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Un “modo di essere” dell`operatore sanitario nella

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Un “modo di essere” dell`operatore sanitario nella
Un “modo di essere” dell’operatore sanitario
nella relazione con i pazienti
Pubblicato su: Da Persona a Persona. Rivista di studi rogersiani. Giugno 2011.
Dr. Franco Perino1
Gli operatori sanitari si trovano oggigiorno a lavorare tra mille difficoltà dovute a carenza di
organico, scarsità di risorse, mutato rapporto coi pazienti (Perino, 2002). C’è inoltre una notevole
amplificazione di ciò che accade nel mondo sanitario da parte dei media, che non aiuta chi ci
lavora perché sottolinea quasi esclusivamente aspetti negativi (scandali, malasanità…) o eclatanti
(terapie ultrainnovative, interventi chirurgici molto complessi…). La buona sanità, fatta da migliaia
di operatori che quotidianamente svolgono con serietà, impegno e professionalità il proprio lavoro
è troppo “normale” per fare notizia.
Nonostante il diffuso senso di insoddisfazione che spesso riferiscono, ho comunque l’impressione
che la maggior parte degli operatori ami ancora il proprio lavoro e cerchi di svolgerlo con passione.
Questa almeno è l’idea che ho dopo tanti anni di lavoro in ospedale e di attività formativa in ambito
comunicativo per il personale sanitario. A volte ho addirittura l’impressione di condurre corsi di
“sopravvivenza” e forse lo sono, perché aiutare gli operatori ad essere più in contatto col proprio
vissuto, a comunicare meglio con pazienti e colleghi significa aiutarli a vivere meglio, a “resistere”
e a continuare a svolgere il proprio lavoro. Significa anche aiutarli ad acquisire maggiore
consapevolezza delle proprie esigenze, maggiore autostima, più coraggio e determinazione nel
proporre cambiamenti organizzativi.
Per raggiungere tali obiettivi ho organizzato i corsi in modo da dare la possibilità ai partecipanti di
sviluppare le 3 condizioni individuate da Carl Rogers, necessarie e sufficienti per instaurare una
efficace relazione di aiuto. In questo articolo desidero proporre alcune riflessioni su quale impatto
esse hanno sulla relazione operatore sanitario – paziente.
EMPATIA
L’empatia è un processo che consiste nel percepire i sentimenti ed i significati personali che l’altra
persona sta sperimentando, anche quelli che si trovano appena al di sotto della superficie
cosciente, e nel comunicare questa comprensione. Nei suoi ultimi scritti Rogers l’ha definita “una
capacità intuitiva di comprensione empatica”, sottolineando l’importanza di sintonizzarsi con l’altro:
“il nucleo interiore di me si relaziona al nucleo interiore dell’altra persona e capisco meglio di
quanto non faccia la mia mente, meglio di quanto non faccia il mio cervello.” (Rogers, 2002,
trad. it. pp. 317).
Empatia significa assumere il suo punto di vista, “mettersi nei suoi panni”, comprendere i suoi
vissuti: questi concetti sono alla base della medicina centrata sulla persona (Zucconi, 2003).
Nella pratica clinica spesso gli operatori sanitari si focalizzano solo sui sintomi fisici che i pazienti
presentano (febbre, dolore, astenia, vertigini ecc.). Se invece prendono in considerazione anche le
numerose emozioni che questi ultimi provano (paura, preoccupazione, tristezza, impotenza,
speranza, incertezza…) li potranno aiutare a diventarne più consapevoli e ad elaborarle, con
conseguenti migliori outcomes clinici e più efficace coping rispetto alla malattia (Benedetti, 2011,
pp. 79-80; Delle Fave, 2007, pp. 46-51).
Le emozioni infatti sono strettamente correlate alla salute:
a) hanno effetti fisiologici diretti su sistema cardiovascolare, respiratorio, gastroenterico,
immunitario ecc.,
b) influenzano la selezione, memorizzazione e valutazione cognitiva delle informazioni, quindi la
percezione del rischio, il riconoscimento di sintomi, la ricerca di aiuto,
1
Dr. Franco Perino, medico, psicoterapeuta.
Dermatologia, Ospedale. Via. L. Böhler 5, 39100 Bolzano.
