III. - I PRODOTTI DEI LAGONI. Passate così in breve rassegna le
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III. - I PRODOTTI DEI LAGONI. Passate così in breve rassegna le
III. - I PRODOTTI DEI LAGONI. Passate così in breve rassegna le località che durante il Medioevo fornirono all’industria estrattiva gli elementi per svolgere la propria attività, ed accertata l’identità fra le manifestazioni attuali e le lacunae di allora, rimane da esaminare in particolare i prodotti che più largamente i mercanti ricercarono fra i molti che la natura dei lagoni poteva offrir loro, ritraendone, se possibile, qualche caratteristica del traffico. È importante fino da ora tenere presente che, se nel 1289 i lagoni di Castelnuovo, nel 1299 quelli di Cornia, nel 1301 quelli di spettanza vescovile formavano oggetto di larghe contrattazioni e di essi si parlava come di attività ormai nota ed acquisita dall’economia comunale, è evidente che il loro sfruttamento, ormai generalizzato, risaliva ad una data di certo anteriore. Questa incognita data è da mettere in relazione allo sviluppo mercantile dei maggiori centri della Toscana, soprattutti Pisa e Firenze, per i quali lo zolfo, l’alllume, il vetriolo costituivano indispensabili materie prime per le loro manifatture e ricercati prodotti di traffico. L’accertata attività industriale sul territorio e sulle risorse naturali dei lagoni elimina ogni incertezza sull’esistenza e sull’entita del fenomeno: riteniamo quindi superfluo, di fronte alla realtà dei libri di commercio, discutere od approfondire (229) Si stanno ora svolgendo nel territorio di Micciano ricerche di carattere minerario, il cui risultato non è ancora noto. Pare tuttavia accertata la presenza di rame e di tracce di molibdeno e antimonio. Di una miniera di rame in Libbiano si ha ricordo in Rapp. della Pub. Esp., cit., p. 65. — 100 — sicure o supposte descrizioni di poeti e naturalisti medievali e moderni (230), e ricercarne, di proposito, inedite testimonianze. § I. - Zolfo. Il prodotto più abbondante ed anche più redditizio, atteso il sicuro esito che di esso si faceva sui mercati di consumo e di intermediazione, era costituito dallo zolfo. La raccolta del minerale e la successiva raffinazione non richiedevano un’attrezzatura tale da determinare un cospicuo investimento di capitale fisso, nè era rischioso dedicarsi ad una attività che, se dell’impresa mineraria non divideva la caratteristica del lucro vistoso ed immediato, non ne partecipava però che in limitata misura all’incerta prospettiva. Lo zolfo si formava nel ribollimento di quei lagoni erompenti generalmente in terreni argillosi, ed andava via via accumulandosi nella loro poltiglia e nei loro contorni (231). In (230) Sulla possibilità di un accenno al fenomeno dei lagoni nel Canzoniere dantesco (canzone VIII, stanza V), prospettata da Ezio SOLAINI, v. NASINI, p. 27., Cfr. le obiezioni sollevate da L. PESCETTI, in « Rassegna Volterrana », 1930, II, p. 89 e sgg. (231) Come è stato altrove rilevato, lo zolfo è incluso nel vapore dei soffioni sotto forma di idrogeno solforato. In presenza dell’aria, parte di esso si deposita sul terreno (se di natura silicea), parte si trasforma in acido solforico, che salifica i minerali con i quali viene a trovarsi a contatto (v. pp. 80, 113, e note 344, 351). Il GAZZERI ebbe l’opportunità, nel 1809, di eseguire l’analisi della poltiglia di un lagone, allora usata, sembra con incoraggianti risultati, nella cura di malattie cutanee. Su 100 parti di terra l’analisi registrò: solfato di ferro (vetriolo) parti 8, solfato di calcio 5, zolfo 40, allumina 8, ossido di ferro 1,50, acqua 5, perdita 1,5. Mentre l’assenza dei carbonati si spiega con la loro eliminazione ad opera dell’acido solforico, può notarsi che il vapore erompeva verosimilmente in terreno siliceo con inclusioni calcaree. Non avendo trovato traccia di acido borico, il GAZZERI