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Toracica Medicina anno XXIX · 4 · dicembre 2009 Aggiornamenti di fisiopatologia Caso clinico Il sistema colinergico Cancro, risposta non-neuronale delle immune e metastasi vie aeree Mediastinite fibrosante Rassegna di fisiopatologia, clinica e riabilitazione cardiorespiratoria Dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie Organo ufficiale della Società Italiana di Medicina Respiratoria Medicina Toracica anno XXIX · 4 · dicembre 2009 Organo ufficiale della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMeR) Consiglio Direttivo SIMeR Presidente S. Centanni (Milano) Presidente Eletto G.U. Di Maria (Catania) Past President V. Brusasco (Genova) Presidenti Onorari L. Allegra (Milano) G.W. Canonica (Genova) C. Grassi (Milano) E. Pozzi (Pavia) Vice Presidente G. Viegi (Pisa) Segretario Generale L. Richeldi (Modena) Tesoriere C. Mereu (Pietra Ligure GE) Consiglieri L. Carratù (Napoli) N. Crimi (Catania) E.E. Guffanti (Casatenovo LC) R. Pellegrino (Cuneo) Il Consiglio Direttivo della Società Italiana di Medicina Respiratoria ringrazia i Sostenitori S.I.Me.R. che hanno aderito al Progetto di sviluppo culturale della Società: A. Menarini e GlaxoSmithKline AstraZeneca • Boehringer Ingelheim • Chiesi Merck Sharp & Dohme • Nycomed Presidenti dei Gruppi di Studio Allergologia ed Immunologia G. Liccardi (Napoli) Biologia Cellulare P. Rottoli (Siena) Pneumologia Interventistica e Chirurgia Toracica L. Corbetta (Firenze) Clinica A. Palla (Pisa) Epidemiologia R. Pistelli (Roma) Fisiopatologia Respiratoria G.U. Di Maria (Catania) Infezioni e Tubercolosi L. Richeldi (Modena) Medicina Respiratoria del Sonno O. Resta (Bari) Miglioramento Continuo della Qualità in Pneumologia S. Tognella (Bussolengo VR) Patologia Respiratoria in età avanzata N. Scichilone (Palermo) Oncologia M. Caputi (Napoli) Pneumologia Territoriale F. Blasi (Milano) Componenti Aggiunti per incarichi speciali C. Albera (Torino) F. Braido (Genova) G.W. Canonica (Genova) M. Cazzola (Napoli) G. Girbino (Messina) A. Sanduzzi Zamparelli (Napoli) Collegio dei Probiviri R. Dal Negro (Bussolengo VR) G. Gialdroni Grassi (Milano) S.A. Marsico (Napoli) Revisori dei Conti R. Corsico (Pavia) C. Romagnoli (Pavia) S. Valente (Roma) SOMMARIO anno XXIX · 4 · dicembre 2009 Medicina Toracica Organo ufficiale della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMeR) ■■ EDITORIALE Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie G. Stella, E. Pozzi Rivista fondata da Carlo Grassi Direttore Scientifico E. Pozzi (Pavia) Comitato di Redazione L. Carozzi (Pisa) F. Dente (Pisa) M. Gjomarkaj (Palermo) G. Lobefalo (Napoli) S. Nava (Pavia) G. Pelaia (Catanzaro) Segreteria di Redazione A.G. Corsico (Pavia) M. Luisetti (Pavia) Tel. 0382 501029 Fax 0382 503425 e-mail: [email protected] l Edizioni Internazionali srl Divisione EDIMES Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia Via Riviera 39 - 27100 Pavia Tel. 0382 526253 Fax 0382 423120 e-mail: [email protected] Registrazione Trib. di Milano n. 729 del 18/10/2004 Variazione in corso ■■ DOSSIER Ipertensione polmonare e malattie respiratorie E. Pozzi, F. Mariani, Z. Kadija, E. Paracchini, G. Stella ■■ AGGIORNAMENTI DI FISIOPATOLOGIA Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree E. Pozzi, G. Stella Cancro, risposta immune e metastasi E. Pozzi, G. Stella ■■ CASO CLINICO Mediastinite fibrosante F. Mariani, Z. Kadija 3 23 41 50 57 EDITORIALE Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie Il processo di oncogenesi definisce una patologia complessa causata, a livello cellulare, dalla progressiva acquisizione in maniera sequenziale e frequentemente in un contesto di “instabilità” genica, di lesioni molecolari responsabili della attivazione di oncogeni e/o della inattivazione di geni oncosoppressori come prevalente conseguenza della esposizione a carcinogeni ambientali o, comunque, correlati a scorrette abitudini di vita (1). I tumori solidi infatti insorgono prevalentemente nell’adulto proprio perché le cellule del nostro organismo sono esposte a continui insulti i cui effetti dannosi si accumulano progressivamente nel loro genoma e ne inducono, infine, la trasformazione neoplastica. Queste cellule sono in grado di proliferare in modo afinalistico, invadono poi il tessuto circostante ed infine colonizzano organi a distanza (2). Il fatto che le cellule tumorali contengano diverse lesioni genetiche acquisite progressivamente nel tempo implica che il cancro sia una malattia eterogenea che è difficilmente aggredibile e che richiede la continua integrazione di trattamenti sulla base della sua stessa evoluzione. La ricerca scientifica negli ultimi anni ha raggiunto traguardi importanti e inattesi: contrariamente alle ipotesi iniziali e fortunatamente per i risvolti in clinica, le lesioni genetiche che caratterizzano la maggior parte dei tumori solidi e sono responsabili della loro progressione non sono più di alcune dozzine. Queste informazioni hanno guidato la ricerca farmacologica nello sviluppo e validazione di farmaci in grado di bloccare l’attività di un piccolo set di proteine alterate: questi sforzi hanno condot- giulia m. stella ernesto pozzi Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università, IRCCS Fondazione Policlinico San Matteo, Pavia ABSTRACT Lung cancer and targeted therapy: experiences, lessons, strategies Cancer is a genetic disease and this concept has now been widely exploited by both scientists and clinicians to design new targeted therapeutical approaches. Indeed many data have already allowed us to ameliorate not only our knowledge about cancer onset, but also about patient treatment. Correlation between genetic lesions in cancer alleles and drug response is a crucial point to identify drugs or drugs combinations that match the genetic profile of individual tumors. On the other hand, experiences derived from receptor tyrosine kinases (RTKs) inhibition have pointed out that targeted treatment is really successful only in a small subset of tumors. The latter are eventually addicted to the genetic alterations responsible for receptors activation and continued expression of their signaling pathways. Overall these observations provide a strong rationale for molecular based diagnosis and patient selection. This review analyses the current state of the art on the role of cancer genetic lesions in molecular targeting and drug response focusing on lung cancer, one of the biggest killers among human solid tumors. Particular relevance is addressed to the analysis of somatic mutations affecting the EGFR pathway transducers which actually represent the most powerful therapeutical targets. Key words: tumor target, biomarkers, molecular-based diagnose. MedicinaToracica•4/2009 3 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n to allo sviluppo dei farmaci antineoplastici di ultima generazione. Questi farmaci sono definiti “targeted” proprio perché sono in grado di inibire selettivamente la funzione di specifiche molecole attivate nel cancro (3). Questi presupposti costituiscono le basi della oncogenomica e della farmacogenomica in oncologia e da essi derivano due importanti conseguenze: - in primo luogo il trattamento dei pazienti con farmaci targeted è imprescindibile dalla identificazione della lesione molecolare che il farmaco stesso potenzialmente andrà ad inibire. In altre parole la terapia targeted è effettivamente efficace solo nei pazienti portatori di alterazioni nel DNA tumorale che rendono il tumore stesso bersaglio di un dato farmaco; - la seconda implicazione è che l’approccio diagnostico/terapeutico targeted del cancro richiede l’integrazione della dia- gnostica convenzionale istopatologica con la caratterizzazione molecolare del tumore. Ne consegue che, per l’impostazione di una terapia individualizzata del cancro, è necessaria, accanto alla classificazione d’organo e morfologica, l’identificazione delle alterazioni molecolari proprie del tumore stesso (Tabella 1). I geni critici del cancro La sempre più approfondita conoscenza del programma genetico che determina la proliferazione del clone cellulare neoplastico, la successiva invasione dei tessuti circostanti e la metastatizzazione a distanza, ha consentito di decifrare, almeno parzialmente, il comportamento clinico delle neoplasie. È ormai dimostrato che una singola cellula cancerosa è portatrice di Tabella 1 Farmacogenetica e farmacogenomica in oncologia: glossario. Variazione nella sequenza del DNA che è presente in 0,1% della popolazione -S omatica: acquisita nel corso dello sviluppo e presente solo nelle cellule in espansione clonale -E reditaria: presenti nella linea germinale (germline) e dimostrabile sia nelle cellule sane che cancerose Polimorfismo genico Variazione nella sequenza del DNA che è presente almeno nell’1% della popolazione Aumentato numero di copie di una ristretta regione cromosomica (in genere corrispondente ad un Amplificazione locus genico) genica Promuovono la crescita e la proliferazione cellulare: sono attivati in ONCOGENI da mutazioni attivanti Protoncogeni o che diventano attivanti in date condizioni non presenti nel wt; è sufficiente l’alterazione di un allele (eterozigosi) Codificano per proteine che inibiscono la crescita e la proliferazione cellulare: sono inattivati da Geni mutazioni che riducono l’attività del prodotto genico; è necessaria alterazione su entrambi gli alleli oncosoppressori (OMOZIGOSI) Geni controllori della Regolano i processi di: mismatch repair, nucleotide-excision repair, base-excision repair; controllano stabilità (caretakers) processi responsabili della ricombinazione meiotica e della segregazione cromosomica; se inattivati, mutazioni in oncogeni e geni oncosoppressori avvengo con maggiore frequenza; generalmente è necessaria l’alterazione su entrambi gli alleli Farmacogenetica Studio delle variazioni interindividuali nella sequenza del DNA in relazione alla risposta ai farmaci Studio dell’associazione delle caratteristiche del DNA e dell’RNA Farmacogenomica Trattamento che prevede l’utilizzo di farmaci che specificatamente individuano e colpiscono le cellule Terapia target tumorali Biomarcatore Caratteristica misurabile propria del DNA e/o dell’RNA, indicatore di processi biologici normali e patologici e di risposta a farmaci o ad altri interventi -B iomarcatore Predittivo: identifica i pazienti che verosimilmente risponderanno a specifiche terapie o viceversa andranno incontro ai soli effetti collaterali, prima dell’inizio della terapia stessa -B iomarcatore Prognostico: definisce, in termini probabilistici, l’andamento o la progressione della malattia Oncogenic addiction Fenomeno per cui una cellula tumorale, nonostante le molteplici alterazioni a livello genetico, diventi, per la propria sopravvivenza e proliferazione, completamente dipendente da un solo pathway derivato dall’attivazione di un determinato oncogene Mutazione genica 4 Medicina Toracica • 4/2009 Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie numerose mutazioni in diversi geni e anomalie nel corredo cromosomico che determinano una amplissima variabilità del suo profilo di espressione genica. Nel 95% dei casi di tumore solido, le mutazioni avvengono in cellule somatiche (4). Ad oggi sono noti più di 100 geni che risultano ripetutamente alterati nella cellule umane tumorali. Essi sono identificati come geni critici del cancro (gate-keepers): tale definizione rende ragione del fatto che, mutazioni che avvengono a livello di questi geni, contribuiscano alla iniziazione e progressione neoplastica. Si distinguono proto-oncogeni per i quali l’occorrenza di una mutazione conduce ad un guadagno di funzione; le forme mutanti iperattive di questi geni sono dette oncogeni. I geni in cui la presenza di una mutazione somatica induce una perdita di funzione sono, invece, chiamati geni oncosoppressori. La mutazione su un solo allele è sufficiente per indurre l’attivazione degli oncogeni: in questo caso la mutazione ha effetto dominante. Al contrario la perdita di funzione dei geni oncosoppressori necessita di una lesione su entrambi gli alleli (effetto recessivo). Una terza classe di geni (care-takers) è rappresentata da quelli che regolano i processi di riparazione del DNA e controllano processi responsabili della ricombinazione meiotica e della segregazione cromosomica: se inattivati, mutazioni in oncogeni e geni oncosoppressori avvengo con maggiore frequenza. Infine alterazioni epigenetiche (non-mutazionali) possono condurre alla aumentata o ridotta espressione di questi geni. La definizione del ruolo causale di queste alterazioni risulta di più difficile interpretazione rispetto alla identificazione di mutazioni: il livello delle alterazioni cromatiniche è difficilmente quantificabile rispetto all’evento mutazionale che è, per definizione, digitale (mutazione presente vs assente). Si definisce pertanto più precisamente il processo di oncogenesi come un processo costituito da stadi successivi caratterizzati dalla progressiva acquisizione, da parte della cellula neoplastica, di mutazioni attivanti a livello dei geni oncogeni e inattivanti a livello dei geni oncosoppressori (1). EDITORIALE Ad oggi non è stato del tutto chiarito il numero di mutazioni somatiche necessarie per l’induzione del fenotipo maligno. Si è stimato che nel corpo umano normale avvengono nel corso della vita 10 (16) divisioni cellulari; anche in un ambiente libero da mutageni le mutazioni avvengono spontaneamente, con un valore di circa 10-6 mutazioni per geni ad ogni divisione cellulare. Pertanto, nel corso della vita, è probabile che ogni singolo gene subisca una mutazione in circa 10 distinte occasioni. È stato dimostrato che la frequenza di mutazioni in una cellula tumorale è simile a quella attesa in una cellula normale al termine di diversi passaggi replicativi (6). Inoltre l’introduzione di una singola mutazione somatica in linee cellulari epiteliali immortalizzate (Knock-In) non è in grado di determinarne la trasformazione, pur inducendo le proprietà biochimiche attese dalla attivazione del gene (6). Queste osservazioni suggeriscono importanti implicazioni. In primo luogo non tutte le mutazioni risultano funzionalmente attive: si distinguono, infatti, mutazioni funzionalmente attive, driver del fenotipo maligno, e mutazioni passenger, che, invece, non esitano in variazioni fenotipiche (7). Inoltre l’instabilità genetica dal clone neoplastico è requisito essenziale per la selezione Darwiniana del clone stesso e per la progressione neoplastica; tuttavia il livello delle alterazioni genetiche deve essere evidentemente maggiore di quello di una cellula normale ma non così elevato da non consentire l’ulteriore replicazione cellulare e l’induzione del programma di apoptosi (8). Alterazione della traduzione del segnale cellulare La maggior parte dei geni critici per il cancro codificano per proteine che regolano importanti funzioni della cellula quali: sopravvivenza, proliferazione, differenziazione e motilità e mediano il cross-talk tra cellule vicine. In condizioni fisiologiche, questi processi biologici derivano, nella maggior parte dei casi, dalle interazioni Medicina Toracica • 4/2009 5 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n tra complesse vie di segnale mediate da fattori di crescita, citochine ed ormoni. Si definisce pertanto trasduzione del segnale il processo attraverso cui le informazioni vengono trasmesse dall’ambiente esterno a quello intracellulare inducendo l’attivazione di meccanismi di risposta quali proliferazione, differenziazione e morte cellulare. L’interazione tra un fattore di crescita e il suo recettore è specifica e attiva, tramite secondi messaggeri, una cascata di risposte biologiche, sovente ridondanti, all’interno della cellula. La trasmissione del segnale al nucleo della cellula conduce alla espressione di geni coinvolti nei processi di mitosi e differenziazione della cellula. In situazioni patologiche, quali il cancro, l’espressione di geni attivati da vie di segnale, a loro volta attivate da fattori di crescita, contribuisce alla induzione della proliferazione aberrante della cellula maligna. Nonostante molti dei mediatori del segnale siano ridondanti nella cellula, è importante sottolineare che: - geni diversi fanno parte della stessa via di segnale; in altre parole il numero dei pathways di segnale è definito e molto minore di quello dei geni critici del cancro; - alterazioni in un numero relativamente piccolo di vie di segnale sottendono tipi di tumore differenti. Ne deriva pertanto che esiste una cellulo-specificità dell’effetto della alterazione di una via di segnale. Inoltre è verosimile che la cronologia della acquisizione delle alterazioni sia responsabile dello sviluppo di tumori diversi a partire da una stessa cellula trasformata. Infine queste osservazioni giustificano l’efficacia - e l’utilizzo - della stessa terapia targeted in tumori differenti portatori, però, delle stesse alterazioni molecolari (9). In particolare nel cancro sono coinvolti fattori di crescita che legano recettori trans-membrana a funzione tirosin-cinasica. Le cellule tumorali sono in grado di produrre fattori di crescita e recettori inducendo la trasmissione del segnale in maniera autocrina e/o paracrina. La cellula trasformata è in grado di secernere fattori di crescita biologicamente attivi che 6 Medicina Toracica • 4/2009 attivano con loop autocrino i recettori presenti sulla superficie della cellula stessa e possono agire con stimolazione paracrina anche su cellule adiacenti. I recettori per i fattori di crescita possono inoltre essere attivati indipendentemente dalla presenza del ligando a causa di lesioni molecolari, e.g. mutazioni. Nei recettori a funzione tirosin-cinasica la presenza di mutazioni somatiche induce modificazioni conformazionali del recettore stesso che dimerizza e transfosforila il recettore adiacente assumendo, in tal modo, uno stato di attivazione persistente. Infine l’attivazione del recettore wild type può avvenire in modo inappropriato quando il recettore è presente in numero maggiore del previsto sulla superficie della cellula. Questa situazione è sovente, conseguente al fenomeno di amplificazione del gene che codifica per il recettore stesso. Oncogenetica e biologia molecolare del carcinoma broncogeno Suscettibilità dell’ospite Studi molto recenti sulla suscettibilità genetica individuale al rischio di sviluppo di cancro polmonare hanno posto l’attenzione sui polimorfismi del gene codificante il recettore nicotinico dell’Aceticolina (Ach). È stato, infatti, dimostrato che polimorfismi genici nel locus cromosomico 15q21 correlano in modo statisticamente significativo sia con lo sviluppo di tumore del polmone sia con l’abitudine tabagica o la propensione a fumare (10). In questa regione cromosomica sono contenuti diversi geni, tre in particolare che codificano per le sub-unità del recettore nicotinico dell’Ach: CHRNA5, CHRNA3 (codificano per le sub unità recettoriali α 5 e 3) e CHRNB4 (subunità recettoriale β 4). In particolare nel gene CHRNA5 una sostituzione non sinonima (D398N- sostituzione dell’acido aspartico in asparagina in posizione 398) che codifica per una regione altamente conservata del recettore (il dominio M2) Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie è uno dei marcatori di predisposizione di malattia più potenti. Poiché polimorfismi in questi geni giocano un ruolo nella dipendenza da nicotina, è stata studiata anche la correlazione tra lo sviluppo di cancro e l’abitudine tabagica: come atteso il rischio di malattia risulta maggiore nei soggetti fumatori ed ex-fumatori, rispetto a chi non ha mai fumato; non si documentano invece correlazioni con l’istotipo della malattia (11). In conclusione si potrebbe affermare che la variabilità genetica individuale, in particolare nell’ambito del braccio lungo del cromosoma 15, correla direttamente con il rischio di dipendenza da nicotina e, quindi, può esporre al rischio di sviluppo di patologie correlate al fumo, quali il tumore polmonare e le malattie cardiovascolari. Un ulteriore meccanismo di incrementata suscettibilità allo sviluppo di carcinoma broncogeno è rappresentato dalla ridotta capacità di riparazione del DNA, soprattutto in soggetti fumatori. In particolare alterazioni germinali dei geni del sistema di Nucleotide Excision Repair (NER), tra cui ERCC1 (Excision Repair Cross Complementing-1) e RRM1 (Ribonucleotide Reduttasi Subunità-1) sono state associate ad un maggior rischio di insorgenza di cancro. L’aumentata espressione di ERCC1 e RRM1 nel NSCLC correla con una prognosi migliore ma con ridotta sensibilità alla terapia con platino (12). Alterazioni molecolari responsabili dello sviluppo e della progressione neoplastica I fattori ambientali (e.g. fumo di tabacco) e la suscettibilità individuale interagiscono nel processo di carcinogenesi polmonare. L’esposizione cronica ad agenti cancerogeni induce la formazione di lesioni epiteliali multifocali che presentano alterazioni genetiche identificate in perdita di eterozigosità dei loci 17p, 3p, 9p, 8p, 18q e amplificazione di 11q13. Ciascuna lesione “patch” ha origine monoclonale e non presenta caratteri di crescita invasiva e/o metastatica (lesione pre-maligna). È pertanto verosimile che, nei soggetti fumatori, il fenomeno di cancerizzazione d’organo (field cancerization) culmini nella trasformazione maligna partendo da cellule precur- EDITORIALE sori (Cancer Stem Cells) che derivano da quadri cito-istologici pre-neoplastici. I carcinomi che insorgono nei soggetti fumatori e nei non fumatori presentano profili molecolari distinti, incluse mutazioni di p53, KRAS, EGFR ed ErbB-2. Questi marcatori molecolari sono predittivi di rischio ma anche di prognosi e sensibilità al trattamento. Così possono essere identificati marcatori della fase precoce (e.g. mutazioni di p53 ed EGFR) e marcatori della fase tardiva (e.g. mutazioni di PIK3CA) di sviluppo del cancro; questi marcatori possono inoltre essere rilevanti per la definizione dei meccanismi di resistenza ai farmaci targeted. Alterazioni precoci del cancro polmonare sono costituite dalla perdita di eterozigosità della regione cromosomica 3p21.3 (dove sono localizzati i geni RASSF1A e FUS1); 3p14.2 (dove è localizzato il gene FHIT- fragile histidine triad gene), 9p21 (p16) e 17p13 (p21). Tutti questi geni sono geni oncosoppressori. Mutazioni di EGFR avvengono precocemente nello sviluppo di ADK non correlato al fumo di tabacco mentre nei soggetti fumatori si sviluppano più precocemente mutazioni di KRAS. Successivamente, nella progressione tumorale, è descritta l’alterazione di oncogeni responsabili dell’incremento della motilità cellulare (PI3CA) e della crescita invasiva. Il profilo molecolare del NSCLC è differente da quello del SCLC (13). In generale molti dei risultati ottenuti dalla ricerca scientifica sono relativi al carcinoma broncogeno non-a-piccole cellule: il microcitoma polmonare è molto spesso accomunato al NSCLC ma è evidente che si tratta di una patologia distinta, anche per quanto riguarda le alterazioni genetiche driver. La maggior parte degli studi clinici recenti sono tuttavia attuati su casistiche di NSCLCs e i risultati semplicemente traslati al microcitoma. Infine è importante sottolineare che i tumori solidi sono costituiti da più tipi cellulari che differiscono per lo stato di differenziazione (proliferative hierarchy) ed inoltre contengono un subset cellulare con caratteri fenotipici di staminalità (CSC) che mantiene l’esclusiva abilità di sostenere Medicina Toracica • 4/2009 7 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n la tumorigenesi e che esprime in maniera costitutiva marcatori molecolari aspecifici di multi-resistenza ai farmaci (14). È stato ipotizzato che nell’albero respiratorio esistano nicchie di cellule staminali diverse; è verosimile che da esse originino le CSCs del carcinoma broncogeno. Nel tratto prossimale le cellule basali hanno fenotipo stem-like mentre nel tratto più periferico l’identificazione morfologica delle cellule staminali è più difficile: probabilmente tali cellule sono rappresentate dalle cellule di Clara nei bronchioli e dai pneumociti di tipo II a livello alveolare. Varianti di queste cellule sono probabilmente le cellule inizianti il carcinoma broncogeno: non sono ad oggi note le lesioni molecolari responsabili della trasformazione delle cellule staminali in CSCs e della differenziazione di queste ultime in cellule della massa neoplastica vera e propria (15). Dalla farmacogenetica alla farmacogenomica L’applicazione di queste conoscenze ha interessato evidentemente anche la ricerca farmacologia, non solo ma soprattutto in campo oncologico. I primi farmaci antiblastici utilizzati in clinica sono stati quelli che hanno come target il DNA e il suo sistema di riparazione: agenti alchilanti (ciclofosfamide), analoghi nucleosidici (es. gemcitabina, citosina arabinoside), e inibitori enzimatici (5-fluoro-uracile, metotrexate); sono stati successivamente introdotti farmaci in grado di agire e bloccare il ciclo cellulare, quali ad esempio agenti antitubuline (paclitaxel, docetaxel), alcaloidi della vinca (vincristina e vinorelbina) così come inibitori della topoisomerasi I e II (irinotecan, topotecan) e antracicline (doxorubina, daunorubicina). L’utilizzo di tali farmaci ha condotto alla possibilità di ottenere, almeno in alcuni tipi di tumori umani, una remissione più o meno durevole della malattia; d’altro canto, nonostante molteplici studi rivolti alla