0471 909902. [email protected]
-1-
c) influenzano la mobilizzazione delle proprie risorse personali, cognitive e motivazionali,
d) per evitare emozioni spiacevoli l’individuo può ricorrere ad abuso di alcool, droghe, psicofarmaci
o a comportamenti dannosi per la salute,
e) hanno un ruolo importante per quanto riguarda la socializzazione, che è un fattore protettivo
rispetto a molte malattie.
Le emozioni sono una delle quattro aree della cosiddetta “Agenda” del paziente (Moja, 2000, pp.
53-77) e rappresentano la “chiave” per accedere alle altre 3, che sono: 1) l’interpretazione che il
paziente dà dei suoi disturbi (“la causa sarà una allergia…lo stress….”), 2) le sue aspettative (“mi
faranno fare una TAC…mi prescriveranno un antibiotico….”), 3) il suo contesto famigliare, sociale
e lavorativo.
Solo esplorando l’agenda del paziente, l’operatore può instaurare una vera alleanza terapeutica e
fornire una assistenza globale, che tenga conto delle sua dimensione bio-psico-sociale.
Ascoltare senza giudicare
Ascoltare con empatia richiede il superamento dei pregiudizi, della naturale tendenza a giudicare,
valutare, approvare o disapprovare ciò che l’altro dice, soprattutto quando esprime forti emozioni
(Rogers, 1988).
Il medico, in particolare, ascolta il racconto dei disturbi del paziente, li interpreta, li organizza in
base alla propria visione di salute e malattia e seguendo un proprio schema mentale (la propria
“agenda”) cerca di arrivare nel più breve tempo possibile ad una diagnosi. Nella maggior parte dei
casi non lascia parlare il paziente per più di 18 secondi consecutivi; interrompe e pone domande
per confermare l’ipotesi diagnostica che ha già formulato dopo sue le prime parole. Questa
“rapidità” può essere dovuta alla esigenza di dover fare molte prestazioni in breve tempo, ma
probabilmente anche alla sua scarsa propensione a dare spazio a ciò che non riguarda
strettamente gli aspetti organici della malattia. In realtà se il paziente non viene interrotto parla al
massimo per 2-3 minuti ed aggiunge molte informazioni utili riguardo la sua “agenda”.
Il suo racconto comprende spesso moltissimi elementi, che il medico interrompendo e
ponendo domande non riuscirebbe a raccogliere. Racconta ad esempio di disturbi precedenti
che possono essere correlati a quelli attuali, di tentativi terapeutici che non sono serviti, di
allergie a farmaci, dell’ambiente sociale in cui vive, dell’attività lavorativa, delle sue
aspettative ecc.
Empatia ed autoesplorazione
L’empatia secondo Rogers “è correlata coi movimenti di autoesplorazione ed elaborazione” da
parte del cliente (Rogers, 1980, trad. it. pp. 126, 133-5).
In molte situazioni gli operatori devono aiutare il paziente ed i suoi famigliari a prendere decisioni
importanti, come sottoporsi ad un intervento chirurgico rischioso o demolitivo, iniziare una
chemioterapia con importanti effetti collaterali, eseguire indagini invasive, ecc.
In tutti questi casi le persone possono esprimere il loro assenso (consenso informato) se hanno
ricevuto informazioni chiare e dettagliate ma anche se sono state accompagnate ad esplorare gli
aspetti emozionali, oltre che razionali, della decisione: dubbi, paure, speranze….
Alcune malattie (neoplasie, infarto miocardico, ictus, sclerosi multipla ecc.) hanno un impatto
profondo sulla vita delle persone, che devono riorganizzare radicalmente le proprie abitudini, le
relazioni, l’attività lavorativa, devono rivedere la propria scala di valori e cercare nuovo significato
nella propria esistenza (Gordon, 1995, pp. 167-178; Bonino, 2006, pp. 26-30).
I pazienti talvolta chiedono di poter condividere anche aspetti della propria spiritualità (Perino,
2002; Perino, 2003), lanciando dei messaggi che non sempre gli operatori sanitari riescono a
decodificare correttamente:
“Ma devo proprio prendere tutte queste medicine? Ormai sono vecchio….”
“Dottore, vedrò crescere i miei figli?”
