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4_2009-1
Toracica
Medicina
anno XXIX · 4 · dicembre 2009
Aggiornamenti di fisiopatologia
Caso clinico
Il sistema colinergico Cancro, risposta
non-neuronale delle immune e metastasi
vie aeree
Mediastinite
fibrosante
Rassegna di fisiopatologia, clinica
e riabilitazione cardiorespiratoria
Dossier
Ipertensione polmonare
e malattie respiratorie
Organo ufficiale della Società Italiana
di Medicina Respiratoria
Medicina
Toracica
anno XXIX · 4 · dicembre 2009
Organo ufficiale della Società Italiana
di Medicina Respiratoria (SIMeR)
Consiglio Direttivo SIMeR
Presidente
S. Centanni (Milano)
Presidente Eletto
G.U. Di Maria (Catania)
Past President
V. Brusasco (Genova)
Presidenti Onorari
L. Allegra (Milano)
G.W. Canonica (Genova)
C. Grassi (Milano)
E. Pozzi (Pavia)
Vice Presidente
G. Viegi (Pisa)
Segretario Generale
L. Richeldi (Modena)
Tesoriere
C. Mereu (Pietra Ligure GE)
Consiglieri
L. Carratù (Napoli)
N. Crimi (Catania)
E.E. Guffanti (Casatenovo LC)
R. Pellegrino (Cuneo)
Il Consiglio Direttivo della Società Italiana di Medicina Respiratoria ringrazia
i Sostenitori S.I.Me.R. che hanno aderito al Progetto di sviluppo culturale
della Società:
A. Menarini e GlaxoSmithKline
AstraZeneca • Boehringer Ingelheim • Chiesi
Merck Sharp & Dohme • Nycomed
Presidenti dei Gruppi di Studio
Allergologia ed Immunologia
G. Liccardi (Napoli)
Biologia Cellulare
P. Rottoli (Siena)
Pneumologia Interventistica
e Chirurgia Toracica
L. Corbetta (Firenze)
Clinica
A. Palla (Pisa)
Epidemiologia
R. Pistelli (Roma)
Fisiopatologia Respiratoria
G.U. Di Maria (Catania)
Infezioni e Tubercolosi
L. Richeldi (Modena)
Medicina Respiratoria del Sonno
O. Resta (Bari)
Miglioramento Continuo
della Qualità in Pneumologia
S. Tognella (Bussolengo VR)
Patologia Respiratoria in età avanzata
N. Scichilone (Palermo)
Oncologia
M. Caputi (Napoli)
Pneumologia Territoriale
F. Blasi (Milano)
Componenti Aggiunti per incarichi speciali
C. Albera (Torino)
F. Braido (Genova)
G.W. Canonica (Genova)
M. Cazzola (Napoli)
G. Girbino (Messina)
A. Sanduzzi Zamparelli (Napoli)
Collegio dei Probiviri
R. Dal Negro (Bussolengo VR)
G. Gialdroni Grassi (Milano)
S.A. Marsico (Napoli)
Revisori dei Conti
R. Corsico (Pavia)
C. Romagnoli (Pavia)
S. Valente (Roma)
SOMMARIO
anno XXIX · 4 · dicembre 2009
Medicina
Toracica
Organo
ufficiale
della Società
Italiana
di Medicina
Respiratoria
(SIMeR)
■■ EDITORIALE
Carcinoma broncogeno
e terapia target: esperienze,
lezioni e strategie
G. Stella, E. Pozzi
Rivista fondata da
Carlo Grassi
Direttore Scientifico
E. Pozzi (Pavia)
Comitato di Redazione
L. Carozzi (Pisa)
F. Dente (Pisa)
M. Gjomarkaj (Palermo)
G. Lobefalo (Napoli)
S. Nava (Pavia)
G. Pelaia (Catanzaro)
Segreteria di Redazione
A.G. Corsico (Pavia)
M. Luisetti (Pavia)
Tel. 0382 501029
Fax 0382 503425
e-mail: [email protected]
l
Edizioni Internazionali srl
Divisione EDIMES
Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia
Via Riviera 39 - 27100 Pavia
Tel. 0382 526253
Fax 0382 423120
e-mail: [email protected]
Registrazione Trib. di Milano n. 729
del 18/10/2004
Variazione in corso
■■ DOSSIER
Ipertensione polmonare
e malattie respiratorie
E. Pozzi, F. Mariani, Z. Kadija,
E. Paracchini, G. Stella
■■ AGGIORNAMENTI
DI FISIOPATOLOGIA
Il sistema colinergico
non-neuronale delle vie aeree
E. Pozzi, G. Stella
Cancro, risposta immune
e metastasi
E. Pozzi, G. Stella
■■ CASO CLINICO
Mediastinite fibrosante
F. Mariani, Z. Kadija
3
23
41
50
57
EDITORIALE
Carcinoma broncogeno e
terapia target: esperienze,
lezioni e strategie
Il processo di oncogenesi definisce una
patologia complessa causata, a livello cellulare, dalla progressiva acquisizione in
maniera sequenziale e frequentemente in
un contesto di “instabilità” genica, di lesioni molecolari responsabili della attivazione di oncogeni e/o della inattivazione
di geni oncosoppressori come prevalente
conseguenza della esposizione a carcinogeni ambientali o, comunque, correlati
a scorrette abitudini di vita (1). I tumori
solidi infatti insorgono prevalentemente
nell’adulto proprio perché le cellule del
nostro organismo sono esposte a continui
insulti i cui effetti dannosi si accumulano
progressivamente nel loro genoma e ne inducono, infine, la trasformazione neoplastica. Queste cellule sono in grado di proliferare in modo afinalistico, invadono poi
il tessuto circostante ed infine colonizzano
organi a distanza (2). Il fatto che le cellule
tumorali contengano diverse lesioni genetiche acquisite progressivamente nel tempo implica che il cancro sia una malattia
eterogenea che è difficilmente aggredibile
e che richiede la continua integrazione di
trattamenti sulla base della sua stessa evoluzione.
La ricerca scientifica negli ultimi anni ha
raggiunto traguardi importanti e inattesi:
contrariamente alle ipotesi iniziali e fortunatamente per i risvolti in clinica, le lesioni genetiche che caratterizzano la maggior
parte dei tumori solidi e sono responsabili
della loro progressione non sono più di alcune dozzine. Queste informazioni hanno
guidato la ricerca farmacologica nello sviluppo e validazione di farmaci in grado di
bloccare l’attività di un piccolo set di proteine alterate: questi sforzi hanno condot-
giulia m. stella
ernesto pozzi
Clinica di Malattie
dell’Apparato
Respiratorio
dell’Università,
IRCCS Fondazione
Policlinico
San Matteo, Pavia
ABSTRACT
Lung cancer and targeted therapy: experiences, lessons, strategies
Cancer is a genetic disease and this concept has now been widely exploited by both scientists and
clinicians to design new targeted therapeutical approaches. Indeed many data have already allowed
us to ameliorate not only our knowledge about cancer onset, but also about patient treatment. Correlation between genetic lesions in cancer alleles and drug response is a crucial point to identify drugs or
drugs combinations that match the genetic profile of individual tumors. On the other hand, experiences
derived from receptor tyrosine kinases (RTKs) inhibition have pointed out that targeted treatment
is really successful only in a small subset of tumors. The latter are eventually addicted to the genetic
alterations responsible for receptors activation and continued expression of their signaling pathways.
Overall these observations provide a strong rationale for molecular based diagnosis and patient selection. This review analyses the current state of the art on the role of cancer genetic lesions in molecular
targeting and drug response focusing on lung cancer, one of the biggest killers among human solid
tumors. Particular relevance is addressed to the analysis of somatic mutations affecting the EGFR
pathway transducers which actually represent the most powerful therapeutical targets.
Key words: tumor target, biomarkers, molecular-based diagnose.
MedicinaToracica•4/2009
3
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
to allo sviluppo dei farmaci antineoplastici
di ultima generazione. Questi farmaci sono
definiti “targeted” proprio perché sono in
grado di inibire selettivamente la funzione
di specifiche molecole attivate nel cancro
(3). Questi presupposti costituiscono le
basi della oncogenomica e della farmacogenomica in oncologia e da essi derivano
due importanti conseguenze:
- in primo luogo il trattamento dei pazienti
con farmaci targeted è imprescindibile
dalla identificazione della lesione molecolare che il farmaco stesso potenzialmente andrà ad inibire. In altre parole la
terapia targeted è effettivamente efficace
solo nei pazienti portatori di alterazioni
nel DNA tumorale che rendono il tumore
stesso bersaglio di un dato farmaco;
- la seconda implicazione è che l’approccio diagnostico/terapeutico targeted del
cancro richiede l’integrazione della dia-
gnostica convenzionale istopatologica
con la caratterizzazione molecolare del
tumore. Ne consegue che, per l’impostazione di una terapia individualizzata del
cancro, è necessaria, accanto alla classificazione d’organo e morfologica, l’identificazione delle alterazioni molecolari
proprie del tumore stesso (Tabella 1).
I geni critici del cancro
La sempre più approfondita conoscenza
del programma genetico che determina la
proliferazione del clone cellulare neoplastico, la successiva invasione dei tessuti
circostanti e la metastatizzazione a distanza, ha consentito di decifrare, almeno parzialmente, il comportamento clinico delle
neoplasie. È ormai dimostrato che una
singola cellula cancerosa è portatrice di
Tabella 1 Farmacogenetica e farmacogenomica in oncologia: glossario.
Variazione nella sequenza del DNA che è presente in 0,1% della popolazione
-S
omatica: acquisita nel corso dello sviluppo e presente solo nelle cellule in espansione clonale
-E
reditaria: presenti nella linea germinale (germline) e dimostrabile sia nelle cellule sane che
cancerose
Polimorfismo genico Variazione nella sequenza del DNA che è presente almeno nell’1% della popolazione
Aumentato numero di copie di una ristretta regione cromosomica (in genere corrispondente ad un
Amplificazione
locus genico)
genica
Promuovono la crescita e la proliferazione cellulare: sono attivati in ONCOGENI da mutazioni attivanti
Protoncogeni
o che diventano attivanti in date condizioni non presenti nel wt; è sufficiente l’alterazione di un allele
(eterozigosi)
Codificano per proteine che inibiscono la crescita e la proliferazione cellulare: sono inattivati da
Geni
mutazioni che riducono l’attività del prodotto genico; è necessaria alterazione su entrambi gli alleli
oncosoppressori
(OMOZIGOSI)
Geni controllori della Regolano i processi di: mismatch repair, nucleotide-excision repair, base-excision repair; controllano
stabilità (caretakers) processi responsabili della ricombinazione meiotica e della segregazione cromosomica; se inattivati,
mutazioni in oncogeni e geni oncosoppressori avvengo con maggiore frequenza; generalmente è
necessaria l’alterazione su entrambi gli alleli
Farmacogenetica
Studio delle variazioni interindividuali nella sequenza del DNA in relazione alla risposta ai farmaci
Studio dell’associazione delle caratteristiche del DNA e dell’RNA
Farmacogenomica
Trattamento che prevede l’utilizzo di farmaci che specificatamente individuano e colpiscono le cellule
Terapia target
tumorali
Biomarcatore
Caratteristica misurabile propria del DNA e/o dell’RNA, indicatore di processi biologici normali e
patologici e di risposta a farmaci o ad altri interventi
-B
iomarcatore Predittivo: identifica i pazienti che verosimilmente risponderanno a specifiche terapie
o viceversa andranno incontro ai soli effetti collaterali, prima dell’inizio della terapia stessa
-B
iomarcatore Prognostico: definisce, in termini probabilistici, l’andamento o la progressione della
malattia
Oncogenic addiction Fenomeno per cui una cellula tumorale, nonostante le molteplici alterazioni a livello genetico, diventi,
per la propria sopravvivenza e proliferazione, completamente dipendente da un solo pathway
derivato dall’attivazione di un determinato oncogene
Mutazione genica
4
Medicina Toracica • 4/2009
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
numerose mutazioni in diversi geni e anomalie nel corredo cromosomico che determinano una amplissima variabilità del suo
profilo di espressione genica. Nel 95% dei
casi di tumore solido, le mutazioni avvengono in cellule somatiche (4). Ad oggi sono
noti più di 100 geni che risultano ripetutamente alterati nella cellule umane tumorali. Essi sono identificati come geni critici
del cancro (gate-keepers): tale definizione
rende ragione del fatto che, mutazioni che
avvengono a livello di questi geni, contribuiscano alla iniziazione e progressione
neoplastica. Si distinguono proto-oncogeni per i quali l’occorrenza di una mutazione conduce ad un guadagno di funzione;
le forme mutanti iperattive di questi geni
sono dette oncogeni. I geni in cui la presenza di una mutazione somatica induce
una perdita di funzione sono, invece, chiamati geni oncosoppressori. La mutazione
su un solo allele è sufficiente per indurre
l’attivazione degli oncogeni: in questo caso
la mutazione ha effetto dominante. Al contrario la perdita di funzione dei geni oncosoppressori necessita di una lesione su
entrambi gli alleli (effetto recessivo). Una
terza classe di geni (care-takers) è rappresentata da quelli che regolano i processi di
riparazione del DNA e controllano processi responsabili della ricombinazione meiotica e della segregazione cromosomica:
se inattivati, mutazioni in oncogeni e geni
oncosoppressori avvengo con maggiore
frequenza. Infine alterazioni epigenetiche
(non-mutazionali) possono condurre alla
aumentata o ridotta espressione di questi
geni. La definizione del ruolo causale di
queste alterazioni risulta di più difficile
interpretazione rispetto alla identificazione di mutazioni: il livello delle alterazioni
cromatiniche è difficilmente quantificabile
rispetto all’evento mutazionale che è, per
definizione, digitale (mutazione presente
vs assente).
Si definisce pertanto più precisamente il
processo di oncogenesi come un processo
costituito da stadi successivi caratterizzati dalla progressiva acquisizione, da parte
della cellula neoplastica, di mutazioni attivanti a livello dei geni oncogeni e inattivanti a livello dei geni oncosoppressori (1).
EDITORIALE
Ad oggi non è stato del tutto chiarito il numero di mutazioni somatiche necessarie
per l’induzione del fenotipo maligno. Si è
stimato che nel corpo umano normale avvengono nel corso della vita 10 (16) divisioni cellulari; anche in un ambiente libero
da mutageni le mutazioni avvengono spontaneamente, con un valore di circa 10-6 mutazioni per geni ad ogni divisione cellulare.
Pertanto, nel corso della vita, è probabile
che ogni singolo gene subisca una mutazione in circa 10 distinte occasioni. È stato
dimostrato che la frequenza di mutazioni
in una cellula tumorale è simile a quella
attesa in una cellula normale al termine di
diversi passaggi replicativi (6). Inoltre l’introduzione di una singola mutazione somatica in linee cellulari epiteliali immortalizzate (Knock-In) non è in grado di determinarne la trasformazione, pur inducendo
le proprietà biochimiche attese dalla attivazione del gene (6). Queste osservazioni
suggeriscono importanti implicazioni. In
primo luogo non tutte le mutazioni risultano funzionalmente attive: si distinguono,
infatti, mutazioni funzionalmente attive,
driver del fenotipo maligno, e mutazioni
passenger, che, invece, non esitano in variazioni fenotipiche (7). Inoltre l’instabilità
genetica dal clone neoplastico è requisito
essenziale per la selezione Darwiniana del
clone stesso e per la progressione neoplastica; tuttavia il livello delle alterazioni genetiche deve essere evidentemente
maggiore di quello di una cellula normale
ma non così elevato da non consentire l’ulteriore replicazione cellulare e l’induzione
del programma di apoptosi (8).
Alterazione
della traduzione
del segnale cellulare
La maggior parte dei geni critici per il cancro codificano per proteine che regolano
importanti funzioni della cellula quali: sopravvivenza, proliferazione, differenziazione e motilità e mediano il cross-talk tra
cellule vicine. In condizioni fisiologiche,
questi processi biologici derivano, nella
maggior parte dei casi, dalle interazioni
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EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
tra complesse vie di segnale mediate da
fattori di crescita, citochine ed ormoni. Si
definisce pertanto trasduzione del segnale
il processo attraverso cui le informazioni
vengono trasmesse dall’ambiente esterno a
quello intracellulare inducendo l’attivazione di meccanismi di risposta quali proliferazione, differenziazione e morte cellulare.
L’interazione tra un fattore di crescita e
il suo recettore è specifica e attiva, tramite secondi messaggeri, una cascata di
risposte biologiche, sovente ridondanti,
all’interno della cellula. La trasmissione
del segnale al nucleo della cellula conduce alla espressione di geni coinvolti nei
processi di mitosi e differenziazione della
cellula. In situazioni patologiche, quali il
cancro, l’espressione di geni attivati da vie
di segnale, a loro volta attivate da fattori di
crescita, contribuisce alla induzione della
proliferazione aberrante della cellula maligna.
Nonostante molti dei mediatori del segnale siano ridondanti nella cellula, è importante sottolineare che:
- geni diversi fanno parte della stessa via di
segnale; in altre parole il numero dei pathways di segnale è definito e molto minore di quello dei geni critici del cancro;
- alterazioni in un numero relativamente
piccolo di vie di segnale sottendono tipi
di tumore differenti. Ne deriva pertanto
che esiste una cellulo-specificità dell’effetto della alterazione di una via di segnale. Inoltre è verosimile che la cronologia della acquisizione delle alterazioni
sia responsabile dello sviluppo di tumori
diversi a partire da una stessa cellula
trasformata. Infine queste osservazioni
giustificano l’efficacia - e l’utilizzo - della
stessa terapia targeted in tumori differenti portatori, però, delle stesse alterazioni molecolari (9).
In particolare nel cancro sono coinvolti fattori di crescita che legano recettori
trans-membrana a funzione tirosin-cinasica. Le cellule tumorali sono in grado
di produrre fattori di crescita e recettori
inducendo la trasmissione del segnale in
maniera autocrina e/o paracrina. La cellula trasformata è in grado di secernere fattori di crescita biologicamente attivi che
6
Medicina Toracica • 4/2009
attivano con loop autocrino i recettori presenti sulla superficie della cellula stessa e
possono agire con stimolazione paracrina
anche su cellule adiacenti. I recettori per
i fattori di crescita possono inoltre essere
attivati indipendentemente dalla presenza
del ligando a causa di lesioni molecolari,
e.g. mutazioni.
Nei recettori a funzione tirosin-cinasica la
presenza di mutazioni somatiche induce
modificazioni conformazionali del recettore stesso che dimerizza e transfosforila
il recettore adiacente assumendo, in tal
modo, uno stato di attivazione persistente. Infine l’attivazione del recettore wild
type può avvenire in modo inappropriato
quando il recettore è presente in numero maggiore del previsto sulla superficie
della cellula. Questa situazione è sovente,
conseguente al fenomeno di amplificazione del gene che codifica per il recettore
stesso.
Oncogenetica
e biologia molecolare
del carcinoma
broncogeno
Suscettibilità dell’ospite
Studi molto recenti sulla suscettibilità genetica individuale al rischio di sviluppo di
cancro polmonare hanno posto l’attenzione sui polimorfismi del gene codificante il
recettore nicotinico dell’Aceticolina (Ach).
È stato, infatti, dimostrato che polimorfismi genici nel locus cromosomico 15q21
correlano in modo statisticamente significativo sia con lo sviluppo di tumore del
polmone sia con l’abitudine tabagica o la
propensione a fumare (10). In questa regione cromosomica sono contenuti diversi
geni, tre in particolare che codificano per le
sub-unità del recettore nicotinico dell’Ach:
CHRNA5, CHRNA3 (codificano per le sub
unità recettoriali α 5 e 3) e CHRNB4 (subunità recettoriale β 4). In particolare nel
gene CHRNA5 una sostituzione non sinonima (D398N- sostituzione dell’acido
aspartico in asparagina in posizione 398)
che codifica per una regione altamente
conservata del recettore (il dominio M2)
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
è uno dei marcatori di predisposizione di
malattia più potenti. Poiché polimorfismi
in questi geni giocano un ruolo nella dipendenza da nicotina, è stata studiata anche
la correlazione tra lo sviluppo di cancro e
l’abitudine tabagica: come atteso il rischio
di malattia risulta maggiore nei soggetti fumatori ed ex-fumatori, rispetto a chi non
ha mai fumato; non si documentano invece correlazioni con l’istotipo della malattia
(11). In conclusione si potrebbe affermare
che la variabilità genetica individuale, in
particolare nell’ambito del braccio lungo
del cromosoma 15, correla direttamente
con il rischio di dipendenza da nicotina e,
quindi, può esporre al rischio di sviluppo di
patologie correlate al fumo, quali il tumore
polmonare e le malattie cardiovascolari.
Un ulteriore meccanismo di incrementata
suscettibilità allo sviluppo di carcinoma
broncogeno è rappresentato dalla ridotta
capacità di riparazione del DNA, soprattutto in soggetti fumatori. In particolare
alterazioni germinali dei geni del sistema
di Nucleotide Excision Repair (NER), tra
cui ERCC1 (Excision Repair Cross Complementing-1) e RRM1 (Ribonucleotide
Reduttasi Subunità-1) sono state associate
ad un maggior rischio di insorgenza di cancro. L’aumentata espressione di ERCC1 e
RRM1 nel NSCLC correla con una prognosi migliore ma con ridotta sensibilità alla
terapia con platino (12).
Alterazioni molecolari responsabili dello
sviluppo e della progressione neoplastica
I fattori ambientali (e.g. fumo di tabacco)
e la suscettibilità individuale interagiscono nel processo di carcinogenesi polmonare. L’esposizione cronica ad agenti cancerogeni induce la formazione di lesioni
epiteliali multifocali che presentano alterazioni genetiche identificate in perdita di
eterozigosità dei loci 17p, 3p, 9p, 8p, 18q e
amplificazione di 11q13. Ciascuna lesione
“patch” ha origine monoclonale e non presenta caratteri di crescita invasiva e/o metastatica (lesione pre-maligna). È pertanto
verosimile che, nei soggetti fumatori, il fenomeno di cancerizzazione d’organo (field
cancerization) culmini nella trasformazione maligna partendo da cellule precur-
EDITORIALE
sori (Cancer Stem Cells) che derivano da
quadri cito-istologici pre-neoplastici.
I carcinomi che insorgono nei soggetti fumatori e nei non fumatori presentano profili molecolari distinti, incluse mutazioni di
p53, KRAS, EGFR ed ErbB-2. Questi marcatori molecolari sono predittivi di rischio
ma anche di prognosi e sensibilità al trattamento. Così possono essere identificati
marcatori della fase precoce (e.g. mutazioni di p53 ed EGFR) e marcatori della fase
tardiva (e.g. mutazioni di PIK3CA) di sviluppo del cancro; questi marcatori possono inoltre essere rilevanti per la definizione dei meccanismi di resistenza ai farmaci
targeted. Alterazioni precoci del cancro
polmonare sono costituite dalla perdita di
eterozigosità della regione cromosomica
3p21.3 (dove sono localizzati i geni RASSF1A e FUS1); 3p14.2 (dove è localizzato
il gene FHIT- fragile histidine triad gene),
9p21 (p16) e 17p13 (p21). Tutti questi geni
sono geni oncosoppressori. Mutazioni
di EGFR avvengono precocemente nello
sviluppo di ADK non correlato al fumo di
tabacco mentre nei soggetti fumatori si
sviluppano più precocemente mutazioni di
KRAS. Successivamente, nella progressione tumorale, è descritta l’alterazione di oncogeni responsabili dell’incremento della
motilità cellulare (PI3CA) e della crescita
invasiva.
Il profilo molecolare del NSCLC è differente da quello del SCLC (13). In generale molti dei risultati ottenuti dalla ricerca
scientifica sono relativi al carcinoma broncogeno non-a-piccole cellule: il microcitoma polmonare è molto spesso accomunato al NSCLC ma è evidente che si tratta di
una patologia distinta, anche per quanto
riguarda le alterazioni genetiche driver.
La maggior parte degli studi clinici recenti
sono tuttavia attuati su casistiche di NSCLCs e i risultati semplicemente traslati al
microcitoma.
Infine è importante sottolineare che i tumori solidi sono costituiti da più tipi cellulari
che differiscono per lo stato di differenziazione (proliferative hierarchy) ed inoltre
contengono un subset cellulare con caratteri fenotipici di staminalità (CSC) che
mantiene l’esclusiva abilità di sostenere
Medicina Toracica • 4/2009
7
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
la tumorigenesi e che esprime in maniera
costitutiva marcatori molecolari aspecifici
di multi-resistenza ai farmaci (14). È stato
ipotizzato che nell’albero respiratorio esistano nicchie di cellule staminali diverse;
è verosimile che da esse originino le CSCs
del carcinoma broncogeno. Nel tratto
prossimale le cellule basali hanno fenotipo
stem-like mentre nel tratto più periferico
l’identificazione morfologica delle cellule
staminali è più difficile: probabilmente tali
cellule sono rappresentate dalle cellule di
Clara nei bronchioli e dai pneumociti di
tipo II a livello alveolare. Varianti di queste
cellule sono probabilmente le cellule inizianti il carcinoma broncogeno: non sono
ad oggi note le lesioni molecolari responsabili della trasformazione delle cellule
staminali in CSCs e della differenziazione
di queste ultime in cellule della massa neoplastica vera e propria (15).
