali ai quali il santo dottore concede, invece, l’uso del capestro per eliminare quei
“peccatori" che insidiano quel “bene comune” (42). S. Tommaso, ahimé, parte dal presupposto che
siano buone e giuste le istituzioni sociali medioevali, cattivi e peccatori quei singoli che le contestano; mentre, forse, quelle istituzioni erano la causa prima della contestazione di quei singoli. S. Paolo, invece, rivolge il suo discorso alla Eccklesìa che è essenzialmente “buona” come istituzione;
mentre se in essa c’ è inizio di male, questo male prende avvio dalla corruzione spirituale di qualche
individuo cui bisognerà rivolgere, subito, un supplemento di attenzione pedagogica (43).
Non è dunque metodologicamente corretto applicare lo stesso criterio di lettura alla Eccklesia e
alla società storica, comunque strutturata (44).
Alla luce di queste premesse S. Tommaso affronta la soluzione delle singole difficoltà. La prima
difficoltà, infatti, riguarda la presenza della zizzania nel campo del buon grano. Gesù - come risulta
dal testo evangelico - ordinò di non sradicarla a causa del grano, per non correre cioè il rischio di
sradicare il grano, ossia i buoni. Ma S. Tommaso commenta: “Tale comando è da osservarsi quando
non è possibile uccidere i cattivi senza uccidere i buoni oppure perché essi sono mescolati tra questi
oppure perché - come osserva S. Agostino - avendo essi troppi seguaci non si possono sopprimere
senza mettere in pericolo i buoni. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo, ma
piuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi” (45). Crediamo
che questa esegesi - peraltro applicata alla società storica in modo scorretto - non colga le motivazioni profonde della tolleranza cristiana, la quale affonda le sue radici nell’amore non nella opportunità.
La tolleranza cristiana, cioè, non fa buon viso a cattiva sorte né di necessità virtù, ma è un atto di
amore coessenziale alla sua stessa verità. Nella parabola, il padrone del campo impone l’alt agli zelanti mietitori anzitutto perché la zizzania è stata seminata per una svista degli stessi seminatori e
per una svista dovuta alla loro smobilitazione pedagogica (“mentre dormivate un uomo nemico ha
gettato la zizzania nel campo”); poi perché zizzania e frumento, finché sono nel campo, sono entità
dinamiche e divenienti. L’alt agli intolleranti è dato a causa del frumento ma di tutto il frumento,
anche di quello che adesso non è tale e domani può diventarlo. L’alt, infine, è dato perché il giudizio irrevocabile sui “cattivi” è una operazione riservata a Dio solo. Il compito dei buoni, semmai,
dal punto di vista di Cristo, è quello di essere buoni, di fare “eccklesìa”, città sul monte, sia pure in
mezzo alla persecuzione.
E’ forse questa l’unica strada che può condurre alla bontà quei “cattivi” che tali sono per motivi
“sociologici”, giacché cattivi “per natura” non ne esistono nella visione cristiana dell’uomo. S.
Tommaso, invece, su questo tema è paradossalmente marxista perché sa chi sono i “cattivi" e crede
di poterli sradicare con un colpo di stanga benedetto da Dio stesso. S Tommaso crede sia possibile
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attuare ciò che Gesù proibisce (e cioè lo sradicamento dei “cattivi”) perché non avverte che Gesù ha
un concetto di buono e .di cattivo diverso dal suo. S. Tommaso parte dal presupposto che Gesù dia
l’alt agli intolleranti mietitori perché l’operazione da essi proposta non è tecnicamente possibile;
mentre Gesù li ferma perché i “cattivi”, sono chiamati a diventare buoni e possono perciò diventarli.
S. Tommaso cioè razionalizza la parabola della zizzania e arriva a dire che è possibile eliminare i
“cattivi” con uno strumento che sfugge alla sagacia metodologica di Gesù - la pena di morte cioè ma che risulta di grande refrigerio per i “buoni”. Breve: il discorso di Gesù è un discorso di salvezza
i discorsi di S. Tommaso sono discorsi di sicurezza.
La seconda difficoltà riguarda il comportamento di Dio nei confronti dei peccatori. Dio, cioè, li
vuole convertiti non eliminati. E’ questa l’avventura del cristianesimo: Dio si fa uomo perché
l’uomo diventi Dio. 5. Tommaso, invece, presume di sapere che “Dio talora sopprime subito i peccatori per la liberazione dei buoni (46); talora concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futura
salvezza dei suoi eletti”, e trasborda poi questo suo modello di giustizia “divina” nei quadri della
giustizia “umana”,.
La giustizia umana, infatti, imitando Dio per quanto è possibile “sopprime quelli che son nocivi
per gli altri mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che non sono di grave danno per gli altri”.
L’equivoco del discorso ruota tutto attorno alla parola “morte”, vista da S. Tommaso come una
“soppressione fisica” del peccatore (47). Se si concepisce la morte di ogni uomo come “uccisione”
o “pena di morte” messa in atto da Dio, la giustizia umana, dovendo modellarsi il più possibile su
quella divina, può “far morire” i malvagi usando il capestro o la mannaia anziché gli strumenti segreti (malattia e disgrazia) che noi immaginiamo siano utilizzati da Dio stesso.
S. Tommaso, infine, sembra essere sicuro che la giustizia umana non fallisce mai nel sopprimere
quelli che sono veramente nocivi per gli altri e non mostra zelo alcuno per stabilire, con rigore dialettico, il concetto di “ nocivo per gli altri” (48).
La terza e ultima difficoltà riguarda il rapporto che viene a instaurarsi tra pena di morte e carità.
Uccidere è violare quella carità che dice di amare gli uomini. S. Tommaso dimostra allora che il
malvagio è una “bestia”, e che nei confronti della bestia cessa l’obbligo della carità. “Col peccato
l’uomo abbandona l’ordine della ragione - egli dice - decade dalla dignità umana che consiste
nell’essere liberi, e degenera nell’asservimento delle bestie; il quale asservimento implica la subordinazione al vantaggio altrui”.
Un salmo canta: “L’insensato sarà lo schiavo di chi è saggio. Conclusione:” E’male uccidere un
uomo che rispetta la propria dignità, ma uccidere un uomo che pecca - e peccare è abbandonare
l’ordine della ragione - può essere un bene come uccidere una bestia. Un uomo cattivo, infatti, come
dice Aristotele, è peggiore e più nocivo di una bestia”, (49).
Il sofisma consiste nel trasformare il linguaggio figurato in linguaggio proprio prima e giuridico
poi. Per quanti delitti commetta un uomo non potrà mai distruggere la sua carta di identità, neanche
se confinato in un manicomio; e nessun ragionamento potrà assimilano, sul piano ontologico, ad una bestia.
Ma il sofisma di S. Tommaso ha percorso un lungo cammino se ancora nel 1870 La Civiltà Cattolica (p. 674), citando questo passo della Somma in favore della pena di morte, scriveva: “Se
l’uomo spogliandosi moralmente della dignità di uomo, si è convertito in belva nociva verso i suoi
concittadini; come belva nociva deve essere trattato. La belva non si incarcera ma si uccide. La ben
meritata sua morte servirà altresì di paventoso esempio e salutare ammonimento a tutti quegli altri, i
quali per avventura si sentissero tentati d’imitarlo nella nequizia”. E di questa intellighentia cristiana post-tomista e visceralmente penalista parleremo ora distesamente prima di affrontare l’impennata illuminista di Cesare Beccaria.
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Note
(41) In questa situazione oscilla all’infinito il concetto di “membro putrido” e “cancrenoso”. Per
Nicola I i membri putridi sono i rivoluzionari, per i rivoluzionari il membro cancrenoso è Nicola I. Chi assume il Vangelo come punto di riferimento etico ha l’onere di sanare non di aggravare il catarro della “razionalità”. “Ogni potere ingiusto - ha scritto Manzoni - per far male
agli uomini, ha bisogno di cooperatori che rinuncino ad obbedire alla legge divina, quindi
l’inesecuzione di essa è la condizione più essenziale perché esso possa agire”. Breve: tutte le
ingiustizie passano perché non esiste la Eccklesìa o comunità cristiana, per cui, poi, la
“cristianità” deve, a sua volta invocare assurdamente la ragione e la rivelazione per salvare se
stessa facendo uso della pena di morte.
(42) Papa Clemente VIII fu oggetto di feroci pasquinate a causa del suo sfrenato nepotismo e reagì
con la minaccia di far gettare la famosa statua nel Tevere. Torquato Tasso lo fermò facendogli
osservare che l’unico modo per mettere a tacere Pasquino era quello di non dargli occasione di
sparlare.
(43) Nell’Elogio della pazzia (c. LXIV) di Erasmo di Rotterdam troviamo una lucida denuncia delle
interpretazioni antistoriche della Sacra Scrittura: “Io stessa - dice la pazzia - poco fa intervenni
ad una disputa teologica; lo faccio spesso. Ivi, avendo qualcuno richiesto qual fosse la testimonianza della Sacra Scrittura, che impone di vincere gli eretici col fuoco anziché convincerli
discutendo, un rigido vecchio, teologo, a giudicarne dal cipiglio, rispose con grande sdegno
che questa legge l’introdusse l’apostolo Paolo, allorché disse: “Evita l’eretico dopo una e poi
un’altra ammonizione”. E ripetendo con voce tonante sempre le stesse parole e facendo parecchi le più alte meraviglie, cosa mai gli fosse capitato, si degnò infine di spiegare: “Evita, e vita
in latino è ‘togli di vita’ l’eretico”. Risero a ciò alcuni, ma non mancarono quelli cui un tal
commento sembrava perfettamente teologico. Del resto, alla protesta continuata di non pochi
si levò un difensore a far da scure di Tenedo, un’autorità indiscutibile. Disse costui: “State a
sentire. E’ scritto: ‘Non permettere che viva l’uomo malefico’. Atqui ogni eretico è malefico,
ergo...”. Restarono colpiti quanti erano lì presenti, all’ingegno di quell’uomo, e passarono dalla sua parte, essi con tutti i loro stivali. Ma a nessuno venne in mente che una tal legge riguardava individui incantatori e maghi, che gli Ebrei chiamano nella lor lingua mechascefim, cioè
malefici; altrimenti si dovrebbe punir con la morte anche la fornicazione e l’ubriachezza!”
(44) Viene qui opportuna una notazione sociologica. In genere la pena di morte è sostenuta da coloro che sono convinti che la società sia buona, le istituzioni giuste e cattivi gli individui. Ma
coloro che ritengono che la società è ingiusta e colpevole sono ostili alla pena di morte nel
momento in cui attuano la rivoluzione delle istituzioni salvo poi a reintrodurla nelle istituzioni
a rivoluzione compiuta. Dal punto di vista di Cristo, se la Eccklesìa è”buona” come istituzione, essa ha il compito di correggere l’individuo nell’ipotesi che egli pecchi. E’ assurdo che la
Eccklesìa si difenda uccidendo chi delinque. Una società libera, rimette in libertà e riprende da
capo l’opera educativa.
(45) Secondo questa teoria Dio farebbe piovere e sorgere il sole sul campo del buono e del cattivo,
non per una motivazione pedagogica fondata sull’amore ma perché non può fare altrimenti.
Nella q. 108, a 3 della II II, S. Tommaso è ancora più preciso quando risponde alla prima difficoltà: “Il Signore proibisce di sradicare la zizzania quando c’è il timore di sradicare con essa
anche il frumento. Ma in altri casi è possibile sradicare i malvagi con la morte non solo senza
pericolo, ma con grande vantaggio per i buoni. Perciò in questi casi è applicabile la pena di
morte “.
(46) S. Tommaso sembra sapere troppe cose su questo tema, mentre Gesù è più cauto. Il fatto, per
es., della uccisione dei “galilei” da parte di Pilato è da paragonare, secondo Gesù, all’altro
fatto dei diciotto infelici rimasti sepolti sotto le macerie della torre di Siloe. Forse che costoro
erano più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? Nessuno si affretti a consolarsi o a
ritenersi buono se non gli cade in testa il soffitto o se è riverito dalle istituzioni. Se ciò che
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conta è la “conversione”, allora dei cadaveri e dei delinquenti, ce ne sono molti in giro. Non
possiamo annettere predilezioni o condanne divine a fatti fisici o sociali che hanno gli occhi
bendati e sono conseguenze di logiche assunte. Ci sono invece omissioni di cui siamo tutti
colpevoli allo stesso modo.
(47) E’ l’equivoco in cui è caduto, come s è già visto, anche Giuseppe Prezzolini.
(48) Per Cristo la società storica è fuori della Eccklesìa da lui fondata. In essa società, dunque, la
razionalità si eserciti come meglio può - dato che essa si è cacciata in quel sistema di rapporti
- ma non utilizzi il Vangelo per consacrare morali e prassi che Cristo non prevede nella Eccklesìa. Zaccheo, per es., per l’etica comune è una persona per bene, ma per Cristo è un ladro
di prima grandezza.
(49) Per la verità, Aristotele dice: “Senza la virtù l’uomo è il più empio ed il più feroce degli esseri,
dedito solo ai piaceri d’amore e del ventre” (Politica, L. I) e S. Tommaso traduce: “Un uomo
cattivo è peggiore e più nocivo di una bestia”. Aristotele osserva che un uomo, senza virtù, è
più feroce di una bestia e l’osservazione si applica a tutti gli uomini nell’ambito della metafora. S. Tommaso, invece, ha già delimitato l’area di ricerca: il“malvagio” E’ colui che pecca
così e così e alla fine può essere anche Renzo all’osteria. S. Tommaso, cioè, pensa che la società sia giusta e guidata da giusti. Ma chi, all’epoca del “Bue muto” non era dedito ai piaceri
d’amore e del ventre, specie tra i gestori della cosa pubblica? Dunque quante “bestie” degne
della pena di morte!!!
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Capitolo 7
La Civiltà Cattolica in nevrosi (1)
Nel 1850 a Firenze Dell’educazione e dell’istruzione libri due – Libro Primo sull’Educazione
di Raffaello Lambruschini. Nell’aprile dello stesso anno si presenta, a Napoli, in qualità di terapeuta
nazionale, La Civiltà Cattolica dei padri gesuiti. Essa, infatti, è desiderosa di concorrere a guarire
“le piaghe della povera Italia”; ma è priva di illusioni sull’avvenire del paese, perché esso (l’avvenire) “è trepido e non potrà essere che tremendo, se non si studi ad un riordinamento delle idee sociali
e religiose alterate stranamente, guaste, viziate dalla radice” (50). E al riordinamento delle idee sociali e religiose intende applicarsi, segnando a dito, o picchiando sul muso, quei “cattolici” vacillanti o codardi che contestano il connubio plurisecolare esistente fra pena di morte e istituzione civile cristiana.
Il primo cattolico segnato a dito è appunto Raffaello Lambruschini, perché alla trattazione dei castighi da infliggersi alla fanciullezza aveva premesso questa dichiarazione: “Oggidì non vi è chi sostenga più neppure riguardo alle pubbliche leggi penali, la massima che il castigo del reo sia una espiazione della sua colpa. La vendetta che si faccia d’un’offesa privata o della violata giustizia... il
castigo del reo, agli occhi della società, non può ragionevolmente mirare ad altro, fuorché ad impedire che egli commetta una seconda volta quell’azione nocevole alla società medesima o che altri
mossi dal suo esempio la commettano. “E’ una difesa”.
La Civiltà Cattolica osserva che “l’idea della espiazione e della soddisfazione è sì intima, sì connaturata, sì famigliare all’idea e al linguaggio scritturale che difficilmente potranno mai cedere il
campo, nell’animo dei cattolici, alle dottrina degli utilitari” (51). Per R. Lambruschini, la pena di
morte contro i grandi colpevoli non fu pensamento di legislatore, ma decreto spontaneo di indignazione universale. Per La Civiltà Cattolica, invece, una tale affermazione è un grave errore contro la
fede, perché il più grande dei legislatori “fra i puri uomini” (intendi: Mosè) stabilì “per divina ispirazione” la pena di morte contro molti delitti. La Civiltà C. non ha dubbi: “La legge penale sta
all’ordine civile o politico, come la guerra all’Internazionale; ella è mezzo di sostegno dell’ordine”
(52).
La Civiltà C. si sforzerà, per quasi un secolo, di presentare la pena di morte come un capitolo di
etica, naturale e rivelata, sottoscritto dal cristianesimo e messo a disposizione del potere civile. Avendo concepito come fatto di fede il connubio fra Stato e Chiesa, fra trono e altare, La Civiltà C. si
sente eo ipso custode delle istituzioni, di quelle istituzioni. Ma la rivoluzione di Gesù è assai diversa
perché propone una continua metànoia, né mai consacra i nostri storici dualismi.