delucidazione molecolare dell’azione di questi farmaci e alla definizione dei meccanismi di resistenza messi in atto nelle cellule tumorali 8 Medicina Toracica • 4/2009 trattate, il rischio di fallimenti terapeutici dovuti a multiresistenza o a tossicità gravi risulta molto elevato e invariato nel tempo. Sebbene la risposta ad un farmaco costituisca un fenotipo regolato da molteplici fattori, è attualmente confermato che la sistematica analisi mutazionale e funzionale delle alterazioni geniche sia alla base della ricerca in campo farmacologico. La “nuova generazione” di farmaci antineoplastici attualmente in commercio e sui quali si stanno indirizzando gran parte degli studi scientifici, è stata studiata con un approccio differente, derivato dall’approfondimento delle conoscenze biomolecolari del processo di oncogenesi e dalla parallela applicazione di nuove tecnologie: se si può individuare il bersaglio dei farmaci chemioterapici classici nei meccanismi di replicazione della cellula neoplastica (quali, ad esempio, la regolazione del ciclo cellulare e dei meccanismi di riparazione del DNA), si può pensare ai nuovi farmaci “targeted” come a molecole che bloccano i segnali che portano la cellula neoplastica alla replicazione. Le potenzialità della farmacogenomica sono enormi, le tecniche di genotipizzazione ad elevata sistematizzazione ed efficienza (highthroughput sequencing analysis) consentono di testare migliaia di polimorfismi genici in una singola piattaforma; è possibile, da un singolo campione di sangue o di tessuto bioptico del paziente, eseguire analisi “di screening” per un pannello di migliaia di geni e testare quelli in grado di determinare la risposta ad un dato farmaco (16). Il valore in clinica di questo tipo di analisi risulta di grande interesse: la valutazione biomolecolare di una patologia riveste infatti un aspetto fondamentale non solo al momento della diagnosi, ma diventa imprescindibile per l’impostazione della terapia e nella valutazione della variabilità nella risposta interindividuale ad un dato trattamento. La definizione di farmacogenetica applicata ai farmaci di nuova generazione risulta, in questo senso, più complessa perché “lo studio delle variazioni individuali nella risposta ai farmaci” prevede l’analisi integrata sia dei geni codificanti per proteine coinvolte nei processi di Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie metabolizzazione dei farmaci sia dei geni coinvolti nei pathways di segnale a livello intra ed intercellulare. Il disegno di nuovi farmaci è basato sulla integrazione delle informazioni derivate da una duplice “prospettiva molecolare”: - intracellulare: la crescita e la progressione tumorale derivano dalla attuazione di specifici programmi genetici a livello cellulare e dalla attivazione aberrante di segnali di proliferazione e di crescita; - intercellulare: alterazioni genetiche e biochimiche che hanno luogo nello stroma peritumorale (e.g. neoangiogenesi, ipossia tissutale) contribuiscono all’attivazione dei programmi di proliferazione e invasione neoplastica. Nella identificazione dei meccanismi molecolari alla base dell’effetto di un dato trattamento è importante sottolineare alcuni punti critici: 1) la componente genetica della risposta ai farmaci è molto spesso poligenica. Gli approcci sviluppati per lo studio dei determinanti poligenici sono basati essenzialmente su: - analisi e mappatura di dati siti di polimorfismo; - analisi di geni candidati basate sulla conoscenza a priori del meccanismo di azione del farmaco e dei pathways molecolari coinvolti nel suo metabolismo; il limite di questa strategia è dovuto essenzialmente alla spesso incompleta conoscenza della farmacocinetica e dei meccanismi di azione di un farmaco; 2) la necessità di una caratterizzazione biomolecolare della patologia da trattare; ciò consente di: - disegnare molecole in grado di bloccare precisi bersagli molecolari che sono diversi non solo in patologie diverse, ma in diversi pazienti con la stessa patologia; - identificare parametri utilizzabili per la valutazione quantitativa della risposta al farmaco. Si deve sottolineare come questo tipo di approccio possa condurre a revisioni delle classificazioni nosologiche - non solo per le patologie neoplastiche - basate sulla identificazione di determinati genotipi che, sebbene possano esitare in classi fe- EDITORIALE notipicamente non distinguibili, sono, in ultimo, responsabili della evoluzione della malattia e della variabilità nella risposta al trattamento. Nonostante la ricerca scientifica e i progressi tecnologici abbiano consentito di definire molti dei targets molecolari attivi in diverse patologie, soprattutto in campo oncologico, verso i quali sono state sviluppate decine di nuove molecole, l’evidenza dei dati clinici non consente entusiasmi: nell’ambito dei trattamenti oncologici le terapie convenzionali con agenti citotossici continuano ad essere la scelta in prima linea anche se sempre più spesso vengono associate al trattamento con farmaci “nuovi”. La sostanziale mancata efficacia della terapia target deriva da diversi fattori e in primo luogo dal fatto che il blocco di una singola via di segnale non è, evidentemente, sufficiente a inibire la proliferazione cellulare. Su questa base devono essere ridefiniti alcuni parametri della farmacologia classica, quali: - la resistenza al trattamento; - la tossicità del farmaco; - l’individuazione di biomarkers ed endpoins surrogati per la valutazione della risposta al trattamento. Valutazione dei meccanismi molecolari di resistenza ai farmaci biologici I farmaci di nuova generazione hanno, per definizione, una azione selettiva e specifica basata in generale sulla inattivazione di una cascata di segnale attivata in maniera aberrante nel tempo e nello spazio. La mancata efficacia del farmaco può risultare da una non corretta identificazione del bersaglio molecolare o da una inappropriata strategia di inibizione del bersaglio stesso. È evidente, inoltre, che il blocco di una sola via di segnale è insufficiente per inibire la proliferazione cellulare che risulta invece dalla attivazione integrata a diversi livelli di numerose, ma definite, cascate di segnale (17). Su questa base si è passati dal disegno di farmaci altamente selettivi (e.g. Gefitinib su EGFR mutati) allo sviluppo di inibitori selettivi per le tirosin-cinasi ma meno specifici (e.g. Dasatinib, Lapatinb), in modo da colpire con Medicina Toracica • 4/2009 9 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n un solo farmaco più bersagli e/o all’utilizzo integrato di più farmaci (inibitori delle tirosin-cinasi e dell’angiogenesi). La cellula neoplastica inoltre può mettere in atto strategie che rendono la propria replicazione indipendente dal segnale bloccato dal farmaco. Ciò si realizza con eventi mutazionali (alterazioni di nucleotidi che, tradotti in proteine a struttura stericamente differente, rendono il sito bersagliato dal farmaco inattivo o inaccessibile) o biochimici (attivazione di sistemi di efflusso del farmaco o di sua inattivazione enzimatica - resistenza intrinseca o primaria). Molto spesso inoltre si assiste ad una iniziale parziale risposta al trattamento, seguita da una ripresa della malattia che diventa insensibile al farmaco precedentemente attivo (resistenza acquisita o secondaria). Se da un lato è documentabile che il genoma delle cellule tumorali è soggetto a mutazioni il cui accumulo può rendere inefficace un trattamento che precedentemente lo era stato, nella valutazione della risposta o mancata risposta ad un trattamento appare importante sottolineare che: - parte della “massa neoplastica” è costituita da tessuto di supporto che, pur avendo un ruolo importante nella progressione della malattia, può non presentare le alterazioni geniche delle cellule cancerose risultando, pertanto, non sensibile alle terapie target utilizzate e inoltre può essere responsabile di ridurre l’afflusso al tumore del farmaco in concentrazione terapeutiche (18). Questa considerazione giustifica l’associazione di farmaci che bersagliano lo stroma tumorale (antiangiogenetici, inibitori di fattori di crescita) (19); - le cellule staminali neoplastiche, da cui si genera il clone maligno, presentano caratteristiche che fisicamente (la niche è spesso scarsamente raggiunta da concentrazioni terapeutiche del farmaco) e biochimicamente (il sistema di MDR è costitutivamente attivo) le rendono scarsamente sensibili ai farmaci (20). Inoltre queste cellule, verosimilmente, non presentano attivazione aberrante delle cascate di segnale di proliferazione (anche se non sono molti i dati relativi 10 Medicina Toracica • 4/2009 al sequenziamento genico del loro DNA) per cui risulta, a priori, privo di efficacia ogni trattamento che preveda una inibizione specifica di un qualsiasi segnale iperattivo (per mutazione o iperespressione genica). Molta parte degli studi scientifici è attualmente orientata a migliorare la caratterizzazione molecolare di queste cellule, anche per le potenziali conseguenze in ambito farmacologico o, meglio, farmaco genomico. Valutazione della tossicità e identificazione degli endpoints surrogati I farmaci di nuova generazione non presentano effetti tossici di particolare gravità, soprattutto se confrontati con i farmaci convenzionali. I farmaci chemioterapici convenzionali hanno una azione prevalentemente citotossica che risulta in una inibizione della crescita cellulare; la sostanziale non selettività di azione è correlata all’elevato grado di tossicità che presentano. Il meccanismo di azione particolarmente selettivo dei farmaci “targets” non richiede dosi terapeutiche elevate e, non avendo essi effetto su cellule genotipicamente normali, il loro profilo di tossicità è decisamente meno significativo. Le tossicità riportate per questi farmaci riguardano prevalentemente astenia e fatigue, disturbi gastrointestinali e rash cutanei (definite dai Common Toxicity Criterias) che sono, però, responsabili della sospensione del trattamento (se CTC grado 3-4) in una ridotta percentuale di casi. Ne consegue che un incremento della dose a livelli di tossicità non è generalmente necessario e che la correlazione dose/tossicità è un parametro scarsamente significativo, probabilmente inappropriato per valutare l’efficacia di questo tipo di terapia. L’azione antineoplastica di questi farmaci è fondamentalmente citostatica: ne deriva che i regimi di trattamento sono caratterizzati da tempi lunghi e dosaggi bassi e che la variazione della dimensione del tumore deve essere presa in considerazione solo parallelamente alla individuazione di altri parametri. Si parla di “dose biologicamente attiva” per identificare quel dosaggio del farmaco in grado di produrre il massimo effetto di Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie inibizione sul pathway di segnale che ne costituisce il bersaglio (21). Nel processo di sviluppo di un farmaco target il primo passo è costituito dalla corretta identificazione del bersaglio molecolare, la cui attivazione ha un ruolo critico nella patogenesi del tumore. A questo punto vengono utilizzati approcci di genetica, citogenetica e proteomica per caratterizzare, in fase pre-clinica, il bersaglio molecolare e disegnare un farmaco appropriato. La traslazione in clinica presenta in genere diversi problemi legati all’arruolamento dei pazienti il cui tumore presenti le caratteristiche biomolecolari coerenti con quelle note per essere soggette all’effetto del farmaco (selezione accurata dei pazienti attraverso analisi genetiche e citogenetiche altamente specifiche); un ulteriore problema è legato alla possibilità di quantificare l’inibizione ottimale nel tessuto tumorale: proprio in considerazione del meccanismo di azione di questi farmaci i criteri RECIST (22) di valutazione “macroscopica” della risposta al trattamento risultano insufficienti. Sulla base della difficoltà di questi procedimenti necessari per definire l’efficacia di un farmaco si è cercato di identificare parametri biomolecolari (markers) utilizzabili per monitorare l’andamento clinico. In generale si definisce endpoint surrogato di un trattamento clinico “qualsiasi test di laboratorio o segno obiettivo clinicamente utilizzabile come parametro significativo, in grado di quantificare lo stato clinico del paziente e la sopravvivenza; variazioni dell’endpoint surrogato devono rispecchiare variazioni significative dell’andamento clinico” (23). Endpoints surrogati possono essere utilizzati per supportare una approvazione “accelerata” di un farmaco se il surrogato è ragionevolmente correlato e predittivo dell’endpoint clinico di interesse. Il corretto utilizzo di questo tipo di approccio assume a priori una corretta relazione risposta clinica/parametro surrogato che presuppone una corretta conoscenza dei pathways di traduzione del segnale nella cellula neoplastica - ad esempio la quantificazione della fosforilizzazione delle proteine a valle della cascata EDITORIALE di attivazione di EGFR può rappresentare un endpoint surrogato per la determinazione dell’attività del farmaco inibitore del recettore migliore rispetto alla segnalazione degli eventuali effetti collaterali. Un ulteriore parametro utilizzato per la valutazione dell’efficacia di questi farmaci è il cosiddetto tessuto surrogato (surrogate tissue) che indica la necessità di ottenere campioni di tessuto adeguato per valutare l’azione inibitoria (24). Per esempio studi di farmacodinamica di inibitori di EGFR in campioni di cute avevano dimostrato una significativa inibizione del segnale di crescita cellulare; gli stessi studi in tessuti neoplastici hanno mostrato risultati meno entusiastici, seppur significativi e tali da giustificare la loro introduzione nei regimi terapeutici (25). Razionale dell’utilizzo degli inibitori della tirosin cinasi EGFR nella terapia del carcinoma broncogeno Il processo di fosforilazione delle proteine è una reazione biochimica molto ben caratterizzata che è alla base della regolazione reversibile della attività delle proteine. Le protein-cinasi e le protein-fosfatasi costituisco gli attori principali di queste reazioni e il loro ruolo è, pertanto, fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi della cellula; viceversa una attività aberrante di questi enzimi è spesso alla base di diverse patologie, in primo luogo le neoplasie. Nel corso della reazione di fosforilazione un gruppo fosfato viene aggiunto, attraverso un legame fosfo-diestere, alla terminazione idrossilica di un residuo di un dato aminoacido, prevalentemente serina, treonina o tiroxina. Il gruppo fosfato è portatore di una carica negativa e il suo attacco ad un residuo aminoacidico può determinare modificazioni conformazionali della proteina. La reazione di fosforilazione presenta alcune peculiarità: è rapida (alcuni secondi), reversibile e non richiede la sintesi o la degradazione di ulteriori proteine. La superfamiglia delle cinasi agisce Medicina Toracica • 4/2009 11 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n trasferendo un gruppo fosfato da una molecola di ATP ad uno specifico sito bersaglio su un residuo aminoacido; le fosfatasi, al contrario, rimuovono tale gruppo dal substrato. Attraverso le reazioni di fosforilazione le cellule regolano diverse funzioni quali la proliferazione, la differenziazione, l’adesione, il metabolismo e l’apoptosi e su questa base non sorprende il fatto che una attivazione aberrante di queste reazioni correli con lo sviluppo di patologie come il cancro (26). La disregolazione delle tirosin-cinasi è responsabile della inibizione della apoptosi, della proliferazione cellulare, del processo di metastatizzazione e di neoangiogenesi (Figura 1). La prima tirosin-cinasi venne identificata alla fine del 1970 e solo successivamente, nel 1988, fu purificata la prima fosfatasi. Le cinasi rappresentano circa il 2-2,5% dei geni negli organismi eucarioti: esse sono generalmente caratterizzate dal- la presenza di un dominio catalitico altamente conservato; cinasi atipiche presentano il dominio catalitico similmente alle cinasi classiche ma mostrano differenze in alcune sequenze nucleotidiche. Nell’uomo sono state descritte finora 478 cinasi classiche e 40 atipiche per un totale di 518 cinasi. Il dominio catalitico delle cinasi è tipicamente costituito da una struttura bilobare al cui centro si trova il sito attivo: differenze strutturali a tale livello sono responsabili della selettività di azione dei diversi enzimi. Sulla base del residuo aminoacidico coinvolto nella reazione di fosforilazione si distinguono 4 famiglie: le tirosin-cinasi (TKs), le cinasi simili alle tirosin-cinasi, le serin-treonin-cinasi (STKs) e le cinasi lipidiche. Tutte le cinasi mostrano la stessa capacità nel trasferire il gruppo fosfato γ dall’ATP al substrato. Le serin-treonin-cinasi costituiscono la maggior parte delle cinasi (circa 400 membri), Attivazione recettori tirosin cinasi Indotta dal ligando In assenza del ligando Amplificazione Ligando P.M. P.M. A C Trasduzione del segnale Mutazione Traslocazione P.M. P.M. Aberrante trasduzione del segnale B D Figura 1 Meccanismi di attivazione dei recettori trans membrana a funzione tirosin-cinasica. A) attivazione fisiologica indotta dal ligando; B) lesioni genetiche responsabili di attivazione aberrante; C) sequenziamento di EGFR: elettroferogramma relativo alla delezione dell’esone 19; D) struttura terziaria del dominio tirosin-cinasico di EGFR: recettore wt e mutato (delezione esone 19) legato a gefitinib. 12 Medicina Toracica • 4/2009 Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie mentre le tirosin-cinasi contano circa 90 membri. Nonostante il loro numero sia relativamente minore, le tirosin-cinasi sono enzimi chiave nei meccanismi di traduzione del segnale a livello cellulare. I recettori delle tirosin-cinasi sono divisi in: - recettori tirosin-cinasi (Receptor Protein- TK): proteine recettoriali transmembrana caratterizzate essenzialmente da un dominio extracellulare che presenta il sito di legame per il ligando e un dominio cinasico intracellulare; - proteine non recettori tirosin-cinasi (Non Receptor Protein-TK): proteine citoplasmatiche generalmente coinvolte nella trasduzione del segnale a livello intracellulare. Come detto precedentemente la reazione di fosforilazione è dinamica e reversibile in quanto l’attività delle cinasi è bilanciata da quella delle fosfatasi che catalizzano la reazione di defosforilazione. Alla superfamiglia delle fosfatasi appartengono le serin-treonin fosfatasi (STPs) che idrolizzano specifici legami fosfodiesteri serina/treonina e le tirosin fosfatasi (TPs) con attività specifica per i residui fosfotirosinici; esistono, inoltre, fosfatasi con azione meno selettiva (dual phosphatases) che possono agire sia sui residui fosfotirosinici che su quelli fosfoserintreoninici. Peraltro come per le cinasi esistono due classi: le fosfatasi recettoriali (RP-TPs) in posizione transmembrana, che sembrano coinvolte anche in alcuni processi di interazione intercellulare e le fosfatasi intracellulari (NRP-TPs) il cui ruolo consiste, verosimilmente, nella modulazione della trasmissione del segnale attivato dalle cinasi. Il sequenziamento del genoma delle cinasi (cinoma) e delle fostasi (fosfatoma) e la successiva analisi mutazionale hanno consentito di iniziare a caratterizzare il ruolo di questi enzimi nel processo di oncogenesi (27). I geni attivi nel processo di tumorigenesi possono essere grossolanamente suddivisi in due categorie sulla base del loro meccanismo di azione: 1) Quando una mutazione risulta in un aumento della funzione della proteina, ci si riferisce al gene corrispondente definen- EDITORIALE dolo oncogene: in questo caso la mutazione su un singolo allele è sufficiente per determinare il fenotipo maligno (attivazione del gene). 2) Quando la mutazione determina, invece, una perdita della funzione della proteina, il gene corrispondente è definito: oncosoppressore. In questo caso è necessario per la determinazione del fenotipo canceroso (inattivazione del gene) che la mutazione sia presente su entrambi gli alleli. L’analisi mutazionale delle cinasi e delle fosfatasi ha posto in evidenza alcune differenze qualitative e ha consentito di definire che: - i geni codificanti per le cinasi presentano generalmente mutazioni in eterozigoti: ciò significa che queste mutazioni sono attivanti e vengono tradotte in un aumento dell’attività catalitica (fosforilazione) della proteina. Questi geni se mutati agiscono evidentemente come oncogeni. - i geni che codificano per le fosfatasi sono frequentemente alterati da mutazioni dissenso presenti su entrambi gli alleli: questo dato permette di ipotizzare che tali geni mutati agiscano come oncosoppressori. Sulla base di queste osservazioni le tirosin-cinasi sono diventate oggetto di studio in ambito farmacologico per il disegno di molecole in grado di inibire l’attivazione aberrante che si verifica nel cancro. L’industria farmaceutica ha prodotto diverse molecole in grado di bloccare in modo selettivo l’attività catalitica di questi enzimi: appare in modo sempre più evidente come anche la risposta agli inibitori cinasi abbia una base genetica e che le alterazioni genetiche presenti nel tumore possono essere sfruttate per identificare i pazienti sensibili al trattamento. È attualmente accettato che le alterazioni genetiche presenti nelle cinasi vengono selezionate nel corso del processo di tumorigenesi e che pertanto rappresentano un target legittimo della terapia antineoplastica. Le cinasi deregolate possono essere inibite a diversi livelli: - il dominio extracellulare può essere bloccato con anticorpi monoclonali Medicina Toracica • 4/2009 13 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n (mAbs) che una volta legati, inibiscono l’attivazione del recettore; ligandi monometrici che interferiscono con la dimerizzazione del recettore; porzioni solubili del recettore in grado di sequestrare i ligandi; - il dominio catalitico è inattivato da piccole molecole che interferiscono con il sito di legame dell’ATP o con il sito di fosforilazione del substrato. Molti dati, soprattutto in ambito ematologico, hanno confermato questo paradigma: il primo esempio di successo con gli inibitori delle tirosin-cinasi si è avuto con l’utilizzo dell’Imatinib mesilato (Gleevec™) nel trattamento della leucemia mieloide cronica. Si tratta di un piccolo composto chimico che è in grado di inibire a concentrazioni micromolari, l’attività aberrante (determinata dalla traslocazione 9/22) della cinasi ABL competendo con l’ATP per il suo sito di legame: in tal modo le cellule leucemiche portatrici della traslocazione Bcr-ABL vengono indotte alla apoptosi (28). Un altro esempio che supporta questa strategia di targeting molecolare coinvolge il recettore per il fattore di crescita epidermico (EGFR) che risulta frequentemente iperespresso (per mutazioni attivanti e/o per amplificazione genica) in numerosi tumori solidi umani, tra cui quelli del tratto gastroenterico e il tumore del polmone non-a-piccole cellule. Gli inibitori dell’EGFR attualmente in commercio agiscono attraverso due diversi approccio (29): - il blocco a livello extracellulare del sito di legame per il ligando sui recettori Erbb1 (Cetuximab, Panitumumab) e Erbb2 (Trastuzumab); - l’utilizzo di piccole molecole di sintesi che competono per il sito di legame dell’ATP (Gefitinib, Erlotinib). La risposta al trattamento con anticorpi monoclinali è associata al numero di copie del gene (amplificazione genica); la sensibilità al trattamento con Gefitinib è correlata, invece, alla presenza di mutazioni nel dominio catalitico che determinano modificazioni conformazionali della proteina che diventa più sensibile al farmaco e non lega ATP. 14 Medicina Toracica • 4/2009 “Oncogenic addiction”: il tallone d’Achille del cancro Dalla scoperta degli oncogeni, avvenuta circa 20 anni or sono, ad oggi sono stati identificati circa 100 oncogeni e almeno 15 geni oncosoppressori. Si deve inoltre sottolineare che, nonostante essi siano in grado di determinare il destino di una cellula, il loro ruolo spesso dipende dal tipo di cellula in cui sono espressi: così la maggiore espressione di un oncogene può indurre la crescita in un dato tipo di cellula e inibirla o indurre l’apoptosi in un altro. Su questa base molta parte della ricerca scientifica è stata indirizzata a valutare quanto l’attivazione di un oncogene che è cruciale per lo sviluppo iniziale di un dato tumore sia importante per il mantenimento del fenotipo maligno del tumore stesso. Il termine “oncogenic addiction” è stato coniato da Weinstein nel 2002 (30) per descrivere il fenomeno per cui una cellula tumorale, nonostante le molteplici alterazioni a livello genetico, diventi, per la propria sopravvivenza e proliferazione, completamente dipendente da un solo pathway derivato dalla attivazione di un determinato oncogene. Iniziali studi in ambito ematologico hanno consentito di definire che le cellule cancerose sono spesso dipendenti (addicted to) dalla costitutiva attivazione o sovra-espressione di un oncogene per il mantenimento del loro fenotipo: è stato dimostrato che topi transgenici caratterizzati da una sovraespressione dell’oncogene myc nelle cellule del sistema ematopoietico sviluppavano, come atteso, neoplasie ematologiche ed in particolare leucemie acute mieloidi; quando però il gene veniva “silenziato”, le cellule leucemiche mostravano un arresto della proliferazione ed attivavano, invece, il programma di apoptosi. Dati simili sono stati ottenuti