Dalla farmacogenetica
alla farmacogenomica
L’applicazione di queste conoscenze ha interessato evidentemente anche la ricerca
farmacologia, non solo ma soprattutto in
campo oncologico. I primi farmaci antiblastici utilizzati in clinica sono stati quelli
che hanno come target il DNA e il suo sistema di riparazione: agenti alchilanti (ciclofosfamide), analoghi nucleosidici (es.
gemcitabina, citosina arabinoside), e inibitori enzimatici (5-fluoro-uracile, metotrexate); sono stati successivamente introdotti farmaci in grado di agire e bloccare
il ciclo cellulare, quali ad esempio agenti
antitubuline (paclitaxel, docetaxel), alcaloidi della vinca (vincristina e vinorelbina)
così come inibitori della topoisomerasi I
e II (irinotecan, topotecan) e antracicline
(doxorubina, daunorubicina). L’utilizzo di
tali farmaci ha condotto alla possibilità di
ottenere, almeno in alcuni tipi di tumori
umani, una remissione più o meno durevole della malattia; d’altro canto, nonostante
molteplici studi rivolti alla delucidazione
molecolare dell’azione di questi farmaci
e alla definizione dei meccanismi di resistenza messi in atto nelle cellule tumorali
8
Medicina Toracica • 4/2009
trattate, il rischio di fallimenti terapeutici
dovuti a multiresistenza o a tossicità gravi
risulta molto elevato e invariato nel tempo.
Sebbene la risposta ad un farmaco costituisca un fenotipo regolato da molteplici
fattori, è attualmente confermato che la
sistematica analisi mutazionale e funzionale delle alterazioni geniche sia alla base
della ricerca in campo farmacologico. La
“nuova generazione” di farmaci antineoplastici attualmente in commercio e sui
quali si stanno indirizzando gran parte
degli studi scientifici, è stata studiata con
un approccio differente, derivato dall’approfondimento delle conoscenze biomolecolari del processo di oncogenesi e dalla
parallela applicazione di nuove tecnologie:
se si può individuare il bersaglio dei farmaci chemioterapici classici nei meccanismi
di replicazione della cellula neoplastica
(quali, ad esempio, la regolazione del ciclo
cellulare e dei meccanismi di riparazione
del DNA), si può pensare ai nuovi farmaci
“targeted” come a molecole che bloccano
i segnali che portano la cellula neoplastica
alla replicazione.
Le potenzialità della farmacogenomica
sono enormi, le tecniche di genotipizzazione ad elevata sistematizzazione ed efficienza (highthroughput sequencing analysis)
consentono di testare migliaia di polimorfismi genici in una singola piattaforma;
è possibile, da un singolo campione di
sangue o di tessuto bioptico del paziente,
eseguire analisi “di screening” per un pannello di migliaia di geni e testare quelli in
grado di determinare la risposta ad un dato
farmaco (16). Il valore in clinica di questo
tipo di analisi risulta di grande interesse: la
valutazione biomolecolare di una patologia riveste infatti un aspetto fondamentale
non solo al momento della diagnosi, ma
diventa imprescindibile per l’impostazione
della terapia e nella valutazione della variabilità nella risposta interindividuale ad un
dato trattamento. La definizione di farmacogenetica applicata ai farmaci di nuova
generazione risulta, in questo senso, più
complessa perché “lo studio delle variazioni individuali nella risposta ai farmaci” prevede l’analisi integrata sia dei geni codificanti per proteine coinvolte nei processi di
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
metabolizzazione dei farmaci sia dei geni
coinvolti nei pathways di segnale a livello
intra ed intercellulare. Il disegno di nuovi
farmaci è basato sulla integrazione delle
informazioni derivate da una duplice “prospettiva molecolare”:
- intracellulare: la crescita e la progressione tumorale derivano dalla attuazione
di specifici programmi genetici a livello
cellulare e dalla attivazione aberrante di
segnali di proliferazione e di crescita;
- intercellulare: alterazioni genetiche e biochimiche che hanno luogo nello stroma
peritumorale (e.g. neoangiogenesi, ipossia tissutale) contribuiscono all’attivazione dei programmi di proliferazione e invasione neoplastica.
Nella identificazione dei meccanismi molecolari alla base dell’effetto di un dato
trattamento è importante sottolineare alcuni punti critici:
1) la componente genetica della risposta
ai farmaci è molto spesso poligenica. Gli
approcci sviluppati per lo studio dei determinanti poligenici sono basati essenzialmente su:
- analisi e mappatura di dati siti di polimorfismo;
- analisi di geni candidati basate sulla
conoscenza a priori del meccanismo di
azione del farmaco e dei pathways molecolari coinvolti nel suo metabolismo;
il limite di questa strategia è dovuto
essenzialmente alla spesso incompleta
conoscenza della farmacocinetica e dei
meccanismi di azione di un farmaco;
2) la necessità di una caratterizzazione
biomolecolare della patologia da trattare;
ciò consente di:
- disegnare molecole in grado di bloccare
precisi bersagli molecolari che sono diversi non solo in patologie diverse, ma in
diversi pazienti con la stessa patologia;
- identificare parametri utilizzabili per la
valutazione quantitativa della risposta al
farmaco.
Si deve sottolineare come questo tipo di
approccio possa condurre a revisioni delle classificazioni nosologiche - non solo
per le patologie neoplastiche - basate sulla identificazione di determinati genotipi
che, sebbene possano esitare in classi fe-
EDITORIALE
notipicamente non distinguibili, sono, in
ultimo, responsabili della evoluzione della
malattia e della variabilità nella risposta al
trattamento.
Nonostante la ricerca scientifica e i progressi tecnologici abbiano consentito di
definire molti dei targets molecolari attivi
in diverse patologie, soprattutto in campo
oncologico, verso i quali sono state sviluppate decine di nuove molecole, l’evidenza
dei dati clinici non consente entusiasmi:
nell’ambito dei trattamenti oncologici le
terapie convenzionali con agenti citotossici continuano ad essere la scelta in prima
linea anche se sempre più spesso vengono
associate al trattamento con farmaci “nuovi”. La sostanziale mancata efficacia della
terapia target deriva da diversi fattori e in
primo luogo dal fatto che il blocco di una
singola via di segnale non è, evidentemente, sufficiente a inibire la proliferazione
cellulare. Su questa base devono essere
ridefiniti alcuni parametri della farmacologia classica, quali:
- la resistenza al trattamento;
- la tossicità del farmaco;
- l’individuazione di biomarkers ed endpoins surrogati per la valutazione della
risposta al trattamento.
Valutazione dei meccanismi molecolari
di resistenza ai farmaci biologici
I farmaci di nuova generazione hanno, per
definizione, una azione selettiva e specifica basata in generale sulla inattivazione di
una cascata di segnale attivata in maniera aberrante nel tempo e nello spazio. La
mancata efficacia del farmaco può risultare da una non corretta identificazione del
bersaglio molecolare o da una inappropriata strategia di inibizione del bersaglio
stesso. È evidente, inoltre, che il blocco
di una sola via di segnale è insufficiente
per inibire la proliferazione cellulare che
risulta invece dalla attivazione integrata
a diversi livelli di numerose, ma definite,
cascate di segnale (17). Su questa base si
è passati dal disegno di farmaci altamente selettivi (e.g. Gefitinib su EGFR mutati) allo sviluppo di inibitori selettivi per le
tirosin-cinasi ma meno specifici (e.g. Dasatinib, Lapatinb), in modo da colpire con
Medicina Toracica • 4/2009
9
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
un solo farmaco più bersagli e/o all’utilizzo integrato di più farmaci (inibitori delle
tirosin-cinasi e dell’angiogenesi). La cellula neoplastica inoltre può mettere in atto
strategie che rendono la propria replicazione indipendente dal segnale bloccato
dal farmaco. Ciò si realizza con eventi mutazionali (alterazioni di nucleotidi che, tradotti in proteine a struttura stericamente
differente, rendono il sito bersagliato dal
farmaco inattivo o inaccessibile) o biochimici (attivazione di sistemi di efflusso del
farmaco o di sua inattivazione enzimatica
- resistenza intrinseca o primaria). Molto
spesso inoltre si assiste ad una iniziale
parziale risposta al trattamento, seguita da
una ripresa della malattia che diventa insensibile al farmaco precedentemente attivo (resistenza acquisita o secondaria). Se
da un lato è documentabile che il genoma
delle cellule tumorali è soggetto a mutazioni il cui accumulo può rendere inefficace
un trattamento che precedentemente lo
era stato, nella valutazione della risposta o
mancata risposta ad un trattamento appare importante sottolineare che:
- parte della “massa neoplastica” è costituita da tessuto di supporto che, pur avendo un ruolo importante nella progressione della malattia, può non presentare le
alterazioni geniche delle cellule cancerose risultando, pertanto, non sensibile
alle terapie target utilizzate e inoltre può
essere responsabile di ridurre l’afflusso
al tumore del farmaco in concentrazione
terapeutiche (18). Questa considerazione giustifica l’associazione di farmaci
che bersagliano lo stroma tumorale (antiangiogenetici, inibitori di fattori di crescita) (19);
- le cellule staminali neoplastiche, da cui
si genera il clone maligno, presentano
caratteristiche che fisicamente (la niche
è spesso scarsamente raggiunta da concentrazioni terapeutiche del farmaco)
e biochimicamente (il sistema di MDR
è costitutivamente attivo) le rendono
scarsamente sensibili ai farmaci (20).
Inoltre queste cellule, verosimilmente,
non presentano attivazione aberrante
delle cascate di segnale di proliferazione
(anche se non sono molti i dati relativi
10 Medicina Toracica • 4/2009
al sequenziamento genico del loro DNA)
per cui risulta, a priori, privo di efficacia
ogni trattamento che preveda una inibizione specifica di un qualsiasi segnale
iperattivo (per mutazione o iperespressione genica). Molta parte degli studi
scientifici è attualmente orientata a migliorare la caratterizzazione molecolare
di queste cellule, anche per le potenziali
conseguenze in ambito farmacologico o,
meglio, farmaco genomico.
Valutazione della tossicità e
identificazione degli endpoints surrogati
I farmaci di nuova generazione non presentano effetti tossici di particolare gravità,
soprattutto se confrontati con i farmaci
convenzionali. I farmaci chemioterapici
convenzionali hanno una azione prevalentemente citotossica che risulta in una inibizione della crescita cellulare; la sostanziale
non selettività di azione è correlata all’elevato grado di tossicità che presentano.
Il meccanismo di azione particolarmente
selettivo dei farmaci “targets” non richiede dosi terapeutiche elevate e, non avendo essi effetto su cellule genotipicamente
normali, il loro profilo di tossicità è decisamente meno significativo. Le tossicità
riportate per questi farmaci riguardano
prevalentemente astenia e fatigue, disturbi gastrointestinali e rash cutanei (definite
dai Common Toxicity Criterias) che sono,
però, responsabili della sospensione del
trattamento (se CTC grado 3-4) in una ridotta percentuale di casi. Ne consegue che
un incremento della dose a livelli di tossicità non è generalmente necessario e che la
correlazione dose/tossicità è un parametro
scarsamente significativo, probabilmente inappropriato per valutare l’efficacia di
questo tipo di terapia. L’azione antineoplastica di questi farmaci è fondamentalmente
citostatica: ne deriva che i regimi di trattamento sono caratterizzati da tempi lunghi
e dosaggi bassi e che la variazione della
dimensione del tumore deve essere presa
in considerazione solo parallelamente alla
individuazione di altri parametri.
Si parla di “dose biologicamente attiva”
per identificare quel dosaggio del farmaco
in grado di produrre il massimo effetto di
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
inibizione sul pathway di segnale che ne
costituisce il bersaglio (21). Nel processo
di sviluppo di un farmaco target il primo
passo è costituito dalla corretta identificazione del bersaglio molecolare, la cui attivazione ha un ruolo critico nella patogenesi del tumore.
A questo punto vengono utilizzati approcci
di genetica, citogenetica e proteomica per
caratterizzare, in fase pre-clinica, il bersaglio molecolare e disegnare un farmaco appropriato. La traslazione in clinica
presenta in genere diversi problemi legati
all’arruolamento dei pazienti il cui tumore
presenti le caratteristiche biomolecolari
coerenti con quelle note per essere soggette all’effetto del farmaco (selezione
accurata dei pazienti attraverso analisi
genetiche e citogenetiche altamente specifiche); un ulteriore problema è legato
alla possibilità di quantificare l’inibizione
ottimale nel tessuto tumorale: proprio in
considerazione del meccanismo di azione
di questi farmaci i criteri RECIST (22) di
valutazione “macroscopica” della risposta
al trattamento risultano insufficienti.
Sulla base della difficoltà di questi procedimenti necessari per definire l’efficacia
di un farmaco si è cercato di identificare
parametri biomolecolari (markers) utilizzabili per monitorare l’andamento clinico.
In generale si definisce endpoint surrogato
di un trattamento clinico “qualsiasi test di
laboratorio o segno obiettivo clinicamente
utilizzabile come parametro significativo,
in grado di quantificare lo stato clinico
del paziente e la sopravvivenza; variazioni dell’endpoint surrogato devono rispecchiare variazioni significative dell’andamento clinico” (23). Endpoints surrogati
possono essere utilizzati per supportare
una approvazione “accelerata” di un farmaco se il surrogato è ragionevolmente
correlato e predittivo dell’endpoint clinico
di interesse. Il corretto utilizzo di questo
tipo di approccio assume a priori una corretta relazione risposta clinica/parametro
surrogato che presuppone una corretta
conoscenza dei pathways di traduzione
del segnale nella cellula neoplastica - ad
esempio la quantificazione della fosforilizzazione delle proteine a valle della cascata
EDITORIALE
di attivazione di EGFR può rappresentare
un endpoint surrogato per la determinazione dell’attività del farmaco inibitore
del recettore migliore rispetto alla segnalazione degli eventuali effetti collaterali.
Un ulteriore parametro utilizzato per la valutazione dell’efficacia di questi farmaci è
il cosiddetto tessuto surrogato (surrogate
tissue) che indica la necessità di ottenere
campioni di tessuto adeguato per valutare
l’azione inibitoria (24). Per esempio studi
di farmacodinamica di inibitori di EGFR
in campioni di cute avevano dimostrato
una significativa inibizione del segnale di
crescita cellulare; gli stessi studi in tessuti
neoplastici hanno mostrato risultati meno
entusiastici, seppur significativi e tali da
giustificare la loro introduzione nei regimi
terapeutici (25).
Razionale dell’utilizzo
degli inibitori della
tirosin cinasi EGFR
nella terapia del
carcinoma broncogeno
Il processo di fosforilazione delle proteine è una reazione biochimica molto ben
caratterizzata che è alla base della regolazione reversibile della attività delle proteine. Le protein-cinasi e le protein-fosfatasi
costituisco gli attori principali di queste
reazioni e il loro ruolo è, pertanto, fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi
della cellula; viceversa una attività aberrante di questi enzimi è spesso alla base di
diverse patologie, in primo luogo le neoplasie. Nel corso della reazione di fosforilazione un gruppo fosfato viene aggiunto,
attraverso un legame fosfo-diestere, alla
terminazione idrossilica di un residuo di
un dato aminoacido, prevalentemente serina, treonina o tiroxina. Il gruppo fosfato
è portatore di una carica negativa e il suo
attacco ad un residuo aminoacidico può
determinare modificazioni conformazionali della proteina. La reazione di fosforilazione presenta alcune peculiarità: è rapida
(alcuni secondi), reversibile e non richiede
la sintesi o la degradazione di ulteriori proteine. La superfamiglia delle cinasi agisce
Medicina Toracica • 4/2009 11
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
trasferendo un gruppo fosfato da una molecola di ATP ad uno specifico sito bersaglio su un residuo aminoacido; le fosfatasi,
al contrario, rimuovono tale gruppo dal
substrato. Attraverso le reazioni di fosforilazione le cellule regolano diverse funzioni
quali la proliferazione, la differenziazione,
l’adesione, il metabolismo e l’apoptosi e su
questa base non sorprende il fatto che una
attivazione aberrante di queste reazioni
correli con lo sviluppo di patologie come
il cancro (26).
La disregolazione delle tirosin-cinasi è responsabile della inibizione della apoptosi,
della proliferazione cellulare, del processo
di metastatizzazione e di neoangiogenesi
(Figura 1). La prima tirosin-cinasi venne
identificata alla fine del 1970 e solo successivamente, nel 1988, fu purificata la prima fosfatasi. Le cinasi rappresentano circa
il 2-2,5% dei geni negli organismi eucarioti:
esse sono generalmente caratterizzate dal-
la presenza di un dominio catalitico altamente conservato; cinasi atipiche presentano il dominio catalitico similmente alle
cinasi classiche ma mostrano differenze in
alcune sequenze nucleotidiche.
Nell’uomo sono state descritte finora 478
cinasi classiche e 40 atipiche per un totale di 518 cinasi. Il dominio catalitico delle cinasi è tipicamente costituito da una
struttura bilobare al cui centro si trova il
sito attivo: differenze strutturali a tale livello sono responsabili della selettività di
azione dei diversi enzimi. Sulla base del residuo aminoacidico coinvolto nella reazione di fosforilazione si distinguono 4 famiglie: le tirosin-cinasi (TKs), le cinasi simili
alle tirosin-cinasi, le serin-treonin-cinasi
(STKs) e le cinasi lipidiche. Tutte le cinasi
mostrano la stessa capacità nel trasferire il
gruppo fosfato γ dall’ATP al substrato. Le
serin-treonin-cinasi costituiscono la maggior parte delle cinasi (circa 400 membri),
Attivazione recettori tirosin cinasi
Indotta dal ligando
In assenza del ligando
Amplificazione
Ligando
P.M.
P.M.
A
C
Trasduzione
del segnale
Mutazione
Traslocazione
P.M.
P.M.
Aberrante trasduzione del segnale
B
D
Figura 1 Meccanismi di attivazione dei recettori trans membrana a funzione tirosin-cinasica. A)
attivazione fisiologica indotta dal ligando; B) lesioni genetiche responsabili di attivazione aberrante;
C) sequenziamento di EGFR: elettroferogramma relativo alla delezione dell’esone 19; D) struttura
terziaria del dominio tirosin-cinasico di EGFR: recettore wt e mutato (delezione esone 19) legato a
gefitinib.
12 Medicina Toracica • 4/2009
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
mentre le tirosin-cinasi contano circa 90
membri. Nonostante il loro numero sia relativamente minore, le tirosin-cinasi sono
enzimi chiave nei meccanismi di traduzione del segnale a livello cellulare. I recettori
delle tirosin-cinasi sono divisi in:
- recettori tirosin-cinasi (Receptor Protein- TK): proteine recettoriali transmembrana caratterizzate essenzialmente da un dominio extracellulare che
presenta il sito di legame per il ligando e
un dominio cinasico intracellulare;
- proteine non recettori tirosin-cinasi
(Non Receptor Protein-TK): proteine
citoplasmatiche generalmente coinvolte
nella trasduzione del segnale a livello intracellulare.
Come detto precedentemente la reazione
di fosforilazione è dinamica e reversibile
in quanto l’attività delle cinasi è bilanciata da quella delle fosfatasi che catalizzano la reazione di defosforilazione. Alla
superfamiglia delle fosfatasi appartengono le serin-treonin fosfatasi (STPs) che
idrolizzano specifici legami fosfodiesteri
serina/treonina e le tirosin fosfatasi (TPs)
con attività specifica per i residui fosfotirosinici; esistono, inoltre, fosfatasi con
azione meno selettiva (dual phosphatases) che possono agire sia sui residui
fosfotirosinici che su quelli fosfoserintreoninici. Peraltro come per le cinasi esistono due classi: le fosfatasi recettoriali
(RP-TPs) in posizione transmembrana,
che sembrano coinvolte anche in alcuni
processi di interazione intercellulare e le
fosfatasi intracellulari (NRP-TPs) il cui
ruolo consiste, verosimilmente, nella modulazione della trasmissione del segnale
attivato dalle cinasi.
Il sequenziamento del genoma delle cinasi
(cinoma) e delle fostasi (fosfatoma) e la
successiva analisi mutazionale hanno consentito di iniziare a caratterizzare il ruolo
di questi enzimi nel processo di oncogenesi (27). I geni attivi nel processo di tumorigenesi possono essere grossolanamente
suddivisi in due categorie sulla base del
loro meccanismo di azione:
1) Quando una mutazione risulta in un aumento della funzione della proteina, ci si
riferisce al gene corrispondente definen-
EDITORIALE
dolo oncogene: in questo caso la mutazione su un singolo allele è sufficiente per determinare il fenotipo maligno (attivazione
del gene).
2) Quando la mutazione determina, invece,
una perdita della funzione della proteina, il
gene corrispondente è definito: oncosoppressore. In questo caso è necessario per
la determinazione del fenotipo canceroso
(inattivazione del gene) che la mutazione
sia presente su entrambi gli alleli.
L’analisi mutazionale delle cinasi e delle
fosfatasi ha posto in evidenza alcune differenze qualitative e ha consentito di definire che:
- i geni codificanti per le cinasi presentano generalmente mutazioni in eterozigoti: ciò significa che queste mutazioni
sono attivanti e vengono tradotte in un
aumento dell’attività catalitica (fosforilazione) della proteina. Questi geni se
mutati agiscono evidentemente come
oncogeni.
- i geni che codificano per le fosfatasi
sono frequentemente alterati da mutazioni dissenso presenti su entrambi gli
alleli: questo dato permette di ipotizzare
che tali geni mutati agiscano come oncosoppressori.
Sulla base di queste osservazioni le tirosin-cinasi sono diventate oggetto di studio
in ambito farmacologico per il disegno di
molecole in grado di inibire l’attivazione
aberrante che si verifica nel cancro. L’industria farmaceutica ha prodotto diverse
molecole in grado di bloccare in modo
selettivo l’attività catalitica di questi enzimi: appare in modo sempre più evidente
come anche la risposta agli inibitori cinasi
abbia una base genetica e che le alterazioni genetiche presenti nel tumore possono
essere sfruttate per identificare i pazienti sensibili al trattamento. È attualmente
accettato che le alterazioni genetiche presenti nelle cinasi vengono selezionate nel
corso del processo di tumorigenesi e che
pertanto rappresentano un target legittimo della terapia antineoplastica. Le cinasi
deregolate possono essere inibite a diversi livelli:
- il dominio extracellulare può essere
bloccato con anticorpi monoclonali
Medicina Toracica • 4/2009 13
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
(mAbs) che una volta legati, inibiscono
l’attivazione del recettore; ligandi monometrici che interferiscono con la dimerizzazione del recettore; porzioni solubili del recettore in grado di sequestrare i
ligandi;
- il dominio catalitico è inattivato da piccole molecole che interferiscono con il
sito di legame dell’ATP o con il sito di
fosforilazione del substrato.
Molti dati, soprattutto in ambito ematologico, hanno confermato questo paradigma:
il primo esempio di successo con gli inibitori delle tirosin-cinasi si è avuto con l’utilizzo dell’Imatinib mesilato (Gleevec™)
nel trattamento della leucemia mieloide
cronica. Si tratta di un piccolo composto
chimico che è in grado di inibire a concentrazioni micromolari, l’attività aberrante
(determinata dalla traslocazione 9/22) della cinasi ABL competendo con l’ATP per il
suo sito di legame: in tal modo le cellule
leucemiche portatrici della traslocazione Bcr-ABL vengono indotte alla apoptosi (28). Un altro esempio che supporta
questa strategia di targeting molecolare
coinvolge il recettore per il fattore di crescita epidermico (EGFR) che risulta frequentemente iperespresso (per mutazioni
attivanti e/o per amplificazione genica) in
numerosi tumori solidi umani, tra cui quelli del tratto gastroenterico e il tumore del
polmone non-a-piccole cellule.
Gli inibitori dell’EGFR attualmente in
commercio agiscono attraverso due diversi approccio (29):
- il blocco a livello extracellulare del sito
di legame per il ligando sui recettori
Erbb1 (Cetuximab, Panitumumab) e
Erbb2 (Trastuzumab);
- l’utilizzo di piccole molecole di sintesi che competono per il sito di legame
dell’ATP (Gefitinib, Erlotinib).
La risposta al trattamento con anticorpi
monoclinali è associata al numero di copie
del gene (amplificazione genica); la sensibilità al trattamento con Gefitinib è correlata, invece, alla presenza di mutazioni nel
dominio catalitico che determinano modificazioni conformazionali della proteina
che diventa più sensibile al farmaco e non
lega ATP.
14 Medicina Toracica • 4/2009
“Oncogenic addiction”:
il tallone d’Achille del cancro
Dalla scoperta degli oncogeni, avvenuta
circa 20 anni or sono, ad oggi sono stati
identificati circa 100 oncogeni e almeno 15
geni oncosoppressori. Si deve inoltre sottolineare che, nonostante essi siano in grado di determinare il destino di una cellula,
il loro ruolo spesso dipende dal tipo di cellula in cui sono espressi: così la maggiore
espressione di un oncogene può indurre la
crescita in un dato tipo di cellula e inibirla
o indurre l’apoptosi in un altro. Su questa
base molta parte della ricerca scientifica è
stata indirizzata a valutare quanto l’attivazione di un oncogene che è cruciale per lo
sviluppo iniziale di un dato tumore sia importante per il mantenimento del fenotipo
maligno del tumore stesso.
Il termine “oncogenic addiction” è stato
coniato da Weinstein nel 2002 (30) per descrivere il fenomeno per cui una cellula tumorale, nonostante le molteplici alterazioni a livello genetico, diventi, per la propria
sopravvivenza e proliferazione, completamente dipendente da un solo pathway derivato dalla attivazione di un determinato
oncogene. Iniziali studi in ambito ematologico hanno consentito di definire che le
cellule cancerose sono spesso dipendenti
(addicted to) dalla costitutiva attivazione
o sovra-espressione di un oncogene per il
mantenimento del loro fenotipo: è stato dimostrato che topi transgenici caratterizzati da una sovraespressione dell’oncogene
myc nelle cellule del sistema ematopoietico sviluppavano, come atteso, neoplasie
ematologiche ed in particolare leucemie
acute mieloidi; quando però il gene veniva
“silenziato”, le cellule leucemiche mostravano un arresto della proliferazione ed attivavano, invece, il programma di apoptosi.