concluse che la terra proveniva da un lagone privo di quella sostanza (G. G AZZERI, Analisi della terra dei bulicami o la- — 101 — modo analogo, i soffioni cosidetti secchi, che scaturivano nella roccia di natura silicea, depositavano quantità notevoli del giallo minerale. Ancora oggi possono vedersi ad esempio al Sasso, in località Acquaviva, od a Castelnuovo, nella zona dei Marmoni, ricchi depositi di zolfo, formati sulla roccia pervasa dai gas dei soffioni. Staccando dei pezzi di pietra, vi si notano abbondanti fioriture cristalline di zolfo, che con poca fatica potrebbero ridursi allo stato puro. Naturalmente, i depositi sono superficiali o quasi, essendo necessaria la presenza dell’aria affinchè le reazioni relative alla formazione dello zolfo possano svilupparsi. Quando lo spessore del crostone era giudicato sufficiente per la sua manipolazione, gli zolfai frantumavano l’incrostazione con delle zappe e, raccolto il minerale, lo mettevano a cuocere in giare di terra. Da queste, lo zolfo allo stato liquido saliva in un bucciuolo, dal quale colava in apposite formelle, mentre le scorie rimanevano al fondo delle giare (232). Lo spazio di dieci anni era ritenuto necessario per ottenere dai lagoni e dalle putizze un crostone di zolfo dello spessore di due dita, atto a fondersi (233). Uguale procedimento si seguiva per ricavare lo zolfo dalla roccia in cui trovavasi incluso. Per avere in continuazione il pregiato minerale, l’insieme delle attività solfatariche di una determinata zona era indubgoni del territorio volterrano, in « Annali del Museo Imperiale di Fisica e Storia naturale di Firenze », 1809, t. II, II, p. 143). Il celebre metallurgista senese VANNOCCIO BIRINGUCCIO, nel parlare dello zolfo ricavato dai terreni ove si notano fenomeni pseudo vulcanici, allude evidentemente ai lagoni del Volterrano e del Senese, pur senza avere visitato i luoghi (V. BIRINGUCCIO, De la pirotechnia [1540], ed a cura di A. MIELI, I, Bari, 1914, p. 174). (232) RONDINELLI, rel. cit., c. 6t.: « Il giallo è in più luoghi, e svapora sopra la terra tre dita d’altezza in circa, facendo crosta, la quale presa, e posta in giare di terra a cui si dà fuoco, colandosi il zolfo rimane la terra, entrando esso per canaletti ne’buccioli »; TARGIONI, III, p. 342 e bibl. cit. (233) Ibid., p. 342. — 102 — biamente sottoposto ad una vera e propria rotazione produttiva, e le notevoli quantità di zolfo esportato fanno intendere come lo sfruttamento dei bulicami avvenisse razionalmente, su una scala abbastanza estesa. Se perciò si pone mente, ad esempio, alla locazione delle lumaie di Castelnuovo o allo sfruttamento delle putizze di Libbiano e Micciano, non dobbiamo immaginarci un quadro limitato ad un modesto commercio locale, causale, quando è più aderente alla realtà storica allargarne i confini verso un’attività continua e rilevante. Il prodotto ottenuto dalla lavorazione dei crostoni era conosciuto in commercio con il nome di zolfo giallo, che uno scrittore cinquecentesco locale descrive, con vivida espressione, del colore dell’oro e dello splendore del cristallo (234). Talvolta alcune incrostazioni di minerale si presentavano quali eleganti e curiose fioriture cristalline, aghiformi, stalattitiche (235), le migliori delle quali, messe in commercio allo stato naturale, erano conosciute come fiori di zolfo o zolfo vergine, di pregio particolare. Accanto allo zolfo giallo, un’altra varietà del minerale era conosciuta nel commercio medievale: lo zolfo nero o di cava, la cui produzione era localizzata nel poggio di Fontebagni, sulla destra del torrente Trossa, fra Libbiano e Pomarance (236). Esso non aveva alcuna attinenza, nelle caratteristiche di produzione, con lo zolfo giallo, trovandosi in masse compatte alla profondità di circa cinque metri. Lo zolfo ottenuto dalla fusione di questo minerale, che in natura si presentava di colore scuro (onde il nome di zolfo