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Carl Rogers e Martin Buber: la realtà di un incontro
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Carl Rogers e Martin Buber: La realtà di un incontro Giuditta Saba Data la natura relativistica delle particelle subatomiche, non possiamo comprenderne le proprietà senza comprenderne anche le loro interazioni reciproche e, a causa della fondamentale interconnessione che caratterizza il mondo subatomico, non possiamo comprendere alcuna particella prima di aver compreso tutte le altre. Fritjof Capra La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell'anima. Carl Gustav Jung La natura dell'uomo è rivelata nelle relazioni inter-personali. Carl Ransom Rogers Premessa Tutti coloro che, a qualsiasi titolo, studiano l'opera di Carl Rogers si trovano davanti alla centralità del suo incontro con la filosofia di Martin Buber, sia per quanto riguarda l'influenza del pensiero di Buber su quello di Rogers, come questi non manca di sottolineare appena possibile, sia relativamente alla ricchezza dei contenuti emersi nel dialogo direttamente avvenuto tra di loro in un quasi mitico incontro reale, all'Università del Michigan, nel 1957. Martin Buber elabora la sua filosofia della relazione partendo dal concetto di “incontro” tra un Io e un Tu; incontro da cui nasce il riconoscimento reciproco che permette l'esistenza di entrambi come persone. Analogamente, il concetto di “incontro” tra persone è fondamentale in Carl Rogers, in particolare per quanto riguarda l'analisi dei processi che avvengono nella 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 relazione terapeutica e che portano al cambiamento delle persone coinvolte; la possibilità dell'incontro nasce dal riconoscere nell'altro l'uguaglianza della persona, dal rispetto per la persona così com'è, sia pure davanti a una evidenza di sofferenza, di difficoltà e di patologia, che sembrerebbe portare a conclusioni diverse, con vari dubbi, distinguo e precisazioni. Tutti gli studi sull'efficacia delle diverse psicoterapie pongono in primo piano l'importanza del fattore “relazione” che si stabilisce tra terapeuta e cliente o paziente, ma la terapia rogersiana “centrata sul cliente” appare quella che più di ogni altra pone la relazione, o meglio la “qualità della relazione”, alla base del processo del cambiamento in psicoterapia (Vaccari e Zucconi, 1998). Ciò che Rogers (1959-1966) sostiene è che non sono le abilità tecniche o la formazione che determinano il successo terapeutico, ma la consapevole presenza, nel terapeuta, di determinati atteggiamenti o condizioni che possono essere comunicate e che il cliente può percepire. L'empatia e la comprensione del mondo interiore del cliente sono centrali in tutti gli approcci psicoterapeutici, ma spesso questo è considerato un semplice preliminare per il lavoro reale del terapeuta; invece, il terapeuta centrato sul cliente rimane all'interno dell'universo fenomenico dell'altra persona, intendendo con questo l'insieme dei significati impliciti che si trovano giusto sull'orlo della consapevolezza del cliente, per tutta la durata della terapia, senza offrire interpretazioni, consigli, suggerimenti o giudizi. Questi punti cruciali, insieme ad altri che vedremo, sono tutti presenti nel dialogo tra Rogers e Buber che, non a caso, è una preziosa fonte di riferimenti e citazioni per coloro che studiano il pensiero di questi due grandi uomini; ma quello di cui ci si accorge, nel momento in cui lo si va a leggere con attenzione, è che molti di quelli che lo citano lo hanno letto con una certa superficialità. Si evidenziano varie discrepanze tra ciò che realmente Rogers ha detto e ciò che alcuni ne hanno estrapolato, in particolare, come vedremo, riguardo al punto della reciprocità nella relazione che si stabilisce e nel cambiamento che avviene durante il processo terapeutico. Inoltre, il dialogo non è stato tradotto né pubblicato in italiano e questo pone ulteriori difficoltà all'accesso diretto al suo reale contenuto. Il lavoro qui presentato ha come risultato una traduzione quasi sempre letterale, praticamente di tutto il dialogo, esclusi un paio di interventi di Martin Friedman, sulla base della nuova trascrizione della registrazione di questo incontro proposta da Rob Anderson e Kenneth N. Cissna (1997).1 Valeria Vaccari (2001) afferma che quando si riflette e si discute sull'opera di Carl Rogers spesso ci si trova davanti ad un atteggiamento critico che fa pensare che «alcune persone si identifichino con lui, piuttosto che leggere le sue opere» (ibidem, pag. IV); ciò che io ho constatato, nel corso del mio lavoro sul dialogo tra Rogers e Buber, è che leggere direttamente le sue opere è una continua fonte di riflessione e che solo in questo modo è possibile 1 Tutti i riferimenti a questo testo e alla trascrizione della registrazione del dialogo sono tradotti dall'autrice del presente lavoro. 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 capirne in pieno l'opera e la sua portata, per molti versi a tutt'oggi rivoluzionaria e ancora difficile da capire nella sua apparente semplicità che, però, sottende una reale complessità. È proprio l'apparente semplicità delle conclusioni alle quali Rogers arriva nella sua continua evoluzione, radicata nell'attività professionale, che fa nascere il rischio di una comprensione superficiale e distorta del suo pensiero e di una adesione all'approccio che può risolversi in una applicazione banale delle indicazioni terapeutiche, in una adesione quasi fideistica alle “condizioni” al prezzo di uno svuotamento e un appiattimento dei significati più profondi che ne sono la base. Diventa quindi importante avere la possibilità di ritornare alle parole dirette di Carl Ransom Rogers, per ritrovare le radici del vero significato del suo pensiero e della sua opera, per andare al di là di un lessico ormai entrato nell'uso quotidiano, anche dei cosiddetti non addetti al lavoro, con la conseguenza di una banalizzazione e di una svalutazione di concetti che, riletti, risultano di capitale importanza per la comprensione dell'approccio rogersiano alla psicoterapia. Le questioni che Buber e Rogers affrontano riguardano punti basilari del pensiero e della pratica terapeutica di Rogers, dal riconoscimento dell'altro come persona “uguale” e ugualmente valida, alla reciprocità del cambiamento che avviene nello svolgersi della relazione terapeutica, dal rifiuto della diagnosi come etichetta che interferisce nell'autenticità della relazione con la persona per come è, alla priorità fondante della relazione stessa, all'“incontro” che porta al cambiamento. Ciò che Rogers ribadisce più volte è che l'incontro tra uguali, la reciprocità del riconoscimento e del cambiamento, non sono costanti della relazione terapeutica, ma sono presenti solo in alcuni “cruciali” momenti di percezione reciproca e sono proprio questi i momenti in cui avviene il cambiamento, non come conseguenza del desiderio del terapeuta di aiutare l'altra persona, ma come un prodotto indiretto dell'incontro che ha luogo nella relazione. «I've learned through my experience that when we can meet, then help does occur, but that's a by-product» (Anderson e Cissna, 1997, p. 61). Rogers parla con Buber di come lui si senta “trasparente” quando è completamente nella relazione, anticipando così il suo concetto di “congruenza” che implica trasparenza, apertura, autoconsapevolezza (Rogers, 1959-1966); parla di “accettazione” e di desiderio che l'altra persona “sia ciò che è”; parla del suo sentirsi capace di «percepire il modo in cui l'altro vive la sua esperienza, vedendola come dal suo interno, ma senza perdere la propria personalità o separatezza», capace di essere nel mondo percettivo-esperienziale dell'altro senza perdere se stesso (Anderson e Cissna, 1997). Quindi, nel dialogo, Rogers esprime i tre atteggiamenti del terapeuta che facilitano il cambiamento, affermando implicitamente che ascolto attivo / empatia e trasparenza / congruenza sono strettamente collegate e sostenendo che «un reale incontro esperienziale tra persone, nel quale ciascuno viene cambiato, avviene solo se il cliente è capace di percepire qualcuno degli atteggiamenti del terapeuta», ovvero una delle tre condizioni che devono essere presenti nel cliente perché avvenga il cambiamento. «…in addition to those things on my part, my client or the person with whom I'm working is able to sense something of those attitudes in me, then 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 it seems to me there real, is a real, experiential meeting of persons, in which each of us is changed» (Anderson e Cissna, 1997, p. 30). La quarta domanda che Rogers rivolge a Buber riguarda la natura umana e si riferisce al concetto di “tendenza attualizzante”, alla sua convinzione che ogni organismo tende a procedere nel senso della maturazione, è diretto ad autorealizzarsi e, se si riesce a liberare nelle persone ciò che è basilare, al di là di tutte le strutture difensive, si arriva a qualcosa che è intrinsecamente costruttivo, qualcosa in cui si può avere fiducia (Rogers, 1951). «When we are able to free the individual from defensiveness, (omissis) his reaction may be trusted to be positive, forward-moving, constructive» (Rogers, 1958, cit. in Kirschenbaum e Land Henderson, 1989, p. 226). Un altro argomento interessante che Rogers propone alla riflessione di Buber è la significatività dell'incontro con aspetti sconosciuti di sé e quindi dell'importanza della relazione che una persona stabilisce con se stessa all'interno del percorso terapeutico; questo è uno dei punti sui quali i due uomini non si trovano d'accordo perché Buber sostiene che manca l'elemento “sorpresa”, ma dai risultati delle ricerche di Rogers sul lavoro con gli schizofrenici e sui fattori che portano a un risultato positivo della psicoterapia, emerge che uno dei fattori predittivi del successo è proprio l'interesse che scatta nelle persone e che le spinge a continuare ad approfondire la conoscenza di se stessi (Rogers, 1951, 1961). Un'altra contrapposizione chiara è sul fatto che, secondo Buber, l'esperienza del terapeuta non viene assolutamente presa in considerazione durante la seduta; Rogers non replica direttamente a questo, ma noi sappiamo che, per lui, l'autoconsapevolezza del terapeuta rispetto all'esperienza che sta vivendo è la base della congruenza (Rogers, 1959-1966). Nel dialogo tra Rogers e Buber possiamo quindi ritrovare tutti i punti focali del suo pensiero e in particolare quanto per lui sia assolutamente significativa e fondante la relazione tra le persone, tra un Io e un Tu che reciprocamente si incontrano e si riconoscono come uguali. Introduzione Il 18 aprile 1957, il filosofo Martin Buber (79 anni) e lo psicologo e psicoterapeuta Carl Rogers (55 anni) si incontrano negli Stati Uniti, all'Università del Michigan, durante un giro di conferenze del filosofo ebreo austro-tedesco. La loro conversazione dura un'ora e mezza ed è un serrato confronto sulla natura del “dialogo” e su alcuni suoi aspetti cruciali, esplorati sulla base delle rispettive teorizzazioni ed esperienze pratiche. Grazie all'insistenza di Rogers, la discussione viene audio-registrata. È lui che riesce a convincere Buber che questo non ne avrebbe diminuito la spontaneità, dal momento che già da tempo regolarmente registrava le sedute terapeutiche, senza rilevare nessuna interruzione in questo così sensibile processo e, inoltre, disponeva di segretarie esperte nel trascrivere fedelmente le registrazioni. Di questa registrazione esistono numerose trascrizioni, più o meno integrali ed approvate da Carl Rogers, ma il presente lavoro di analisi del colloquio tra Buber e Rogers si basa principalmente sul testo di R. Anderson 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 e K.N. Cissna: The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript With Commentary (State University of New York Press, New York, 1997). Anderson e Cissna (1997), propongono una nuova ed accurata trascrizione della registrazione di questo importante incontro e, nell'introduzione al loro lavoro, dichiarano di essere interessati al dialogo perché lo considerano strumentale nell'influenzare il pensiero dei due uomini e nell'illustrare alcune assunzioni di base delle scienze umane. Lo scopo del presente articolo è di esaminare a fondo questo storico incontro e lo scambio di idee ed esperienze ivi avvenuto e di sottolinearne le implicazioni relative al successivo approfondimento e all'evoluzione del pensiero di Rogers e Buber, in campo filosofico, teorico e di pratica psicoterapeutica. Il tributo di Rogers alla filosofia di Buber è presente, più o meno esplicitamente, in tutta la sua opera e si evidenzia ancora di più nella sua pratica di psicoterapeuta. In particolare, Rogers ha sempre posto in primo piano l'esigenza di una relazione empatica tra terapeuta e cliente e ha sempre considerato questa relazione come un prototipo delle relazioni interpersonali in genere. Il cliente non deve essere guidato e interpretato, ma orientato nella sua crescita personale verso una migliore conoscenza e realizzazione di sé (Mecacci, 1992). Secondo Rogers, uno dei problemi più importanti per il terapeuta, che è anche un aspetto del fondamentale estraniarsi dell'uomo da se stesso, è la discrepanza che ogni persona vive tra i concetti cui si riferisce e ciò che di fatto sperimenta, fra la struttura fondamentale dei suoi valori e il processo di svalutazione che si svolge, inavvertito, dentro di lei. Durante la crescita, l'uomo si allontana dal primitivo processo di valutazione, che si fonda su criteri interni piuttosto che sull'influenza delle parole dei genitori che agiscono sul bisogno di amore e di accettazione del bambino. Il bambino impara che, spesso, ciò che a lui sembra positivo è in realtà un male secondo i suoi genitori; arriva così ad assumere verso se stesso l'atteggiamento che hanno gli altri verso di lui, introietta il giudizio esterno di valore, lo fa diventare proprio e costruisce un sistema di valori che si allontana sempre più dall'originale base interna, fino ad arrivare alla perdita della fiducia in sé. Compito del terapeuta è fare in modo che il cliente riprenda contatto con la sua originale base organismica di valutazione, riprenda fiducia in sé e nelle sue capacità di autorealizzazione, attraverso una relazione di accettazione che può attivare un processo di evoluzione, in direzione di un miglioramento del sé e delle relazioni con gli altri (Rogers, 1961). Secondo Rogers, il bisogno di autorealizzazione è l'unica fonte energetica del comportamento umano, perciò lo scopo della terapia è quello di facilitare le innate capacità di autoregolazione e di autorealizzazione, ovvero la “tendenza attualizzante” (Galimberti, 1999). Rogers, nel corso della sua attività, focalizza la sua attenzione sulle caratteristiche di quel particolare tipo di relazione che può essere definita come una relazione di aiuto, ma senza limitare il senso di questa espressione ad una relazione psicoterapeutica. Come egli stesso dice: «Scoprii che mi ero imbarcato non in un nuovo metodo terapeutico, ma su una filosofia della vita e delle relazioni umane nettamente differente» (Rogers, 1980, trad. it., p. 38). 