Dati simili sono stati ottenuti silenziando
l’espressione di Bcr-Abl in topi leucemici
che sopravvivevano dopo la procedura.
Questi riscontri sono stati alla base dello
sviluppo di trial clinici basati sull’utilizzo
di Imatinib in pazienti affetti da leucemia
mieloide cronica. Dati più recenti supportano l’evidenza che lo stesso meccanismo
sia frequentemente coinvolto nella progressione di molti tumori solidi umani.
EDITORIALE
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
Per quanto riguarda il NSCLC molti dati in
vitro hanno dimostrato come mutazioni di
EGFR promuovono meccanismi di proliferazione aberrante (mediati da altre trasduttori di segnale) così che il tumore stesso diventa dipendente, per la sua sopravvivenza,
da EGFR mutato. È stato dimostrato infatti
che bersagliando EGFR con inibitori chinasici, anticorpi monoclonali e con tecniche di interferenza dell’espressione di RNA
(miRNA o siRNA) si realizza una cessazione del segnale di proliferazione da cui la
cellula tumorale dipende, portando, in ultimo, alla estinzione del clone neoplastico
(31). Le cellule normali e le cellule neoplastiche (che probabilmente dipendono per
la loro proliferazione da segnali tradotti da
altri mediatori) non dipendenti da EGFR
non risultano colpite. I meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno non
sono stati chiariti del tutto: sono stati proposti dei modelli che mettono in evidenza
come nelle cellule neoplastiche si crei uno
sbilanciamento tra segnali pro-apoptosici
e proliferativi definito “shock oncogenico”;
tale modello può spiegare i fenomeni apoptosici che seguono l’inattivazione “acuta”
di un oncogene cruciale per la sopravvivenza del tumore stesso (32).
Dopo l’inibizione acuta di un oncogene
cruciale attraverso l’utilizzo di un farmaco i segnali di proliferazione vengono rapidamente dissipati e prevalgono quelli di
apoptosi. Durante questa finestra di vulnerabilità e sensibilità alla terapia i segnali di
apoptosi inducono la morte cellulare. Un
possibile meccanismo di resistenza alla
terapia è dovuto allo sviluppo di meccanismi di adattamento e di superamento dello
shock oncogenico.
Determinanti genetici
della sensibilità agli
inibitori di EGFR nel NSCLC
Circa il 62% dei tumori del polmone non
a piccole cellule iperesprimono EGFR e
NSCLC: selezione dei pazienti per la terapia anti-EGFR
SELEZIONE POSITIVA
SELEZIONE NEGATIVA
gefitinib-erlotinib
gefitinib-erlotinib
Non fumatori
Sesso femminile
EGFR
Adenocarcinoma (BAC)
ErbB3
Fumatori
Popolazione asiatica
MET amplificato
amplificazione
mutazioni
PM
Attivanti (ex 18-21)
T790M
P13K
RASwt
AKT
BRAF
mTOR
Nu
cle
o
MEK
Risposta cellulare
Trascrizione genica
Figura 2 Criteri clinici e di diagnosi molecolare per la selezione dei pazienti affetti da NSCLC e
candidati alla terapia con piccoli inibitori di EGFR.
Medicina Toracica • 4/2009 15
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
questo dato è correlato a bassi tassi di sopravvivenza. Molto frequentemente l’overespressione è conseguente ad una amplificazione del locus 7p12 (dove è localizzato EGFR); inoltre sono stati dimostrati circuiti di autoattivazione che portano ad una
maggior attività del recettore. Il blocco di
questo circuito di autoattivazione costituisce il razionale dell’utilizzo di anticorpi
anti EGFR nella terapia del NSCLC. Inoltre
sono state identificate mutazioni del dominio cinasico del recettore (esoni18-21) che
inducono cambiamenti nella conformazione terziaria della proteina codificata a
livello del sito di legame dell’ATP. Queste
mutazioni sono presenti in circa il 10% dei
NSCLC nei Paesi Occidentali e in circa il
30-50% nei paesi dell’Estremo Oriente e si
associano per il 50% ad adenocarcinomi
-variante bronchioloalveolare- che insorgono in pazienti di sesso femminile, non
fumatrici. La ridotta affinità del recettore
mutato per l’ATP ne incrementa la sensibilità ai farmaci inibitori che competono
con l’ATP per il legame al sito catalitico
(Figura 2).
Mutazioni somatiche
sensibilizzanti alla
terapia con Erlotinib
e Gefitinib
L’analisi mutazionale di EGFR in NSCLC
ha individuato, in genere, mutazioni attivanti che inducono un’incrementata attività di traduzione del segnale, anche se ciò
non implica direttamente l’attivazione costitutiva del recettore; il recettore può divenire costitutivamente attivo in maniera
ligando-indipendente attraverso l’acquisizione, nel DNA delle cellule neoplastiche,
di una seconda mutazione. L’incidenza di
mutazioni in NSCLC che rispondono alla
terapia con Erlotinib e Gefitinib è di circa
il 77%, mentre nei tumori non responsivi
l’incidenza di mutazioni è di circa il 7%.
Gli esoni 18 e 21 del gene EGFR codificano per il dominio cinasico del recettore e
sono la sede delle più importanti mutazioni
identificate: circa il 45% delle mutazioni di
EGFR nel NSCLC sono costituite da dele16 Medicina Toracica • 4/2009
zioni “in frame” dell’esone 19; un’altra frequente mutazione riguarda la sostituzione
L858R nell’esone 21; peraltro le delezioni
dell’esone 19 si associano ad una migliore risposta alla terapia con inibitori di TK
rispetto alle mutazioni dell’esone 21. Sostituzioni nucleotidiche nell’esone 18 sono
descritte in circa un 5% di casi, così come
inserzioni a livello dell’esone 20 (33).
La presenza di una di queste mutazioni determina una modificazione conformazionale della molecola del recettore a livello
del sito di legame dell’ATP e non ha sostanziali effetti sulla stabilità della proteina; conseguentemente al riposizionamento di questi residui critici si assiste ad una
stabilizzazione della interazione tra ATP e
inibitore che porta ad un incremento del
segnale di traduzione in risposta ad EGF e
dall’altro ad una maggiore sensibilizzazione all’azione del farmaco. L’analisi mutazionale di EGFR nel NSCLC ha permesso
di spiegare la mancata efficacia del Gefitinib nei gliomi, neoplasie in cui è molto
frequente l’iperespressione di EGFR ma è
dovuta prevalentemente ad amplificazione
genica e a riarrangiamenti che coinvolgono il dominio extracellulare e non alterano, invece, sito di legame dell’ATP.
Meccanismi di resistenza primaria
Studi in vitro hanno messo in evidenza che
mutazioni attivanti EGFR, con effetto di
sensibilizzazione alla terapia, promuovono
la crescita cellulare mediata da EGFR attraverso i pathways di segnale di RAS-RAFMEK così che le cellule neoplastiche diventano dipendenti da questa via di segnale
per la loro sopravvivenza. Circa il 15-30% di
NSCLC presenta mutazioni nel codone 12
del gene KRAS. Si può genericamente ipotizzare che le mutazioni di RAS e di EGFR
siano mutualmente esclusive nel NSCLC
e definiscano subsets distinti di tumori in
cui le mutazioni di EGFR appaiono più frequenti nei soggetti non fumatori, mentre le
mutazioni di KRAS si associano prevalentemente a tumori insorti in soggetti fumatori.
L’insorgenza di mutazioni in KRAS è stata
proposta come meccanismo di resistenza
alla terapia con inibitori delle TK in NSCLC
portatori di EGFR wild type (32).
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
Inoltre cellule tumorali sensibili alla terapia con Gefitinib sono caratterizzate da un
rapido decremento della attività di AKT
immediatamente successivo all’inizio del
trattamento: la mancata inattivazione di
AKT configura insensibilità alla terapia.
L’attivazione di AKT è indirettamente regolata dalla fosfatasi PTEN che è di frequente inattivata in diversi tumori umani. Alterazioni genetiche di PTEN sono presenti in
meno del 10% di NSCLC; tuttavia l’assenza
di espressione di PTEN è evidente in almeno il 70% di NSCLC ed è verosimilmente
conseguente ad alterazioni epigenetiche,
quali ad esempio l’ipermetilazione del
promotore di PTEN. In alcune linee cellulari di NSCLC il ripristino della attività di
PTEN correla con la ripresa della sensibilità alla terapia con inibitori di EGFR, suggerendo che PTEN possa modulare in vivo
la sensibilità al trattamento (34).
Meccanismi di resistenza acquisita
In caso di risposta alla terapia con Erlotinib e Gefitinib, la persistenza di tale risposta prima della acquisizione di resistenza
è generalmente breve, circa 6-12 mesi
(solo occasionalmente sono state descritte risposte persistenti per più di 3 anni):
in questi casi la presenza di amplificazione genica e di elevati livelli di aneuploidia
(documentabili con FISH) sembrano essere predittivi di stabilizzazione di malattia
dopo il trattamento (35).
Diversi studi hanno permesso di identificare mutazioni di EGFR che si associano a
ripresa della malattia dopo terapia: la mutazione clinicamente più rilevante è quella
che codifica per la sostituzione aminoacidica T790M; è situata a livello dell’esone 20
e viene identificata in circa il 50% dei casi
come secondo sito di mutazione associato
alla acquisizione di resistenza alla terapia
con Erlotinib e Gefitinib (36, 37). Recentemente è stata identificata un’altra mutazione che codifica per la sostituzione aminoacidica D761Y associata alla insorgenza
di resistenza alla terapia con inibitori TK
in NSCLC portatori della mutazione correlata alla sostituzione L858R (38). Molti
studi hanno dimostrato che la sostituzione
T790M è presente nelle cellule neoplasti-
EDITORIALE
che prima dell’inizio del trattamento: ciò
sembra suggerire che questa mutazione
costituisce una sorta di vantaggio selettivo
per le cellule portatrici una volta esposte
al trattamento.
Strategie terapeutiche alternative
e terapie di combinazione
Lo sviluppo di resistenze alla terapia con
inibitori delle TK determina il continuo sviluppo di strategie alternative di bersaglio di
EGFR: uno dei modelli principali si basa sul
disegno di inibitori in grado di by-passare
l’interferenza sterica al legame del farmaco
determinata dalla sostituzione T790M. A
tale riguardo sembrano promettenti inibitori irreversibili ovvero piccole molecole che
formano legami covalenti con residui cisteinici cruciali nel sito attivo dell’enzima.
Una ulteriore strategia contro la resistenza acquisita derivante da T790M si basa
sull’osservazione che vari mutanti EGFR
spesso sono associati a particolari proteine, le Heat Shock Protein 90 (HSP90).
Questa interazione è inibita in maniera altamente specifica da alcuni farmaci quali
ad esempio la Geldanamicina, con conseguente distruzione dei cloni mutanti resistenti agli inibitori di EGFR che vengono
indotti alla apoptosi (39).
Studi molto recenti hanno dimostrato che
l’amplificazione dell’oncogene MET (recettore di HGF) si associa a resistenza
alla terapia con Gefitinib ed Erlotinib sia
in linee cellulari di NSCLC sia in campioni
bioptici di NSCLC divenuti resistenti alla
terapia: ciò è verosimilmente dovuto alla
attivazione da parte di MET del pathway
di segnale Erbb3/PI3K (40). Questi dati costituiscono un primo esempio di resistenza acquisita attraverso un meccanismo,
l’amplificazione genica di una cinasi, che
non è direttamente coinvolta nel pathway
di segnale di EGFR. La terapia di combinazione con inibitori di MET potrebbe essere
presa in considerazione in associazione
agli inibitori di EGFR per i pazienti divenuti resistenti alla terapia con Gefitinib ed
Erlotinib (41, 42).
Il pathway di traduzione del segnale di
EGFR interviene nella regolazione di due
attività fondamentali della cellula:
Medicina Toracica • 4/2009 17
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
- la sopravvivenza (segnale mediato da
PI3K- mTor, Akt e da JAK-STAT);
- la proliferazione (segnale mediato da
RAS-BRAF, ERK).
Questa considerazione è alla base del
tentativo di associare nello schema terapeutico farmaci attivi su diversi livelli del
segnale cellulare. Studi pre-clinici e clinici con inibitori di PI3K in linee cellulari
NSCLC hanno evidenziato un possibile
incremento della sensibilità al trattamento
con Gefitinib. Gli inibitori di mTOR (a valle di PI3K) - Rapamicina e analoghi - hanno mostrato una attività sinergica quando
associati agli inibitori di EGFR in vitro e,
attualmente, sono in corso i primi studi
di fase I di combinazione tra Gefitinib ed
Erlotinib e Sirolimus ed Everolimus; nonostante i favorevoli risultati pre-clinici, la
monoterapia con inibitori di mTOR non ha
mostrato vantaggi significativi in trials clinici: è possibile che l’inibizione di mTOR
porti alla attivazione di PI3K e alla attivazione -per feedback positivo- del segnale
di sopravvivenza mediato da AKT (43, 44).
Per quanto riguarda l’inibizione del pathway mediato da RAS, nonostante le mutazioni di RAS non sembrano coesistere
con quelle di EGFR, l’inibizione di RASBRAF in associazione a EGFR potrebbe
mostrare effetti additivi. Attualmente
sono in corso studi di fase II che valutano
l’utilizzo dell’inibitore di MEK PD-3225901
in NSCLC in stadio avanzato. Tuttavia
l’attivazione del pathway di segnale RASMAPK non è correlata in modo così diretto
alla risposta agli inibitori di EGFR come la
via di segnale mediata da PI3K-AKT (45).
Ulteriori approcci terapeutici prevedono
il target contemporaneo di più bersagli
molecolari e quelli che hanno mostrato
i risultati più promettenti prevedono di
colpire non solo il tumore ma anche la
componente stromale. La componente
vascolare è particolarmente importante
sotto questo profilo e ciò ha condotto allo
sviluppo di inibitori in grado di bloccare
EGFR e Erbb2 e il recettore di VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor), FLT1
(fms-like TK1) e KDR (Kinase Domain
Region); coerentemente hanno mostrato
risultati incoraggianti i primi studi pre18 Medicina Toracica • 4/2009
clinici che utilizzano l’inibitore di EGFR e
VEGFR in linee cellulari resistenti al solo
Gefitinib (46, 47).
Conclusioni
L’esperienza del trattamento del NSCLC
con gli inibitori delle TK ha dimostrato
che:
1) i recettori delle TK costituiscono un
buon target terapeutico nei tumori di
origine epiteliale;
2) questo tipo di terapia è efficace in piccoli subset di pazienti e che l’analisi
mutazionale dei recettori può essere
utilizzata per l’identificazione dei pazienti suscettibili:
3) la resistenza acquisita alla terapia limita in modo importante l’utilizzo di questi farmaci e lo sviluppo di strategie in
grado di controllarne i meccanismi costituisce uno dei maggiori determinanti
della ricerca in farmacogenomica.
A fronte di questi aspetti, è importante sottolineare alcuni implicazioni rilevanti.
In primo luogo appare evidente che la classificazione anatomopatologica convenzionale del NSCLC - pur fondamentale per la
stadiazione della malattia e per l’impostazione della terapia - è insufficiente per un
approccio clinico e terapeutico selettivo e
individualizzato, in grado cioè di garantire benefici al paziente. Il carcinoma broncogeno è una patologia complessa sia dal
punto di vista istopatologico che molecolare e la schematizzazione con cui viene inquadrato, se da un lato si è resa necessaria
per una uniformità di gestione della malattia, dall’altro è ragionevolmente troppo
semplicistica e pertanto, non consente
l’impostazione di trattamenti realmente
tailored per ciascun paziente. Inoltre è
importante sottolineare che non solo esistono variazioni del profilo molecolare tra
pazienti affetti dallo stesso tipo istologico
di tumore, ma che tale eterogeneità può riflettersi a livello molecolare in un singolo
tumore. È infatti dimostrata la possibilità
di coesistenza nella stessa massa tumorale
di distinte subpopolazioni clonali fenotipicamente differenti, portatrici di lesioni
Carcinoma broncogeno e terapia target: esperienze, lezioni e strategie
molecolari diverse e differenziate a partire
da multipli cloni cellulari trasformati (48).
Queste considerazioni dimostrano come il
trattamento realmente targeted del NSCLC
sia complesso e richieda ancora molti
sforzi in campo scientifico. Un altro punto rilevante nell’ambito della eterogeneità
della massa tumorale è dato dalla struttura gerarchica che regola la proliferazione
neoplastica. È dimostrato, infatti, che la
maggior parte delle cellule differenziate in
senso neoplastico conserva una capacità
proliferativa relativamente limitata. Solo
le cellule inizianti il tumore, note come
Cancer Stem Cells (CSCs) possiedono le
proprietà di auto-mantenimento e rigenerazione. Le CSCs non sono suscettibili ai
trattamenti chemio e radioterapici e sono
verosimilmente responsabili della insorgenza di recidive anche dopo la riduzione
della massa neoplastica da parte dei trattamenti impostati. Le cellule staminali del
cancro sono per definizione quiescenti
(basso tasso di proliferazione) e presentano un fenotipo not-oncogene-addicted: per
queste ragioni sono insensibili sia alla chemioterapia convenzionale che, probabilmente, alle attuali targeted therapies. Non
è ancora stato possibile documentare se le
CSCs esprimano le stesse lesioni molecolari delle cellule neoplastiche che da esse
derivano e come sviluppare farmaci mirati
a colpire queste cellule rappresenta una
tra le sfide più attuali e impegnative della oncologia molecolare. Recentemente il
gruppo di De Maria (49)ha isolato CSCs da
carcinoma broncogeno: (SCLC e NSCLC).
Queste cellule putative staminali del cancro del polmone sono una minuscola frazione di cellule indifferenziate che esprimono il marcatore CD133 (un antigene
presente nella membrana delle cellule staminali normali e neoplastiche della linea
ematopoietica, neurale, endoteliale ed epiteliale). Le cellule CD133+ isolate da carcinoma broncogeno sono in grado di proliferare indefinitamente e di crescere come
sfere in terreni privi di siero. Una volta
differenziate queste cellule acquisiscono i
marcatori propri di ciascun istotipo e contemporaneamente, perdono l’espressione
di CD133 e le proprietà tumorigeniche.
EDITORIALE
Un ulteriore elemento rilevante nel determinare l’eterogeneità della lesione neoplastica è data dalle lesioni secondarie che da
essa derivano, ma che possono presentare caratteri molto diversi dal tumore primitivo. Le metastasi - che rappresentano
la causa principale di morte nei pazienti
neoplastici - derivano dalla attivazione di
processi biologici che istruiscono la cellula neoplastica a staccarsi dalla massa
primitiva, migrare attraverso i tessuti, raggiungere la circolazione vasale o linfatica
e, infine, colonizzare organi secondari. In
tutti questi processi la cellula metastatica sopravvive alla apoptosi che dovrebbe
essere invece indotta dal fatto di trovarsi in ambienti non appropriati (ανοκις)
(50). Bisogna peraltro sottolineare che la
sequenza cronologica della progressione neoplastica, secondo la quale l’insorgenza delle metastasi segue la crescita e
lo sviluppo di una massa primaria, non è
sempre rispettata: non tutti i tumori sono
metastatici, così come è possibile che le
metastasi si sviluppino in una fase ancora
precoce dell’onset tumorale.
Ad oggi non sono definiti quali marcatori
genetici siano coinvolti nel processo di
selezione della cellula metastatica e nella
promozione della capacità di invasione e
di resistenza all’anoikis. È stato anche ipotizzato che queste cellule possano derivare
e differenziare direttamente dalle CSCs attraverso processi biologici relativamente
indipendenti da quelli che guidano lo sviluppo della massa primitiva. È possibile
che il processo di metastatizzazione non
sia originato dalla attivazione di oncogeni specifici ma derivi dalla attuazione, in
cellule trasformate, di programmi che mediano la migrazione anche in condizioni fisiologiche (51). In altre parole è verosimile
che le cellule tumorali selezionate per la
metastatizzazione a distanza esprimano
marcatori di attivazione oncogenica propri che conducono all’attivazione inappropriata di fisiologici processi di motilità ed
invasione; conseguentemente i marcatori
genetici individuati nella lesione primaria
possano non essere presenti a livello delle
lesioni secondarie e pertanto possono non
aver valore predittivo e prognostico relatiMedicina Toracica • 4/2009 19
EDITORIALE n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
vamente alle lesioni secondarie. Su questa
base è possibile quindi che il pattern di
alterazioni molecolari presenti nelle metastasi sia indipendente rispetto all’organo
sede del tumore primario e che pertanto
non sia possibile identificare targets propri delle metastasi originate da carcinoma
broncogeno.
In conclusione, se da un lato l’oncologia
predittiva rappresenta un approccio nuovo e promettente alla patologia neoplastica, dall’altro non può prescindere da
alcuni punti fondamentali. In primo luogo
il disegno di trials clinici mirati a valutare
la risposta alla terapia targeted deve essere basato sulla identificazione preliminare
del target molecolare stesso, ovvero della
presenza nel singolo tumore della determinata lesione genetica che è l’effettivo ber-
saglio del farmaco in studio. Inoltre l’eterogeneità delle cellule che costituiscono
la massa neoplastica fornisce il razionale
per quella che è stata definita “Orthogonal
Cancer Therapy ” (52): la moderna terapia
oncologica deve essere interpretata come
un filtro che rimuove una sottopopolazione di cellule trasformate sensibile alla terapia stessa, ma lascia inalterate le altre cellule. Il meccanismo per cui alcune cellule
non sono sensibili al trattamento è dovuto
alla presenza di resistenza primaria o alla
acquisizione di mutazioni in oncogeni e/o
geni oncosoppressori (resistenza secondaria). Solo combinando in modo ortogonale
più farmaci (filtri) si può realmente minimizzare il rischio di resistenza o di ripresa
di malattia.
RIASSUNTO
È ormai ampiamente dimostrato che il cancro è una malattia genetica, nella maggior parte dei casi
somatica: su questo concetto si è sviluppata la ricerca traslazionale e si sono basano i più recenti approcci
di terapia mirata. La correlazione tra presenza di lesioni molecolari e risposta a terapie mirate costituisce
il punto fondamentale della terapia antineoplastica individualizzata. Tuttavia, come è stato rilevato dai
primi studi sugli inibitori dei recettori delle tirosin-cinasi, la terapia target è efficace realmente solo in un
ristretto subset di pazienti. Questi ultimi presentano lesioni tumorali le cui cellule sono dipendenti per
la propria sopravvivenza dalla aberrante attivazione del recettore stesso bersaglio del farmaco target.
Appare pertanto rilevante come la selezione dei pazienti affetti da cancro basata sulla diagnosi molecolare
rappresenti una promettente strategia per una terapia realmente efficace. Sono, di seguito, discusse le
esperienze relative alla terapia mirata del carcinoma broncogeno, principale causa di morte per tumore
solido umano: particolare rilevanza è riservata alle strategie di inibizione dei recettori del fattore di
crescita epidermico che, ad oggi, rappresentano il più importante bersaglio terapeutico.
Parole chiave: bersaglio tumorale, biomarcatore, diagnosi molecolare.
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dossier
ipertensione polmonare
e malattie respiratorie
Nella pratica clinica, ancora attualmente, gode di notevole popolarità l’uso del
termine “cuore polmonare” per indicare
una condizione che nel 1963 gli esperti
nominati dal WHO hanno definito come
“ipertrofia del ventricolo destro risultante
da malattie causanti la compromissione
anatomica e/o funzionale dei polmoni”;
dal punto di vista clinico però tale definizione anatomica assume scarsa rilevanza,
poichè non accenna al fatto che conditio
sine qua non per il suo instaurarsi risulta,
a complicare l’esistenza di malattie polmonari, la ipertensione del circolo polmonare
(PH), a sua volta responsabile dell’ipertrofia del ventricolo destro ed a lungo andare
della sua insufficienza.
La classificazione attuale delle condizioni di ipertensione del circolo polmonare
raccoglie nel terzo gruppo quelle che si
accompagnano alle malattie primitive del
polmone ed in particolare quelle responsabili, tra esse, di indurre una cronica ipossiemia; sostanzialmente possono essere a
loro volta distinte in:
- malattie comportanti ostruzione al flusso aereo, quale la BPCO;
- malattie caratterizzate da una sindrome
disventilatoria restrittiva, quale la fibrosi interstiziale idiomatica;
- malattie con sostanziale normalità della
meccanica toraco-polmonare ma con alterati scambi gassosi da difetto del drive
respiratorio, come li disturbi respiratori
durante il sonno.
In un quinto gruppo, si annoverano invece
malattie sistemiche che prevedono peraltro la PH con meccanismi differenti, non
correlabili con la sola ipossiemia; trattasi
ad esempio di Sarcoidosi, di Istiocitosi a
cellule di Langerhans e di Linfangioleiomiomatosi (LAM) (Tabella 1).
Ernesto Pozzi
Francesca Mariani
Zamir Kadija
Elena Paracchini
Giulia Stella
Clinica di Malattie
dell’Apparato
Respiratorio,
Università di Pavia,
IRCCS Fondazione
Policlinico
San Matteo
ABSTRACT
Pulmonary hypertension due to lung diseases
Pulmonary hypertension is a well-recognized complication of several lung diseases. The 4th World
Symposium on Pulmonary Hypertension (Dana Point, 2008) classified these conditions under the
heading “pulmonary hypertension due to lung diseases and/or hypoxiaemia”.