Quando Dio è coinvolto in modo sostanziale con la nostra storia, non può più esserne il salvatore
ed è giocoforza che Egli tutto consacri, tutto benedica in sede sociale e in sede politica, fino a diventare il “Dio degli eserciti” o l’Idea diveniente di Hegel. La malattia mortale dello storicismo pagano è riapparsa nel mondo cristiano dal momento in cui qualcuno (chi?) ha cominciato a trasbordare gli attributi di Dio in casa dell’autorità umana (53). Ecco perché - a giudizio della Civiltà C. chiunque voglia abolire la pena di morte “bada piuttosto all’interesse proprio che all’amore
dell’umanità” (54).
L’argomento è molto fragile perché può subire la ritorsione, ma la Civiltà C. non esita a squadernare la “ben altra” filantropia del Vangelo. Il quale, anzitutto, riesce a cambiare “le carceri in asceteri” - e ciò è già “portento di carità” per la Civiltà C. - poi, in rapporto all’estremo supplizio, da un
lato adopera ogni sforzo “perché il terrore dell’eternità alla quale è soglia rimetta in senno
quell’animo incallito ad ogni vizio”, dall’altro lato “chi serba colle idee cattoliche il giusto concetto
dell’autorità sociale, mediante la quale il governante è quasi padre d’immensa famiglia, vede in esso
un potere discretivo col quale in qualche raro caso (…) ben può mitigano con la grazia” (55). Nella
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dottrina cattolica esiste dunque la santificazione del supplizio e la giustificazione del perdono e la
Civiltà C. cita un proverbio che viene scandito in certe province di Francia: “De cent pendus - esso
dice - pas un perdu; de cent noyés pas un sauvé (su cento impiccati nemmeno uno che si sia dannato; su cento annegati nemmeno uno che si sia salvato).
Da cui si deduce che per andare in paradiso è meglio farsi impiccare per omicidio che annegare
per suicidio. L’equivoco - e trattasi di equivoco teologico - consiste nel presupporre che il Vangelo
santifichi tutta la realtà sociale così come essa è, senza prima averla rinnovata dalle fondamenta.
Gesù entra sì nel sistema a salvare i singoli suppliziati ma non certo a consacrare i supplizi. Gesù
non può fare il cappellano di alcun sistema. Egli è tanto lontano e/o vicino a Pilato e/o a Galla,
quanto lontano e/o vicino ai ladroni, perché la sua visione del mondo ha tutto da contestare sia agli
uni che agli altri. E il “buon ladrone” è salvo perché accetta la Sua visione del mondo (riconosce
Dio nel prossimo!), non perché accetta quella dei suoi giudici (i quali utilizzano la legge per opprimere i deboli).
E’ curioso constatare come la Civiltà C., allo scopo di controllare le deviazioni dottrinali della intellighentia cattolica in tema di capestri, sfoderi un genere di logica e di strumenti dialettici che oggi
appaiono strani - direbbe il Manzoni - anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarli giusti. Per la Civiltà C. esiste presunzione di verità laddove troviamo “una legislazione costante universale, perpetua fra le nazioni incivilite” (56). Questo criterio metodologico, ahimé, è anticristiano.
Colui che lo contesta in maniera netta e frontale è Cesare Beccaria (57); ma anche il suo discendente - il sicuramente cattolico Alessandro Manzoni - non è meno severo contro il cosiddetto
“storicismo cristiano”, se nella introduzione ai Promessi Sposi guarda con sospetto, pieno di orrore,
le ambigue lezioni della storia tutte intessute di emergenze e di sublimità pericolose, in cui molti
sono i mostri e poche le cose veramente memorabili.
Ma la Civiltà C. non ha dubbi: “Se dunque - essa prosegue - presso le nazioni, in cui i sentimenti
dell’onestà non furono rintuzzati, anzi vennero per opera del Cristianesimo condotti ad eccellentissima perfezione, la pena di morte fu creduta universalmente conforme alle regole dell’onestà” (58),
è perfettamente inutile demolire le argomentazioni “ razionali” utilizzate da un Kant o da un Rousseau o da un Filangieni per legittimare la pena di monte, perché quelle argomentazioni non toccano
il “cattolico”il quale ne ha ben altre a sua disposizione! (59).
La Civiltà C. afferma che quattro sono i caratteri delle pene morali: “sanzione, correzione, espiazione, esempio”, e che l’espiazione è il solo essenziale a e inseparabile da ogni punizione (60).
Note
(50) Il proposito della Rivista è quello di coprire tutta l’area della intellighentia cattolica italiana.
Nessuno, infatti, aveva mai tentato di abbracciare una tale ampiezza di materie e di diffusione.
Per volontà della redazione il Periodico deve essere considerato come “indigeno e naturale” in
ciascuna contrada d’Italia, anche se appare a Napoli (cf. 1850, voi. I, p. 11 e s.).
(51) Cf. 1850, voi. I, p. 695.
(52) Ibidem, p. 696.
(53) E’ noto come Platone, nel L. III della Repubblica, conceda ai magistrati il diritto di menzogna,
specie se si tratta di far credere ai cittadini che essi sono “fratelli” a dispetto dell’evidente
classismo, perché il classismo è di origine divino-naturale! Neanche Aristotele osa contestare
la religione costituita, laddove insegna cose ripugnanti alla retta educazione. “I magistrati - egli dice nel L. VII della Politica - devono fare in modo che non si espongano statue o figure
che rappresentino proprio quelle azioni la cui menzione si vuole bandire, eccezion fatta per i
templi di quegli dèi cui la legge permette la licenza; anzi la legge permette che gli uomini si
rechino ad onorare questi dèi e per se stessi e per i loro figli e le loro mogli “. Nella civiltà cristiana non si devono mostrare nudità di alcun genere, eccezion fatta per il crocifisso, per gli
angeli, per S. Sebastiano e per poche martiri.
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(54) Cfr. 1853, serie Il, vol. I, p. 63.
(55) Ibidem.
(56) Cf. 1853, 11-111, 434.
(57) “Se mi si opponesse - egli dice - l’esempio di quasi tutti i secoli e di quasi tutte le nazioni (...)
io risponderei che egli si annienta in faccia alla verità contro della quale non v’ha prescrizione, che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenco pelago di errori fra i quali poche e
confuse e a grandi intervalli distanti verità soprannuotano. Non è ancor giunta l’epoca fortunata in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al maggior numero” (Dei delitti e delle
pene, o. XVI). A titolo di curiosità notiamo qui come l’argomento dell’accettazione di una idea o
di una prassi da parte delle “nazioni incivilite” sia stato utilizzato recentemente a
proposito della introduzione dei divorzio e dell’aborto.
(58) Lo stesso padre Perico, gesuita del secolo ventesimo, membro del Centro Studi Sociali della
sezione di Milano, in un articolo sulla pena di morte, apparso su Aggiornamenti Sociali del 910 (1965), scusa la pena di morte nel passato perché “potè apparire l’unico modo per tutelare
il bene comune” e perché il potere pubblico “ancora poco evoluto” potè ritenerla
“giustamente” unico sistema efficace per difendere la comunità. Ma i gesuiti della Civiltà C.
del secolo scorso non scusano bensì difendono la pena di morte in nome di un potere pubblico
molto evoluto, in nome del più alto grado di civiltà. Per il padre Penico anche la “sensibilità
del grande pubblico” era molto meno progredita di quanto non lo sia oggi; ma per i gesuiti
della Civiltà C. la pena di morte apparteneva al sentimento positivamente universale
dell’umanità.
(59) In tutto questo modo di argomentare, si nasconde, lo ripetiamo, il presupposto della continuità
tra onestà pagana e onestà cristiana. E il maestro di questa supposta continuità è il teologofilosofo Schleiermacher. Egli afferma che il cristianesimo non è una religione della ragione.
Come le altre religioni è nata in un dato momento della storia e si è sviluppata in movimento
storico ed è oggi presente nella coscienza di particolari gruppi umani. E’ sì la più alta forma di
religione - accogliendo tutto ciò che è vero e valido in altre religioni - ma come quelle è un
filone particolare della coscienza religiosa nella storia dell’umanità. Il pericolo di questa tesi
sta nel pensare il cristianesimo come un perfezionamento di un ceppo buono e non come un
innesto su di un ceppo selvatico.
(60) Cf. 1853, 11-111, 434. Nel 1860 Carlo Cattaneo affermerà che Milano, precedendo di nove anni il pensiero inglese, intraprese (nel 1762) e aperse (nel 1766) - l’opera di Beccaria appare nel
1764 - la Casa di correzione che significa pena non più intesa come vendetta dell’offeso o
come espiazione (vendetta della divinità) (cf. Della pena di morte nella futura legislazione italiana, Milano, 1860, p. 5). Ma la Civiltà C., ancora nel 1874 (IX-IV 208), aggiunge questo
ricamo alla sua tesi: “Se assoluto scopo della pena fosse l’emenda, Iddio non potrebbe condannare nessuno all’inferno, in cui sappiamo dalla fede che nulla est redemptio”.
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Capitolo 8
La Civiltà Cattolica in nevrosi (2)
Attorno a questa tesi esplode l’incantesimo di una esasperata e senteziosa sofia: “Si punisce
perché non si delinqua e perché si è delinquito (…) i tristi non si contengono dal delinquere se non
per timor della pena (…) il governante è ministro della giustizia divina”, e così di seguito. A quanti
impugnano la pena di morte sotto lo specioso pretesto che essa non serve alla emendazione del reo
la Civiltà C. rimprovera appunto di sostenere che il fine proprio di ogni pena è l’emendazione (61).
Il loro torto consiste nel confondere l’autorità civile con la paterna: il padre punisce per emendare
(tale è il fine dell’educazione), il Principe ha per fine la salute della società (62), egli è ministro di
Dio, come dice S. Paolo, vindice, con santo sdegno, contro coloro che operano il male, egli ha da
Dio stesso il diritto di vita e di morte secondo le esigenze delle eterne ragioni del giusto (63).
E infine la Civiltà C. escogita un sottile, anzi raffinato, ricupero della tesi avversaria: “Anche
nella pena di morte - esclama l’idea di emendazione non vien del tutto trasandata; giacché per alcune indoli perverse (…) più che qualsivoglia cura esercitata nel carcere, dà speranza di ravvedimento
(...) la certezza dell’imminente fine e il pensiero di dover, senza fallo, presentarsi (...) al Supremo
giudice” (64).
A correggere l’impianto logico-metafisico entro cui la Civiltà C. del secolo scorso aveva discusso
il problema della pena di morte, interviene l’intellighentia gesuitica del secolo ventesimo (65). Essa
tende a dimostrare, con gli argomenti di oggi (opposti a quelli di ieri), che “non sembra indispensabile per la funzione retributiva della pena la uccisione del reo”, che il carattere di vendetta “non corrisponde assolutamente alle migliori espressioni della natura razionale dell’uomo”, perché “è troppo
lontano (con quel tipo di soluzione radicale e drammatica) da quei sentimenti di civiltà (66), da quei
valori di bontà che sono al fondo di una coscienza sempre più evoluta e che costituiscono la base di
ogni moderna e ordinata convivenza” (67).
Che direbbero - che diranno nel Regno dei Cieli dove sicuramente sono - i redattori della Civiltà
C. degli anni 1860, per i quali “civiltà, bontà e coscienza,” erano in perfetta ed eterna armonia con
la pena di morte intesa come espiazione e come vendetta?
Ma rientriamo nel torneo polveroso della storia. Gli avversari della pena di morte obiettano: “Non
è concepibile come la società civile possa, per causa di pena, togliere all’uomo dei beni extrasociali,
che non sono un prodotto nè dell’attività umana, nè della società stessa”. La Civiltà C. risponde che
questa obiezione suppone si debba escludere dalla pena l’idea di espiazione, nel qual caso essa dovrà essere circoscritta “al giro dei beni strettamente sociali”. Ma “se l’uomo è socievole per essenza,
nè può sussistere o durare senza il positivo concorso di una società, si può a buon diritto affermare
che la vita medesima è un prodotto della società e dell’attività umana”. Dunque: la vita, l’integrità
del corpo, la libertà morale (…) non possono chiamarsi beni extrasociali (68).
Per rimarginare questo colpo di lancia dobbiamo ancora ricorrere alla intellighentia gesuitica del
secolo ventesimo. “Un principio - essa premette - sta alla base di ogni nostra considerazione: quello
della intoccabilità radicale della vita umana”. Esiste, dunque, una indisponibilità della vita umana
perché “il diritto di vita e di morte sugli esseri umani è di esclusivo dominio di Dio” (69). Una seconda obiezione dice: “La personalità umana è lo scopo del sociale diritto e della sua attuazione; ma
la pena di morte distrugge questa personalità facendola servire di mezzo all’attuazione del diritto e
non di scopo, dunque la pena di morte non è compresa nei diritti sociali”. La Civiltà C. ha però
pronta la risposta: “Secondo i dettati di ogni buona filosofia - essa precisa - l’autorità civile ha per
iscopo e misura non il bene individuale ma il comune”, per cui “il diritto sociale o la legge che lo
esprime non mira come a termine ultimo alla conservazione dell’individuo, ma a quella della civil
comunanza; alla esistenza e perfezionamento della quale ordina l’esistenza e il perfezionamento dei
membri che la compongono” (70). C’è qui tutta l’economia politica di Adamo Smith (che vede la
società e trascura le persone) e tutta la teologia stoica del paganesimo romano che vede Giove cur26
vo sul timone della storia ma indifferente alle sofferenze dei singoli (Iuppiter non adest singulis).
Curiosa, poi, ci sembra la curvatura “cristiana” data a tutto l’argomento. “No - insiste la Civiltà C. l’umana personalità che è un bene finito, passeggero, destinato a perire per rinascere nobilitata in un
novello ordine di cose, non può essere il termine, la regola e la misura del giusto e dell’ingiusto, del
diritto individuale e sociale (...). Se con la morte l’uomo perisse interamente ritornando al nulla dal
quale emerse, non ha dubbio che la vita presente non potrebbe volgersi alla conservazione
dell’ordine sociale, la cui partecipazione sarebbe il fine destinatogli dalla natura. Ma allora non esisterebbe vero diritto, virtù vera, ordine morale (...) apodittico, assoluto (...). La morte non solo non è
puro male dell’individuo, o mezzo al mantenimento d’un ordine ch’egli abbandona, ma atto di espiazione suprema con la quale il moriente con Dio si riconcilia, restaura per quanto è in lui l’ordine
morale, frena col terrore del suo supplizio gli stimoli eccitati dall’esempio dell’animo dei malvagi, e
alleggerito dal peso della colpa può farsi della morte breve passaggio a vita immortale” (71). Breve:
la pena di morte non soltanto fa servire l’umana personalità all’attuazione del diritto sociale, ma anche al bene morale del condannato, al conseguimento del suo ultimo fine. Come si vede, cielo e terra si danno la mano per giustificare la pena di morte (72). Per La Civiltà C. la pena di morte potrà
dunque abolirsi per effetto di un sentimento di pietà e di mitezza, non per ragioni di onestà e di giustizia. E a conferma della sua tesi ricorda una “riflessione semplicissima”, tratta dall’esperienza di
“tutti i secoli”. “Qual è - essa dice - il Generale di esercito o il capitano di nave che si addosserebbe
il comando, dove la legislazione sbandisse dalla milizia di terra e di mare la pena capitale?” (73).
Note
61) Cfr. 1870, serie VII, voi. XI, p. 673.
(62) La Civiltà C. non accusa incertezze: “L’emenda - ripete - può e deve aversi di mira dal potere
sociale nell’infliggere la pena; giacché si tratta di punire un ente ragionevole nello stato di via.
Ma deve aversi di mira come fine secondario e senza pregiudizio del fine primario; giacché,
come dicemmo, scopo diretto e principale dell’autorità civile non è l’educazione
dell’individuo, ma la giustizia e la difesa sociale” (1874, IX-IV, 208).
(63) Cf. 1870, VII-XI, 673. Mentre Cristo è venuto a contestare la storia in nome della verità, la Civiltà C. costringe la verità a tenere il lume alla storia. “E’ bene che accanto alla società sociale
- ha scritto A. Tilgher - si elevino le torri eburnee della società supersociale. che lo Stato abbia infissa ai fianchi la freccia della Chiesa che lo pungoli a sempre più purificarsi e umanizzarsi” (Cristo e Noi, Guanda, 1934, p. 83).
(64) L’utilizzo che qui viene fatto delle verità di fede è piuttosto strano, ma è in linea con la teologia
pagana di Catone Jr.; la quale, per i congiurati catilinari, ammetteva continuità fra la sentenza
(di morte) del senato e gli orrori infernali dell’Ade (Cf. Sallustio, La con giura di Catilina).
Ecco, invece, come C. Beccaria ricostruisce il ragionamento di un ladro (o assassino) cui non
resta che l’alternativa della forca o della ruota per non violare le leggi: “Quali sono queste
leggi che debbo rispettare che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco?... Chi ha
fatto queste leggi? uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide
capanne del povero”. E conclude: “La religione si affaccia alla mente dello scellerato che abusa di tutto e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità diminuisce di molto l’errore di quest’ultima tragedia”(c XVI).