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 In particolare, Rogers sostiene che la sua terapia non ha delle tecniche, ma ha delle forme caratteristiche e siccome ciò che il cliente dice può differire molto da ciò che esprime, bisogna prestare molta attenzione a tutte le modalità attraverso cui avviene la comunicazione e alla tonalità emotiva sottostante. Il contatto tra due persone c'è quando ognuna investe il campo esperienziale dell'altra e, senza alcun dubbio, il contatto è la condizione minima della relazione (Rogers e Kinget, 1965-66). La posizione del terapeuta nei confronti della dignità e del significato dell'altra persona è di fondamentale importanza per il suo lavoro; non solo è importante ritenere che ogni persona abbia una sua dignità e un suo valore, ma è essenziale che questo non sia espresso soltanto con le parole, bensì che sia assolutamente evidente a livello comportamentale e che possa essere percepito dal cliente. Il rispetto per la persona deve essere al primo posto; rispetto per la sua capacità e il suo diritto di orientarsi da sola e scegliere da sola i suoi valori. Il terapeuta deve comunicare un calore emotivo, dare una sensazione di sicurezza al cliente, che può così esplorare tutti i suoi sentimenti, tutti i suoi aspetti conflittuali ed accettarli, perché c'è qualcun altro che li accetta e non li giudica (Rogers, 1951). L'incontro con l'opera di Martin Buber e di Sören Kierkegaard permette a Rogers di sentirsi fortemente sostenuto nel suo nuovo approccio e di scoprire, con sorpresa, che lo stesso può essere considerato come un ramo, cresciuto autonomamente, della filosofia esistenziale. Questa “filosofia delle relazioni interpersonali” a lui sembra applicabile a tutte le situazioni che coinvolgono persone che interagiscono tra loro: dalla terapia al matrimonio, dai rapporti tra figli e genitori, a quelli tra insegnanti e studenti, ai rapporti di lavoro o di amicizia; in definitiva, alle persone di tutti i ceti sociali e a persone di una razza in rapporto con persone di un'altra (Rogers, 1980, trad. it., p. 44). Uno dei sentimenti più gratificanti che io conosca - ed una delle esperienze che meglio promuovono la crescita dell'altra persona - sorge dall'apprezzare un individuo nello stesso modo in cui si apprezza un tramonto. Le persone sono altrettanto meravigliose quanto i tramonti se io li lascio essere ciò che sono. In realtà, la ragione per cui forse possiamo veramente apprezzare un tramonto è che non possiamo controllarlo (ibidem, trad. it., p. 25). Ciò che Buber distilla dalla sua antropologia filosofica, Rogers lo scopre attraverso una strada un po’ diversa, prestando un'accurata attenzione alla sua crescente, quotidiana, esperienza professionale nella prassi della relazione clinica con i clienti. La convergenza dei, relativamente, distinti progetti di Buber e Rogers, può essere il più notevole incontro tra filosofia e psicologia del '900 (Anderson e Cissna, 1997). In Ich und Du (1923), Buber afferma che non esiste l'individuo nella sua unicità, esiste solo nel rapporto, che può essere con un altro che viene riconosciuto come altro da sé oppure con un altro che diventa l'oggetto di un'esperienza; solo nel primo caso si può parlare di relazione, di dialogo, di esistenza dialogica. È solo nel riconoscere l'altro come persona, come un Tu, che l'individuo diventa persona, diventa un Io. L'uomo riesce a vivere la sua pienezza solo entrando in relazione con l'intero suo essere e questo è 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 possibile solo nella relazione con il suo tu; lo spirito profondo dell'uomo non è nell'io, ma è tra l'Io e il Tu. Rogers descrive il dialogo con Buber come «molto significativo per entrambi» e Buber ne parla come di una «memorabile occasione», nonostante la sua dichiarata convinzione che i dialoghi pubblici, che coinvolgevano un largo auditorio, fossero impossibili, quasi una contraddizione in termini. Proprio per questa dichiarata e reciproca significatività dell'incontro, Maurice Friedman, studioso e biografo di Buber, ipotizza che la “Postfazione”, scritta nell'ottobre del 1957 per l'edizione del 1958 di Io e Tu, fosse, in parte, una risposta al dialogo con Rogers (Anderson e Cissna, 1997). Quello che scaturisce da questo incontro è un confronto aperto e sincero, dove i due uomini danno luogo ad uno scambio i cui effetti sembrano andare ben al di là di quanto essi stessi siano stati in grado di realizzare al momento. Un confronto durante il quale entrambi, molto spesso, offrono l'uno all'altro affermazioni di riconoscimento ed incoraggiamenti verbali, dando un complessivo senso di mutua benevolenza e accordo, anche quando viene espresso un chiaro disaccordo sui contenuti portati. Per tutta la durata dell'incontro ci sono stati, ben evidenti nella registrazione, periodi di silenzio e pause che possono dare informazioni molto interessanti sullo stato delle menti di Buber e Rogers, sulle loro intenzioni e, forse, anche sul senso di stanchezza alla fine di una lunga e pesante giornata. Tutte le interiezioni, commenti quali “sicuro”, “giusto”, l'ascolto attento e rispettoso dell'altro, le poche interruzioni che avvengono solo quando si ritiene importante esprimere qualcosa, in quel momento, al fine di facilitare la reciproca comprensione ed elaborazione, danno conto del reale clima in cui si è svolto il dialogo. Sebbene nessuno dei due uomini citi esplicitamente in seguito questo incontro come un evento cruciale nel proprio percorso, ci sono alcune evidenze che questo sia stato, in qualche modo, un punto di svolta per entrambi. Probabilmente, Rogers si rende conto che la sua affinità intellettuale per le idee di Buber non è completamente reciproca, però le sue citazioni del pensiero di Buber sono molto più frequenti dopo il 1957 e la sua pratica si allarga ad un approccio più filosofico alla comunicazione e alla responsabilità sociale. Il 1957, è anche l'anno in cui Rogers si trasferisce all'Università del Wisconsin e comincia la sua ricerca e il lavoro terapeutico con gli schizofrenici, l'anno del famoso articolo Necessary and Sufficient Conditions of Therapeutic Personality Change, per cui non è azzardato ritenere che l'evoluzione del suo pensiero sia stata influenzata dall'incontro con Buber. In un articolo del 1974, Rogers scrive: «Questo riconoscimento della significatività di ciò che Buber definisce relazione Io-Tu è la ragione per cui, nella terapia centrata sul cliente, si è arrivati al più ampio uso del Sé del terapeuta e delle sue emozioni, ad una grande enfatizzazione dell'autenticità, ma tutto questo senza imporre la visione, i valori o le interpretazioni del terapeuta al cliente» (cit. in Anderson e Cissna, 1997). Buber, in Nachwort (1958), postfazione a Io e Tu scritta pochi mesi dopo l'incontro, sviluppa dettagliatamente una visione della psicoterapia che è molto simile a quella di Rogers, nonostante ciò che lui sostiene sulla diversità 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 delle loro definizioni di reciprocità, conferma e inclusione. Buber critica i terapeuti che si accontentano di “analizzare” i “pazienti”, invece di avere come scopo la «rigenerazione di un centro personale atrofizzato» che può essere ottenuta da un terapeuta che ha un «atteggiamento partecipante da persona a persona» e non osserva l'altro come un oggetto (ibidem, trad. it., p. 154). Questa non è altro che l'essenza della terapia di Rogers, come da lui descritta durante il dialogo e nell'opera di allora imminente pubblicazione: On Becoming a Person (1961). Secondo Buber (1923), l'uomo è sia individuo che persona; l'individualità si manifesta nella distinzione da altre individualità, la persona si manifesta entrando in relazione con altre persone ed è proprio in questa particolare relazione che l'Io diventa reale. La relazione Io-Tu non può che essere reciproca, il Tu opera sull'Io come l'Io sul Tu, ogni Io si pone di fronte al Tu come radicalmente altro e lo conferma come tale, ma, proprio per questa sua caratteristica di totale autenticità e reciprocità, la relazione stessa è, necessariamente, di breve durata. Appena la relazione smette di operare il tu ridiventa oggetto, però l'Io che passa alla separazione mantiene l'autocoscienza e rimane dentro di lui il significato profondo dell'esperienza vissuta. Rogers (1980) sostiene che essere autentici non è affatto facile, che i momenti in cui l'autenticità di una persona incontra quella di un'altra sono molto rari, eppure sono questi eventi che danno significato al vivere umano. Accettare l'altra persona per quello che è ne favorisce la crescita, l'espansione, permette la comunicazione più autentica, ma i sentimenti che si sperimentano in ogni momento sono in continua trasformazione e così è per la relazione e la comunicazione che vengono vissute momento per momento. Gli incontri reali, dove vengono condivise l'accettazione profonda e la congruenza, possono trasformarsi a causa dell'emergere di sentimenti di insoddisfazione, di desiderio di modificare l'altra persona o anche di spavento per quello che si sta sperimentando e che viene vissuto come minaccioso. Però, nonostante tutte le difficoltà e le paure, Rogers afferma: «Ho scoperto che per me le relazioni interpersonali hanno un andamento ottimo se esistono come un ritmo: apertura ed espressione, e quindi assimilazione; flusso e cambiamento, e quindi una quiete provvisoria; rischio e angoscia, e quindi una sicurezza temporanea» (ibidem, trad. it., p. 44). L'accettazione è, prima di tutto, verso se stessi. Accettarsi come persone imperfette è il primo passo verso il cambiamento e verso l'autenticità delle relazioni. Permettersi di essere ciò che si è, di conoscere ed accettare i propri limiti di resistenza e di tolleranza, di sapere quando si desidera plasmare o manipolare un'altra persona, di vivere come propri e reali gli atteggiamenti di noia o di rifiuto allo stesso modo di quelli di cordialità, interesse, gentilezza, accettazione, permette alla relazione con l'altra persona di svilupparsi, modificarsi, essere autentica. A partire da questo modo di sentirsi e di porsi è possibile reagire alle affermazioni dell'altra persona con uno sforzo di comprensione, anziché con un giudizio o una valutazione, come verrebbe istintivo fare. Questo sforzo di comprensione permette di capire esattamente l'altra persona, quali sono i suoi significati e i suoi valori, ma, contemporaneamente, apre la porta alla possibilità di poter essere cambiati da ciò che si comprende e qui, a seconda di come viene vissuta, sta 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 l'opportunità dell'arricchimento del Sé o la minaccia per l'identità personale, per il senso del Sé (Rogers, 1961). Questa particolare e caratteristica dinamica, che viene attivata dall'essere congruenti e dal vivere una autentica relazione Io-Tu sembra, a noi che possiamo leggere e rileggere con attenzione la trascrizione dello storico incontro tra Buber e Rogers e che conosciamo l'evoluzione del loro pensiero, essere assolutamente presente e all'opera nel loro dialogo e sembra che abbia operato proprio nella direzione dell'arricchimento delle due persone coinvolte. Anche se non sempre dichiarate esplicitamente, le ricadute di questo dialogo sono ben evidenti nelle successive opere dei due uomini e, per quello che riguarda Rogers, nella pratica clinica e nel rispetto verso la personalità in evoluzione dei clienti. I contributi di Buber e Rogers allo sviluppo del pensiero umano sono consistenti e le implicazioni dei loro lavori si estendono ben al di là dei rispettivi campi di studio, ma l'aspetto che qui ci interessa sottolineare è che entrambi sono noti per avere, nel loro lavoro teorico e pratico, dato particolare rilievo al ruolo del riconoscimento reciproco tra le persone come momento fondamentale, se non indispensabile, per la costruzione di una relazione fondata su un incontro reale. Inoltre, tutti e due asseriscono che è lo stesso senso di identità di ogni essere umano che richiede l'esistenza di un'altra persona per formarsi e consolidarsi; è l'autenticità e il rispetto di un altro individuo che dà spazio al sentirsi riconosciuti, apprezzati e valorizzati come persone e questo permette di riconoscere come proprie, come autenticamente e integralmente appartenenti alla propria natura, quelle caratteristiche che l'altro, per primo, ha visto e fatto vedere. Buber è un filosofo e la sua definizione di relazione, conosciuta proprio come “filosofia della relazione” oltre che come “filosofia dialogica”, rientra a pieno titolo nella filosofia esistenziale. Per Buber il senso fondamentale dell'esistenza umana è da rintracciarsi nel principio dialogico, cioè nella capacità di stare in relazione totale con la natura, con gli altri uomini e con le entità spirituali, ponendosi in un rapporto Io-Tu. L'uomo autentico si definisce come persona che nella relazione Io-Tu prende coscienza di sé come soggettività (Enciclopedia Garzanti di Filosofia). Secondo Buber, l'uomo contemporaneo vive una profonda crisi causata dalla disgregazione delle tradizionali forme di convivenza sociale, quali la famiglia, il villaggio, le associazioni di lavoro, le cui dimensioni erano tali da permettere il rapporto personale e il coinvolgimento quasi automatico dei membri. Esse sono state sostituite da situazioni sociologiche nuove, quali il sindacato o il partito, che però non sono organiche e lasciano l'uomo in una solitudine sociale che può essere superata solo nella relazione interpersonale e comunitaria. Solo nell'incontro con l'“altro” l'uomo può entrare nella sua realtà autentica e superare la solitudine e l'isolamento; è nella relazione che l'individuo isolato diventa persona, diventa “io” per un “tu” o “tu” per un “io” (Poma, 1993). La relazione è un evento, non ha durata, avviene nell'attimo, ma