nero), differiva da quello dei crostoni per l’aspetto più pallido, con leggera tendenza al grigio. È da supporre che la presenza, in relativa profondità, di tali masse di zolfo sia strettamente connessa alla natura del- (234) FALCONCINI, op. cit., p. 548. (235) BARTALINI, op. cit., p. 338; GIULI, op. cit., p. 19. (236) TARGIONI, III, p. 353 e bibl. cit.; v. App., doc. X. — 103 — l’insieme delle manifestazioni che hanno caratterizzato lo svolgimento dei lagoni boraciferi, e rappresentino depositi, formatisi col tempo, degli stessi zolfi dei crostoni, così come le cave di allume costituirebbero ammassamenti metamorfizzati di concrezioni saline. Frammisti alle stratificazioni dello zolfo cosiddetto nero si riscontravano degli arnioni di alabastro gessoso (237), la cui formazione si ritiene da taluno dovuta ad un processo di solfatazione di rocce calcaree (238): fenomeno da connettersi indubbiamente alle medesime cause di manifestazione dei lagoni, pure se svolti in successione di tempi. Certamente, grande cautela dovrà avere il geologo nel formulare ipotesi in proposito, poichè, pure ammesso che la genesi sia sempre dovuta ad attività vulcanica, può dubitarsi che lo stesso fenomeno endogeno, che determina la formazione dello zolfo e dei concreti salini sul terreno dei lagoni, abbia originato i depositi di zolfo e di allume, quali rispettivamente quelli di Fontebagni e del Sasso. Le masse di minerali borici e di altri sali che, depositati dall’evaporazione delle acque dei lagoni, si ritrovano seppelliti nel terreno, sono a poca profondità e circoscritti ai centri di esplosione dei soffioni. È da tener conto che i giacimenti di Fontebagni sono distanziati dal gruppo dei soffioni di Montecerboli, che è il più vicino, km. 8 in linea d’aria, mentre 3 km. li separano, al’incirca, dalla putizza principale di Libbiano. Non si dimentichi poi che nel ‘700 era necessario scendere di 7 - 8 braccia nel sottosuolo per trovare il minerale di zolfo. Quanto all’allume potrà porsi utilmente a confronto il materiale delle cave di Monteleo con quello del Sasso, ricordando che durante i sec. XV e XVI i filoni trovati in quest’ultima località tendevano ad esaurirsi presto, e (237) TARGIONI, III, p. 352. Le masse di zolfo alternate a formazioni gessose richiamano stranamente le solfatare siciliane. (238) NICCOLAI, op. cit., p. 422. Altre teorie assegnano l’origine degli alabastri del Volterrano ad un processo di concentrazione delle acque marine (PERRONE, op. cit., p. 325). — 104 — il prodotto ricavatone non era giudicato della migliore qualità probabilmente per inclusioni di ferro. Lo zolfo era usato specialmente in medicina, in tintoria e nella fabbricazione della polvere da sparo. Per gli impieghi galenici era molto ricercato lo zolfo vivo (239), che sembra fosse la varietà cosiddetta nera (240). Se ne distillava con il lambicco un olio di zolfo (241), entrava nella preparazione di un composto conosciuto come precipitato bigio magistrale (242), era indicato per risolvere i tumori, per la rogna, per la tisi, per malattie di petto, mentre i suffumigi di zolfo pare avessero sicura efficacia nella cura dell’asma (243). Quanto agli usi industriali, lo zolfo nero era richiesto nell’imbianchimento della seta (244) e di ogni tessuto in genere, nel solforare le botti (245), ecc. Lo zolfo giallo si impiegava in sostituzione del nero o indifferentemente, specie per imbiancare le stoffe (246). Anche il Balducci Pegolotti distingue lo zolfo giallo dal nero (247). L’esistenza di alcuni giornali di gabella ci dà la possibilità di poter ricostruire, purtroppo non completamente, qualche elemento sul commercio degli zolfi del territorio volterrano. (239) P. A. MATTHIOLI, senese, Discorsi nei sei libri di Pedacio Discoride Anazarbeo, Venezia, ed. 1621, p. 762. La prima edizione è del 1571. (240) N. LEMERY, Dizionario delle droghe semplici, Venezia, 1571, p. 