Gli operatori inoltre ascoltando con empatia possono aiutare i pazienti a riflettere sui propri stili di
vita e sullo stress: due elementi oggigiorno all’origine di moltissime malattie (Zucconi, 2003).
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Empatia e sostegno
L’empatia permette di creare relazioni caratterizzate da partecipazione, calore e vicinanza, che
sono di grande sostegno al paziente ed ai suoi famigliari nei momenti di particolare difficoltà.
Non è raro che appresa la diagnosi di una malattia a prognosi infausta, ad esempio, il paziente
scoppi a piangere. Dare rassicurazioni, minimizzare, sviare il discorso sono barriere comunicative
che quasi sempre hanno effetto controproducente. Spesso è meglio parlare poco e ascoltare,
comunicando con l’espressione degli occhi e del viso, con un gesto o alcune parole partecipazione
e disponibilità, lasciando così la possibilità al paziente di condividere la propria sofferenza.
Secondo un antico aforisma cinese:
Se basta una parola, non fare un discorso.
Se basta un gesto, non dire una parola.
Se basta uno sguardo, evita il gesto.
Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo.
La malattia, il dolore cronico in particolare, possono creare solitudine, separare l’individuo dagli
altri.
I pazienti talvolta vengono isolati fisicamente a causa della loro malattia, come nei reparti di
rianimazione, ematologia, unità coronarica ecc. In tutti questi casi ogni momento di contatto con
l’operatore ha una valenza importantissima per diminuire il senso di solitudine. Così anche mettere
una flebo, portare il vassoio col cibo, rifare il letto, possono diventare momenti significativi di
contatto umano.
L’empatia “riconnette” l’individuo agli altri esseri umani, “dissolve l’alienazione “(Rogers, 1980, trad.
it. pp. 130).
L’empatia favorisce inoltre il “raccontarsi” del paziente, promuove la condivisione di forti emozioni,
costituisce una sorta di catarsi costruttiva (Gordon, 1995, pp. 61).
Informare con empatia
Le informazioni che gli operatori sanitari danno, hanno talvolta un notevole impatto emotivo su
pazienti e famigliari, che rende loro difficile o impossibile comprendere cognitivamente ciò che
viene detto. Non è raro che usciti dal colloquio col medico, ad esempio, non ricordino nulla di ciò
che è stato detto, talvolta neanche l’aspetto fisico del loro interlocutore.
Se l’operatore si sintonizza emotivamente con il paziente e “legge” le sue reazioni verbali e non
verbali, ha la possibilità di “dosare” le informazioni, scegliere il linguaggio più adatto, verificare ciò
che l’altro ha compreso, riassumere ed eventualmente riprendere il discorso in un successivo
incontro, in modo da lasciare tempo alla comprensione ed alla elaborazione. Questo modo di
procedere viene adottato ad esempio nei progetti di educazione terapeutica, nei quali, in incontri
successivi, si insegna a pazienti e famigliari, come gestire una malattia cronica quale diabete
mellito, asma, malattia reumatica, eczema atopico ecc.
L’empatia è importante anche quando si deve comunicare la diagnosi di una malattia con impatto
importante sulla vita (neoplasia, malattia genetica ecc.). Dal punto di vista legale il medico ha il
dovere di dire la verità al paziente, anche se i famigliari non vogliono. Non di rado però il paziente
stesso non vuole sapere o non vuole sapere “tutto” e questo è un suo diritto: se non ha le risorse
per affrontare una situazione grave, può essere più funzionale (almeno temporaneamente) una
strategia di coping basata sulla negazione (Buckman, 1992, trad. it. pp. 75). Per questo il medico
dovrebbe essere sempre in contatto empatico col paziente e valutare momento per momento
quanto desideri sapere. Si può anche chiedere esplicitamente se vuole conoscere l’esito di un
esame o se preferisce che venga comunicato a qualche altro familiare (Buckman, 1992, trad. it.
pp. 7-11).
Empatia e giusta distanza emotiva
L’operatore deve essere abbastanza sicuro di sé stesso e non temere di perdersi quando entra nel
mondo dell’altro (Rogers, 1980, trad. it. pp. 123). Deve restare in contatto con le proprie emozioni,
in modo da poter continuamente monitorare l’entità del proprio coinvolgimento. Lavorando con
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persone sofferenti esiste infatti il rischio concreto di perdere la “giusta distanza” e di coinvolgersi
eccessivamente o di essere troppo distaccati (freddezza, cinismo…), con il rischio di entrare in
burnout. La consapevolezza invece aiuta l’operatore a correre ai ripari e a ritrovare il giusto
equilibrio.