Besides pulmonary hypertension may be associated to a series of systemic disorders that mainly affect
lungs (“pulmonary hypertension with unclear and/or multifactorial mechanisms”).
Although alveolar hypoxia plays a key role in determining the hypertensive response, it must be take
in consideration that, in each lung disorder, specific mechanisms cooperate to the onset of pulmonary
hypertension.
Here we discuss diagnosis, clinical and anatomo-pathological features and therapeutical approach
of pulmonary hypertension related to the most relevant lung diseases of which it is often a relevant
complication.
Key words: pulmonary artery pressure, hypoxiaemia, venocclusive disease, vascular remodelling.
MedicinaToracica•4/2009 23
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
Tabella 1 Update della classificazione clinica dell’ipertensione polmonare (modificata da: 4th World Symposium on Pulmonary Hypertension,
Dana Point, 2008).
1. Ipertensione arteriosa polmonare
1.1 Idiopatica
1.2 Ereditaria
1.2.1 BMPR2
1.2.2 ALK1, endoglina (più o meno associata ad atassia
teleangiectasia ereditaria)
1.2.3 Origine sconosciuta
1.3 Indotta da farmaci e tossine
1.4 Associata a: connettivi sistemiche, infezioni da HIV, ipertensione
portale, malattie cardiache congenite, schistosomiasi, anemia
emolitica cronica
1.5 Ipertensione arteriosa persistente del neonato
1’. Malattia venocclusiva polmonare e/o emangiomatosi
polmonare capillare
2. Ipertensione polmonare conseguente a patologie del cuore
destro
2.1 Disfunzioni sistoliche
2.2 Disfunzioni diastoliche
2.3 Degenerazioni valvolari
3. Ipertensione polmonare conseguente a patologie polmonari
e/o ipossiemia
3.1 Sindromi ostruttive (BPCO)
3.2 Sindromi restrittive (ipf)
3.3 Altre condizioni con alterazioni miste ostruttive e restrittive
3.4 Sindrome delle apnee ostruttive
3.5 Disordini determinanti ipoventilazione alveolare
3.6 Esposizione cronica ad elevate altitudini
3.7 Anomalie dello sviluppo
4. Ipertensione polmonare associata a tromboembolia cronica
5. Ipertensione polmonare conseguente a meccanismi non
definiti e/o multifattoriali
5.1 Malattie ematologiche: disordini mieloproliferativi, splenectomia
5.2 Malattie sistemiche, sarcoidosi, linfangioleiomiomatosi, istocitosi a
cellule di Langherans, neutrofibromatosi, vasculiti
5.3 Disordini metabolici: alterazioni del metabolismo del glicogeno,
malattia di Gaucher, disordine della tiroide
5.4 Altre cause: ostruzione da neoformazioni, mediastinite fibrosante,
insufficienza renale cronica in trattamento dialitico
ALK-1: activin receptor-like kinase 1 gene; BMPR2: bone morphogenetic protein
receptor 2.
È accertato che nei soggetti giovani e sani,
la pressione media in arteria polmonare
si colloca su valori compresi tra i 10 ed i
15 mmHg, con un aumento medio di circa
1 mmHg ogni 10 anni; nell’anziano tuttavia una pressione media (mPAP) a riposo
>20 mmHg viene già ritenuta patologica.
Si definisce quindi ipertensione polmonare la condizione caratterizzata da valori di
pressione media in arteria polmonare >20
mmHg a riposo, >30 mmHg sotto sforzo,
con un’area a significato ancora incerto
rappresentata dalle pressioni comprese
tra i 20 ed i 25 mmHg.
24 Medicina Toracica • 4/2009
IPERTENSIONE
POLMONARE ASSOCIATA
ALLE PATOLOGIE
OSTRUTTIVE
Ipertensione polmonare e BPCO
La BPCO rappresenta nel mondo una tra
le maggiori cause di morbilità e mortalità, con una prevalenza che nei prossimi
anni si prevede addirittura in aumento. Da
oltre 20 anni è noto che i soggetti affetti
da BPCO in fase avanzata, vale a dire con
FEV1 <50% del predetto e PaO2 <55 mmHg,
sviluppano ipertensione polmonare (PH)
ed il conseguente cuore polmonare (principale causa di morte di tali malati) insieme alla condizione di insufficienza respiratoria (1).
Nei soggetti BPCO si considerano valori
abnormi in arteria polmonare quelli medi
superiori, a riposo, a 20 mmHg ed in genere tale condizione è preceduta da un anormale aumento della PAP media durante
l’esercizio fisico, con valori superiori a
30 mmHg. L’ipertensione polmonare nella
BPCO è la risultante dell’aumento delle resistenze vascolari polmonari (PVR), mentre si conservano normali l’output cardiaco e la pressione capillare (PCWP).
I fattori responsabili dell’aumento delle
PVR sono ritenuti sostanzialmente l’ipossia alveolare cronica ed il sovvertimento
della morfologia del parenchima polmonare, in particolare, la perdita di capillari
polmonari indotta dall’enfisema. È dimostrato che l’ipossia alveolare si ripercuote
sui vasi polmonari con differente meccanismo a seconda che essa si avveri in acuto o
cronicamente. Nel primo caso, infatti, essa
comporta solo vasocostrizione, nel secondo anche la modifica della struttura vascolare, condizione che viene comunemente
definita come rimodellamento vascolare.
Nella maggior parte dei casi di soggetti affetti da BPCO l’ipertensione polmonare risulta di grado lieve o moderato, ma in una
minoranza di soggetti, tra l’altro non affetti da ostruzione significativa, essa può raggiungere valori decisamente patologici,
per questo definita come “PH sproporzionata”, causa di una rapida compromissione del cuore destro e di morte.
dossier
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
Epidemiologia ed impatto
prognostico
La prevalenza della PH in corso di BPCO
non è stata mai correttamente accertata,
a ragione del limitato numero di soggetti
che, soprattutto per ragioni etiche, vengono sottoposti a cateterismo cardiaco destro nelle fasi meno avanzate della malattia e l’imprecisione delle risultanze della
sola ecocardiografia doppler; l’Autore che
maggiori attenzioni ha dedicato all’argomento ha individuato, in una coorte di malati con rapporto FEV1/VC del 40%, la presenza di PH (PAP >20 mmHg) nel 35% dei
casi (2). In 215 BPCO candidati alla riduzione di volume polmonare od a trapianto di polmone, la condizione di PH lieve
(PAP 26-35 mmHg), moderata (PAP 36-45
mmHg) o grave (PAP >45 mmHg) è stata
documentata rispettivamente nel 36.7, nel
9.8 e nel 3.7% dei casi (3).
Va infine fatto rilevare che può incidere
sulle risultanze della pressione arteriosa
polmonare dei soggetti BPCO la coesistenza di comorbilità quali le cardiopatie
ischemiche, le cardiomiopatie ipertensive,
la insufficienza cardiaca cronica, l’impatto sulla funzione respiratoria dell’obesità
ecc. È stato osservato da tempo che, a parità di ostruzione al flusso aereo, i soggetti con ipertensione arteriosa polmonare
presentano una più ridotta aspettativa di
vita, e che l’ossigeno-terapia domiciliare cronica migliora la sopravvivenza dei
soggetti ipossiemici in conseguenza del
miglioramento indotto sulla emodinamica
polmonare.
Anatomia patologica
Concorrono alla realizzazione della condizione di PH in corso di BPCO tre fattori: il
remodelling dei vasi, la riduzione del numero totale dei vasi stessi e la microtrombosi polmonare.
Il remodelling consiste nella muscolarizzazione dei piccoli vasi arteriosi precapillari (<80 μm di diametro) e nella sua estensione in periferia sino ai vasi di diametro
<20 μm, ed è dovuto alla trasformazione
in fibre muscolari dei periciti, cellule contrattili presenti nella parete dei vasi precapillari non muscolari. La muscolarizza-
zione si rende evidente anche nelle venule
post-capillari, dove peraltro prevalgono
fenomeni di accrescimento della matrice
extracellulare. Nelle arteriole di diametro
maggiore (80-1.000 μm di diametro) è evidente inoltre l’ispessimento della media
(4, 5). Concorre al remodelling anche l’accrescimento dell’intima, evidente nei vasi
arteriosi muscolari e nelle arteriole, con
particolare frequenza nei soggetti in fase
avanzata della malattia; non si apprezzano
invece nei BPCO con PH le lesioni plessiformi ed angiomatoidi tipiche delle forme
di PH idiopatiche.
Le lesioni vascolari non risultano comunque appannaggio delle sole fasi avanzate
della malattia ostruttiva, poiché sono state
rilevate anche in fase precoce e addirittura
nei soggetti fumatori con ancora normale
funzione polmonare (6).
Fisiopatologia
La pressione media in arteria polmonare
è la risultante della pressione di occlusione (pressione capillare, PC) sommata al
prodotto dell’output cardiaco (CO) per la
resistenza vascolare polmonare (PVR), secondo la seguente formula:
PAP = PC + (CO x PVR)
Nel caso dell’ipertensione arteriosa dei
BPCO si è dimostrato che il fattore responsabile del disturbo emodinamico polmonare risulta l’aumento delle resistenze
(PVR>12 mmHg), correlate inoltre sotto
sforzo alla condizione di iperinflazione
dinamica polmonare propria della BPCO
(7). Nella sua genesi un ruolo determinante è giocato da:
a) vasocostrizione vascolare dipendente
dalla ipossia alveolare cronica;
b) riduzione del letto capillare, come si
deduce dal fatto che le PVR e la PAP
correlano con i valori di DL,CO;
c) remodelling dei vasi, esito dell’infiammazione degli stessi.
Depone a favore della infiammazione e nel
condizionare il remodelling il fatto che il
numero delle cellule infiammatorie che infiltrano la parete dei vasi arteriosi correla
con l’ispessimento della media e la disfunMedicina Toracica • 4/2009 25
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
zione dell’intima, che la PAP correla con
la PCR e le citochine proinfiammatorie
ematiche quali la IL-6 ed il MCP-1 (8). Certamente il fattore più importante nel determinare l’aumento della PAP nel BPCO
è l’ipossia alveolare cronica, in grado di
indurre la vasocostrizione dei vasi di resistenza (diametro <500 μm), in conseguenza dell’accumulo nelle cellule muscolari di
Ca++ endocellulare, tramite l’intervento di
canali del potassio e lo squilibrio dei mediatori di derivazione endoteliale. L’ipossia cronica induce, infatti, l’aumento di
sintesi e di rilascio da parte delle cellule
endoteliali di endotelina (ET), che amplifica a sua volta gli effetti sui canali voltaggio-dipendenti del potassio (K+), e riduce
la sintesi di potenti mediatori della vasodilatazione quali NO e prostacicline (9).
PH e BPCO
Il controllo per 7+3 anni della dinamica vascolare polmonare di un gruppo di BPCO
ha dimostrato che la condizione di PH inizia a manifestarsi in tali soggetti solo sotto
sforzo e durante il sonno, che a riposo la
PAP risulta normale se la malattia non si
accompagna a spiccata ipossiemia, che la
PAP a riposo si incrementa di 0.4 mmHg/
anno, che il suo aumento infine correla
con l’entità della riduzione della ossiemia
(10).
Nelle fasi avanzate della BPCO, pur in presenza di pressioni polmonari normali o
solo modicamente aumentate, anche sotto
sforzo moderato (30-40 W) si verifica un significativo aumento delle pressioni stesse,
per la mancata riduzione delle resistenze
polmonari, effetto che, invece, in analoghe
circostanze è proprio dei soggetti normali. È stato stimato infatti che il raddoppio
dell’output cardiaco indotto dall’esercizio
comporta nei BPCO l’aumento di circa il
100% della PAP.
Alcuni soggetti BPCO normossiemici o
modestamente ipossiemici durante il giorno possono sviluppare nel sonno spiccata
ipossiemia, secondaria alla ipoventilazione alveolare che si realizza in particolare
nella fase REM del sonno stesso; la crisi
ipossiemiche transitorie coincidono peraltro con l’elevazione pure transitoria della
26 Medicina Toracica • 4/2009
PAP, preludio della PH permanente (11).
Un ulteriore fattore condizionante in corso di BPCO l’incremento della PAP è dovuto agli episodi di riacutizzazione infettiva,
questi ultimi a loro volta favoriti dall’esistenza della PH.
Nelle BPCO con ostruzione moderata/
severa ma senza ipossiemia, a riposo, la
funzione ventricolare destra si mantiene
a lungo normale, a differenza di quanto si
avvera nelle fasi avanzate della malattia,
nelle quali il 60% circa dei soggetti presenta la compromissione della frazione
di eiezione; l’entità della compromissione
funzionale, che pure correla con il livello
della PAP e della PaO2, sembra peraltro
condizionata da variabili ancora non completamente definite.
L’ipertensione polmonare
“sproporzionata”
È già stato ricordato come in corso di
BPCO la PH rilevata sia in genere modesta; al contrario una minoranza di casi
si caratterizza per valori di PAP >35-40
mmHg. Trattasi di soggetti con ostruzione al flusso aereo lieve/moderato, ma con
spiccata ipossiemia, ipocapnia e notevole
riduzione della DLCO (12). L’ipossiemia in
questi casi non sembra quindi attribuibile
alla ipoventilazione alveolare secondaria
alla ostruzione, bensì alla spiccata alterazione del rapporto ventilo/perfusorio,
forse anche allo sviluppo di shunt destrosinistro.
Non vanno confusi con questi soggetti invece i casi in cui la PAP particolarmente
elevata trova giustificazione con l’esistenza di compromissioni del cuore sinistro,
eventi tromboembolici cronici, l’associazione di condizioni restrittive polmonari
quali la grande obesità con OSAS e la associazione all’enfisema della fibrosi interstiziale.
Clinica della PH in BPCO
La dispnea e la stanchezza tipicamente
appannaggio del soggetto con BPCO non
appaiono aggravate dal sovrapporsi della
condizione di PH; al contrario nei BPCO
con PH sproporzionata la dispnea da sforzo si presenta in maniera decisamente più
dossier
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
grave rispetto ai casi con ostruzione più
accentuata ma con PAP minore.
I segni fisici della PH non sono evidenti
come nelle forme di PH idiopatica (murmure pansistolico da rigurgito tricuspidalico, componente polmonare del secondo
tono), e tardivo è lo sviluppo dei segni di
insufficienza del cuore destro. L’ECG può
mostrare i segni dell’ipertrofia ventricolare destra, peraltro non sinonimo della
presenza di PH, data la buona specificità
(>85%) ma la bassa sensibilità (~40%), specie nelle forme di PH lieve.
Mentre le risultanze delle prove funzionali
respiratorie assumono un valore determinante nella diagnosi di BPCO, nessun apporto possono invece offrire alla diagnosi
di PH, non avendo essa sostanziali riverberi sulla meccanica polmonare.
Quanto all’emogasanalisi arteriosa, anche
i valori di PaO2 non concorrono significa-
tivamente all’accertamento della PH, poiché si è dimostrato che l’ipossiemia giustifica solo il 25% delle variazioni di PAP
(13).
L’Ecocardiografia transtoracica doppler
(TTED), che ricava la pressione sistolica
in arteria polmonare dalla velocità del rigurgito tricuspidalico, rimane il miglior
metodo non invasivo per la dimostrazione
dell’esistenza della HP; peraltro è dimostrato che rispetto ai valori ottenibili con
il cateterismo cardiaco destro l’ecocardio
stima i valori con un differenziale anche di
10 mmHg, valori non trascurabili se si considera che la PH in gran parte dei BPCO
è relativamente bassa (PAP <35 mmHg)
(14). In aggiunta, in questi soggetti la condizione di iperinflazione polmonare rende
inefficace la metodica in circa il 50% dei
casi. D’altra parte, la maggior accuratezza
di valutazione consentita dal cateterismo
Sospetto di PH se 2 o più:
•
•
•
•
•
•
•
•
Adeguato, cuore
normale, RVSP <40:
PH improbabile
Dispnea di grado 3-5 MRC
Segni di PH, insufficienza CD
Allargamento di AP alla TC
Segni ECG di CD
DLCO<50% predetto
<300 m al 6-MWT
Desaturazione da sforzo
BNP o pro-BNP >2 x UI
si
Indagine inadeguata,
RVSP 40-50:
PH possibile
Considerare RDC
CD dilatato + RSVP >50:
PH possibile
Escludere TEP cronica.
Considerare CS. OSAS?
no
PH improbabile
Monitorare la
malattia respiratoria
Escludere altre
cause di PH;
ottimizzare terapia
malattie respiratorie
no
Monitorare
con TTED
mPAP ≥25 mmHg+
PAWP ≤15?
no
No PH o
PH da CS
Screening TTED
si
No PH.
Malattia respiratoria
certa
si
Indicazione per RDC
• Se necessaria terapia
specifica
• Verificare CS
• Prescrivere OLT se
PaO2 56-60 mmHg
• Preoperatorio di:
- trapianto polmonare
LVR
- chirurgia maggiore
Figura 1 Diagnosi di PH in corso di malattie respiratorie croniche. PH: ipertensione polmonare;
CD: cuore destro; CS: cuore sinistro; A: arteria polmonare; TTED: Ecocardiografia transtoracica
doppler; TEP: tromboembolia polmonare; RVSP: resistenze vascolari polmonari; PAWP: wedge
pressione arteria polmonare; RDC: cateterismo cardiaco destro.
Medicina Toracica • 4/2009 27
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
cardiaco nulla aggiunge ai riflessi terapeutici. Può infine far sospettare l’esistenza
della PH in corso di BPCO il riscontro nel
siero di valori patologici del BNP, che sappiamo essere dimesso in corso di stretch
delle cavità cardiache.
Per la diagnosi di PH il gold standard rimane quindi il cateterismo cardiaco destro,
tecnica peraltro invasiva, non scevra di
rischi di complicanze, consigliabile quindi
nel BPCO solo nei casi destinati alla LVR o
al trapianto di polmone (Figura 1).
Terapia
La terapia della PH in corso di BPCO si
basa essenzialmente sull’impiego dell’ossigeno, con flusso di 1 L/min per almeno
18 ore/die, la cui utilità è stata da tempo
confermata negli studi NOTT (Nocturnal
Oxygen Therapy Trial) del 1980 e del
MRC (Medical Research Council) del 1981
(15, 16). Sul piano emodinamico, infatti, rispetto ad un aumento medio annuo di 1.5
mmHg nei soggetti non trattati, quelli in
OLT hanno presentato una riduzione della
PAP di 2.1 mmHg/anno. L’ossigenoterapia
può essere limitata al solo periodo notturno nei soggetti BPCO sofferenti anche di
crisi ipossiemiche associate al sonno.
La terapia della PH ha beneficiato in questi ultimi anni dell’impiego di vasodilatatori molto efficaci, quali i derivati delle
prostacicline, gli antagonisti recettoriali
dell’endotelina, gli inibitori della fosfodiesterasi-5; tali farmaci non trovano però
alcuna indicazione in corso di PH dei
BPCO, dove al contrario possono indurre
peggioramenti degli scambi gassosi per
aggravamento degli squilibri ventilo/perfusori. Analoghi risultati negativi si sono
documentati con l’impiego dei calcio-antagonisti (17, 18).
Nei BPCO con PH severa viene sconsigliato nel modo più assoluto l’intervento
di riduzione del volume polmonare (Lung
Volume Reduction-LVR), poichè può indurre un peggioramento della condizione
ipertensiva conseguente alla riduzione del
letto vascolare polmonare; nei BPCO con
spiccata PH, di età <65 anni, è invece indicato il trapianto di polmone, in particolare
del doppio polmone, per evitare quanto si
28 Medicina Toracica • 4/2009
verifica in questi casi con il trapianto singolo, dove la ventilazione predilige il polmone nativo con alta compliance, mentre
la perfusione predilige il polmone trapiantato a più bassa resistenza vascolare.
IPERTENSIONE
POLMONARE ASSOCIATA
ALLE INTERSTIZIOPATIE
Ipertertensione polmonare e fibrosi
polmonare idiopatica (IPF)
È ormai acquisito da tempo che la severità
della IPF ed il suo progressivo deterioramento funzionale non correlano in modo
stretto con la sua prognosi, che appare
piuttosto condizionata in modo determinante dalla coesistenza di una eventuale
PH, evenienza che può interessare dal 31
all’80% dei casi; alcune volte, essa complica le forme di malattia più avanzate, altre
invece quadri ben più modesti, nei quali
quindi è lecito parlare di PH sproporzionata.
Dal punto di vista clinico lo sviluppo di PH
comporta dispnea, affaticamento e limitazione dell’attività fisica, che sono pure
disturbi tipici della IPF; di conseguenza,
in queste circostanze la coesistenza di PH
viene sospettata solo quando si rendono
evidenti i segni della insufficienza ventricolare destra.
Gli accertamenti della condizione emodinamica polmonare in corso di IPF sono
stati condotti con particolare frequenza
nelle fasi avanzate della malattia ed in
particolare nei soggetti proposti per il trapianto di polmone, categoria nella quale al
momento del trapianto l’80% dei casi presenta PH. Peraltro, anche in questi casi si
è potuto osservare che la PH non correla
con la severità e l’estensione della malattia alla HRTC e con la risultanza delle prove funzionali respiratorie (19).
Il significato prognostico della coesistenza della PH con l’IPF deriva dalla constatazione che la pressione sistolica (sPAP)
>59 mmHg si associa ad una sopravvivenza media di 0,7 anni, contro i 4.1 anni per
una sPAP compresa tra 36 e 50 mmHg, e
4.8 anni per una sPAP <35 mmHg (20).
In relazione alla PAP media (mPAP), la so-
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
pravvivenza a 5 anni riguarda il 62.2% dei
malati se risulta <17 mmHg, solo il 16.7%
se superiore a detto limite (21).
Fisiopatologia e morfologia della PH
La genesi della PH in corso di IPF appare
differente qualora si considerino le forme
associate agli stadi avanzati della malattia
polmonare rispetto alle cosiddette forme
di PH sproporzionata, in quanto realizzatasi nelle interstiziopatie di minor gravità
e non ipossiemizzanti. Nel primo caso è lecito, infatti, attribuire la PH alla perdita di
tessuto vascolare ed alla vasocostrizione
ipossica che accompagnano la IPF, nel secondo si deve prendere in considerazione
il ruolo di ulteriori fattori potenzialmente
responsabili sia della fibrosi che della PH,
quali quelli angiogenetici e angiostasici, e
l’ipossia intermittente da sforzo o durante
il sonno.
È noto infatti che citochine profibrotiche
quali la 5-lipossigenasi (5-LO) ed il TGF-β
sono iperespresse sia nella fibrosi che
nella PH, così come responsabili sia del
rimodellamento vascolare che della fibrosi risultano il TNF-α, il PDGF, il FGF (22).
Pure la Prostaglandina-E2 (PGE2) presenta ridotti livelli nel BAL di IPF e nella parete dei vasi di PH idiopatica, favorendo la
iperproduzione di TNF-α e di TGF-β di cui
già si sono ricordati i ruoli nella PH e nella
IPF (23). Quanto alla Endotelina-1 (ET-1),
l’espressione del cui gene ed i cui livelli di
produzione appaiono aumentati nelle cellule endoteliali e nelle lesioni plessiformi
dei vasi di PH idiopatica, agisce inoltre
come fattore profibrotico e risulta aumentata in cellule epiteliali ed endoteliali e nei
pneumociti di tipo II di IPF, correlando
con la mPAP e la PaO2 (24).
Il ruolo dei fattori pro-angiogenetici e di
angiostasi appare invece ancora controverso, dal momento che in corso di IPF si
possono contemporaneamente osservare
zone di rarefazione vascolare, specie nelle
aree fibrotiche ed attorno ai foci fibroblastici, accanto a zone di aumentata densità
nelle regioni non fibrotiche ed adiacenti ai
foci fibrolastici. La riduzione dei vasi comporta l’aumento delle resistenze non compensate dalle zone di neoangiogenesi (25).
dossier
La condizione di ipossia cronica provoca
la vasocostrizione delle arteriole muscolari precapillari, al fine di ottimizzare il rapporto ventilo/perfusorio nelle unità mal
ventilate; la vasocostrizione si realizza in
pochi secondi nelle aree alveolari con una
PAO2 <70 mmHg. L’ipossia induce la vasocostrizione inibendo i canali di potassio
voltaggio dipendenti, con conseguente
influsso nelle cellule muscolari lisce perivascolari dei calcio ioni e attivazione della
miosina calmodulina-mediata (26).
Importante risulta pure il ruolo di mediatori endotelio-derivati quali la ET-1. L’ipossia
cronica aggiunge al broncospasmo il rimodellamento della parete dei vasi, sempre ad
opera dell’ET-1 e della infiltrazione di cellule infammatorie nella parete vascolare.
In corso di IPF è comune riscontrare, durante il sonno, crisi di desaturazione arteriosa, non correlata peraltro con il grado
di compromissione funzionale della malattia; a tali crisi di ipossiemia intermittente
si accompagna peraltro un aumentato livello nelle arterie polmonari di ET-1, responsabile e della vascostrizione ipossica
e del rimodellamento vascolare, a loro volta causa della PH (27).
Considerazioni analoghe valgono per la responsabilità delle desaturazioni da sforzo,
tra l’altro fautrici, quando risultano <88%
durante il 6-MWT, di aumentato rischio
di mortalità nelle IPF, analogamente alla
condizione di HP. Che in queste circostanze sia l’ipossiemia indotta a causare sotto
sforzo l’aumento della pressione polmonare appare però in contraddizione con il
fatto che la contemporanea assunzione di
ossigeno non previene la crisi ipertensiva;
considerando invece che in corso di esercizio si assiste ad un aumento dei livelli
plasmatici della ET-1, a questo mediatore
sembra doversi imputare un ruolo preminente nella genesi di PH in corso di IPF.