333; J. SAVARY, Dictionnaire universel de commerce, Génève, 1742, III,cl. 808. Lo zolfo di Sicilia era considerato « vivo ». (241) Ricettario fiorentino, di nuovo illustrato, Firenze, ed. 1623. p. 98. (242) Ibid., p. 211. (243) LEMERY, op. cit., p. 333. (244) G. ROSETTI, Plichto de l’arte de’ tentori, ecc., Venezia, 1540, in « Suppl. Enciolopedia Chimica Guareschi », Torino, 1907, vol. XXIII, p. 390. (245) LEMERY, op. cit., p. 333. (246) Ibid., p. 333; SAVARY, op. cit., cl. 809. Lo « solphare zalo » entrava nella composizione di un colore nero (ROSETTI, op. cit., p. 365). (247) F. B. PEGOLOTTI, Pratica della mercatura, in G. F. PAGNINI, Della decima, ecc., Lisbona e Lucca, 1776, III, p. 298. — 105 — I libri riferentisi agli introiti di gabella sono di due specie: nel registro d’entrata e d’uscita della gabella generale sono scritti gli incassi percepiti giorno per giorno; nel registro dei debitori di gabella sono invece indicate le somme che gli ufficiali segnavano a debito di quei mercanti che eseguivano il pagamento dei diritti doganali ogni due, tre, ed anche sei mesi. I libri utilizzabili, di cui si dispone nell’Archivio Storico Comunale di Volterra, antecedenti alla sottomissione della città alla Repubblica fiorentina, sono: a) Introiti giornalieri di gabella: dal 1° luglio 1434 al 30 giugno 1435; dal 1° luglio 1437 al 30 giugno 1438; dal 1° luglio 1470 al 30 novembre 1470; b) debitori di gabella: 1434-1435 (senza specifica annotazione del mese e giorno di inizio e di termine); dal 1° luglio 1445 al 30 giugno 1446 (248). L’annualità che presenta maggiore abbondanza di elementi, perchè comprendente la totalità degli introiti giornalieri e parte dei debitori di gabella, è quella che decorre dal 1° luglio 1434 al 30 giugno 1435. In essa il totale degli zolfi tassati raggiunge la cifra di libbre 94704. La non diminuita intensità di esportazione dal 1434 al 1470 (dal 1° luglio al 30 novembre 1470 essa ascende a lb. 31200 per i soli introiti giornalieri), dimostra a sufficienza la continuità di produzione delle lacunae volterrane. La cifra delle 94704 lb. non può essere assolutamente interpretata quale indice massimo o medio della produzione annua delle solfatare, mancando troppi elementi per poterla accettare come completa. Può darsi che qualche partita, anche importante, fosse stata omessa nella scritturazione, per non essere ancora avvenuto il pagamento della gabella; mentre è probabile che molti carichi, che raggiungevano territori di altri Stati senza toccare Volterra, sfuggissero alla tassazione dei gabellieri della città, perchè pagati direttamente al camerario ge(248) V. App., doc. I. — 106 — nerale o agli ufficiali stabiliti in contado. Ciò poteva avvenire per le partite destinate all’esportazione via mare per i porti di Piombino e di Populonia, o per i carichi avviati a Siena, ma non certo per lo zolfo diretto a Pisa o Firenze, che necessariamente doveva passare per Volterra. È anche da credere che qualche partita di minerale introdotta dal territorio dei lagoni in Volterra, definitivamente od in transito, non fosse specificata nei giornali di gabella, per essere stata pagata direttamente, all’atto dell’ingresso in città, al personale preposto alle porte, e figurasse nell’introito che quelle guardie versavano giorno per giorno agli ufficiali di gabella in carica e che questi segnavano a piè del libro, porta per porta, senza specificare però le singole poste. La scritturazione dettagliata, quale noi abbiamo potuto rilevare, si riferiva a quelle partite la cui liquidazione era fatta dai gabellieri, sia annotandola nel libro dei pagamenti per contanti, sia in quello dei debitori, e non dal personale delle porte (249). Usi a considerare le statistiche della produzione odierna, una partita di nemmeno centomila libbre, equivalente a circa 32 tonnellate, può far sorridere; ma quando si pensi che il trasporto avveniva esclusivamente a soma