Empatia ed empowerment
Con l’empatia l’operatore sanitario entra nel mondo del paziente, vede le cose dal suo punto di
vista e può, dandogli fiducia, valorizzare le sue risorse. Anziché assumersi la responsabilità totale
della sua salute potrà promuoverla coinvolgendolo, aiutandolo a prendersi cura di sé e a mettere in
atto le strategie più utili per stare meglio (Zucconi, 2003).
Effetto dell’empatia sugli operatori
Un aspetto forse trascurato è che le relazioni empatiche fanno bene non solo agli utenti ma anche
agli operatori (Larson, 1993, trad. it. pp. 42-46). Chi sceglie il mestiere di helper cerca di soddisfare
il proprio bisogno di aiutare e questo lo può fare sia grazie alle proprie competenze tecniche sia,
soprattutto, a quelle relazionali.
Offrire una relazione caratterizzata da empatia aumenta il grado di soddisfazione per il proprio
lavoro (Larson, 2005).
L’ascolto empatico rappresenta anche uno strumento utile per “disinnescare” forti emozioni di
rabbia ed aggressività da parte del paziente, che spesso mettono in difficoltà gli operatori. Tali
emozioni sono di solito collegate alla sensazione più profonda di non sentirsi rispettato.
La rabbia è una frequente risposta emotiva alla malattia, la quale può costituire una minaccia,
reale o simbolica, alla persona, alla sua autostima ed alla sua dignità (Goleman, 1995, trad. it. pp.
84).
I pazienti la possono provare in caso di diagnosi di neoplasia (Buckman, 1992), in caso di
handicap fisico dopo un incidente, un ictus, un intervento chirurgico ecc.
Comprendere questo permette all’operatore di poter mantenere una certa distanza emotiva, di non
farsi coinvolgere troppo e non vivere le espressioni aggressive del paziente (o dei famigliari) come
un attacco personale.
Prevenzione delle denunce per malpractice. Una relazione medico paziente basata su empatia
e partecipazione reciproca è un forte deterrente contro le denunce per malpractice (Anfossi, 2008,
pp. 24; Gordon, 1995, pp. 67-68) che nascono più da difetti di comunicazione che da errori di
diagnosi e terapia.
Comunicare l’empatia
L’empatia per essere efficace deve poter essere percepita dall’interlocutore. Non è una tecnica da
utilizzare ma un processo, un modo di “essere in relazione con il cliente” (Mearns, 1999, trad. it.
pp. 56), che si può esprimere in molti modi, in particolare con il linguaggio non-verbale: contatto
fisico, sguardo, posizione e movimenti del corpo, tono di voce (Schmid, 2007). Pertanto ogni
azione può essere fatta con empatia: misurare la pressione, fare un prelievo, visitare, accogliere la
persona in ambulatorio, aiutare un anziano a vestirsi ecc.
Gli ambienti stessi possono essere strutturati in modo tale da mettere a proprio agio l’utente: locali
accoglienti, angolo giochi per i bambini, assenza di barriere architettoniche ecc.
Il paziente di solito non esprime esplicitamente ciò che prova ma utilizza un codice, verbale e nonverbale, che l’ascoltatore deve poi decodificare.
Ad esempio: si isola, diventa taciturno, usa un linguaggio ironico, aggressivo, non mangia il
cibo che gli viene portato, trascura la cura del corpo, arriva tardi agli appuntamenti ecc.
Uno strumento utilissimo è allora l’ascolto empatico o “attivo” (Rogers, 1987), che consiste
nell’ascoltare con attenzione ciò che il paziente comunica, decodificarne il messaggio e rinviare il
risultato della decodifica per verificarne l’esattezza (rimando empatico).
Il cliente ha la possibilità di correggere il feedback dell’ascoltatore. Nasce e si sviluppa così un
processo di influenzamento reciproco, come una danza, in cui si crea una relazione che pian piano
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si approfondisce. Il cliente si sente valorizzato, accompagnato con delicatezza e, in un clima di
sicurezza psicologica, può esplorare il proprio vissuto.