silenziando l’espressione di Bcr-Abl in topi leucemici che sopravvivevano dopo la procedura. Questi riscontri sono stati alla base dello sviluppo di trial clinici basati sull’utilizzo di Imatinib in pazienti affetti da leucemia mieloide cronica. Dati più recenti supportano l’evidenza che lo stesso meccanismo sia frequentemente coinvolto nella progressione di molti tumori solidi umani. EDITORIALE Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie Per quanto riguarda il NSCLC molti dati in vitro hanno dimostrato come mutazioni di EGFR promuovono meccanismi di proliferazione aberrante (mediati da altre trasduttori di segnale) così che il tumore stesso diventa dipendente, per la sua sopravvivenza, da EGFR mutato. È stato dimostrato infatti che bersagliando EGFR con inibitori chinasici, anticorpi monoclonali e con tecniche di interferenza dell’espressione di RNA (miRNA o siRNA) si realizza una cessazione del segnale di proliferazione da cui la cellula tumorale dipende, portando, in ultimo, alla estinzione del clone neoplastico (31). Le cellule normali e le cellule neoplastiche (che probabilmente dipendono per la loro proliferazione da segnali tradotti da altri mediatori) non dipendenti da EGFR non risultano colpite. I meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno non sono stati chiariti del tutto: sono stati proposti dei modelli che mettono in evidenza come nelle cellule neoplastiche si crei uno sbilanciamento tra segnali pro-apoptosici e proliferativi definito “shock oncogenico”; tale modello può spiegare i fenomeni apoptosici che seguono l’inattivazione “acuta” di un oncogene cruciale per la sopravvivenza del tumore stesso (32). Dopo l’inibizione acuta di un oncogene cruciale attraverso l’utilizzo di un farmaco i segnali di proliferazione vengono rapidamente dissipati e prevalgono quelli di apoptosi. Durante questa finestra di vulnerabilità e sensibilità alla terapia i segnali di apoptosi inducono la morte cellulare. Un possibile meccanismo di resistenza alla terapia è dovuto allo sviluppo di meccanismi di adattamento e di superamento dello shock oncogenico. Determinanti genetici della sensibilità agli inibitori di EGFR nel NSCLC Circa il 62% dei tumori del polmone non a piccole cellule iperesprimono EGFR e NSCLC: selezione dei pazienti per la terapia anti-EGFR SELEZIONE POSITIVA SELEZIONE NEGATIVA gefitinib-erlotinib gefitinib-erlotinib Non fumatori Sesso femminile EGFR Adenocarcinoma (BAC) ErbB3 Fumatori Popolazione asiatica MET amplificato amplificazione mutazioni PM Attivanti (ex 18-21) T790M P13K RASwt AKT BRAF mTOR Nu cle o MEK Risposta cellulare Trascrizione genica Figura 2 Criteri clinici e di diagnosi molecolare per la selezione dei pazienti affetti da NSCLC e candidati alla terapia con piccoli inibitori di EGFR. Medicina Toracica • 4/2009 15 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n questo dato è correlato a bassi tassi di sopravvivenza. Molto frequentemente l’overespressione è conseguente ad una amplificazione del locus 7p12 (dove è localizzato EGFR); inoltre sono stati dimostrati circuiti di autoattivazione che portano ad una maggior attività del recettore. Il blocco di questo circuito di autoattivazione costituisce il razionale dell’utilizzo di anticorpi anti EGFR nella terapia del NSCLC. Inoltre sono state identificate mutazioni del dominio cinasico del recettore (esoni18-21) che inducono cambiamenti nella conformazione terziaria della proteina codificata a livello del sito di legame dell’ATP. Queste mutazioni sono presenti in circa il 10% dei NSCLC nei Paesi Occidentali e in circa il 30-50% nei paesi dell’Estremo Oriente e si associano per il 50% ad adenocarcinomi -variante bronchioloalveolare- che insorgono in pazienti di sesso femminile, non fumatrici. La ridotta affinità del recettore mutato per l’ATP ne incrementa la sensibilità ai farmaci inibitori che competono con l’ATP per il legame al sito catalitico (Figura 2). Mutazioni somatiche sensibilizzanti alla terapia con Erlotinib e Gefitinib L’analisi mutazionale di EGFR in NSCLC ha individuato, in genere, mutazioni attivanti che inducono un’incrementata attività di traduzione del segnale, anche se ciò non implica direttamente l’attivazione costitutiva del recettore; il recettore può divenire costitutivamente attivo in maniera ligando-indipendente attraverso l’acquisizione, nel DNA delle cellule neoplastiche, di una seconda mutazione. L’incidenza di mutazioni in NSCLC che rispondono alla terapia con Erlotinib e Gefitinib è di circa il 77%, mentre nei tumori non responsivi l’incidenza di mutazioni è di circa il 7%. Gli esoni 18 e 21 del gene EGFR codificano per il dominio cinasico del recettore e sono la sede delle più importanti mutazioni identificate: circa il 45% delle mutazioni di EGFR nel NSCLC sono costituite da dele16 Medicina Toracica • 4/2009 zioni “in frame” dell’esone 19; un’altra frequente mutazione riguarda la sostituzione L858R nell’esone 21; peraltro le delezioni dell’esone 19 si associano ad una migliore risposta alla terapia con inibitori di TK rispetto alle mutazioni dell’esone 21. Sostituzioni nucleotidiche nell’esone 18 sono descritte in circa un 5% di casi, così come inserzioni a livello dell’esone 20 (33). La presenza di una di queste mutazioni determina una modificazione conformazionale della molecola del recettore a livello del sito di legame dell’ATP e non ha sostanziali effetti sulla stabilità della proteina; conseguentemente al riposizionamento di questi residui critici si assiste ad una stabilizzazione della interazione tra ATP e inibitore che porta ad un incremento del segnale di traduzione in risposta ad EGF e dall’altro ad una maggiore sensibilizzazione all’azione del farmaco. L’analisi mutazionale di EGFR nel NSCLC ha permesso di spiegare la mancata efficacia del Gefitinib nei gliomi, neoplasie in cui è molto frequente l’iperespressione di EGFR ma è dovuta prevalentemente ad amplificazione genica e a riarrangiamenti che coinvolgono il dominio extracellulare e non alterano, invece, sito di legame dell’ATP. Meccanismi di resistenza primaria Studi in vitro hanno messo in evidenza che mutazioni attivanti EGFR, con effetto di sensibilizzazione alla terapia, promuovono la crescita cellulare mediata da EGFR attraverso i pathways di segnale di RAS-RAFMEK così che le cellule neoplastiche diventano dipendenti da questa via di segnale per la loro sopravvivenza. Circa il 15-30% di NSCLC presenta mutazioni nel codone 12 del gene KRAS. Si può genericamente ipotizzare che le mutazioni di RAS e di EGFR siano mutualmente esclusive nel NSCLC e definiscano subsets distinti di tumori in cui le mutazioni di EGFR appaiono più frequenti nei soggetti non fumatori, mentre le mutazioni di KRAS si associano prevalentemente a tumori insorti in soggetti fumatori. L’insorgenza di mutazioni in KRAS è stata proposta come meccanismo di resistenza alla terapia con inibitori delle TK in NSCLC portatori di EGFR wild type (32). Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie Inoltre cellule tumorali sensibili alla terapia con Gefitinib sono caratterizzate da un rapido decremento della attività di AKT immediatamente successivo all’inizio del trattamento: la mancata inattivazione di AKT configura insensibilità alla terapia. L’attivazione di AKT è indirettamente regolata dalla fosfatasi PTEN che è di frequente inattivata in diversi tumori umani. Alterazioni genetiche di PTEN sono presenti in meno del 10% di NSCLC; tuttavia l’assenza di espressione di PTEN è evidente in almeno il 70% di NSCLC ed è verosimilmente conseguente ad alterazioni epigenetiche, quali ad esempio l’ipermetilazione del promotore di PTEN. In alcune linee cellulari di NSCLC il ripristino della attività di PTEN correla con la ripresa della sensibilità alla terapia con inibitori di EGFR, suggerendo che PTEN possa modulare in vivo la sensibilità al trattamento (34). Meccanismi di resistenza acquisita In caso di risposta alla terapia con Erlotinib e Gefitinib, la persistenza di tale risposta prima della acquisizione di resistenza è generalmente breve, circa 6-12 mesi (solo occasionalmente sono state descritte risposte persistenti per più di 3 anni): in questi casi la presenza di amplificazione genica e di elevati livelli di aneuploidia (documentabili con FISH) sembrano essere predittivi di stabilizzazione di malattia dopo il trattamento (35). Diversi studi hanno permesso di identificare mutazioni di EGFR che si associano a ripresa della malattia dopo terapia: la mutazione clinicamente più rilevante è quella che codifica per la sostituzione aminoacidica T790M; è situata a livello dell’esone 20 e viene identificata in circa il 50% dei casi come secondo sito di mutazione associato alla acquisizione di resistenza alla terapia con Erlotinib e Gefitinib (36, 37). Recentemente è stata identificata un’altra mutazione che codifica per la sostituzione aminoacidica D761Y associata alla insorgenza di resistenza alla terapia con inibitori TK in NSCLC portatori della mutazione correlata alla sostituzione L858R (38). Molti studi hanno dimostrato che la sostituzione T790M è presente nelle cellule neoplasti- EDITORIALE che prima dell’inizio del trattamento: ciò sembra suggerire che questa mutazione costituisce una sorta di vantaggio selettivo per le cellule portatrici una volta esposte al trattamento. Strategie terapeutiche alternative e terapie di combinazione Lo sviluppo di resistenze alla terapia con inibitori delle TK determina il continuo sviluppo di strategie alternative di bersaglio di EGFR: uno dei modelli principali si basa sul disegno di inibitori in grado di by-passare l’interferenza sterica al legame del farmaco determinata dalla sostituzione T790M. A tale riguardo sembrano promettenti inibitori irreversibili ovvero piccole molecole che formano legami covalenti con residui cisteinici cruciali nel sito attivo dell’enzima. Una ulteriore strategia contro la resistenza acquisita derivante da T790M si basa sull’osservazione che vari mutanti EGFR spesso sono associati a particolari proteine, le Heat Shock Protein 90 (HSP90). Questa interazione è inibita in maniera altamente specifica da alcuni farmaci quali ad esempio la Geldanamicina, con conseguente distruzione dei cloni mutanti resistenti agli inibitori di EGFR che vengono indotti alla apoptosi (39). Studi molto recenti hanno dimostrato che l’amplificazione dell’oncogene MET (recettore di HGF) si associa a resistenza alla terapia con Gefitinib ed Erlotinib sia in linee cellulari di NSCLC sia in campioni bioptici di NSCLC divenuti resistenti alla terapia: ciò è verosimilmente dovuto alla attivazione da parte di MET del pathway di segnale Erbb3/PI3K (40). Questi dati costituiscono un primo esempio di resistenza acquisita attraverso un meccanismo, l’amplificazione genica di una cinasi, che non è direttamente coinvolta nel pathway di segnale di EGFR. La terapia di combinazione con inibitori di MET potrebbe essere presa in considerazione in associazione agli inibitori di EGFR per i pazienti divenuti resistenti alla terapia con Gefitinib ed Erlotinib (41, 42). Il pathway di traduzione del segnale di EGFR interviene nella regolazione di due attività fondamentali della cellula: Medicina Toracica • 4/2009 17 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n - la sopravvivenza (segnale mediato da PI3K- mTor, Akt e da JAK-STAT); - la proliferazione (segnale mediato da RAS-BRAF, ERK). Questa considerazione è alla base del tentativo di associare nello schema terapeutico farmaci attivi su diversi livelli del segnale cellulare. Studi pre-clinici e clinici con inibitori di PI3K in linee cellulari NSCLC hanno evidenziato un possibile incremento della sensibilità al trattamento con Gefitinib. Gli inibitori di mTOR (a valle di PI3K) - Rapamicina e analoghi - hanno mostrato una attività sinergica quando associati agli inibitori di EGFR in vitro e, attualmente, sono in corso i primi studi di fase I di combinazione tra Gefitinib ed Erlotinib e Sirolimus ed Everolimus; nonostante i favorevoli risultati pre-clinici, la monoterapia con inibitori di mTOR non ha mostrato vantaggi significativi in trials clinici: è possibile che l’inibizione di mTOR porti alla attivazione di PI3K e alla attivazione -per feedback positivo- del segnale di sopravvivenza mediato da AKT (43, 44). Per quanto riguarda l’inibizione del pathway mediato da RAS, nonostante le mutazioni di RAS non sembrano coesistere con quelle di EGFR, l’inibizione di RASBRAF in associazione a EGFR potrebbe mostrare effetti additivi. Attualmente sono in corso studi di fase II che valutano l’utilizzo dell’inibitore di MEK PD-3225901 in NSCLC in stadio avanzato. Tuttavia l’attivazione del pathway di segnale RASMAPK non è correlata in modo così diretto alla risposta agli inibitori di EGFR come la via di segnale mediata da PI3K-AKT (45). Ulteriori approcci terapeutici prevedono il target contemporaneo di più bersagli molecolari e quelli che hanno mostrato i risultati più promettenti prevedono di colpire non solo il tumore ma anche la componente stromale. La componente vascolare è particolarmente importante sotto questo profilo e ciò ha condotto allo sviluppo di inibitori in grado di bloccare EGFR e Erbb2 e il recettore di VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor), FLT1 (fms-like TK1) e KDR (Kinase Domain Region); coerentemente hanno mostrato risultati incoraggianti i primi studi pre18 Medicina Toracica • 4/2009 clinici che utilizzano l’inibitore di EGFR e VEGFR in linee cellulari resistenti al solo Gefitinib (46, 47). Conclusioni L’esperienza del trattamento del NSCLC con gli inibitori delle TK ha dimostrato che: 1) i recettori delle TK costituiscono un buon target terapeutico nei tumori di origine epiteliale; 2) questo tipo di terapia è efficace in piccoli subset di pazienti e che l’analisi mutazionale dei recettori può essere utilizzata per l’identificazione dei pazienti suscettibili: 3) la resistenza acquisita alla terapia limita in modo importante l’utilizzo di questi farmaci e lo sviluppo di strategie in grado di controllarne i meccanismi costituisce uno dei maggiori determinanti della ricerca in farmacogenomica. A fronte di questi aspetti, è importante sottolineare alcuni implicazioni rilevanti. In primo luogo appare evidente che la classificazione anatomopatologica convenzionale del NSCLC - pur fondamentale per la stadiazione della malattia e per l’impostazione della terapia - è insufficiente per un approccio clinico e terapeutico selettivo e individualizzato, in grado cioè di garantire benefici al paziente. Il carcinoma broncogeno è una patologia complessa sia dal punto di vista istopatologico che molecolare e la schematizzazione con cui viene inquadrato, se da un lato si è resa necessaria per una uniformità di gestione della malattia, dall’altro è ragionevolmente troppo semplicistica e pertanto, non consente l’impostazione di trattamenti realmente tailored per ciascun paziente. Inoltre è importante sottolineare che non solo esistono variazioni del profilo molecolare tra pazienti affetti dallo stesso tipo istologico di tumore, ma che tale eterogeneità può riflettersi a livello molecolare in un singolo tumore. È infatti dimostrata la possibilità di coesistenza nella stessa massa tumorale di distinte subpopolazioni clonali fenotipicamente differenti, portatrici di lesioni Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie molecolari diverse e differenziate a partire da multipli cloni cellulari trasformati (48). Queste considerazioni dimostrano come il trattamento realmente targeted del NSCLC sia complesso e richieda ancora molti sforzi in campo scientifico. Un altro punto rilevante nell’ambito della eterogeneità della massa tumorale è dato dalla struttura gerarchica che regola la proliferazione neoplastica. È dimostrato, infatti, che la maggior parte delle cellule differenziate in senso neoplastico conserva una capacità proliferativa relativamente limitata. Solo le cellule inizianti il tumore, note come Cancer Stem Cells (CSCs) possiedono le proprietà di auto-mantenimento e rigenerazione. Le CSCs non sono suscettibili ai trattamenti chemio e radioterapici e sono verosimilmente responsabili della insorgenza di recidive anche dopo la riduzione della massa neoplastica da parte dei trattamenti impostati. Le cellule staminali del cancro sono per definizione quiescenti (basso tasso di proliferazione) e presentano un fenotipo not-oncogene-addicted: per queste ragioni sono insensibili sia alla chemioterapia convenzionale che, probabilmente, alle attuali targeted therapies. Non è ancora stato possibile documentare se le CSCs esprimano le stesse lesioni molecolari delle cellule neoplastiche che da esse derivano e come sviluppare farmaci mirati a colpire queste cellule rappresenta una tra le sfide più attuali e impegnative della oncologia molecolare. Recentemente il gruppo di De Maria (49)ha isolato CSCs da carcinoma broncogeno: (SCLC e NSCLC). Queste cellule putative staminali del cancro del polmone sono una minuscola frazione di cellule indifferenziate che esprimono il marcatore CD133 (un antigene presente nella membrana delle cellule staminali normali e neoplastiche della linea ematopoietica, neurale, endoteliale ed epiteliale). Le cellule CD133+ isolate da carcinoma broncogeno sono in grado di proliferare indefinitamente e di crescere come sfere in terreni privi di siero. Una volta differenziate queste cellule acquisiscono i marcatori propri di ciascun istotipo e contemporaneamente, perdono l’espressione di CD133 e le proprietà tumorigeniche. EDITORIALE Un ulteriore elemento rilevante nel determinare l’eterogeneità della lesione neoplastica è data dalle lesioni secondarie che da essa derivano, ma che possono presentare caratteri molto diversi dal tumore primitivo. Le metastasi - che rappresentano la causa principale di morte nei pazienti neoplastici - derivano dalla attivazione di processi biologici che istruiscono la cellula neoplastica a staccarsi dalla massa primitiva, migrare attraverso i tessuti, raggiungere la circolazione vasale o linfatica e, infine, colonizzare organi secondari. In tutti questi processi la cellula metastatica sopravvive alla apoptosi che dovrebbe essere invece indotta dal fatto di trovarsi in ambienti non appropriati (ανοκις) (50). Bisogna peraltro sottolineare che la sequenza cronologica della progressione neoplastica, secondo la quale l’insorgenza delle metastasi segue la crescita e lo sviluppo di una massa primaria, non è sempre rispettata: non tutti i tumori sono metastatici, così come è possibile che le metastasi si sviluppino in una fase ancora precoce dell’onset tumorale. Ad oggi non sono definiti quali marcatori genetici siano coinvolti nel processo di selezione della cellula metastatica e nella promozione della capacità di invasione e di resistenza all’anoikis. È stato anche ipotizzato che queste cellule possano derivare e differenziare direttamente dalle CSCs attraverso processi biologici relativamente indipendenti da quelli che guidano lo sviluppo della massa primitiva. È possibile che il processo di metastatizzazione non sia originato dalla attivazione di oncogeni specifici ma derivi dalla attuazione, in cellule trasformate, di programmi che mediano la migrazione anche in condizioni fisiologiche (51). In altre parole è verosimile che le cellule tumorali selezionate per la metastatizzazione a distanza esprimano marcatori di attivazione oncogenica propri che conducono all’attivazione inappropriata di fisiologici processi di motilità ed invasione; conseguentemente i marcatori genetici individuati nella lesione primaria possano non essere presenti a livello delle lesioni secondarie e pertanto possono non aver valore predittivo e prognostico relatiMedicina Toracica • 4/2009 19 EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n vamente alle lesioni secondarie. Su questa base è possibile quindi che il pattern di alterazioni molecolari presenti nelle metastasi sia indipendente rispetto all’organo sede del tumore primario e che pertanto non sia possibile identificare targets propri delle metastasi originate da carcinoma broncogeno. In conclusione, se da un lato l’oncologia predittiva rappresenta un approccio nuovo e promettente alla patologia neoplastica, dall’altro non può prescindere da alcuni punti fondamentali. In primo luogo il disegno di trials clinici mirati a valutare la risposta alla terapia targeted deve essere basato sulla identificazione preliminare del target molecolare stesso, ovvero della presenza nel singolo tumore della determinata lesione genetica che è l’effettivo ber- saglio del farmaco in studio. Inoltre l’eterogeneità delle cellule che costituiscono la massa neoplastica fornisce il razionale per quella che è stata definita “Orthogonal Cancer Therapy ” (52): la moderna terapia oncologica deve essere interpretata come un filtro che rimuove una sottopopolazione di cellule trasformate sensibile alla terapia stessa, ma lascia inalterate le altre cellule. Il meccanismo per cui alcune cellule non sono sensibili al trattamento è dovuto alla presenza di resistenza primaria o alla acquisizione di mutazioni in oncogeni e/o geni oncosoppressori (resistenza secondaria). Solo combinando in modo ortogonale più farmaci (filtri) si può realmente minimizzare il rischio di resistenza o di ripresa di malattia. RIASSUNTO È ormai ampiamente dimostrato che il cancro è una malattia genetica, nella maggior parte dei casi somatica: su questo concetto si è sviluppata la ricerca traslazionale e si sono basano i più recenti approcci di terapia mirata. La correlazione tra presenza di lesioni molecolari e risposta a terapie mirate costituisce il punto fondamentale della terapia antineoplastica individualizzata. Tuttavia, come è stato rilevato dai primi studi sugli inibitori dei recettori delle tirosin-cinasi, la terapia target è efficace realmente solo in un ristretto subset di pazienti. Questi ultimi presentano lesioni tumorali le cui cellule sono dipendenti per la propria sopravvivenza dalla aberrante attivazione del recettore stesso bersaglio del farmaco target. Appare pertanto rilevante come la selezione dei pazienti affetti da cancro basata sulla diagnosi molecolare rappresenti una promettente strategia per una terapia realmente efficace. Sono, di seguito, discusse le esperienze relative alla terapia mirata del carcinoma broncogeno, principale causa di morte per tumore solido umano: particolare rilevanza è riservata alle strategie di inibizione dei recettori del fattore di crescita epidermico che, ad oggi, rappresentano il più importante bersaglio terapeutico. Parole chiave: bersaglio tumorale, biomarcatore, diagnosi molecolare. bIblIografIa 1. Vogelstein B & Kinzler KW. Cancer genes and pathways they control. Nat Med 2004; 10 (8): 789-99. 2. Hanahan D, Weinberg RA. The hallmarks of cancer. Cell 2000; 100: 57-7. 3. Hopkins MM, Ibarreta D, Gaisser S, et al. 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La classificazione attuale delle condizioni di ipertensione del circolo polmonare raccoglie nel terzo gruppo quelle che si accompagnano alle malattie primitive del polmone ed in particolare quelle responsabili, tra esse, di indurre una cronica ipossiemia; sostanzialmente possono essere a loro volta distinte in: - malattie comportanti ostruzione al flusso aereo, quale la BPCO; - malattie caratterizzate da una sindrome disventilatoria restrittiva, quale la fibrosi interstiziale idiomatica; - malattie con sostanziale normalità della meccanica toraco-polmonare ma con alterati scambi gassosi da difetto del drive respiratorio, come li disturbi respiratori durante il sonno. In un quinto gruppo, si annoverano invece malattie sistemiche che prevedono peraltro la PH con meccanismi differenti, non correlabili con la sola ipossiemia; trattasi ad esempio di Sarcoidosi, di Istiocitosi a cellule di Langerhans e di Linfangioleiomiomatosi (LAM) (Tabella 1). Ernesto Pozzi Francesca Mariani Zamir Kadija Elena Paracchini Giulia Stella Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università di Pavia, IRCCS Fondazione Policlinico San Matteo ABSTRACT Pulmonary hypertension due to lung diseases Pulmonary hypertension is a well-recognized complication of several lung diseases. The 4th World Symposium on Pulmonary Hypertension (Dana Point, 2008) classified these conditions under the heading “pulmonary hypertension due to lung diseases and/or hypoxiaemia”. Besides pulmonary hypertension may be associated to a series of systemic disorders that mainly affect lungs (“pulmonary hypertension with unclear and/or multifactorial mechanisms”). Although alveolar hypoxia plays a key role in determining the hypertensive response, it must be take in consideration that, in each lung disorder, specific mechanisms cooperate to the onset of pulmonary hypertension. Here we discuss diagnosis, clinical and anatomo-pathological features and therapeutical approach of pulmonary hypertension related to the most relevant lung diseases of which it is often a relevant complication. Key words: pulmonary artery pressure, hypoxiaemia, venocclusive disease, vascular remodelling. MedicinaToracica•4/2009 23 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n Tabella 1 Update della classificazione clinica dell’ipertensione polmonare (modificata da: 4th World Symposium on Pulmonary Hypertension, Dana Point, 2008). 