e che per necessità stagionali il traffico si restringeva ad una limitata parte dell’anno, non deve considerarsi irrisoria una simile cifra. Non è poi da dimenticare che, per quanto diffuse fosse l’impiego dello zolfo nel campo della pratica farmacologica e nell’arte tintoria, quantitativamente parlando non si deve giudicare la capacità di assorbimento del mercato medievale dall’ampiezza della richiesta che ebbe inizio quando il giallo materiale servì da materia prima nella fabbricazione dell’acido solforico (secolo XIX). L’impiego dello zolfo nella confezione della polvere pirica era determinato dal lento sviluppo delle artiglierie me(249) ASCV., Statuti della gabella generale di Volterra al 1415, G. 17 nera, c. 16. Nel ‘500 le guardie alle porte non potevano riscuotere gabelle superiori a s. 2 (ASCV., G. 37, c. 7). — 107 — dievali. Nell’ambito del territorio volterrano non è dubbio come il traffico del sale sia stato in ogni momento più cospicuo ed importante; ma resta a vedere se l’utile che esso procurava alla comunità superava proporzionalmente il profitto ottenuto dai mercanti dediti al commercio dei prodotti dei lagoni. Pur non intendendo stabilire una base di raffronto fra l’industria dell’acido borico dell’800 e l’attività degli imprenditori del Medioevo — che naturalmente si risolverebbe a solenne mortificazione di questi ultimi — è tuttavia da rilevare che negli anni 1826-27, quando le realizzazioni boracifere erano ai primi sviluppi, furono prodotti rispettivamente lb. 149000 e 66000 di acido, mentre nel 1818 fu considerato un primo successo l’esportazione in Francia di kg. 3555 di quel ricercato prodotto. La gabella volterrana del Trecento distingueva le due varietà di zolfo, tassando il giallo in ragione di s. 2 d. 3 per cento libbre, tanto all’entrata del contado come all’uscita; il nero solo d. 9 (250). Dopo il 1430 la tariffa appare modificata nel modo seguente: il giallo pagava s. 15 il migliaio, se introdotto in Volterra, 20, se esportato; il nero s. 1 d. 4 per centinaio all’esportazione, essendo questo il solo caso previsto. Nelle scritture dei libri di gabella sovente è specificato « solfo giallo »: ma anche quando la voce è generica risulta applicata la tariffa di questo. Solo dallo spoglio del 1470 in avanti si avverte il traffico dello zolfo nero, precisato come tale. Non può peraltro pensarsi che la produzione di ta1e varietà abbia avuto inizio nella seconda meta del ‘400, quando gli anteriori Statuti di gabella la discriminano dallo zolfo giallo. Non solo. Nella denuncia catastale dei Guidi del 1427 si avvertono « più pezzi di terra che tutti confinano insieme, atti a chavare solfo.... che cominciano in Santo al Nespolo e finiscono in Trossa ». Siamo (250) ASCV., Statuti della gabella generale di Volterra dal 1340 al 1366, G. 15 nera; G. 17, cit. — 108 — quindi in presenza delle zolfinaie nere di Fontebagni. Nell’anno della denuncia fatta agli ufficiali fiorentini lo zolfo non vi era estratto, ma i dichiaranti asserirono che per l’addietro « quando si è lavorato vi s’è perduto assai e anche assai guadagnato » (251). È probabile che verso la prima metà del ‘400 il minerale dei lagoni fosse maggiormente ricercato e la sua produzione rappresentasse la totalità o quasi del materiale solfifero trafficato nel Volterrano giacchè non sembra che lo zolfo nero dovesse periodicamente riformarsi. Può anche ritenersi che talvolta, nell’incertezza della classifica doganale, fosse applicata alle partite del nero la tariffa del giallo, più elevata. Comunque, gli Statuti di gabella del ‘500, legiferando evidentemente una consuetudine ormai acquisita, o per eliminare difficoltà di applicazione delle singole voci, stabilirono la stessa tariffa alle due specie di minerale, in ragione di s. 7 per soma, prevedendo il diritto di esigere il dazio una sola volta, per quegli zolfi introdotti temporaneamente in Volterra e