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Rapina, il carabiniere confessa

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Rapina, il carabiniere confessa
CRONACA
Giovedì 13 novembre 2014
CERES — Il carabiniere scelto Angelo Faragò, considerato dai suoi
colleghi il “basista” dell’assalto
avvenuto all’Unicredit di Ceres,
la settimana scorsa, ha confessato. Martedì il militare, in carcere con l’accusa di concorso in
rapina, è stato interrogato dal
gip Alessandro Scialabba. Un
faccia a faccia, durante il quale il pm Ruggero Mauro Crupi,
ha contestato al carabiniere anche la calunnia. Sulla sua deposizione, però, c’è il massimo riserbo. Perché le indagini potrebbero riservare altri risvolti già nei
prossimi giorni. Gli inquirenti
temono che una parte della batteria possa aver effettuato altre
razzie nel Torinese. Dopo la rapina il bottino è stato ritrovato proprio a casa del militare.
In manette sono initi Umberto Lovento, carrozziere delle
Vallette di 44 anni, Giovanni Niosi, 35 anni, Gianluca Benedetto e
Andrea Gallo, entrambi trentenni, tutti di Torino. La svolta nelle indagini è arrivata poche ore
dopo il colpo, proprio mentre Faragò era nella caserma di Ceres
e ha ricevuto una telefonata sul
suo cellulare. A chiamarlo era
Lovento, mentre tentava di tornare a Torino e aveva perso gli
altri tre compagni, scappati nella boscaglia. Come hanno fatto i
carabinieri a scoprirlo? Lovento, in forte stato di agitazione,
ha fermato un passante: «Scusi mi sono perso, per favore mi
faccia fare una chiamata con il
suo telefonino». Il signore, gentile, glielo ha prestato. Ma poi,
sospettoso, ha contattato anche
il 112. Gli investigatori, guidati dai luogotenenti Diego Mannarelli e Ignazio Vargiu, sono
piombati a Mezzenile, hanno
bloccato Lovento e hanno controllato l’apparecchio usato per
chiamare. Il primo numero era
di Faragò. In queste ore gli uomioni dell’Arma, sono impegnati a dare la caccia al quinto componente della banda. Una pedina
di secondo piano. Per i militari
la «mente» del gruppo sarebbe
Lovento. Un soggetto con diversi precedenti, l’unico che Faragò
ha ammesso di conoscere. I due
si erano conosciuti proprio nella
carrozzeria quando Faragò prestava servizio alla stazione delle Vallette. Gli inquirenti hanno
anche ricostruito il ruolo di Faragò. Quest’ultimo aveva lavorato nel turno di notte con gli altri colleghi di Chialamberto e di
Ceres. All’ora dell’assalto, inoltre, era sicuro che in quella zona non c’erano pattuglie dell’Arma pronte ad intervenire subito.
Sempre secondo gli investigatori lui avrebbe visto i banditi arrivare a Ceres e avrebbe «controllato» la situazione per non
incappare in imprevisti. Questo
grazie anche allo scanner sintonizzato sulle frequenze del 112.
«E poi la refurtiva è stata depositata in casa sua, un posto considerato sicuro», ammette Giuseppe Ferrando, il capo della
Procura di Ivrea. Dalle indagini
è emerso che Faragò conoscesse
bene gli impiegati di alcune banche, anche perché a questi vendeva direttamente le arance che
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CERES. Arrestati il militare e quattro banditi. Ora è caccia ad un quinto malvivente
Rapina, il carabiniere confessa
Il vigile: «Ho solo fatto il mio dovere»
CERES — «Ho solo svolto il mio lavoro, e
che altro dovevo fare?». È uno di poche
parole Germano Torreno, 39 anni, l’agente della Polizia municipale di Ceres che, per
gli investigatori, è stato fondamentale nella cattura dei banditi. «Ero sulla piazza principale – racconta - davanti al municipio e a
pochi metri dalla banca. Ho notato quei tipi che salivano a bordo di due macchine e
sgommavano via in direzione di Cantoira».
Ancora: «D’istinto sono corso verso l’Uni- Germano Torreno
credit e non mi sbagliavo. Perché ho trova- (foto Sebastiano Strano)
to i dipendenti e i clienti chiusi nel bagno,
quindi li ho liberati e ho chiamato il 112. Per fortuna, nessuno era rimasto ferito, e quelli scappati sulle due auto erano i rapinatori». A
quel punto Torreno salta in auto. «Dopo un po’ ho incrociato il carabiniere di Chialamberto, che era in macchina. Siamo scesi dalle vetture e, insieme, ad un altro testimone, ho visto quella banda che stava entrando dal militare. Infatti gli ho gridato: “Guarda che i banditi
ce li hai in casa”. Improvvisamente ho visto che i tre, dal retro dell’abitazione, scappavano nel bosco. Mi sono lanciato all’inseguimento.