Diagnosi di PH in corso di IPF
I comuni esami della funzione ventilatoria
polmonare non possono dare alcun apporto al sospetto dell’esistenza di una PH in
corso di IPF. Ciò vale sia riguardo le risultanze dello studio dei volumi polmonari
sia la determinazione della DLCO. PeralMedicina Toracica • 4/2009 29
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
tro, qualora si associ la PH, sia la PAO2 che
la DLCO appaiono ridotte in modo superiore alle attese, rispetto alla gravità della
IPF (28).
L’ecocardiografia transtoracica (TTED) rimane il metodo non invasivo più utilizzato
per svelare la condizione di PH, anche se
la misura della sPAP non può essere rilevata in assenza del rigurgito tricuspidalico, evento peraltro raro nelle ipertensioni più avanzate. In corso di IPF, inoltre,
il TTE può sovrastimare i valori pressori
polmonari nei soggetti con pressioni normali e sottostimare invece i valori di PH.
In ogni caso, una pressione sistolica ventricolare destra stimata >50 mmHg è ritenuta espressione dell’esistenza di PH, se
compresa tra 35 e 50 mmHg viene indicata
come borderline, mentre <35 mmHg rappresenta il limite di normalità (29).
Ancora una volta il gold standard è rappresentato dal cateterismo cardiaco destro (RDC), stante che nelle forme di PH
iniziale il differenziale con i valori rilevati dal TTE può superare i 20 mmHg, per
anullarsi nelle forme di IPF più avanzate
ed in condizioni di pre-trapianto.
Può suggerire inoltre la presenza della
condizione di PH il rilievo in TC di un diametro della arteria polmonare principale >3.32 cm, con una specificità del 95%,
ma con una sensibilità del 59% (30). Alla
TC depone per l’esistenza di un rigurgito
tricuspidalico, e quindi di PH, il reflusso
del contrasto nella vena epatica e nella
cava inferiore; la deviazione del setto interventricolare, la presenza di versamento
pericardico, l’ispessimento del pericardio
stesso si accompagnano spesso con le forme di PH più grave. Un ausilio al sospetto
dell’esistenza di PH in corso di IPF può
derivare dalla stima della concentrazione ematica di peptici natruretici, quali il
BNP (B-type natruretic peptide) ed il suo
metabolita NT-proBNP (N-terminal prohormone BNP), dimesso il primo dai miociti cardiaci sia del ventricolo destro che
del sinistro in risposta allo stretch ventricolare. È stato dimostrato che un valore
di BNP elevato correla con la condizione
di PH e risulta predittivo anche sul piano
prognostico; valori normali di BNP diffi30 Medicina Toracica • 4/2009
cilmente si associano alla condizione di
PH e con una maggiore sopravvivenza. Il
dosaggio di NT-proBNP deve invece essere preso con maggior prudenza in quanto
risente della funzione renale che ne regola
la escrezione (31).
In definitiva in caso di IPF con sospetto
di PH ci si deve innanzitutto accertare che
la ipertensione polmonare non sia secondaria a cause diverse quali, ad esempio,
la tromboembolia polmonare. Quindi la
valutazione non invasiva prevede una
ecocardiografia doppler trans-toracica,
l’esecuzione delle prove funzionali respiratorie, DLCO compreso, la determinazione del BNP, dell’ossimetria durante il
sonno e dell’angio-TC polmonare; se tali
test supportano il sospetto di PH si deve
procedere, infine, al cateterismo cardiaco
destro con test di vasoreattività in acuto
(Figura 1).
Terapia della PH in IPF
La correzione della condizione di ipossiemia mediante la supplementazione della
FiO2 ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il cardine della terapia della PH in
corso di IPF, anche se mancano trials clinici appropriati. L’ossigenoterapia appare
in ogni caso appropriata nelle condizioni
di ipossiemia cronica, stante il ruolo da
essa esercitato nella genesi della PH in
IPF, mentre non si dispone di dati relativi
alla sua utilità nelle ipossiemie intermittenti. Scopo della ossigenoterapia a lungo
termine è quello di mantenere una SPO2
>90% (≥60 mmHg) sia in condizioni di riposo che sotto sforzo.
Pure raccomandato è l’impiego di anticoagulanti, ad evitare tromboembolie e microtrombosi in situ. L’impiego di vasodilatatori richiede prudenza, potendo alterarsi
gli scambi gassosi per il peggioramento
indotto del rapporto ventilo/perfusorio.
È dimostrato, infatti, che l’uso di prostaglandina I2 e.v. peggiora in questi soggetti
la quota di shunt e l’ipossiemia, eventi non
rilevabili, invece, con l’impiego del sildenafil, che si sarebbe dimostrato in grado
di migliorare la condizione di PH e la risultanza del 6-MWT (+49 m) (32, 33).
Quanto all’impiego degli antagonisti re-
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
cettoriali dell’endotelina, sia nello studio
BUILT-1 sia nel BUILT-3 non si sono rilevati effetti benefici sulla PH in IPF, tranne
che in una piccola proporzione di soggetti
affetti da PH in fase iniziale (34).
IPERTENSIONE
POLMONARE ASSOCIATA
AI DISORDINI RESPIRATORI
LEGATI AL SONNO
I disordini respiratori legati al sonno costituiscono un’entità clinica nota dall’inizio del XX secolo, noti come “sindrome
di Pickwick”; tuttavia, solo a partire dagli
Anni ’90 tali patologie sono state studiate
approfonditamente. La Classificazione Internazionale dei Disordini del Sonno (35)
identifica tre maggiori patologie:
a) la sindrome delle apnee ostruttive del
sonno (OSAS);
b) il respiro di Cheyne-Stokes (CSR) e le
apnee di origine centrale associate alla
insufficienza cardiaca cronica;
c) la sindrome dell’ipoventilazione associata all’obesità
PH E OSAS
Si definisce OSAS la sindrome caratterizzata clinicamente da eccessiva sonnolenza diurna e più di 5 episodi ostruttivi
all’ora durante il sonno. Gli episodi ostruttivi comprendono apnee, ipopnee ed episodi di aumentata resistenza delle alte vie
al flusso aereo. I primi studi clinici dimostrarono una prevalenza di PH - in pazienti
OSAS - molto alta, pari a circa il 60% dei
casi e l’insorgenza di PH veniva considerata una conseguenza comune dell’OSAS
studi successivi hanno, invece, evidenziato prevalenze minori. Attualmente la prevalenza di questa patologia è compresa
tra il 5 e il 15% della popolazione potendo
variare a seconda del tipo di studio, della numerosità e delle caratteristiche dei
pazienti (puri OSAS vs pazienti con altre
comorbidità), con un incremento lineare
nella popolazione con più di 60 anni (36).
Fisiopatologia della PH nell’OSAS
Tre sono i principali meccanismi coinvolti
dossier
nell’induzione dell’incremento delle pressioni del circolo polmonare:
a) l’ipossia;
b) i fattori meccanici associati allo sforzo
inspiratorio;
c) i riflessi meccanici con effetto vasoattivo diretto.
Inoltre, in corso di OSAS, specie nelle fasi
di sonno REM, agli eventi di ostruzione si
accompagnano episodici e drammatici incrementi dei valori di PH, correlabili con il
Body Mass Index (BMI).
L’ipossia conseguente alla ipoventilazione
alveolare agisce inducendo costrizione
delle arteriole e, quindi, un aumento delle resistenze, di modo che la perfusione
viene adattata alla ridotta ventilazione
(riflesso di Euler-Liljestrand). È stato dimostrato che le variazioni della PAP risultano correlate in modo inversamente
proporzionale all’ipossia diurna; tuttavia,
la correzione con ossigeno non si associa
in modo statisticamente significativo con
l’andamento della mPAP (37). Anche il
trattamento cronico con CPAP dei pazienti OSAS non induce riduzioni dei valori di
PAP, pur determinando una correzione dei
livelli diurni di PAO2 e PACO2. Queste osservazioni suggeriscono che altri fattori, oltre
ai livelli di ipossia, concorrono alla genesi
della PH. In questa prospettiva è stato studiato il ruolo del fenomeno della ipossia
intermittente (descritto di seguito).
L’effetto meccanico, associato allo sforzo
inspiratorio, determina la riduzione a valori negativi della pressione intratoracica;
ciò, a sua volta, determina uno stress meccanico che riduce la performance del ventricolo sinistro causando di conseguenza
un incremento della pressione capillare
(PPCw). L’incremento della resistenza
vascolare polmonare, correlato a questi
effetti meccanici, sembra prevalere nelle
fasi non-REM del sonno, anche se questo
dato non è stato ancora completamente
confermato in modelli animali (38).
Infine è stato ipotizzato che, similmente a
quanto accade per la pressione sistemica,
meccanismi riflessi autonomici ancora del
tutto delucidati possano giocare un ruolo
anche nella regolazione del circolo polmonare (39).
Medicina Toracica • 4/2009 31
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
Stress ossidativo ed
“ipossia intermittente” nella genesi
di PH in corso di OSAS
Nei soggetti affetti da OSAS è stata descritta una forte correlazione tra le reazioni infiammatorie ed il danno/disfunzione
dell’endotelio vascolare.
L’attivazione della cascata infiammatoria
dipende, in questi pazienti, prevalentemente dal fenomeno dell’ipossia intermittente, cioè dalla sequenza desaturazione/
riossigenazione, responsabile a sua volta
della produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). L’incremento dei livelli di
ROS contribuisce alla produzione di molecole di adesione, alla attivazione dei leucociti e alla produzione di reazioni infiammatorie.
Inoltre la risposta simpatica - abnormemente elevata nei pazienti OSAS - induce
un’aumentata resistenza all’insulina, anche in pazienti non obesi.
Tale meccanismo rappresenta un’ulteriore
fonte di stress ossidativo, definito dallo
squilibrio tra la produzione e la degradazione di ROS. Studi su pazienti affetti da
OSAS hanno dimostrato che l’impostazione della ventilazione non invasiva con
CPAP è in grado di normalizzare tale squilibrio (40).
L’induzione dello stress ossidativo risulta
inoltre correlato con la ridotta disponibilità di NO (41), causa la sua auto-ossidazione a ione nitrosonio (NO+) ed a conversione a perossinitrito (ONOO-) per reazione
con ione superossido (O2-), a sua volta generato nelle reazioni di stress ossidativo a
livello delle pareti vascolari.
Nell’OSAS è stato dimostrato un consumo di NO, confermato dall’aumento dei
metaboliti derivati, e tale fenomeno viene ritenuto coinvolto in modo essenziale
nella disfunzione endoteliale responsabile
dell’insorgenza di PH.
Un ulteriore meccanismo con cui lo stress
ossidativo genera infiammazione è mediato dalla attivazione del fattore di trascrizione nucleare NF-κB; tuttavia il ruolo di
tale meccanismo nella genesi di alterazioni endoteliali infiammatorie in corso di
OSAS è attualmente in corso di studio.
Infine l’attivazione della cascata infiamma32 Medicina Toracica • 4/2009
toria determina un incremento della produzione di molecole di adesione e l’attivazione di monociti e linfociti.
È stato dimostrato in soggetti OSAS che
la vasodilatazione endotelio-dipendente è
correlata al grado di apoptosi delle cellule
endoteliali; coerentemente la terapia con
CPAP determina una significativa riduzione di tali cellule apoptotiche circolanti.
Tutti questi meccanismi inducono disfunzione e danno a carico dell’endotelio vascolare (42).
L’attivazione dei processi finora descritti
consegue alla induzione di specifici meccanismi molecolari: crescenti evidenze
dimostrano infatti che l’ipossia intermittente e quella continua portano alla attivazione di differenti patways di segnale
cellulare. Studi su linee cellulari hanno,
ad esempio, documentato che l’ipossia intermittente agisce come stimolo molto più
potente dell’ipossia continua sulla attivazione di molteplici fattori di trascrizione;
tra questi troviamo l’Hypoxia-inducible
Factor-1 (HIF-1), con i suoi secondi messaggeri, eritropoietina e fattore di crescita
per l’endotelio vascolare (VEGF) (43).
In modelli animali, nonostante la difficoltà
di ottenere variazioni cicliche del livello
di ossiemia e di ossigeno intracellulare, è
stato dimostrato che l’ipossia intermittente porta ad una attivazione selettiva di NFκB, alla produzione di ROS, alla disfunzione dei mitocondri e ad una incrementata
produzione di dopamina. In modelli murini è stato possibile correlare l’ipossia
intermittente ad una serie di fenomeni
biologici e pato-fisiologici responsabili
della genesi di PH tra cui: alterata attività
dei barocettori, aumento della pressione
del circolo sistemico, aumento dell’ematocrito, variazioni della struttura e della
funzionalità del miocardio, alterazioni
dell’endotelio nelle arteriole muscolari e
un aumentata risposta alla endotelina ET1, verosimilmente mediata dall’isoforma A
del recettore (ETA). Infine, in topi esposti
ad ipossia intermittente è stato documentato remodelling del compartimento vascolare arterioso indotto dalla attivazione
di NFκB sia a livello sistemico sia nel circolo polmonare (44).
dossier
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
PH E ALTRI DISTURBI
RESPIRATORI DEL SONNO
Nelle Apnee di Origine Centrale associate a respiro di Chenye-Stokes
(CSR-CSA) l’insorgenza di PH appare
prevalentemente correlata alla condizione
di insufficienza cardiaca che accompagna
questa sindrome. Difatti la prevalenza di
PH interessa tra il 33% e il 38% dei pazienti
con insufficienza cardiaca sinistra, che a
sua volta induce congestione polmonare e
PH. Consegue l’attivazione di recettori vagali che inducono iperventilazione e quindi
ipocapnia. Le apnee e le ipopnee centrali
comportano a loro volta un’aumentata
risposta ventilatoria alla CO2 con conseguente instabilità della ventilazione durante il sonno. La sindrome, in definitiva, è
caratterizzata clinicamente da frequenti risvegli notturni indotti dall’ipossia e dall’aumentato sforzo ventilatorio indotto dalla
congestione e dalla ridotta compliance del
circolo polmonare. Infine - come nell’OSAS
- anche nella CRS-CSA è documentato un
ipertono simpatico, grazie al riscontro di
elevati livelli plasmatici di peptide natriuretico atriale, B-type BNP ed ET (45, 46).
La Sindrome da Ipoventilazione associata all’Obesità (OHS) è caratterizzata
clinicamente da ipercapnia diurna, ipoventilazione e apnee durante il sonno. Frequentemente si accompagna a PH, la cui
genesi risulta multifattoriale e contempla
prevalentemente il ridotto drive ventilatorio conseguente allo stato di obesità e alla
resistenza genetica verso la leptina.
La leptina è prodotta dal tessuto adiposo
bianco al fine di diminuire l’appetito e provocare, quindi, la perdita di peso ma svolge anche un ruolo di controllo sulla ventilazione. In topi knock-out per il gene codificante la leptina si determina un deficit
nella risposta ventilatoria alla ipercapnia
diurna e durante il sonno REM.
Molto sovente nei soggetti con OHS si realizzano disturbi del sonno caratterizzati da
ostruzioni al flusso ed ipossia che richiedono l’impostazione di ventilazione noninvasiva, alterazioni della ventilazione che
provocano ripercussioni sul circolo polmonare e si dimostra la presenza di difetti
genetici che li rendono di fatto resistenti
all’azione della leptina. Il tessuto adiposo,
infine, produce numerosi altri mediatori
(e.g. TNF-α, IL-6, angiotensinogeno, ecc.)
che hanno effetti sul bilancio energetico
ma anche sull’omeostasi dell’endotelio vascolare. Infine è stato dimostrato che nei
soggetti obesi i livelli di adiponectina sono
abnormemente ridotti e inversamente correlati alla funzione miocardica e al livello
di pressione del circolo polmonare (47, 48).
È importante sottolineare che molti dei
pazienti affetti da PH associata a disturbi
della ventilazione durante il sonno presentano diverse comorbidità, in particolare
risultano malati di BPCO.
Tale condizione configura la cosiddetta
Overlap Syndrome (OS). Nel 2001 lo
studio di Kessler e coll. ha documentato
che nei pazienti puri OSAS i valori di mPAP
sono di circa 15±5 mmHg e solo il 9% dei
pazienti ha mPAP >20 mmHg; al contrario,
i pazienti affetti da OHS (definita con BMI
>30 e PACO2 >45 mmHg) presentano valori medi di PAP di 23±10 mmHg. I pazienti
affetti da OS presentano valori di mPAP
intermedi tra i due gruppi (49).
IPERTENSIONE POLMONARE
CONSEGUENTE
A MECCANISMI
NON DEFINITI O A GENESI
MULTIFATTORIALE
Sebbene nella sarcoidosi, nella linfangioleiomiomatosi (LAM) e nell’Istiocitosi a
cellule di Langherans siano presenti alterazioni dell’interstizio polmonare, esse
vengono classificate distintamente - rispetto alla IPF - perché, in modo caratteristico in queste patologie, la genesi della
PH prevede il coinvolgimento diretto delle
strutture vascolari con meccanismi peraltro ancora non del tutto delucidati.
IPERTENSIONE
POLMONARE E SARCOIDOSI
La sarcoidosi è una malattia granulomatosa cronica ad eziologia sconosciuta, caMedicina Toracica • 4/2009 33
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
ratterizzata da un accumulo di linfociti T
e fagociti mononucleati negli organi interessati, con formazione di granulomi non
caseosi. Si tratta di una malattia multisistemica, le cui manifestazioni sono estremamente polimorfe, potendo interessare
praticamente ogni organo, anche se solitamente prevale il coinvolgimento polmonare. La malattia può presentarsi in forma
acuta o subacuta a risoluzione in genere
spontanea, più spesso con atteggiamento
cronico, che alterna fasi di remissione e di
riacutizzazione.
L’età più colpita è compresa tra i 20 ed i 40
anni, con una lieve prevalenza per il sesso
femminile (50).
Fra le possibili complicanze correlate alla
sarcoidosi rientra l’ipertensione polmonare, con una prevalenza stimata variabile
tra l’1% e il 28% dei casi (51, 52). Lo sviluppo di PH è prevalentemente correlata alla
distruzione del letto capillare distale contestuale al sovvertimento, in senso fibrotico del parenchima, e/o alla conseguente
condizione di ipossiemia cronica. Tuttavia
è stato dimostrato che la severità dell’ipertensione non correla in modo direttamente proporzionale né al grado di fibrosi
polmonare né con le tensioni arteriose dei
gas respiratori; inoltre l’ipertensione polmonare può insorgere precocemente, in
modo indipendente, quindi, rispetto allo
stadio della malattia granulomatosa. Queste osservazioni hanno suggerito che la genesi dell’ipertensione polmonare preveda
meccanismi differenti, quali:
a) la compressione estrinseca del letto
arterioso polmonare indotta da adenopatie ilari e mediastiniche più o meno
associate a distorsioni fibrotiche;
b) lo sviluppo di granulomi non caseosi a
livello del tratto vascolare venoso postcapillare con relativo risparmio del distretto arteriolare e con conseguente
sviluppo secondario di malattia venocclusiva polmonare (PVOD);
c) la vasocostrizione polmonare indotta
da mediatori vasoattivi. A ciò aggiungasi la possibilità che l’ipertensione
polmonare possa essere conseguente a
localizzazione epatica della sarcoidosi.
Possibile infine l’associazione fortuita tra
34 Medicina Toracica • 4/2009
sarcoidosi e PH idiopatica, anche se improbabile per la bassa incidenza di entrambe
le patologie (53-55). Ne deriva che il quadro istopatologico varia in conseguenza ai
differenti meccanismi patogenetici.
È comunque opportuno sottolineare che
a fronte di una localizzazione vascolare
della malattia sarcoidosica, in circa il 70%
dei casi di malattia, l’insorgenza di ipertensione polmonare risulta relativamente
rara; in ogni caso un ruolo rilevante nella
patogenesi della PH sembra essere giocato dalla insorgenza di fenomeni di degenerazione venoocclusiva (56).
Essa è definita, a livello istologico, non
solo dalla presenza dei granulomi che invadono e distruggono la parete vascolare
venosa, ma anche dalla presenza di fibrosi
occlusiva perivascolare e dell’intima, alla
quale possono accompagnarsi fenomeni
di ricanalizzazione; del tutto assenti risultano invece ulteriori cause di ipertensione venosa quali, ad esempio, l’ostruzione
venosa prossimale e la stenosi mitralica.
A conferma del ruolo giocato dalla PVOD
caratteristicamente si documenta la emosiderosi interstiziale cronica associata a
depositi di ferro anche a livello della lamina elastica. L’interessamento arteriolare è
invece meno rilevante, in particolare non
associato a lesioni plessiformi o tromboemboliche.
Rispetto a quanto precedentemente descritto, Nunes et al. hanno avanzato la
possibilità di distinguere due differenti fenotipi di ipertensione polmonare associata a sarcoidosi, in funzione della presenza o dell’assenza di fibrosi parenchimale
(57). Il gruppo di soggetti affetti da sarcoidosi senza fibrosi (31% dei casi analizzati)
risulterebbe caratterizzato da una prevalenza di PH più bassa rispetto ai pazienti
del gruppo con sarcoidosi e fibrosi polmonare. A fronte di parametri funzionali polmonari solo lievemente alterati, la diffusione del monossido di carbonio (DLCO)
risulterebbe francamente compromessa e
significativamente correlata con i valori di
PAP media, mentre l’indice di resistenza
vascolare polmonare (pulmonry vascular
resistance index - PVRI) con la PAO2. Dal
punto di vista tomografico i pazienti con
dossier
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
sarcoidosi non fibrotiche e PH si differenziano da quelli con sarcoidosi senza PH in
modo statisticamente significativo per la
frequenza più elevata (85,7% vs 14,3%) di
attenuazioni a vetro smerigliato, espressione di verosimile presenza di malattia
polmonare venoocclusiva.
Nei pazienti con malattia in IV stadio e
franca fibrosi, l’insorgenza di PH è conseguente non solo alle alterazioni vascolari e
alla ipossiemia, ma ad altri fattori tra cui,
principalmente, la compressione estrinseca delle arterie polmonari.
Globalmente la prognosi dei pazienti affetti da sarcoidosi associata a PH risulta
essere estremamente negativa, anche per
la mancanza di risposta alla terapia steroidea sistemica; tra i 10 dei 22 soggetti
di Nunes et al. trattati con corticosteroidi,
solo in 3 è stata dimostrata una diminuzione della PAP sistolica.
L’insorgenza di ipertensione polmonare
è stata causa di morte in circa il 60% dei
casi, che tuttavia appartenevano tutti alla
classe IV (NYHA). Solo quest’ultima condizione, e non i parametri emodinamici, è
risultata predittiva del rischio di morte.
L’avvento di terapie specifiche per l’ipertensione polmonare ha determinato una
rinascita dell’interesse per la diagnosi e il
trattamento della PH associata alla sarcoidosi.
Reazioni positive al test di vasoreattività
acuta, in risposta all’epoprostenolo, suggerirebbero un ruolo dei vasodilatatori nel
trattamento a lungo termine, nonostante
si segnalino possibili eventi negativi quali
l’edema polmonare acuto ed il severo squilibrio ventilo/perfusorio (58). Le diverse
risposte ottenibili potrebbero essere il risultato della eterogeneità eziologica della
PH in corso di sarcoidosi.
In conclusione, l’ipertensione polmonare
costituisce una grave complicanza della
sarcoidosi e si distinguono grossolanamente due fenotipi distinti sulla base del
fatto che la PH sia associata a malattia negli stadi iniziali o, invece, a quadri di fibrosi polmonare conclamata, in quanto riflettono meccanismi patogenetici differenti.
In caso di malattia non fibrosante l’ipertensione polmonare è prevalentemente di
origine venosa, conseguente al coinvolgimento con effetto occlusivo del letto vascolare post-capillare; tali forme sembrano rispondere al trattamento steroideo. I
farmaci vasodilatatori sistemici andrebbero, invece, utilizzati con molta cautela a
causa del potenziale rischio di incorrere in
edema polmonare secondario alla presenza di PVOD.
Nei casi in cui l’ipertensione polmonare si
associa a malattia in stadi avanzati, essa
viene attribuita alla compromissione sia
venosa sia arteriosa per la compressione
estrinseca esercitata sulle arterie di calibro maggiore; in tali casi la terapia cortisonica non apporta benefici ed il trapianto
di polmone andrebbe preso in considerazione indipendentemente dal grado di
compromissione degli indici funzionali
respiratori.
IPERTENSIONE
POLMONARE E
LINFANGIOLEIOMIOMATOSI
(LAM)
La linfangioleiomiomatosi (LAM) è un
raro disordine multisistemico che affligge
principalmente le donne in età fertile e la
cui eziologia non è ancora stata completamente chiarita. La malattia si caratterizza
a livello istologico per la proliferazione di
cellule muscolari lisce anormali (cellule
LAM) che a livello polmonare sono raggruppate in piccoli agglomerati intorno
alle pareti dei vasi ematici, linfatici e delle
piccole vie aeree e lungo le vie linfatiche
toraciche e addominali. La proliferazione
di queste cellule induce ostruzione e, quindi, la formazione di cisti a parete sottile
nel polmone, di strutture cistiche a contenuto fluido distribuite lungo le strutture
linfatiche (linfangioleiomiomi) e frequentemente angiomiolipomi renali.