Secondo Rogers ogni messaggio ha due componenti, entrambe importanti perché gli danno
significato: il contenuto (aspetto cognitivo) e le emozioni o attitudini che sottostanno a questo
contenuto. Il terapista è più efficace quando risponde ad entrambe (Rogers, 2002, trad. it. pp. 318).
E’ perciò il significato complessivo del messaggio che va compreso (Rogers, 1987).
Recentissimi studi di neuroscienze hanno scoperto che nel caso dell’empatia emozionale (“sento
ciò che senti tu”) si attivano circuiti neuronali diversi da quelli che si attivano nell’empatia cognitiva
(“comprendo ciò che provi”) (Benedetti, 2011, pp 156-162).
CONSIDERAZIONE (ACCETTAZIONE) POSITIVA INCONDIZIONATA
Questa condizione si riferisce all’accogliere l’altro per quello che è riconoscendogli il diritto di
vivere la vita in base ai suoi valori, senza giudicarlo ma anzi accettandolo incondizionatamente,
valorizzandolo, credendo nelle sue potenzialità (Lietaer, 2001a).
E’ un atteggiamento di apertura e rispetto verso chi è diverso da noi, per colore della pelle, etnia,
religione, orientamenti sessuali, stili di vita ecc. Coltivarlo permette all’operatore di potersi centrare
realmente sulla persona e di entrare nel suo mondo senza giudicare. Questo è particolarmente
importante in una società sempre più multiculturale come la nostra.
Autoesplorazione
Nella relazione la considerazione positiva incondizionata favorisce l’autoesplorazione e il
cambiamento. L’assenza di giudizio (e la comprensione empatica) crea un clima facilitante che
permette all’interlocutore di esprimere più liberamente aspetti di sé o affrontare tematiche
imbarazzanti come omosessualità, violenze subite, abuso di farmaci, di alcool, malattie tabù quali
HIV, disordini mentali ecc.
Considerazione positiva incondizionata ed etica
Accettare che gli altri abbiano una visione del mondo diversa dalla propria è diventato un tema
molto attuale in medicina. Gli operatori infatti sempre più spesso vengono confrontati con situazioni
quali eutanasia, manipolazioni genetiche, fecondazione artificiale, cellule staminali ecc. rispetto
alle quali vi sono profonde implicazioni etiche. Il diritto di ogni singolo di decidere per la propria
vita, ricorrendo a ciò che la scienza oggi mette a disposizione, può entrare in collisione con i valori
degli operatori sanitari (Marino, 2009).
Qualità di vita
Ci sono numerose malattie croniche, nelle quali gli operatori hanno il compito di accompagnare
pazienti e famigliari per molti anni, aiutandoli a raggiungere e mantenere la miglior qualità di vita
possibile.
Non è realistico considerare la salute uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale…”
perché questa è una condizione ideale ed irraggiungibile. E’ più funzionale pensare la salute come
una situazione che muta nel tempo, che oscilla lungo un continuum che va da un massimo di
sofferenza a un massimo di benessere (Bonino, 2006, pp. 9-12).
E’ un costante processo di adattamento che le persone cercano, con l’aiuto anche di chi lavora
nella sanità.
La qualità di vita riguarda diverse aree: salute fisica, salute psicologica, indipendenza, relazioni
sociali, ambiente, spiritualità, religione, credenze personali, qualità di vita generale (Delle Fave,
2007, pp. 9-13).
Solo il paziente può decidere cosa rende la sua vita degna di essere vissuta e di cosa ha bisogno
perché sia tale: se l’operatore accetta i suoi punti di vista riesce ad accompagnarlo, mettendogli a
disposizione le proprie risorse professionali ed umane, in modo da aiutarlo ad avere un coping
efficace con la sua patologia.
Considerazione positiva incondizionata e cambiamento
Quando una persona si sente accettata può esplorare i propri vissuti ed entrare in contatto con i
propri bisogni. In tale stato è più probabile che avvenga un cambiamento.