Mentre attendevamo i suoi colleghi per il sopralluogo nella sua casa
era molto agitato. Ora capisco perché».
(gia.gia.)
L’Unicredit assaltata, la settimana scorsa, da quattro rapinatori. Si cerca un quinto complice
si faceva arrivare dalla Calabria.
Più volte i suoi superiori l’avevano richiamato anche perché, oltre alla frutta, avrebbe smerciato dell’olio, facendo le consegne
a domicilio. La stessa che indossava quando era insella ad un
quad. «Il ragazzo è molto provato - ammette l’avvocato Wilmer
Perga, che difende il carabiniere
- Credo che in questa vicenda ci
siano altre cose in ballo. O incontrerò il pm per un colloquio. È
fondamentale capire se l’accusa
possa essere quella del concorso
oppure del favoreggiamento».
Il rogo che ha distrutto tre mezzi all’interno della ditta Iron&Steel di via Cottolengo
ne dei due intestatari». Cinquantaquattro anni compiuti da poco più di un mese, domiciliato a
Volpiano, nipote di Mario Ursini
storico riferimento delle ‘ndrine trapiantate al Nord, Macrì è
considerato un personaggio importante nel mondo calabrese.
Uno ascoltato e rispettato. Uscito dal maxi processo Minotauro
con un patteggiamento a una pena inferiore a due anni, Macrì è
VOLPIANO. ANTONINO GIAMBÒ E CARMELO CONTI A GIUDIZIO PER OMICIDIO
VOLPIANO — Andranno a giudizio davanti alla Corte d’Assise Antonino Giambò e Carmelo Conti, i
due volpianesi imputati di omicidio per i delitti avvenuti a Torino nel gennaio 2012 e nello stesso mese dell’anno successivo. È la decisione stabilita dal
gup Emanuela Romano del tribunale di Torino, che
nei giorni scorsi ha concluso l’udienza preliminare
rinviando a giudizio entrambi. Il giudice ha accolto
la tesi dell’accusa, rappresentata dal pm Paolo Cappelli, che ritiene Giambò e Conti responsabili non
solo di omicidio, ma anche di far parte di una banda
dedicata al traffico internazionale di droga e alle rapine. Il gruppo criminale sarebbe composto da dieci persone: Giambò sarebbe il capo. Dalle indagini
era emerso che la banda avrebbe gestito lo spaccio
di grosse partite di cocaina in una zona molto estesa del torinese. Avrebbe anche compiuto vari colpi, soprattutto rapine a mano armata, tra cui l’assalto a un tir carico di tondelli d’oro diretto alla zecca di Stato. Un affare da quattro milioni di euro, av-
venuto sulla Ivrea-Santhià il 22 settembre del 2011,
e non andato in porto perché dopo erano scattati gli arresti. Nei giorni scorsi il gup ha condannato
due membri della banda. Altri sei hanno patteggiato. Davanti alla corte d’Assise compariranno quindi
soltanto i due volpianesi, imputati per il reato più
grave, l’omicidio. Il primo delitto, di cui deve rispondere Giambò, avvenne il 7 gennaio 2012, giorno in
cui Pietro Tevere, 39 anni, venne trovato morto nel
bagagliaio della sua auto davanti caserma dei carabinieri della compagnia Oltredora di Torino. Sulla
nuca, c’erano i segni di un colpo di pistola. Il secondo assassinio, per cui è imputato anche Conti, era
accaduto il 5 gennaio 2013. La vittima era Cosimo
Vasile, un pregiudicato di 48 anni. Anche lui era stato colpito con un’arma da fuoco. Questa volta un
fucile, esploso con tre colpi in pieno volto. Giambò
avrebbe sparato, e Conti, secondo il pm, lo avrebbe
aiutato. Dietro gli omicidi ci sarebbe un regolamento di conti.
(e.s.)
Marando, processo
VOLPIANO — È ripreso in tri-
Sugli incendi di Caselle spunta l’ombra della ‘Ndrangheta
moniale istruita dal pm Antonio
Rinaudo – la Iron&Steel srl, di
Mappano, nata a luglio del 2008
e protagonista di robusti acquisti di quote di altre realtà produttive, «era intestata a due anonimi imprenditori», ma apparteneva a Macrì – scrivono i giudici
– che ne è stato e ne è, alla data
della sentenza, l’effettivo padrone. «Egli – si legge – l’ha amministrata attraverso la collaborazio-
MAPPANO — Vivere così non
era più tollerabile per Carla
(il nome è di fantasia), e i suoi
due figli adolescenti, uno affetto da una grave disabilità.