1. Ipertensione arteriosa polmonare 1.1 Idiopatica 1.2 Ereditaria 1.2.1 BMPR2 1.2.2 ALK1, endoglina (più o meno associata ad atassia teleangiectasia ereditaria) 1.2.3 Origine sconosciuta 1.3 Indotta da farmaci e tossine 1.4 Associata a: connettivi sistemiche, infezioni da HIV, ipertensione portale, malattie cardiache congenite, schistosomiasi, anemia emolitica cronica 1.5 Ipertensione arteriosa persistente del neonato 1’. Malattia venocclusiva polmonare e/o emangiomatosi polmonare capillare 2. Ipertensione polmonare conseguente a patologie del cuore destro 2.1 Disfunzioni sistoliche 2.2 Disfunzioni diastoliche 2.3 Degenerazioni valvolari 3. Ipertensione polmonare conseguente a patologie polmonari e/o ipossiemia 3.1 Sindromi ostruttive (BPCO) 3.2 Sindromi restrittive (ipf) 3.3 Altre condizioni con alterazioni miste ostruttive e restrittive 3.4 Sindrome delle apnee ostruttive 3.5 Disordini determinanti ipoventilazione alveolare 3.6 Esposizione cronica ad elevate altitudini 3.7 Anomalie dello sviluppo 4. Ipertensione polmonare associata a tromboembolia cronica 5. Ipertensione polmonare conseguente a meccanismi non definiti e/o multifattoriali 5.1 Malattie ematologiche: disordini mieloproliferativi, splenectomia 5.2 Malattie sistemiche, sarcoidosi, linfangioleiomiomatosi, istocitosi a cellule di Langherans, neutrofibromatosi, vasculiti 5.3 Disordini metabolici: alterazioni del metabolismo del glicogeno, malattia di Gaucher, disordine della tiroide 5.4 Altre cause: ostruzione da neoformazioni, mediastinite fibrosante, insufficienza renale cronica in trattamento dialitico ALK-1: activin receptor-like kinase 1 gene; BMPR2: bone morphogenetic protein receptor 2. È accertato che nei soggetti giovani e sani, la pressione media in arteria polmonare si colloca su valori compresi tra i 10 ed i 15 mmHg, con un aumento medio di circa 1 mmHg ogni 10 anni; nell’anziano tuttavia una pressione media (mPAP) a riposo >20 mmHg viene già ritenuta patologica. Si definisce quindi ipertensione polmonare la condizione caratterizzata da valori di pressione media in arteria polmonare >20 mmHg a riposo, >30 mmHg sotto sforzo, con un’area a significato ancora incerto rappresentata dalle pressioni comprese tra i 20 ed i 25 mmHg. 24 Medicina Toracica • 4/2009 IPERTENSIONE POLMONARE ASSOCIATA ALLE PATOLOGIE OSTRUTTIVE Ipertensione polmonare e BPCO La BPCO rappresenta nel mondo una tra le maggiori cause di morbilità e mortalità, con una prevalenza che nei prossimi anni si prevede addirittura in aumento. Da oltre 20 anni è noto che i soggetti affetti da BPCO in fase avanzata, vale a dire con FEV1 <50% del predetto e PaO2 <55 mmHg, sviluppano ipertensione polmonare (PH) ed il conseguente cuore polmonare (principale causa di morte di tali malati) insieme alla condizione di insufficienza respiratoria (1). Nei soggetti BPCO si considerano valori abnormi in arteria polmonare quelli medi superiori, a riposo, a 20 mmHg ed in genere tale condizione è preceduta da un anormale aumento della PAP media durante l’esercizio fisico, con valori superiori a 30 mmHg. L’ipertensione polmonare nella BPCO è la risultante dell’aumento delle resistenze vascolari polmonari (PVR), mentre si conservano normali l’output cardiaco e la pressione capillare (PCWP). I fattori responsabili dell’aumento delle PVR sono ritenuti sostanzialmente l’ipossia alveolare cronica ed il sovvertimento della morfologia del parenchima polmonare, in particolare, la perdita di capillari polmonari indotta dall’enfisema. È dimostrato che l’ipossia alveolare si ripercuote sui vasi polmonari con differente meccanismo a seconda che essa si avveri in acuto o cronicamente. Nel primo caso, infatti, essa comporta solo vasocostrizione, nel secondo anche la modifica della struttura vascolare, condizione che viene comunemente definita come rimodellamento vascolare. Nella maggior parte dei casi di soggetti affetti da BPCO l’ipertensione polmonare risulta di grado lieve o moderato, ma in una minoranza di soggetti, tra l’altro non affetti da ostruzione significativa, essa può raggiungere valori decisamente patologici, per questo definita come “PH sproporzionata”, causa di una rapida compromissione del cuore destro e di morte. dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie Epidemiologia ed impatto prognostico La prevalenza della PH in corso di BPCO non è stata mai correttamente accertata, a ragione del limitato numero di soggetti che, soprattutto per ragioni etiche, vengono sottoposti a cateterismo cardiaco destro nelle fasi meno avanzate della malattia e l’imprecisione delle risultanze della sola ecocardiografia doppler; l’Autore che maggiori attenzioni ha dedicato all’argomento ha individuato, in una coorte di malati con rapporto FEV1/VC del 40%, la presenza di PH (PAP >20 mmHg) nel 35% dei casi (2). In 215 BPCO candidati alla riduzione di volume polmonare od a trapianto di polmone, la condizione di PH lieve (PAP 26-35 mmHg), moderata (PAP 36-45 mmHg) o grave (PAP >45 mmHg) è stata documentata rispettivamente nel 36.7, nel 9.8 e nel 3.7% dei casi (3). Va infine fatto rilevare che può incidere sulle risultanze della pressione arteriosa polmonare dei soggetti BPCO la coesistenza di comorbilità quali le cardiopatie ischemiche, le cardiomiopatie ipertensive, la insufficienza cardiaca cronica, l’impatto sulla funzione respiratoria dell’obesità ecc. È stato osservato da tempo che, a parità di ostruzione al flusso aereo, i soggetti con ipertensione arteriosa polmonare presentano una più ridotta aspettativa di vita, e che l’ossigeno-terapia domiciliare cronica migliora la sopravvivenza dei soggetti ipossiemici in conseguenza del miglioramento indotto sulla emodinamica polmonare. Anatomia patologica Concorrono alla realizzazione della condizione di PH in corso di BPCO tre fattori: il remodelling dei vasi, la riduzione del numero totale dei vasi stessi e la microtrombosi polmonare. Il remodelling consiste nella muscolarizzazione dei piccoli vasi arteriosi precapillari (<80 μm di diametro) e nella sua estensione in periferia sino ai vasi di diametro <20 μm, ed è dovuto alla trasformazione in fibre muscolari dei periciti, cellule contrattili presenti nella parete dei vasi precapillari non muscolari. La muscolarizza- zione si rende evidente anche nelle venule post-capillari, dove peraltro prevalgono fenomeni di accrescimento della matrice extracellulare. Nelle arteriole di diametro maggiore (80-1.000 μm di diametro) è evidente inoltre l’ispessimento della media (4, 5). Concorre al remodelling anche l’accrescimento dell’intima, evidente nei vasi arteriosi muscolari e nelle arteriole, con particolare frequenza nei soggetti in fase avanzata della malattia; non si apprezzano invece nei BPCO con PH le lesioni plessiformi ed angiomatoidi tipiche delle forme di PH idiopatiche. Le lesioni vascolari non risultano comunque appannaggio delle sole fasi avanzate della malattia ostruttiva, poiché sono state rilevate anche in fase precoce e addirittura nei soggetti fumatori con ancora normale funzione polmonare (6). Fisiopatologia La pressione media in arteria polmonare è la risultante della pressione di occlusione (pressione capillare, PC) sommata al prodotto dell’output cardiaco (CO) per la resistenza vascolare polmonare (PVR), secondo la seguente formula: PAP = PC + (CO x PVR) Nel caso dell’ipertensione arteriosa dei BPCO si è dimostrato che il fattore responsabile del disturbo emodinamico polmonare risulta l’aumento delle resistenze (PVR>12 mmHg), correlate inoltre sotto sforzo alla condizione di iperinflazione dinamica polmonare propria della BPCO (7). Nella sua genesi un ruolo determinante è giocato da: a) vasocostrizione vascolare dipendente dalla ipossia alveolare cronica; b) riduzione del letto capillare, come si deduce dal fatto che le PVR e la PAP correlano con i valori di DL,CO; c) remodelling dei vasi, esito dell’infiammazione degli stessi. Depone a favore della infiammazione e nel condizionare il remodelling il fatto che il numero delle cellule infiammatorie che infiltrano la parete dei vasi arteriosi correla con l’ispessimento della media e la disfunMedicina Toracica • 4/2009 25 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n zione dell’intima, che la PAP correla con la PCR e le citochine proinfiammatorie ematiche quali la IL-6 ed il MCP-1 (8). Certamente il fattore più importante nel determinare l’aumento della PAP nel BPCO è l’ipossia alveolare cronica, in grado di indurre la vasocostrizione dei vasi di resistenza (diametro <500 μm), in conseguenza dell’accumulo nelle cellule muscolari di Ca++ endocellulare, tramite l’intervento di canali del potassio e lo squilibrio dei mediatori di derivazione endoteliale. L’ipossia cronica induce, infatti, l’aumento di sintesi e di rilascio da parte delle cellule endoteliali di endotelina (ET), che amplifica a sua volta gli effetti sui canali voltaggio-dipendenti del potassio (K+), e riduce la sintesi di potenti mediatori della vasodilatazione quali NO e prostacicline (9). PH e BPCO Il controllo per 7+3 anni della dinamica vascolare polmonare di un gruppo di BPCO ha dimostrato che la condizione di PH inizia a manifestarsi in tali soggetti solo sotto sforzo e durante il sonno, che a riposo la PAP risulta normale se la malattia non si accompagna a spiccata ipossiemia, che la PAP a riposo si incrementa di 0.4 mmHg/ anno, che il suo aumento infine correla con l’entità della riduzione della ossiemia (10). Nelle fasi avanzate della BPCO, pur in presenza di pressioni polmonari normali o solo modicamente aumentate, anche sotto sforzo moderato (30-40 W) si verifica un significativo aumento delle pressioni stesse, per la mancata riduzione delle resistenze polmonari, effetto che, invece, in analoghe circostanze è proprio dei soggetti normali. È stato stimato infatti che il raddoppio dell’output cardiaco indotto dall’esercizio comporta nei BPCO l’aumento di circa il 100% della PAP. Alcuni soggetti BPCO normossiemici o modestamente ipossiemici durante il giorno possono sviluppare nel sonno spiccata ipossiemia, secondaria alla ipoventilazione alveolare che si realizza in particolare nella fase REM del sonno stesso; la crisi ipossiemiche transitorie coincidono peraltro con l’elevazione pure transitoria della 26 Medicina Toracica • 4/2009 PAP, preludio della PH permanente (11). Un ulteriore fattore condizionante in corso di BPCO l’incremento della PAP è dovuto agli episodi di riacutizzazione infettiva, questi ultimi a loro volta favoriti dall’esistenza della PH. Nelle BPCO con ostruzione moderata/ severa ma senza ipossiemia, a riposo, la funzione ventricolare destra si mantiene a lungo normale, a differenza di quanto si avvera nelle fasi avanzate della malattia, nelle quali il 60% circa dei soggetti presenta la compromissione della frazione di eiezione; l’entità della compromissione funzionale, che pure correla con il livello della PAP e della PaO2, sembra peraltro condizionata da variabili ancora non completamente definite. L’ipertensione polmonare “sproporzionata” È già stato ricordato come in corso di BPCO la PH rilevata sia in genere modesta; al contrario una minoranza di casi si caratterizza per valori di PAP >35-40 mmHg. Trattasi di soggetti con ostruzione al flusso aereo lieve/moderato, ma con spiccata ipossiemia, ipocapnia e notevole riduzione della DLCO (12). L’ipossiemia in questi casi non sembra quindi attribuibile alla ipoventilazione alveolare secondaria alla ostruzione, bensì alla spiccata alterazione del rapporto ventilo/perfusorio, forse anche allo sviluppo di shunt destrosinistro. Non vanno confusi con questi soggetti invece i casi in cui la PAP particolarmente elevata trova giustificazione con l’esistenza di compromissioni del cuore sinistro, eventi tromboembolici cronici, l’associazione di condizioni restrittive polmonari quali la grande obesità con OSAS e la associazione all’enfisema della fibrosi interstiziale. Clinica della PH in BPCO La dispnea e la stanchezza tipicamente appannaggio del soggetto con BPCO non appaiono aggravate dal sovrapporsi della condizione di PH; al contrario nei BPCO con PH sproporzionata la dispnea da sforzo si presenta in maniera decisamente più dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie grave rispetto ai casi con ostruzione più accentuata ma con PAP minore. I segni fisici della PH non sono evidenti come nelle forme di PH idiopatica (murmure pansistolico da rigurgito tricuspidalico, componente polmonare del secondo tono), e tardivo è lo sviluppo dei segni di insufficienza del cuore destro. L’ECG può mostrare i segni dell’ipertrofia ventricolare destra, peraltro non sinonimo della presenza di PH, data la buona specificità (>85%) ma la bassa sensibilità (~40%), specie nelle forme di PH lieve. Mentre le risultanze delle prove funzionali respiratorie assumono un valore determinante nella diagnosi di BPCO, nessun apporto possono invece offrire alla diagnosi di PH, non avendo essa sostanziali riverberi sulla meccanica polmonare. Quanto all’emogasanalisi arteriosa, anche i valori di PaO2 non concorrono significa- tivamente all’accertamento della PH, poiché si è dimostrato che l’ipossiemia giustifica solo il 25% delle variazioni di PAP (13). L’Ecocardiografia transtoracica doppler (TTED), che ricava la pressione sistolica in arteria polmonare dalla velocità del rigurgito tricuspidalico, rimane il miglior metodo non invasivo per la dimostrazione dell’esistenza della HP; peraltro è dimostrato che rispetto ai valori ottenibili con il cateterismo cardiaco destro l’ecocardio stima i valori con un differenziale anche di 10 mmHg, valori non trascurabili se si considera che la PH in gran parte dei BPCO è relativamente bassa (PAP <35 mmHg) (14). In aggiunta, in questi soggetti la condizione di iperinflazione polmonare rende inefficace la metodica in circa il 50% dei casi. D’altra parte, la maggior accuratezza di valutazione consentita dal cateterismo Sospetto di PH se 2 o più: • • • • • • • • Adeguato, cuore normale, RVSP <40: PH improbabile Dispnea di grado 3-5 MRC Segni di PH, insufficienza CD Allargamento di AP alla TC Segni ECG di CD DLCO<50% predetto <300 m al 6-MWT Desaturazione da sforzo BNP o pro-BNP >2 x UI si Indagine inadeguata, RVSP 40-50: PH possibile Considerare RDC CD dilatato + RSVP >50: PH possibile Escludere TEP cronica. Considerare CS. OSAS? no PH improbabile Monitorare la malattia respiratoria Escludere altre cause di PH; ottimizzare terapia malattie respiratorie no Monitorare con TTED mPAP ≥25 mmHg+ PAWP ≤15? no No PH o PH da CS Screening TTED si No PH. Malattia respiratoria certa si Indicazione per RDC • Se necessaria terapia specifica • Verificare CS • Prescrivere OLT se PaO2 56-60 mmHg • Preoperatorio di: - trapianto polmonare LVR - chirurgia maggiore Figura 1 Diagnosi di PH in corso di malattie respiratorie croniche. PH: ipertensione polmonare; CD: cuore destro; CS: cuore sinistro; A: arteria polmonare; TTED: Ecocardiografia transtoracica doppler; TEP: tromboembolia polmonare; RVSP: resistenze vascolari polmonari; PAWP: wedge pressione arteria polmonare; RDC: cateterismo cardiaco destro. Medicina Toracica • 4/2009 27 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n cardiaco nulla aggiunge ai riflessi terapeutici. Può infine far sospettare l’esistenza della PH in corso di BPCO il riscontro nel siero di valori patologici del BNP, che sappiamo essere dimesso in corso di stretch delle cavità cardiache. Per la diagnosi di PH il gold standard rimane quindi il cateterismo cardiaco destro, tecnica peraltro invasiva, non scevra di rischi di complicanze, consigliabile quindi nel BPCO solo nei casi destinati alla LVR o al trapianto di polmone (Figura 1). Terapia La terapia della PH in corso di BPCO si basa essenzialmente sull’impiego dell’ossigeno, con flusso di 1 L/min per almeno 18 ore/die, la cui utilità è stata da tempo confermata negli studi NOTT (Nocturnal Oxygen Therapy Trial) del 1980 e del MRC (Medical Research Council) del 1981 (15, 16). Sul piano emodinamico, infatti, rispetto ad un aumento medio annuo di 1.5 mmHg nei soggetti non trattati, quelli in OLT hanno presentato una riduzione della PAP di 2.1 mmHg/anno. L’ossigenoterapia può essere limitata al solo periodo notturno nei soggetti BPCO sofferenti anche di crisi ipossiemiche associate al sonno. La terapia della PH ha beneficiato in questi ultimi anni dell’impiego di vasodilatatori molto efficaci, quali i derivati delle prostacicline, gli antagonisti recettoriali dell’endotelina, gli inibitori della fosfodiesterasi-5; tali farmaci non trovano però alcuna indicazione in corso di PH dei BPCO, dove al contrario possono indurre peggioramenti degli scambi gassosi per aggravamento degli squilibri ventilo/perfusori. Analoghi risultati negativi si sono documentati con l’impiego dei calcio-antagonisti (17, 18). Nei BPCO con PH severa viene sconsigliato nel modo più assoluto l’intervento di riduzione del volume polmonare (Lung Volume Reduction-LVR), poichè può indurre un peggioramento della condizione ipertensiva conseguente alla riduzione del letto vascolare polmonare; nei BPCO con spiccata PH, di età <65 anni, è invece indicato il trapianto di polmone, in particolare del doppio polmone, per evitare quanto si 28 Medicina Toracica • 4/2009 verifica in questi casi con il trapianto singolo, dove la ventilazione predilige il polmone nativo con alta compliance, mentre la perfusione predilige il polmone trapiantato a più bassa resistenza vascolare. IPERTENSIONE POLMONARE ASSOCIATA ALLE INTERSTIZIOPATIE Ipertertensione polmonare e fibrosi polmonare idiopatica (IPF) È ormai acquisito da tempo che la severità della IPF ed il suo progressivo deterioramento funzionale non correlano in modo stretto con la sua prognosi, che appare piuttosto condizionata in modo determinante dalla coesistenza di una eventuale PH, evenienza che può interessare dal 31 all’80% dei casi; alcune volte, essa complica le forme di malattia più avanzate, altre invece quadri ben più modesti, nei quali quindi è lecito parlare di PH sproporzionata. Dal punto di vista clinico lo sviluppo di PH comporta dispnea, affaticamento e limitazione dell’attività fisica, che sono pure disturbi tipici della IPF; di conseguenza, in queste circostanze la coesistenza di PH viene sospettata solo quando si rendono evidenti i segni della insufficienza ventricolare destra. Gli accertamenti della condizione emodinamica polmonare in corso di IPF sono stati condotti con particolare frequenza nelle fasi avanzate della malattia ed in particolare nei soggetti proposti per il trapianto di polmone, categoria nella quale al momento del trapianto l’80% dei casi presenta PH. Peraltro, anche in questi casi si è potuto osservare che la PH non correla con la severità e l’estensione della malattia alla HRTC e con la risultanza delle prove funzionali respiratorie (19). Il significato prognostico della coesistenza della PH con l’IPF deriva dalla constatazione che la pressione sistolica (sPAP) >59 mmHg si associa ad una sopravvivenza media di 0,7 anni, contro i 4.1 anni per una sPAP compresa tra 36 e 50 mmHg, e 4.8 anni per una sPAP <35 mmHg (20). In relazione alla PAP media (mPAP), la so- Ipertensione polmonare e malattie respiratorie pravvivenza a 5 anni riguarda il 62.2% dei malati se risulta <17 mmHg, solo il 16.7% se superiore a detto limite (21). Fisiopatologia e morfologia della PH La genesi della PH in corso di IPF appare differente qualora si considerino le forme associate agli stadi avanzati della malattia polmonare rispetto alle cosiddette forme di PH sproporzionata, in quanto realizzatasi nelle interstiziopatie di minor gravità e non ipossiemizzanti. Nel primo caso è lecito, infatti, attribuire la PH alla perdita di tessuto vascolare ed alla vasocostrizione ipossica che accompagnano la IPF, nel secondo si deve prendere in considerazione il ruolo di ulteriori fattori potenzialmente responsabili sia della fibrosi che della PH, quali quelli angiogenetici e angiostasici, e l’ipossia intermittente da sforzo o durante il sonno. È noto infatti che citochine profibrotiche quali la 5-lipossigenasi (5-LO) ed il TGF-β sono iperespresse sia nella fibrosi che nella PH, così come responsabili sia del rimodellamento vascolare che della fibrosi risultano il TNF-α, il PDGF, il FGF (22). Pure la Prostaglandina-E2 (PGE2) presenta ridotti livelli nel BAL di IPF e nella parete dei vasi di PH idiopatica, favorendo la iperproduzione di TNF-α e di TGF-β di cui già si sono ricordati i ruoli nella PH e nella IPF (23). Quanto alla Endotelina-1 (ET-1), l’espressione del cui gene ed i cui livelli di produzione appaiono aumentati nelle cellule endoteliali e nelle lesioni plessiformi dei vasi di PH idiopatica, agisce inoltre come fattore profibrotico e risulta aumentata in cellule epiteliali ed endoteliali e nei pneumociti di tipo II di IPF, correlando con la mPAP e la PaO2 (24). Il ruolo dei fattori pro-angiogenetici e di angiostasi appare invece ancora controverso, dal momento che in corso di IPF si possono contemporaneamente osservare zone di rarefazione vascolare, specie nelle aree fibrotiche ed attorno ai foci fibroblastici, accanto a zone di aumentata densità nelle regioni non fibrotiche ed adiacenti ai foci fibrolastici. La riduzione dei vasi comporta l’aumento delle resistenze non compensate dalle zone di neoangiogenesi (25). dossier La condizione di ipossia cronica provoca la vasocostrizione delle arteriole muscolari precapillari, al fine di ottimizzare il rapporto ventilo/perfusorio nelle unità mal ventilate; la vasocostrizione si realizza in pochi secondi nelle aree alveolari con una PAO2 <70 mmHg. L’ipossia induce la vasocostrizione inibendo i canali di potassio voltaggio dipendenti, con conseguente influsso nelle cellule muscolari lisce perivascolari dei calcio ioni e attivazione della miosina calmodulina-mediata (26). Importante risulta pure il ruolo di mediatori endotelio-derivati quali la ET-1. L’ipossia cronica aggiunge al broncospasmo il rimodellamento della parete dei vasi, sempre ad opera dell’ET-1 e della infiltrazione di cellule infammatorie nella parete vascolare. In corso di IPF è comune riscontrare, durante il sonno, crisi di desaturazione arteriosa, non correlata peraltro con il grado di compromissione funzionale della malattia; a tali crisi di ipossiemia intermittente si accompagna peraltro un aumentato livello nelle arterie polmonari di ET-1, responsabile e della vascostrizione ipossica e del rimodellamento vascolare, a loro volta causa della PH (27). Considerazioni analoghe valgono per la responsabilità delle desaturazioni da sforzo, tra l’altro fautrici, quando risultano <88% durante il 6-MWT, di aumentato rischio di mortalità nelle IPF, analogamente alla condizione di HP. Che in queste circostanze sia l’ipossiemia indotta a causare sotto sforzo l’aumento della pressione polmonare appare però in contraddizione con il fatto che la contemporanea assunzione di ossigeno non previene la crisi ipertensiva; considerando invece che in corso di esercizio si assiste ad un aumento dei livelli plasmatici della ET-1, a questo mediatore sembra doversi imputare un ruolo preminente nella genesi di PH in corso di IPF. Diagnosi di PH in corso di IPF I comuni esami della funzione ventilatoria polmonare non possono dare alcun apporto al sospetto dell’esistenza di una PH in corso di IPF. Ciò vale sia riguardo le risultanze dello studio dei volumi polmonari sia la determinazione della DLCO. PeralMedicina Toracica • 4/2009 29 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n tro, qualora si associ la PH, sia la PAO2 che la DLCO appaiono ridotte in modo superiore alle attese, rispetto alla gravità della IPF (28). L’ecocardiografia transtoracica (TTED) rimane il metodo non invasivo più utilizzato per svelare la condizione di PH, anche se la misura della sPAP non può essere rilevata in assenza del rigurgito tricuspidalico, evento peraltro raro nelle ipertensioni più avanzate. In corso di IPF, inoltre, il TTE può sovrastimare i valori pressori polmonari nei soggetti con pressioni normali e sottostimare invece i valori di PH. In ogni caso, una pressione sistolica ventricolare destra stimata >50 mmHg è ritenuta espressione dell’esistenza di PH, se compresa tra 35 e 50 mmHg viene indicata come borderline, mentre <35 mmHg rappresenta il limite di normalità (29). Ancora una volta il gold standard è rappresentato dal cateterismo cardiaco destro (RDC), stante che nelle forme di PH iniziale il differenziale con i valori rilevati dal TTE può superare i 20 mmHg, per anullarsi nelle forme di IPF più avanzate ed in condizioni di pre-trapianto. Può suggerire inoltre la presenza della condizione di PH il rilievo in TC di un diametro della arteria polmonare principale >3.32 cm, con una specificità del 95%, ma con una sensibilità del 59% (30). Alla TC depone per l’esistenza di un rigurgito tricuspidalico, e quindi di PH, il reflusso del contrasto nella vena epatica e nella cava inferiore; la deviazione del setto interventricolare, la presenza di versamento pericardico, l’ispessimento del pericardio stesso si accompagnano spesso con le forme di PH più grave. Un ausilio al sospetto dell’esistenza di PH in corso di IPF può derivare dalla stima della concentrazione ematica di peptici natruretici, quali il BNP (B-type natruretic peptide) ed il suo metabolita NT-proBNP (N-terminal prohormone BNP), dimesso il primo dai miociti cardiaci sia del ventricolo destro che del sinistro in risposta allo stretch ventricolare. È stato dimostrato che un valore di BNP elevato correla con la condizione di PH e risulta predittivo anche sul piano prognostico; valori normali di BNP diffi30 Medicina Toracica • 4/2009 cilmente si associano alla condizione di PH e con una maggiore sopravvivenza. Il dosaggio di NT-proBNP deve invece essere preso con maggior prudenza in quanto risente della funzione