destinati all’esportazione (252). Al lettore che, scorrendo lo spoglio delle quantità di zolfo trafficate nella prima metà del Quattrocento, obiettasse che una stessa partita di minerale può trovarsi inclusa due volte nella rilevazione statistica, in quanto tassata, sia all’atto dell’introduzione in città, sia alla successiva esportazione dal territorio, risponderemo che se ciò poteva talvolta verificarsi, non deve essere accettato come regola, non avendo il mercante alcun interesse ad aumentare le spese sulla merce. Nei fondaci di Volterra esistevano sicuramente depositi di zolfo, ma in linea generale erano necessariamente limitati, se la loro vendita fuori citta causava un’ulteriore tassazione. (251) V. App., doc. X. (252) ASCV., Statuti della gabella generale di Volterra dell’anno 1513, G. 37 nera, c. 36 t. — 109 — I più importanti nuclei di produzione dello zolfo giallo erano costituiti, per la regione volterrana, dai lagoni di Castelnuovo e del Sasso e dalle putizze di Libbiano e Micciano. Le cave del nero erano accentrate nella zona di Fontebagni. Dal Targioni Tozzetti si apprende che ancora alla metà del Settecento si sfruttavano talvolta i crostoni di Castelnuovo e di Libbiano, mentre non erano utilizzati ad alcuno scopo i lagoni di Montecerboli (253). Altro zolfo giallo si otteneva dalle manifestazioni di Monterotondo e di Carboli (254). È chiaro però che a quell’epoca l’industria dello zolfo dei lagoni era in piena decadenza, e solo con poca spesa si cercava di trarre vantaggio, ogni tanto, da quelle spontanee sorgenti di minerale. Era invece attiva l’escavazione dello zolfo nero a Fontebagni, ove il Targioni riscontrò aperte oltre cinquanta cave (255). § 2. - Vetriolo e Allume. A lato dello zolfo, un altro prodotto, ottenuto dalla utilizzazione delle acque e delle concrezioni dei lagoni, alimentava una non indifferente corrente di traffico. Alludiamo al vetriolo verde o romano o marziale, chimicamente solfato ferroso idrato. Esso si presenta in cristalli di color verde smeraldo chiaro, e non è da confondere con il solfato di rame, conosciuto nel Medioevo come vetriolo azzurro o di Cipro. L’impiego del vetriolo romano era larghissimo nella coloritura dei tessuti, sopratutto quando si volevano tingere in nero pignolati o fustagni (256), berrette (257), panni, ed ottenere in genere belissimi neri (258). Si usava anche nella fabbrica(253) TARGIONI III, pp. 346, 416, 452. (254) Ibid., VII, pp. 195, 215. (255) Ibid., III, p. 351. (256) ROSETTI, op. cit., p. 361. (257) Ibid., p. 366. (258) Ibid., pp. 362, 364, 365, 366. — 110 — zione dell’inchiostro (259). Stittico e di acre gusto, era apprezzato in medicina per le sue qualità disinfettanti ed impiegato nella preparazione di un’acqua atta a curare piaghe maligne (260), dell’olio di vetriolo (261), e specialmente, per arrestare emorragie (262). È riconoscibile nel Pegolotti sotto il nome di chopparossa vitriolo (263). Seppure la richiesta del vetriolo verde non era comparabile con quella dell’allume, indispensabile alla quasi totalità dei processi di tintoria, esso rappresentava un ricercato articolo nel commercio dei prodotti minerali. Sui giornali di gabella abbiamo riscontrato — come per lo zolfo — gli estremi delle quantità daziate: per l’annata che corre dal 1° luglio 1434 al 30 giugno 1435 è risultata una lavorazione di lb. 14056 di vetriolo (264). Almeno per le partite segnate in questo periodo la provenienza prevalente è quella del Sasso, e non vi è dubbio che i lagoni di quella terra fornivano il contingente maggiore del vetriolo estratto. Ma non sono da dimenticare i bulicami di Castelnuovo, poichè l’attestazione della loro produttività è rivelata, oltre dalla sicura registrazione nel libro di gabella di una partita di lb. 1000 (aprile 1438), da un accertamento catastale di Lodovico di Giovanni di Feo, nell’anno 1429: « a Chastello nuovo uno affitto di lumaie tiene