è un'esperienza vitale che può dar vita ad una nuova comprensione dell'uomo come persona e della comunità come sistema di relazioni interpersonali connesse con un centro. Nasce anche da qui l'impegno di Buber sulle massime questioni politiche; già nel 1914, insieme a un gruppo di eminenti 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 personaggi della cultura e della politica, aveva progettato la fondazione di un circolo il cui scopo era quello di promuovere la pace e la collaborazione internazionale. Iniziativa lodevole, ma bloccata proprio dallo scoppio della prima guerra mondiale. Inoltre, per tutta la sua vita, Buber si adoperò attivamente per la comprensione reciproca e la coesistenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina (Buber, 1954). Nel suo lavoro con i gruppi Rogers progetta e sperimenta qualcosa di molto simile; riferisce di come le persone, quando vengono facilitate nello stabilire un clima di comunicazione interpersonale intima e aperta, scoprono la bellezza dell'intimità profonda che aiuta a crescere e che dà il coraggio di agire nella società e di come nasce la voglia di essere insieme e di essere di reciproco sostegno. Sembra che nello sforzo di dare forma ad una comunità, sia pure temporanea, il senso del Sé individuale venga prima perduto e poi ritrovato più profondo e più solido. Grazie ai risultati delle sue esperienze, Rogers consolida la sua convinzione che la specie umana sia degna di fiducia, creativa, capace di dare sfogo a potenzialità mai sognate, automotivata e costruttiva. La sua fiducia che la capacità di creare un clima dove il potere sia partecipato, dove i singoli individui abbiano piena responsabilità, apra nuove strade per la risoluzione di attriti internazionali e di conflitti interculturali e interrazziali, ha dato ragione al suo continuo impegno nel progettare ed attuare la formazione di gruppi che fossero successivamente in grado di impegnarsi per risolvere e dissolvere le tensioni interculturali e internazionali. Certo Rogers non vive l'illusione che tutti i problemi possano essere risolti, ma ha la sicurezza che anche le tensioni e le esigenze più complesse possono diventare più risolvibili in un clima umano di comprensione e di reciproco rispetto; per questo progetta di lavorare sulle relazioni tra arabi ed israeliani e realizza un gruppo d'incontro in Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti, militanti e non, coinvolgendo anche inglesi, ottenendo è vero un impatto infinitesimale su quella realtà di guerra intestina, ma sentendosi dire che un gruppo simile in ogni isolato di Belfast avrebbe avuto ben altro risultato (Rogers, 1980). Un altro punto che unisce il pensiero di Buber e quello di Rogers è che entrambi sono considerati come dei ponti tra la cultura occidentale e quella orientale. Buber si considera un uomo dell'Occidente per nascita e per formazione culturale, ma propone l'esperienza ebraica come un contributo dall'Oriente al superamento della crisi dell'uomo occidentale, quella crisi che nasce dalla solitudine vissuta ed accettata che diventa a sua volta la condizione perché l'uomo si ponga in modo autentico il problema di se stesso. Buber si interessa all'Oriente non solo per quanto riguarda l'ebraismo, ma per la tradizione mistica in generale, studiando ed integrando nel suo pensiero alcuni principi del pensiero taoista (Poma, 1993). Anche Rogers si interessa agli insegnamenti del buddismo, dello Zen e, in particolare, del saggio cinese taoista Lao-Tse, di cui cita (Rogers, 1980) alcuni passaggi che suscitano in lui una risonanza profonda: È come se egli ascoltasse e un ascolto come il suo ci avvolge in un silenzio in cui infine cominciamo a udire ciò che siamo destinati ad essere. (ibidem, trad. it., p. 41). 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Se evito di manipolare gli uomini, essi si prendono cura di se stessi; Se evito di comandare agli uomini, essi agiscono da soli; Se evito di predicare agli uomini, essi migliorano da soli; Se evito di impormi agli uomini, essi diventano se stessi. (ibidem, trad. it., p. 42). Non si può non sentire quanto questo sia consonante con le teorie dell'incontro e del dialogo, della relazione Io-Tu, dell'empatia e della considerazione positiva. Dialogo tra Buber e Rogers Nell'ambito del giro di conferenze universitarie di Buber negli Stati Uniti, l'idea del suo incontro-confronto con Rogers nasce dalla similarità del loro rispettivo approccio alle relazioni personali e al personale divenire. La trascrizione integrale della registrazione del loro colloquio permette di constatare la grande spontaneità, sincerità, profondità e disponibilità, dimostrata da questi due uomini nel concedersi l'opportunità di un confronto vero, non preparato né limitato da alcuna difesa aprioristica del proprio pensiero. Anzi, ciò che emerge in modo molto evidente è l'interesse reciproco e lo sforzo di affrontare i punti di possibile diversità, nell'intento di capire meglio le possibilità di un avvicinamento o i motivi di una reale divergenza del pensiero, ma nel contesto di un profondo e reciproco rispetto. Inoltre, le questioni sollevate ed affrontate durante l'incontro rappresentano alcuni dei passaggi focali per lo studio del pensiero di Rogers, per il suo sviluppo e per l'evoluzione della sua pratica psicoterapeutica. Quella che segue è la traduzione pressoché letterale, a cura dell'autrice del presente articolo, della trascrizione dell'incontro, pubblicata in Anderson.e Cissna (1997). Riguardo alla scelta degli argomenti sui quali discutere, una delle proposte di Rogers (“La natura dell'uomo come rivelata nella relazione interpersonale”) fu adottata come argomento generale per la discussione. Fu stabilito che questa si sarebbe svolta nella forma di domande poste da Rogers e alle quali Buber avrebbe potuto rispondere con affermazioni o con altre domande. Rogers aveva preparato ben nove possibili domande per Buber, ma solo quattro di queste sono state effettivamente affrontate durante l'incontro; quelle non poste riguardavano: • Se il concetto di inclusione, introdotto da Buber in Ich und Du (1923), implica che la base profonda della natura umana è positiva. • Come Buber concepisce il modo in cui gli esseri umani cambiano in una relazione terapeutica o del tipo Io-Tu e come si può confrontare questo con gli elementi del processo di cambiamento come Rogers li ha visti e ha tentato di descriverli. (Elementi che saranno meglio definiti in Rogers, 1961.) 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 • Se Buber concorda sul fatto che una persona, relazione, nazione o campo scientifico, sono al meglio o maggiormente efficaci quando sono in un processo di cambiamento, di divenire. • Come Buber concepisce l'insegnamento e l'apprendimento e se concorda che tutti gli apprendimenti significativi sono quelli di cui ci si autoappropria e che non possono essere insegnati. • Se Buber sente che è pericoloso, nel mondo Io-Esso, nella forma delle scienze del comportamento, incrociare il mondo Io-Tu. Le quattro questioni su cui, invece, si è concentrato il confronto sono: • Come Buber aveva potuto vivere così profondamente le relazioni interpersonali e ricavarne una tale comprensione degli esseri umani senza essere uno psicoterapeuta. Attraverso quali canali di conoscenza era stato in grado di conoscere così profondamente le persone e le relazioni. • Se la sua concezione o la sua esperienza di ciò che aveva chiamato “relazione Io-Tu” fosse simile a ciò che lui, Rogers, vedeva come “momenti efficaci” nella relazione terapeutica. • Cosa ne pensava della convinzione, che Rogers aveva tratto dalla sua esperienza psicoterapeutica, che il più importante tipo di incontro o relazione fosse la relazione di ogni persona con se stessa, quella che nasceva dall'incontrare aspetti di sé che non aveva mai incontrato prima. Se questo avveniva, e forse solo allora, la persona diventava realmente capace di incontrare l'altro in una relazione Io-Tu. • Qual era la sua opinione su una delle cose che Rogers era arrivato a credere, sentire e di cui spesso aveva fatto esperienza e cioè che se diventava possibile liberare ciò che era davvero basilare nella persona allora questo diventava costruttivo. In altre parole, ciò che Rogers considerava come fondamentale natura umana era anche qualcosa in cui era realmente possibile avere fiducia e gli sembrava di aver trovato qualcosa di simile a questo suo sentire in alcuni scritti di Buber (Anderson e Cissna, 1997). I domanda: Invito e storie Dopo aver esplicitamente chiarito che il loro incontro non era stato minimamente preparato, Rogers pone a Buber la sua prima domanda, scusandosi per l'apparente impertinenza della stessa e suscitando sorrisi nel pubblico e nello stesso Buber. Rogers: Io penso che la prima domanda che desidero porle, Dr. Buber, può sembrare un po’ impertinente, ma vorrei spiegarla e, forse, non sembrerà più così impertinente. Mi sono chiesto: “Come è entrato così profondamente nelle relazioni interpersonali e ha raggiunto una tale comprensione degli esseri umani senza essere uno psicoterapeuta?”. La ragione per cui io chiedo questo è che mi sembra che molti di noi sono arrivati a percepire e ad avere esperienza di qualche tipo di conoscenza simile a quella che lei ha espresso nei suoi scritti, ma questo è avvenuto quasi sempre attraverso la nostra esperienza come psicoterapeuti. Io penso che ci sia qualcosa nella relazione terapeutica che ci dà il permesso, quasi un formale permesso, di entrare in 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 un rapporto molto stretto e profondo con la persona e, in questo modo, arriviamo a conoscere molto profondamente. Un mio amico psichiatra mi ha detto che non si sente mai così completo o così interamente persona come gli succede durante il suo lavoro come terapeuta e io condivido questo suo sentire. Così, se non è troppo personale, io sarei interessato a conoscere quali sono i canali di comprensione che l'hanno resa capace di arrivare ad una tale profondità di percezione rispetto alle relazioni e alle persone. Buber: È piuttosto una questione biografica. Penso che devo darle due risposte invece di una sola. Per prima cosa, io non sono completamente estraneo alla psichiatria; quando ero studente, in Germania, ho studiato “Clinica psichiatrica”, anche se non ero interessato a diventare uno psicoterapeuta. Prima con Flechsig a Lipsia, dove sono stato studente di Wundt, poi a Berlino con Mendel e infine a Zurigo con Bleuler, che è stato il più interessante dei tre. Ero molto giovane, inesperto, un giovane uomo non molto comprensivo, ma avevo la sensazione di voler conoscere l'uomo e l'uomo nel cosiddetto stato patologico. Io dubitavo anche che questo fosse il giusto termine. Io desideravo vedere, se possibile incontrare, queste persone e stabilire, per quanto posso ricordare, stabilire una relazione, una vera relazione tra colui che chiamiamo un uomo sano e colui che chiamiamo un uomo patologico. E questo ho imparato in parte, per quanto un ragazzo di venti o poco più può imparare queste cose. Ma ciò che, principalmente, ha formato ciò che lei chiede è qualcos'altro. È stata proprio una certa inclinazione ad incontrare le persone e, per quanto è possibile, giusto per cambiare, se possibile, qualcosa nell'altro, ma anche permettendomi di essere cambiato dall'altro. Ad ogni avvenimento, io non avevo resistenza, non mettevo alcuna resistenza. Io, allora già giovane uomo, sentivo di non avere il diritto di voler cambiare un altro se non ero aperto ad essere cambiato da lui, per quanto è legittimo. Qualcosa sta per essere cambiato e il suo tocco, il suo contatto, è capace di cambiarlo più o meno. Io non posso essere, come dire, al di sopra di lui e dire: “No! Io sono fuori dal gioco. Tu sei pazzo.” La prima fase, nel 1819… Rogers: Lei aveva circa quarant'anni? Buber: Giusto. Io sentivo qualcosa di strano. Sentivo che ero stato fortemente influenzato da qualcosa che arrivava alla fine giusto allora, intendo la Prima Guerra Mondiale. Rogers: Nel 1918. Buber: Sì. Finiva allora e durante la guerra io non avevo sentito molto questa influenza. Ma alla fine io sentivo: “Oh, sono stato terribilmente influenzato”, perché non avrei potuto resistere a ciò che stava succedendo ed ero proprio costretto a, come posso dire, a viverlo. Capisce? Cose che continuavano proprio in questo momento. Lei può chiamarlo “immaginare il reale”. Immaginare ciò che stava continuando. Questo è, questo immaginare, per quattro anni, mi ha influenzato terribilmente. Proprio quando è finita, è finita con un certo episodio, il 19 maggio, quando un mio amico, un grande amico, un grande uomo, è stato ucciso da un soldato antirivoluzionario in un modo davvero barbaro ed io, ancora una volta e per l'ultima volta, sono stato costretto ad immaginare proprio questo assassinio, ma non in un modo solo ottico, ma, posso dire così, proprio col mio corpo. 