La LAM compare, nella maggior parte
dei casi, sporadicamente senza evidenze
di disturbo genetico, con una prevalenza stimata di circa 2,6 x 1.000.000 donne;
raramente si associa invece alla presenza
di mutazioni puntiformi nei geni TSC1 e
TSC2, evenienza che fa considerare attualMedicina Toracica • 4/2009 35
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
mente la malattia come una forma neoplastica (59).
Una caratteristica di rilievo che può evidenziarsi nel corso della malattia è rappresentata dalla insorgenza di ipertensione
arteriosa polmonare (PAH), che interessa
peraltro meno del 10% dei casi; in circa 1/3
di questi si rende necessaria la supplementazione di ossigeno al fine di adempiere al
carico fisico del lavoro quotidiano.
Se il 50% dei pazienti affetti da LAM sottoposti a test da sforzo, manifestano desaturazione arteriosa di O2 a riposo, invece,
l’incremento dei valori di PAP è abbastanza raro (60-62). Se ne deduce che la genesi
della PH rimane associata all’ipossia indotta dallo sforzo ed, infatti, la somministrazione di O2 in tali soggetti migliora il
quadro di aumento delle pressioni arteriose polmonari.
Non necessariamente la totalità dei pazienti presenta PH ed in alcuni pazienti
l’ipossia non determina in nessun caso aumento della pressione arteriosa polmonare. Pertanto, si ritiene probabile che altri
fattori aggiuntivi alla vasocostrizione polmonare ipossica concorrano alla genesi
della PH nei pazienti affetti da LAM, quali
la mancata compliance del letto vascolare polmonare, alterato dalla proliferazione abnorme delle cellule muscolari lisce.
L’ottimizzazione dei livelli di saturazione
in O2, tramite ossigenoterapia in corso di
attività fisica, riduce la severità dell’ipossia e, potenzialmente, contribuisce a correggere e/o prevenire elevati valori di PAP;
tuttavia gli effetti sul beneficio a lungo
termine dell’ossigenoterapia non sono ad
oggi completati.
In conclusione, in corso di LAM, l’ipossiemia compare a livelli relativamente modesti di esercizio fisico ed è verosimilmente
associata all’ elevazione dei valori di PAP:
da questo presupposto deriva il razionale
della O2-supplementazione con la finalità
di prevenire la PAH indotta dallo sforzo.
Studi limitati hanno dimostrato un potenziale effetto benefico degli inibitori della
fosfodiesterasi-5 (in particolare del sildenafil) nel limitare l’incremento di PAP indotta dalla ipossia sia a riposo sia durante lo sforzo, soprattutto nei casi in cui la
36 Medicina Toracica • 4/2009
tolleranza allo sforzo è limitata dall’ipossiemia piuttosto che dall’alterazione del
rapporto ventilo-perfusorio.
Gli studi a tal proposito finora condotti
dimostrano, tuttavia, evidenti limiti correlati principalmente alle difficoltà nella valutazione delle PAP, in particolare durante
l’esercizio fisico che induce distorsione
della posizione del cuore nel mediastino
in relazione alla dinamica dei polmoni durante l’inspirazione.
Peraltro, dopo aver paragonato i risultati
ottenuti con il TTED ed il RDC, due studi
indipendenti hanno concluso che in pazienti con LAM l’ecocardiografia può essere considerata una metodica adeguata per
il monitoraggio delle PAP. In particolare è
stato validato il ruolo dello studio ecocardiografico sotto sforzo per la stima ed il
monitoraggio delle PAP in corso di esercizio fisico e per l’identificazione precoce di
risposte patologiche della PAP allo sforzo
stesso (62, 63).
IPERTENSIONE
POLMONARE ED
ISTIOCITOSI A CELLULE DI
LANGHERANS
L’istiocitosi a cellule di Langerhans (LCH)
è una malattia correlata al fumo di sigaretta, istologicamente caratterizzata da
noduli bronchiolocentrici costituiti da cellule di Langerhans (LC) frammiste ad altre
cellule infiammatorie spesso organizzate
in granulomi (64).
Le LC sono cellule presentanti l’antigene
e si distinguono dagli altri istiociti per la
positività al CD-1a (65).
L’ipertensione polmonare è una complicanza della LCH ed è presente nel 92-100%
dei pazienti con malattia avanzata (66-68).
Tale complicanza non è limitata solo nella
LCH end-stage ma viene riscontrata nella
maggior parte dei soggetti affetti da LCH
che vengono sottoposti ad accertamenti in
merito a dispnea (69).
La distruzione parenchimale spiccata, che
caratterizza la LCH polmonare, non è un
requisito indispensabile per lo sviluppo
della PH.
dossier
Ipertensione polmonare e malattie respiratorie
I meccanismi patogenetici della PH associata a LCH non sono ancora ben chiari.
È noto che la vasocostrizione polmonare
dovuta all’ipossiemia cronica è un importante meccanismo patogenetico dell’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica,
ma la PH che insorge in soggetti con LCH
avanzata risulta di entità maggiore rispetto
a quella che si sviluppa per la sola presenza dell’ipossiemia cronica. Questo suggerisce che altri meccanismi siano coinvolti
nella sua patogenesi (70).
Un fattore noto che causa PH secondaria è
la distruzione del parenchima polmonare,
che nel caso della LCH viene sostituito da
abnormi cisti aeree (64, 71). Nella LCH i
parametri di funzionalità respiratoria non
sembrano essere fattori predittivi o prognostici per la PH (72) ad eccezione, forse,
della capacità funzionale forzata inversamente correlata alla pressione arteriosa
polmonare sistolica (69). Si ricorda che la
LCH è una malattia che si associa sia ad
una sindrome disventilatoria restrittiva,
prevalente nelle fasi iniziali, sia ostruttiva
in genere nelle fasi più avanzate (64).
Diversi studi istopatologici hanno dimostrato un coinvolgimento vascolare polmonare, sia arterioso che venoso, pur in
presenza di stabilità delle lesioni parenchimali (72-75).
Curiosamente queste alterazioni sono state descritte in aree parenchimali non coinvolte dalle lesioni granulomatose LCH. Ciò
dimostrerebbe che esiste una componente
vascolare primaria della malattia, non correlata all’infiltrazione delle LC, ma invece
dovuta alla fibrosi intimale e sub-intimale,
prevalentemente coinvolgente le vene polmonari (72). In alcuni casi però, reperti
istologici autoptici, o in polmoni espiantati, evidenziano foci vasculitici di LC all’interno del lume vasale che ne provocava
la ostruzione, un’ipertrofia della media e
un’iperplasia della muscolare nelle arterie
polmonari. Comunque la compromissione
parenchimale e quella vascolare sembrano indipendenti e progrediscono in modo
dissociato l’una dall’altra portando a pattern di alterazione funzionale differenti.
Altro fattore che può giocare un ruolo nella patogenesi PH-LCH riguarda l’attività
delle citochine, come il TGF-β o il fattore di crescita di derivazione piastrinica
(PDGF), prodotte dai granulomi LCH, che
sono notoriamente coinvolte nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa polmonare
idiopatica.
In conclusione, nello sviluppo della PH
correlata a LCH si evidenziano varie concause:
1) vasocostrizione polmonare secondaria
a ipossiemia cronica;
2) distruzione cistica parenchimale polmonare;
3) alterazioni vascolari sia arteriose sia
venose polmonari;
4) produzione di citochine ipertensivanti.
Questi fattori possono assumere un’influenza diversa in ogni singolo paziente e,
comunque l’ipertensione polmonare non
correla con i parametri di funzionalità respiratoria ma riveste un significativo impatto sulla sopravvivenza di questi malati.
RIASSUNTO
L’ipertensione del circolo polmonare definisce una ben nota condizione che molto sovente si associa alle
malattie respiratorie. Il 4° World Symposium on Pulmonary Hypertension (Dana Point, 2008) ha classificato queste condizioni come “ipertensione polmonare conseguente a malattie respiratorie e/o ad ipossiemia”. Inoltre l’ipertensione polmonare può essere associata a patologie ad interessamento multi organo
a prevalente coinvolgimento polmonare; tali situazioni identificano casi di “ipertensione polmonare a genesi non chiara o conseguente a molteplici meccanismi”. L’ipossiemia riveste in generale un ruolo chiave
nella patogenesi dell’ ipertensione polmonare, tuttavia, come è evidente dalla riclassificazione di Dana
Point, specifici meccanismi patogenetici intervengono nelle diverse patologie polmonari. Sono di seguito
descritte le procedure diagnostiche, le caratteristiche anatomo-patologiche e cliniche e gli approcci terapeutici dell’ ipertensione polmonare associata alle più importanti patologie polmonari delle quali essa
rappresenta una rilevante complicanza.
Parole chiave: pressione dell’arteria polmonare, ipossiemia, malattia venoocclusiva, rimodellamento vascolare.
MedicinaToracica•4/2009 37
dossier n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
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AggiornAmenti di FisiopAtologiA
il sistema colinergico
non-neuronale
delle vie aeree
L’acetilcolina (Ach) è uno dei principali
regolatori della funzione delle vie aeree.
In particolare, quale mediatore del sistema nervoso parasimpatico, è un potente
agente broncocostrittore e stimolatore
della secrezione bronchiale, ma è anche
coinvolta in meccanismi di risposta meno
acuti, quali il remodeling delle vie aree e
l’immunomodulazione. L’inibizione farmacologica di queste funzioni costituisce un
punto chiave nell’approccio terapeutico
in diverse patologie polmonari, tra cui la
BPCO ed asma.
Tuttavia crescenti evidenze dimostrano
che molte cellule oltre a quelle del sistema
nervoso, sono in grado di sintetizzare e rilasciare Ach; tra queste: cheratinociti, linfociti, cellule endoteliali e cellule del sincizio trofoblasto. Anche a livello delle vie
aeree è presente un sistema di attivazione
colinergica non-neuronale che funziona in
maniera cellulo-specifica con meccanismo
di regolazione autocrino e/o paracrino
(Tabella 1).
A livello delle vie aeree sono stati descritti
almeno dodici tipi differenti di cellule di
derivazione epiteliale e cinque tipi di cellule appartenenti a strutture ghiandolari,
comprese cellule intermedie in progressivo stadio differenziativo.
Le cellule peculiari dell’albero bronchiale
sono le cellule ciliate. Esse sono presenti
in ampia percentuale (compresa tra il 32
e il 55% di tutte le cellule) nella trachea e
nei grossi bronchi dove assumono una forma colonnare (20 µm di altezza e 7 µm di
larghezza) mentre si riducono in altezza
a livello delle più periferiche diramazioni
bronchiali e dei bronchioli.
Queste cellule inoltre possono protrudere nel lume bronchiale tramite microvilli.
Alla superficie luminale della cellula è pre-
Ernesto pozzi
giulia Maria Stella
Clinica di Malattie
dell’Apparato
Respiratorio
Università di Pavia,
IRCCS Fondazione
Policlinico
San Matteo
ABSTRACT
Non-neuronal cholinercic system in airways
In the airways tract acetylcholine (Ach) is known to be the mediator of the parasympathetic nervous
system. However Ach is also synthesized by a large variety of non-neuronal cells. Strongest expression
is documented in neuroendocrine and in epithelial cells (ciliated, basal and secretory). Growing
evidences suggest that a cell-type specific Ach expression and release do exist an act with local autoparacrine loop in non-neuronal airway compartment. Here we review the molecular mechanism by
which Ach is involved in regulating various aspects of innate mucosal defense, including mucociliary
clearance, regulation of macrophage activation as well as in promoting epithelial cells proliferation
and conferring susceptibility to lung carcinoma onset. Importantly this non-neuronal cholinergic
machinery is differently regulated than the neuronal one and could be specifically therapeutically
targeted.
Key words: cholinergic system, non-neuronal compartment, innate defense, cancer susceptibility,
“druggable” target.
MedicinaToracica•4/2009 41
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
Tabella 1 Spettro delle azioni mediate dall’acetilcolina a livello delle vie aree.
Cellule bersaglio
Cellule epiteliali
Ghiandole mucose e sottomucose
Neutrofili, macrofagi, linfociti T
Fibroblasti
Cellule muscolari lisce
Effetto
Stimolo
Proliferazione
Secrezione mucosa
Rilscio IL-8
Frequenza battito ciliare
Attivazione cinasi (MAPK)
Secrezione
Infiammazione
Differenziazione linfociti T cit.
Rilascio LT-B4
Chemotassi PMN
Proliferazione
Rilascio IL-8 e MMP-2
Sintesi collagene
Contrazione
Espressione proteine collagene
Mitosi
sente la proteina CFTR (Cystic Fibrosis
Transmembrane conductance Regulator)
le cui alterazioni conseguenti a mutazioni nelle sequenze geniche codificanti per
il trasportatore stesso, sono responsabili
della genesi della fibrosi cistica.
Le restanti cellule dell’epitelio delle vie aeree sono generalmente raggruppate sotto
il termine di “cellule non ciliate”. La maggior parte di queste è rappresentata dalle
cellule delle ghiandole della mucosa e sottomucosa che producono il secreto bronchiale. L’organizzazione e la distribuzione
relativa di queste cellule cambiano nei diversi tratti delle vie respiratorie. Le goblet
cells costituiscono circa il 9% delle cellule
della trachea mentre sono quasi del tutto
assenti nei bronchioli più distali. Le piccole vie aeree contengono, invece, cellule il
cui citoplasma è ricco di reticolo endoplasmatico liscio e rugoso, contengono granuli secretori più piccoli di quelli presenti
nelle goblets cells e protrudono nel lume
bronchiolare con sottili microvilli: sono le
cellule di Clara.
Le cellule basali, che per definizione non si
affacciano sul lume bronchiale, si trovano
prevalentemente nelle vie aeree più grandi e, nell’uomo, costituiscono circa il 30%
delle cellule della trachea.
Infine esiste una minoranza di cellule epiteliali specializzate che, tuttavia, sono in
grado di produrre quantità rilevanti di ace42 Medicina Toracica • 4/2009
Inibizione
Infiammazione
Inibizione di: IL-8 e TNF-a trombossani
e molecole co-stimolatorie
Differenziazione mio-fibroblasti
Rilascio fibronectina
tilcolina. Tra queste, le cellule polmonari
neuroendocrine che originano da precursori differenti rispetto a quelli delle altre
cellule epiteliali.
Queste cellule sono solitamente isolate
nell’epitelio respiratorio mentre a livello
delle diramazioni bronchiali sono prevalentemente raggruppate nei cosiddetti
“corpi neuro-epiteliali” (neuro-epithelial
bodies-NEBs). Caratteristicamente queste
cellule contengono granuli densi ricchi di
amine bioattive e di neuro peptidi. I NEBs
sono prevalenti nell’embrione e nel periodo neonatale e si pensa svolgano funzioni
di sensori dell’ossigeno che contribuiscono allo sviluppo e alla maturazione dei
polmoni.
La funzione di sensori dell’ossigeno non è
stata ancora completamente definita, ma
molte evidenze suggeriscono che i NEBs
rappresentino una sottopopolazione di un
più esteso gruppo di recettori vagali mielinici delle vie aeree, sensibili a diversi stimoli, chimici e meccanici.
Il ruolo delle cellule neuroendocrine isolate è ancora sconosciuto: è stato ipotizzato anche per queste cellule un ruolo nello
sviluppo polmonare, in particolare nella
regolazione del fenomeno di branching
morphogenesis e di crescita e proliferazione cellulare. Nel topo è stato dimostrato che queste cellule si trovano associate
a nicchie staminali e questa evidenza ha
Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree
suggerito che esse possano svolgere un
ruolo di protezione delle cellule staminali dagli agenti nocivi esogeni, contribuendo pertanto a mantenere la condizione di
auto-rinnovamento del compartimento
staminale.
Un ulteriore tipo cellulare relativamente
infrequente è dato dalle cellule atipiche a
spazzola dei microvilli, generalmente definite “cellule a spazzola”. A livello tracheale
queste cellule funzionano come chemocettori; è stato inoltre ipotizzato che queste
cellule possano agire da sensori della colonizzazione batterica e siano pertanto in
grado di iniziare e promuovere i meccanismi di difesa dalle infezioni.
Sintesi e riciclo di
acetilcolina nelle fibre
nervose colinergiche
L’Ach è sintetizzata nell’assoplasma neuronale dall’enzima colina acetiltrasferasi
(ChAT) a partire da colina di provenienza
extracellulare ed acetil-Coenzima A, prodotto dai mitocondri. L’uptake della colina
dallo spazio extracellulare rappresenta lo
step limitante la sintesi di Ach nelle cellule nervose ed è mediato dal trasportatore
ad alta affinità CHT1 (choline transporter
1). Una volta generata nell’assone, l’Ach
è stoccata nelle piccole vescicole sinapti-
Aggiornamenti di Fisiopatologia
che; tale processo è mediato dal trasportatore dell’Ach vescicolare (VAchT), una
proteina costituita da 12 domini che funziona come pompa di scambio H+/Ach.
All’interno di ciascuna vescicola sinaptica
possono essere contenute fino a 10.000
molecole di Ach legate tramite una matrice ricca di proteoglicano SV2. Alla depolarizzazione della fibra nervosa l’Ach viene
rilasciata dalle vescicole nello spazio extracellulare.
L’Ach liberata può interagire con due distinti recettori:
1) il recettore muscarinico (MR), costituito da 7 domini transmembrana ed
accoppiato ad una proteina G; di tale
recettore sono conosciute 5 isoforme
(M1-M5);
2) il recettore nicotinico (nAchR), canale
ionico con due siti di legame per l’Ach
che è costituito da eterodimeri o eteropentameri.
L’azione dell’Ach è esaurita in tempi molto rapidi e su distanze molto ravvicinate:
questa condizione è conseguente alla presenza nello spazio extracellulare di una
acetilcolinesterasi (AChE) altamente efficiente nella scissione dell’Ach in colina ed
acetato. L’AChE è sintetizzata dalle stesse
fibre nervose colinergiche e assicura in tal
modo un equilibrio tra produzione e capacità di degradazione dell’Ach stessa. La colina originata dall’AChE è quindi disponibi-
Figura 1 Vie di sintesi e riciclo dell’ Ach nel sistema colinergico nervoso (A) e non-neuronale
(B). Modificata da Kumer W et al., 2008.
Medicina Toracica • 4/2009 43
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
le per essere riutilizzata dal neurone stesso
, tramite il trasportatore CHT1, per un nuovo ciclo di sintesi di Ach (Figura 1A).
Sintesi e riciclo
di acetilcolina nelle
cellule non-neuronali
La sintesi di Ach a livello non-neuronale
rappresenta un sistema filogeneticamente
antico, presente sia nei batteri che nelle
piante. Il meccanismo di sintesi e rilascio
dell’Ach nel sistema nervoso si è evoluto
separatamente in tempi relativamente più
recenti e alcuni degli enzimi altamente
efficienti sono propri di questo sistema e
non si ritrovano nel compartimento nonneuronale.
Ogni cellula contiene un sistema di uptake di colina che costituisce un elemento
indispensabile alla sintesi dei lipidi della
membrana plasmatica, in particolare della fosfatidilcolina: è descritta, infatti, una
grande varietà di trasportatori transmembrana di colina, ma solo determinate cellule non-neuronali esprimono il trasportatore più efficiente CHT1.
Una via alternativa per la sintesi di Ach nelle cellule non-neuronali è fornita dall’enzima carnitina acetiltrasferasi (CarAT) che,
anche se in maniera meno efficiente, guida
la sintesi di Ach nelle fibre muscolari scheletriche.
Il processo di storage dell’Ach sintetizzata nelle cellule del sistema colinergico
non-neuronale non è stato completamente
chiarito: nonostante sia stato identificato
l’enzima VAchT è verosimile che il rilascio
dell’Ach avvenga direttamente dal citoplasma in assenza di meccanismi di esocitosi.
A sostegno di tale ipotesi è stata documentata l’attività di un trasportatore cationico
di membrana polispecifico (OCT) in grado
di trasportare l’Ach bidirezionalmente all’interno e/o all’esterno della cellula - in
base alla concentrazione del substrato e
al potenziale di membrana. Inoltre anche
un protolipide, noto come “mediatoporo”,
è verosimilmente coinvolto nel rilascio di
Ach: il rilascio può essere diretto dal citoplasma cellulare allo spazio extracellulare
44 Medicina Toracica • 4/2009
o mediato dalla formazione di pori attraverso la membrana plasmatica. Il “mediatoporo” appartiene alla famiglia delle
H+-ATPasi vacuolari che sono presenti in
diversi organelli intracellulari, come i lisosomi, gli endosomi e le vescicole secretorie. La presenza della H+-ATPasi è stata
dimostrata nel polmone umano a livello
dell’endotelio microvasale: è verosimile
che il “mediatoporo” possa facilitare il rilascio dell’Ach specificamente a livello di
queste cellule.
Infine, una volta rilasciata nello spazio
intercellulare, l’Ach è scissa da idrolasi meno specifiche rispetto alla AChE, la
principale delle quali è la butirrilcolinesterasi (BChE) (Figura 1B).
Trasportatori
della colina localizzati
nell’epitelio
delle vie aree
È stato dimostrato che a livello dell’epitelio delle vie aeree esiste una molteplicità di sistemi di trasporto e uptake della
colina a distribuzione cellulo-specifica. Il
trasportatore ad alta affinità CHT1 che si
pensava essere specifico del sistema nervoso colinergico è stato identificato anche
nella membrana apicale delle cellule ciliate della trachea in modelli murini. Studi di
immunolabelling e di espressione in Western blot hanno dimostrato la presenza
di una molecola con le caratteristiche biochimiche e immunofenotipiche proprie di
CHT1 in linee cellulari polmonari umane
trasformate in senso adenocarcinomatoso
(A549).
Complessivamente questi dati consentono
di ipotizzare che esista un sistema di uptake della colina dal lume delle vie aeree
all’interno delle cellule ciliate, mediato da
una via di trasporto che si credeva selettivamente attiva solo a livello neuronale.
Tuttavia anche altre cellule dell’epitelio
delle vie respiratorie sono in grado di assorbire colina attraverso altri meccanismi
di trasporto che possono agire in assenza
del trasportatore CHT1. Ad esempio cellule A549 co-esprimono, oltre a CTH1, un
Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree
sistema di trasporto Na+- indipendente che
è regolato dal gradiente transmembrana di
H+ e che è sensibile all’amiloride.
I trasportatori della colina diversi dal
CTH1 sono classificati in due famiglie: le
proteine simili ai trasportatori colina-specifici (CTL family) e i trasportatori cationici organici polispecifici (OCT family).
Membri di entrambi questi gruppi sono
espressi nel polmone umano. Analisi con
immunoblot specifici hanno dimostrato
la significativa presenza di trasportatori
della famiglia CTL nelle cellule A549. Tra i
trasportatori OCT, le forme OCT1 e OCT 2
(ma non OCT3) trasportano colina: OCT1
è espresso a prevalente localizzazione intracitoplasmatica apicale nelle cellule ciliate.
La distribuzione di OCT1 sembra essere
cellulo-specifica: studi su modelli murini hanno confermato che il trasportatore
è presente solo sulle cellule ciliate e non
nelle cellule secretorie, nelle basali e nelle cellule a spazzola. L’isoforma OCT2 è
espressa nell’epitelio bronchiale umano,
ma non è evidenziabile nel topo; essa ha
prevalente localizzazione sul versante basale delle cellule ciliate, è presente nelle
cellule basali mentre, non è dimostrabile,
a livello delle goblet cells. Quale sia il reale
ruolo di questi trasportatori nel ciclo della sintesi dell’Ach non è ancora definito: è
stato infatti osservato che topi knock-out
per entrambe le isoforme OCT1 ed OCT2
presentano un contenuto di Ach nella trachea aumentato anziché, come sarebbe
atteso, ridotto.
Regolazione
della sintesi dell’Ach
nelle vie aeree
Nonostante sia ampiamente documentata
la presenza dell’enzima colina acetiltrasferasi (ChAT) responsabile della sintesi
di Ach, la reale identità dell’enzima attivo a livello delle vie aeree non è, ad oggi,
completamente nota. Infatti è importante
sottolineare che esistono diverse varianti
dell’enzima, tutte codificate da uno stesso
gene; le differenze esistenti sono così ele-
Aggiornamenti di Fisiopatologia
vate che le diverse forme sono riconosciute da antisieri differenti. Il gene ChAT dei
mammiferi contiene 3 esoni non codificanti (definiti, nei modelli animali, esoni R-,
M-, N-) e , a seconda sella specie, 15 o 16
esoni codificanti. Tra i due esoni non trasdotti R- e N- è inserita la sequenza codificante per l’enzima VAChT. Questo particolare costrutto genico codificante per ChAT
e per VAChT è noto come “locus genico
colinergico”. Multipli trascritti derivanti
da possibili splicing alternativi sono stati
identificati nel topo e almeno 6 di questi
sono ritrovabili anche nell’uomo. Nel sistema nervoso tutte le 6 varianti sono presenti, con prevalenza del mRNA tipo M-; per
quanto riguarda il sistema bronchiale - nel
topo e nella scimmia- sono stati identificati mRNA codificanti per ChAT sia di tipo
M- che N-.
Forme di ChAT differenti possono inoltre
derivare da splicing alternativi a livello
delle sequenze tradotte. Ad esempio nel
sistema nervoso, accanto alla forma completa di 69KDa (cChAT), è presente una
proteina derivante dalla rimozione dei primi 6-9 esoni codificanti, tale forma è prevalente a livello assonale periferico (pChAT).
In modelli murini a livello tracheale è stata
identificata con indagini biochimiche solo
la forma completa dell’enzima.
Tali dati sono stati confermati da studi di
immunoistochimica che hanno documentato la presenza della forma cChAT in tutti
i tipi di cellule della trachea; nel tratto respiratorio più distale la positività è meno
intensa nelle cellule ciliate e in quelle a
funzione secretiva, mentre è maggiore nelle cellule neuroendocrine e nelle cellule a
spazzola.