dal Comune di Volterra che ne dà l’anno lb. 166, più masserizie da far vetriuolo » (265). (259) LEMERY, op. cit., p. 364. (260) Ricettario, cit., p. 245. (261) Ibid., p. 99. (262) LEMERY, op. cit., p. 364; SAVARY, op. cit., III, cl. 1245. (263) PEGOLOTTI, op. cit., p. 298. (264) Fino alla tariffa del 1415, il trattamento doganale volterrano per il vetriolo fu di s. 3 per centinaio di lb. tanto all’entrata come all’uscita (ASCV., G. 15 e G. 17 cit.). Dopo il 1430 risulta invece applicato s. 2 il cent. All’entrata in città dal contado, s. 3 per 1’esportazione. Nel 1513 fu stabilito: « entratura contado in città per soma s. 8, se esce innanzi trenta dì non paghi nulla pagando1’entrata come si è detto » (G. 37, c. 37). (265) V. App., doc. II. — 111 — Che il prodotto delle lumaie volterrane fosse il vetriolo verde o romano, è sufficiente a dimostrarlo il passo della citata lettera dell’Ivani, quando, a proposito dei lagoni di Castelnuovo, afferma: « .... da questi luoghi si raccoglie il vetriolo, che gli abitanti della campagna chiamano romano » (266). Abbiamo di proposito lasciato per ultimo quello che, secondo la veridicità dei documenti e la tradizione, sembrerebbe essere stato il principale prodotto delle acque dei lagoni: l’allume. L’inventario della mensa episcopale specifica in maniera indiscutibile i dirttti del vescovo sull’allume dei lagoni, così come l’atto di acquisto della sesta parte del castello di Cornia indica l’allume delle acque. Tali evidenti e precisi riferimenti ad un’attività produttiva del ricercato materiale avrebbero dovuto, necessariamente, trovare riscontro in un’apprezzabile e continua serie di traffico, non circoscritta a ristretti limiti di tempo e di spazio. È strano quindi che negli Statuti di gabella generale del Comune di Volterra, dal 1340 fino al 1415, non si trovi traccia di tassazione doganale sull’allume, mentre sono specificati i dazi di uscita per lo zolfo giallo, lo zolfo nero, il vetriolo. Cio è in evidente contrasto con le notizie che danno per certa, facendone elemento di attività patriamoniale, l’estrazione dell’allume dai lagoni volterrani. Deve trovarsi peraltro una logica spiegazione, giacchè è impensabile che l’allume — se effettivamente prodotto ed esportato come tale — fosse lasciato da parte nella redazione delle minuziose tariffe doganali del Medioevo. Il Quattrocento allarga ancora il contrasto. Mentre le allumiere e le zolfinaie vengono sfruttate con grande intensità, il traffico dei prodotti investe solamente lo zolfo ed il vetriolo. Sui ricordati giornali dei gabellieri e dei debitori di gabella non abbiamo trovato traccia di commercio, sia pure modesto, di al(266) V. App., doc. XI. — 112 — lume (267), quando ricorre invece, in notevoli quantità e regolare frequenza, l’esportazione degli altri ricavati delle lumaie e zolfinaie dei lagoni, quali lo zolfo ed il vetriolo. Ulteriori indicazioni farebbero peraltro supporre, negli stessi anni cui si riferiscono le statistiche doganali, una normale produzione di allume nel territorio dei lagoni: 1) Nel capitolato di appalto delle allumiere e zolfinaie del 1438 (268), si specificano « fructus redditus proventus lumariarum et puteorum sulfuris et aluminis et vitreoli Castrinovi laconum »; 2) nell’atto con il quale il Comune di Volterra, nel 1449, chiedeva ai Fiorentini l’esenzione dal pagamento dell’annuo tributo, per le difficoltà finanziarie sorte a seguito dell’invasione di Alfonso d’Aragona, si fa menzione dei saccheggi subiti nella terra di Pomarance e della distruzione degli edifizi nei quali si confezionava il sale, lo zolfo, il vetriolo, l’allume (269); 3) da un registro dei debitori del Comune osserviamo (267) Se in Volterra — si potrà obiettare — ferveva nel ‘300 e ‘400 una notevole attività manifatturiera della lana ed un discreto traffico di spezierie, l’allume doveva esservi importato dal contado o da altri centri, per le