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 [Questa sembra l'unica occasione in cui Buber parla pubblicamente dell'impatto che ha avuto su di lui questo evento e può essere considerato un chiaro esempio di come un efficace intervistatore può stimolare a dar voce anche ad un'esperienza così importante ed emozionalmente coinvolgente.] Rogers: Con le sue sensazioni. Buber: Questo è stato il momento decisivo, dopo il quale, dopo qualche giorno e qualche notte in questo stato, ho sentito “Qualcosa mi è stato donato.” E da allora questi incontri con le persone, in particolare con i giovani, sono avvenuti in una forma un po’ diversa. Avevo vissuto una decisiva esperienza, per quattro anni, un'esperienza molto concreta e da allora ho avuto da dare qualcosa di più della mia inclinazione a scambiare pensieri e sentimenti e così via. Avevo da offrire il frutto di un'esperienza. Rogers: Suona come se lei stesse dicendo che la conoscenza, o una parte di quella, è arrivata quando aveva vent'anni, ma un po’ della saggezza che lei ha sulle relazioni interpersonali le deriva dal voler incontrare le persone senza volerle dominare. E terzo, io vedo questo come una specie di terza risposta, dall'aver vissuto realmente la Guerra Mondiale, ma vivendola nei suoi sentimenti e nell'immaginazione. [Questo è un esempio di ciò che Rogers successivamente definirà verifica della percezione, riflessione, ascolto attivo; quella che qui viene proposta è un'organizzazione e una chiarificazione delle parole di Buber, senza nessun tentativo di replica.] Buber: Proprio così. Perché quest'ultima è stata realmente, non posso dirlo in altro modo, è stato realmente un vivere con queste persone. Persone ferite, uccise nella guerra. Rogers: Lei sentiva queste ferite. Buber: Sì. Ma sentire non è sufficientemente forte, la parola “sentimenti”. Rogers: Lei preferirebbe qualcosa di più forte. A questo punto, prima di passare alla seconda domanda, Rogers suggerisce uno spostamento della tavola in modo da poter avere il microfono davanti a sé e, contemporaneamente, guardare direttamente Buber. Durante lo spostamento, Maurice Friedman racconta un aneddoto su uno studente che chiede come mai il professor Buber, così in gamba, non è cristiano e come questo sia un esempio della tendenza umana a pensare che qualcuno che sia ammirevole, in un qualunque modo, debba anche essere simile a noi, almeno negli aspetti essenziali. Anderson e Cissna (1997), sottolineano come per Rogers la psicoterapia sia una strada maestra verso la conoscenza e la comprensione del comportamento umano, una via con una base assolutamente esperienziale e a due direzioni, per cui non è solo il cliente, ma è anche il terapeuta che viene aiutato e cambiato dalla relazione terapeutica. L'affermazione di Buber: “sentivo di non avere il diritto di voler cambiare un altro se non ero aperto ad essere cambiato da lui”, sembra riferirsi alla reciprocità del cambiamento, a qualcosa di molto simile a quella che è 14 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 l'esperienza di Rogers nella relazione terapeutica, tema che sarà ripreso più avanti parlando direttamente proprio di reciprocità o uguaglianza nel rapporto terapeutico, ma al quale Buber risponderà escludendo la possibilità della reciprocità nella relazione terapeutica a causa dei limiti insiti nel particolare tipo di relazione che si stabilisce tra il terapeuta e la persona che a lui si rivolge chiedendo aiuto. II domanda: Reciprocità e terapia La seconda domanda di Rogers entra nello specifico delle possibili somiglianze o differenze tra le rispettive concettualizzazioni ed esperienze rispetto alle relazioni. Rogers: Spesso mi sono chiesto se la sua idea o la sua esperienza di ciò che lei ha definito “relazione Io-Tu” sia simile a ciò che io vedo come “momento efficace” nella relazione terapeutica. E mi chiedo, se mi permette prendo un momento per dire ciò che io vedo come essenziale in questo e, forse, lei potrà commentare dal suo punto di vista. Io sento che quando sono efficace come terapeuta, entro nella relazione come persona, soggettivamente, non come un osservatore o uno scienziato o qualcosa del genere. Di più, sento che quando sono al massimo della mia efficacia, allora, in qualche modo, sono completamente nella relazione e la parola che ha significato per me è: “trasparente”. Questo è, questo è niente, sicuramente possono esserci molti aspetti della mia vita che non entrano nella relazione, ma tutto quello che c'è dentro è trasparente. Non c'è niente, niente di nascosto. Allora io penso che in questo tipo di relazione io sento un reale desiderio, per questa altra persona, perché lei sia ciò che è. Io chiamo questo: “accettazione”. Non so se è il termine migliore, ma qui il mio significato è questo, io desidero per lei che percepisca come proprie le emozioni che possiede, ritenga validi gli atteggiamenti che ha, che sia la persona che è. Un altro aspetto di questo che è importante per me è che io penso, in questi particolari momenti, di essere realmente capace di percepire con estrema chiarezza il modo in cui lei vive la sua esperienza, vedendola come dal suo interno, ma senza perdere la mia propria personalità o separatezza in questo. Inoltre, oltre a queste cose dalla mia parte, se succede che il mio cliente o la persona con la quale sto lavorando è capace di percepire qualcuno di questi atteggiamenti in me, allora mi sembra che davvero, questo è un reale incontro esperienziale tra persone, nel quale ciascuno di noi viene cambiato. Non so, penso che a volte il cliente è cambiato più di me, ma penso che entrambi siamo cambiati in questo tipo di esperienza. Adesso, io vedo che questo, questa influenza dell'incontro su entrambe le persone, ha qualche somiglianza con quel tipo di cosa del quale lei ha parlato a proposito della relazione Io-Tu, ma ho l'impressione che ci siano anche delle differenze. In ogni modo, sono molto interessato al suo commento su come questa descrizione le sembra in relazione a ciò che lei ha pensato nei termini di due persone in una relazione di tipo Io-Tu. Buber: Posso provare, ma mi permetta di chiedere qualcosa su ciò che lei intende. Prima di tutto io voglio dire che questa è l'azione di un terapeuta. È un ottimo esempio di un certo tipo di esistenza dialogica. Voglio dire: due 15 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 persone hanno una certa situazione in comune. La situazione è, dal suo punto di vista, che questa è una persona malata che sta venendo da lei e sta chiedendo un particolare tipo di aiuto. Adesso, guardando bene, vorrebbe dire qualcosa? Rogers: Posso interromperla? Buber: Sì, prego. Rogers: Io sento che se, dal mio punto di vista, questa è una persona malata, allora probabilmente io non posso essere di così tanto aiuto per lei come potrei essere. Io sento che questa è una persona. Sì, qualcun altro può chiamarla malata, o se io la guardo da una sorta di oggettivo punto di vista, potrei essere d'accordo: “Sì, è malata.”, ma entrando nella relazione, mi sembra che se io considero questo come: “Io sono una persona relativamente sana e questa è una persona malata” Buber: No, ma io non intendo questo. Rogers: No, bene. Buber: Non intendo questo, lasciamo questa parola “malato”. Un uomo che sta venendo da lei per essere aiutato. La differenza, la sostanziale differenza, tra i vostri due ruoli in questa situazione è ovvia. Lui viene da lei per essere aiutato. Lei non va da lui per essere aiutato. E non solo questo, ma lei è capace, più o meno, di aiutarlo. Lui può fare varie cose per lei, ma non può aiutarla. E non solo questo. Lei vede lui, realmente. Io non credo che lei si sbagli, lei vede, ma lei lo vede, proprio come ha appena detto, come è. Lui non può, di gran lunga, non può vedere lei. Non solo in questo grado, ma neanche in altro tipo di veduta. Lei è, naturalmente, una persona molto importante per lui, ma non una persona che lui desidera vedere e conoscere e essere capace di farlo. Lei è importante per lui, dal primo momento in cui lui viene da lei, lui è coinvolto nella sua vita, nei suoi pensieri, nel suo essere, nelle sue comunicazioni e così via. Ma non è interessato a lei come lei, come persona. Questo non può essere. Lei è interessato, l'ha detto e ha ragione, a lui come questa specifica persona. Questa sorta di distaccata presenza lui non può averla né offrirla. Questo è il primo punto, per quanto vedo, al secondo, prego, lei adesso Rogers: Io non sono completamente sicuro Buber: Lei può interrompermi in qualunque momento. Rogers: Bene. Io voglio davvero capire questo. Il fatto che io sono capace di vederlo con minori distorsioni di quanto lui vede me e che io ho il ruolo di aiutarlo e che lui non sta cercando di conoscermi nello stesso senso, questo è quello che lei intende con questa “distaccata presenza”? Buber: Sì. Rogers: Volevo essere sicuro di questo. Buber: Adesso, il secondo fatto, per quanto posso vedere come fatto, è in questa situazione che lei ha in comune con lui, solo da due punti di vista. Lei è, da una parte, più o meno attivo e lui più o meno paziente, non completamente attivo né completamente passivo, ma relativamente. Questa comune situazione possiamo vederla dal suo punto di vista e da quello dell'altro. La stessa situazione. Lei può vederla, sentirla, farne esperienza, da entrambe le parti. Dal punto di vista dell'altro e dal suo mentre guarda lui, lo osserva, lo conosce e lo aiuta. Lei può fare esperienza, si potrebbe dire addirittura una esperienza corporea, di come il cliente vive la situazione. 16 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Quando lei fa qualcosa per lui, può sentire se stesso toccato da ciò che sta facendo per lui. Lui non può, assolutamente, fare la stessa cosa. Lei è, nello stesso tempo, al suo posto e a quello dell'altro. Qui e lì o, per meglio dire, lì e qui. Dove è lui e dove è lei. Lui non può essere altro che dove è. E questo lei desidera, anzi, non solo desidera ma vuole. La sua necessità interiore, forse. Io accetto questo. Non ho assolutamente obiezioni. Ma è la situazione in sé che ha un'obiezione. Lei ha, necessariamente, un atteggiamento diverso da lui rispetto alla situazione. Lei è capace di fare qualcosa che lui non è capace di fare. Voi non siete uguali e non potete esserlo. Lei ha un grande compito, autoimposto, il compito di integrare, di completare, i suoi bisogni e di farlo molto più che in una normale situazione. Ma, naturalmente, ci sono dei limiti e certamente nella sua esperienza come terapeuta, come persona che cura o che aiuta a guarire, lei deve toccare molto spesso questi limiti alla “semplice umanità”. Questo significa: “Essere, io e il mio partner, per dire, simili l'uno all'altro, sullo stesso piano. “Io capisco che lei vuol dire proprio essere sullo stesso piano, ma questo non può essere. Non c'è solo lei, il suo modo di pensare o di fare, esistono anche certe situazioni, così stanno le cose, che a volte possono essere tragiche e anche più terribili di ciò che chiamiamo tragico. Lei non può cambiare questo. La natura umana, i desideri umani, la comprensione degli uomini, non sono tutto. Esistono alcune realtà con le quali dobbiamo confrontarci e che non possiamo dimenticare neppure per un momento. Rogers: Ciò che lei ha detto suscita in me molte reazioni. Una di queste è questa, ma prima mi permetta di cominciare da un punto sul quale potremmo essere d'accordo. Io credo che lei potrebbe convenire che se il cliente arriva al punto dove può sperimentare ciò che sta esprimendo, ma insieme può sperimentare la mia comprensione di questo e la mia reazione a questo e così via, allora davvero si può dire che la terapia è già praticamente superata. Buber: Sì, è proprio quello che voglio dire. Rogers: Un'altra cosa ho sempre sentito, pur chiedendomi a volte se non fosse semplicemente una mia personale idiosincrasia, ma a me sembra che quando un'altra persona sta realmente esprimendo se stessa e la sua esperienza, io non mi sento diverso da lei. Questo è, anche se non so come valutarlo, ma io sento come se in quel momento il suo modo di guardare la sua esperienza, per quanto distorto possa essere, è qualcosa che io posso considerare come se avesse la stessa autorità, la stessa validità, del mio modo di guardare la vita e l'esperienza. E mi sembra che questa sia davvero la base dell'aiuto, un reale senso di uguaglianza tra noi. Buber: Nessun dubbio su questo, ma io non sto parlando delle sue sensazioni come terapeuta, ma della situazione reale; entrambi considerate l'esperienza del cliente, nessuno dei due, né il cliente né lei terapeuta, considera la sua esperienza, il soggetto è esclusivamente il cliente e la sua esperienza. Il cliente non può cambiare la sua posizione e chiedere al terapeuta come sta o cosa ha fatto, semplicemente non può farlo. Questa è la realtà della situazione e lei non può cambiarla. Rogers: Adesso mi sto chiedendo chi è Martin Buber, lei o io, perché ciò che io sento… 17 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Buber: Io non sono un uomo noto, quotato, che pensa così e così e così. Noi stiamo parlando di qualcosa che forse ci interessa nella stessa misura. In altro senso, lei è sempre in contatto pratico.. Rogers: Ciò che voglio dire è che io penso che lei abbia abbastanza ragione, c'è una situazione oggettiva, che potrebbe essere misurata e persone diverse potrebbero concordare se esaminassero la situazione attentamente, ma la mia esperienza è che quando è vista dall'esterno questa stessa realtà non ha nulla a che vedere con la relazione terapeutica. C'è qualcosa di immediato, come in un incontro tra due persone su una uguale base, anche se nel mondo delle relazioni Io-Esso questa potrebbe sembrare una relazione realmente disuguale. Buber: Questo è il primo punto in cui dobbiamo dirci che non siamo d'accordo. Rogers: Va bene. Buber: Io non posso considerare solo lei, la sua visione delle cose, la sua esperienza, se avessi potuto parlare col suo cliente avrei sentito una storia molto diversa riguardo allo stesso momento. Io non sono un terapeuta e sono interessato a lei e a lui, io devo vedere la situazione, devo vedere voi due in questo dialogo ostacolato, limitato, dalla “tragedia”. Una tragedia che a volte può essere vinta o superata, anche grazie al suo metodo, io non ho assolutamente obiezioni rispetto al suo metodo, ma non sempre il metodo è sufficiente e non sempre può fare ciò che è necessario fare. Adesso le chiedo qualcosa che sembra non avere nulla a che fare con tutto questo, ma invece è lo stesso punto. Lei ha certamente avuto a che fare con schizofrenici, con paranoici, ma potrebbe dire che la situazione è la stessa in entrambi i casi? Una relazione così lontana da quella tra lei e una qualsiasi altra persona, lei potrebbe dire che è lo stesso tipo di relazione? Questo è il punto che a me interessa molto, perché sono stato molto interessato alla paranoia in gioventù e ancora di più conosco la schizofrenia, ma adesso mi piacerebbe sapere se lei ha mai incontrato un paranoico nello stesso modo. Rogers: Vorrei prima qualificare la mia risposta, non ho mai lavorato in un ospedale psichiatrico, i miei rapporti sono stati con persone in gran parte capaci di una qualche forma di adattamento alla comunità, quindi non ho mai visto persone davvero cronicamente malate. Ho trattato schizofrenici e paranoici e una delle cose che io dico in modo davvero sperimentale, perché è opposto a molte opinioni di importanti psichiatri e psicologi, è che non c'è differenza tra le relazioni che ho stabilito con le persone normali o schizofreniche o paranoiche. Davvero, io non sento alcuna differenza. Ovviamente, questo non significa che guardando la questione dall'esterno non sia possibile vedere una miriade di differenze. Però, a me sembra che se la terapia è efficace siamo davanti allo stesso tipo di incontro tra persone, al di là di ogni etichetta psichiatrica. Un'altra cosa che mi colpisce è che i momenti nei quali le persone hanno maggiori probabilità di cambiare, o ai quali io penso sempre come momenti dove le persone fanno un cambiamento, sono quelli nei quali, forse, la relazione