renale che ne regola la escrezione (31). In definitiva in caso di IPF con sospetto di PH ci si deve innanzitutto accertare che la ipertensione polmonare non sia secondaria a cause diverse quali, ad esempio, la tromboembolia polmonare. Quindi la valutazione non invasiva prevede una ecocardiografia doppler trans-toracica, l’esecuzione delle prove funzionali respiratorie, DLCO compreso, la determinazione del BNP, dell’ossimetria durante il sonno e dell’angio-TC polmonare; se tali test supportano il sospetto di PH si deve procedere, infine, al cateterismo cardiaco destro con test di vasoreattività in acuto (Figura 1). Terapia della PH in IPF La correzione della condizione di ipossiemia mediante la supplementazione della FiO2 ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il cardine della terapia della PH in corso di IPF, anche se mancano trials clinici appropriati. L’ossigenoterapia appare in ogni caso appropriata nelle condizioni di ipossiemia cronica, stante il ruolo da essa esercitato nella genesi della PH in IPF, mentre non si dispone di dati relativi alla sua utilità nelle ipossiemie intermittenti. Scopo della ossigenoterapia a lungo termine è quello di mantenere una SPO2 >90% (≥60 mmHg) sia in condizioni di riposo che sotto sforzo. Pure raccomandato è l’impiego di anticoagulanti, ad evitare tromboembolie e microtrombosi in situ. L’impiego di vasodilatatori richiede prudenza, potendo alterarsi gli scambi gassosi per il peggioramento indotto del rapporto ventilo/perfusorio. È dimostrato, infatti, che l’uso di prostaglandina I2 e.v. peggiora in questi soggetti la quota di shunt e l’ipossiemia, eventi non rilevabili, invece, con l’impiego del sildenafil, che si sarebbe dimostrato in grado di migliorare la condizione di PH e la risultanza del 6-MWT (+49 m) (32, 33). Quanto all’impiego degli antagonisti re- Ipertensione polmonare e malattie respiratorie cettoriali dell’endotelina, sia nello studio BUILT-1 sia nel BUILT-3 non si sono rilevati effetti benefici sulla PH in IPF, tranne che in una piccola proporzione di soggetti affetti da PH in fase iniziale (34). IPERTENSIONE POLMONARE ASSOCIATA AI DISORDINI RESPIRATORI LEGATI AL SONNO I disordini respiratori legati al sonno costituiscono un’entità clinica nota dall’inizio del XX secolo, noti come “sindrome di Pickwick”; tuttavia, solo a partire dagli Anni ’90 tali patologie sono state studiate approfonditamente. La Classificazione Internazionale dei Disordini del Sonno (35) identifica tre maggiori patologie: a) la sindrome delle apnee ostruttive del sonno (OSAS); b) il respiro di Cheyne-Stokes (CSR) e le apnee di origine centrale associate alla insufficienza cardiaca cronica; c) la sindrome dell’ipoventilazione associata all’obesità PH E OSAS Si definisce OSAS la sindrome caratterizzata clinicamente da eccessiva sonnolenza diurna e più di 5 episodi ostruttivi all’ora durante il sonno. Gli episodi ostruttivi comprendono apnee, ipopnee ed episodi di aumentata resistenza delle alte vie al flusso aereo. I primi studi clinici dimostrarono una prevalenza di PH - in pazienti OSAS - molto alta, pari a circa il 60% dei casi e l’insorgenza di PH veniva considerata una conseguenza comune dell’OSAS studi successivi hanno, invece, evidenziato prevalenze minori. Attualmente la prevalenza di questa patologia è compresa tra il 5 e il 15% della popolazione potendo variare a seconda del tipo di studio, della numerosità e delle caratteristiche dei pazienti (puri OSAS vs pazienti con altre comorbidità), con un incremento lineare nella popolazione con più di 60 anni (36). Fisiopatologia della PH nell’OSAS Tre sono i principali meccanismi coinvolti dossier nell’induzione dell’incremento delle pressioni del circolo polmonare: a) l’ipossia; b) i fattori meccanici associati allo sforzo inspiratorio; c) i riflessi meccanici con effetto vasoattivo diretto. Inoltre, in corso di OSAS, specie nelle fasi di sonno REM, agli eventi di ostruzione si accompagnano episodici e drammatici incrementi dei valori di PH, correlabili con il Body Mass Index (BMI). L’ipossia conseguente alla ipoventilazione alveolare agisce inducendo costrizione delle arteriole e, quindi, un aumento delle resistenze, di modo che la perfusione viene adattata alla ridotta ventilazione (riflesso di Euler-Liljestrand). È stato dimostrato che le variazioni della PAP risultano correlate in modo inversamente proporzionale all’ipossia diurna; tuttavia, la correzione con ossigeno non si associa in modo statisticamente significativo con l’andamento della mPAP (37). Anche il trattamento cronico con CPAP dei pazienti OSAS non induce riduzioni dei valori di PAP, pur determinando una correzione dei livelli diurni di PAO2 e PACO2. Queste osservazioni suggeriscono che altri fattori, oltre ai livelli di ipossia, concorrono alla genesi della PH. In questa prospettiva è stato studiato il ruolo del fenomeno della ipossia intermittente (descritto di seguito). L’effetto meccanico, associato allo sforzo inspiratorio, determina la riduzione a valori negativi della pressione intratoracica; ciò, a sua volta, determina uno stress meccanico che riduce la performance del ventricolo sinistro causando di conseguenza un incremento della pressione capillare (PPCw). L’incremento della resistenza vascolare polmonare, correlato a questi effetti meccanici, sembra prevalere nelle fasi non-REM del sonno, anche se questo dato non è stato ancora completamente confermato in modelli animali (38). Infine è stato ipotizzato che, similmente a quanto accade per la pressione sistemica, meccanismi riflessi autonomici ancora del tutto delucidati possano giocare un ruolo anche nella regolazione del circolo polmonare (39). Medicina Toracica • 4/2009 31 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n Stress ossidativo ed “ipossia intermittente” nella genesi di PH in corso di OSAS Nei soggetti affetti da OSAS è stata descritta una forte correlazione tra le reazioni infiammatorie ed il danno/disfunzione dell’endotelio vascolare. L’attivazione della cascata infiammatoria dipende, in questi pazienti, prevalentemente dal fenomeno dell’ipossia intermittente, cioè dalla sequenza desaturazione/ riossigenazione, responsabile a sua volta della produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). L’incremento dei livelli di ROS contribuisce alla produzione di molecole di adesione, alla attivazione dei leucociti e alla produzione di reazioni infiammatorie. Inoltre la risposta simpatica - abnormemente elevata nei pazienti OSAS - induce un’aumentata resistenza all’insulina, anche in pazienti non obesi. Tale meccanismo rappresenta un’ulteriore fonte di stress ossidativo, definito dallo squilibrio tra la produzione e la degradazione di ROS. Studi su pazienti affetti da OSAS hanno dimostrato che l’impostazione della ventilazione non invasiva con CPAP è in grado di normalizzare tale squilibrio (40). L’induzione dello stress ossidativo risulta inoltre correlato con la ridotta disponibilità di NO (41), causa la sua auto-ossidazione a ione nitrosonio (NO+) ed a conversione a perossinitrito (ONOO-) per reazione con ione superossido (O2-), a sua volta generato nelle reazioni di stress ossidativo a livello delle pareti vascolari. Nell’OSAS è stato dimostrato un consumo di NO, confermato dall’aumento dei metaboliti derivati, e tale fenomeno viene ritenuto coinvolto in modo essenziale nella disfunzione endoteliale responsabile dell’insorgenza di PH. Un ulteriore meccanismo con cui lo stress ossidativo genera infiammazione è mediato dalla attivazione del fattore di trascrizione nucleare NF-κB; tuttavia il ruolo di tale meccanismo nella genesi di alterazioni endoteliali infiammatorie in corso di OSAS è attualmente in corso di studio. Infine l’attivazione della cascata infiamma32 Medicina Toracica • 4/2009 toria determina un incremento della produzione di molecole di adesione e l’attivazione di monociti e linfociti. È stato dimostrato in soggetti OSAS che la vasodilatazione endotelio-dipendente è correlata al grado di apoptosi delle cellule endoteliali; coerentemente la terapia con CPAP determina una significativa riduzione di tali cellule apoptotiche circolanti. Tutti questi meccanismi inducono disfunzione e danno a carico dell’endotelio vascolare (42). L’attivazione dei processi finora descritti consegue alla induzione di specifici meccanismi molecolari: crescenti evidenze dimostrano infatti che l’ipossia intermittente e quella continua portano alla attivazione di differenti patways di segnale cellulare. Studi su linee cellulari hanno, ad esempio, documentato che l’ipossia intermittente agisce come stimolo molto più potente dell’ipossia continua sulla attivazione di molteplici fattori di trascrizione; tra questi troviamo l’Hypoxia-inducible Factor-1 (HIF-1), con i suoi secondi messaggeri, eritropoietina e fattore di crescita per l’endotelio vascolare (VEGF) (43). In modelli animali, nonostante la difficoltà di ottenere variazioni cicliche del livello di ossiemia e di ossigeno intracellulare, è stato dimostrato che l’ipossia intermittente porta ad una attivazione selettiva di NFκB, alla produzione di ROS, alla disfunzione dei mitocondri e ad una incrementata produzione di dopamina. In modelli murini è stato possibile correlare l’ipossia intermittente ad una serie di fenomeni biologici e pato-fisiologici responsabili della genesi di PH tra cui: alterata attività dei barocettori, aumento della pressione del circolo sistemico, aumento dell’ematocrito, variazioni della struttura e della funzionalità del miocardio, alterazioni dell’endotelio nelle arteriole muscolari e un aumentata risposta alla endotelina ET1, verosimilmente mediata dall’isoforma A del recettore (ETA). Infine, in topi esposti ad ipossia intermittente è stato documentato remodelling del compartimento vascolare arterioso indotto dalla attivazione di NFκB sia a livello sistemico sia nel circolo polmonare (44). dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie PH E ALTRI DISTURBI RESPIRATORI DEL SONNO Nelle Apnee di Origine Centrale associate a respiro di Chenye-Stokes (CSR-CSA) l’insorgenza di PH appare prevalentemente correlata alla condizione di insufficienza cardiaca che accompagna questa sindrome. Difatti la prevalenza di PH interessa tra il 33% e il 38% dei pazienti con insufficienza cardiaca sinistra, che a sua volta induce congestione polmonare e PH. Consegue l’attivazione di recettori vagali che inducono iperventilazione e quindi ipocapnia. Le apnee e le ipopnee centrali comportano a loro volta un’aumentata risposta ventilatoria alla CO2 con conseguente instabilità della ventilazione durante il sonno. La sindrome, in definitiva, è caratterizzata clinicamente da frequenti risvegli notturni indotti dall’ipossia e dall’aumentato sforzo ventilatorio indotto dalla congestione e dalla ridotta compliance del circolo polmonare. Infine - come nell’OSAS - anche nella CRS-CSA è documentato un ipertono simpatico, grazie al riscontro di elevati livelli plasmatici di peptide natriuretico atriale, B-type BNP ed ET (45, 46). La Sindrome da Ipoventilazione associata all’Obesità (OHS) è caratterizzata clinicamente da ipercapnia diurna, ipoventilazione e apnee durante il sonno. Frequentemente si accompagna a PH, la cui genesi risulta multifattoriale e contempla prevalentemente il ridotto drive ventilatorio conseguente allo stato di obesità e alla resistenza genetica verso la leptina. La leptina è prodotta dal tessuto adiposo bianco al fine di diminuire l’appetito e provocare, quindi, la perdita di peso ma svolge anche un ruolo di controllo sulla ventilazione. In topi knock-out per il gene codificante la leptina si determina un deficit nella risposta ventilatoria alla ipercapnia diurna e durante il sonno REM. Molto sovente nei soggetti con OHS si realizzano disturbi del sonno caratterizzati da ostruzioni al flusso ed ipossia che richiedono l’impostazione di ventilazione noninvasiva, alterazioni della ventilazione che provocano ripercussioni sul circolo polmonare e si dimostra la presenza di difetti genetici che li rendono di fatto resistenti all’azione della leptina. Il tessuto adiposo, infine, produce numerosi altri mediatori (e.g. TNF-α, IL-6, angiotensinogeno, ecc.) che hanno effetti sul bilancio energetico ma anche sull’omeostasi dell’endotelio vascolare. Infine è stato dimostrato che nei soggetti obesi i livelli di adiponectina sono abnormemente ridotti e inversamente correlati alla funzione miocardica e al livello di pressione del circolo polmonare (47, 48). È importante sottolineare che molti dei pazienti affetti da PH associata a disturbi della ventilazione durante il sonno presentano diverse comorbidità, in particolare risultano malati di BPCO. Tale condizione configura la cosiddetta Overlap Syndrome (OS). Nel 2001 lo studio di Kessler e coll. ha documentato che nei pazienti puri OSAS i valori di mPAP sono di circa 15±5 mmHg e solo il 9% dei pazienti ha mPAP >20 mmHg; al contrario, i pazienti affetti da OHS (definita con BMI >30 e PACO2 >45 mmHg) presentano valori medi di PAP di 23±10 mmHg. I pazienti affetti da OS presentano valori di mPAP intermedi tra i due gruppi (49). IPERTENSIONE POLMONARE CONSEGUENTE A MECCANISMI NON DEFINITI O A GENESI MULTIFATTORIALE Sebbene nella sarcoidosi, nella linfangioleiomiomatosi (LAM) e nell’Istiocitosi a cellule di Langherans siano presenti alterazioni dell’interstizio polmonare, esse vengono classificate distintamente - rispetto alla IPF - perché, in modo caratteristico in queste patologie, la genesi della PH prevede il coinvolgimento diretto delle strutture vascolari con meccanismi peraltro ancora non del tutto delucidati. IPERTENSIONE POLMONARE E SARCOIDOSI La sarcoidosi è una malattia granulomatosa cronica ad eziologia sconosciuta, caMedicina Toracica • 4/2009 33 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n ratterizzata da un accumulo di linfociti T e fagociti mononucleati negli organi interessati, con formazione di granulomi non caseosi. Si tratta di una malattia multisistemica, le cui manifestazioni sono estremamente polimorfe, potendo interessare praticamente ogni organo, anche se solitamente prevale il coinvolgimento polmonare. La malattia può presentarsi in forma acuta o subacuta a risoluzione in genere spontanea, più spesso con atteggiamento cronico, che alterna fasi di remissione e di riacutizzazione. L’età più colpita è compresa tra i 20 ed i 40 anni, con una lieve prevalenza per il sesso femminile (50). Fra le possibili complicanze correlate alla sarcoidosi rientra l’ipertensione polmonare, con una prevalenza stimata variabile tra l’1% e il 28% dei casi (51, 52). Lo sviluppo di PH è prevalentemente correlata alla distruzione del letto capillare distale contestuale al sovvertimento, in senso fibrotico del parenchima, e/o alla conseguente condizione di ipossiemia cronica. Tuttavia è stato dimostrato che la severità dell’ipertensione non correla in modo direttamente proporzionale né al grado di fibrosi polmonare né con le tensioni arteriose dei gas respiratori; inoltre l’ipertensione polmonare può insorgere precocemente, in modo indipendente, quindi, rispetto allo stadio della malattia granulomatosa. Queste osservazioni hanno suggerito che la genesi dell’ipertensione polmonare preveda meccanismi differenti, quali: a) la compressione estrinseca del letto arterioso polmonare indotta da adenopatie ilari e mediastiniche più o meno associate a distorsioni fibrotiche; b) lo sviluppo di granulomi non caseosi a livello del tratto vascolare venoso postcapillare con relativo risparmio del distretto arteriolare e con conseguente sviluppo secondario di malattia venocclusiva polmonare (PVOD); c) la vasocostrizione polmonare indotta da mediatori vasoattivi. A ciò aggiungasi la possibilità che l’ipertensione polmonare possa essere conseguente a localizzazione epatica della sarcoidosi. Possibile infine l’associazione fortuita tra 34 Medicina Toracica • 4/2009 sarcoidosi e PH idiopatica, anche se improbabile per la bassa incidenza di entrambe le patologie (53-55). Ne deriva che il quadro istopatologico varia in conseguenza ai differenti meccanismi patogenetici. È comunque opportuno sottolineare che a fronte di una localizzazione vascolare della malattia sarcoidosica, in circa il 70% dei casi di malattia, l’insorgenza di ipertensione polmonare risulta relativamente rara; in ogni caso un ruolo rilevante nella patogenesi della PH sembra essere giocato dalla insorgenza di fenomeni di degenerazione venoocclusiva (56). Essa è definita, a livello istologico, non solo dalla presenza dei granulomi che invadono e distruggono la parete vascolare venosa, ma anche dalla presenza di fibrosi occlusiva perivascolare e dell’intima, alla quale possono accompagnarsi fenomeni di ricanalizzazione; del tutto assenti risultano invece ulteriori cause di ipertensione venosa quali, ad esempio, l’ostruzione venosa prossimale e la stenosi mitralica. A conferma del ruolo giocato dalla PVOD caratteristicamente si documenta la emosiderosi interstiziale cronica associata a depositi di ferro anche a livello della lamina elastica. L’interessamento arteriolare è invece meno rilevante, in particolare non associato a lesioni plessiformi o tromboemboliche. Rispetto a quanto precedentemente descritto, Nunes et al. hanno avanzato la possibilità di distinguere due differenti fenotipi di ipertensione polmonare associata a sarcoidosi, in funzione della presenza o dell’assenza di fibrosi parenchimale (57). Il gruppo di soggetti affetti da sarcoidosi senza fibrosi (31% dei casi analizzati) risulterebbe caratterizzato da una prevalenza di PH più bassa rispetto ai pazienti del gruppo con sarcoidosi e fibrosi polmonare. A fronte di parametri funzionali polmonari solo lievemente alterati, la diffusione del monossido di carbonio (DLCO) risulterebbe francamente compromessa e significativamente correlata con i valori di PAP media, mentre l’indice di resistenza vascolare polmonare (pulmonry vascular resistance index - PVRI) con la PAO2. Dal punto di vista tomografico i pazienti con dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie sarcoidosi non fibrotiche e PH si differenziano da quelli con sarcoidosi senza PH in modo statisticamente significativo per la frequenza più elevata (85,7% vs 14,3%) di attenuazioni a vetro smerigliato, espressione di verosimile presenza di malattia polmonare venoocclusiva. Nei pazienti con malattia in IV stadio e franca fibrosi, l’insorgenza di PH è conseguente non solo alle alterazioni vascolari e alla ipossiemia, ma ad altri fattori tra cui, principalmente, la compressione estrinseca delle arterie polmonari. Globalmente la prognosi dei pazienti affetti da sarcoidosi associata a PH risulta essere estremamente negativa, anche per la mancanza di risposta alla terapia steroidea sistemica; tra i 10 dei 22 soggetti di Nunes et al. trattati con corticosteroidi, solo in 3 è stata dimostrata una diminuzione della PAP sistolica. L’insorgenza di ipertensione polmonare è stata causa di morte in circa il 60% dei casi, che tuttavia appartenevano tutti alla classe IV (NYHA). Solo quest’ultima condizione, e non i parametri emodinamici, è risultata predittiva del rischio di morte. L’avvento di terapie specifiche per l’ipertensione polmonare ha determinato una rinascita dell’interesse per la diagnosi e il trattamento della PH associata alla sarcoidosi. Reazioni positive al test di vasoreattività acuta, in risposta all’epoprostenolo, suggerirebbero un ruolo dei vasodilatatori nel trattamento a lungo termine, nonostante si segnalino possibili eventi negativi quali l’edema polmonare acuto ed il severo squilibrio ventilo/perfusorio (58). Le diverse risposte ottenibili potrebbero essere il risultato della eterogeneità eziologica della PH in corso di sarcoidosi. In conclusione, l’ipertensione polmonare costituisce una grave complicanza della sarcoidosi e si distinguono grossolanamente due fenotipi distinti sulla base del fatto che la PH sia associata a malattia negli stadi iniziali o, invece, a quadri di fibrosi polmonare conclamata, in quanto riflettono meccanismi patogenetici differenti. In caso di malattia non fibrosante l’ipertensione polmonare è prevalentemente di origine venosa, conseguente al coinvolgimento con effetto occlusivo del letto vascolare post-capillare; tali forme sembrano rispondere al trattamento steroideo. I farmaci vasodilatatori sistemici andrebbero, invece, utilizzati con molta cautela a causa del potenziale rischio di incorrere in edema polmonare secondario alla presenza di PVOD. Nei casi in cui l’ipertensione polmonare si associa a malattia in stadi avanzati, essa viene attribuita alla compromissione sia venosa sia arteriosa per la compressione estrinseca esercitata sulle arterie di calibro maggiore; in tali casi la terapia cortisonica non apporta benefici ed il trapianto di polmone andrebbe preso in considerazione indipendentemente dal grado di compromissione degli indici funzionali respiratori. IPERTENSIONE POLMONARE E LINFANGIOLEIOMIOMATOSI (LAM) La linfangioleiomiomatosi (LAM) è un raro disordine multisistemico che affligge principalmente le donne in età fertile e la cui eziologia non è ancora stata completamente chiarita. La malattia si caratterizza a livello istologico per la proliferazione di cellule muscolari lisce anormali (cellule LAM) che a livello polmonare sono raggruppate in piccoli agglomerati intorno alle pareti dei vasi ematici, linfatici e delle piccole vie aeree e lungo le vie linfatiche toraciche e addominali. La proliferazione di queste cellule induce ostruzione e, quindi, la formazione di cisti a parete sottile nel polmone, di strutture cistiche a contenuto fluido distribuite lungo le strutture linfatiche (linfangioleiomiomi) e frequentemente angiomiolipomi renali. La LAM compare, nella maggior parte dei casi, sporadicamente senza evidenze di disturbo genetico, con una prevalenza stimata di circa 2,6 x 1.000.000 donne; raramente si associa invece alla presenza di mutazioni puntiformi nei geni TSC1 e TSC2, evenienza che fa considerare attualMedicina Toracica • 4/2009 35 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n mente la malattia come una forma neoplastica (59). Una caratteristica di rilievo che può evidenziarsi nel corso della malattia è rappresentata dalla insorgenza di ipertensione arteriosa polmonare (PAH), che interessa peraltro meno del 10% dei casi; in circa 1/3 di questi si rende necessaria la supplementazione di ossigeno al fine di adempiere al carico fisico del lavoro quotidiano. Se il 50% dei pazienti affetti da LAM sottoposti a test da sforzo, manifestano desaturazione arteriosa di O2 a riposo, invece, l’incremento dei valori di PAP è abbastanza raro (60-62). Se ne deduce che la genesi della PH rimane associata all’ipossia indotta dallo sforzo ed, infatti, la somministrazione di O2 in tali soggetti migliora il quadro di aumento delle pressioni arteriose polmonari. Non necessariamente la totalità dei pazienti presenta PH ed in alcuni pazienti l’ipossia non determina in nessun caso aumento della pressione arteriosa polmonare. Pertanto, si ritiene probabile che altri fattori aggiuntivi alla vasocostrizione polmonare ipossica concorrano alla genesi della PH nei pazienti affetti da LAM, quali la mancata compliance del letto vascolare polmonare, alterato dalla proliferazione abnorme delle cellule muscolari lisce. L’ottimizzazione dei livelli di saturazione in O2, tramite ossigenoterapia in corso di attività fisica, riduce la severità dell’ipossia e, potenzialmente, contribuisce a correggere e/o prevenire elevati valori di PAP; tuttavia gli effetti sul beneficio a lungo termine dell’ossigenoterapia non sono ad oggi completati. In conclusione, in corso di LAM, l’ipossiemia compare a livelli relativamente modesti di esercizio fisico ed è verosimilmente associata all’ elevazione dei valori di PAP: da questo presupposto deriva il razionale della O2-supplementazione con la finalità di prevenire la PAH indotta dallo sforzo. Studi limitati hanno dimostrato un potenziale effetto benefico degli inibitori della fosfodiesterasi-5 (in particolare del sildenafil) nel limitare l’incremento di PAP indotta dalla ipossia sia a riposo sia durante lo sforzo, soprattutto nei casi in cui la 36 Medicina Toracica • 4/2009 tolleranza allo sforzo è limitata dall’ipossiemia piuttosto che dall’alterazione del rapporto ventilo-perfusorio. Gli studi a tal proposito finora condotti dimostrano, tuttavia, evidenti limiti correlati principalmente alle difficoltà nella valutazione delle PAP, in particolare durante l’esercizio fisico che induce distorsione della posizione del cuore nel mediastino in relazione alla dinamica dei polmoni durante l’inspirazione. Peraltro, dopo aver paragonato i risultati ottenuti con il TTED ed il RDC, due studi indipendenti hanno concluso che in pazienti con LAM l’ecocardiografia può essere considerata una metodica adeguata per il monitoraggio delle PAP. In particolare è stato validato il ruolo dello studio ecocardiografico sotto sforzo per la stima ed il monitoraggio delle PAP in corso di esercizio fisico e per l’identificazione precoce di risposte patologiche della PAP allo sforzo stesso (62, 63). IPERTENSIONE POLMONARE ED ISTIOCITOSI A CELLULE DI LANGHERANS L’istiocitosi a cellule di Langerhans (LCH) è una malattia correlata al fumo di sigaretta, istologicamente caratterizzata da noduli bronchiolocentrici costituiti da cellule di Langerhans (LC) frammiste ad altre cellule infiammatorie spesso organizzate in granulomi (64). Le LC sono cellule presentanti l’antigene e si distinguono dagli altri istiociti per la positività al CD-1a (65). L’ipertensione polmonare è una complicanza della LCH ed è presente nel 92-100% dei pazienti con malattia avanzata (66-68). Tale complicanza non è limitata solo nella LCH end-stage ma viene riscontrata nella maggior parte dei soggetti affetti da LCH che vengono sottoposti ad accertamenti in merito a dispnea (69). La distruzione parenchimale spiccata, che caratterizza la LCH polmonare, non è un requisito indispensabile per lo sviluppo della PH. dossier Ipertensione polmonare e malattie respiratorie I meccanismi patogenetici della PH associata a LCH non sono ancora ben chiari. È noto che la vasocostrizione polmonare dovuta all’ipossiemia cronica è un importante meccanismo patogenetico dell’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica, ma la PH che insorge in soggetti con LCH avanzata risulta di entità maggiore rispetto a quella che si sviluppa per la sola presenza dell’ipossiemia cronica. Questo suggerisce che altri meccanismi siano coinvolti nella sua patogenesi (70). Un fattore noto che causa PH secondaria è la distruzione del parenchima polmonare, che nel caso della LCH viene sostituito da abnormi cisti aeree (64, 71). Nella LCH i parametri di funzionalità respiratoria non sembrano essere fattori predittivi o prognostici per la PH (72) ad eccezione, forse, della capacità funzionale forzata inversamente correlata alla pressione arteriosa polmonare sistolica (69). Si ricorda che la LCH è una malattia che si associa sia ad una sindrome disventilatoria restrittiva, prevalente nelle fasi iniziali, sia ostruttiva in genere nelle fasi più avanzate (64). Diversi studi istopatologici hanno dimostrato un coinvolgimento vascolare polmonare, sia arterioso che venoso, pur in presenza di stabilità delle lesioni parenchimali (72-75). Curiosamente queste alterazioni sono state descritte in aree parenchimali non coinvolte dalle lesioni granulomatose LCH. Ciò dimostrerebbe che esiste una componente vascolare primaria della malattia, non correlata all’infiltrazione delle LC, ma invece dovuta alla fibrosi intimale e sub-intimale, prevalentemente coinvolgente le vene polmonari (72). In alcuni casi però, reperti istologici autoptici, o in polmoni espiantati, evidenziano foci vasculitici di LC all’interno del lume vasale che ne provocava la ostruzione, un’ipertrofia della media e un’iperplasia della muscolare nelle arterie polmonari. Comunque la compromissione parenchimale e quella vascolare sembrano indipendenti e progrediscono in modo dissociato l’una dall’altra portando a pattern di alterazione funzionale differenti. Altro fattore che può giocare un ruolo nella patogenesi PH-LCH riguarda l’attività delle citochine, come il TGF-β o il fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGF), prodotte dai granulomi LCH, che sono notoriamente coinvolte nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. In conclusione, nello sviluppo della PH correlata a LCH si evidenziano varie concause: 1) vasocostrizione polmonare secondaria a ipossiemia cronica; 2) distruzione cistica parenchimale polmonare; 3) alterazioni vascolari sia arteriose sia venose polmonari; 4) produzione di citochine ipertensivanti. Questi fattori possono assumere un’influenza diversa in ogni singolo paziente e, comunque l’ipertensione polmonare non correla con i parametri di funzionalità respiratoria ma riveste un significativo impatto sulla sopravvivenza di questi malati. RIASSUNTO L’ipertensione del circolo polmonare definisce una ben nota condizione che molto sovente si associa alle malattie respiratorie. Il 4° World Symposium on Pulmonary Hypertension (Dana Point, 2008) ha classificato queste condizioni come “ipertensione polmonare conseguente a malattie respiratorie e/o ad ipossiemia”. Inoltre l’ipertensione polmonare può essere associata a patologie ad interessamento multi organo a prevalente coinvolgimento polmonare; tali situazioni identificano casi di “ipertensione polmonare a genesi non chiara o conseguente a molteplici meccanismi”. L’ipossiemia riveste in generale un ruolo chiave nella patogenesi dell’ ipertensione polmonare, tuttavia, come è evidente dalla riclassificazione di Dana Point, specifici meccanismi patogenetici intervengono nelle diverse patologie polmonari. Sono di seguito descritte le procedure diagnostiche, le caratteristiche anatomo-patologiche e cliniche e gli approcci terapeutici dell’ ipertensione polmonare associata alle più importanti patologie polmonari delle quali essa rappresenta una rilevante complicanza. Parole chiave: pressione dell’arteria polmonare, ipossiemia, malattia venoocclusiva, rimodellamento vascolare. MedicinaToracica•4/2009 37 dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n BIBLIOGRAFIa 1. 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L’inibizione farmacologica di queste funzioni costituisce un punto chiave nell’approccio terapeutico in diverse patologie polmonari, tra cui la BPCO ed asma. Tuttavia crescenti evidenze dimostrano che molte cellule oltre a quelle del sistema nervoso, sono in grado di sintetizzare e rilasciare Ach; tra queste: cheratinociti, linfociti, cellule endoteliali e cellule del sincizio trofoblasto. Anche a livello delle vie aeree è presente un sistema di attivazione colinergica non-neuronale che funziona in maniera cellulo-specifica con meccanismo di regolazione autocrino e/o paracrino (Tabella 1). A livello delle vie aeree sono stati descritti almeno dodici tipi differenti di cellule di derivazione epiteliale e cinque tipi di cellule appartenenti a strutture ghiandolari, comprese cellule intermedie in progressivo stadio differenziativo. Le cellule peculiari dell’albero bronchiale sono le cellule ciliate. Esse sono presenti in ampia percentuale (compresa tra il 32 e il 55% di tutte le cellule) nella trachea e nei grossi bronchi dove assumono una forma colonnare (20 µm di altezza e 7 µm di larghezza) mentre si riducono in altezza a livello delle più periferiche diramazioni bronchiali e dei bronchioli. Queste cellule inoltre possono protrudere nel lume bronchiale tramite microvilli. Alla superficie luminale della cellula è pre- Ernesto pozzi giulia Maria Stella Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio Università di Pavia, IRCCS Fondazione Policlinico San Matteo ABSTRACT Non-neuronal cholinercic system in airways In the airways tract acetylcholine (Ach) is known to be the mediator of the parasympathetic nervous system. However Ach is also synthesized by a large variety of non-neuronal cells. Strongest expression is documented in neuroendocrine and in epithelial cells (ciliated, basal and secretory). Growing evidences suggest that a cell-type specific Ach expression and release do exist an act with local autoparacrine loop in non-neuronal airway compartment. Here we review the molecular mechanism by which Ach is involved in regulating various aspects of innate mucosal defense, including mucociliary clearance, regulation of macrophage activation as well as in promoting epithelial cells proliferation and conferring susceptibility to lung carcinoma onset. Importantly this non-neuronal cholinergic machinery is differently regulated than the neuronal one and could be specifically therapeutically targeted. Key words: cholinergic system, non-neuronal compartment, innate defense, cancer susceptibility, “druggable” target. MedicinaToracica•4/2009 41 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n Tabella 1 Spettro delle azioni mediate dall’acetilcolina a livello delle vie aree. Cellule bersaglio Cellule epiteliali Ghiandole mucose e sottomucose Neutrofili, macrofagi, linfociti T Fibroblasti Cellule muscolari lisce Effetto Stimolo Proliferazione Secrezione mucosa Rilscio IL-8 Frequenza battito ciliare Attivazione cinasi (MAPK) Secrezione Infiammazione Differenziazione linfociti T cit. Rilascio LT-B4 Chemotassi PMN Proliferazione Rilascio IL-8 e MMP-2 Sintesi collagene Contrazione Espressione proteine collagene Mitosi sente la proteina CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane conductance Regulator) le cui alterazioni conseguenti a mutazioni nelle sequenze geniche codificanti per il trasportatore stesso, sono responsabili della genesi della fibrosi cistica. Le restanti cellule dell’epitelio delle vie aeree sono generalmente raggruppate sotto il termine di “cellule non ciliate”. La maggior parte di queste è rappresentata dalle cellule delle ghiandole della mucosa e sottomucosa che producono il secreto bronchiale. L’organizzazione e la distribuzione relativa di queste cellule cambiano nei diversi tratti delle vie respiratorie. Le goblet cells costituiscono circa il 9% delle cellule della trachea mentre sono quasi del tutto assenti nei bronchioli più distali. Le piccole vie aeree contengono, invece, cellule il cui citoplasma è ricco di reticolo endoplasmatico liscio e rugoso, contengono granuli secretori più piccoli di quelli presenti nelle goblets cells e protrudono nel lume bronchiolare con sottili microvilli: sono le cellule di Clara. Le cellule basali, che per definizione non si affacciano sul lume bronchiale, si trovano prevalentemente nelle vie aeree più grandi e, nell’uomo, costituiscono circa il 30% delle cellule della trachea. Infine esiste una minoranza di cellule epiteliali specializzate che, tuttavia, sono in grado di produrre quantità rilevanti di ace42 Medicina Toracica • 4/2009 Inibizione Infiammazione Inibizione di: IL-8 e TNF-a trombossani e molecole co-stimolatorie Differenziazione mio-fibroblasti Rilascio fibronectina tilcolina. Tra queste, le cellule polmonari neuroendocrine che originano da precursori differenti rispetto a quelli delle altre cellule epiteliali. Queste cellule sono solitamente isolate nell’epitelio respiratorio mentre a livello delle diramazioni bronchiali sono prevalentemente raggruppate nei cosiddetti “corpi neuro-epiteliali” (neuro-epithelial bodies-NEBs). Caratteristicamente queste cellule contengono granuli densi ricchi di amine bioattive e di neuro peptidi. I NEBs sono prevalenti nell’embrione e nel periodo neonatale e si pensa svolgano funzioni di sensori dell’ossigeno che contribuiscono allo sviluppo e alla maturazione dei polmoni. La funzione di sensori dell’ossigeno non è stata ancora completamente definita, ma molte evidenze suggeriscono che i NEBs rappresentino una sottopopolazione di un più esteso gruppo di recettori vagali mielinici delle vie aeree, sensibili a diversi stimoli, chimici e meccanici. Il ruolo delle cellule neuroendocrine isolate è ancora sconosciuto: è stato ipotizzato anche per queste cellule un ruolo nello sviluppo polmonare, in particolare nella regolazione del fenomeno di branching morphogenesis e di crescita e proliferazione cellulare. Nel topo è stato dimostrato che queste cellule si trovano associate a nicchie staminali e questa evidenza ha Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree suggerito che esse possano svolgere un ruolo di protezione delle cellule staminali dagli agenti nocivi esogeni, contribuendo pertanto a mantenere la condizione di auto-rinnovamento del compartimento staminale. Un ulteriore tipo cellulare relativamente infrequente è dato dalle cellule atipiche a spazzola dei microvilli, generalmente definite “cellule a spazzola”. A livello tracheale queste cellule funzionano come chemocettori; è stato inoltre ipotizzato che queste cellule possano agire da sensori della colonizzazione batterica e siano pertanto in grado di iniziare e promuovere i meccanismi di difesa dalle infezioni. Sintesi e riciclo di acetilcolina nelle fibre nervose colinergiche L’Ach è sintetizzata nell’assoplasma neuronale dall’enzima colina acetiltrasferasi (ChAT) a partire da colina di provenienza extracellulare ed acetil-Coenzima A, prodotto dai mitocondri. L’uptake della colina dallo spazio extracellulare rappresenta lo step limitante la sintesi di Ach nelle cellule nervose ed è mediato dal trasportatore ad alta affinità CHT1 (choline transporter 1). Una volta generata nell’assone, l’Ach è stoccata nelle piccole vescicole sinapti- Aggiornamenti di Fisiopatologia che; tale processo è mediato dal trasportatore dell’Ach vescicolare (VAchT), una proteina costituita da 12 domini che funziona come pompa di scambio H+/Ach. All’interno di ciascuna vescicola sinaptica possono essere contenute fino a 10.000 molecole di Ach legate tramite una matrice ricca di proteoglicano SV2. Alla depolarizzazione della fibra nervosa l’Ach viene rilasciata dalle vescicole nello spazio extracellulare. L’Ach liberata può interagire con due distinti recettori: 1) il recettore muscarinico (MR), costituito da 7 domini transmembrana ed accoppiato ad una proteina G; di tale recettore sono conosciute 5 isoforme (M1-M5); 2) il recettore nicotinico (nAchR), canale ionico con due siti di legame per l’Ach che è costituito da eterodimeri o eteropentameri. L’azione dell’Ach è esaurita in tempi molto rapidi e su distanze molto ravvicinate: questa condizione è conseguente alla presenza nello spazio extracellulare di una acetilcolinesterasi (AChE) altamente efficiente nella scissione dell’Ach in colina ed acetato. L’AChE è sintetizzata dalle stesse fibre nervose colinergiche e assicura in tal modo un equilibrio tra produzione e capacità di degradazione dell’Ach stessa. La colina originata dall’AChE è quindi disponibi- Figura 1 Vie di sintesi e riciclo dell’ Ach nel sistema colinergico nervoso (A) e non-neuronale (B). Modificata da Kumer W et al., 2008. Medicina Toracica • 4/2009 43 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n le per essere riutilizzata dal neurone stesso , tramite il trasportatore CHT1, per un nuovo ciclo di sintesi di Ach (Figura 1A). Sintesi e riciclo di acetilcolina nelle cellule non-neuronali La sintesi di Ach a livello non-neuronale rappresenta un sistema filogeneticamente antico, presente sia nei batteri che nelle piante. Il meccanismo di sintesi e rilascio dell’Ach nel sistema nervoso si è evoluto separatamente in tempi relativamente più recenti e alcuni degli enzimi altamente efficienti sono propri di questo sistema e non si ritrovano nel compartimento nonneuronale. Ogni cellula contiene un sistema di uptake di colina che costituisce un elemento indispensabile alla sintesi dei lipidi della membrana plasmatica, in particolare della fosfatidilcolina: è descritta, infatti, una grande varietà di trasportatori transmembrana di colina, ma solo determinate cellule non-neuronali esprimono il trasportatore più efficiente CHT1. Una via alternativa per la sintesi di Ach nelle cellule non-neuronali è fornita dall’enzima carnitina acetiltrasferasi (CarAT) che, anche se in maniera meno efficiente, guida la sintesi di Ach nelle fibre muscolari scheletriche. Il processo di storage dell’Ach sintetizzata nelle cellule del sistema colinergico non-neuronale non è stato completamente chiarito: nonostante sia stato identificato l’enzima VAchT è verosimile che il rilascio dell’Ach avvenga direttamente dal citoplasma in assenza di meccanismi di esocitosi. A sostegno di tale ipotesi è stata documentata l’attività di un trasportatore cationico di membrana polispecifico (OCT) in grado di trasportare l’Ach bidirezionalmente all’interno e/o all’esterno della cellula - in base alla concentrazione del substrato e al potenziale di membrana. Inoltre anche un protolipide, noto come “mediatoporo”, è verosimilmente coinvolto nel rilascio di Ach: il rilascio può essere diretto dal citoplasma cellulare allo spazio extracellulare 44 Medicina Toracica • 4/2009 o mediato dalla formazione di pori attraverso la membrana plasmatica. Il “mediatoporo” appartiene alla famiglia delle H+-ATPasi vacuolari che sono presenti in diversi organelli intracellulari, come i lisosomi, gli endosomi e le vescicole secretorie. La presenza della H+-ATPasi è stata dimostrata nel polmone umano a livello dell’endotelio microvasale: è verosimile che il “mediatoporo” possa facilitare il rilascio dell’Ach specificamente a livello di queste cellule. Infine, una volta rilasciata nello spazio intercellulare, l’Ach è scissa da idrolasi meno specifiche rispetto alla AChE, la principale delle quali è la butirrilcolinesterasi (BChE) (Figura 1B). Trasportatori della colina localizzati nell’epitelio delle vie aree È stato dimostrato che a livello dell’epitelio delle vie aeree esiste una molteplicità di sistemi di trasporto e uptake della colina a distribuzione cellulo-specifica. Il trasportatore ad alta affinità CHT1 che si pensava essere specifico del sistema nervoso colinergico è stato identificato anche nella membrana apicale delle cellule ciliate della trachea in modelli murini. Studi di immunolabelling e di espressione in Western blot hanno dimostrato la presenza di una molecola con le caratteristiche biochimiche e immunofenotipiche proprie di CHT1 in linee cellulari polmonari umane trasformate in senso adenocarcinomatoso (A549). Complessivamente questi dati consentono di ipotizzare che esista un sistema di uptake della colina dal lume delle vie aeree all’interno delle cellule ciliate, mediato da una via di trasporto che si credeva selettivamente attiva solo a livello neuronale. Tuttavia anche altre cellule dell’epitelio delle vie respiratorie sono in grado di assorbire colina attraverso altri meccanismi di trasporto che possono agire in assenza del trasportatore CHT1. Ad esempio cellule A549 co-esprimono, oltre a CTH1, un Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree sistema di trasporto Na+- indipendente che è regolato dal gradiente transmembrana di H+ e che è sensibile all’amiloride. I trasportatori della colina diversi dal CTH1 sono classificati in due famiglie: le proteine simili ai trasportatori colina-specifici (CTL family) e i trasportatori cationici organici polispecifici (OCT family). Membri di entrambi questi gruppi sono espressi nel polmone umano. Analisi con immunoblot specifici hanno dimostrato la significativa presenza di trasportatori della famiglia CTL nelle cellule A549. Tra i trasportatori OCT, le forme OCT1 e OCT 2 (ma non OCT3) trasportano colina: OCT1 è espresso a prevalente localizzazione intracitoplasmatica apicale nelle cellule ciliate. La distribuzione di OCT1 sembra essere cellulo-specifica: studi su modelli murini hanno confermato che il trasportatore è presente solo sulle cellule ciliate e non nelle cellule secretorie, nelle basali e nelle cellule a spazzola. L’isoforma OCT2 è espressa nell’epitelio bronchiale umano, ma non è evidenziabile nel topo; essa ha prevalente localizzazione sul versante basale delle cellule ciliate, è presente nelle cellule basali mentre, non è dimostrabile, a livello delle goblet cells. Quale sia il reale ruolo di questi trasportatori nel ciclo della sintesi dell’Ach non è ancora definito: è stato infatti osservato che topi knock-out per entrambe le isoforme OCT1 ed OCT2 presentano un contenuto di Ach nella trachea aumentato anziché, come sarebbe atteso, ridotto. Regolazione della sintesi dell’Ach nelle vie aeree Nonostante sia ampiamente documentata la presenza dell’enzima colina acetiltrasferasi (ChAT) responsabile della sintesi di Ach, la reale identità dell’enzima attivo a livello delle vie aeree non è, ad oggi, completamente nota. Infatti è importante sottolineare che esistono diverse varianti dell’enzima, tutte codificate da uno stesso gene; le differenze esistenti sono così ele- Aggiornamenti di Fisiopatologia vate che le diverse forme sono riconosciute da antisieri differenti. Il gene ChAT dei mammiferi contiene 3 esoni non codificanti (definiti, nei modelli animali, esoni R-, M-, N-) e , a seconda sella specie, 15 o 16 esoni codificanti. Tra i due esoni non trasdotti R- e N- è inserita la sequenza codificante per l’enzima VAChT. Questo particolare costrutto genico codificante per ChAT e per VAChT è noto come “locus genico colinergico”. Multipli trascritti derivanti da possibili splicing alternativi sono stati identificati nel topo e almeno 6 di questi sono ritrovabili anche nell’uomo. Nel sistema nervoso tutte le 6 varianti sono presenti, con prevalenza del mRNA tipo M-; per quanto riguarda il sistema bronchiale - nel topo e nella scimmia- sono stati identificati mRNA codificanti per ChAT sia di tipo M- che N-. Forme di ChAT differenti possono inoltre derivare da splicing alternativi a livello delle sequenze tradotte. Ad esempio nel sistema nervoso, accanto alla forma completa di 69KDa (cChAT), è presente una proteina derivante dalla rimozione dei primi 6-9 esoni codificanti, tale forma è prevalente a livello assonale periferico (pChAT). In modelli murini a livello tracheale è stata identificata con indagini biochimiche solo la forma completa dell’enzima. Tali dati sono stati confermati da studi di immunoistochimica che hanno documentato la presenza della forma cChAT in tutti i tipi di cellule della trachea; nel tratto respiratorio più distale la positività è meno intensa nelle cellule ciliate e in quelle a funzione secretiva, mentre è maggiore nelle cellule neuroendocrine e nelle cellule a spazzola. Nelle cellule ciliate della trachea la positività è maggiore nella regione citoplasmatica apicale: tale dato suggerisce una sintesi di Ach più precoce nella trachea rispetto ai bronchi distali. Infatti, in queste cellule, l’enzima cChAT è localizzato nella stessa area del trasportatore CHT1: in tal modo, nelle cellule ciliate, la totalità della Ach sintetizzata è concentrata a livello apicale, suggerendo la possibilità di un suo rilascio intraluminale. Complessivamente questi dati confermerebbero che nelle vie Medicina Toracica • 4/2009 45 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n aeree esiste un’espressione di ChAT relativamente più uniforme rispetto al sistema nervoso, con la prevalenza di una singola variante proteica (tipo M-) rappresentata dalla proteina nella sua struttura completa. Tuttavia i dati immunoistochimici non sono completamente coerenti con i dati biochimici che documentano la presenza di proteine di diverso peso molecolare. In particolare in estratti di epitelio bronchiale sono state documentate proteine del peso molecolare di 54 e 41 KDa, positive all’immunostaining per cChAT. La possibilità di cross-reazioni in corso di immunoistochimica non giustifica pienamente tali discrepanze, per cui sono attualmente in corso diversi approfondimenti biochimici e biomolecolari. Meccanismi di rilascio dell’Ach a livello delle vie aeree Nel sistema nervoso colinergico, l’enzima VAChT trasferisce l’Ach dall’assoplasma all’interno delle vescicole sinaptiche. Il peculiare “locus genico colinergico” gioca un ruolo chiave nell’orchestrare l’espressione di ChAT e VAChT in modo da bilanciare la produzione e il rilascio dell’Ach. Nel tratto respiratorio è stata dimostrata la presenza di VAChT a livello tracheale e nelle cellule secretorie e neuroendocrine dei bronchi; linee cellulari di small cell lung cancer, teoricamente derivate da cellule neuroendocrine, esprimono sia VAChT che ChAT e, in queste cellule il rilascio di Ach è sensibile al vesamicolio, agente inibitore dell’enzima VAChT. Le cellule ciliate apparentemente utilizzano un meccanismo di rilascio non-vescicolare. I trasportatori OCT1 e 2 sono localizzati alla estremità apicale del citoplasma, la forma OCT3 a livello basale. Tale distribuzione consente di ipotizzare che la direzione del rilascio di Ach possa variare in base al gradiente di concentrazione e al potenziale di membrana. Come già sottolineato, la localizzazione apicale di OCT1 e 2 suggerisce l’esistenza di un ciclo di uptake e rilascio di Ach a livello del lume bronchiale. Il ruolo di OCT3 è, invece, meno chiaro: è possibile che la proteina per essere funzionale richieda l’attivazione addizionale di altre strutture proteiche. Questi trasportatori polispecifici rappresentano bersagli di numerosi farmaci che agiscono o come competitori nel trasporto dei cationi o come inibitori diretti. Tra questi la nicotina e i corticosteroidi (corticosterone, fluticasone, budesonide) sono in grado di bloccare, in vitro, il rilascio di Ach mediato da Figura 2 Meccanismi di rilascio dell’Ach nelle cellule delle vie aeree. CHT1: high affinity choline transporter 1; OCT: organic cation transporter; VAChT: vescicular acetylcholine transporter. Modificata da Kummer W & Lips KS, 2006. 