Nelle cellule ciliate della trachea la positività è maggiore nella regione citoplasmatica apicale: tale dato suggerisce una sintesi
di Ach più precoce nella trachea rispetto
ai bronchi distali. Infatti, in queste cellule,
l’enzima cChAT è localizzato nella stessa
area del trasportatore CHT1: in tal modo,
nelle cellule ciliate, la totalità della Ach
sintetizzata è concentrata a livello apicale, suggerendo la possibilità di un suo rilascio intraluminale. Complessivamente
questi dati confermerebbero che nelle vie
Medicina Toracica • 4/2009 45
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
aeree esiste un’espressione di ChAT relativamente più uniforme rispetto al sistema
nervoso, con la prevalenza di una singola
variante proteica (tipo M-) rappresentata
dalla proteina nella sua struttura completa. Tuttavia i dati immunoistochimici non
sono completamente coerenti con i dati
biochimici che documentano la presenza
di proteine di diverso peso molecolare. In
particolare in estratti di epitelio bronchiale sono state documentate proteine del
peso molecolare di 54 e 41 KDa, positive
all’immunostaining per cChAT. La possibilità di cross-reazioni in corso di immunoistochimica non giustifica pienamente
tali discrepanze, per cui sono attualmente
in corso diversi approfondimenti biochimici e biomolecolari.
Meccanismi di rilascio
dell’Ach a livello
delle vie aeree
Nel sistema nervoso colinergico, l’enzima
VAChT trasferisce l’Ach dall’assoplasma
all’interno delle vescicole sinaptiche. Il peculiare “locus genico colinergico” gioca un
ruolo chiave nell’orchestrare l’espressione
di ChAT e VAChT in modo da bilanciare la
produzione e il rilascio dell’Ach. Nel tratto
respiratorio è stata dimostrata la presenza
di VAChT a livello tracheale e nelle cellule
secretorie e neuroendocrine dei bronchi;
linee cellulari di small cell lung cancer,
teoricamente derivate da cellule neuroendocrine, esprimono sia VAChT che ChAT
e, in queste cellule il rilascio di Ach è
sensibile al vesamicolio, agente inibitore
dell’enzima VAChT. Le cellule ciliate apparentemente utilizzano un meccanismo di
rilascio non-vescicolare.
I trasportatori OCT1 e 2 sono localizzati
alla estremità apicale del citoplasma, la
forma OCT3 a livello basale. Tale distribuzione consente di ipotizzare che la direzione del rilascio di Ach possa variare in
base al gradiente di concentrazione e al
potenziale di membrana. Come già sottolineato, la localizzazione apicale di OCT1
e 2 suggerisce l’esistenza di un ciclo di
uptake e rilascio di Ach a livello del lume
bronchiale.
Il ruolo di OCT3 è, invece, meno chiaro: è
possibile che la proteina per essere funzionale richieda l’attivazione addizionale di
altre strutture proteiche. Questi trasportatori polispecifici rappresentano bersagli
di numerosi farmaci che agiscono o come
competitori nel trasporto dei cationi o
come inibitori diretti. Tra questi la nicotina
e i corticosteroidi (corticosterone, fluticasone, budesonide) sono in grado di bloccare, in vitro, il rilascio di Ach mediato da
Figura 2 Meccanismi di rilascio dell’Ach nelle cellule delle vie aeree. CHT1: high affinity
choline transporter 1; OCT: organic cation transporter; VAChT: vescicular acetylcholine transporter.
Modificata da Kummer W & Lips KS, 2006.
46 Medicina Toracica • 4/2009
Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree
OCT1 e 2. L’inibizione del rilascio di Ach
non-neuronale è un effetto non-genomico
del cortisone recentemente identificato e
specifico del sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree. Per quanto riguarda
invece la distribuzione del “mediatoporo”,
gli studi in corso non hanno consentito
ancora una chiarificazione definitiva. Nel
complesso il sistema di rilascio dell’Ach
nelle vie aeree avviene: i) sul versante latero-basale nelle cellule neuroendocrine e
- verosimilmente, anche se non completamente confermato - nelle cellule a spazzola, ii) sul versante apicale, ovvero nel lume
bronchiale, mediato da vescicole secretorie nelle cellule secretorie e dal gradiente
di concentrazione e/o dal potenziale di
membrana nelle cellule ciliate (Figura 2).
Meccanismi
di degradazione
dell’Ach nelle
vie aeree
Nel sistema nervoso la trasmissione colinergica termina a breve distanza spaziale e
temporale rispetto al sito di liberazione, in
quanto l’Ach viene scissa in acetato e colina dall’enzima altamente efficiente acetilcolinaesterasi (AChE). Esistono anche altre esterasi, meno specifiche nel clivaggio
dell’Ach, la più importante delle quali è la
butirrilcolinesterasi (BChE). La considerazione della rapidità dell’effetto dell’AChE
consente alcune osservazioni.
In primo luogo è importante sottolineare
che la quantità dell’Ach generata nelle vie
aeree è molto minore rispetto a quella prodotta a livello del sistema nervoso e che
la liberazione intraluminale di Ach avviene
prevalentemente per via trans-membrana
piuttosto che per esocitosi. Per questo motivo molti dubbi sono stati posti sul reale
effetto extracellulare dell’Ach rilasciata
nel sistema respiratorio non-neuronale.
È possibile che l’Ach possa avere anche
effetti intracellulari mediati da recettori
intracitoplasmatici. D’altro canto la capacità di degradazione dell’Ach è più bassa
rispetto a quella del sistema nervoso, in
quanto è mediata prevalentemente dall’en-
Aggiornamenti di Fisiopatologia
zima BChE: questo dato è coerente con
un possibile effetto paracrino/autocrino
dell’Ach sulle cellule epiteliali. A tale riguardo studi di immunoistochimica hanno consentito di dimostrare che l’attività
dell’AChE è prevalente nelle fibre nervose
che innervano la muscolatura liscia mentre la BChE è presente direttamente nelle
cellule muscolari lisce.
In conclusione, nonostante il meccanismo
di degradazione dell’Ach a livello dell’epitelio delle vie aeree non sia stato ancora
completamente chiarito, i dati preliminari
consentono di ipotizzare che, a tale livello,
l’Ach, rilasciata in quantità molto minori
rispetto a quanto accade nel sistema nervoso colinergico, possa agire con meccanismo di riverberazione autocrino o paracrino sulle cellule stesse.
Bersagli e funzioni
del sistema colinergico
non-neuronale
Come descritto in precedenza gli effetti
dell’Ach rilasciata a livello non-neuronale,
si distinguono in base al sito del rilascio
stesso, luminale o basale, con effetti specifici sulle differenti cellule bersaglio.
Versante luminale
L’Ach rilasciata sul versante luminale raggiunge un numero limitato di cellule, tra
cui le cellule epiteliali stesse. Altre cellule
bersaglio sono rappresentate dai macrofagi e da altre cellule del sistema immunitario. Sia le cellule epiteliali che i macrofagi
presentano recettori muscarinici e nicotinici che possono interagire con l’Ach rilasciata: le cellule epiteliali esprimono recettori muscarinici M1 ed M3 e le subunità α e
β del recettore nAChR.
Agendo tramite questi recettori l’Ach regola la proliferazione delle cellule epiteliali, la secrezione mucosa, la secrezione
dei cloruri, il rilascio di GM-CSF e di IL-8
e stimola la frequenza del battito ciliare. I
macrofagi alveolari esprimono l’isoforma
3 del recettore muscarinico e varie subunità del recettore nicotinico, tra cui prevalgono le forme α9/α10. La stimolazione del
Medicina Toracica • 4/2009 47
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
recettore M3, in vitro, induce nei macrofagi il rilascio di mediatori pro-infiammatori, mentre la stimolazione del recettore
nAchR determina la soppressione dell’attivazione macrofagica e, più in generale,
un effetto anti-infiammatorio. I macrofagi, proprio per la loro localizzazione, non
sono raggiungibili dall’Ach del sistema
nervoso colinergico e rappresentano un
bersaglio specifico dell’Ach di derivazione
non-neuronale, rilasciata sul versante luminale delle cellule epiteliali.
Versante latero-basale
Una chiara distinzione tra gli effetti mediati dall’Ach di origine neuronale e quella rilasciata dalle cellule epiteliali risulta
molto difficile a tale livello.
È stato dimostrato che cellule epiteliali della trachea, nel topo, rilasciano Ach dopo
stimolazione con serotonina, inducendo,
in tal modo, broncocostrizione; tale effetto è sensibile alla atropina (inibitore del
recettore muscarinico). Mancano, ad oggi,
evidenze di una azione diretta dell’Ach di
origine non-neuronale sulle cellule muscolari lisce. È verosimile, peraltro, che
l’Ach possa raggiungere le strutture vicine
all’epitelio o essere riassorbita dalle cellule epiteliali stesse. Tra queste, i fibroblasti
localizzati nello strato sottoepiteliale costituiscono un bersaglio selettivo e specifico.
A ridosso della lamina basale si ritrovano
inoltre cellule del sistema immune e terminazioni nervose. I neuroni sensitivi vagali
esprimono diverse subunità del recettore
nAchR e sono interconnessi alle cellule
epiteliali tanto da rispondere alla nicotina
inalata: la stimolazione di tali fibre induce
il rilascio locale di neuropeptidi che, stimolando i meccanismi di difesa innata locale,
causano irritazione e provocano il riflesso
della tosse.
Ruolo dell’Ach
non-neuronale nella
patogenesi delle
malattie respiratorie
La deregolazione dei recettori muscarinici
è frequente in alcune delle patologie respi48 Medicina Toracica • 4/2009
ratorie più frequenti, quali BPCO ed asma
e l’utilizzo di antagonisti di tali recettori ne
rappresenta uno degli approcci terapeutici
principali.
Quale sia il contributo dell’Ach non-neuronale alla genesi di queste malattie, non è
ancora stato chiarito del tutto.
Molti dati, però, suggeriscono che il livello
di Ach di derivazione epiteliale aumenti in
corso di patologie infiammatorie delle vie
aeree, contribuendo all’attivazione della
risposta immune e alla broncocostrizione.
Per contro il contenuto totale di Ach è ridotto nei pazienti affetti da fibrosi cistica
e la produzione di Ach non-neuronale è selettivamente down-regolata nelle reazioni
infiammatorie acute su base allergica.
L’effetto proliferativo mediato dall’Ach sulle cellule epiteliali, la presenza su tali cellule del recettore nicotinico e l’associazione tra abitudine al fumo di tabacco e carcinogenesi polmonare, pongono l’accento
sulla associazione tra Ach non-neuronale e
sviluppo di carcinoma broncogeno.
Il carcinoma a piccole cellule che verosimilmente deriva da cellule epiteliali neuroendocrine e le cellule epidermoidali
maligne sintetizzano e rilasciano Ach che
funziona con loop autocrino come fattore
di crescita per il tumore stesso, agendo sia
sui recettori M3 che sul nAchR.
Recentemente, inoltre, è stato dimostrato che determinati polimorfismi nel locus
genico 15q25.1, dove sono contenute le
sequenze codificanti per il recettore nicotinico, sono associati ad una maggiore
suscettibilità allo sviluppo di cancro al
polmone.
In sintesi il rilascio di Ach di origine nonneuronale è coinvolto nella modulazione
dei processi di rimodellamento strutturale e nell’attivazione della risposta immune
in corso di malattie respiratorie infiammatorie croniche; gli effetti pro-mitotici
sull’epitelio sono inoltre direttamente associati al processo di oncogenesi polmonare.
Il sistema colinergico non-neuronale emerge, pertanto, come nuovo bersaglio terapeutico potenzialmente utile nella cura di
molte patologie delle vie respiratorie, sia a
genesi infiammatoria che proliferativa.
aggiornamenti di Fisiopatologia
Il sistema colinergico non-neuronale delle vie aeree
RIASSUNTO
A livello del sistema respiratorio l’acetilcolina (Ach) è nota agire come mediatore principale del sistema
nervoso parasimpatico. Tuttavia è stato dimostrato che l’Ach è sintetizzata anche a livello di molte cellule
che non appartengono al sistema nervoso: tra queste, cellule del sistema neuroendocrino e cellule di
derivazione epiteliale come le cellule ciliate, basali e secretorie. Crescenti evidenze suggeriscono che esiste
una specificità cellulare di espressione e rilascio di Ach, con conseguente effetto autocrino e/o paracrino.
È qui discusso il meccanismo molecolare attraverso il quale l’Ach è coinvolta nella regolazione di vari
aspetti della difesa immune innata della mucosa delle vie aeree e nella promozione della proliferazione
cellulare epiteliale che è associata ad una maggiore suscettibilità allo sviluppo di cancro del polmone. Tale
sistema di attivazione colinergica è regolato in modo differente rispetto ai meccanismi attivi nel sistema
nervoso e identifica un nuovo potenziale bersaglio terapeutico.
Parole chiave: sistema colinergico, compartimento non-neuronale, difesa immunitaria, suscettibilità al
cancro, bersaglio terapeutico.
BiBliogRafia
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Medicina Toracica • 4/2009 49
AggiornAmenti di FisiopAtologiA
Cancro, risposta immune
e metastasi
giulia stella
ernesto pozzi
Clinica di Malattie
dell’Apparato
Respiratorio
dell’Università,
IRCCS Fondazione
Policlinico
San Matteo, Pavia
introduzione
L’associazione tra risposta immune e carcinogenesi è documentata da molti anni e
diversi studi scientifici hanno dimostrato
che la condizione di infiammazione cronica predispone alla insorgenza del cancro.
Tra i fattori scatenanti l’infiammazione
cronica correlata al successivo sviluppo di
neoplasie si contemplano infezioni microbiche (e.g. infezione da Helicobacter pylori e sviluppo di cancro gastrico), malattie
autoimmuni (e.g. malattie infiammatorie
croniche intestinali e carcinogenesi del
colon), patologie infiammatorie di origine
sconosciuta (e.g prostatite e cancro della
prostata).
Già nel 1863 Rudolph Virchow documentava la presenza di leucociti nel tessuto perineoplastico e, per primo, ipotizzava che la
reazione infiammatoria conseguente contribuisse a sostenere la progressione neoplastica (1). Questa ipotesi iniziale venne
in seguito abbandonata a favore della cosiddetta “teoria della immunosorveglianza” che sostiene la funzione di inibizione
della crescita neoplastica svolta dal sistema immunitario. Tale teoria trovava conferma nella evidenza sperimentale della
capacità dei linfociti T attivati ex vivo di
indurre, quando re-infusi in animali affetti
da cancro, l’apoptosi delle cellule neoplastiche: in particolare veniva ipotizzato che
l’importante funzione della risposta immune endogena fosse mediata dalla capacità
dei linfociti di indurre la reazione di “rigetto” degli antigeni tumorali (2, 3). Studi
successivi hanno tuttavia dimostrato che
topi immunodeficienti (nude mice) non
presentavano, come invece sarebbe stato
atteso, una maggiore incidenza di sviluppo
di tumore se esposti a carcinogeni chimici (4). Infine, in lavori più recenti è stato
possibile confermare che topi transgenici
Rag-deficient (privi dei linfociti T e B) e
topi privi di INF-γ risultano esposti a maggior rischio di sviluppare neoplasie (5).
Questi dati, relativamente controversi,
hanno però sostanzialmente trascurato
l’ipotesi iniziale di Virchow, quella cioè
che vede i linfociti T giocare un ruolo attivo nella progressione e disseminazione
neoplastica. Nel 2009, tuttavia, uno studio
coordinato da David de Nardo ha riportato
l’attenzione sull’associazione tra immunità
e metastasi (6). Utilizzando topi transgenici portatori di carcinoma mammario, tali
Autori hanno dimostrato che l’eliminazione dei linfociti T endogeni riduce significativamente l’incidenza di metastasi pol-
ABSTRACT
Metastases-promoting immunity
Growing evidences suggest a tumor-promoting role for TH2-CD4+ lymphocytes that supports neoplastic
spread, as opposed to the cytotoxic activities of TH1 subset. This pro-tumor microenvironment
mainly engages stromal macrophages which, through a paracrine activation loop, are able to sustain
neoangionesis and neoplastic invasion. Metastases-related immunity cells might thus identify a new
promising target in anticancer therapy.
Key words: immunity, macrophages, malignant spread, angiogenesis.
50 Medicina Toracica • 4/2009
Cancro, risposta immune e metastasi
monari mentre non ha effetti sullo sviluppo della lesione primaria. Inoltre è stato
possibile documentare che la frequenza e
il numero delle metastasi appaiono correlati specificamente ai linfociti THCD4+: infatti, solo l’eliminazione selettiva di queste
cellule induce riduzione delle lesioni metastatiche. I risultati di questo studio hanno consentito di concludere che le cellule
TH possono svolgere, nella carcinogenesi,
ruoli diversi, anche opposti; quello che
può sembrare un paradosso è, invece, conseguente al tipo di segnale di attivazione
linfocitaria e alle interazioni conseguenti
con il microambiente peri-tumorale.
Cellule infiammatorie
e neoplasia
Le cellule del sistema immunitario presenti nel microambiente peri-tumorale e
frammiste alle cellule neoplastiche sono
rappresentate prevalentemente da cellule
dendritiche, macrofagi e linfociti. Le cellule dendritiche associate al cancro presentano generalmente un fenotipo immaturo,
con ridotta capacità di stimolo sulle cellule
linfocitarie. I macrofagi, noti anche come
TAMs (Tumor Associated Macrophages),
costituiscono il subset cellulare funzionalmente più importante dell’infiltrato infiammatorio che circonda il tumore. Essi
derivano da precursori monocitari circolanti e raggiungono le aree neoplastiche
richiamati da diverse citochine con effetto
chemotattico - chemochine - rilasciate dalle cellule cancerose. La maggior parte dei
tumori solidi è, infatti, in grado di produrre
CSF-1 (Colony-Stimulating-Factor-1) che
rappresenta il principale fattore in grado
di prolungare la sopravvivenza dei TAMs.
Le cellule NK sono relativamente rare nel
microambiente peri-tumorale. La popolazione predominante risulta costituita da
cellule T (“memory-phenotype cells”) che
definiscono specificamente il TIL (Tumorinfiltrating T cells). Ad oggi sono noti tre
subsets di cellule TH: i) TH1, caratterizzati
dalla capacità di produrre INF-γ; ii) TH2,
che producono le citochine IL-4 e IL-13; iii)
TH17, recentemente identificati, caratteriz-
Aggiornamenti di Fisiopatologia
zati dalla capacità di produrre la citochina
IL-17A e il cui ruolo nell’ambito dell’oncogenesi risulta ancora sconosciuto (7). L’attivazione della risposta immune indotta da
queste cellule è controbilanciata da altri
linfociti ad effetto inibitorio, denominati
T regolatori (TREG)8. Le cellule TH1, tramite l’INF-γ, agiscono come inibitori della
crescita tumorale attraverso l’attivazione
delle cellule CD8+. DeNardo e coll. hanno,
per contro, dimostrato che l’azione di promozione della progressione neoplastica
è specificatamente mediata dai linfociti
TH2CD4+ e che il trattamento con anticorpi
anti IL-4 è in grado di indurre l’inibizione
delle metastasi (Figura 1).
In particolare è stato dimostrato che l’effetto favorente lo sviluppo delle metastasi
indotto dai linfociti TH2CD4+ risulta mediato dal reclutamento dei macrofagi.
L’attivazione di queste cellule da parte dei
linfociti da luogo peraltro alla selezione di
due cloni differenti:
1) M1: macrofagi attivati dall’INF-γ prodotto dai linfociti TH1 in grado di produrre ossido nitrico (NO) e citochine
IL-12 che determinano l’amplificazione
della risposta TH1; con i linfociti CD8+ i
macrofagi M1 costituiscono i principali
mediatori della immunità ad effetto antitumorale;
2) M2: macrofagi attivati dai linfociti TH2
e che David DeNardo ha dimostrato essere coinvolti nel processo di metastatizzazione dipendente da IL-4 e IL-13.
Inoltre i macrofagi M2 producono molteplici citochine tra cui TGF-β - che a
sua volta, sopprime la risposta immune
antineoplastica TH1-mediata - e fattori
di crescita come EGF che sostengono la
progressione e la disseminazione neoplastica.
La duplice, opposta funzione che i TAMs
possono svolgere sulla progressione neoplastica è stata per la prima volta definita
nel 1992 da Alberto Mantovani come “macrophage balance hypothesis” (9). I macrofagi attivati tramite la via alternativa, in
risposta ai linfociti CD4+, promuovono il
processo di metastatizzazione sotto diversi aspetti: oltre alla produzione di fattori di
crescita, supportano l’angiogenesi e faciliMedicina Toracica • 4/2009 51
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
Figura 1 Meccanismi d’interazione tra sistema immune e progressione neoplastica. Modif.
da (6). APC: cellule presentanti l’antigene; TIL: infiltrato infiammatorio peritumorale; CTL: linfociti T
citotossici.
tano così l’invasione delle cellule maligne
nel torrente circolatorio. Tali azioni sono
conseguenti alla capacità dei macrofagi
M2 di esprimere fattori pro-angiogenetici
tra cui VEGF e metalloproteasi della matrice come MMP-9 (10). In particolare si
ipotizza che le proprietà pro-metastatiche
dei TAMs siano correlate alla espressione
di fattori di crescita come EGF, mentre gli
effetti pro-angiogenetici sembrano essere
regolati da fattori legati al microambiente,
tra cui principalmente l’ipossia. Infatti la
reciproca attivazione tra cellule epiteliali
neoplastiche e TAMs è mantenuta dalla
persistente rispettiva produzione di CSF1 ed EGF: tali fattori, che agiscono con
loop paracrino, rappresentano, di fatto, gli
elementi essenziali di attivazione del fenomeno di branching morphogenesis nelle
cellule epiteliali trasformate che vengono ad assumere un fenotipo chiaramente
aggressivo. DeNardo e coll. hanno dimo52 Medicina Toracica • 4/2009
strato sperimentalmente che l’attivazione
dei macrofagi mediata da IL-4 (ovvero dai
linfociti TH2CD4+) in combinazione con
fattori derivati dalle cellule epiteliali maligne (e.g. CSF-1) inducono, nei macrofagi,
l’espressione di elevati livelli di EGF; tale
fattore di crescita, a sua volta, attiva nelle
cellule neoplastiche i meccanismi molecolari che promuovono l’invasione metastatica. L’attivazione della neoangiogenesi
appare invece correlata all’espressione del
fattore inducibile dall’ipossia, l’HIF-1α, e
delle inteleuchime IL-6 ed IL-8 che a loro
volta promuovono la produzione di VEGF.
Infiammazione
ed angiogenesi
L’angiogenesi costituisce un fenomeno
rilevante, associato all’evoluzione sia del
cancro che della infiammazione. I macro-
Cancro, risposta immune e metastasi
fagi rappresentano le cellule maggiormente coinvolte nell’induzione della angiogenesi e molti lavori scientifici documentano
una associazione significativa tra infiltrato
macrofagico, densità microvasale ed outcome clinico. Anche molte chemochine
sono attive nel processo di angiogenesi:
tra queste la più importante è l’interleuchina 8 (CXCL8, secondo la nomenclatura
più recente). Recettori per questa chemochina (CXCR1 e 2) sono espressi sia dai
TAMs che dalle cellule neoplastiche ed
è stato ipotizzato che il fenomeno della
disseminazione neoplastica possa effettivamente essere guidato dal gradiente di
espressione di IL-8. Inoltre, il suo livello di
espressione appare direttamente correlato
a quello di VEGF, una delle principali molecole capaci di indurre la differenziazione
degli angioblasti e il processo di vasculogenesi. È importante sottolineare però
che i microvasi neoformati nel contesto di
tessuti neoplastici presentano rilevanti alterazioni strutturali, tali da non consentire
un adeguato apporto di ossigeno alle cellule neoplastiche in proliferazione. L’ipossia
e l’acidosi conseguenti comportano quindi
l’espressione di pathways genetici prometastatici e giustificano inoltre la chemio
e radio resistenza da parte delle cellule
maligne.
Infiammazione e danno
diretto al DNA
Un ulteriore meccanismo attraverso il quale le cellule del sistema immunitario possono sostenere la carcinogenesi è dato dal
danno diretto al DNA. Tale effetto appare
principalmente mediato dal TNF (Tumor
Necrosis Factor), citochina infiammatoria
coinvolta sia nella induzione della proliferazione neoplastica che nel fenomeno
di necrosi emorragica che molto sovente
è associato alla progressione tumorale
stessa. In particolare il meccanismo con
cui TNF induce la trasformazione e la progressione neoplastica risulta mediato dallo sviluppo di specie reattive dell’ossigeno
(ROS), tra cui l’ossido nitrico. È stato dimostrato che l’ossido nitrico può ossidare
Aggiornamenti di Fisiopatologia
direttamente il DNA o alterarne l’integrità
di struttura attraverso l’inibizione del citocromo P450 o degli isoenzimi della glutatione S-trasferasi (11).
In sintesi è possibile affermare che l’interazione tra sistema immune e cancro si attua su due livelli:
- quello estrinseco, che comprende tutti i
fattori di infiammazione cronica che predispongono alla carcinogenesi;
- quello intrinseco, mediato dalle alterazioni genetiche che causano cancro e
infiammazione peri-tumorale (e.g. attivazione oncogenica conseguente a mutazioni e/o amplificazioni).