(65) Ci riferiamo al citato articolo di padre Perico in Aggiornamenti Sociali (riv. cit., p. 589 e s.).
(66) Corsivo nostro.
(67) Aggiornamenti sociali 9-10 (1965), art. cit., p. 590 e s.
(68) Cf. 1853, 11-111, 436. Ma ancora nel 1874, IX-IV, 207 troviamo questa puntualizzazione: “La
inviolabilità della vita umana è argomento ineluttabile contro la pena di morte, per coloro che
ammettono il diritto sociale come risultato della somma dei diritti dei singoli associati, come
fanno il Rousseau ed il Beccaria. Ma non lo è in nessun modo per quelli, che ammettono la
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società come creazione divina, e come creazione divina la potestà, che la regge: Non est potestas nisi a Deo (...) divinizziamo la potestà? Ma non siamo noi quelli che la divinizzano: è S.
Paolo”.
(69) E’ qui interessante notare come il padre Penico, nel già citato articolo (p. 587), riporti queste
parole di Pio XII: “Il diritto alla vita, l’uomo lo ha ricevuto immediatamente dal Creatore: non
da un altro uomo, nè da un gruppo di uomini; non dallo Stato, nè da un gruppo di Stati, nè da
alcuna altra autorità”; e come egli criterii, in modo diverso dai suoi confratelli di un secolo fa,
il potère della società a infliggere la pena di morte. E’ un potere di difesa, semmai, e operante
nella misura in cui la difesa è necessaria.
(70) Cf. 1853, 11-111, 439. Questa strana concezione della persona ci dice quale fosse il contesto
che determinò Kant a scrivere, nella Fondazione della metafisica dei costumi, il famoso imperativo: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di
ogni altro, sempre come fino e non mai come mezzo” (Parte Il).
(71) Ibidem. Questo strano ridimensionamento dell’individuo rispetto all’ordine sociale, si riallaccia
curiosamente alla concezione marxiana della morte. L’uomo, in quanto individuo, rischia di
essere ridotto alla sua sola realtà biologica perché la morte è concepita - da Marx - come una
dura vittoria della specie sull’individuo. La vita, quindi, non deve essere concepito come un
piagnisteo ma come un dono generoso fatto alla vita totale, alla società socialista. Il positivo,
nella storia, è la costruzione della società socialista sulla ecatombe degli individui. La Civiltà
C., in nome della supposta esistente società cristiana, annulla i singoli “cristiani”. Il cristianesimo predica la rinuncia di sé, ma appunto perché emerga la eccklesia. La Civiltà C. mette la
pena di morte a servizio di una classe dirigente che non vuoi rinunciare a nulla di ciò che è e
di ciò che ha. E’ più comodo eliminare il delinquente che rinunciare al culto di sé.
(72) La Civiltà C. sta ripetendo ai “delinquenti” l’argomento già utilizzato dai primi persecutori dei
cristiani: “Se i nostri supplizi vi introducono nel paradiso, ringraziateci di essere ministri della
vostra felicità”.
(73) Se questa è la concezione della società cristiana, si capisce perché Cristo, prima di morire, abbia fondato non un ordine religioso impegnato a cercare l’amicizia dei re e dei capitani, ma una eccklesia tutta protesa ad annullare sia la specie dei re che la specie dei capitani.
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Capitolo 9
La Civiltà Cattolica in nevrosi (3)
A partire dal 1860 il dibattito sulla pena di morte acquista toni epici, almeno nelle intenzioni
della Civiltà C., che schiera su due fronti i cattolici e gli eterodossi (74). Il dissidio non riguarda il
tema delle mitezza (mitezza sì mitezza no). Tutti vogliono la mitezza, astrattamente parlando, tutti
affermano che una “pena non necessaria è pena ingiusta”; il dissidio riguarda la minore del sillogismo. I cattolici - con i quali si identifica la Civiltà C. - dicono: “Or la pena di morte talora è necessaria, talora è superflua: dunque talora è giusta, talora è ingiusta”. Gli eterodossi - tra i quali vi sono
dei cattolici - invece, dicono: “Or la pena di morte non è mai necessaria, dunque fu sempre ingiusta”. La Civiltà C. si domanda donde partano i cattolici per fondare il principio che la pena di morte
può essere necessaria e dunque giusta, e risponde: “Ognuno lo sa: rivelazione divina, ma anche
l’universale sentimento del genere umano” (75). E i “filantropi eterodossi”? Essi, “fermi nel principio contrario, di non rispettare se non l’evidenza del proprio pensiero, al genere umano che, tranne
rare eccezioni, sancì per sessanta secoli la pena di morte, gettano arditamente in faccia l’accusa d’
ignoranza e di crudeltà”. Queste - a giudizio della Civiltà C. - sono nella sostanza le due scuole. Esse vogliono dar sollievo ai miseri ma muovono da principi e finalità diverse. La scuola cattolica
(76), accettando dal senso comune e dalla rivelazione una terribile verità, è condotta ad ottenere
l’intento sforzandosi di emendare i malvagi (77), la scuola eterodossa (78) confida di arrivare allo
stesso scopo accusando i giudici e rassicurando i colpevoli! Ma per giungere alla mitigazione che
pretende, deve prima ottenere dai cattolici l’apostasia dalla Scrittura, dagli uomini assennati, la negazione della storia e la rinuncia al senso comune (79).
Alla obiezione che il condannato a morte non può più pentirsi (cioè convertirsi), frustrando così
uno dei fini precipui della pena che è quello di correggere il colpevole, la Civiltà C. risponde riportando il già citato proverbio popolare francese: “de cent pendus pas un perdu...”, aggiungendo la
notizia che in Italia vi sono paesi “dove il popoletto professa ai giustiziati una cotal sua devozione
quasi a gente che ha posto in sicuro la sua salute” (80).
La Civiltà C. definisce poi “argomento curioso” quello di quanti si chiedono: “Chi può arrestare
l’esistenza terrena della creatura prima che piaccia al Creatore, se Esso pose gli uomini sulla terra
perché guadagnino la vita futura?”. E risponde: “Questo fatalismo include nuovamente il circolo vizioso: chi domanda se sia giusto che la società punisca il reo con la morte, domanda appunto se la
sentenza di morte sia uno dei tanti modi coi quali piacque al Creatore di terminare questa nostra esistenza, come l’esistenza d’un militare è terminata da una palla in battaglia”. Il lasciar vivere un uomo è fatalismo, sopprimerlo è, invece, obbedire a Dio, così come è obbedire a Dio fare la guerra e
in essa morire (81). Breve: la pena di morte è uno dei tanti modi utilizzati da Dio per mettere fine a
questa esistenza. Non a caso Gesù aveva detto ai suoi discepoli: “Vi uccideranno credendo di dar
gloria a Dio”. Se ciò può accadere a un discepolo di Cristo, immagini ognuno che cosa potrà accadere a un “delinquente”! E’ questo il momento oscuro di un cristianesimo fattosi “religione” e religione temporalizzata. Nel 1865 la Civiltà C. ha ulteriormente raffinato la sua dialettica e mentre segna a dito la “ frammassoneria”, (82) continua a rimescolare nervosamente le carte del problema. Se
la gente savia - essa dice - e le persone per bene fossero per l’abolizione della pena di morte e se i
libertini, i progressisti, i democratici, fossero per la pena di morte non vi sarebbe da farne meraviglia. Eppure la cosa - tolte le rare eccezioni - va tutta al rovescio! Si tratta, però, di una severità e di
una filantropia apparenti. Perché la gente savia vuole conservata la pena di morte? La Civiltà C.
spiega: potendo essere tra i fini di una pena - emendazione del reo, ristorazione dell’ordine, difesa
della società (83) - si concede facilmente che per il primo scopo la pena di morte non è -necessaria
benché possa essere utile. E’ chiaro che il reo può emendarsi anche vivendo e non si converte necessariamente morendo. Se dunque la pena non avesse altro scopo che l’emendazione del reo, la
pena di morte si potrebbe abolire come non necessaria, ma non è così perché v’è l’argomento preso
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dal secondo fine (la ristorazione dell’ordine) (84): tu hai ucciso, dunque sarai ucciso e le ragioni saranno pari (85). Ma più evidente resta, per la Civiltà C., l’argomento che si ricava “dal bene che ne
sorge alla società assicurata contro nuovi delitti per la impossibilità fisica in cui è posto l’uccisore e
contro nuovi delitti di altri per il terrore salutare che si incute a tutti “ (86). Il motivo, dunque, che
induce la gente savia a mantenere la pena di morte è forte, alto e nobile! Ma l’assunto vero è quello
di mostrare che i savi e onesti, parteggiando per la pena di morte, sono i veri abolitori di essa. Essi,
infatti, la vogliono per diminuire e togliere di mezzo gli assassini. Anzi non vogliono solo abolire la
pena di morte per gli assassini (come fanno i liberali) ma anche per gli assassinati o meglio per gli
assassinabili. Sostenendo quindi la pena di morte, i savi, sono per l’abolizione della pena di morte
degli innocenti prima e poi anche necessariamente dei rei e degli assassini (87). A questo punto la
Civiltà C. inizia una grande ricognizione storico-apologetica guidata da questa domanda retorica:
“Che cosa era valutata la vita dell’uomo prima di Cristo?”. Ebbene, conclude, al mondo precristiano
vogliono ricondurci i “nostri liberali” (88). Dove la Chiesa prese a regnare si ingentilirono i costumi
e la vita umana fu sempre più rispettata (89); anzi nel mondo si andò sempre più abolendo la pena
di morte a misura che si dilatò la civiltà cristiana (90). Per cui se l’influenza della Chiesa si fosse
sempre e ovunque conservata, di fatto, ora, la pena di morte sarebbe abolita (91).
Conclusione: la gente savia - la più informata dello spirito evangelico - parteggiando (92) per la
pena di morte tende a cooperare alla sua abolizione. La pena di morte è ancora necessaria perché
non si è giunti a uno stato di civiltà e gentilezza che renda inutile o almeno non più necessario
l’ultimo supplizio a spavento dei tristi e a difesa della vita degli innocenti (93). Ai “liberali” che invece della pena di morte propongono “la carcere cellulare perpetua" la Civiltà C. ricorda che tale
pena conduce alla “pazzia, alla disperazione in questa vita e a una terribile probabilità di dannazione
nell’altra”. E questo - sempre a giudizio della Civiltà C. - è “odio raffinato contro l’umana natura
che si vuoi perduta nella vita temporale e nell’eterna”. Per cui “meglio la morte”!
Note
(74) Cf. La Civiltà C., 1860, IV-VII, 589-598.
(75) Altro è dire: la pena di morte è legittima perché è un diritto dello Stato di disporre della vita dei
cittadini. E altro è dire: la società ha il diritto di difendersi contro le aggressioni volte alla sua
distruzione. Per il p. Perico (cf. art. c., p. 588) è l’idea della necessità quella che deve dominare un problema ed è necessario ciò che è assolutamente indispensabile. Egli però dice che attualmente non c’è necessità di far uso della pena di morte. Non dice: “non è mai necessaria”,
ma “attualmente non è necessaria” (ci. nota 58). Tutto sta a vedere se è necessaria all’interno
del concetto di difesa, oppure no. Altro, infatti, è dire: se si vuoi star tranquilli è necessario
uccidere; e altro è dire: se il delinquente attacca occorre difendersi fino a ucciderlo, se necessario, per non venire uccisi. Un moderno moralista - Franz Bòckle - imposta il problema in
questo modo:”Per es. - egli dice - fino a, poco tempo fa eravamo convinti che l’ordine giuridico potesse essere effettivamente garantito soltanto se i delinquenti dovevano fare i conti con la
pena di morte; tale convinzione rendeva corretto il giudizio generale: la pena di morte è (in
generale) permessa. Oggi è difficile sostenere che la pena di morte sia il mezzo unico e proporzionato per salvare lo Stato di diritto. Di conseguenza bisogna dare questa formulazione
generalizzante: la pena di morte non è (in generale) permessa” (cf. Concilium 10/1976
(162~3), 89).
Presso tutti i moralisti moderni, dietro la “inopportunità di fatto” resta la “legittimità teorica” della
pena di morte. Ma tale legittimità teorica, da dove deriva? Da un diritto a uccidere o da un diritto a difendersi?
(76) La Civiltà C. ignora Il “pluralismo” all’interno del pensiero cattolico.
(77) Sottinteso: mandando in Paradiso quelli catturati e terrorizzando gli altri.
(78) Anche l’eterodossia è messa sotto una sola etichetta dalla Civiltà C.
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(79) Non dimentichiamo che la Civiltà C. sta polemizzando anche con il dissenso cattolico, assolutamente minoritario.
(80) Il p. Perico, nel già citato art. (p. 590), sostiene appunto che “non sembra indispensabile per la
funzione retributiva della pena la uccisione del reo”, perché il reo ha il suo diritto di riabilitarsi
di fronte alla comunità e “di fronte al suo destino supremo”. E sostiene che neanche il cosiddetto “riequilibrio del diritto” sembra esigere l’uccisione del reo, perché “verrebbe tolta
all’uomo ogni possibilità di redimersi, che resta sempre un suo diritto e un suo dovere”. Per
cui, “con la pena capitale viene totalmente distrutta ogni possibilità di riparazione e di espiazione” (ivi, p. 591).
(81) Per la Civiltà C.. sia il mondo fisico che il mondo morale sono retti da Dio per mezzo di cause
seconde. Ma nel mondo morale le cause seconde sono le autorità da Dio costituite. Udiamo
l’incredibile raffronto: “Siccome è conforme alla volontà divina l’influsso che il sole esercita
sulla terra, così è conforme alla volontà divina ogni atto della pubblica potestà che sia misurato dalla sua santa legge”; ergo se la pubblica potestà condanna a morte un reo “non lo manda
immaturo alla vita che è fuori del tempo, né l’invia non chiamato al tribunale di Dio, perché in
ciò - fare esegue il prescritto stesso di Dio, ed opera secondo il mandato da lui ricevuto. Iddio
lo chiama a sé, benché mediante il suo ministro”. La Civiltà C. confessa candidamente che
non vede perché venga chiamato da Dio uno che muoia di febbre e non un altro che muoia per
sentenza di legittimo giudice (cf. 1874, voI. cit., p. 207-208).
(82) Ci riferiamo all’art. “La Frammassoneria e l’abolizione della pena di morte”, apparso nel 1865
sulla Civiltà C., vol. Il, p. 385 ss.
(83) Nei 1853 erano quattro i fini (o meglio i caratteri) della pena, e cioè “sanzione, correzione, espiazione, esempio “; l’espiazione era il solo necessario. Anche De Maistre era stato esplicito:
“Il diritto di punire non è altro, nella sua parte essenziale, che il diritto di imporre ai colpevoli
una espiazione (Encyclopédie Nouvelle-Droit).
(84) Si osservi come il p. Perico, nel già citato art. (p. 590) dica - citando a sua volta altri autori che “la pretesa equivalenza fra pena e delitto per la restaurazione dell’ordine turbato, non può
essere intesa in senso materialistico”.
(85) La Civiltà C. cita il Genesi IX, 6.
(86) Sempre il p. Perico - art. cit. p. 592 e s. - osserva: “Anche il potere intimidatorio della pena capitale sembra fortemente diminuito (...) In seguito alla soppressione della pena di morte i delitti per cui questa era prevista, non sono certamente aumentati, e non forniscono alcuna indicazione certa sul suo valore intimidatorio”.
(87) Ognuno avverte in questo macabro sarcasmo la metodologia di quanti vogliono eliminare, per
es., la lotta di classe con la lotta di classe o tutte le guerre con l’ultima guerra! Don Rodrigo era meno ipocritamente cafone quando diceva, al Padre Cristoforo premuroso della sorte di Lucia: “Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più
nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla” (c. V).
(88) La Civiltà C. osserva che dove comandarono i liberali, in Francia, si comportarono - nei confronti della vita umana - come dei pagani: “Le piccole ghigliottine erano ciondoli così come
oggi lo sonb le bombe dell’Orsini”! Ahimé, siamo alla stessa logica dei Sambenito quando
comandava l’inquisizione!
(89) Ma dove Chiesa e Stato o Chiesa temporalizzata presero a regnare, allora i costumi - ahinoi restarono come prima, se proprio non peggiorarono.
(90) Ognuno ride di questo sottile sofisma. La Civiltà C. vuol dire che fu abolita la pena di morte
dei malvagi nei confronti dei buoni, nel senso che utilizzando la pena di morte la civiltà cristiana ha annullato i malvagi!