46 Medicina Toracica • 4/2009 Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree OCT1 e 2. L’inibizione del rilascio di Ach non-neuronale è un effetto non-genomico del cortisone recentemente identificato e specifico del sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree. Per quanto riguarda invece la distribuzione del “mediatoporo”, gli studi in corso non hanno consentito ancora una chiarificazione definitiva. Nel complesso il sistema di rilascio dell’Ach nelle vie aeree avviene: i) sul versante latero-basale nelle cellule neuroendocrine e - verosimilmente, anche se non completamente confermato - nelle cellule a spazzola, ii) sul versante apicale, ovvero nel lume bronchiale, mediato da vescicole secretorie nelle cellule secretorie e dal gradiente di concentrazione e/o dal potenziale di membrana nelle cellule ciliate (Figura 2). Meccanismi di degradazione dell’Ach nelle vie aeree Nel sistema nervoso la trasmissione colinergica termina a breve distanza spaziale e temporale rispetto al sito di liberazione, in quanto l’Ach viene scissa in acetato e colina dall’enzima altamente efficiente acetilcolinaesterasi (AChE). Esistono anche altre esterasi, meno specifiche nel clivaggio dell’Ach, la più importante delle quali è la butirrilcolinesterasi (BChE). La considerazione della rapidità dell’effetto dell’AChE consente alcune osservazioni. In primo luogo è importante sottolineare che la quantità dell’Ach generata nelle vie aeree è molto minore rispetto a quella prodotta a livello del sistema nervoso e che la liberazione intraluminale di Ach avviene prevalentemente per via trans-membrana piuttosto che per esocitosi. Per questo motivo molti dubbi sono stati posti sul reale effetto extracellulare dell’Ach rilasciata nel sistema respiratorio non-neuronale. È possibile che l’Ach possa avere anche effetti intracellulari mediati da recettori intracitoplasmatici. D’altro canto la capacità di degradazione dell’Ach è più bassa rispetto a quella del sistema nervoso, in quanto è mediata prevalentemente dall’en- Aggiornamenti di Fisiopatologia zima BChE: questo dato è coerente con un possibile effetto paracrino/autocrino dell’Ach sulle cellule epiteliali. A tale riguardo studi di immunoistochimica hanno consentito di dimostrare che l’attività dell’AChE è prevalente nelle fibre nervose che innervano la muscolatura liscia mentre la BChE è presente direttamente nelle cellule muscolari lisce. In conclusione, nonostante il meccanismo di degradazione dell’Ach a livello dell’epitelio delle vie aeree non sia stato ancora completamente chiarito, i dati preliminari consentono di ipotizzare che, a tale livello, l’Ach, rilasciata in quantità molto minori rispetto a quanto accade nel sistema nervoso colinergico, possa agire con meccanismo di riverberazione autocrino o paracrino sulle cellule stesse. Bersagli e funzioni del sistema colinergico non-neuronale Come descritto in precedenza gli effetti dell’Ach rilasciata a livello non-neuronale, si distinguono in base al sito del rilascio stesso, luminale o basale, con effetti specifici sulle differenti cellule bersaglio. Versante luminale L’Ach rilasciata sul versante luminale raggiunge un numero limitato di cellule, tra cui le cellule epiteliali stesse. Altre cellule bersaglio sono rappresentate dai macrofagi e da altre cellule del sistema immunitario. Sia le cellule epiteliali che i macrofagi presentano recettori muscarinici e nicotinici che possono interagire con l’Ach rilasciata: le cellule epiteliali esprimono recettori muscarinici M1 ed M3 e le subunità α e β del recettore nAChR. Agendo tramite questi recettori l’Ach regola la proliferazione delle cellule epiteliali, la secrezione mucosa, la secrezione dei cloruri, il rilascio di GM-CSF e di IL-8 e stimola la frequenza del battito ciliare. I macrofagi alveolari esprimono l’isoforma 3 del recettore muscarinico e varie subunità del recettore nicotinico, tra cui prevalgono le forme α9/α10. La stimolazione del Medicina Toracica • 4/2009 47 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n recettore M3, in vitro, induce nei macrofagi il rilascio di mediatori pro-infiammatori, mentre la stimolazione del recettore nAchR determina la soppressione dell’attivazione macrofagica e, più in generale, un effetto anti-infiammatorio. I macrofagi, proprio per la loro localizzazione, non sono raggiungibili dall’Ach del sistema nervoso colinergico e rappresentano un bersaglio specifico dell’Ach di derivazione non-neuronale, rilasciata sul versante luminale delle cellule epiteliali. Versante latero-basale Una chiara distinzione tra gli effetti mediati dall’Ach di origine neuronale e quella rilasciata dalle cellule epiteliali risulta molto difficile a tale livello. È stato dimostrato che cellule epiteliali della trachea, nel topo, rilasciano Ach dopo stimolazione con serotonina, inducendo, in tal modo, broncocostrizione; tale effetto è sensibile alla atropina (inibitore del recettore muscarinico). Mancano, ad oggi, evidenze di una azione diretta dell’Ach di origine non-neuronale sulle cellule muscolari lisce. È verosimile, peraltro, che l’Ach possa raggiungere le strutture vicine all’epitelio o essere riassorbita dalle cellule epiteliali stesse. Tra queste, i fibroblasti localizzati nello strato sottoepiteliale costituiscono un bersaglio selettivo e specifico. A ridosso della lamina basale si ritrovano inoltre cellule del sistema immune e terminazioni nervose. I neuroni sensitivi vagali esprimono diverse subunità del recettore nAchR e sono interconnessi alle cellule epiteliali tanto da rispondere alla nicotina inalata: la stimolazione di tali fibre induce il rilascio locale di neuropeptidi che, stimolando i meccanismi di difesa innata locale, causano irritazione e provocano il riflesso della tosse. Ruolo dell’Ach non-neuronale nella patogenesi delle malattie respiratorie La deregolazione dei recettori muscarinici è frequente in alcune delle patologie respi48 Medicina Toracica • 4/2009 ratorie più frequenti, quali BPCO ed asma e l’utilizzo di antagonisti di tali recettori ne rappresenta uno degli approcci terapeutici principali. Quale sia il contributo dell’Ach non-neuronale alla genesi di queste malattie, non è ancora stato chiarito del tutto. Molti dati, però, suggeriscono che il livello di Ach di derivazione epiteliale aumenti in corso di patologie infiammatorie delle vie aeree, contribuendo all’attivazione della risposta immune e alla broncocostrizione. Per contro il contenuto totale di Ach è ridotto nei pazienti affetti da fibrosi cistica e la produzione di Ach non-neuronale è selettivamente down-regolata nelle reazioni infiammatorie acute su base allergica. L’effetto proliferativo mediato dall’Ach sulle cellule epiteliali, la presenza su tali cellule del recettore nicotinico e l’associazione tra abitudine al fumo di tabacco e carcinogenesi polmonare, pongono l’accento sulla associazione tra Ach non-neuronale e sviluppo di carcinoma broncogeno. Il carcinoma a piccole cellule che verosimilmente deriva da cellule epiteliali neuroendocrine e le cellule epidermoidali maligne sintetizzano e rilasciano Ach che funziona con loop autocrino come fattore di crescita per il tumore stesso, agendo sia sui recettori M3 che sul nAchR. Recentemente, inoltre, è stato dimostrato che determinati polimorfismi nel locus genico 15q25.1, dove sono contenute le sequenze codificanti per il recettore nicotinico, sono associati ad una maggiore suscettibilità allo sviluppo di cancro al polmone. In sintesi il rilascio di Ach di origine nonneuronale è coinvolto nella modulazione dei processi di rimodellamento strutturale e nell’attivazione della risposta immune in corso di malattie respiratorie infiammatorie croniche; gli effetti pro-mitotici sull’epitelio sono inoltre direttamente associati al processo di oncogenesi polmonare. Il sistema colinergico non-neuronale emerge, pertanto, come nuovo bersaglio terapeutico potenzialmente utile nella cura di molte patologie delle vie respiratorie, sia a genesi infiammatoria che proliferativa. aggiornamenti di Fisiopatologia Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree RIASSUNTO A livello del sistema respiratorio l’acetilcolina (Ach) è nota agire come mediatore principale del sistema nervoso parasimpatico. Tuttavia è stato dimostrato che l’Ach è sintetizzata anche a livello di molte cellule che non appartengono al sistema nervoso: tra queste, cellule del sistema neuroendocrino e cellule di derivazione epiteliale come le cellule ciliate, basali e secretorie. Crescenti evidenze suggeriscono che esiste una specificità cellulare di espressione e rilascio di Ach, con conseguente effetto autocrino e/o paracrino. È qui discusso il meccanismo molecolare attraverso il quale l’Ach è coinvolta nella regolazione di vari aspetti della difesa immune innata della mucosa delle vie aeree e nella promozione della proliferazione cellulare epiteliale che è associata ad una maggiore suscettibilità allo sviluppo di cancro del polmone. Tale sistema di attivazione colinergica è regolato in modo differente rispetto ai meccanismi attivi nel sistema nervoso e identifica un nuovo potenziale bersaglio terapeutico. Parole chiave: sistema colinergico, compartimento non-neuronale, difesa immunitaria, suscettibilità al cancro, bersaglio terapeutico. BiBliogRafia Erickson JD, Varoqui H, Schafer MK, et al. Functional identification of a vescicular acetylcholine transporter and its expression from a cholinergic gene locus. J Biol Chem 1994; 269: 21929-21932. Gwilt CR, Donnelly LE, Rogers DF. The non-neuronal cholinergic system in the airways: an unappreciated regulatory role in pulmonary inflammation? 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Tra i fattori scatenanti l’infiammazione cronica correlata al successivo sviluppo di neoplasie si contemplano infezioni microbiche (e.g. infezione da Helicobacter pylori e sviluppo di cancro gastrico), malattie autoimmuni (e.g. malattie infiammatorie croniche intestinali e carcinogenesi del colon), patologie infiammatorie di origine sconosciuta (e.g prostatite e cancro della prostata). Già nel 1863 Rudolph Virchow documentava la presenza di leucociti nel tessuto perineoplastico e, per primo, ipotizzava che la reazione infiammatoria conseguente contribuisse a sostenere la progressione neoplastica (1). Questa ipotesi iniziale venne in seguito abbandonata a favore della cosiddetta “teoria della immunosorveglianza” che sostiene la funzione di inibizione della crescita neoplastica svolta dal sistema immunitario. Tale teoria trovava conferma nella evidenza sperimentale della capacità dei linfociti T attivati ex vivo di indurre, quando re-infusi in animali affetti da cancro, l’apoptosi delle cellule neoplastiche: in particolare veniva ipotizzato che l’importante funzione della risposta immune endogena fosse mediata dalla capacità dei linfociti di indurre la reazione di “rigetto” degli antigeni tumorali (2, 3). Studi successivi hanno tuttavia dimostrato che topi immunodeficienti (nude mice) non presentavano, come invece sarebbe stato atteso, una maggiore incidenza di sviluppo di tumore se esposti a carcinogeni chimici (4). Infine, in lavori più recenti è stato possibile confermare che topi transgenici Rag-deficient (privi dei linfociti T e B) e topi privi di INF-γ risultano esposti a maggior rischio di sviluppare neoplasie (5). Questi dati, relativamente controversi, hanno però sostanzialmente trascurato l’ipotesi iniziale di Virchow, quella cioè che vede i linfociti T giocare un ruolo attivo nella progressione e disseminazione neoplastica. Nel 2009, tuttavia, uno studio coordinato da David de Nardo ha riportato l’attenzione sull’associazione tra immunità e metastasi (6). Utilizzando topi transgenici portatori di carcinoma mammario, tali Autori hanno dimostrato che l’eliminazione dei linfociti T endogeni riduce significativamente l’incidenza di metastasi pol- ABSTRACT Metastases-promoting immunity Growing evidences suggest a tumor-promoting role for TH2-CD4+ lymphocytes that supports neoplastic spread, as opposed to the cytotoxic activities of TH1 subset. This pro-tumor microenvironment mainly engages stromal macrophages which, through a paracrine activation loop, are able to sustain neoangionesis and neoplastic invasion. Metastases-related immunity cells might thus identify a new promising target in anticancer therapy. Key words: immunity, macrophages, malignant spread, angiogenesis. 50 Medicina Toracica • 4/2009 Cancro, risposta immune e metastasi monari mentre non ha effetti sullo sviluppo della lesione primaria. Inoltre è stato possibile documentare che la frequenza e il numero delle metastasi appaiono correlati specificamente ai linfociti THCD4+: infatti, solo l’eliminazione selettiva di queste cellule induce riduzione delle lesioni metastatiche. I risultati di questo studio hanno consentito di concludere che le cellule TH possono svolgere, nella carcinogenesi, ruoli diversi, anche opposti; quello che può sembrare un paradosso è, invece, conseguente al tipo di segnale di attivazione linfocitaria e alle interazioni conseguenti con il microambiente peri-tumorale. Cellule infiammatorie e neoplasia Le cellule del sistema immunitario presenti nel microambiente peri-tumorale e frammiste alle cellule neoplastiche sono rappresentate prevalentemente da cellule dendritiche, macrofagi e linfociti. Le cellule dendritiche associate al cancro presentano generalmente un fenotipo immaturo, con ridotta capacità di stimolo sulle cellule linfocitarie. I macrofagi, noti anche come TAMs (Tumor Associated Macrophages), costituiscono il subset cellulare funzionalmente più importante dell’infiltrato infiammatorio che circonda il tumore. Essi derivano da precursori monocitari circolanti e raggiungono le aree neoplastiche richiamati da diverse citochine con effetto chemotattico - chemochine - rilasciate dalle cellule cancerose. La maggior parte dei tumori solidi è, infatti, in grado di produrre CSF-1 (Colony-Stimulating-Factor-1) che rappresenta il principale fattore in grado di prolungare la sopravvivenza dei TAMs. Le cellule NK sono relativamente rare nel microambiente peri-tumorale. La popolazione predominante risulta costituita da cellule T (“memory-phenotype cells”) che definiscono specificamente il TIL (Tumorinfiltrating T cells). Ad oggi sono noti tre subsets di cellule TH: i) TH1, caratterizzati dalla capacità di produrre INF-γ; ii) TH2, che producono le citochine IL-4 e IL-13; iii) TH17, recentemente identificati, caratteriz- Aggiornamenti di Fisiopatologia zati dalla capacità di produrre la citochina IL-17A e il cui ruolo nell’ambito dell’oncogenesi risulta ancora sconosciuto (7). L’attivazione della risposta immune indotta da queste cellule è controbilanciata da altri linfociti ad effetto inibitorio, denominati T regolatori (TREG)8. Le cellule TH1, tramite l’INF-γ, agiscono come inibitori della crescita tumorale attraverso l’attivazione delle cellule CD8+. DeNardo e coll. hanno, per contro, dimostrato che l’azione di promozione della progressione neoplastica è specificatamente mediata dai linfociti TH2CD4+ e che il trattamento con anticorpi anti IL-4 è in grado di indurre l’inibizione delle metastasi (Figura 1). In particolare è stato dimostrato che l’effetto favorente lo sviluppo delle metastasi indotto dai linfociti TH2CD4+ risulta mediato dal reclutamento dei macrofagi. L’attivazione di queste cellule da parte dei linfociti da luogo peraltro alla selezione di due cloni differenti: 1) M1: macrofagi attivati dall’INF-γ prodotto dai linfociti TH1 in grado di produrre ossido nitrico (NO) e citochine IL-12 che determinano l’amplificazione della risposta TH1; con i linfociti CD8+ i macrofagi M1 costituiscono i principali mediatori della immunità ad effetto antitumorale; 2) M2: macrofagi attivati dai linfociti TH2 e che David DeNardo ha dimostrato essere coinvolti nel processo di metastatizzazione dipendente da IL-4 e IL-13. Inoltre i macrofagi M2 producono molteplici citochine tra cui TGF-β - che a sua volta, sopprime la risposta immune antineoplastica TH1-mediata - e fattori di crescita come EGF che sostengono la progressione e la disseminazione neoplastica. La duplice, opposta funzione che i TAMs possono svolgere sulla progressione neoplastica è stata per la prima volta definita nel 1992 da Alberto Mantovani come “macrophage balance hypothesis” (9). I macrofagi attivati tramite la via alternativa, in risposta ai linfociti CD4+, promuovono il processo di metastatizzazione sotto diversi aspetti: oltre alla produzione di fattori di crescita, supportano l’angiogenesi e faciliMedicina Toracica • 4/2009 51 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n Figura 1 Meccanismi d’interazione tra sistema immune e progressione neoplastica. Modif. da (6). APC: cellule presentanti l’antigene; TIL: infiltrato infiammatorio peritumorale; CTL: linfociti T citotossici. tano così l’invasione delle cellule maligne nel torrente circolatorio. Tali azioni sono conseguenti alla capacità dei macrofagi M2 di esprimere fattori pro-angiogenetici tra cui VEGF e metalloproteasi della matrice come MMP-9 (10). In particolare si ipotizza che le proprietà pro-metastatiche dei TAMs siano correlate alla espressione di fattori di crescita come EGF, mentre gli effetti pro-angiogenetici sembrano essere regolati da fattori legati al microambiente, tra cui principalmente l’ipossia. Infatti la reciproca attivazione tra cellule epiteliali neoplastiche e TAMs è mantenuta dalla persistente rispettiva produzione di CSF1 ed EGF: tali fattori, che agiscono con loop paracrino, rappresentano, di fatto, gli elementi essenziali di attivazione del fenomeno di branching morphogenesis nelle cellule epiteliali trasformate che vengono ad assumere un fenotipo chiaramente aggressivo. DeNardo e coll. hanno dimo52 Medicina Toracica • 4/2009 strato sperimentalmente che l’attivazione dei macrofagi mediata da IL-4 (ovvero dai linfociti TH2CD4+) in combinazione con fattori derivati dalle cellule epiteliali maligne (e.g. CSF-1) inducono, nei macrofagi, l’espressione di elevati livelli di EGF; tale fattore di crescita, a sua volta, attiva nelle cellule neoplastiche i meccanismi molecolari che promuovono l’invasione metastatica. L’attivazione della neoangiogenesi appare invece correlata all’espressione del fattore inducibile dall’ipossia, l’HIF-1α, e delle inteleuchime IL-6 ed IL-8 che a loro volta promuovono la produzione di VEGF. Infiammazione ed angiogenesi L’angiogenesi costituisce un fenomeno rilevante, associato all’evoluzione sia del cancro che della infiammazione. I macro- Cancro, risposta immune e metastasi fagi rappresentano le cellule maggiormente coinvolte nell’induzione della angiogenesi e molti lavori scientifici documentano una associazione significativa tra infiltrato macrofagico, densità microvasale ed outcome clinico. Anche molte chemochine sono attive nel processo di angiogenesi: tra queste la più importante è l’interleuchina 8 (CXCL8, secondo la nomenclatura più recente). Recettori per questa chemochina (CXCR1 e 2) sono espressi sia dai TAMs che dalle cellule neoplastiche ed è stato ipotizzato che il fenomeno della disseminazione neoplastica possa effettivamente essere guidato dal gradiente di espressione di IL-8. Inoltre, il suo livello di espressione appare direttamente correlato a quello di VEGF, una delle principali molecole capaci di indurre la differenziazione degli angioblasti e il processo di vasculogenesi. È importante sottolineare però che i microvasi neoformati nel contesto di tessuti neoplastici presentano rilevanti alterazioni strutturali, tali da non consentire un adeguato apporto di ossigeno alle cellule neoplastiche in proliferazione. L’ipossia e l’acidosi conseguenti comportano quindi l’espressione di pathways genetici prometastatici e giustificano inoltre la chemio e radio resistenza da parte delle cellule maligne. Infiammazione e danno diretto al DNA Un ulteriore meccanismo attraverso il quale le cellule del sistema immunitario possono sostenere la carcinogenesi è dato dal danno diretto al DNA. Tale effetto appare principalmente mediato dal TNF (Tumor Necrosis Factor), citochina infiammatoria coinvolta sia nella induzione della proliferazione neoplastica che nel fenomeno di necrosi emorragica che molto sovente è associato alla progressione tumorale stessa. In particolare il meccanismo con cui TNF induce la trasformazione e la progressione neoplastica risulta mediato dallo sviluppo di specie reattive dell’ossigeno (ROS), tra cui l’ossido nitrico. È stato dimostrato che l’ossido nitrico può ossidare Aggiornamenti di Fisiopatologia direttamente il DNA o alterarne l’integrità di struttura attraverso l’inibizione del citocromo P450 o degli isoenzimi della glutatione S-trasferasi (11). In sintesi è possibile affermare che l’interazione tra sistema immune e cancro si attua su due livelli: - quello estrinseco, che comprende tutti i fattori di infiammazione cronica che predispongono alla carcinogenesi; - quello intrinseco, mediato dalle alterazioni genetiche che causano cancro e infiammazione peri-tumorale (e.g. attivazione oncogenica conseguente a mutazioni e/o amplificazioni). Nel primo caso le cellule trasformate secernono mediatori pro- infiammatori che richiamano cellule del sistema immune nel microambiente peri-tumorale, in assenza di condizioni infiammatorie croniche. Al contrario l’attivazione immunitaria per via estrinseca si associa ad aumentato rischio di cancro in determinate sedi anatomiche, come ad esempio colon e prostata. Mantovani et al. (12)hanno dimostrato che questi due pathways convergono nelle cellule tumorali nell’attivare fattori di trascrizione nucleari, tra cui principalmente NF-κB, attivatori della trascrizione (STAT3) e il fattore HIF-1α, che coordinano la produzione di mediatori pro-infiammatori come citochine, chemochine e COX-2 (cui consegue l’attivazione di molte prostaglandine) che, in ultimo, richiamano linfociti e macrofagi. L’attivazione da parte delle citochine infiammatorie degli stessi fattori di trascrizione sia a livello delle cellule tumorali che nell’infiltrato infiammatorio peri-tumorale, determina l’amplificazione della risposta immune associata al cancro e la progressiva selezione della componente immunitaria TH2 (Figura 2). Tutti i linfociti T per essere attivati devono riconoscere gli antigeni tramite i loro recettori (TCR) eterodimerici α/β. Nel caso della infiammazione indotta dalle infezioni croniche gli antigeni attivanti i linfociti T sono costituti dalle proteine degli agenti infettivi; nel caso della risposta pro-metastatica TH2 è verosimile che l’attivazione di queste cellule sia conseguente al riconoscimento di antigeni self miMedicina Toracica • 4/2009 53 Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n Figura 2 Convergenza delle vie di attivazione infiammatoria estrinseca ed intrinseca nella attivazione della proliferazione neoplastica. nimamente espressi nelle cellule normali ma fortemente sovraespressi nel tessuto neoplastico. L’attivazione di questi processi sta alla base della condizione paradossale che caratterizza l’infiammazione associata al cancro: da una parte i tumori producono chemochine e si circondano, di conseguenza, di infiltrati linfo-monocitari; dall’altra le neoplasie si associano ad una ridotta capacità di montare la risposta immunitaria sistemica anche dimostrata dalla difettosa risposta esercitata dai monociti circolanti dei pazienti affetti da cancro verso gli stimoli chemotattici (13). Contribuiscono alla condizione di inibizione della infiammazione sistemica che si associa al cancro anche alcuni mediatori prodotti a livello dello stroma peri-tumorale: tra questi TNF e IL-1; del resto anche le stesse cellule tumorali sono in grado di secernere citochine anti-infiammatorie. 54 Medicina Toracica • 4/2009 Infiammazione, cancro e riflessi di terapia Da quanto sopra descritto si evince che i mediatori della risposta infiammatoria associata alla progressione neoplastica costituiscono un complesso network biomolecolare (Tabella 1) e che molti dei sintomi dovuti alla infiammazione, nei pazienti affetti da cancro, non sono diversi da quelli dei pazienti portatori di malattie infiammatorie croniche. D’altro canto proprio la dimostrazione del ruolo promuovente la progressione neoplastica svolto da un determinato subset di cellule del sistema immune, consente di identificare in tali compartimenti cellulari un potenziale bersaglio della terapia anticancro. In particolare alcuni trials clinici sono stati condotti con inibitori del TNF, tra cui Etanercept ed Inliximab, con risultati preliminari incoraggianti. La talidomide è Cancro, risposta immune e metastasi Aggiornamenti di Fisiopatologia Tabella 1 Principali effetti promuoventi la progressione neoplastica mediati da circuiti biomelcolari associati alla attivazione della risposta infiammatoria locale e sistemica. Effetto Danno diretto al DNA Inibizione riparazione DNA Inattivazione oncosoppressori/Attivazione oncogeni Secrezione paracrina fattori di crescita Neoangiogenesi ed Induzione aumento permeabilità vascolare Rimodellamento tessutale Invasione metastatica Inversione paraossa risposta immune dell’ospite Chemio e radioresistenza stata impiegata per le sue proprietà di inibire la trasduzione del TNF-mRNA e per gli effetti anti-angiogenetici ed è utilizzata con discreto successo nel trattamento delle neoplasie ematologiche, come il mieloma multiplo (14). Sono in studio inibitori specifici della interleuchine IL-6 ed IL-8. Una considerazione particolare meritano i farmaci antiinfiammatori non steroidei. È già stato evidenziato che i pazienti in trattamento cronico con questi farmaci sono a minor rischio di sviluppo di cancro colorettale. L’enzima ciclossigenasi-2 (COX-2) è il bersaglio di questi farmaci ed è sovraespresso sia nelle malattie infiammatorie croniche che nel cancro. Studi con inibitori specifici della COX-2 hanno dimostrato risultati significativi (15)�. I più recenti dati sul ruolo dei linfociti TH2CD4+ e dei TAMsM2 identificano in queste cellule specifici bersagli terapeutici: dal momento che programmi distinti sono responsabili della selettiva attivazione - o della inibizione - della progressione neoplastica, si può ipotizzare che proprio tali programmi possano essere re-indirizzati in modo da far prevalere l’effetto immunitario inibitorio (TH1-M1). Gli esatti meccanismi con cui la risposta immune pro-tumorale può essere di fatto bloccata farmacologicamente non sono ad oggi completamente delucidati e molti studi in questa direzione sono ancora in corso. Peraltro nel circolo vizioso tra infiammazione locale e sistemica nei pazienti af- Mediatori e meccanismi biomolecolari ROS, no ROS, no KRAS, NF-kB, STAT3, HIF-1a, TNF TGF, EGF, HGF VEGF, IL-6, IL-8, MMPs EGF, MMPs MMPs, EGF, HGF Polarizzazione TH2CD4+/TAMs-M2 Ipossia/acidosi fetti da cancro molti problemi sono ancora aperti. In primo luogo non è noto quale sia il livello soglia di infiammazione capace di indurre la progressione neoplastica. Un’ulteriore difficoltà è data dalla estrema diversità e plasticità delle cellule del sistema immune associate al cancro. Inoltre non è stato ancora chiarito come sia possibile attivare selettivamente l’immunità antitumorale in modo da riequilibrare la bilancia tra i due tipi di infiammazione correlata al cancro. Infine un’altra questione urgente, ed ancora non definita, riguarda il ruolo della immunità nella progressione neoplastica e come si possano tradurre le attuali conoscenze non solo nella terapia, ma anche nella diagnosi e prognosi del cancro (16)�. In particolare mancano del tutto dati relativi alla validazione del valore predittivo di biomarcatori tumorali noti in relazione alla loro espressione rispetto alla condizione infiammatoria e per converso il ruolo che l’infiammazione sistemica gioca nella identificazione di nuovi marcatori tumorali. Conclusioni In definitiva le conoscenze di cui al momento si dispone suggeriscono che i normali programmi immunologici antitumorali acquisiti possono trovare nel microambiente peri-tumorale una attuazione aberrante ed Medicina Toracica • 4/2009 55 AggiornAmenti di FisiopAtologiA n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n essere indirizzati in senso pro-metastatico attraverso l’attivazione di componenti cellulari della risposta immune innata funzionalmente coinvolti nella regolazione del fenotipo delle cellule epiteliali. Il complesso sistema di reciproca amplificazione tra cancro e risposta immunitaria associata contribuisce a sostenere la definizione che già nel 1986 Harold Dvorak aveva dato del cancro, quella cioè di una ferita che non può cicatrizzare (“Tumors: wounds that do not heal”) (17) . RIASSUNTO Recenti evidenze sperimentali suggeriscono che i linfociti TH2-CD4+ svolgono un ruolo di promozione del processo di metastatizzazione a distanza, in contrasto con l’attività di inibizione tumorale mediata dai linfociti TH1/CD8+. L’effetto favorente la disseminazione neoplastica è conseguente, prevalentemente, al reclutamento dei macrofagi presenti nello stroma peri-tumorale: tali cellule, attivate persistentemente attraverso un meccanismo di riverberazione paracrina, sostengono il processo di neoangiogenesi e di invasione metastatica. Questo tipo di immunità che è attiva nel corso della progressione neoplastica rappresenta, pertanto, un nuovo potenziale bersaglio nella terapia mirata antitumorale. Parole chiave: immunità, macrofagi, disseminazione neoplastica, angiogenesi. BiBliografia 1. Balkwill F, Mantovani A. Inflammation and cancer: back to Virchow? The Lancet 2001; 357, 9255: 539-545. 