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Le relazioni caratterizzate da questa condizione sono pertanto più efficaci quando si cerca di
aiutare una persona a cambiare il proprio stile di vita (fare dieta, smettere di fumare, adottare
precauzioni durante i rapporti sessuali ecc.). L’approccio direttivo e paternalistico in cui gli
operatori agiscono il loro potere sgridando, minacciando, dando ordini ecc., crea invece facilmente
resistenze al cambiamento; non produce empowerment, ma dipendenza.
CONGRUENZA
La congruenza è uno stato del sé (Mearns, 1999, trad. it. pp. 96), chiamato anche genuinità o
autenticità, che si riferisce alla consapevolezza delle proprie emozioni. Consiste in un grado di
coerenza fra i 3 livelli dell’esperienza organismica: contatto con le percezioni sensoriali e viscerali,
consapevolezza e simbolizzazione di tali esperienze, comunicazione (Rogers, 1980, trad. it. pp.
19).
Essa ha quindi un aspetto interno (la percezione) ed uno esterno, la comunicazione verbale e non,
di se stessi, detto “trasparenza” (Lietaer, 2001b).
La congruenza è ciò che consente al terapista di entrare nel mondo del cliente senza perdersi, di
gestire le proprie aree di vulnerabilità per poter accettare incondizionatamente l’altro. Congruenza
ed accettazione sono correlate, sono le due facce della stessa apertura di base: non ci si può
aprire all’esperienza dell’altro se non ci si apre alla propria. E senza apertura non può esserci
empatia.
Consapevolezza dei propri punti di forza e di vulnerabilità
L’operatore sanitario usa “sé stesso”, la propria persona, per aiutare i pazienti in una miriade di
situazioni difficili. E’ importante quindi che conosca i propri punti di forza ed i propri punti deboli.
Spesso è un “guaritore ferito”, cioè una persona che ha fatto esperienza della sofferenza, l’ha
riconosciuta, elaborata, integrata, sviluppando maggiore sensibilità, apertura e comprensione
verso chi soffre (Brusco, 1997, pp. 85-99).
Le sue ferite sono diventate una risorsa, tuttavia ci possono essere delle tematiche che egli non ha
ancora sufficientemente elaborato, che costituiscono punti deboli, di vulnerabilità. Possono
riguardare paura della morte, lutti, bisogno di controllo, autonomia, dipendenza, timore di essere
ferito, vecchiaia ecc. (Novack, 1997). Se toccati, tali punti scatenano forti emozioni come tristezza,
rabbia, frustrazione, compassione, dolore ecc. e possono compromettere la relazione perché
l’operatore in questi casi tende a coinvolgersi eccessivamente o a essere molto distaccato: è meno
attento nell’ascolto, fa errori nella valutazione del livello emotivo, ha fretta, evita certe tematiche, si
sofferma eccessivamente su altre ecc. (Stewart, 1995, pp. 98).
Congruenza e benessere dell’operatore
Nelle istituzioni sanitarie c’è stato negli ultimi anni un notevole aumento di stress e disagio degli
operatori. Secondo recenti statistiche il 30% dei medici italiani è vittima di burnout, il 12% soffre di
disturbi psichici e dipendenza da sostanze: 8-10% alcoolismo, 2-3% altre sostanze, 2% disturbi
mentali gravi. L’incidenza del suicidio è 6 volte superiore rispetto a chi esercita un’altra professione
(Villa, 2010, Wallace, 2009).
Il loro malessere si riflette sulla qualità dell’assistenza: molti episodi di malasanità sembrano
esserne una conseguenza.
La congruenza è correlata al benessere della persona perché le permette di essere in contatto con
ciò che avviene al suo interno sia a livello fisico che psichico, di percepire messaggi che indicano
distress (palpitazioni, cefalea, tic, sbalzi di umore, tensione…) e porvi rimedio (Zucconi, 2003, pp.
228-230).
Congruenza, trasparenza e limiti
E’ necessario che gli operatori sanitari siano in contatto con sé stessi anche per poter mettere un
limite al proprio coinvolgimento emotivo. Per molti non è facile, specialmente se sono molto
empatici e sensibili alla sofferenza degli altri; riesce loro difficile ammettere di non poter far fronte
alle aspettative altrui, temono di apparire inadeguati, deboli o poco disponibili.
È responsabilità dell’operatore ascoltarsi, comprendere dove sono i propri limiti, i propri confini,
comunicarli e difenderli (Greggio, 1998, pp. 62-66; Rogers 2002, trad. it. pp. 319-320).