(91) Se si fosse estesa e conservata la Eccklesìa di Gesù, la pena di morte sarebbe certo scomparsa
ma per naturale estinzione. S’è invece estesa e affermata una Chiesa nel cui seno sono fioriti
dei teologi che hanno teorizzato la pena di morte per far sparire l’omicidio e l’eresia. La Civiltà C. dice che la civiltà cristiana tende a questo ultimo scopo: l’abolizione della pena di
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morte. Ma anche il socialismo tende ad una società senza classi, utilizzando, per ottenere tale
scopo, la lotta di classe! La Eccklesìa, però, è opera di conversioni e accolta di convertiti. Non
si dimentichi che fu un pontefice a introdurre la tortura in Europa. “Alessandro III - scrive G.
Filangieri - fu il primo a dare questo scandalo alla chiesa e all’Europa. L’uso della tortura si era ristretto fino a quel tempo a quella piccolissima porzione di uomini che viveva sotto il Diritto romano, ma dopo questo tempo si rese di giorno in giorno universale e noi dobbiamo a
due papi la funesta causa del sistema inquisitorio e della tortura. Senza la loro pontificale influenza, il progresso dei lumi e della società, avrebbe aboliti i giudizi di Dio, così contrari al
buon senso ed ai principi della nostra santa religione; ma senza il loro esempio, l’antico uso
della tortura non si sarebbe, forse, risvegliato nell’Europa, e il processo inquisitorio non sarebbe, forse, conosciuto. Noi dobbiamo ad Alessandro III il primo di questi mali, ad Innocenzo III il secondo” (cf. La scienza della legislazione, Vol. Il, III, o. X, in nota). Per rendere critico il nostro stupore è utile ricordare che, in pieno medioevo, il papa Niccolò I 858-867) scriveva ai Bulgari queste sante parole: “Voi dite che nel vostro paese quando un ladro o un brigante viene acciuffato, il giudice lo colpisce alla testa e gli ferisce i fianchi con punte di fuoco
sino a quando egli non ha confessato la verità. Ma né la legge divina, né la umana possono
ammettere questo sistema. La confessione deve essere spontanea (...) Se per caso, dopo aver
usato questi tormenti, non riuscite a scoprire la minima prova di ciò che avete contestato alla
vittima, non siete presi da vergogna (...)? E se domato dal dolore l’imputato si dichiara colpevole di un crimine che non ha commesso, su chi (...) ricadrà l’obbrobrio di tale iniquità se non
su colui che ha obbligato l’infelice a confessare?” (Cf. G. De Menasce - G. Leone -F. Valsecchi, Beccaria e i diritti dell’uomo, Editrice Studium, Roma 1964, p. 62).
(92) In verità, il cristiano, più che parteggiare per la pena di morte, si domanda perché gli uomini la
utilizzano sia di fatto (gli assassini), sia di diritto (i legislatori) e su tale domanda propone le
sue terapie.
(93) Se si chiede alla Civiltà C. come si arriva alla civiltà e alla gentilezza essa vi dice: “Utilizzando
la pena di morte a, proprio il rovescio di ciò che insegna il Vangelo. E la colpa del ritardo
dell’incivili-mento di chi è? E’ del liberalismo - grida la Civiltà C. - perché ha come scopo la
distruzione della Chiesa e del cristianesimo e perché, proponendo l’abolizione della pena di
morte, “diventa padrone della vita di tutti come con l’istruzione obbligatoria vuol essere padrone dell’anima”.
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Capitolo 10
La Civiltà Cattolica in nevrosi (4)
Parallelamente al rifiuto del “potere temporale”, i cattolici liberali, attorno agli anni ‘70 sembrano orientati a voler disinnescare il problema della pena di morte dal riferimento scritturale. Nella
pena di morte, cioè, non vogliono coinvolgere nè la sacra Scrittura nè lo spirito più vero della Chiesa cattolica. Ma la Civiltà C. (94) continua a ripetere che da sempre (“da che il mondo è mondo”) i
grandi colpevoli sono puniti con la pena di morte, che Mosè, “per comando divino e sotto
l’ispirazione divina”, ha dato una legge al popolo ebreo in cui si commina la pena di morte ai bestemmiatori, agli omicidi e anche a chi è irriverente contro i genitori. Qualcuno, in sordina, fa notare che Dio, come autore della vita e Signore assoluto delle sue creature, poteva per positiva concessione, largire alla società ebrea tale potestà. Ma la Civiltà C., in questa distinzione, fiuta una crepa
pericolosa e domanda con sottile ironia: “Chi vi assicura che una simile concessione non sia stata
fatta all’umana società generalmente?”. E insiste nel ripetere che “il costante uso dei popoli” deve
avere un fondamento. Per es., tra le cose riguardanti “la specie umana”, concesse da Dio a Noè dopo il diluvio leggiamo questa: “Quicumque effuderit humanum sanguinem, fundetur sanguis illius”
(Genesi IX, 6), nel qual passo “sembra conceduta la potestà di punir colla morte l’omicida”. La Civiltà C. opina che in queste parole non si contenga una “ordinazione positiva”, ma una
“esplicitazione e conferma del diritto naturale”, come esplicitazione e conferma del diritto naturale
erano queste altre parole: “Crescete e moltiplicatevi”, e queste altre ancora: “ Tutto quello che ha
moto e vita sarà vostro cibo” (95.)
Nel 1874 appare, a Catania, Il cattolicesimo e la pena di morte, brevi considerazioni di mons.
Giuseppe Coco Zanghy (96). Il pio e dotto ecclesiastico vuoi dimostrare - in chiave apologetica naturalmente - che la Chiesa ha “sufficientemente manifestato il suo spirito mite e lontano da qualunque pena di sangue, per gli oracoli del suo codice che è la Bibbia, per le dottrine dei Padri e dei
Dottori, per le decretali pontificie, per la propria storia”.
La Civiltà C. teme che, nel cervello dei semplici, il discorso sulla mitezza della Chiesa, si presenti
come condanna della pena di morte inflitta dalla legittima autorità. Mons. Zanghy, forse senza esserne cosciente, tenta il ricupero del phylum “cristiano” nella selva storica delle opinioni vittoriose,
ma volendo fagocitare alla sua tesi i teologi esegeti, i Padri e i decreti pontifici, deve soccombere
perché la stragrante maggioranza dei testi è contro di lui, e tuttavia, dalla sua sconfitta, emerge il
tunnel entro cui era imprigionata la Civiltà C. Mons. Zanghy si sforza di interpretare il testo di Ezechiele “Nolo mortem peccatoris, sed ut convertatur et vivat” non come riferito alla morte dell’anima
- così interpretano i teologi e gli esegeti - ma alla morte del corpo perché in quella profezia si parla
spesso di pene temporali e perché altrimenti la frase vivat dopo il convertatur ridonderebbe. Ma la
Civiltà C. spiega come l’accenno alle pene temporali non impedisce che si parli anche di pene eterne, e come il vivat esprima l’effetto del convertatur, e quindi non sia voce superflua. Zanghy ricorda la frase di Gesù “qui gladio ferit, gladio peribit”e afferma che si tratta di un vaticinio (oggi diremmo di una dichiarazione di fatto). Ma la Civiltà C. precisa che così non la pensano gli interpreti.
Secondo costoro, infatti, Gesù intese dire che chi per privata autorità uccide, è reo di morte, e alludeva a quel luogo del Genesi, dove Dio espresse a Noè la stessa cosa, quasi con le stesse parole. La
Civiltà C., anzi, rimanda a Cornelio a Lapide, il quale afferma che Gesù Cristo, con quelle parole,
come legislatore della Nuova Legge, rinnovò la sanzione dell’Antica contro gli omicidi: “Tutti coloro - egli dice - che prenderanno la spada (temerariamente e di propria autorità, come qui faceva Pietro) periranno di spada; e cioè sono degni di perire di spada, sono rei di morte, per legge di taglione
son da punire con la spada: la quale legge è comune a tutte le genti ed è, come legge di natura, promulgata da Dio subito dopo il diluvio (Genesi IX, 6)” (97). Bellarmino, poi, dice che il passo della
Genesi non deve intendersi come predizione (giacché come tale sarebbe stato bene spesso falso),
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ma come ordinazione e precetto divino (98). Circa l’origine divina della legge mosaica in tema di
pena di morte la Civiltà C. non ha il minimo dubbio: “E così vediamo nella legge, data da Dio al
popolo ebreo per mezzo di Mosè, ordinata la pena di morte contro il sacrilego, l’omicida, ecc” (99).
Mons. Zanghy, invece di dichiarare la legislazione mosaica soltanto mosaica - e cioè una scelta razionale di un gruppo che vive l’appartenenza a Dio all’insegna dell’ambiguità - utilizza un canone
esegetico, largamente sfruttato in altri settori. Il fatto - egli dice - che nella legge di Mosè, data da
Dio, si ordina la pena di morte non dimostra la legittimità della pena di morte, essendo stata stabilita in vista della propensione di quel popolo a contaminarsi, come le altre nazioni d’oriente, dei misfatti più orrendi e delle più atroci vendette. La Civiltà C. osserva che Zanghy “muta la questione
della liceità in quella di opportunità (...). Noi parliamo della liceità e questa non può negarsi, a meno di accusare d’ingiustizia la legge mosaica, il che sarebbe bestemmia”. Ma la legge mosaica - replica Zanghy - concedeva anche il divorzio per cagione di adulterio. Ciò prova - ribatte la Civiltà C.
- che il divorzio non è in ogni caso contrario al diritto assoluto di natura e che se nella legge evangelica è vietato ciò è per essere stato il matrimonio ricondotto alla sua primitiva perfezione (100).
Per quanto attiene alla opinione dei Padri la Civiltà C.cita ancora Bellarmino, il quale dice:
“Innocenzo I, nella epist. 3, ad exuperium, c. 3, interrogato se dopo il battesimo (si noti - sottolinea
la Civiltà C. - questo post baptisma) fosse lecito al magistrato rivolgere la spada contro i colpevoli,
rispose che era senz’altro lecito. Ilario, nel can. 32, commentando il c. 26 di Matteo, dice che è lecito uccidere in due casi: nel caso che uno svolga l’ufficio di giudice o nel caso che usi la spada per
propria difesa. Girolamo, commentando il c. 22 di Geremia, dice: punire gli omicidi, i sacrileghi e i
fabbricatori di veleni non significa effusione di sangue ma impiego delle leggi!
Quanto ai Dottori - dice la Civiltà C. - tutti sostengono il diritto della pubblica autorità di punire i
misfatti gravissimi con la pena capitale (101), e cita Melchior Cano il quale afferma che “quando
una dottrina è concordemente sostenuta dagli scolastici, fa segno che è dottrina ricevuta universalmente nella chiesa di Dio”.
Se la pena di morte fosse di per sé illecita - annota la sorprendente Civiltà C. - i sommi Pontefici,
custodi e interpreti della legge divina, non avrebbero dovuto giammai permetterla nel loro territorio,
ove essi avevano il dominio temporale. Undici secoli dimostrano il contrario. La condotta pubblica
dei Pontefici - in ciò che riguarda la giustizia e l’intrinseca moralità umana - non può avere per regola l’andazzo dei tempi e l’altrui provocazione, ma sebbene le descrizioni evangeliche. Se essi,
come principi temporali, hanno punito con l’estremo supplizio i rei di gravissimi delitti, è segno che
ciò è giustissimo e santo e conforme all’ordinazione divina (102).
Ancora nel 1888 (103) la Civiltà C. solleva lamento perché dal 1874 in poi, la pena di morte - salvo che nell’esercito - è di fatto abolita. E perciò le 68 condanne capitali del 1880, le 84 del 1881, le
66 del 1882, le 59 del 1883, tutte condonate, “non fanno altro ufficio che di rassicurare i parricidi,
ussoricidi, e malfattori di ogni maniera”. Quando gli austriaci - ricorda con soddisfazione - nel 1848
occuparono le Romagne, la sicurezza pubblica si era talmente deteriorata che gli onesti cittadini non
erano più sicuri un dì per l’altro. Fu però pubblicato lo stato d’assedio, la pena di morte fu fiera e
inesorabile ma non durò molto, tanto incusse terrore ai malvagi. Dopo la purga si poteva girare di
notte per le città con nella mano un pugno di zecchini in cerca d’un malandrino che li togliesse e
non si sarebbe trovato. Così pure andò con i Carbonari, sempre in Romagna. Bastò che Leone XII,
con pochi esempi di severità, procedesse contro quel covo di malandrini e la mala setta andò dispersa per incanto.
Al classico caso di condanna, per errore, di un innocente, la Civiltà C. risponde che è più miserevole la sorte di tutti gli onesti in balia della immane spietatezza dei malfattori. Fortunata la vittima
dell’abbaglio giuridico se in questa prova terribile è sostenuta dai conforti della Fede. I suoi strazi
sono addolciti alla vista del Redentore spirato innocente sulla croce. Costui, arrivato in paradiso,
vedrà quello che il dolore della sventura non gli lasciava forse scorgere quaggiù: e cioè che della
sua morte non è da incolpare la società, bensì i malvagi con i quali le toccò la sventura d’aver co34
muni le apparenze. Gli abolizionisti - conclude la Civiltà C. - possono farsi beffe di questo compenso di difetto della giustizia umana andato a cercare nell’altra vita. Per loro la giustizia deve essere
perfetta quaggiù, e sanno perfezionarla così bene, che la tolgono di mezzo (104).
Sono queste, ahimé, le estreme conseguenze dello storicismo cristiano della Civiltà C.; secondo il
quale si attua una identità perfetta tra storia e verità, fino cioè a comprimere la novità cristiana proprio dentro a quella storia che Cristo era venuto a contestare in funzione salvifica. Vediamo, ora, gli
influssi del messaggio evangelico all’interno delle categorie razionali di un laico cristiano - Cesare
Beccaria -; il quale, lungi dall’affondare tutto il muso della ragione dentro al mysterium della rivelazione biblica, s’è mantenuto disponibile per ascoltare la voce di Colui che è prima che Abramo fosse e prima che Mosè praticasse l’omicidio per attuare una liberazione o introducesse la pena di
morte nelle carni del “popolo eletto” per attuare la “volontà dì Dio”.
Note
(94) Cf. 1974, IX, IV, p. 199-209.
(95) Si rilegga, alla nota 38, il pensiero di Duns Scoto sul rapporto fra comandamento e legge naturale. Ciò spiega perché O. Beccaria lascerà fuori della sua indagine il popolo ebreo.
(96) Cf. La Civiltà C., 1875, IX, V, p. 65-72.
(97) In una successiva risposta al Zanghy la Civiltà C. (cf. 1876, IX, IX, p. 69) riporta tutto il passo
di Cornelio a Lapide tratto dai Commentaria in Matthaeum, c. XXVI, dove si dice: “Così qui
Teofilatto, e S. Agostino nelle questioni del Vecchio e Nuovo Testamento, al capo 104. Cristo,
dunque, rinnova qui l’antichissima legge di punir con la morte l’omicidio e la sancisce di nuovo, perocché egli parla come legislatore della nuova legge “.
(98) Cf. R. Bellarmino, Controversiarum. T.2. Controversia generalis: De membris Ecclesiae, L. 3,
c. 13.
(99) Cf. 1875, IX, V, p. 68. L’aspetto pericoloso di questa Fede nel vecchio Testamento consiste nel
dimenticare i “ma io vi dico” di Cristo, rivolti a tutta l’etica ebraica. Non si mediterà mai abbastanza -ripetiamo - la frase di Gesù: “Vi uccideranno credendo di render gloria a Dio”. Se
ciò dovesse diventare una prassi dei discepoli, ci sarebbe si una società religiosa ma non più
una Eccklesìa.
(100) Partendo dal presupposto che le permissioni mosaiche fossero da Dio si crea l’antinomia fra
diritto assoluto di natura e primitiva perfezione. Ma la primitiva perfezione cui si riferisce Cristo, per es., è solo di fatto o anche di diritto? Se è di diritto, come sembra, allora si identifica
con il retto iter della natura in quanto creata da Dio e deve quindi cadere la identificazione fra
legge mosaica e volontà o pensiero di Dio. Israele credeva e pensava di essere stato eletto da
Colui che è. Ma Gesù si presenta come uno che intrattiene con Colui che è una relazione originaria e non mediata. E in nome di questa relazione ha elevato una pretesa senza precedenti
nella storia dell’uomo: si è presentato come l’unica verità. L’avvenimento del Cristo appartiene, dunque, anche alla storia di Israele, ma di quale natura è questa appartenenza?
101) Per Zanghy i Dottori non potendo da un lato smettere i principi del vangelo - che contiene la
riabilitazione dell’umanità e perora la causa dei delinquenti - e dall’altro trovandosi spettatori
di non rare scene di legale omicidio si trovarono a giustificare timidamente la pena di morte
“con il solo metodo empirico”. La Civiltà C. fa. però notare - e a ragione - che S. Tommaso è,
sul tema, tutt’altro che timido.
(102) Tutto ciò è disarmante e appartiene più al fanatismo che alla razionalità risanata dal messaggio evangelico. Quando si è convinti che Dio ha firmato le nostre leggi e i nostri costumi ci si
sente autorizzati a uccidere in suo nome.