2. Thomas L. Cellular and humoral aspects of the hypersensitive states. 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EZIOPATOGENESI Ad oggi il meccanismo che sottende la mediastinite fibrosante rimane in molti casi sconosciuto, anche se cause infettive e non sono state proposte come possibile fattore patogenetico. Generalmente la manifestazione patologica può concretizzarsi o come coinvolgimento più o meno diffuso dei tessuti molli da parte di cellule infiammatorie e tessuto fibroso, o come massa infiammatoria granulomatosa relativamente localizzata (“pseudotumore”) a carico di uno o più linfonodi. Negli Stati Uniti si è riscontrata una correlazione fra tale condizione e l’infezione da Histoplasma capsulatum (1, 5). La positività dell’antigene specifico ai test cutanei e/o l’identificazione del parassita nei campioni istologici stanno a sostegno di quanto affermato. Non è ancora chiaro se l’infezione sia l’evento scatenante oppure se la fibrosi sia conseguenza di una anomala reazione immunologica nei confronti dell’antigene dell’Histoplasma. Nelle regioni geografiche in cui l’istoplasmosi non è endemica, il più importante agente infettivo è il Mycobacterium tuberculosis; altre cause possono ritrovarsi nelle aspergillosi, nelle blastomicosi, nelle criptococcosi e nelle mucormicosi (6-10). Le forme infettive sono spesso di tipo localizzato; decorrono in modo quasi del tutto asintomatico, risparmiando vie aeree, arterie e vene polmonari. L’instaurarsi progressivo della fibrosi mediastinica non è chiara in pazienti che pre- Francesca Mariani Zamir Kadija Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Pavia ABSTRACT Fibrosing mediastinitis Fibrosing mediastinitis is a rare disorder caused by proliferation of acellular collagen and fibrous tissue within the mediastinum. Although many cases are idiopathic, many (and perhaps most) cases in the United States are thought to be caused by an abnormal immunologic response to Histoplasma capsulatum infection. In the remaining cases the disease is consequent to systemic disorders such as neoplasms, autoimmune syndromes, multifocal fibrosclerosis. In all cases mediastinal involvemente may be focal and diffuse. Here we discuss the clinical course, pathological findings and imaging presentation of such a disease which still remains orphan in term of specific therapies. Key words: fibrosis, pseudotumor, orphan disease. Medicina Toracica • 4/2009 57 caso clinico n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n sentano infezione; è stato ipotizzato che il granuloma mediastinico possa rappresentare l’evento precursore della mediastinite fibrosante diffusa, processo conseguente alla rottura del granuloma con fuoriuscita di materiale necrotico dai linfonodi coinvolti, seguita o dall’infezione del mediastino o da una reazione di ipersensibilità. In molti casi, tuttavia, non è possibile documentare quadri istologici suggestivi per una eziologia infettiva pur essendo plausibile che essi rappresentino la fase finale di un’infezione cronica in cui non è più identificabile il microrganismo patogeno. Nella maggior parte dei casi tuttavia l’origine appare indubbiamente non infettiva; possono infatti associarsi condizioni di positività autoimmunitarie (e.g la malattia di Behçet o la febbre reumatica), granulomatosi non caseose (sarcoidosi), terapia radiante, traumi, linfoma di Hodgkin, assunzione di metisergide (farmaco antiserotoninergico usato nella prevenzione e nella terapia dell’emicrania) (11-13). È inoltre possibile l’interessamento a livello mediastinico in corso di fibrosclerosi multifocale. Tale patologia, assai rara, è anche conosciuta come “malattia correlata alle immuno-globuline G4” e si configura come un disordine proliferativo ad interessamento multiorgano con esito in fibrosi del tessuto interessato (fibrosi mediastinica, retroperitoneale, pseudotumore orbitale, tiroidite di Riedel e colangite sclerosante) (15). CARATTERISTICHE ANATOMO-PATOLOGICHE Il quadro istologico varia a seconda della causa scatenante. In alcuni casi, in particolare in quelli in cui è identificato un microrganismo infettivo, è presente un’infiammazione granulomatosa necro tizzante; in altri, la componente granulomatosa è minima o assente e il tessuto patologico è principalmente rappresentato da tessuto fibroso maturo contenente un infiltrato di cellule infiammatorie mononucleate. La fibrosi può rimanere localizzata o diffondersi nella metà superiore del mediastino, prevalentemente davanti 58 Medicina Toracica • 4/2009 alla trachea e intorno agli ili; in rari casi può risalire verso le vene brachicefaliche o interessare il mediastino posteriore ed il polmone. Flieder et al. (14), partendo da uno studio condotto su 30 casi di fibrosi mediastinica idiopatica, hanno definito uno score istologico che consente di identificare tre stadi; tuttavia tale classificazione non risulta correlabile significativamente con il dato clinico. Nello stadio I le lesioni sono costituite in modo prevalente da tessuto fibromixoide edematoso; nello stadio II le lesioni contengono invece materiale ialino eosinofilico che circonda ed infiltra le strutture mediastiniche; nello stadio III di malattia un collagene denso e paucicellulare è causa di lesioni obliteranti. Oltre alla identificazione di agenti infettivi, nella diagnosi della fibrosi mediastinica rientrano neoplasie quali il linfoma di Hodgkin a variante sclero-nodulare e linfomi non-Hodgkin, tumori a prevalente componente fibrosa localizzati alla pleura, metastasi di carcinoma con pattern di proliferazione a prevalente componente fibrogenico-infiammatoria, timomi e carcinomi timici. In diagnosi differenziale possono anche rientrare la semplice fibrosi, la fibromatosi e sarcomi a basso grado. In particolare la diagnosi di interessamento mediastinico secondario a fibrosclerosi multifocale è definita dalla presenza di cellule giganti multinucleate Touton-like e cellule fusate positive a vimentina e actina. Poiché tutte queste lesioni possono mostrare aree fibrotiche, campioni bioptici ottenuti per via percutanea possono risultare insufficienti, rendendo quindi necessario il procedere con biopsie chirurgiche tramite mediastino o toracoscopia (14). MANIFESTAZIONI CLINICHE La fibrosi mediastinica interessa prevalentemente i giovani, con un’età media alla diagnosi di 37.5 anni; non sembra esistere predilezione di sesso. Segni e sintomi sono alquanto variabili e dipendono dall’esten- caso clinico Mediastinite fibrosante sione della fibrosi e dalle strutture mediastiniche coinvolte: compressione e/o occlusione di strutture mediastiniche vitali quali vasi venosi sistemici, vie aeree, vene ed arterie polmonari ed esofago. Meno frequentemente risultano coinvolti: cuore, pericardio, coronarie, aorta e vasi da essa originanti (1, 8, 14). Tosse, dispnea, infezioni polmonari recidivanti, emottisi e dolore toracico sono spesso i più comuni quadri di primo riscontro; più rari febbre e perdita di peso. In alcune forme diffuse, e raramente nelle forme limitate, la fibrosi mediastinica può associarsi alla sindrome della vena cava superiore (VCS), comprende vertigini, tinnito auricolare, cefalea, epistassi, cianosi, gonfiore del volto, del collo e delle braccia. La gravità di questi sintomi può diminuire nel tempo con lo sviluppo di circoli venosi collaterali. L’ostruzione delle vie aeree centrali è abbastanza comune nella forma diffusa e tipicamente si manifesta con tosse, dispnea, polmoniti ricorrenti/persistenti o atelettasie distali. Mentre le occlusioni acute delle vene polmonari possono associarsi ad emottisi o dispnea, sia ingravescente che da sforzo, quelle croniche sostengono lo svilupparsi di ipertensione arteriosa pol- monare, edema e cuore polmonare (una delle più importanti cause di morbidità e mortalità nei pazienti con mediastinite fibrosante) ed infarti polmonari. Solo raramente l’ipertensione polmonare risulta secondaria alla stenosi o all’occlusione delle arterie polmonari. Possibili inoltre il chilotorace secondario all’ostruzione del dotto toracico e la disfonia per interessamento del nervo laringeo ricorrente. MANIFESTAZIONI RADIOLOGICHE Benchè la radiologia standard del torace mostri nella maggior parte dei casi un profilo mediastinico normale, la revisione di un discreto numero di esami radiologici ha permesso di mettere in evidenza la presenza di due pattern mediastinici prevalenti: massa focale/localizzata (82%) o ispessimento diffuso (18%) (16). Diversamente dalla radiografia lo studio TC permette un’accurata valutazione dell’estensione dell’infiltrato del tessuto molle mediastinico e della compressione e/o occlusione di strutture mediastiniche vitali, quali vasi venosi sistemici, vie aeree, vene ed arterie polmonari ed esofago. Le Figure 1 e 2 Ectasie dei vasi mediastinici sia venosi che arteriosi, soprattutto nel mediastino anteriore. Il calibro dei vasi segmentali prossimali delle arterie per i lobi superiori e per il lobo medio sono simmetricamente ed uniformemente ridotti di calibro come per compressione estrinseca a manicotto. Uguale reperto per le vene polmonari superiori bilateralmente. La vena cava superiore appare decisamente ridotta di calibro fino a pochi millimetri ed è avvolta da parete uniformemente ispessita. Analogo reperto per l’aorta ascendente, non però ridotta di calibro. Medicina Toracica • 4/2009 59 caso clinico n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n lesioni focali coinvolgono più frequentemente la regione paratracheale destra, sottocarenale e mediastinica posteriore. Meno frequentemente si osservano masse ilari, mentre possono essere evidenti zone calcifiche (63%), come esito di istoplasmosi o tubercolosi. In un minor numero di pazienti, la presenza di anomalie parenchimali, o di linfoadenopatia broncopolmonare, suggerisce un’origine polmonare della malattia mediastinica. La forma diffusa causa invece un coinvolgimento massivo del mediastino, più comune nella parte superiore; le linee mediastiniche possono apparire lisce o lobulate; più raro è il riscontro di aree calcifiche. In alcuni casi è osservabile un interessamento extramediastinico caratterizzato da restringimento della trachea, dei bronchi principali e dell’esofago, più o meno associato ad ostruzione delle arterie e delle vene sia sistemiche che polmonari. Il coinvolgimento della VCS, per esempio, può esitare nella prominenza del cappuccio aortico e nell’allargamento del mediastino superiore, come risultato dell’ingorgo delle vene collaterali (Figure 1 e 2). L’ostruzione o il restringimento di un’arteria polmonare può provocare aree localizzate di oligoemia, perdita di volume o trombosi, mentre quello delle vene polmonari può esitare in localizzate aree edematose con ispessimento dei setti interlobulari e ground glass. Infarti polmonari possono seguire l’instaurarsi di ostruzioni sia delle vene che delle arterie, presentandosi come aree triangolari in assenza di broncogramma aereo. Il coinvolgimento delle vie aeree centrali può sottendere la comparsa di atelettasie o di polmoniti ostruttive ricorrenti (17-21). PROGNOSI E TRATTAMENTO La fibrosi mediastinica è caratterizzata da un andamento alquanto variabile, potendo oscillare fra la remissione spontanea e la rapida evoluzione. Tra le cause di morte sono frequentemente riportate: infezioni ricorrenti, emottisi e cuore polmonare. Il tasso di mortalità è significativamente più elevato nelle forme ad interessamento sottocarenale o mediastinico bilaterale, rispetto a quelle mediastiniche localizzate o ilari. Le strategie terapeutiche ruotano intorno a tre differenti approcci: l’associazione di antifungini e steroidi sistemici, la chirurgia, i trattamenti locali sintomatici. Negli Stati Uniti, vista la correlazione con l’Histoplasma capsulatum, diversi pazienti sono stati trattati con antifungini sistemici (e.g. ketoconazolo), con stabilizzazione o almeno miglioramento dei sintomi (22). Modesti o per nulla significativi sono invece i risultati relativi alla somministrazione di steroidi sistemici (23). Se la fibrosi è localizzata, l’asportazione chirurgica del tessuto patologico può essere l’unica possibilità curativa, approccio invece precluso alle forme diffuse. Per quanto concerne l’approccio sintomatologico è possibile ricorrere alla dilatazione di vie aeree, arterie polmonari o vena cava tramite laser-terapia, posizionamento di stent intravascolari o endobronchiali, dilatazione mediante palloncino (21). RIASSUNTO La mediastinite fibrosante è una condizione patologica rara, che esita in proliferazione afinalistica di tessuto fibroso e collagene acellulato a carico del mediastino. Tale patologia può essere conseguente ad eziologia infettiva (negli USA sono stati descritti casi conseguenti ad infezione da Histoplasma capsulatum) oppure può rappresentare una manifestazione secondaria di patologie sistemiche tra cui neoplasie (linfomi), malattie autoimmuni, fibrosclerosi multifocale. In tutti i casi il coinvolgimento del mediastino può essere focale o diffuso (1-4) . È qui descritta la presentazione clinica, le evidenze anatomopatologiche e radiologiche di questa patologia che , ad oggi, rimane orfana in termini terapeutici specifici. Parole chiave: fibrosi, pseudotumore, malattia orfana. 60 MedicinaToracica•4/2009 Mediastinite fibrosante Bibliografia 1. Loyd JE, Tillman BF, Atkinson JB, Des Prez RM. Mediastinal fibrosis complicating histoplasmosis. Medicine (Baltimore) 1988; 67: 295310. 2. Garrett HE Jr, Roper CL. Surgical intervention in histoplasmosis. Ann Thorac Surg 1986; 42: 711-722. 3. Mathisen DJ, Grillo HC. Clinical manifestation of mediastinal fibrosis and histoplasmosis. Ann Thorac Surg 1992; 54: 1053-1057; discussion 1057-1058. 4. Wieder S, White TJ, Salazar J, Gold RE, Moinuddin M, Tonkin I. Pulmonary artery occlusion due to histoplasmosis. AJR Am J Roentgenol 1982; 138: 243-251. 5. Peebles RS, Carpenter CT, Dupont WD, Loyd JE. Mediastinal fibrosis is associated with human leukocyte antigen-A2. Chest 2000; 117: 482-485. 6. Lee JY, Kim Y, Lee KS, Chung MP. Tuberculous fibrosing mediastinitis: radiologie findings (letter). AJR Am J Roentgenol 1996; 167: 15981599. 7. 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Medicina Toracica • 4/2009 61 Norme per gli Autori Medicina Toracica è la Rivista ufficiale della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMeR) che pubblica, in lingua italiana o inglese, editoriali, rassegne, aggiornamenti, articoli di approfondimento, lavori scientifici originali, tesi di specializzazione e casi clinici inerenti la ricerca clinica e di laboratorio e le osservazioni cliniche pertinenti alla fisiologia e patologia dell’apparato respiratorio. La pubblicazione degli articoli è subordinata alle revisione del Board editoriale. Invio dei manoscritti: i manoscritti devono essere inviati in formato elettronico alla segreteria di redazione: [email protected] NORME PER LA PREPARAZIONE DEI MANOSCRITTI Presentazione Il manoscritto deve essere accompagnato da una lettera di presentazione. Nella prima pagina di ciascun lavoro dovranno essere indicati titolo (in italiano e in inglese), nome e cognome degli autori, denominazione del rispettivo Centro di appartenenza, nome, cognome, indirizzo, recapito telefonico ed e-mail dell’autore cui sono destinate la corrispondenza e le bozze e l’indicazione di eventuali finanziamenti o conflitto di interessi. Dovranno essere indicati il titolo breve e un massimo di 6 parole chiave (in italiano e in inglese). Nella lettera di accompagnamento dovrà inoltre essere specificato che i contributi sono inediti, non sottoposti ad altra rivista contemporaneamente, e che il loro contenuto è conforme alla legislazione vigente in materia etica della ricerca. In caso di sperimentazione su esseri umani, gli Autori devono attestare che tali sperimentazioni sono state svolte secondo i principi della Dichiarazione di Helsinki (1983). Gli Autori sono gli unici responsabili delle affermazioni contenute nell’articolo e sono tenuti a dichiarare di avere ottenuto il consenso informato per la sperimentazione e per l’eventuale riproduzione di immagini. Per studi condotti su animali, gli Autori devono dichiarare che sono state rispettate le relative leggi nazionali e le linee guida istituzionali. Testo Il testo dell’articolo deve essere editato utilizzando il programma Microsoft Word per Windows. Paragrafi e sottoparagrafi dovranno essere utilizzati per facilitare la lettura. La Rivista ha scopo educazionale. Distinguere tra informazioni rilevanti (basate su trials clinici controllati) e informazioni di altro tipo (basate su dati indicativi ma non conclusivi). Nel caso di lavori scientifici originali dovrà essere incluso nel manoscritto un breve riassunto (in italiano e in inglese) di lunghezza non superiore alle 300 parole con lo scopo di riassumere i punti principali. Il contenuto comprensivo di tabelle, figure e bibliografia essenziale dovrà essere di circa 15 cartelle per i dossier e di circa 8 cartelle per i lavori scientifici originali e gli articoli di approfondimento dedicati a polmone e malattie sistemiche, aggiornamenti farmacologici, indagini diagnostiche, riscontri epidemiologici, oncologia polmonare. Nel caso di tesi di specializzazione, il condensato di una tesi discussa presso le Scuole di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio dovrà avere una lunghezza massima di circa 10 cartelle comprensive di tabelle, figure e bibliografia essenziale. Tabelle e figure Allegare il materiale al manoscritto. Ogni tabella e figura deve essere richiamata nel testo. Il materiale desunto da altre fonti deve essere corredato dalla relativa citazione bibliografica da (Rif. biblio. n.), con permesso). Vedi “Copyright”. 62 Medicina Toracica • 4/2009 Tabelle Le tabelle devono essere dattiloscritte su pagine separate, numerate e corredate di didascalia in italiano o in inglese e inserite alla fine del manoscritto. I richiami alle note in legenda saranno indicati con simboli in apice. Tabelle di grandi dimensioni sono di difficile lettura e stampa e quindi da evitare. Figure Nel caso in cui una figura possa sostituire o ridurre una parte di testo, viene data preferenza alla figura. Le figure dovranno essere numerate e corredate di didascalia in italiano e inglese e non devono essere inserite nel testo. Le Figure devono essere fornite come file a parte in formato .jpeg, .tif o .btmp e saranno ridisegnate secondo lo stile grafico della Rivista. Tutte le immagini fotografiche dovranno essere fornite con risoluzione minima 300 dpi, in formato .jpeg, .tif o .eps. La didascalia della figura dovrà essere chiara, breve e non ripetitiva di quanto indicato nel testo. Preferire il termine completo all’abbreviazione. Bibliografia L’autore è libero di scegliere il numero di voci bibliografiche. Dare preferenza ad articoli originali piuttosto che ad altri articoli tratti dalla Rivista. Le voci bibliografiche dovranno essere numerate consecutivamente nell’ordine in cui sono state citate, compreso citazioni in tabelle e figure. Devono essere riportati 4 autori al massimo o i primi 3 autori seguiti da “et al.” nel caso il numero degli autori fosse maggiore di 4. Comunicazioni personali e materiale non pubblicato potranno essere citati unicamente nel testo, con l’indicazione del nome degli autori e l’anno di stesura (secondo lo stile di Vancouver). Esempi di citazione bibliografica: 1. Palange P, Crimi E, Pellegrino R, Brusasco V. Supplemental oxygen and heliox: ‘new’ tools for exercise training in chronic obstructive pulmonary disease. Curr Opin Pulm Med. 2005; 11: 145-148. 2. Corsico AG, D’Armini AM, Cerveri I, et al. 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Copyright Il materiale (figure, tabelle, citazioni estese) desunto da altre fonti dovrà sempre essere accompagnato dal permesso scritto del detentore del copyright (solitamente l’Editore) e la fonte originale sempre citata. Agli Autori è riservata la correzione ed il rinvio (entro e non oltre 4 giorni dal ricevimento) delle sole prime bozze del lavoro. Le eventuali modifiche e correzioni devono essere ridotte al minimo e apportate esclusivamente sulle bozze di stampa. AIPO ASSOCIAZIONE I T A L I A N A PNEUMOLOGI O S P E DA L I E R I Comportamenti condivisi in Medicina Respiratoria Roma 28 - 31 maggio 2010 Rome Marriott Park Hotel WWW.CONSENSUSCONFERENCE2010.IT Segreteria Scientifica AIMAR Via Monsignor Cavigioli, 10 28021 Borgomanero (NO) Tel. (+39) 0322 846549 Fax (+39) 0322 843222 E-mail: [email protected] Segreteria Organizzativa srl Marina Garavini Via San Gregorio, 12 20124 Milano Tel. (+39) 02 89693764 Fax (+39) 02 201176 E-mail: [email protected] [email protected] Edizioni Internazionali Srl EDIMES La divisione pubblica 16 riviste (7 ufficiali di Società Scientifiche) e tiene in catalogo circa 100 titoli di volumi riguardanti la Medicina e la Comunicazione Medico Scientifica. Alcuni titoli di volumi pubblicati: Alcune riviste: • NEW MICROBIOLOGICA (et Infettivologica) • SENOLOGIA Rivista con Impact Factor (Rivista Ufficiale S.I.V.I.M. Società Italiana Virologia Medica) · A. Lazzarin editor a cura di U. Veronesi e G. Coopmans • REUMATISMO • LO SCOMPENSO CARDIACO • INFETTIVOLOGIA PEDIATRICA • PSA - ANTIGENE PROSTATICO cura di P.L. Malini, E. Perugini, C. Rapezzi, B. Magnani (Rivista Ufficiale S.I.R. - Società Italiana Reumatologia) L. Punzi editor (Rivista Ufficiale Società Italiana Infettivologia Pediatrica) N. Principi editor SPECIFICO a cura di P. Rigatti, V. Scattoni • PERIMED - Medicina Perioperatoria • PROLEGOMENI - STUDIO (Rivista Uff. ESRAT-CIAO-SARNePI-FOAP) G. Fanelli editor DELLA FISICA DEL FEGATO • HSR PROCEEDINGS IN INTENSIVE CARE & CARDIOVASCULAR ANESTHESIA a cura di N. Dioguardi (Rivista Ufficiale della Scuola di Anestesiologia e Intensive Care) A. Zangrillo, R. Hetzer editors HEPATITIS WORLD · A. Craxì editor • • EMATOLOGIA ONCOLOGICA G. Lambertenghi Deliliers editor • LE INFEZIONI IN MEDICINA · S. Esposito editor • LE ARITMIE CARDIACHE a cura di L. dei Cas • LA TERAPIA DELL’INSUFFICIENZA CARDIACA a cura di M. Volpe VISCONTEA TIPOGRAFIA EDITORIALE La divisione EDINT pubblica in preferenza libri per ragazzi pubblica prevalentemente libri di “storia regionale e locale” Alcuni titoli: Alcuni titoli: • ORBITAL HOTEL • “FIGURE E FIGURI” • DOTTORE! DOTTORE! • PAVIA CISALPINA E NAPOLEONICA Volume scritto da Claudio Apone, presentato da Max Pezzali e “disegnato” da Marco Lodola Ambientato e “vissuto” nello spazio Volume scritto da Paolo Zanocco (medico). Racconta con sonetti e dialoghi ironici la professione di un Medico Pediatra di provincia DEL RISORGIMENTO IN LOMBARDIA a cura di I. Montanelli e Coll. Si racconta di vita, fatti e misfatti di personaggi del risorgimento Lombardo a cura di G.E. de Paoli Descrive con precisione il periodo napoleonico a Pavia 27100 PAVIA · VIA RIVIERA 39 · TEL. 0382526253 R.A. · FAX 0382423120 · E-MAIL: [email protected]