viene vissuta allo stesso modo da tutte e due le parti. Quando lei dice che se parlasse con un mio paziente avrebbe un quadro molto diverso, io sono d'accordo riguardo a molte cose che fanno parte del rapporto, ma sospetto che in quei momenti in cui avviene un reale 18 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 cambiamento, questo potrebbe avvenire perché c'è stato un reale incontro tra persone, nel quale è stata vissuta la stessa esperienza dalle due parti. Buber: Questo è davvero importante, questo punto è per me particolarmente importante e anche la sua risposta. Un punto davvero focale del mio pensiero è il problema dei limiti, nel senso che ho dedicato tutti i miei pensieri e la mia esistenza a questo tema, ma sono arrivato, a un certo momento, a un muro, a un confine, a un limite che non posso assolutamente ignorare e questo è vero anche per ciò che mi interessa sopra ogni cosa: gli effetti sull'uomo del dialogo; il vero dialogo, che non è un semplice parlare, che può essere silenzioso, può essere fatto senza un ascoltatore, può essere un sedere insieme o camminare insieme in silenzio e potrebbe anche essere un dialogo. Però, anche in un vero, totale, dialogo ci sono dei limiti, per questo sono interessato alla paranoia, perché a volte è molto difficile parlare con uno schizofrenico, a volte posso farlo, fino al punto in cui lui mi lascia entrare nel suo particolare mondo, che è proprio suo e di solito non vuole che altri vi entrino. Lui può permettermi di entrare, ma nel momento in cui si chiude in se stesso io non posso continuare; succede lo stesso, nello stesso terribile modo, con i paranoici. Loro non si aprono e non si chiudono, loro sono chiusi, c'è qualcosa in loro che li chiude. È il loro terribile destino e io lo sento molto forte perché anche nel mondo degli uomini normali una persona può diventare, essere chiusa verso alcune altre e il punto è se lui può essere aperto, se può aprire se stesso; questo è il problema per l'umanità in generale. [Intervento di Friedman, sulla non totale reciprocità della relazione terapeutica, ma non è questo ciò che Rogers ha detto.] Buber: Riguardo alle relazioni Io-Tu e terapeutica rimane una decisiva differenza; il punto è di voler aiutare l'altra persona, ma il paziente è un uomo all'inferno e non può pensare, neanche immaginare, di aiutare un'altra persona; come potrebbe? Rogers: Però sorge qualche differenza. Perché a me sembra, ancora, che nei più autentici momenti della terapia, io non credo che questa intenzione di aiutare sia più che un substrato anche dalla mia parte. In altre parole, sicuramente non avrei potuto fare questo lavoro se non avessi avuto quell'intenzione. E quando vedo il cliente per la prima volta, ciò che io spero è di essere capace di aiutarlo. Però, nell'interscambio del momento, io non penso che la mia mente sia piena del pensiero “Adesso io voglio aiutarti.” C'è molto di più, “Io voglio capirti. Che persona sei tu dietro questo schermo paranoide o dietro tutte queste schizofreniche confusioni o dietro tutte queste maschere che tu stai indossando nella vita reale? Chi sei tu?” Mi sembra che questo sia un desiderio di incontrare la persona, non “Adesso io voglio aiutarti.” Mi sembra che sia più di questo. Ho imparato attraverso la mia esperienza che quando noi possiamo incontrarci allora l'aiuto accade, ma è un sotto-prodotto. Friedman: Lei sarà d'accordo che questo non è totalmente reciproco, nel senso che l'altra persona non ha lo stesso atteggiamento di voler capire lei, che tipo di persona è lei. Rogers: L'unica cosa che mi chiedo in certi momenti è se non è reciproco, nel senso che io sono capace di vederlo per come è e lui può realmente 19 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 percepire la mia comprensione e la mia accettazione. E questo, penso, è ciò che è reciproco ed è, forse, ciò che produce il cambiamento. Buber: Sono totalmente con lei e con la sua esperienza, ma devo vedere l'intera situazione, la sua esperienza e quella dell'altro. È lei che fa qualcosa per rendere lui uguale, lei supporta i bisogni dell'altro nella relazione, lei gli dà ciò che lui desidera per diventare capace di essere, può succedere solo per pochi minuti, ma questi minuti sono resi possibili da lei, per niente da lui. Rogers: Capisco, ma non sono d'accordo perché a me sembra che ciò che io do a lui è il permesso di essere, questo è in qualche modo diverso dal concedergli qualcosa. Buber: Io penso che nessun essere umano possa fare più di questo, fare che la vita sia possibile per un altro, sia pure solo per un momento. Permesso. Rogers: Bene, credo che fin qui siamo d'accordo. Questo scambio è un esempio di ciò che abbiamo precedentemente anticipato riguardo alle caratteristiche del vero dialogo. Qui sembra che tra Buber e Rogers ci sia una certa non comprensione delle rispettive posizioni, sembra che ciascuno alla fine rimanga delle proprie opinioni, eppure, leggendo con attenzione le loro parole e le loro opere, sia antecedenti sia successive al dialogo, appare abbastanza evidente come possa esserci un accordo più profondo. Buber parla spesso dell'importanza dei “momenti” e sottolinea che quelli più significativi sono là dove la vita di una persona può essere riordinata; l'evento dell'incontro, per il tempo che dura, rende l'uomo libero e creativo, non più irrigidito (Buber, 1923). In psicoterapia, si parlerebbe di “ristrutturazione del campo” e di apertura a nuove possibilità, di “esperienze emozionali correttive”. La domanda di Rogers chiama direttamente in causa le esperienze di Buber e non solo le sue teorizzazioni, inoltre Rogers sottolinea e ripete varie volte che lui non si riferisce alla totalità della relazione terapeuta-cliente, ma solo a quei momenti realmente efficaci, quelli dove avviene il cambiamento. Non a caso, in quegli anni, Rogers stava lavorando sul concetto dell'importanza di alcuni momenti cruciali in terapia, punti di svolta o episodi critici, nei quali la comunicazione ha un ruolo particolarmente rilevante e dai quali è più probabile che abbia inizio un processo di crescita. Inoltre, per tutto il suo percorso di lavoro e di elaborazione teorica, Rogers mantiene la convinzione che la terapia è al più una questione di momenti e considera questa sua posizione in accordo con il pensiero di Buber sulla relazione Io-Tu. Arriva a dichiarare (Rogers, 1987), che nei momenti importanti di cambiamento in terapia la questione della completa uguaglianza o disuguaglianza è totalmente irrilevante. Rogers sostiene che come terapeuta può aver aiutato certi momenti a concretizzarsi, quindi la relazione può sembrare diseguale, ma nel momento cruciale in cui il cambiamento avviene il problema scompare. D'altra parte Buber, in questo stesso dialogo, ha già affermato di sentire di non avere il diritto di cambiare un'altra persona se non essendo aperto alla possibilità del proprio cambiamento. In questo scambio, Rogers esprime tutte e tre le condizioni di facilitazione del cambiamento che sono il punto fermo di tutta la sua 20 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 opera. Il riferimento alla trasparenza prepara il concetto di congruenza, quello all'accettazione riflette il suo interesse per una considerazione positiva incondizionata, infine vi è l'accenno chiaro, sia pur indiretto, all'empatia, laddove parla di vedere l'esperienza del cliente come dal suo interno, ma senza perdere il senso della separatezza e della propria personalità. Il cliente deve percepire questi fattori, se questo accade allora avviene un incontro tale che entrambi sono cambiati; anche se si può presumere, ed è auspicabile, che il cliente viva un cambiamento maggiore di quello che può sperimentare il terapeuta. Un altro punto importante, in questo frammento di scambio, è il rifiuto di Rogers di accettare l'etichetta “malato”, come se già questa fosse in sé motivo di disuguaglianza e questo ricorda il suo rifiuto di considerare la diagnosi come momento iniziale della psicoterapia. «La nostra esperienza ci ha portato alla conclusione sperimentale che una diagnosi delle dinamiche psicologiche sia non soltanto inutile, ma in un certo senso dannosa» (Rogers, 1951, trad. it., p. 209) ed esprime, principalmente, due ragioni a sostegno di questa tesi: la perdita di fiducia del cliente in se stesso e il suo affidarsi sempre di più all'esperto e le implicazioni sociali e psicologiche della valutazione del cliente da parte del terapeuta (ibidem). Riguardo al punto cruciale della reciprocità del cambiamento che viene sperimentata in psicoterapia, Buber afferma con forza che il cliente non può aiutare il terapeuta, che non è interessato a conoscerlo come persona, né capace di farlo. Affermazioni non supportate da esperienze ma solo dalla sue riflessioni, quasi dimentico di ciò che aveva detto poco prima rispetto alla sua personale disponibilità ad essere cambiato nell'incontro e al fatto di non essere convinto della distinzione tra persona sana e persona malata. Rogers, invece, supporta le sue convinzioni con la sua personale esperienza e con quella di molti suoi colleghi psicoterapeuti; è d'accordo con Buber che il terapeuta ha lo scopo esplicito di aiutare l'altra persona, che può vedere la situazioni con minori distorsioni, che il cliente non è interessato a conoscere il terapeuta, quantomeno non allo stesso suo modo, ma in un qualche modo si interessa a lui ed è proprio questo che facilita il cambiamento di entrambi i membri della relazione terapeutica. Buber sottolinea l'oggettività dei limiti imposti all'uguaglianza dalla particolarità della situazione terapeutica, sembra qui che per lui l'uguaglianza sia in qualche modo dipendente dai ruoli e dai limiti interpersonali e sia riferita all'intera situazione, nella sua globalità. Per Rogers l'uguaglianza non è pre-determinata dalla situazione, ma è acquisita nei momenti di reciproco riconoscimento della basilare umanità, pur se le due persone mantengono ruoli diversi e una differente limitazione degli stessi. Anzi, la reciprocità, la capacità che il cliente può acquisire di vedere la situazione anche da un altro punto di vista, è un indice di progresso della terapia e un indicatore del suo possibile successo (Rogers, 1961). Nella Postfazione (1957-58) ad Io e tu, scritta col fine di chiarire e precisare le teorie esposte nel saggio, Buber scrive: «Si chiede: come stanno le cose nel rapporto io-tu tra gli uomini? È sempre nella piena reciprocità? È capace di esserlo, può esserlo sempre? Non è, come tutto ciò che è umano, consegnato alla limitatezza dalla nostra insufficienza? Non è sottoposto 21 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 anche alla limitatezza dalle leggi interne del nostro vivere comune?… tutto ti dice che la piena mutualità non è intrinseca alla vita in comune dell'uomo. È una grazia a cui si deve essere costantemente preparati e che mai si ha la garanzia di ottenere. Tuttavia c'è anche più di un rapporto io-tu che, per com'è fatto, non può dispiegarsi a piena mutualità, se deve durare così com'è» (ibidem, trad. it., p. 153). Porta come esempio il rapporto dell'educatore autentico col suo educando, dove il maestro deve essere capace di vedere la persona nelle sue attualità e potenzialità per poter favorire la realizzazione delle migliori possibilità dell'essere dell'allievo. Un altro esempio della «limitatezza normativa della mutualità» (ibidem) è la relazione tra un vero psicoterapeuta e il suo paziente, dove «la rigenerazione di un centro personale atrofizzato……riesce solo a colui che comprende l'unità latente e sepolta dell'anima sofferente e ciò si ottiene soltanto nell'atteggiamento partecipante da persona a persona, non nell'osservazione e nell'esame di un oggetto […] il medico non deve fermarsi al proprio polo della relazione bipolare, ma porsi all'altro polo con la potenza del rendere presenza e fare esperienza dell'effetto della sua stessa azione […] la relazione specifica, “salvifica”, cesserebbe nel momento in cui il paziente acconsentisse, e gli riuscisse, di esercitare a sua volta la ricomprensione,di vivere l'avvenimento anche dal polo del medico» (ibidem, p. 155). Quello che qui Buber sostiene è assolutamente in accordo con ciò che afferma Rogers sull'uguaglianza e il cambiamento che entrambi, terapeuta e cliente, sperimentano nei momenti cruciali della relazione terapeutica. Rogers sostiene che le persone non sono aiutate da esperti che danno risposte ai loro problemi, ma terapeuta e cliente costruiscono una relazione di reciproco ascolto che poggia su un uguale esperire, anche se non su un ruolo totalmente uguale. Bisogna sottolineare l'affermazione di Buber sul fatto che né il cliente né il terapeuta prestano attenzione all'esperienza che quest'ultimo vive durante le sedute, cosa questa in assoluta antitesi con la teoria della terapia rogersiana che si fonda sulla centralità della congruenza del terapeuta, al punto che la sua stessa efficacia professionale è legata all'autoconsapevolezza dell'esperienza che sta vivendo, momento per momento, durante il colloquio terapeutico e alla sua capacità di comunicare al cliente ogni persistente emozione o sentimento (Rogers, 1959-1966). «The therapist encounters his client directly, meeting him person to person. He is being himself, not denying himself. … he is willing to experience transparently any persistent feelings that exist in the relationship and to let these be known to his client» (ibidem, cit. in Kirschenbaum e Land Henderson, 1989, p. 12). «…it seems to me that genuineness or congruence is the most basic of the three conditions» (ibidem, p. 11). «… the therapist use his whole person in the relationship…» (ibidem, p. 18). La domanda di Rogers su chi è Buber fa ritornare alla sua prospettiva della terapia come rapporto dialogico, ma sottintende la domanda sul come questo può succedere se si afferma che neanche il terapeuta è consapevole della sua esperienza. In tempi successivi, Rogers affermerà che l'idea di Buber sulla 22 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 relazione Io-Tu è un'ottima descrizione dei migliori momenti della terapia e che è strano che Buber non se ne renda conto (Rogers e Russell, 1991). Le successive affermazioni di Buber sull'oggettività della situazione terapeutica, elicitano l'accordo di Rogers sul fatto che il potere e la conoscenza hanno una distribuzione diseguale, ma, esperienzialmente e all'interno di un buon rapporto in una buona terapia, le due parti sentono la loro uguale validità come persone. Qui siamo davanti