(103) Ct. 1888, voi. XI, p. 553.
(104) A. Manzoni, vista l’impossibilità di raccordare la concezione della vita degli invitati ai pranzo
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di Don Rodrigo con quella di Padre Cristoforo “Il mio debol parere sarebbe che non vi fossero
nè sfide, nè portatori, né bastonate”, chiude il dialogo con queste parole piene di infinita tristezza: “Che si poteva rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica e sempre
nuova? Niente: e così fece il nostro frate” (c. V). Come dire: c’è forse risposta a ragionamenti
dedotti da una stoltezza ancestrale che non disarma mai? Da parte nostra la tristezza aumenta
perché mentre oggi, di questo clima culturale angusto e fanatico, è rimasto solo un ricordo umiliante, all’epoca in cui era glorioso martoriava gli spiriti e, soprattutto, i corpi.
36
Capitolo 11
Beccaria tra storia e verità (1)
Cesare Beccaria comincia col chiamare “scolo de' secoli i più barbari” la legislazione sul crimine ereditata dall'epoca sua. Non poteva appellarsi al Vangelo per motivare quella definizione
perché il Vangelo era monopolio della cultura ecclesiastica ed era utilizzato per consacrare ogni
specie di “scolo”. Egli si muove con estrema circospezione nel dominio di un establishment umanodivino assai geloso e permaloso. Per comune ammissione esistono tre tipi di giustizie: la divina, la
naturale e l'umana. Le prime due sono immutabili (105), variabile la terza, perché è una “relazione
fra l'azione e lo stato vario della società”. Dunque - e in ciò la novità - il diritto criminale, in quanto
scienza, deve applicarsi all'ultima classe di azioni (alle azioni politiche) “giacché la giustizia divina
deve essere separata dall'umana e gli affari del cielo vanno oramai a regolarsi con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari mondani” (106). Un giudice non può, dunque, valicare la soglia della coscienza per rintracciare dei delitti di religione o di pensiero. Beccaria non può ammettere che si fondi la pena di morte sulla Scrittura, perché si rischia di immischiare nei nostri sporchi affari gli affari del Cielo. Ma le gerarchie religiose e civili vedono in lui un pericoloso razionalista che
rifiuta la Rivelazione come fonte di ispirazioni legislative, specie in materia penale. Beccaria afferma che dobbiamo sempre rimetterci ai teologi per quanto concerne la determinazione dei concetti di
giusto e di ingiusto e per quanto riguarda il significato e il valore dell'atto interiore; ma dice anche
che è compito dei filosofi e degli economisti - ossia degli scienziati - stabilire i rapporti del giusto e
dell'ingiusto, per quanto attiene a ciò che è utile o dannoso alla società. Così, nei confronti del dogma religioso, rivendica libertà piena di opinione nel campo del diritto e della politica (107) e la ragione illuminata risulta più umana e più progressista della religione. Beccaria sembra essere cosciente di questa sua collocazione culturale, e a chiunque voglia onorarlo delle sue critiche ripete:
“Invece di farmi incredulo o sedizioso, procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico”.
Poi, ecco il primo colpo di spugna: “Apriamo le storie - egli precisa - e vedremo che le leggi, che
pur sono o dovrebbero essere patti di uomini liberi, non sono state, per lo più, che lo strumento
delle passioni di alcuni pochi» (108). E dopo il colpo di spugna segue la domanda: “La morte è ella
una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della società? (... ). Quale è
la miglior maniera di prevenire i delitti?” (109).
Beccaria concepisce la pena per il delinquente non come una esplicazione del diritto di punire
come tale, da parte dello Stato, ma soltanto come una necessità della difesa sociale i(110); nega che
l'uomo possa arrogarsi il diritto di togliere la vita al suo simile (111), ma sostiene - assumendo la
dottrina contrattualista - che il singolo, sacrificando nel contratto sociale il minimo utile personale,
per la difesa comune, non può trasferire il diritto sulla propria vita. Per cui “le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di lor natura”. Beccaria
mette il contrattualismo a fondamento della nuova teoria della pena, perché la teoria della derivazione dell'autorità da Dio andava difilato a consacrare la pena di morte. In altre parole: poiché la
intellighentia cattolica ufficiale trovava in Dio il fondamento ultimo della pena di morte, Beccaria
cercò il fondamento della società in elementi più vicini alla società stessa - nell'aggregato delle minime porzioni possibili di libertà - senza negare le ricerche dei teologi. Egli introduce una visione
laica delle istituzioni, secondo la quale è possibile rivedere il diritto. Ma come può aversi una revisione del diritto laddove si afferma che Dio stesso lo ha rivelato? “I giudici - precisa - non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento, che non
lasciasse ai posteri che la cura di ubbidire, ma la ricevono dalla vivente società, o dal, sovrano rappresentante di essa, come legittimo depositario dell'attuale risultato della volontà di tutti”. Potremmo dire che Beccaria si comporta con il cristianesimo storico così come Cristo si comporta con la
tradizione ebraica. soltanto che Cristo non annette capacità veramente rivoluzionarle alla “vivente
società” e si riferisce al Padre non certo per consacrare lo stata quo bensì per spoltrirlo. Cristo, in37
fatti, oppone al “fu detto dagli antichi” il “ma lo vi dico” e dinamizza poi questo salto di qualità etico mettendo, la infinita perfezione del Padre che sta nei cieli, a traguardo storico dei credenti. Il
giudizio di Beccaria sulla “vivente società cristiana” è giustamente pesante: “I ministri della verità
evangelica, lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sono
l'opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto” (112).
Beccaria denuncia altresì l'abuso che gli uomini hanno fatto “dei lumi più sicuri della Rivelazione”, ma osserva che essendo questi i soli che sussistono «nei tempi di ignoranz », ad essi ricorre la
docile umanità in tutte le occasioni e ne fa “le più assurde e lontane applicazioni”. Il dogma del
Purgatorio, per esempio, che significa fuoco che toglie macchie spirituali e incorporee, ha ispirato la
tortura che con i suoi spasimi toglie la macchia sociale dell'infamia. A sua volta, la confessione del
reo - che si esige come essenziale alla condanna - ha origine dalla Confessione, appunto, dove la
confessione dei peccati è parte essenziale del sacramento (113). Alla luce di questi principi la pena
di morte, per Beccaria, non è un diritto ma “una guerra della azione con un cittadino perché giudica
necessaria o utile la distruzione del suo essere”. E poi il passo più discusso di tutta l'opera. “La
morte di un cittadino - dice - non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo
stabilito. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde
la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante
il tranquillo regno delle leggi (...) io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, senon
quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti: secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte” (114). Dopo aver citato
questo passo il Cattaneo si chiede come mai nel giugno 1790, Leopoldo di Toscana, ripristinò la pena di morte dopo averla abolita nel 1786 dietro suggerimento dell'opera di Beccaria. “Ciò avvenne egli risponde - perché il legislatore era come un viandante schiarato dalla lanterna del filosofo. Dove il lume del filosofo si era ottenebrato, il legislatore aveva smarrito la via. Sì, Beccaria, o per necessità simili a quelle che gli avevano tolto di pubblicare nella sua città nativa i suoi pensieri, o per
certa venerazione al potere del quale egli stesso era partecipe, o perché ogni pensiero comunque ardito ha il suo limite, non aveva osato affermare l'intera e assoluta abolizione del patibolo (…) Finché il legislatore toscano non ebbe timore che i disordini tenessero luogo di legge, egli stette fermo.
Ma nel 1790, quando vide giganteggiare a fronte la Rivoluzione francese, ebbe a riputarsi in diritto
di accettare l'infausta licenza datagli dal suo maestro. Si circoscrisse però a minacciar di morte chi
osasse infiammar il popolo e condurlo a pubbliche violenze (...). Beccaria aveva abbandonato alla
morte il reato politico, ma il principe s'avvide che quando rimanesse abolita la morte pei delitti privati, non si poteva più colpire l'avversario politico senza ferire la coscienza del popolo - non volle
che la morte inflitta ad un avversario politico sembrasse, come era veramente, una guerra e una
vendetta e la dissimulò, avvolgendola nel fascio delle infamie volgari usando l'antico artificio del
crocifiggere fra due ladroni - epperò trovossi spinto a colpire di morte anche il delitto d'alterata religione, poi anche il colpevole aborto (115), finché, tornando indietro di passo in passo, giunse all'eccesso di minacciar di morte “tuttoché nessuno sia rimasto offeso” (116).
Note
(105) La Rivelazione e la legge naturale - a giudizio di Beccarla – “furono per colpa degli uomini
dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di virtù e di vizio in mille modi nelle depravate
menti loro alterate”. Ma poco dopo egli dice che l'idea della virtù “religiosa” - riferita al cristianesimo – “è sempre una e costante perché rivelata immediatamente da Dio, e da lui conservata”. Beccaria non esercita la sua ricerca né sulla legge naturale né sulla rivelazione, ma
solo sulle convenzioni sociali – “Le emanazioni del patto sociale (dice) non possono essere
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ammesse prima del patto stesso” - ed era questo il punto dolente perché i teologi negavano che
fossero semplici convenzioni sociali le leggi e i codici promulgati dalle legittime autorità.
(106) La dottrina dei due regni (di Dio e del mondo) - sostenuta da Lutero - in sé ambigua
perché rischia di contrapporre i due comandamenti che riassumono tutta la Legge e i Profeti,
si rivelò polemicamente utile per contestare i classismi originati dalla consacrazione religiosa
della piramide sociale. Nel medioevo solo la professione clericale otteneva un riconoscimento
pieno, per cui veniva ad instituirsi una gerarchia tra il compito di insegnare, combattere, nutrire. Ma per Lutero tutte le professioni - prete, contadino, principe - sono sullo stesso piano e
hanno la medesima funzione: “tutti gli stati di vita sono ordinati a servire gli altri”, e non a
farsi servire. Peccato che poi Lutero, di fronte alle rivolte politiche e sociali, abbia sostenuto
che è preferibile la paziente sopportazione dell'ingiustizia alla ribellione all'autorità voluta da
Dio. Beccaria si rifà a questo filone contestatario e il suo discorso va inteso come opera di decontaminazione fra i due regni, giacché il sacro opprimeva e devastava il mondano, con la
buona intenzione di salvarlo.
(107) In assoluto il principio è contestabile perché una Rivelazione, se è tale, dovrebbe raddrizzare
o sanare le carenze della ragione. Il cristianesimo, infatti, non ammette una autosufficienza etica del diritto e della politica. Ma di fronte a una Rivelazione ridotta - mediante riduzioni galeotto - a codice penale e politico di re- pressione e di conservazione sociale, il principio si
presenta come una boccata di ossigeno. In verità non bisognerebbe mai dimenticare che il
messaggio di Cri- sto si identifica con il tentativo rivoluzionario di rendere inutili tutti i codici
e non col proposito reazionario di imbottirli con nuovi affanni legalistici. Ciò di- mostra che il
messaggio o è luminosa testimonianza fattuale o è sale insipido e cioè religiosità da gettare e
da calpestare.
(108) Si rilegga la introduzione ai Promessi Sposi per riudire l'eco di queste parole. Le leggi dovrebbero essere patti di uomini liberi e non comandi dei cielo (legislazione mosaica) o ordini
della ragione promulgati “ad bonum commune ab eo qui comunitatis curam habet” (S. Tommaso). Se Cristo afferma che solo la verità rende liberi, la Eecklesìa dovrebbe tendere a stabilire la verità, non a confermare l'autorità nella falsa convinzione di aver ricevuto da Dio poteri
e prerogative che Dio non, concede a nessuno. Compito dell'autorità dovrebbe essere - come
ricorda Beccaria - quello di mirare alla “massima felicità divisa nel maggior numero”.
(109) “Consultiamo il cuore umano - dice Beccaria lettore di Rousseau - e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti”. Ci sembra questa la ingannevole uscita di sicurezza del secolo. Va così interpretata: occorre trovare un punto di riferimento incorrotto e salvifico per liberare l'umanità da principi razionali e rivelati che hanno
generato e generano infinite ingiustizie sociali. Rousseau pensa che ogni rinnovamento debba
passare attraverso il cuore umano, così come esso è, prima di ogni contaminazione. Beccaria
lo segue e senza negare il diritto del sovrano lo vuol fondare su basi dottrinali nuove, scritte
appunto nel cuore. Beccaria pensa forse ai cuori “assetati di verità”; ma il nipote A. Manzoni
dirà che il cuore in sé preso è un guazzabuglio.
(110) Cf. la tesi del p. Perico alla nota 69.
(111) E questo è principio cristiano. Cf., sempre alla nota 69, il testo di Pio XII.
(112) Nella Morale cattolica Alessandro Manzoni, inviterà gli uomini di “rettissime intenzioni” a
esaminare le loro opinioni. Capiterà loro, infatti, di trovarne molte che vengono da abitudini,
da interesse, da principi “del tutto estranei al Vangelo”, anche se si sostengono “come conseguenza di esso”. E agli ecclesiastici, in maniera più specifica, dirà di non lasciarsi “mai antivenire nell'esporre una idea conforme alla vera dignità dell'uomo, e soprattutto all'umanità, al
rispetto per la vita e pei dolori del prossimo”.
(113) Beccaria sta qui introducendo una chiave di lettura che sarà largamente utilizzata da Marx.
Per Marx, infatti, i fenomeni economici spiegano il perché causale degli atteggiamento religiosi. Così, per es., il sistema monetario capitalistico corrisponde al sacramentalismo cattolico, in cui la grazia circola come un bene “oggettivo”; mentre la dottrina del libero esame so39
stituisce la libera concorrenza alla organizzazione cooperativa.
114) Beccaria, in verità, elenca le motivazioni per cui “può credersi necessaria” la pena di morte e,
alla fine, sembra accettare come buona solo la prima motivazione; perché, per la seconda (l'esempio) non ammette che sia efficace, essendo più efficace « un lungo e stentato esempio di
un uomo privo di libertà che divenuto bestia di servaggio, ricompensa con le sue fatiche quella
società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti”. Più che come legittima, nel caso
in cui sia in pericolo la “sicurezza della nazione”, la pena di morte è l'andare in sé della irrazionalità rivoluzionaria. Quando la nazione ricupera o perde la sua libertà è generalmente in
guerra civile e, a volte, in anarchia. Per cui la morte di qualche cittadino rientra nel conto della
necessità. Resta, comunque, « un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica
volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano -uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ne ordinino uno pubblico”.
(115) Legge di Ferdinando III, 30 agosto 1795.
(116) Cf. C. Cattaneo, Della pena di morte.... opus. cit., pp. 8, 17.
40
Capitolo 12
Beccaria tra storia e verità (2)
Beccaria si rivela poi modernissimo nella ricerca ultima delle cause del delitto e nell'analisi
del contesto sociale da cui il delitto emerge come crisalide prima, come insetto dannoso poi. Egli si
interroga, precedendo Marx, sulla struttura classista del sociale: ammesso che sia vero che la disuguaglianza è “inevitabile o utile nelle società” sia anche vero che “ella debba consistere piuttosto
nei ceti che negli individui; fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico;
perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente” (117). E insiste: “A chi dicesse
che la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa, per la diversità dell'educazione, per l'infamia che spandesi su d'una illustre famiglia, risponderei che la sensibilità del reo
non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore, -quanto è fatto da chi è più favorito”. Tutto da ricuperare è, poi, il discorso di Beccaria sul “come si prevengono i delitti” (c. XLI)
perché mette sotto accusa una società strutturalmente ingiusta (118). Questa la situazione: la maggior parte delle leggi non è che un fascio di privilegi, e cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni
pochi. Questa la proposta: “Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini
stessi” (119). E poi la grande epanalessi su questa domanda: “Volete prevenire i delitti?”. La prima
risposta è provocatoria: “Fate che i lumi - essa dice - accompagnino la libertà (...). Un ardito impostore che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di
uno illuminato” (120). Dove se ne va, infatti, il rispetto verso la religione istituzionale? Beccaria,
senza farne il nome, si mette subito sulle orme del Vico; il quale aveva trovato la maniera di appiattire il cristianesimo pur facendone la più superba apologia del secolo. Se i primi uomini sono passati dallo stato ferino alla vita civile per il tramite della “religione”, “fecero dunque un gran bene all'umanità - sottolinea Beccarla - quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran
bene politico), e crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quelli che osarono sorprenderli e strascinarono agli altari la docile ignoranza (...). Questa fu
l'epoca della formazione, delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario, e forse unico”
(121).