Nel primo caso le cellule trasformate secernono mediatori pro- infiammatori che
richiamano cellule del sistema immune nel
microambiente peri-tumorale, in assenza
di condizioni infiammatorie croniche. Al
contrario l’attivazione immunitaria per via
estrinseca si associa ad aumentato rischio
di cancro in determinate sedi anatomiche,
come ad esempio colon e prostata. Mantovani et al. (12)hanno dimostrato che questi
due pathways convergono nelle cellule tumorali nell’attivare fattori di trascrizione
nucleari, tra cui principalmente NF-κB, attivatori della trascrizione (STAT3) e il fattore HIF-1α, che coordinano la produzione
di mediatori pro-infiammatori come citochine, chemochine e COX-2 (cui consegue
l’attivazione di molte prostaglandine) che,
in ultimo, richiamano linfociti e macrofagi.
L’attivazione da parte delle citochine infiammatorie degli stessi fattori di trascrizione sia a livello delle cellule tumorali
che nell’infiltrato infiammatorio peri-tumorale, determina l’amplificazione della
risposta immune associata al cancro e la
progressiva selezione della componente
immunitaria TH2 (Figura 2). Tutti i linfociti T per essere attivati devono riconoscere
gli antigeni tramite i loro recettori (TCR)
eterodimerici α/β.
Nel caso della infiammazione indotta dalle infezioni croniche gli antigeni attivanti i
linfociti T sono costituti dalle proteine degli agenti infettivi; nel caso della risposta
pro-metastatica TH2 è verosimile che l’attivazione di queste cellule sia conseguente al riconoscimento di antigeni self miMedicina Toracica • 4/2009 53
Aggiornamenti di Fisiopatologia n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
Figura 2 Convergenza delle vie di attivazione infiammatoria estrinseca ed intrinseca nella
attivazione della proliferazione neoplastica.
nimamente espressi nelle cellule normali
ma fortemente sovraespressi nel tessuto
neoplastico.
L’attivazione di questi processi sta alla base
della condizione paradossale che caratterizza l’infiammazione associata al cancro:
da una parte i tumori producono chemochine e si circondano, di conseguenza,
di infiltrati linfo-monocitari; dall’altra le
neoplasie si associano ad una ridotta capacità di montare la risposta immunitaria
sistemica anche dimostrata dalla difettosa
risposta esercitata dai monociti circolanti
dei pazienti affetti da cancro verso gli stimoli chemotattici (13).
Contribuiscono alla condizione di inibizione della infiammazione sistemica che si
associa al cancro anche alcuni mediatori
prodotti a livello dello stroma peri-tumorale: tra questi TNF e IL-1; del resto anche
le stesse cellule tumorali sono in grado di
secernere citochine anti-infiammatorie.
54 Medicina Toracica • 4/2009
Infiammazione, cancro
e riflessi di terapia
Da quanto sopra descritto si evince che
i mediatori della risposta infiammatoria
associata alla progressione neoplastica
costituiscono un complesso network biomolecolare (Tabella 1) e che molti dei
sintomi dovuti alla infiammazione, nei pazienti affetti da cancro, non sono diversi
da quelli dei pazienti portatori di malattie
infiammatorie croniche. D’altro canto proprio la dimostrazione del ruolo promuovente la progressione neoplastica svolto
da un determinato subset di cellule del sistema immune, consente di identificare in
tali compartimenti cellulari un potenziale
bersaglio della terapia anticancro.
In particolare alcuni trials clinici sono
stati condotti con inibitori del TNF, tra
cui Etanercept ed Inliximab, con risultati
preliminari incoraggianti. La talidomide è
Cancro, risposta immune e metastasi
Aggiornamenti di Fisiopatologia
Tabella 1 Principali effetti promuoventi la progressione neoplastica mediati da circuiti biomelcolari associati alla attivazione della risposta infiammatoria locale e sistemica.
Effetto
Danno diretto al DNA
Inibizione riparazione DNA
Inattivazione oncosoppressori/Attivazione
oncogeni
Secrezione paracrina fattori di crescita
Neoangiogenesi ed Induzione aumento
permeabilità vascolare
Rimodellamento tessutale
Invasione metastatica
Inversione paraossa risposta immune dell’ospite
Chemio e radioresistenza
stata impiegata per le sue proprietà di inibire la trasduzione del TNF-mRNA e per
gli effetti anti-angiogenetici ed è utilizzata
con discreto successo nel trattamento delle neoplasie ematologiche, come il mieloma multiplo (14). Sono in studio inibitori
specifici della interleuchine IL-6 ed IL-8.
Una considerazione particolare meritano i
farmaci antiinfiammatori non steroidei. È
già stato evidenziato che i pazienti in trattamento cronico con questi farmaci sono
a minor rischio di sviluppo di cancro colorettale. L’enzima ciclossigenasi-2 (COX-2)
è il bersaglio di questi farmaci ed è sovraespresso sia nelle malattie infiammatorie
croniche che nel cancro. Studi con inibitori specifici della COX-2 hanno dimostrato
risultati significativi (15)�. I più recenti dati
sul ruolo dei linfociti TH2CD4+ e dei TAMsM2 identificano in queste cellule specifici
bersagli terapeutici: dal momento che programmi distinti sono responsabili della selettiva attivazione - o della inibizione - della
progressione neoplastica, si può ipotizzare
che proprio tali programmi possano essere re-indirizzati in modo da far prevalere
l’effetto immunitario inibitorio (TH1-M1).
Gli esatti meccanismi con cui la risposta
immune pro-tumorale può essere di fatto
bloccata farmacologicamente non sono ad
oggi completamente delucidati e molti studi in questa direzione sono ancora in corso. Peraltro nel circolo vizioso tra infiammazione locale e sistemica nei pazienti af-
Mediatori e meccanismi biomolecolari
ROS, no
ROS, no
KRAS, NF-kB, STAT3, HIF-1a, TNF
TGF, EGF, HGF
VEGF, IL-6, IL-8, MMPs
EGF, MMPs
MMPs, EGF, HGF
Polarizzazione TH2CD4+/TAMs-M2
Ipossia/acidosi
fetti da cancro molti problemi sono ancora
aperti. In primo luogo non è noto quale sia
il livello soglia di infiammazione capace di
indurre la progressione neoplastica. Un’ulteriore difficoltà è data dalla estrema diversità e plasticità delle cellule del sistema
immune associate al cancro. Inoltre non
è stato ancora chiarito come sia possibile
attivare selettivamente l’immunità antitumorale in modo da riequilibrare la bilancia
tra i due tipi di infiammazione correlata al
cancro. Infine un’altra questione urgente,
ed ancora non definita, riguarda il ruolo
della immunità nella progressione neoplastica e come si possano tradurre le attuali
conoscenze non solo nella terapia, ma anche nella diagnosi e prognosi del cancro
(16)�. In particolare mancano del tutto dati
relativi alla validazione del valore predittivo di biomarcatori tumorali noti in relazione alla loro espressione rispetto alla
condizione infiammatoria e per converso
il ruolo che l’infiammazione sistemica gioca nella identificazione di nuovi marcatori
tumorali.
Conclusioni
In definitiva le conoscenze di cui al momento si dispone suggeriscono che i normali
programmi immunologici antitumorali acquisiti possono trovare nel microambiente
peri-tumorale una attuazione aberrante ed
Medicina Toracica • 4/2009 55
AggiornAmenti di FisiopAtologiA n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
essere indirizzati in senso pro-metastatico
attraverso l’attivazione di componenti cellulari della risposta immune innata funzionalmente coinvolti nella regolazione del
fenotipo delle cellule epiteliali. Il complesso sistema di reciproca amplificazione tra
cancro e risposta immunitaria associata
contribuisce a sostenere la definizione che
già nel 1986 Harold Dvorak aveva dato del
cancro, quella cioè di una ferita che non
può cicatrizzare (“Tumors: wounds that
do not heal”) (17) .
RIASSUNTO
Recenti evidenze sperimentali suggeriscono che i linfociti TH2-CD4+ svolgono un ruolo di promozione
del processo di metastatizzazione a distanza, in contrasto con l’attività di inibizione tumorale mediata
dai linfociti TH1/CD8+. L’effetto favorente la disseminazione neoplastica è conseguente, prevalentemente,
al reclutamento dei macrofagi presenti nello stroma peri-tumorale: tali cellule, attivate persistentemente
attraverso un meccanismo di riverberazione paracrina, sostengono il processo di neoangiogenesi e di
invasione metastatica. Questo tipo di immunità che è attiva nel corso della progressione neoplastica rappresenta, pertanto, un nuovo potenziale bersaglio nella terapia mirata antitumorale.
Parole chiave: immunità, macrofagi, disseminazione neoplastica, angiogenesi.
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CASO CLINICO
Mediastinite fibrosante
La mediastinite fibrosante, detta anche
mediastinite sclerosante o fibrosi mediastinica, è una condizione rara, caratterizzata da infiammazione cronica e dalla
proliferazione di tessuto fibroso e denso a
livello mediastinico.
Il processo, spesso progressivo, può manifestarsi sia focalmente sia in modo più o
meno diffuso.
Colpisce prevalentemente soggetti giovani, presentandosi con segni e sintomi
correlati alla compressione e/o occlusione
di strutture mediastiniche vitali, quali vasi
venosi sistemici, vie aeree, vene ed arterie
polmonari ed esofago, fino a provocare occasionalmente il decesso.
EZIOPATOGENESI
Ad oggi il meccanismo che sottende la
mediastinite fibrosante rimane in molti
casi sconosciuto, anche se cause infettive
e non sono state proposte come possibile fattore patogenetico. Generalmente la
manifestazione patologica può concretizzarsi o come coinvolgimento più o meno
diffuso dei tessuti molli da parte di cellule
infiammatorie e tessuto fibroso, o come
massa infiammatoria granulomatosa relativamente localizzata (“pseudotumore”) a
carico di uno o più linfonodi. Negli Stati
Uniti si è riscontrata una correlazione fra
tale condizione e l’infezione da Histoplasma capsulatum (1, 5). La positività
dell’antigene specifico ai test cutanei e/o
l’identificazione del parassita nei campioni istologici stanno a sostegno di quanto
affermato.
Non è ancora chiaro se l’infezione sia
l’evento scatenante oppure se la fibrosi
sia conseguenza di una anomala reazione
immunologica nei confronti dell’antigene
dell’Histoplasma.
Nelle regioni geografiche in cui l’istoplasmosi non è endemica, il più importante
agente infettivo è il Mycobacterium tuberculosis; altre cause possono ritrovarsi
nelle aspergillosi, nelle blastomicosi, nelle
criptococcosi e nelle mucormicosi (6-10).
Le forme infettive sono spesso di tipo localizzato; decorrono in modo quasi del tutto
asintomatico, risparmiando vie aeree, arterie e vene polmonari.
L’instaurarsi progressivo della fibrosi mediastinica non è chiara in pazienti che pre-
Francesca Mariani
Zamir Kadija
Clinica di Malattie
dell’Apparato
Respiratorio
dell’Università,
Fondazione IRCCS
Policlinico San
Matteo
Pavia
ABSTRACT
Fibrosing mediastinitis
Fibrosing mediastinitis is a rare disorder caused by proliferation of acellular collagen and fibrous
tissue within the mediastinum. Although many cases are idiopathic, many (and perhaps most) cases
in the United States are thought to be caused by an abnormal immunologic response to Histoplasma
capsulatum infection. In the remaining cases the disease is consequent to systemic disorders such as
neoplasms, autoimmune syndromes, multifocal fibrosclerosis. In all cases mediastinal involvemente
may be focal and diffuse. Here we discuss the clinical course, pathological findings and imaging presentation of such a disease which still remains orphan in term of specific therapies.
Key words: fibrosis, pseudotumor, orphan disease.
Medicina Toracica • 4/2009 57
caso clinico n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
sentano infezione; è stato ipotizzato che il
granuloma mediastinico possa rappresentare l’evento precursore della mediastinite
fibrosante diffusa, processo conseguente
alla rottura del granuloma con fuoriuscita
di materiale necrotico dai linfonodi coinvolti, seguita o dall’infezione del mediastino o da una rea­zione di ipersensibilità.
In molti casi, tuttavia, non è possibile documentare quadri istologici suggestivi per
una eziologia infettiva pur essendo plausibile che essi rappresentino la fase finale di
un’infezione cronica in cui non è più identificabile il microrganismo patogeno. Nella maggior parte dei casi tuttavia l’origine
appare indubbiamente non infettiva; possono infatti associarsi condizioni di positività autoimmunitarie (e.g la malattia di Behçet o la febbre reumatica), granulomatosi
non caseose (sarcoidosi), terapia radiante,
traumi, linfoma di Hodgkin, assunzione di
metisergide (farmaco antiserotoninergico usato nella prevenzione e nella terapia
dell’emicrania) (11-13). È inoltre possibile
l’interessamento a livello mediastinico in
corso di fibrosclerosi multifocale.
Tale patologia, assai rara, è anche conosciuta come “malattia correlata alle immuno-globuline G4” e si configura come un
disordine proliferativo ad interessamento
multiorgano con esito in fibrosi del tessuto interessato (fibrosi mediastinica, retroperitoneale, pseudotumore orbitale, tiroidite di Riedel e colangite sclerosante) (15).
CARATTERISTICHE
ANATOMO-PATOLOGICHE
Il quadro istologico varia a seconda della causa scatenante. In alcuni casi, in
particolare in quelli in cui è identificato
un microrga­nismo infettivo, è presente
un’infiammazione granulomatosa necro­
tizzante; in altri, la componente granulomatosa è minima o assente e il tessuto
patologico è principalmente rappresentato da tessuto fibroso maturo contenente
un infiltrato di cellule infiammatorie mononucleate. La fibrosi può rimanere localizzata o diffondersi nella metà superiore
del media­stino, prevalentemente davanti
58 Medicina Toracica • 4/2009
alla trachea e intorno agli ili; in rari casi
può risalire verso le vene brachicefaliche
o interessare il mediastino posteriore ed il
polmone.
Flieder et al. (14), partendo da uno studio
condotto su 30 casi di fibrosi mediastinica
idiopatica, hanno definito uno score istologico che consente di identificare tre stadi; tuttavia tale classificazione non risulta
correlabile significativamente con il dato
clinico.
Nello stadio I le lesioni sono costituite in
modo prevalente da tessuto fibromixoide
edematoso; nello stadio II le lesioni contengono invece materiale ialino eosinofilico che circonda ed infiltra le strutture mediastiniche; nello stadio III di malattia un
collagene denso e paucicellulare è causa
di lesioni obliteranti.
Oltre alla identificazione di agenti infettivi, nella diagnosi della fibrosi mediastinica rientrano neoplasie quali il linfoma
di Hodgkin a variante sclero-nodulare e
linfomi non-Hodgkin, tumori a prevalente
componente fibrosa localizzati alla pleura, metastasi di carcinoma con pattern di
proliferazione a prevalente componente
fibrogenico-infiammatoria, timomi e carcinomi timici.
In diagnosi differenziale possono anche
rientrare la semplice fibrosi, la fibromatosi e sarcomi a basso grado. In particolare
la diagnosi di interessamento mediastinico secondario a fibrosclerosi multifocale
è definita dalla presenza di cellule giganti
multinucleate Touton-like e cellule fusate
positive a vimentina e actina. Poiché tutte queste lesioni possono mostrare aree
fibrotiche, campioni bioptici ottenuti per
via percutanea possono risultare insufficienti, rendendo quindi necessario il procedere con biopsie chirurgiche tramite
mediastino o toracoscopia (14).
MANIFESTAZIONI CLINICHE
La fibrosi mediastinica interessa prevalentemente i giovani, con un’età media alla
diagnosi di 37.5 anni; non sembra esistere
predilezione di sesso. Segni e sintomi sono
alquanto variabili e dipendono dall’esten-
caso clinico
Mediastinite fibrosante
sione della fibrosi e dalle strut­ture mediastiniche coinvolte: compressione e/o occlusione di strutture mediastiniche vitali
quali vasi venosi sistemici, vie aeree, vene
ed arterie polmonari ed esofago. Meno
frequentemente risultano coinvolti: cuore, pericardio, coronarie, aorta e vasi da
essa originanti (1, 8, 14). Tosse, dispnea,
infezioni polmonari recidivanti, emottisi e
dolore toracico sono spesso i più comuni
quadri di primo riscontro; più rari febbre e
perdita di peso.
In alcune forme diffuse, e raramente nelle
forme limitate, la fibrosi mediastinica può
associarsi alla sindrome della vena cava
superiore (VCS), compren­de vertigini, tinnito auricolare, cefalea, epistassi, cianosi,
gonfiore del volto, del collo e delle braccia. La gravità di que­sti sintomi può diminuire nel tempo con lo sviluppo di circoli
venosi collaterali.
L’ostruzione delle vie aeree centrali è abbastanza comune nella forma diffusa e tipicamente si manifesta con tosse, dispnea,
polmoniti ricorrenti/persistenti o atelettasie distali. Mentre le occlusioni acute delle vene polmonari possono associarsi ad
emottisi o dispnea, sia ingravescente che
da sforzo, quelle croniche sostengono lo
svilupparsi di ipertensione arteriosa pol-
monare, edema e cuore polmonare (una
delle più importanti cause di morbidità e
mortalità nei pazienti con mediastinite fibrosante) ed infarti polmonari. Solo raramente l’ipertensione polmonare risulta secondaria alla stenosi o all’occlusione delle
arterie polmonari. Possibili inoltre il chilotorace secondario all’ostruzione del dotto
toracico e la disfonia per interessamento
del nervo laringeo ricorrente.
MANIFESTAZIONI
RADIOLOGICHE
Benchè la radiologia standard del torace
mostri nella maggior parte dei casi un profilo mediastinico normale, la revisione di
un discreto numero di esami radiologici ha
permesso di mettere in evidenza la presenza di due pattern mediastinici prevalenti:
massa focale/localizzata (82%) o ispessimento diffuso (18%) (16).
Diversamente dalla radiografia lo studio TC permette un’accurata valutazione
dell’estensione dell’infiltrato del tessuto
molle mediastinico e della compressione
e/o occlusione di strutture mediastiniche
vitali, quali vasi venosi sistemici, vie aeree,
vene ed arterie polmonari ed esofago. Le
Figure 1 e 2 Ectasie dei vasi mediastinici sia venosi che arteriosi, soprattutto nel mediastino
anteriore. Il calibro dei vasi segmentali prossimali delle arterie per i lobi superiori e per il lobo medio
sono simmetricamente ed uniformemente ridotti di calibro come per compressione estrinseca a
manicotto. Uguale reperto per le vene polmonari superiori bilateralmente. La vena cava superiore
appare decisamente ridotta di calibro fino a pochi millimetri ed è avvolta da parete uniformemente
ispessita. Analogo reperto per l’aorta ascendente, non però ridotta di calibro.
Medicina Toracica • 4/2009 59
caso clinico n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n n
lesioni focali coinvolgono più frequentemente la regione paratracheale destra,
sottocarenale e mediastinica posteriore.
Meno frequentemente si osservano masse
ilari, mentre possono essere evidenti zone
calcifiche (63%), come esito di istoplasmosi o tubercolosi.
In un minor numero di pazienti, la presenza di anomalie parenchimali, o di linfoadenopatia broncopolmonare, suggerisce
un’origine polmonare della malattia mediastinica. La forma diffusa causa invece
un coinvolgimento massivo del mediastino, più comune nella parte superiore; le
linee mediastiniche possono apparire lisce
o lobulate; più raro è il riscontro di aree
calcifiche.
In alcuni casi è osservabile un interessamento extramediastinico caratterizzato da
restringimento della trachea, dei bronchi
principali e dell’esofago, più o meno associato ad ostruzione delle arterie e delle
vene sia sistemiche che polmonari.
Il coinvolgimento della VCS, per esempio, può esitare nella prominenza del
cappuccio aortico e nell’allargamento
del mediastino superiore, come risultato
dell’ingorgo delle vene collaterali (Figure
1 e 2). L’ostruzione o il restringimento di
un’arteria polmonare può provocare aree
localizzate di oligoemia, perdita di volume o trombosi, mentre quello delle vene
polmonari può esitare in localizzate aree
edematose con ispessimento dei setti interlobulari e ground glass.
Infarti polmonari possono seguire l’instaurarsi di ostruzioni sia delle vene che delle
arterie, presentandosi come aree triangolari in assenza di broncogramma aereo.
Il coinvolgimento delle vie aeree centrali
può sottendere la comparsa di atelettasie
o di polmoniti ostruttive ricorrenti (17-21).
PROGNOSI E TRATTAMENTO
La fibrosi mediastinica è caratterizzata da
un andamento alquanto variabile, potendo
oscillare fra la remissione spontanea e la
rapida evoluzione.
Tra le cause di morte sono frequentemente riportate: infezioni ricorrenti, emottisi e
cuore polmonare.
Il tasso di mortalità è significativamente
più elevato nelle forme ad interessamento sottocarenale o mediastinico bilaterale,
rispetto a quelle mediastiniche localizzate
o ilari. Le strategie terapeutiche ruotano
intorno a tre differenti approcci: l’associazione di antifungini e steroidi sistemici, la
chirurgia, i trattamenti locali sintomatici.
Negli Stati Uniti, vista la correlazione con
l’Histoplasma capsulatum, diversi pazienti sono stati trattati con antifungini sistemici (e.g. ketoconazolo), con stabilizzazione o almeno miglioramento dei sintomi
(22).
Modesti o per nulla significativi sono invece i risultati relativi alla somministrazione
di steroidi sistemici (23). Se la fibrosi è
localizzata, l’asportazione chirurgica del
tessuto patologico può essere l’unica possibilità curativa, approccio invece precluso alle forme diffuse.
Per quanto concerne l’approccio sintomatologico è possibile ricorrere alla dilatazione di vie aeree, arterie polmonari o vena
cava tramite laser-terapia, posizionamento
di stent intravascolari o endobronchiali,
dilatazione mediante palloncino (21).
RIASSUNTO
La mediastinite fibrosante è una condizione patologica rara, che esita in proliferazione afinalistica di tessuto fibroso e collagene acellulato a carico del mediastino. Tale patologia può essere conseguente ad
eziologia infettiva (negli USA sono stati descritti casi conseguenti ad infezione da Histoplasma capsulatum) oppure può rappresentare una manifestazione secondaria di patologie sistemiche tra cui neoplasie
(linfomi), malattie autoimmuni, fibrosclerosi multifocale. In tutti i casi il coinvolgimento del mediastino
può essere focale o diffuso (1-4) . È qui descritta la presentazione clinica, le evidenze anatomopatologiche
e radiologiche di questa patologia che , ad oggi, rimane orfana in termini terapeutici specifici.
Parole chiave: fibrosi, pseudotumore, malattia orfana.
60 MedicinaToracica•4/2009
Mediastinite fibrosante
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Medicina Toracica • 4/2009 61
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Medicina Toracica è la Rivista ufficiale della Società Italiana
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62 Medicina Toracica • 4/2009
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unicamente nel testo, con l’indicazione del nome degli autori
e l’anno di stesura (secondo lo stile di Vancouver).
Esempi di citazione bibliografica:
1. Palange P, Crimi E, Pellegrino R, Brusasco V. Supplemental oxygen and heliox: ‘new’ tools for exercise training in
chronic obstructive pulmonary disease. Curr Opin Pulm
Med. 2005; 11: 145-148.
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Care Med. pubblicazione online prima della stampa: 12
giugno 2008. doi: 10.1164/rccm.200801-101OC.
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5. National Heart, Lung, and Blood Institute (NHLBI) and
World Health Organization (WHO). Global strategy for
asthma management and prevention NHLBI/WHO Workshop Report. Bethesda (MD): National Institutes of
Health, NHLBI; 1995 Jan. Report No. 95-3659.
6. Global Strategy for Asthma Management and Prevention.
Global Initiative for Asthma (GINA), 2006. www.ginasthma.org Ultimo aggiornamento nel 2006.
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• PERIMED - Medicina Perioperatoria
• PROLEGOMENI - STUDIO
(Rivista Uff. ESRAT-CIAO-SARNePI-FOAP) G. Fanelli editor
DELLA FISICA DEL FEGATO
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& CARDIOVASCULAR ANESTHESIA
a cura di N. Dioguardi
(Rivista Ufficiale della Scuola di Anestesiologia e Intensive Care)
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HEPATITIS WORLD · A. Craxì editor
•
• EMATOLOGIA ONCOLOGICA
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• LE INFEZIONI IN MEDICINA · S. Esposito editor
• LE ARITMIE CARDIACHE
a cura di L. dei Cas
• LA TERAPIA
DELL’INSUFFICIENZA CARDIACA
a cura di M. Volpe
VISCONTEA
TIPOGRAFIA
EDITORIALE
La divisione EDINT
pubblica in preferenza libri per ragazzi
pubblica prevalentemente libri
di “storia regionale e locale”
Alcuni titoli:
Alcuni titoli:
• ORBITAL HOTEL
• “FIGURE E FIGURI”
• DOTTORE! DOTTORE!
• PAVIA CISALPINA E NAPOLEONICA
Volume scritto da Claudio Apone,
presentato da Max Pezzali
e “disegnato” da Marco Lodola
Ambientato e “vissuto” nello spazio
Volume scritto da Paolo Zanocco (medico).
Racconta con sonetti e dialoghi ironici
la professione di un Medico Pediatra di provincia
DEL RISORGIMENTO IN LOMBARDIA
a cura di I. Montanelli e Coll.
Si racconta di vita, fatti e misfatti di personaggi
del risorgimento Lombardo
a cura di G.E. de Paoli
Descrive con precisione il periodo napoleonico
a Pavia
27100 PAVIA · VIA RIVIERA 39 · TEL. 0382526253 R.A. · FAX 0382423120 · E-MAIL: [email protected]
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