ad un momento cruciale del dialogo; Buber afferma che, per la prima volta, non è d'accordo con Rogers e questo è davvero un punto concettuale di capitale importanza nel pensiero di entrambi. Buber sottolinea che l'esperienza del cliente, rispetto allo stesso momento, è sicuramente diversa da quella del terapeuta e lui è interessato ad entrambi i vissuti e, come osservatore esterno, può vedere questo dialogo limitato, ostacolato dall'interferenza della tragedia. Qui sembra proprio che Buber affermi una posizione che sente in contrapposizione con quella di Rogers, ma la prospettiva rogersiana è, invece, in totale accordo con la visione di Buber quando afferma che il terapeuta deve essere in grado di vedere l'esperienza dal punto di vista del cliente, altrimenti la terapia non è efficace. Buber stesso, in un precedente passaggio, si era detto d'accordo con questa capacità del terapeuta e non aveva dubbi che il terapeuta potesse sentire, addirittura nel suo corpo, il vissuto del paziente, la sua obiezione era relativa al fatto che il cliente non era capace di fare altrettanto. Rogers, d'altra parte, ha molto chiaro che la visione della situazione terapeutica che ha il cliente è assolutamente diversa da quella del terapeuta, quasi sempre. Sembra quindi che il vero punto di frizione non sia l'oggettività della situazione o di un diverso vissuto delle due parti, ma se in un rapporto così particolare com'è quello terapeutico possono o meno esserci momenti di vera e totale reciprocità, di uguaglianza, di riconoscimento reciproco, se e quanto è importante che questo nasca autonomamente nel cliente o sia elicitato dall'azione del terapeuta e, quale che sia la causa prima del cambiamento di prospettiva e di esperienza, se questo dà spazio all'inclusione delle relazioni terapeutiche nei rapporti dialogici, dove la relazione è di tipo Io-Tu e l'uguaglianza delle parti è totale. A questo proposito è già stato notato (infra), che Buber successivamente affermerà che i rapporti Io-Tu, per la loro intrinseca natura, non possono essere sempre nella piena reciprocità (Buber, 1958). Per sostenere la sua posizione, Buber chiede a Rogers la sua esperienza con schizofrenici e paranoici e se ha potuto incontrare i paranoici nello stesso modo dei cosiddetti normali. Rogers sostiene di non aver percepito, per quanto riguardava la sua esperienza di terapeuta, nessuna differenza tra le relazioni stabilite con le persone normali o paranoiche o schizofreniche e sottolinea ancora come nei momenti di maggiore efficacia terapeutica ci sia lo stesso tipo di relazione, al di là di tutte le etichette psichiatriche. Rogers ha fatto molta ricerca con pazienti schizofrenici e questo l'ha portato a modificare la sua teoria, enfatizzando il bisogno di congruenza o autenticità per il terapeuta e permettendo alla considerazione positiva di diventare un po’ condizionata e condizionante, perché, sia lui che altri colleghi dello stesso indirizzo terapeutico, hanno trovato che spesso era questa la condizione necessaria con alcuni clienti gravemente schizofrenici 23 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 per iniziare la relazione, perlomeno nei casi in cui appariva possibile cominciare a stabilire un qualsiasi tipo di relazione. Dai risultati del lavoro emergeva che, con persone estremamente immature o regredite, un atteggiamento critico poteva essere più efficace per instaurare una relazione e quindi una terapia, in quanto veniva percepito come segno di maggiore accettazione. Tutto questo non muta il profondo convincimento di Rogers che l'accettazione incondizionata del terapeuta sia l'elemento più efficace per il raggiungimento di una completa maturità da parte del cliente (Rogers, 1959-1966). Inoltre, il suo lavoro clinico gli ha permesso di evidenziare una interessante considerazione riguardo alle motivazioni degli esseri umani; Rogers nota che la soddisfazione data dalla scoperta di se stesso è una spinta fortissima per il cliente, fino a diventare il centro della terapia, ma questo non vale per i clienti schizofrenici. In generale questi soggetti, anche quando si rendono conto di qualche nuovo aspetto di sé e capiscono meglio se stessi, non continuano necessariamente in questa direzione, ma continuano a riferire all'esterno i propri problemi e a rifiutarsi di riconoscere i propri sentimenti. Dalle ricerche risulta, però, un dato sorprendente: i casi schizofrenici meglio riusciti mostrano, nel corso della terapia, un incremento nell'esplorazione di sé maggiore perfino dei casi nevrotici ben risolti. Questo, insieme al dato che i casi meglio riusciti sono quelli dove, fin dai primi colloqui, è emersa la capacità del cliente schizofrenico di percepire gli atteggiamenti del terapeuta, è un'ulteriore conferma del fatto che la terapia non è una questione di tecniche o di teorie, ma è prima di tutto una relazione interpersonale (Rogers, 1961). Tuttavia, nonostante Rogers basi le sue affermazioni sulla sua esperienza di psicoterapeuta, Buber ripropone il problema dei limiti al dialogo intrinseci alla condizione di schizofrenia o paranoia. Ancora, la reale difficoltà a comprendere i punti di somiglianza tra le rispettive posizioni, sembra dovuta al confondere la relazione terapeutica nella sua globalità e nelle sue condizioni oggettive con ciò che avviene in alcuni cruciali momenti di cambiamento. Rogers continua a sottolineare che lui non parla della relazione terapeutica nella sua globalità, ma si riferisce solo ai momenti più autentici della terapia, «in the most real moments of therapy» (Anderson e Cissna, 1997, p. 60), là dove l'intenzione di aiutare è niente più che un substrato in lui. Nell'interscambio del momento non c'è il pensiero di aiutare, ma c'è molto di più, c'è il desiderio di capire chi è veramente l'altra persona e di incontrarla, al di là di tutti gli schermi e le difese. Rogers ribadisce che ha imparato dalla sua esperienza che l'aiuto si produce autonomamente, quando è possibile l'incontro tra le due persone coinvolte nella relazione terapeutica, dopo di che il cambiamento diventa un effetto secondario di una relazione efficace caratterizzata da momenti di relativa uguaglianza. Sembra addirittura che, per lui, avere come scopo ultimo del proprio lavoro quello di “aiutare” possa, paradossalmente, non essere affatto d'aiuto e questo si può collegare alla sua affermazione che considerare l'altra persona come “malata” può ostacolare l'incontro. Analogamente, Rogers (1959-1966) afferma che non sono le abilità tecniche o la formazione che fanno il terapeuta efficace, ma è la presenza in 24 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 lui di certi atteggiamenti che vengono comunicati al cliente e da questo percepiti, sono “le tre condizioni” e il tentativo di vivere ateoricamente l'esperienza sempre nuova dell'incontro con ogni cliente, quindi con una posizione mentale simile a quella che Buber (infra) definisce “sorpresa”. Questa posizione di Rogers, di rinuncia all'atteggiamento “Adesso voglio aiutarti” in favore dell'atteggiamento “Adesso voglio capirti”, è realmente il centro del lavoro di tutta la sua vita. Continuando il dialogo, Buber sostiene che la base della terapia è che la relazione è legittimata, resa possibile, dal terapeuta, cosa sulla quale anche Rogers concorda, ma sottolineando la sottile e insieme sostanziale differenza che lui non si sente di “concedere” o “permettere” all'altra persona altro che il “permesso di essere”. III domanda: Incontro interiore con se stessi e problemi di terminologia Rogers: Vorrei spostarmi su un altro argomento, su un altro tipo di incontro che per me è molto significativo, sul quale lei ha scritto e che a me sembra uno dei più importanti tipi di incontro o di relazione: la persona in relazione con se stessa. In terapia, alla quale devo attingere perché è il mio ambiente, il mio background, ci sono dei vividi, cruciali, momenti nei quali la persona incontra alcuni aspetti di sé, emozioni che non ha mai riconosciuto prima, qualcosa di significativo in sé che non aveva mai conosciuto prima. Potrebbe essere qualsiasi cosa. Potrebbero essere le sue intense sensazioni di solitudine o la terribile paura di essere ferita o qualcosa di completamente positivo, come il suo coraggio o qualcosa di simile. Comunque sia, in questi momenti mi sembra che ci sia qualcosa che ha la stessa qualità che io sento in una reale relazione d'incontro. La persona è nella sua emozione e l'emozione è in lei. C'è qualcosa che la inonda, mai sperimentato prima. Penso che potrebbe essere descritto come un vero incontro con un aspetto di sé mai incontrato fino ad allora. Io non so se questo le sembra una forzatura del concetto che lei ha usato. Vorrei la sua reazione a questo. Se questo le sembra un possibile tipo di vera relazione o incontro. Io mi spingerò un passo più avanti. Io credo che quando la persona ha incontrato se stessa in questo senso, probabilmente in molti buoni aspetti, allora e forse solo allora è davvero capace di incontrare l'altro in una relazione Io-Tu. Buber: Qui abbiamo un problema di linguaggio. Lei chiama dialogo qualcosa che io non posso chiamare così, ma posso spiegare perché io vorrei, per questo, un altro termine tra monologo e dialogo. Per ciò che io chiamo dialogo è essenzialmente necessario il momento della sorpresa. Rogers: Momento di sorpresa? Buber: Sì. Essere sorpresi. Il dialogo, permettetemi di usare un'immagine popolare, è come il gioco degli scacchi. L'attrattiva totale degli scacchi è che io non so e non posso sapere che cosa il mio compagno farà. Io sarò sorpreso da ciò che farà e su questa sorpresa si basa l'intero gioco. Ora, lei può suggerire che un uomo può sorprendere se stesso, ma in un modo molto diverso da quello col quale una persona può sorprenderne un'altra. Rogers: Io penso che, per i primi due aspetti di questo, io spero di poter forse sentire qualche intervista per lei per indicare come l'elemento sorpresa 25 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 davvero può esserci. Questo è, una persona può star esprimendo qualcosa e allora, improvvisamente, essere colpita dal significato di ciò che sta dicendo e che è arrivato da qualche parte in lei che non riconosce. In altre parole, lei è realmente sorpresa da se stessa. Questo può decisamente succedere. Però, l'elemento che io ho visto essere maggiormente estraneo al suo concetto di dialogo è che è abbastanza vero che questa alterità non è qualcosa che può essere valutata. Io penso che, in questo tipo di dialogo del quale sto parlando, è questa alterità che probabilmente sarebbe abbattuta. Io mi rendo conto che, probabilmente, in parte la discussione su questo può essere dovuta ad una differenza nel suo uso delle parole. Buber: Posso aggiungere un argomento tecnico? Io ho imparato, durante la mia vita, ad apprezzare i termini. Io penso che la moderna psicologia non li ha in sufficiente misura. Quando trovo qualcosa che è sostanzialmente diversa da un'altra cosa, io voglio un nuovo termine. Io voglio un nuovo concetto. Per esempio, la moderna psicologia parla dell'inconscio che è una modalità dello psichico. Questo per me non ha alcun significato. Se qualcosa è così diversa da un'altra, come l'urlo dall'anima, cambiando continuamente, senza che sia possibile afferrare qualcosa e questo è ciò che chiamiamo inconscio, questo non è un fenomeno. Noi non abbiamo alcun accesso a questo, assolutamente, noi abbiamo solo da occuparci dei suoi effetti e cose così. Noi non possiamo dire questo è psichico e questo è psichico, l'inconscio è qualcosa nel quale psichico e psicologico sono, come dire, “mischiati” non è sufficiente. Essi penetrano l'uno nell'altro in un modo tale che noi vediamo in relazione a questo e termini come “corpo” e “anima” sono parole antiche, concetti superati e coscienza, consapevolezza, l'originaria, la principale, realtà. Come possiamo comprendere questo unico concetto, adesso? Ma questo è solo… Rogers: Io sono molto d'accordo con lei su questo, penso che quando un'esperienza è decisamente diversa, allora essa merita parole diverse. Penso che siamo d'accordo su questo. Qui possiamo notare che Buber usa i termini monologo e dialogo, mentre Rogers aveva parlato di incontro e relazione. Buber sostiene che il dialogo con se stessi manca di alterità e di sorpresa, elementi necessari ad un reale dialogo. Riguardo alla metafora degli scacchi da lui usata, si può dire che un attento e bravo giocatore è capace di costruire un calcolo abbastanza preciso delle possibili mosse, sia proprie sia dell'altro giocatore. Lo psicologo cognitivista Ulric Neisser afferma: «Una delle caratteristiche di un buon giocatore di scacchi sta nella sua abilità a raccogliere informazioni rilevanti dalla scacchiera» (Neisser, 1976, trad. it., p. 181). Si può dire che, in questo caso, la metafora di Buber sembra meno adeguata allo spirito della sua filosofia del dialogo rispetto a quella di Rogers. In uno scritto, successivo a questo incontro, Buber specificherà che il dialogo con se stessi è possibile solo perché l'uomo interiorizza la capacità di parlare con l'altro. Concetto che non è solo filosofico, ma emerge anche come risultato di un'analisi dello sviluppo della cultura umana nel passaggio dall'oralità alla scrittura (Ong, 1982) ed è molto presente in psicologia, per tutti basti ricordare Vygotskij (1934). 