E anche Beccaria, come Vico, dice di voler prescindere, nella sua ricerca, dal “popolo eletto” (gli
Ebrei) “a cui i miracoli più straordinari e le grazie più segnalate tennero luogo della umana politica”
(122). Ma, tornando alla religiosità iniziale, Beccaria insiste nel sostenere che, pur avendo essa fatto
un gran bene, resta sempre un errore. E “come è proprietà dell'errore il sottodividersi all'infinito, così le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso labirinto si urtano e si scompigliano di modo, che alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono (invidiarono) persino l'antico stato selvaggio” (123). Per cui, se la prima filosofia degli uomini
consistette nel passare dalla ferinità all'errore, la seconda consiste nel difficile e terribile passaggio
dagli errori alla verità, dall'oscurità non conosciuta alla luce (124). Beccaria assume la chiave dei
ritorni di Vico, ma dice che chiunque rifletta sulle storie troverà “più volte una generazione intera
sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso, ma necessario passaggio dalle tenebre dell'ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze “.
Vico ingloba il cristianesimo nell'epopea storica cantata dalla Provvidenza e ne fa il punto terminale
di un disegno divino che comprende, ahimé, anche la “religione armata”. Beccaria, invece, non vede disegni provvidenziali di questa specie, ma soltanto errori.
Dopo aver elencato vari mezzi per prevenire i delitti, Beccaria, a chiusura della grande epanalessi,
afferma che “il più sicuro, ma più difficile” è quello di “perfezionare l'educazione” (125). Ma quale
educazione? Egli non ha dubbi: quella avvistata da Rousseau nell'Emilio (126). Rousseau, infatti, è
colui che offre le principali massime di educazione veramente utili agli uomini. E queste massime
possono essere sintetizzate in tre punti: 1) presentare gli originali e non le copie in ogni ramo dello
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scibile (sia nei fenomeni morali che fisici) (127); 2) spingere alla virtù per la facile strada del sentimento (129); 3) deviare dal male per la infallibile strada della necessità e dell'inconveniente e non
con l'incerta strada del comando, il quale ottiene soltanto una simulata e momentanea ubbidienza
(129). E tuttavia, per intraprendere una educazione delle moltitudini, occorre vivere di consenso.
Beccarla vuole che siano pubblici i giudizi e pubbliche le prove del reato perché “l'opinione, che è
forge il cemento della società, imponga un freno alla forza e alle passioni”, e perché “il popolo dica:
noi non siamo schiavi, e siamo difesi”. Beccaria avverte che solo l'opinione - cemento della società
- è capace di imporre un freno alla forza e alle passioni.
Ora, l'opinione è praticamente inesistente nelle dittature ed è molto malata nelle democrazie perché il pluralismo fa spazio alle follie della libertà anziché ai suoi fulgori. Per cui aumentando gli
squilibri sociali e diminuendo l'omogeneità etico-ideologica, è giuocoforza aumentare anche il contingente di polizia (130). Ma una società che è costretta ad aumentare il contingente di polizia più
che prevenire i suoi veri mali, tenta di arginarli in attesa di qualche rivolgimento sociale o della dittatura politica. Nei paesi dove esistono sperequazioni sociali profonde e pochissima volontà (o possibilità) politica di intervenire con strumenti democratici per riequilibrare gli squilibri, l'opinione
non è più il cemento della società e non impone più freno alcuno né alla forza (violenza) né alle
passioni,(ideologie). E ciò perché l’opinione dei più, pur condannando in teoria la violenza delle rapine e dei rapimenti, si domanda altresì perché c'è in giro tanto “bottino sociale” da provocare le une e gli altri; e finisce per aspirare ad una palingenesi sociale in cui si pongano le condizioni strutturali per nuovi rapporti umani.
Note
(117) Queste analisi - opiniamo -, più che il tema in sé della pena di morte, allarmarono i censori.
(118) I delitti - dice la ragione - è meglio prevenirli che punirli. La prassi, invece, dice: è più facile
reprimere che prevenire.
(119) Il cristiano sente che questo doveva essere l'insegnamento specifico e costante della Eccklesìa
fondata da Gesù.
(120) Questo discorso dei lumi, opposti alla cosidetta verità cristiana, non poteva essere gradito alle
autorità ecclesiastiche. le quali si appellavano agli eterni principi del Vangelo senza portare refrigerio alcuno alle ingiustizie istituzionali. E’ vero: i lumi sono ingenuamente identificati con
la luce; ma è anche vero che qualcuno aveva messo la luce,evangelica sotto il moggio.
(121) Per Vico, la Provvidenza divina, suscitando negli uomini fieri e violenti, mediante i fenomeni
celesti (folgori, ecc.) e il timore ad essi conseguente, un'idea confusa della divinità, fu la vera
educatrice del genere umano. Questi “giganti pii” formarono, dunque, le famiglie, le repubbliche erculee, le aristocratiche, ecc. (122) E’ rispetto formale verso i teologi?(123) L'allusione è
qui a un Rousseau non bene interpretato.
(124) Ognuno immagini come dovesse sentirsi emarginata, in questa diagnosi, la teologia ufficiale
che partiva dal presupposto della verità assoluta rivelata da Cristo. Beccaria intende, forse, dire che la rivelazione fatta al popolo ebreo continua nel cristianesimo e che quindi cammina su
binario a parte, mentre la sua indagine riguarda la sola legislazione civile? In ogni caso ecco
l'iter: stato ferino, stato religioso (o errore), lumi (o apertura al vero).
125) Sul tema insiste lo stesso Cattaneo con estrema lucidità. “Per rattenere il malvagio - egli scrive
- (...) non vale la pena; è mestieri accrescere la vigilanza (...) ma la vigilanza è affatto estranea
al diritto penale; essa appartiene ad altro ordine di leggi e di magistrati (...). Nel diritto preventivo la pena diventa un accessorio”. Cattaneo ci ricorda che “il giovane Romagnosi - poco
prima della morte di Beccaria - si era rinchiuso nel rigido principio della controspinta penale.
Ritornando negli ultimi anni sul grave argomento aggiunse alla sua opera questo capitolo:
“Del prevenire le ragioni dei delittì”. Ricercò le origini del delitto nel difetto di sussistenza, di
educazione, di vigilanza, di giustizia”. A giudizio di Cattaneo il delitto è “un funesto frutto
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delle umane passioni, è un morbo inerente alla vita sociale, come altri mali sono inseparabili
dalla vita fisica. Ma ogni delitto impune o invita all'imitazione o provoca alla vendetta. Or se
nel seno della società un animo, già turbato da sinistre passioni, riceve dalla vista dell'altrui
delitto una spinta al male, è sacro dovere della società di rimuovere quell'incentivo funesto
che dal suo seno medesimo, o sovente per sua colpa e per sua corruttela, è scaturito. Ma per
rimuovere dalla vista pubblica codesto spettacolo del delitto impune e provocante, non è necessario uccidere il colpevole”. Ragion per cui “la vera ed efficace prevenzione dei delitti sta
nella educazione delle moltitudini” (,Cf. C. Cattanco, Della pena di morte, opus. cit., pp. 2327). (126) L'Emilio appare nel 1762 (20 maggio); Dei delitti e delle pene nel 1764.
(127) Già Platone voleva che nella sua Repubblica fosse presente l'arte intesa come poiesis (o creazione); ma vi voleva esclusa l'arte intesa come mimesi (o imitazione). Cosi pure voleva che i
giudici non copiassero da alcuno il concetto di giustizia ma ne fossero essi il diapason, eccezion fatta per i detti e per le azioni dell'uomo onesto. Cristianamente parlando, il principio
rappresenta una tacita polemica contro il culto dei santi (copie), sovrapposte all'imitazione di
Cristo (modello). Didatticamente parlando, poi, nessuno dubita che sia meglio vedere una
pianta nella foresta anziché ammirarne la figura (o copia) in un testo scolastico.
(128) Anche Platone preferiva la dialettica alla retorica per i giovani, dopo aver preferito, per i fanciulli, in sede propedeutica, la proclamazione retorica, (magari tramite il canto) delle verità etiche. Ma in Rousseau abbiamo una pericolosa pregiudiziale esclusione della ragione. Per
quanto attiene al messaggio cristiano, è da ricordare che Cristo non propone la virtù come fine
dell'educazione, ma una metànoia creatrice di infinite perfezioni.
(129) Senza voler qui discutere il valore specifico di questo principio dobbiamo dire che la sintesi di
Beccaria è assai felice. A. Manzoni, “nella santità dell'assunto generale” dell'opera di Beccaria, vede “alcune inesattezza particolari di fatto, alcune congetture precipitate”; ma, a suo giudizio, anche i “difetti” sono resi “splendidi” dal genio sempre presente. In definitiva: “potè far
diventare senso comune ciò che era paradosso; e, ciò che è ancor più bello, potè farlo trionfare
nel fatto”.
(130) Nelle dittature la polizia viene aumentata per prevenire il pluralismo delle opinioni; nelle democrazie per arginare le follie del pluralismo.
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Capitolo 13
Filangieri tra verità e sofisma
Non possiamo chiudere queste note su Cesare Beccaria senza introdurre nel dibattito sulla pena di morte un interlocutore come Gaetano Filangieri. Messo all'Indice, come Beccaria, per aver
fatto una lettura critica e demistificante di un certo cristianesimo storico, rifiuta tuttavia, di Beccaria, il sillogismo Dei delitti e delle pene tendente ad abolire la pena di morte. Ma ascoltiamo direttamente il giovane riformatore napoletano. “Le leggi - egli dice – allorché puniscono, hanno innanzi
agli occhi la società e non il delinquente: esse sono mosse dall'interesse pubblico e non dall'odio
privato, esse cercano un esempio per l'avvenire e non una vendetta pel passato (...). L'oggetto, dunque, delle leggi nel punire i delitti altro non può essere, se non quello d'impedire che il delinquente
rechi altri danni alla società, e di distogliere gli altri dall'imitare il suo esempio, coll'impressione che
la pena da lui sofferta deve fare sui loro spiriti. Se questo fine si può, dunque, conseguire colle pene
più dolci, le leggi non debbono impiegare le più severe” (131). Abbiamo visto con quali cautele
Beccaria assuma il secondo fine della pena e cioè l'esempio (132). Qui ci preme osservare che tutto
questo discorso di Filangieri non può essere assunto se non a prezzo di profonde modifiche. Ecco
come: le leggi, quando puniscono, dovrebbero aver presenti la società e il delinquente. Esse dovrebbero essere mosse dal bene pubblico e dalla preoccupazione per il delinquente. Esse dovrebbero cercare di rieducare per l'avvenire e non di vendicare il passato. Due dovrebbero essere i fini
della pena: 1) impedire che il delinquente rechi altri danni alla società; 2) far si che il delinquente
non sia più tale. Breve: la prima preoccupazione dovrebbe essere la rieducazione anche se la prima
operazione deve preoccuparsi di isolare il delinquente. Ma la prima preoccupazione sarà la rieducazione solo se i valori calpestati sono un patrimonio ben solido nella coscienza di tutti i singoli
membri della comunità.
Filangieri tenta poi di definire i “diritti sociali”. “Il delitto - scrive - è la violazione di un patto, e
la pena è la perdita di un diritto. Le diverse specie di diritti c'indicheranno, dunque, le diverse specie
di pene. Come uomo io ho alcuni diritti, come cittadino ne ho degli altri. La società mi assicura il
godimento dei primi e mi dona gli ultimi (133). Gli uni e gli altri divengono diritti sociali, subito
che la società o li dà o li difende. Da' diversi oggetti, ai quali si rapportano tutti questi diritti, noi
possiamo, dunque, formarne le loro diverse classi, e dedurne le diverse specie di pene. La vita, l'onore, la proprietà reale, la proprietà personale e le prerogative dalla cittadinanza dipendenti, sono gli
oggetti generali di tutti i sociali diritti. Noi avremo, dunque, cinque classi di diritti, e per conseguenza, cinque classi di pene. Noi avremo pene capitali, pene infamanti, pene pecuniarie, pene privative o sospensive delle civiche prerogative”(134). Filangieri fa rifluire tutti i diritti sotto l'ombrello della società, come se essa ne fosse l'autrice totalizzante. E nel tutti egli inserisce anche la
vita. Ora, la società mi assicura il godimento della vita (diritto che ho in quanto uomo) perché la riconosce anteriore a sé e non perché la fa o la dona. In ogni caso si riprenda quel- lo che dà ma non
ciò che deve riconoscere. Il tentativo di far rientrare la vita al primo posto di un elenco seriale equivale al tentativo di voler definire il principio di causatiti come quel principio che assegna una causa
a tutto ciò che esiste, e quindi anche a Dio, anziché come quel principio che assegna una causa a
tutto ciò che non ha in sé i motivi della, propria esistenza.
A questo punto Filangieri riduce “alla precisione sillogistica” il ragionamento di Cesare Beccaria
per vedere meglio il nascondiglio dell'errore. “Niuno può dare quel che non ha; ma l'uomo non ha il
diritto di uccidermi; dunque il sovrano, che non è altro che il depositario dei diritti trasferiti dagl'individui al corpo intero della società, non può neppure avere il diritto di punire alcuno con la morte”
(135). Questo, per Filangieri, è il “sofisma che ha sedotti tanti giuspubblicisti, e che, so reggesse,
potrebbe estendersi a tutte le altre specie di pene (...). Noi potremmo - spiega -, coll'istessa verità,
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dire che la galera, le miniere, l'infamia, la carcere perpetua, sieno pene, delle quali la suprema autorità non può far uso, senza commettere un'ingiustizia; poiché, siccome niuno ha il diritto di accelerarsi la morte, ciò che avviene a coloro che sono condannati ai lavori pubblici, alle miniere, alle galere”. Filangieri corre troppo. La condanna ai lavori pubblici, infatti, non accelera necessariamente
la morte. L'accelerava, forse, nei lavori pubblici e nelle miniere dell'epoca di Filangieri. Ma egli, invece di alzar la voce contro simili abusi, utilizza il fatto per impugnare un principio.
Filangieri vuole argomentare su rotta pulita e si premura di prendere le distanze sia da Puffendorf
(136) che da Rousseau (137). Egli, insomma, tenta di rigorizzare l'argomento a favore della pena di
morte. Ascoltiamolo con attenzione. “Nello stato di naturale indipendenza - egli chiede - ho io il diritto di uccidere l'ingiusto aggressore? Niuno ne dubita. Se io, dunque, ho questo diritto sulla sua
morte, egli ha perduto il diritto alla sua vita, giacché sarebbe contraddittorio che due diritti opposti
esistessero nel tempo istesso. Nello stato, dunque, della naturale indipendenza vi sono dei casi nei
quali un uomo può perdere il diritto alla vita, ed altri può acquistare quello di toglierlo senza che alcun contratto sia passato tra questi due” (138). Ed eccoci alla lunga domanda che crea un nodo nell'argomentazione. “Se l'infelice che l'empio aggressore ha assalito cade morto, in questo caso il diritto che questi aveva acquistato sulla vita dell'aggressore resta estinto con la sua morte o si diffonde
sul resto degli uomini, ciascuno dei quali è vindice e custode delle naturali leggi?”. Filangieri chiama Looke a rispondere per lui: “Se deve - sentenzia il filosofo - esistere nello stato di natura il diritto di punire i delitti, è chiaro che ciascheduno deve avere questo diritto sopra tutti gli altri, poiché
tutti gli uomini sono naturalmente uguali” (139). E tuttavia egli vuole aggiungere una sua riflessione all'argomento di Looke. “La natura - osserva - non fa cosa alcuna senza,un oggetto (...). Quale
oggetto potrebbe avere l'odio che in noi si desta contro il reo di un delitto che non interessa, né noi,
né i nostri parenti, né i nostri ami- ci? (…). So la natura non avesse dato che al solo offeso il diritto
di uccidere l'aggressore, a che giovava ispirare nel- l'animo degli altri un odio così determinato
contro di lui? (…). E’ dunque da supporre che nello stato attuale essa (la natura) non solo dato aveva a tutti gli uomini il diritto di punire i delitti, ma aveva aggiunto a questa concessione uno sprone
per indurli ad esercitarlo (140). Caino, intriso del sangue di suo fratello, allorché diceva: “il primo
che m’incontrerà sarà il mio carnefice”, ci manifestava bastantemente la coscienza, ch'egli aveva,
dell'esistenza di questo diritto, e dell'impegno che ciascheduno aver doveva di esercitarlo”. Peccato
che Filangieri trascuri di citare il vero pensiero di Dio in rapporto all'episodio di Caino. Ebbene, è
proprio Dio che ferma la mano alla concezione universalmente spontaneistica della vendetta dichiarando che “chiunque ucciderà Caino avrà castigo sette volto maggiore”. E’ singolare novità umana
che Caino si riconosca colpevole, ma è logica assolutamente inedita che Dio, ripetiamo, fermi il
braccio alle stravaganti e irrazionali ebollizioni della natura.