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Autorivelazione
Il paziente è la parte “debole”, che necessita aiuto, mentre gli operatori sanitari sono visti come
sani, senza problemi, onnipotenti. In realtà pure loro sono vulnerabili, hanno problemi personali,
familiari, di salute, possono essere stanchi, frustrati, tristi, sentirsi inadeguati, feriti.
Come l’operatore dovrebbe essere disponibile verso il malato ed i suoi famigliari, allo stesso modo
questi dovrebbero avere un po’ di attenzione e comprensione verso il personale sanitario. Tanto
più che negli anni nel mondo sanitario si sono acuiti disagi quali carenze di organico, mancanza di
risorse, aumento dei carichi di lavoro e stress.
Una reale alleanza terapeutica deve tenere conto della reciproca vulnerabilità e richiede una
comprensione delle reciproche difficoltà (De Hennezel, 2004, trad. it. pp. 180-183).
Nella relazione quindi gli operatori potrebbero essere più trasparenti, rivelando, con modi e tempi
appropriati, almeno in parte il proprio disagio. (McDaniel, 2007). Se un operatore, ad esempio, sta
vivendo un momento di grande sofferenza (lutto, malattia, ecc.) che incide sulla qualità della sua
comunicazione, è utile che lo verbalizzi, senza necessariamente condividere le proprie vicende
personali. Questo momento di condivisione, di sfogo, potrà essergli di aiuto e lo renderà una
persona “reale”, umana agli occhi dei pazienti, che potranno comprendere meglio il suo
comportamento (Gordon, 1995, pp. 93).
«A seconda del paziente e del tipo di relazione, il medico può apertamente riconoscere di essere
esausto e dire al paziente che la visita sarà più breve del solito. Una tale ammissione rende il
medico più umano e permette al paziente di restituirgli alcune delle emozioni di sostegno che in
passato il medico gli aveva dato, migliorando così la relazione di reciproco sostegno e rispetto»
(Quill, 1989)
Thomas Gordon ha individuato 4 tipi di messaggi di autoapertura, che l’operatore può inviare
(Gordon, 1995, pp. 94-99):
1) Messaggi dichiarativi: condivisione di proprie credenze, idee, preferenze, opinioni. Alcuni
esempi: “Credo sia importante alimentarsi in modo corretto”, “Quando lei torna al controllo è
importante che sia puntuale, così potremo avere più tempo a disposizione per parlare…”…,
2) Messaggi di risposta: comunicano come ci si sente di fronte ad una richiesta (di ulteriori
analgesici, di potersi assentare dal reparto, di eseguire indagini in realtà inutili ecc.). Ad esempio:
“Questa sua richiesta mi mette proprio a disagio perché….”, “Sono contento che abbia deciso…”,
“Mi spiace che lei rifiuti….”,
3) Messaggi preventivi: comunicano un proprio bisogno all’altro, che così può regolare il suo
comportamento, ed evitano l’insorgenza di un possibile conflitto. Ad esempio informare i pazienti
quando si allunga il tempo di attesa per avere una visita, quando dopo un intervento è verosimile la
comparsa di alcuni sintomi ecc..,
4) Messaggi di confronto. Si inviano quando il comportamento dell’altro interferisce con un nostro
bisogno.
Inviare questi messaggi richiede assertività, in particolare quelli dell’ultimo punto.
Il confronto
Circa il 15% degli incontri con i pazienti viene vissuto come “difficile” da parte dell’operatore
sanitario. Questo dipende non tanto da problemi tecnici, procedure o dal tipo di malattia, ma dalle
“agende inconsce” che entrambe le parti portano nella relazione (Stewart, 1995, pp. 96).
Le difficoltà più frequenti sono con pazienti scontrosi, aggressivi, pretenziosi, non cooperativi,
ipercritici, che arrivano tardi agli appuntamenti, non vogliono attenersi alle regole e alle abitudini
dell’ospedale, non seguono i piani terapeutici.
Gli operatori sanitari trovano inaccettabili tali comportamenti perché interferiscono con lo
svolgimento dei loro compiti professionali (Gordon, 1995, pp. 98-99). Le reazioni emotive che
nascono possono essere di rabbia, irritazione, frustrazione, noia, indifferenza ecc. e rappresentano
l’indizio di un problema che va risolto per non compromettere la qualità dell’assistenza.