26 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 In questo scambio Rogers è molto sicuro della sua esperienza clinica e dell'importanza delle prove empiriche offerte dalle registrazioni dei colloqui e che possono supportare le sue affermazioni, contrarie a quelle di Buber. Rogers ammette che, in questo incontro interiore, il cliente all'inizio potrebbe non apprezzare l'alterità, ma suggerisce che al momento della sorpresa o insight questa incapacità potrebbe essere superata o abbattuta. Anche per questo, il dialogo terapeutico deve essere definito in termini di momenti più che di situazione globale. Inoltre, come già sottolineato in questo stesso lavoro, Rogers ricava dai risultati del suo lavoro clinico quanto sia importante per il cliente la scoperta di aspetti fino ad allora sconosciuti di sé e quanto questo diventi una spinta a lavorare in terapia e, anzi, finisca per diventare il fulcro del processo (Rogers, 1961). IV domanda: Natura umana come positiva o polare Rogers: Mi piacerebbe sollevare un'altra questione che per me ha molto significato, ma non so come porla. Mentre vedo le persone incontrarsi nella relazione in terapia, penso che una delle cose che sono arrivato a credere, a sentire, di cui ho fatto esperienza, è che ciò che io penso sulla natura umana, sulla fondamentale natura umana - e questo è un termine povero lei potrebbe averne uno migliore da utilizzare - è qualcosa in cui realmente si può avere fiducia. A me sembra di aver trovato, in qualcuno dei suoi scritti, qualcosa di simile, ma, in ogni modo, è stata così tanta la mia esperienza in psicoterapia che non c'è bisogno di fornire motivazioni verso il positivo, in direzione del costruttivo. Questo esiste nella persona. In altre parole, se noi possiamo liberare ciò che è assolutamente di base nell'individuo, questo sarà costruttivo. Vorrei stimolare qualche commento da lei. Buber: Non vedo l'esatta domanda in questo. Rogers: La sola domanda che sto sollevando è: “Lei è d'accordo?”, suppongo, ma se non sono chiaro mi chieda ancora. Posso provare con altre parole, in modo diverso. Mi sembra che molti dei punti di vista della psicoanalisi ortodossa hanno mantenuto la posizione che quando l'individuo è rivelato, intendo quando davvero si scende a ciò che è dentro la persona, questi è composto soprattutto di istinti e atteggiamenti e cose del genere che devono essere controllate. Ora, questo si presenta diametralmente contrario alla mia personale esperienza, secondo la quale ciò che è nel più profondo, il vero aspetto, nel quale maggiormente si può aver fiducia, è l'essere costruttivo o il tendere verso la socializzazione o verso lo sviluppo delle migliori relazioni interpersonali e cose di questo tipo. Questo ha qualche significato per lei? Buber: Vorrei porre l'argomento in modo un po’ diverso. Per quanto vedo, quando ho a che fare con, lasciatemi dire, persone problematiche o malate o cosiddette “cattive” persone; gli uomini che hanno davvero a che fare con ciò che chiamiamo spirito sono chiamati non dalle buone persone, ma proprio dalle cattive, dalle problematiche, dalle inaccessibili. I buoni, noi possiamo essere amici con loro, ma loro non hanno bisogno di questo. Io sono interessato proprio ai cosiddetti cattivi o problematici o simili. La mia esperienza è che se io riesco, e questo è simile a ciò che lei ha detto, ma un 27 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 po’ differente, se io arrivo vicino alla realtà di queste persone, faccio esperienza di una realtà polare. Rogers: Come? Polare? Buber: Realtà polare. In generale, noi diciamo che questo è A o Non-A, non può essere A e Non-A contemporaneamente. Intendo, ciò che lei dice può essere affidabile, ma io esprimerei queste posizioni in relazione polare a ciò in cui possiamo, minimamente, avere fiducia all'interno di quest'uomo. Lei non può dire, forse su questo punto siamo diversi, “Oh, io scopro, rivelo, in lui giusto ciò in cui posso avere fiducia.”; quando io lo vedo, lo afferro, più ampiamente e più profondamente di prima, io vedo la sua completa polarità e vedo come il peggio e il meglio in lui siano dipendenti l'uno dall'altro, attaccati l'uno all'altro. E io posso aiutarlo, forse essere capace di aiutare, giusto aiutandolo a cambiare la relazione tra i poli. Non per scelta, ma attraverso una certa forza che lui dà ad un polo in relazione all'altro, in modo che siano qualitativamente molto simili l'uno all'altro. Voglio dire, non c'è niente di ciò che generalmente pensiamo nell'anima dell'uomo, buono e cattivo in opposizione. C'è, ancora e ancora in modi diversi, una polarità e i poli non sono buono o cattivo, ma piuttosto sì e no, accettazione e rifiuto. Noi possiamo rafforzare, noi possiamo aiutarlo a rafforzare il polo positivo e anche, forse, la forza della direzione in lui, perché questa polarità è troppo spesso priva di direzione. È uno stato caotico, noi potremmo portare una nota cosmica dentro questo. Possiamo aiutare a mettere ordine, a porre una forma in questo, perché io penso che il buono, o ciò che possiamo chiamare buono è sempre solo direzione, non sostanza. Rogers: Giusto. E se io arrivo all'ultima parte di questo, particolarmente, lei sta dicendo che forse possiamo aiutare la persona a rafforzare il “sì”, questo significa affermare la vita piuttosto che rifiutarla. È questo.. Buber: Vede, io non sono d'accordo solo su questa parola, io non direi “vita”, non metterei un oggetto in ciò, direi semplicemente “sì”. Rogers descrive qui per Buber una versione della “tendenza attualizzante”, della sua convinzione che quando le persone non sono state ingiustamente o eccessivamente forzate o quando non sono all'oscuro di alternative comportamentali, non tenderanno a costruire scelte cattive o distruttive, ma quelle che portano ad una crescita personale e relazionale (Rogers, 1961). Sviluppando quest'idea, negli anni successivi a questo incontro, Rogers è stato contrastato dalle forti posizioni della teoria psicoanalitica che, secondo lui, presenta l'uomo come fondamentalmente difettoso o cattivo e dalla psicologia comportamentista che, per lui, caratterizza l'uomo principalmente come un sistema condizionabile di stimoli-risposte, poco più che un insieme di pacchetti di comportamenti. Qui Rogers chiarisce che la tendenza attualizzante non è verso un maggiore egoismo, ma verso la socializzazione e verso più soddisfacenti relazioni con gli altri. Questa è una delle più chiare risposte a quei critici di Rogers che insinuano che la sua filosofia promuova l'auto-assorbimento, l'eccessiva attenzione a se stessi. Rogers sostiene qui che la natura umana è, fondamentalmente, un fenomeno relazionale, che ciò che è più profondo nelle persone, una volta che le barriere psicologiche e sociali sono state superate, è la tendenza verso la relazione. Però, Rogers si dichiara d'accordo con l'affermazione di Buber 28 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 sulla realtà polare della natura umana, probabilmente sul punto che ciò che è bene, salutare, ciò che ha valore, è una direzione non una sostanza. Scriverà che una vita positiva è un processo, non uno stato dell'essere. È una direzione, non una destinazione (Rogers, 1961). Accettazione e Conferma Friedman: Sento che qui ci sono due punti correlati e molto importanti che sono stati toccati, ma non evidenziati. Quando il Dottor Rogers ha chiesto al Professor Buber il suo atteggiamento verso la psicoterapia, ha nominato uno dei fattori del suo approccio alla terapia, “accettazione”. Il Prof. Buber spesso usa il termine “conferma” e io trovo davvero importante poter chiarire se loro si riferiscono a qualcosa di simile. Riguardo all'accettazione, il Dott. Rogers ha detto che è una calda considerazione per l'altra persona e rispetto per la sua individualità, per lei come persona di incondizionato valore, per i suoi atteggiamenti del momento, senza preoccuparsi quanto positivi o negativi siano, né quanto possano contraddire altri passati atteggiamenti. Ha detto che l'accettazione di ogni fluttuante aspetto di quest'altra persona, costruisce per lei una relazione di calore e sicurezza (Rogers, 1961). Mi chiedo se il Prof. Buber potrebbe vedere il suo concetto di conferma simile a questo o come qualcosa che comprende qualche domanda sull'altro, nel senso della non accettazione dei suoi sentimenti del momento, per poi confermarlo successivamente. Buber: Voglio dire che ogni vera, potrei dire esistenziale, relazione tra due persone comincia con l'accettazione. Con questo io intendo due concetti non totalmente simili; accettazione per me significa essere capaci di dire, o meglio non di dire, ma di fare in modo che l'altro percepisca che io lo accetto proprio per ciò che è. Io ti prendo per ciò che sei. Questo, ma non solo, intendo con “confermare l'altro”. Accettazione significa accettare l'altro in questo momento, nella sua attualità. Conferma significa accettare la totale potenzialità dell'altro, anche facendo una decisiva differenza nelle sue potenzialità, distinguendo, naturalmente possiamo sbagliarci ancora e ancora in questo, ma è giusto una opportunità tra gli esseri umani. Io posso riconoscere in lui, conoscere in lui, più o meno, la persona che è stata, riesco a dirlo solo in questa forma, creata per diventare. Nel linguaggio quotidiano non riusciamo a trovare un termine per questo, perché non troviamo il concetto “essere significato, destinato, per diventare”. Questo è ciò che dobbiamo, per quanto possiamo, comprendere, se non subito almeno subito dopo il primo momento. E ora, io non solo accetto l'altro com'è, ma lo confermo, in me stesso e quindi in lui, in relazione a questa potenzialità che è significata attraverso lui e che può, adesso, essere sviluppata, può evolvere, può entrare nella realtà della vita. Lui può fare più o meno per questo scopo, ma io posso fare qualcosa. E questo con obiettivi anche più profondi dell'accettazione. Per esempio, un uomo e sua moglie, lui dice, non esplicitamente, ma attraverso la totalità della relazione con lei: “Ti accetto come sei”, ma questo non significa: “Non voglio che tu cambi”, bensì: “Scopro in te, attraverso il mio amore accettante, ciò che tu sei destinata a diventare”. 29 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Questo non è qualcosa che può essere espresso in termini ufficiali, ma può succedere che si sviluppa con gli anni di vita comune. Rogers: Bene, io penso questo… Buber: Questo è ciò che lei intende dire? Bene. Rogers: Io penso che questo suona molto simile alla qualità che è nell'esperienza che io immagino come accettazione, sebbene abbia cercato di dirlo diversamente. Io penso che noi accettiamo la persona e le sue potenzialità. Questo è, questa è la vera questione, se possiamo accettare la persona com'è, perché spesso lei è in uno stato piuttosto triste o deplorevole, se non fosse per il fatto che noi, in qualche modo, abbiamo intuito, compreso e riconosciuto le sue potenzialità. Io sento che questa accettazione, nel modo più completo, della persona com'è, è il più forte fattore che io conosco per la costruzione del cambiamento. In altre parole, io penso che liberare il cambiamento o liberare la potenzialità di trovare quello che sono, esattamente ciò che sono; io sono completamente accettato; a quel punto io non posso aiutare ma cambiare. Allora io sento che non c'è più bisogno di barriere difensive, succede che si attivano i processi di cambiamento della vita stessa, penso. Buber: Sono spiacente, non sono così sicuro di questo com'è lei, forse perché non sono un terapeuta. Io ho, necessariamente, a che fare con gli aspetti problematici nelle persone problematiche. Io non posso fare a meno di questo, non posso metterlo da parte. Come ho detto, ho a che fare con entrambi gli uomini, con le problematiche in loro e ci sono casi in cui devo aiutarli contro loro stessi. Lui vuole il mio aiuto contro se stesso. Lui vuole, la cosa più importante è che lui ha fiducia in me. Sì, la vita è diventata priva di base per lui. Non può camminare su un terreno solido, sulla terra solida. È, potrei dire, sospeso in aria. E che cosa vuole? Ciò che vuole è un essere umano in cui non solo lui ha, può aver fiducia come un uomo ha fiducia in un altro uomo, ma un essere che gli dà ora la certezza “Questo è un terreno. Questa è un'esistenza. Il mondo non è condannato alla deprivazione, degenerazione, distruzione. Il mondo può essere redento. Io posso essere redento perché c'è questa fiducia.” E, se questo viene raggiunto, allora posso aiutare quest'uomo anche nella sua lotta contro se stesso. E questo solo io posso fare se distinguo tra “accettazione” e “conferma”. Rogers: Sento che una difficoltà, col dialogo, è che potrebbe facilmente essere senza fine, ma non voglio che succeda, per riguardo al Dr. Buber e ai presenti. L'intervento di Friedman, sembra suggerire che l'accordo tra sé e l'altro sia la distinzione tra accettazione e conferma e che la posizione di Rogers sia che accettazione significa concordare con la visione che il cliente ha della realtà e di se stesso. In realtà, Rogers, in qualche modo, lotta ed è in disaccordo con i clienti e non è, automaticamente o semplicemente, d'accordo con le loro prospettive spesso distorte, sebbene si sforzi di accettarle come reali per i clienti. Però, afferma che questo disaccordo deve essere ancorato su un solido rispetto per l'altro come persona. Il terapeuta deve accettare ciò che nel cliente è spesso così orribile, debole, sentimentale, bizzarro, da giustificare l'incredulità, ma senza che proprio queste cose siano “accettate” come reali per il cliente e quindi capite, nessun progresso è 30 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 possibile verso la soluzione dei problemi del cliente stesso. Per Rogers, accettazione non significa che il terapeuta deve credere totalmente nella veridicità della visione psicotica della realtà, per esempio, ma accettare che questa sia reale e ragionevole per il cliente; in ogni caso, che il terapeuta personalmente creda o no, conferma per il cliente che lui o lei è importante. Questo riconoscimento aiuta a liberare il potenziale di crescita nella relazione. L'esempio che Buber porta per spiegare il suo concetto di conferma, fa riferimento a quelle comunicazioni che non sono espresse ufficialmente, ma che fanno parte del livello implicito della comunicazione e sono espresse anche come parte del comportamento, soprattutto non verbale; il riferimento è a ciò che Bateson (1951) chiama funzione “comando” del linguaggio, introducendo concetti che svilupperà ampiamente in seguito (Bateson, 1972) e che saranno ripresi anche da Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) nella definizione di livello “relazionale” della comunicazione, dove sostengono che ogni comunicazione non solo trasmette informazioni, ma al tempo stesso impone un comportamento. Buber aggiunge che la conferma non può essere pretesa né richiesta. Questo è un altro punto del dialogo in cui il disaccordo che sembra esserci tra Buber e Rogers appare in realtà tutt'altro che sostanziale e, considerando anche la non completa familiarità con l'inglese di Buber, viene da pensare ad un uso di termini diversi per spiegare lo stesso concetto, insieme alla difficoltà ad uscire dal proprio conosciuto quadro mentale di riferimento e ascoltare l'altro totalmente, con la mente aperta a leggere i contenuti in termini di similitudini più che di contrasti. Per Buber l'accettazione è limitata al riconoscimento del presente e parla di confermare l'altro nelle sue potenzialità di essere, Rogers unisce i due momenti e identifica l'accettazione dell'altro per come è con la conferma di tutte le sue potenzialità, come se non riuscisse a pensare