Filangieri impacchetta, infine, il suo pensiero in un sillogismo e lo oppone al sillogismo di Beccarla. “L'uomo - egli dichiara - nello stato naturale ha il diritto alla vita: egli non può rinunziare, a
questo diritto, ma può perderlo co' suoi delitti. Tutti gli uomini hanno in quello stato il diritto di punire la violazione delle naturali leggi, e, se la violazione di queste ha reso il trasgressore degno della
morte, ciascheduno uomo ha il diritto di togliergli la vita” (141). Filangieri parte dal presupposto
che chi uccide perde, semel pro semper, il diritto alla vita. Ora, chi uccide non perde il diritto alla
vita, ma il diritto all'uso della vita (perde il diritto ad usarla per uccidere). Per cui la società gli toglie il secondo diritto (l'uso irrazionale della vita), ma non può togliergli il primo diritto (e cioè la
vita) (142).
Note
(131) Cf. La scienza della legislazione, vol. III, L. III, e. XXVII.
(132) Cf. nota 114.
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(133) Corsivo nostro.
(134) Cf. La scienza della legislazione, op. cit., c. XXVIII. A titolo di curiosità riportiamo qui la risposta di S. Tommaso alla domanda: “Se la vendetta debba esercitarsi con i castighi in uso
presso gli uomini”. “La vendetta - egli dice - intanto è lecita e virtuosa in quanto tende a reprimere i malvagi (…). Perciò le colpe vanno punite con la privazione di tutti quei beni che
sono più amati dall'uomo, quali la vita, l'incolumità del corpo, la libertà, i beni esterni, ossia le
ricchezze, la patria e il buon nome. Ecco perché, come riferisce S. Agostino, “Cicerone ha affermato che dalle leggi sono contemplati otto generi di pene”, e -cioè. “la morte”, che priva
della vita; “la fustigazione”, e “la pena del taglione” (ossia 'occhio per occhio') che compromette l'incolumità del collo; “la schiavitù” e “la carcerazione”, che toglie la libertà; “l'esilio”
per cui si perde la patria; “il danno” che sacrifica le ricchezze; e “l'infamia” che toglie il buon
nome”. (Cf. Somma Teol., II-II, q. 108, art. 3).
(135) Cf. G. Filangieri, La scienza della legislazione, op. cit., c. XXIX; e C. Beccaria, Dei delitti e
delle pene, parag. XXVIII.
(136) Puffendorf - a giudizio di Filangieri - con la buona intenzione di confutare il sofisma ne accrebbe la forza. Egli, infatti, usa un argomento di similitudine, di poco valore in buona logica.
“Siccome nelle cose naturali - egli dice - un corpo composto può avere alcune qualità che non
si ritrovano in alcuno de' corpi semplici componenti, nella maniera istessa un corpo morale
può avere, in virtù dell'unione medesima delle persone onde egli è composto, alcuni diritti che
non si appartengono ad alcuna delle persone componenti”. Così l'armonia non appartiene ad
alcuna delle corde sonore eppure deriva dalla percussione di più corde fatta nello stesso tempo. Filangieri obietta: “Si potrebbe dire che, siccome cento milioni di cerchi non possono formare un Quadrato, perché un cerchio non può mai ridursi a quadratura, così la volontà di
cento milioni d'uomini non può render giusto ciò che di sua natura è ingiusto”.
(137) Filangieri cita Rousseau senza tuttavia riassumerne il ragionamento, supponendolo noto.
Rousseau cf. Il Contratto sociale, L. II, e. V si domanda “come i particolari che non hanno il
di- ritto di disporre della loro vita, possano trasmettere al sovrano questo diritto ch' essi non
hanno”. Nel rispondere segue due direttrici: 1) “La vita non è solo un beneficio della natura
ma un dono condizionato dello Stato”; 2) “Ogni malfattore, violando il contratto sociale, diventa traditore della patria; violando le sue leggi cessa di esserne membro, anzi gli muove
guerra. Allora la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che l'uno o
l'altro perisca, e quando si fa morire il colpevole, è più come nemico che come cittadino”. Per
cui “un tale nemico non è persona morale ma un uomo: ed è diritto di guerra uccidere il vinto”. Rousseau assume tutta la teorica antica sul tema della pena di morte; soltanto che, avendo
responsabilizzato l'individuo attraverso il patto sociale, non ammette attenuanti sociali per Il
malfattore. Chiunque infrange il patto sociale non si rivolta al Principe o a una legislazione eteronoma bensì a una legge da lui voluta e sottoscritta. Filangieri accusa Rousseau di presbiopia perché vede gli oggetti lontani e non i vicini. “Ognuno - precisa - conosce che la società
deve avere il diritto di dar la morte a colui che ha ferocemente attentato alla vita degli altri; ma
quando va in cerca di questo diritto non lo trova. La verità ch'egli vuol vedere, è troppo vicina.
Discostiamola e noi la troveremo”.
(138) Filangieri sembra qui scavalcare il tema dei diritti trasmessi al sovrano e sembra volersi rendere indipendente da ogni forma di contrattualismo.
(139) Cf. G. Locke, Secondo trattato sul governo civile, c. 11, parag. 7.
(140) Abbiamo visto come per R. Lambruschini la pena di morte non fu pensamento di legislatore,
ma decreto spontaneo di indignazione universale (cf.. p. 59). Lo spontaneismo è raramente in
ordine con la razionalità.
(141) E poi, in una lunga nota, Filangieri tenta di liberarsi dalla obiezione che perseguita i contrattualisti: “gli uomini sono tutti uguali nello stato naturale perché hanno uguali diritti. La pena è
atto di autorità, dunque nessuno ha diritto di punire”. Egli afferma che nello stato naturale colui che attenta un diritto di un altro perde il,diritto corrispondente, quindi non è più uguale al
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resto degli uomini. Tutti gli altri - che non hanno perduto alcun diritto - sono superiori a lui e
come superiori possono punirlo. “Il delitto dunque - conclude Fllangieri - nel tempo stesso che
distrugge l'uguaglianza, trasmette il diritto di punire”. Tutto sta a sapere se resiste meglio alla
caduta del sofisma la maggiore di Beccaria o quella di Filangieri (“colui che attenta un diritto
di un altro perde il diritto corrispondente”). Chi mi aggredisce non perde eo ipso il diritto alla
vita; ma sono io che acquisto li diritto di difendermi. Chi mi aggredisce mantiene il diritto alla
vita, ma perde il diritto di farne cattivo uso.
(142) Anche E. Kant combatte la tesi di Beccaria e giunge, con argomentazione diversa da quella di
Filangieri, alla stessa conclusione: “Nessuno è punito - dice nella Metaftsica dei costumi, II
parte - per aver voluto la punizione, ma per aver voluto un'azione meritevole della punizione”.
Ma resta da provare che l'omicidio merita la pena di morte, in sé e per sé e non per legge positiva.
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Parte seconda
Le antinomie psico-sociologiche
“Educazione, educazione: ecco
ciò di cui il mondo ha bisogno.
E’ stato questo il tema continuo
Dei miei scritti, l’argomento dei
Miei colloqui con Cristiano VIII:
e ciò passa ora per la cosa più
superflua del mondo”
S. Kierkegaard (Diario, 1848)
Capitolo 14
La punta dell'iceberg
E tuttavia ci sembra realistico ammettere che, al di là di tutti gli approdi giuridici e culturali, la
pena di morte è, e resterà, lo scheletro nell'armadio. Elenchiamo, perciò, una serie di antinomie cui
attribuiamo il compito di mostrare come il problema della eliminazione del “delinquente” sia la
punta di un iceberg o un capitolo di complesse realtà psico-sociali alle quali non vogliamo applicarci nel timore di dover rinunciare al godimento del nostro “particolare” (143). Tutti coloro che meditano la rivoluzione armata - siano essi di destra o di sinistra - ammettono la pena di morte in nome della “necessità”, ma intanto essi non vogliono che essa appaia nella legislazione alla cui riforma stanno applicandosi. Il principio da cui partono i rivoluzionari è identico a quello da cui partono
i sostenitori dello statu quo: occorre eliminare i cattivi per avere una società buona o per lo meno
tranquilla. Non pare che la giustizia sia frutto di spontaneità e per ottenerla (o per attuarla) la ragione non sembra capace di rinunciare, di fatto, all'uso della pena di morte giuridica o sociale.
Plutarco, ci informa che Solone abrogò - tranne la parte riguardante gli omicidi - il codice di Dracone che colpiva con la morte tanto i ladruncoli di verdura quanto gli assassini; e riferisce questo aneddoto: “Il buon Dracone a chi gli chiedeva perché avesse fissato la pena di morte per la maggior
parte dei delitti rispose che per quelli piccoli gli sembrava giusta e che per i grandi non ne aveva
trovata una maggiore”.
Dopo aver concesso tutto, o quasi, all'esercizio del sesso, Campanella, nella Città del sole, prevede ancora la pena capitale per i giovani che, corretti e richiamati, avessero insistito nella sodomia e
per le donne che si fossero imbellettate il volto per comparire formose o avessero usato zoccoli alti
per parere grandi o vesti allungate per coprire piedi informi. Saint-Just ne Lo spirito della rivoluzione ordina seccamente: “Gli assassini vestiranno di nero per tutta la vita, e saranno mandati al patibolo se abbandoneranno questo abbigliamento”.
La struttura ipocrita
Il colmo della ipocrisia umana è dato dal fatto che mentre siamo contro la pena di morte prepariamo Senza sosta la guerra. Non esiste, infatti, nazione senza esercito; né “religione” che contesti
teologicamente il concetto stesso di nazione e di Stato nazionale. Ripetiamo a noi stessi che la pena
di morte non è necessaria e pensiamo che presto o tardi sarà necessaria una guerra per sottrarci una
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volta per tutte, all'incubo della sopraffazione ideologica. E così abbiamo già ucciso, col cuore, individui, nazioni e continenti. Se è nostra convinzione che delinquenza e rivoluzione armata sono il
frutto necessario di una società ingiusta, perché non ci applichiamo a rendere più giusta la società?
Purtroppo sappiamo - di sapere istintuale - che una società giusta implica la caduta del privilegio di
molti “singoli”; ma il privilegio è connaturato agli ideali di espansione della propria “singolarità”...
dunque meglio vivere col timore di essere uccisi che accettare di essere giusti e uguali. La pena di
morte esce così dalle istituzioni giuridiche ed entra nel fatti, e poiché le istituzioni tendono all'ordine prima che alla giustizia, v'è sempre qualcuno che la decreta ai danni dell'altro (144). Se la libertà
non ammette controlli sociali per noi, non li ammette neanche per coloro cui non piace la nostra
maniera di praticarla. E allora non ci restano che due alternative o mettiamo le carte in tavola con
estrema lealtà “sociale” o aumentiamo il contingente di polizia, ferma restando l'accettazione fatalistica del ritornello del Tonio manzoniano “a chi la tocca la tocca”. La pena di morte, sia pure presentata come diritto alla difesa, fa comodo alle dittature e alle società chiuse ed ingiuste. Ed è altresì
vero che il “delinquente” fa calcoli su di una legislazione che ha abolito la pena di morte, ma non,
per esempio, la disoccupazione. Il pluralismo giova sempre alla minoranza: al capitalista in tempo
di bonaccia, al rivoluzionario durante le crisi sociali e politiche. Nell'orto ben coltivato non fiorisce
mai la gramigna ma perché esiste l'assistenza pedagogica della prevenzione. Nell'orto mal coltivato,
invece, l'unica erba che ha un vero interesse a predicare il pluralismo è la gramigna. Quando anche
la buona verdura è costretta a invocare il pluralismo vuol dire che la gramigna è già maggioranza e
che la maggioranza può stabilire, di diritto e di fatto, l'etica dell'orto (145).
Ma una società ingiusta, anche se abolisce la pena di morte per mostrarsi civile, o uccide o è uccisa. In altre parole: la società, da un lato non vuole iscrivere nel proprio codice la pena di morte, per
sembrare evoluta; dall'altro lato incentiva l'assassinio e la rapina perché non è capace di promuovere
la giustizia sociale o, quanto meno, di colpire severamente il “latrocinio sociale”. Esistono degli intellettuali “progressisti” che sono contro la pena di morte, ma non contro l'etica dei delinquenti. Essi
ammettono tutte le libertà, ma dimenticano che liberi si diventa per il tramite dell'educazione. E
quando sono costretti a constatare che la libertà non educata insidia anche la libertà “progressista”
non esitano a invocare la pena di morte.
Chi è contro la pena di morte - non per motivazione cristiana - (146) si assuma le conseguenze
della propria scelta: riceva in dotazione il “delinquente” e lo educhi comunque al suo tipo di società.
Bisogna uscire con chiarezza dalla propria tenda ideologica e mostrare, con i fatti, la fodera del proprio ethos. Nulla di più squallido della figura del poliziotto che è stipendiato - secondo la legge
della piramide capitalistica o clientelare - per difendere i “delinquenti” dello statu quo dai
“delinquenti” ostili allo statu quo. Per controllare, infatti, il latrocinio giuridico esiste un nugolo
sempre più folto di poliziotti, ma chi la fa guardia contro il latrocinio sociale? Per quanto attiene
alla popolazione carceraria bisognerebbe accertarne l'appartenenza religiosa o ideologica e a quelle
fonti etiche affidare, per legge, il riscatto educativo e sociale dei singoli “delinquenti”, dopo aver
ottenuto da quelle fonti la descrizione unitaria della mappa dei “peccati” sociali (147).
Note
143) La moltiplicazione della specie, per es., si presenta come un istinto prima che come una indicazione finalistica. Ma l'educazione non è istintuale perché esige attenzione, sforzo e rinunce.
E alle rinunce siamo disposti nella misura in cui esse contribuiscono a prolungare il proprio lo
nella prole. Si vuol dire che la madre e il padre sono abbastanza disposti a porgere un certo
volume di attenzione al bambino, ma che non hanno disponibilità naturale sufficiente ad afferrare le mani dell'adolescente che vive la cosidetta “esperienza del trapezio”. L'istinto di riproduzione o l'esercizio del sesso tout court, sommerge, dunque, l'impegno educativo. E poiché
uomini non si nasce ma si diventa a colpi di educazione, l'incremento dell'homo homini lupus
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è un rischio costante per l'umanità
(144) Soltanto in una società equa potrebbe giustificarsi, in teoria, la pena di morte. Ma in una eventuale società equa il violento sarebbe sempre uno squilibrato mentale, da tutti commiserato
e neutralizzato; né mai si presenterebbe col volto misterioso della nemesi sociale.
(145) Ciò spiega perché Cristo abbia istituito una eccklesìa fondata sulla conversione (o fede) e non,
per es., una religione di Stato.
(146) La motivazione cristiana è essenzialmente pedagogica e salvifica, e riguarda sia il
“delinquente” sia l'ambiente di cui il delinquente è prodotto.
(147) L'istituzione recente del “Quartiere”, intesa come concretizzazione del divide et impera contro
la delinquenza giuridica e contro la delinquenza sociale, è certamente una istituzione di altissimo valore pedagogico, specie se opererà in sede preventiva. Ma chi teme il controllo sociale
non vuole che il “Quartiere » diventi uno strumento operativo e dice che potrebbe esasperare
la tensione sociale e lo scontro politico. Eppure una sana democrazia ha qui l'antidoto per ogni
specie di crimine, ammesso che i criminali “sociali” siano una minoranza neutralizzabile.
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Capitolo 15
Le Weltanschauungen occulte
In genere la pena di morte è sostenuta dai timidi e dai disimpegnati socialmente. Perché? Costoro non hanno il coraggio civile di richiamare il prossimo che commette piccole o grosse - ma evidenti - infrazioni “sociali”. “Non sta a me - dicono - fare il carabiniere” e tutto minimizzano per
apparire “evoluti” e “tolleranti”. Ma poi, quando odono le conseguenze di una libertà cui essi non
hanno sollevato obiezione, neanche in sede di coscienza, si infiammano e chiedono che venga ripristinata la pena di morte sul piano giuridico perché così, essi, ancora una volta, vogliono colpire senza sporcarsi le mani. La pena di morte denota che una classe si difende, l'abolizione della pena di
morte denota che una classe vuol arrivare al potere senza rischio (148). Il nervosismo contro i
“criminali” crea la richiesta della pena di morte; il nervosismo contro le sperequazioni sociali, di cui
sono causa i teneri di cuore, crea il “crimine” (149). Il dibattito sull'origine e sulla motivazione della
delinquenza trova schierate, di solito, due visioni del mondo che non vengono mai totalmente esplicitate. La prima potrebbe essere così riassunta: “Gli individui sono colpevoli, dunque la società deve difendersi facendo uso del metodo repressivo”. La seconda, invece, in quest'altro modo: “La società è colpevole perché emargina l'individuo e lo costringe al crimine, occorre dunque cambiare le
strutture per il tramite del metodo preventivo”. Le due visioni del mondo sono totalitarie comunque.
La prima toglie la libertà agli individui “deviati”, la seconda toglie la libertà a tutta la società per
raddrizzare gli individui. Laddove queste visioni del mondo vengono attuate decrescono i delinquenti comuni, ma crescono i delinquenti sociali e politici.