Insulti e minacce erano ormai
all’ordine del giorno, da quando avevano deciso di separarsi, ma il giudice aveva consentito al marito di rimanere per
sei mesi sotto lo stesso tetto,
in attesa di trovare una nuova sistemazione. Carla non ne
poteva più da tempo. I messaggi di insulti, le parolacce, le
minacce di togliersi e toglierle
la vita erano quotidiana abitudine. Fino a qualche settimana fa, quando l’uomo pazzo di
rabbia ha minacciato pure il figlio. A quel punto Carla non ce
l’ha più fatta e a chiesto coraggiosamente l’intervento degli
agenti della polizia locale di
Borgaro-Caselle di Net. Constata la situazione di pericolo,
non hanno esitato un attimo
ad allontanare (allontanamento poi decretato anche dalla
Procura) l’uomo. Importante il
ruolo dei vigili che hanno lavorato con i servizi sociali dell’Asl
To4, la casa Regina Elena onlus
di Cuorgnè che ha messo a disposizione un team di psicologi che hanno consentito di
poter sentire anche il ragazzino. Un’ operazione che ha permesso di mettere la famiglia in
(n.b.)
sicurezza.
— GIANNI GIACOMINO
INDAGINI. La ditta Iron&Steel, dove sono bruciati tre mezzi, era stata confiscata al boss Macrì
CASELLE — Dall’incendio che,
due settimane fa, ha distrutto
tre mezzi all’interno della ditta
Iron&Steel di via Cottolengo, si
allunga l’inquietante ombra della ‘Ndrangheta. E ora cresce la
paura. Anche perché l’operazione Minotauro ha svelato come
Caselle era il luogo di residenza
di alcuni “boss”, tra i quali Vicenzo Argirò, condannato, in primo
grado a 21 anni e mezzo di carcere. Ora spunta un fatto «strano»
che ha fatto rilettere gli investigatori. Perché, dall’estate scorsa, tre ditte coinvolte nei roghi
erano riconducibili a personaggi noti agli inquirenti che lavorano sulla mala calabrese. Ma è
sull’ultimo rogo doloso sul piazzale della Iron&Steel, che i carabinieri stanno concentrando la
loro attenzione. Quell’azienda risulta coniscata in via deinitiva
dallo Stato perché «nelle disponibilità ino a un anno fa del boss
Renato Macrì».
La sentenza della Cassazione
risale al 13 novembre 2013. Secondo i giudici – che hanno accolto la proposta di misura patri-
Aggressione
ora a piede libero. Ma deve fare
i conti con una maxi conisca dei
suoi beni, quelli di sua moglie e
di altri intestati a teste di ponte. Una conisca faraonica unita
all’obbligo di soggiorno per cinque anni.
A questo punto perché, si domandano gli investigatori, una
ditta, appena coniscata dal Tribunale, alla maia calabrese subisce un incendio doloso? Una rivalsa, un gesto plateale nei confronti dello Stato o un avvertimento a Macrì da parte di qualcuno? Per ora gli investigatori
indagano a tutto campo senza
tralasciare nulla. I carabinieri di
Torino e del nucleo operativo di
Venaria, però, ci vanno cauti. Ma
la tesi che circola con insistenza
è un’altra. Che, in un momento
di transizione per l’organizzazione calabrese, amputata dagli arresti e dalle condanne dell’operazione Minotauro (tra meno di
un mese inizierà il processo di
appello), si stiano creando nuovi
equilibri.
— GIA.GIA.
Alessandra, la iglia: “mio padre è una
persona attiva, il montascale lo aiuta a fare
le scale e a vivere pienamente la sua vita, i
suoi impegni, i suoi hobby. Ho scoperto con
Seniorlife alcune caratteristiche che
pensavo fossero comuni a tutti i montascale. E invece no. ”
1 Perchè il
montascale
più sottile al
mondo
4
3
22 l’unico
interamente
regolabile ed
ergonomico
2
1
3 l’unico
con inVISION
sul bracciolo
4 l’unico
interamente
sfoderabile
bunale a Torino, ed entrerà
nella fase della discussione a
partire dalle prossime udienze, il processo sull’operazione “Marcos”che riguarda alcuni miliardi di euro che i familiari di Pasquale Marando,
scomparso, considerato dalla procura uno dei boss della ‘Ndrangheta più influenti del narcotraffico, avrebbero riciclato. Gli imputati che
hanno scelto il dibattimento
sono Antonio Marando, difeso dall’avvocato Wilmer Perga, Padre Loy e i fratelli Tassone. Secondo la procura il patrimonio accumulato supererebbe i 65 miliardi di euro
e sarebbe il frutto dei traffici
operati nonostante la detenzione di Domenico Marando,
che da Rebibbia sarebbe stato
in grado di gestire il controllo
degli affari attraverso familiari
e amici. Nel 2010, a conclusione dell’inchiesta della procura
di Torino e della Dia, erano finite in manette otto persone,
tra Volpiano, Torino e la Calabria. Quattro avevano scelto il
rito abbreviato. In primo grado erano stati tutti condannati, compresi Domenico, Luigi
e Rosario Marando. Quest’ultimo è stato in seguito assolto Appello “perchè il fatto non
sussiste”, così come Luigi Marando.
(e.s.)
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