ad una persona slegata dalle possibilità di cambiamento in direzione dell'attuazione delle sue potenzialità. Quello che davvero colpisce il lettore è che più Buber si sforza di spiegare la diversità tra il suo concetto di conferma e quello rogersiano di accettazione più i due concetti sembrano sfumare l'uno nell'altro. Le parole: “accettare la totale potenzialità dell'altro”, ma anche: “Io posso riconoscere in lui, conoscere in lui, più o meno, la persona che è stata, riesco a dirlo solo in questa forma, creata per diventare.”, illustrano in modo completo ed esaustivo ciò che Rogers intende per “accettazione”, ma le ha usate per Buber per spiegare cosa significa “conferma” ed in che cosa questa differisce dall'altra! Riguardo all'esempio portato da Buber, si nota l'uso del verbo accettare invece di confermare e la concordanza con la posizione di Rogers rispetto a quello che accade in terapia dove, quando le persone sono accettate come sono, allora, paradossalmente, diventano capaci di cambiare; inoltre, stranamente non sono usati termini relazionali. Riguardo alle persone problematiche e all'aiutarle contro loro stesse, contro la forza dei loro problemi così trincerati, Rogers ne parla come di uno scopo facilitato proprio da quel tipo di fiducia relazionale che Buber sottolinea. I risultati delle ricerche sulla psicoterapia con persone schizofreniche, tramite analisi delle registrazioni dei colloqui, fanno emergere che, pur nella difficoltà di ottenere cambiamenti con patologie così 31 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 gravi, i casi dove si sono potuti constatare i miglioramenti più accentuati sono proprio quelli in cui il cliente, pur se schizofrenico, era capace di percepire maggiormente la congruenza, l'empatia e l'accettazione del terapeuta (Rogers, 1961). All'interno (dell'uomo) o nel mezzo (della relazione) Friedman: Un'ultima domanda. La mia impressione è che ci sia stata una maggiore insistenza da parte del Dr. Rogers sulla più completa reciprocità della relazione Io-Tu in terapia, meno da parte del Dr. Buber. D'altronde il Dr. Rogers è più centrato sul cliente, più interessato a ciò che è appropriato alla persona, parla della capacità di aver fiducia nell'organismo, lui sostiene che il centro dei valori è all'interno della persona, viceversa, io ho tratto l'impressione, dal mio incontro col Dr. Buber, che lui veda i valori come più nel “tra”, tra Io e Tu, nella relazione. Mi chiedo se questo è un reale problema tra voi due. Rogers: Ho già espresso la mia opinione su questo, anche se con termini un po’ diversi da quelli che lei ha usato adesso. Mi sembra che lei si riferisca allo scopo verso il quale si muove la terapia, che io ipotizzo sia lo stesso scopo verso il quale si dirige l'individuo durante il suo sviluppo, fino alla maturità, come essere “adatto” o essere coscientemente e accettabilmente ciò che ognuno, molto profondamente, è. In altre parole, questo esprime una reale fiducia nel processo che noi siamo, questo, forse, non può essere completamente condiviso tra noi. Buber: Adesso, forse, ci vorrebbe un certo aiuto se aggiungo un problema che ho trovato giusto leggendo questo suo articolo, un problema che si avvicina a me. Lei parla di persone e il concetto “persona” è, apparentemente, molto vicino al concetto “individuo”. Secondo me, è consigliabile distinguere tra loro. Un individuo è giusto una certa unicità dell'essere umano. E, se può sviluppare, avviene proprio sviluppando con unicità. Questo è ciò che Jung chiama “individuazione”. Lui può diventare più e più e più un individuo senza farsi più e più umano. Io ho molti esempi di uomini diventati veri individui, molto distinti da altri, molto sviluppati nel loro essere così e così, senza essere affatto ciò che mi piacerebbe chiamare un uomo. Individuo è giusto questa unicità che può essere capace di svilupparsi. Ma persona, io vorrei dire, è solo un individuo che vive davvero col mondo, non intendo nel mondo, ma proprio in reale contatto, in reale reciprocità col mondo in tutti i punti nei quali il mondo può incontrare l'uomo. Io non dico solo con l'uomo, perché a volte noi incontriamo il mondo in forme diverse da quella umana. Questo è ciò che io chiamerei persona e, se posso dire esplicitamente “sì” e “no” a certi fenomeni, io sono contro gli individui e per le persone. Rogers: Esatto! La risposta di Rogers alla domanda di Friedman è centrata sul processo di crescita dell'uomo e ribadisce la sua fiducia nel “divenire”, ipotizzando che, forse, Buber non condivide questa sua totale fiducia. Relativamente all'ultima osservazione di Buber sulla differenza tra persona e individuo che, secondo lui, non è chiara negli scritti di Rogers, si può solo 32 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 sottolineare che proprio nell'articolo in questione, che diventerà un capitolo di On Becoming a Person (1961), Rogers spiega che gli individui non sono necessariamente “persone, ma lo diventano grazie alla loro crescente capacità di entrare in possesso di un reale contatto col mondo. Alla fine sembra che, sfortunatamente, lo scambio tra questi due grandi uomini si sia chiuso su un'incomprensione delle rispettive posizioni, in particolare su un non riconoscimento da parte di Buber di una reale condivisione di pensiero tra lui e Rogers sul concetto di persona, mentre rimane senza risposta il dubbio di Rogers sulla fiducia di Buber nella positività del processo di crescita dell'uomo. Chiusura Friedman: Siamo profondamente debitori al Dr. Rogers e al Dr. Buber per questo unico dialogo. Unico perché è un reale dialogo, che avviene davanti ad ascoltatori che prendono silenziosamente parte a questo che diventa un trialogo o anche un quadrialogo, se aggiungo me stesso. Ricordiamo che Buber aveva espresso molte perplessità sul fatto che uno scambio davanti ad un pubblico potesse avere le caratteristiche di un reale dialogo. In questo caso, il pubblico con la sua presenza, attenta ma silenziosa, ha fornito un importante contributo alla pienezza e alla genuinità del dialogo fra i due uomini; in qualche modo è stato un coautore del dialogo stesso. Considerazioni conclusive In Nachwort (1958), Buber parla in questi termini dei limiti alla reciprocità nella relazione terapeutica: «Ma, ancora una volta, la relazione specifica, ´salvifica´, cesserebbe nel momento in cui il paziente acconsentisse, e gli riuscisse, di esercitare a sua volta la ricomprensione, di vivere l'avvenimento anche dal polo del medico. Guarire, come educare, riesce solo a colui che si pone di fronte come vivente, e che tuttavia si sottrae» (ibidem, trad. it., p. 155); sembra di sentire l'eco delle parole dette da Rogers durante il dialogo: «Se il cliente arriva al punto di poter sperimentare ciò che sta esprimendo, ma insieme può sperimentare la mia comprensione di questo e la reazione a questo e così via, allora davvero la terapia è già quasi al di là, superata» (infra). Forse non è eccessivo ipotizzare che il titolo Person to Person dato da Rogers al libro edito nel 1967, sia stato ispirato dalle parole di Buber, sempre in Nachwort (1958), che definiscono l'atteggiamento partecipante del terapeuta “da persona a persona” (ibidem, trad. it., p. 154). A questo punto possiamo ritornare alle riflessioni della premessa e al rischio di leggere Rogers in modo superficiale e di banalizzare la sua opera. Le citazioni di Fritjof Capra e di Carl Gustav Jung poste ad epigrafe del presente lavoro stanno ad indicare il quadro di riferimento in cui esso si situa. L'essere umano è una parte dell'universo fisico e sociale e non può che 33 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 rispondere alle stesse leggi degli atomi e delle galassie. È nelle interrelazioni che si trovano i fili delle singole vite, ma ogni persona è un'entità unica che, principalmente, guarda a se stessa ed alla parte di realtà che riesce materialmente a raggiungere attraverso i suoi sensi. Il resto è come se non esistesse. È nell'incontro con gli altri che conosciamo la realtà loro e nostra e abbiamo l'opportunità di dare una dimensione al nostro essere. Rogers pone al centro della sua teoria della personalità l'importanza fondante del rapporto con le altre persone significative e questo resta, ancora oggi, uno dei suoi cardinali punti di forza. Come abbiamo visto, sia in questo dialogo con Buber sia in tutta la sua opera, egli non si stanca di ripetere quanto sia fondamentale, nel lavoro terapeutico come in tutte le relazioni significative, l'incontro con l'altra persona piuttosto che teorie o formazioni specifiche. Considerare l'altra come una persona con la quale è possibile instaurare un rapporto dialogico Io-Tu è, per lui, continuamente un punto di partenza e di arrivo, una stazione centrale della sua opera. Questo, tuttavia, non è un dato di fatto, non è un'evidenza scontata, è una questione di momenti, momenti centrali e autentici dove avviene il reciproco cambiamento: «the most real moments of therapy». Come sia possibile arrivare a vivere e far vivere questi momenti è uno dei capitoli ancora aperti della riflessione sulla teoria rogersiana e sull'azione dello psicoterapeuta di indirizzo rogersiano, su come porsi davanti alle profonde sofferenze di quelle persone che, a volte, neanche sono in grado di chiedere o di accettare aiuto. La teoria dell'attaccamento ha dato origine ad una enorme massa di studi e di riflessioni, ma tra tutti ci interessa sottolineare qui i contributi di Giovanni Liotti e di Daniel J. Siegel. Liotti (1994) argomenta che sono i segnali comunicativi emessi da un conspecifico, tramite le informazioni e i significati che convogliano, ad attivare i sistemi motivazionali di chi riceve ed è all'interno dei sistemi motivazionali tendenti a dare ordine e coesione alle informazioni, al fine di costituire una coerente visione di sé, degli altri e del mondo, che compare ed opera la coscienza. Ne consegue che se una relazione deve essere terapeutica, nel senso di consentire il ripristino o la conquista di un buon grado di continuità della coscienza e di coerenza nella conoscenza di sé, dovrebbe quantomeno tendere ad una ideale pariteticità e libertà comunicativa, ad una autentica intersoggettività tra pari (Liotti, 1994). Siegel (1999) sostiene che lo sviluppo della mente, che emerge dal cervello, è il risultato delle interazioni tra processi neurofisiologici e relazioni interpersonali ed esamina una serie di dati, generati dalla ricerca neuroscientifica nel corso degli ultimi anni, che possono aiutarci a comprendere come esperienze precoci di comunicazione reciproca, cioè scambi di segnali tra due persone per cui ad un messaggio segue una risposta diretta, permettano al cervello del bambino di sviluppare le capacità di regolare le emozioni, di mettersi in rapporto con gli altri, di creare una narrativa autobiografica e di affrontare il mondo in maniera positiva. Le menti di due individui possono entrare in connessione fondamentalmente attraverso comunicazioni emotive e, quindi, le relazioni interpersonali di un individuo possono avere profondi effetti sulla maturazione delle sue capacità di autoregolazione, su quei meccanismi che la mente, in quanto sistema 34 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 complesso, utilizza per coordinare e organizzare le sue attività. I processi neurofisiologici che integrano diversi aspetti delle nostre esperienze sono mediati dall'attività della corteccia orbito-frontale, ma poiché diversi studi indicano che questa rimane plastica per tutta l'esistenza, si può sostenere che le relazioni interpersonali possono fornire esperienze di attaccamento che permettono simili cambiamenti neurofisiologici anche in fasi più tardive e, in particolare, le relazioni terapeutiche possono favorire la maturazione di processi di autoregolazione più efficaci (Siegel, 1999). Terapeuta e paziente possono entrare in stati di risonanza mentale che permettono la creazione di un sistema diadico, in cui i processi di sintonizzazione affettiva favoriscono lo sviluppo di capacità di regolazione più efficaci e il movimento verso una maggiore complessità. Perché ciò si verifichi il terapeuta deve essere in grado di percepire i segnali non verbali che gli vengono trasmessi e di rispondere non solo con parole, ma cercando di accordare i suoi stati della mente con quelli del paziente; fra gli stati emozionali primari, psicobiologici, dei due individui può così crearsi una risonanza diretta (ibidem, trad. it., p. 289). In ogni caso, indipendentemente dagli strumenti e dalle tecniche impiegate, perché si possa stabilire una relazione terapeutica efficace è necessaria la presenza, da parte del terapeuta, di un profondo impegno a comprendere e condividere le esperienze del paziente; non deve mai dimenticare che le esperienze interpersonali plasmano le strutture e le funzioni del cervello da cui emerge la nostra mente. Per il terapeuta può essere un compito difficile, ma anche un grande privilegio, riuscire a mantenere una visione oggettiva dei bisogni emozionali della persona che ha di fronte, permettendo nello stesso tempo alla propria mente di entrare in sintonia con quella dell'altro (ibidem, trad. it., p. 290). In questo senso il rapporto terapeuta-paziente riflette in molti modi quella che dovrebbe essere l'essenza delle relazioni umane: comprendere e accettare gli altri per ciò che sono, cercando contemporaneamente di alimentare un'ulteriore crescita e integrazione (ibidem, trad. it., p. 291). Sembra di sentire risuonare le parole di Rogers e invece, purtroppo, in questo panorama di studi, nel quale ci auguriamo di inserire ulteriori elementi di provocante stimolo di una discussione già abbastanza viva e fertile, la teoria rogersiana brilla per la sua assenza, quasi si trattasse di campi che non hanno niente in comune, eppure è proprio qui che possiamo trovare ulteriori conferme alla sua validità nonché un incentivo per continuare nel cammino dello studio e della ricerca, anche in vista dell'apertura di nuove vie e di interessanti commistioni, seguendo quello che è sempre stato l'insegnamento migliore di Rogers: la continua evoluzione del suo pensiero alla luce dei dati che emergevano dalla riflessione sul lavoro clinico. 35 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Riferimenti bibliografici ANDERSON R. e CISSNA K.N. (1997), The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript With Commentary, State University of New York Press, New York. ARIETI S. (ed.) 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