La comprensione empatica e la considerazione positiva incondizionata possono senz’altro essere
di aiuto. Si può “decodificare” il comportamento del paziente come espressione di paura,
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insicurezza, rabbia, dolore dovuti alla malattia.
Ma in alcune situazioni può essere necessario arrivare al confronto per porre un limite ad un
comportamento che ferisce l’operatore, è dannoso per la salute o compromette l’esito delle cure.
Questo implica il rischio che l’altra persona possa sentirsi attaccata, si arrabbi e il rapporto si
deteriori (Rogers, 2002, trad. it. pp. 319-320). Per questo richiede coraggio ed assertività.
La modalità direttiva di confronto che si fonda sul potere dell’operatore (minacciare, ammonire
ecc.) produce resistenza al cambiamento, fa sentire l’altro non considerato nei suoi bisogni,
provoca forte difensività ed aggressività.
Esistono però altre modalità, più efficaci, che prevedono l’uso della propria congruenza e
trasparenza, in un clima di rispetto ed empatia.
Vi è innanzitutto una auto-confrontazione: quando il paziente ascolta i rimandi empatici si
autoconfronta, si vede come riflesso in uno specchio (Lietaer, 2001a, pp. 99).
Un’altra possibilità è comunicare le proprie impressioni sul paziente ed i sentimenti che ha
suscitato in noi. Questo implica la perdita del principio di attenersi esclusivamente al suo campo
esperienziale, perché il feedback parte dallo schema di riferimento dell’operatore. Questo tipo di
messaggio comunque non costituisce un rifiuto dell’altro come persona (Lietaer, 2001a, pp. 99) se
vengono rispettati i seguenti punti (Lietaer, 2001a, Lietaer 2001b):
- va inviato quando il terapeuta ha emozioni forti, persistenti, che gli impediscono di focalizzarsi su
quelle del cliente e non rivelarle lo indurrebbe a mettersi una maschera di falso interesse,
- bisogna considerare se il cliente può trarre giovamento, recepire ed integrare in se il messaggio
di confronto. Essere trasparenti quindi con responsabilità, in modo che non sia un acting-out,
- deve riferirsi a situazioni recenti,
- deve riguardare l’impatto che il comportamento del paziente ha sull’operatore, non lui come
persona,
- deve essere esplicito e concreto, descrivere precisamente cosa del comportamento ha creato
problemi e quali sono state le emozioni che ne sono conseguite,
- deve essere inviato in un clima positivo, chiarendo che l’intenzione è di migliorare il rapporto,
approfondirlo,
- non va imposto ma deve essere un atto di congruenza e trasparenza, che esprime un malessere
dell’operatore (e non colpevolizza),
- bisogna essere pronti ad accogliere la reazione del paziente.
CONCLUSIONI
Le 3 condizioni necessarie e sufficienti individuate da Carl Rogers sono un patrimonio che ogni
persona possiede, anche se in misura diversa. Se gli operatori sanitari le implementano, le fanno
diventare parte integrante di sé, le “armonizzano”, possono acquisire un “modo di essere” centrato
sulla persona: in contatto con se stessi, consapevoli delle proprie emozioni, in grado di percepire
quelle dei pazienti e di accettare, senza giudicare, un modo di vedere il mondo diverso dal proprio.
Il loro modo di interagire con i pazienti terrà allora in considerazione la “persona” ed i suoi bisogni
nelle innumerevoli interazioni quotidiane e nei più svariati ambiti, dai più semplici (prelievo
sanguigno, misurazione della pressione ecc.) ai più complessi (comunicazione di diagnosi infausta,
intervento chirurgico ecc.).
In un mondo sanitario complesso, martoriato da grandi problemi (scarsità di risorse, tagli al
personale, scandali, denunce per malpractice, stress, burnout, mobbing…), difficile da migliorare
anche per politici ed amministratori, formarsi e migliorare la propria capacità comunicativa mi
sembra una strada efficace che gli operatori sanitari possono percorrere, per “resistere” e
continuare a svolgere con soddisfazione un lavoro che in moltissimi hanno scelto per passione.
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