Le indignazioni equivoche
Perché l'opinione pubblica sì indigna contro gli atti dinamitardi in cui perdono la vita gli
“innocenti”? Perché non potendo colpire una delinquenza sociale che non si vede, riversa tutto il
suo furore sulla delinquenza che si vede. In ciò favorisce lo statu quo. La polizia, infatti, è assai più
abile e pronta nel rintracciare i delinquenti comuni che nell'ammanettare i delinquenti sociali.
Quando, accadono fatti di sangue si operano sondaggi per sapere chi è, o non, favorevole alla pena
di morte. Strano paradosso! ma la pena di morte è sempre in atto - ora è praticata dai delinquenti sociali e ora dai delinquenti comuni - perché aggiungerne una terza “legale” o “giuridica”? Chi vuole
la pena di morte per gli altri è forse un delinquente che non vuole concorrenti? Conviene darsi da
fare, invece, per prevenire, il più a monte possibile, la già esistente pena di morte e riflettere senza
sosta sul perché qualcuno uccide il prossimo ora utilizzando il giure e ora la rivoltella. Non volendo
fare un esame di coscienza sui nostri veri mali proponiamo false alternative, nel vano tentativo di
liberarci da un fastidio insopportabile. Gesù direbbe: “I delinquenti li avrete sempre tra voi perché
siete dei superdelinquenti!”.
E’ orrida la nostra etica laddove ci costringe a sublimare i gesti dei patrioti e a decorare il carabiniere che perde o rischia la vita nell'esercizio del proprio do- vere. Si tratta di glorificazioni che vegetano sulle nostre miserie. Originiamo i delinquenti con una educazione sociale tutta grondante
profitto e meritocrazia e poi decoriamo le vittime di quei delinquenti che noi stessi abbiamo fabbricato. Se i carabinieri uccidono per errore o per determinazione discutiamo con zelo sulla opportunità di lasciar loro la rivoltella. Se non arrestano la mano omicida o rapace si polemizza sulla loro
inefficienza. Perché questo strano groviglio di senti- menti espresso con logica “politica”? Perché
ognuno di noi - essendo delinquente nel subconscio - vede nel carabiniere, volta a volta, il simbolo
delle proprie inibizioni o delle proprie aspirazioni alla giustizia. Da un lato non possiamo non de51
precare la delinquenza (quella altrui) e dall'altro lato vorremmo essere impunemente delinquenti, e
cioè liberi di fare tutto ciò che vogliamo.
Guerra di nervi tra porci e lupi
Bisogna dire che la delinquenza si è messa al passo con l'epoca, perché è su misura delle proprie
vittime. Una volta si uccideva la persona per aver danaro (o la borsa o la vita), adesso per ottenere
lo stesso scopo la si sequestra soltanto. Chi è interessato al miele deve avere un certo rispetto per
l'ape, specie,quando l'ape fa parte di un favo o di un'arnia. Ci sembra di vedere l'uomo niciano che
affoga nello sterco di Dioniso! Occorre insistere sul fatto che la categoria dei “sequestrati” (la delinquenza vede meglio del fisco!) è, in genere, insensibile alla lezione della nuova delinquenza e,
anziché riflettere sul puzzo che emana dalla espansione “sociale” del proprio lo, preferisce aumentare il proprio profitto per stipendiare la guardia del corpo. Quando l'io si trova tanto bene in questo
mondo diventa adorabile a tal punto che, per evitargli l'impatto con la morte, conviene lasciar cadere i cuscini di banconote di provenienza criminosa. La delinquenza conosce il debole della delinquenza! Una società che sopporta la delinquenza, nelle due facce della medaglia di sequestranti e
sequestrati, è socialmente putrida perché ha nel suo seno il male segreto dello sfruttamento classista: cancro di cui vuol tacere e morire, ma non guarire. Vorrebbe, una tale società, ripristinare la pena di morte nella speranza di trovare un attimo di refrigerio alle proprie ansie “sociali”, ma teme di
apparire reazionaria e intanto, poiché nessuno vuol morire eroicamente per svuotare l'incentivo del
sequestro o rinunciare alle proprie provocanti ricchezze per renderlo improgettabile, assistiamo alla
guerra dei nervi fra porci che vogliono morir di vecchiaia e lupi che vogliono aver parte al banchetto dei porci. C'è di più. La tecnica del rapimento, a scopo di lucro, è la risposta a quanti sostengono che essere ricco dipende dall'essere intelligente e intraprendente e a,quanti sostengono, di riflesso, che un onesto lavoratore è un cretino e un buono a nulla perché non riuscirà mai a uscire dal
circolo chiuso della dipendenza salariale. Se è vero che lavoratore salariato è sinonimo di ,nulla
fantasia imprenditoriale, ecco la secca smentita dei fatti. Qualcuno è in grado c'ú dimostrare che i
miliardi si possono far fluire, con la rapidità del torrente, dalle casse degli snobbatori dei cretini nelle tasche dei cretini stessi (150). Qualcuno, accanto alle nuove etiche sessuali - peraltro coltivate
con passione dalla classe dei sequestrati -, ha anche pronta una nuova etica sociale. Il corpo sociale
- dice - è, come la natura, disseminata di giacimenti auriferi e diamantiferi, li preleva il più intraprendente. Perché rispettare, in questo campo, una moralità che non viene rispettata in nessun altro
settore della vita sociale?
L'etica cristiana e la metànoía
Come può accordarsi una eventuale “etica cristiana” con questa dialettica di egoismi, se gli egoismi non si annullano nella metà-noia? La scelta della pena di morte è, dunque, in posizione contraddittoria rispetto al messaggio di Cristo; il quale prevede, come punto di partenza, una conversione accompagnata dal perdono dei “peccati”. Gesù Cristo, proprio perché non si muove sul piano
giuridico ma sul piano dell'assolutezza coscienziale, non perdona mai né per amicizia, né per interesse, né per politica. Egli perdona solo in seguito o in rapporto alla conversione. Una morale cristiana che decampasse da questo schema andrebbe in- contro a pericolosi inconveniente esistenziali,
perché finirebbe per predicare amore e rispetto al prossimo anche se quest'ultimo fa uso del sopruso, dello sfruttamento, della violenza. Ma una società che non vuole assumersi il peso dell'educazione né prima né dopo l'emergenza del delitto, perché si vergogna di credere nel peccato, sarà
sempre sporca di sangue criminoso sia quando sceglie la pena di morte per “difendersi” da se stessa,
sia quando la rifiuta per “celebrare” se stessa. In ogni caso essa disdegna di voler conoscere perché
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è costretta a bilanciarsi, senza sosta, fra permissivismo e repressione. Qualcuno dice: “Per noi cristiani la pena di morte è un ritorno al paganesimo e una repulsa del Discorso della Montagna”. L'equivoco è nato quando e perché l'intellighentia cristiana ha voluto istituzionalizzare la novità evangelica nel “sociale”, nel “politico”, nel “giuridico”, proprio laddove nessuno al mondo potrà mai istituzionalizzarla senza toglierle la sua specificità rivoluzionaria, e cioè il richiamo costante alla
conversione. Non si può, infatti, invocare la carità di Cristo all'interno di uno Stato o di una società
che la ignorano nei rapporti primari del loro stesso essere. La carità di Cristo si muove a livello di
continua conversione e non può essere invocata, come un elemento, vagamente umanistico o religioso, staccato dalla totalità del discorso salvifico. Quando Cristo incontra il “criminale storico”, lo
riconsidera dal suo punto di vista di “salvatore” e a quel livello ne tenta il ricupero. Ma poiché attorno a questo criminale ve ne sono altri che non si considerano tali, anche se sono della stessa famiglia, Cristo non può diventare il cappellano di alcun sistema (151). La visione cristiana,del mondo - lo ripetiamo - passa attraverso la metànoia di più singoli e può esplodere solo in una eccklesìa,
liberamente assunta, in cui si risolvono, secondo la dinamica dell'agàpe (perequazione totale dei
salari) i rapporti socio-economici fra credenti,(152).
Note
(148) Fanno eccezione alcune anime belle e quei teneri di cuore che hanno scrupolo a uccidere una
gallina, ma non a firmare giochi di borsa e contratti di sfruttamento.
(149) Il cattolico medio che ha orrore religioso della violenza, si contorce alla notizia dell'uccisione
dell'innocente e invoca l'intervento di Dio; ma poi si confessa di aver odiato, in cuor suo, l'assassino o gli assassini. Non gli conviene forse portare la sua riflessione - e proprio in quanto
credente - sul perché tutto ciò accade? Gli accadrà proprio di constatare, o di scoprire, che
quella uccisione è solo un capitolo di altre uccisioni nascoste ai suoi occhi ma non alla sua Fede, se è vero che la Fede insegna a vedere delinquenza e sopruso laddove il mondo vede soltanto legalità e giusto guadagno. Se il cattolico ha orrore del “peccato”, lo detesti sempre e ovunque esso è. Del resto il suo orrore rischia di sviare l'attenzione dall'altra delinquenza e sarebbe una battaglia perduta contro Satana, il padre del peccato.
(150) Non si dimentichi tuttavia che il sequestro è una “invenzione” utilizzata anche dai rivoluzionari e dalla borghesia, per motivi ideologici diversi ma per gli stessi motivi edonistici.
(151) Nell'etica di Gesù sono “delinquenti” allo stesso titolo, sia il ladro, sia l'acquirente, sia il venditore di certi “gioielli” perché in nome della materia, e at- tomo alla materia, sconsacrano
l'interiorità e la socialità dell'uomo. Avere un boia nelle istituzioni giuridiche fa vergogna, averne una legione nelle istituzioni sociali fa necessità e moda insieme. La ferocia sociale non
lascia tracce scritte sui codici così come il volo dello sparviero che ghermisce il passero non
lascia tracce nel cielo. Ma sui codici appare la pena di morte e l'uomo della nostra epoca vuol
dare una immagine “civile” di sé ai posteri.
(152) E ciò non per separarsi dagli altri, ma per mostrare agli altri, mediante un modello-brevetto,
come si sconfigge, nella pratica, la lotta di classe.
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Capitolo 16
Cristo non fa da giudice
Cristo, dunque non può mai essere implicato in prima persona in alcuna legislazione “storica”
perché tende a trascenderle tutte nella Eccklesìa da lui ipotizzata. Ma se la Chiesa storica deve ridiscutere - nei suoi testi di morale - il problema della pena di morte ciò significa che essa si è trasformata in una società religiosa, dentro o accanto allo stato, tutta impegnata a trovare la maniera di far
convivere - barcamenandosi tra tutiorismo e lassismo - la delinquenza giuridica con la delinquenza
sociale. Ma chi - utilizzando il messaggio di Cristo - vuol ricavare qualche interesse temporale dal
mestiere di mediatore identifica irreparabilmente la verità con la storia. Il Messaggio, infatti, prima
che di moralità parla di rinascita spirituale. E Cristo non si è mai prestato a far da giudice moralista
fra due delinquenza (neanche nel caso dei due fratelli!) perché egli tende a trasformare le due delinquenza in due rinascite spirituali. Fra i prodotti dell'arte impegnata contemporanea, troviamo titoli
come questo: “La fine dell'individualista”. In genere la scena rappresenta un uomo (l'individualista)
appeso a un capestro e circondato da una folla tripudiante che tiene alti, attaccati a un filo, i palloncini delle fiere paesane. La morale sociale di Cristo conosce solo la parabola del “prodigo”. Il risultato più alto della sua pedagogia - la vera festa - è la conversione mai la soppressione.
Il Clítofonte e il disimpegno educativo
Nel più breve dei suoi dialoghi - il Clitofonte - Platone ritorna, a mo' di raptus, sul tema del bene e
del, male rapportato alla libertà umana. Un'anima retta, se riuscirà a conoscere quali siano le sue
cattive e buone qualità, eserciterà e coltiverà le seconde e fuggirà le prime. Ma dove sono le anime
rette? Per bocca di Socrate arriva, allora, la puntualizzazione di tutto il dramma sociale: 1) gli uomini non fanno nulla di quanto dovrebbero fare; 2) tutto il loro zelo è posto nel procurarsi danaro,
né si curano di sapere se i figli sapranno usarlo giustamente dopo averlo ereditato; 3) non esistono
maestri che insegnino ai figli la giustizia, sempre che, si possa insegnare, né maestri che la facciano
esercitare e praticare (se è praticabile). Vè di peggio: gli stessi genitori non si sono coltivati su questo tema. La cultura, per essi e per i figli, si riduce a saper leggere e scrivere, a far musica e ginnastica e credono che in ciò consista la perfetta educazione alla virtù. Quando però si tratta di usar la
ricchezza, ahimé, non si scorge miglioramento alcuno. E tutto questo andazzo non è sufficiente a
dichiarare scandaloso, tutto l'odierno sistema educativo? Il nodo del- l'educazione non è nella imperfezione didattica - per esempio nel fallire una battuta quando si suona la lira - ma nel conflitto
sociale e politico; nel fatto, per esempio, che fratello assalga fratello e che Stati aggrediscano Stati.
Breve: la violenza fra individui e fra Stati è dovuta a una carenza educativa di livello sociale. A
questo punto la tesi del disimpegno pedagogico replica: “Gli ingiusti sono ingiusti non per deficente
educazione, o per ignoranza, ma deliberatamente”.
La società (educante!) scarica le responsabilità sugli individui usciti dal suo seno! Ma poi, una
tale società, contraddicendosi, dice anche: “l'ingiusta è una turpe cosa e invisa agli dèi”, Resta però
un duro interrogativo: “Come potrebbe uno scegliere deliberatamente un simile male?”. In altre parole: come potrebbe uno scegliere ciò che è turpe e inviso agli dèi? (153). La risposta del disimpegno infantile: “Così si comporta chiunque non sappia resistere ai piaceri”. Come se la società educante non fosse lei stessa incentivo ai piaceri. “E allora - replica Socrate - non è anche questo un
fatto involontario, se vincere dipende dalla volontà?” (volontà, infatti, non ne esiste perché nessuno
la educa!). L'analisi razionale della situazione ci dice, dunque, che in ogni caso l'ingiustizia è un atto
involontario, e che a questo - al calo di volontà comune nel resistere all'ingiustizia - occorre pongano la massima attenzione sia gli individui per proprio conto, sia gli Stati tutti insieme e di comune
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accordo.
E’ necessario educare
Se ammettiamo che l'uomo nasce buono, abbiamo il compito di fare qualcosa per mantenerlo tale.
Se ammettiamo che gli uomini diventano cattivi per una carenza originariamente colpevole, abbiano
l'obbligo di fare qualcosa per evitare il loro passaggio alla cattiveria. Se ammettiamo che gli uomini
sono cattivi perché lo vogliono essere, dobbiamo ancora fare qualcosa perché la loro volontà non
voglia il male. Se ammettiamo, invece, che i cattivi sono tali per nascita e incolpevolmente, come si
addice al “monstrum naturae”, allora abbiamo il dovere di controllare scientificamente i matrimoni
perché non avvenga un “falso” incontro di cromosomi. In tutto le ipotesi siamo chiamati a un costante impegno pedagogico. Dove e quando - per un qualsiasi motivo - questo impegno si attenua o
si estingue, dobbiamo vivere con l'animo diviso fra la tentazione di restaurare la pena di morte o il
timore di essere sommersi dalla violenza.
La tragica ironia manzoniana
Durante il pranzo che precede il colloquio burrascoso di padre Cristoforo con don Rodrigo, il
dottor Azzecca-garbugli aveva rilanciato la conversazione, buttando fuori, a caso, la parola
“carestia”. “Non c'è carestia - diceva uno -, sono gli incettatori”. “E i fornai - diceva un altro -, che
nascondono il grano, impiccarli”. “Appunto impiccarli senza misericordia”. “De' buoni processi”,
gridava il Podestà. “Che processi? - gridava più forte il conte Attilio - giustizia sommaria. Pigliarne
tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, sono conosciuti come i più ricchi ed i
più cani, e impiccarli”. “Esempi, esempi! senza esempi non si fa nulla”. “Impiccarli! impiccarli!; e
salterà fuori grano da tutte le parti”. Alessandro Manzoni, dopo aver paragonato l'accavallarsi di
quelle chiacchiere al rumore di una fiera e i loro autori a dei cantambanchi, osserva, con tragica ironia, che solo due parole si udivano più sonore e frequenti: ambrosia, e impiccarli. A suo giudizio
la richiesta della pena di morte è frutto di ubriachezza fisica e mentale perché coloro che la richiedono sono esattamente coloro che ne sono più degni.
Note
(153) Pur restando problematica la tesi platonica del male come ignoranza, resta vero che se non si
è convinti che una prassi è cattiva difficilmente la si abbandona. Il cristiano, infatti, è originato
dalla metànoia (o cambiamento di mentalità) e cioè dalla libera ammissione coscienziale che
questa azione è peccato, vale a dire cancerogena per il proprio io e per il corpo sociale.
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