necessità della lavorazione laniera e le occorrenze farmaceutiche. Infatti, nell’inventario di Bartolomeo Riccobaldi, speziale, allegato al Catasto del 1471 (ASF., Cat., reg. 271, c. 124t.), figurano gli allumi di rocca, zuccherino e scagliolo. Diciamo però che la tassazione delle spezierie introdotte era più spesso conteggiata ad valorem, complessivamente, senza specificare il contenuto delle partite di mercanzia (v., ad es., ASCV., B’’’’ I, c. 22, e cfr. la disposizione in G. 17, c. 8). Inoltre 1’uso dell’allume era piuttosto modesto in Volterra, se si tien conto cha la confezione dei panni di lana si limitava ai tipi greggi. Per la concia delle pelli si usavano altri ingredienti. Negli Statuti di gabella del 1513 (ASCV., G. 37, c. 35) 1’allume figura compreso nell’elenco specifico delle merci soggette a tassazione. Mancando gli Statuti dal 1416 al 1513 è difficile arguire quando fu aggiunta nel repertorio la voce « luma »; ma probabilmente dopo 1’apertura della miniera del Sasso (1470). (268) ASCV., A. 39, c. 54. (269) CECINA, op. cit., p. 234. — 113 — che, all’ultimo di maggio del 1454, Piero di Giusto Tani, speziale, acquistò « quatordici migliaia et 531 libra d’alume el quale gli venderono i Signori et Collegi per certa commissione fatta loro per li Consigli oportuni, per pregio di lire otto il migliaio » Per risolvere questa — diciamo pure — secolare contraddizione è necessario addentrarci in alcuni rilievi di carattere chimico mineralogico, che non crediamo inopportuni, anche in considerazione dell’importanza assunta dalla regione nella vita industriale odierna. Tutto il territorio dei soffioni boraciferi, abbandonato al libero dominio delle forze naturali, abbondava di lagoni bollenti, di putizze, di acque termali, acque alluminose e vetrioliche, di zolfo, di una larga varietà di sali cristallizzati, la cui complessa natura era legata alla costituzione geologica del terreno ed al fenomeno dei soffioni. Lasciando da parte le intravedute descrizioni dei naturalisti e medici dei secoli XIV, XV, XVI, quali Ugolino da Montecatini, Michele Savonarola, il Falloppio, Andrea Baccio ed altri, che convergono in generale sulle sorgenti termali più che sulla natura e l’industria dei lagoni; tralasciando per il momento gli accenni di mineralogisti insigni del ‘500, quali l’Aldrovandi, il Mercati, Giorgio Agricola, come pure la testimonianza profonda ed acuta di Giovanni Targioni Tozzetti; volgiamoci a chi ebbe la possibilità di esaminare razionalmente, con analisi chimica, i prodotti che naturalmente affioravano sul terreno, prima che l’utilizzazione industriale dei lagoni e la captazione in profondità del vapore per l’estrazione dell’acido borico cambiasse completamente la fisonomia dell’ambiente: a Paolo Mascagni. Seguendo la strada intrapresa da Uberto Hoefer, che ebbe il merito di scoprire la presenza del sale sedativo nelle acque dei lagoni, il Mascagni studiò a fondo, con metodo scientifico e (270) ASCV., E. 2 (1419-1476), c. 54. — 114 — passione, la natura dei prodotti che spontaneamente si formavano nei terreni boraciferi, tali e quali essi dovevano apparire nell’epoca medievale. Egli raccolse tutte le concrezioni, classificandole in sale sedativo (acido borico), sale ammoniacale, vetriolo marziale, allume, zolfo, selenite (271), avvertendo « che i diversi concreti salini da me trovati ai lagoni non sono puri, ma sono sempre tra loro mescolati, colla differenza che negli uni domina più un sale, negli altri un altro ». Il sale ammoniacale lo trovò mescolato con l’allume ed il vetriolo, il vetriolo lo riscontrò concreto in grandi quantità, di colore bianco, giallastro, e macchiato: « Di questo vetriolo marziale ve n’è tanta copia che in poco tempo, e facilmente, se ne raccoglierebbero delle centinaia di libbre. Nei lagoni di Castelnuovo sopratutto se ne (271) P. MASCAGNI, Dei lagoni del senese e del volterrano, Siena, 1779, p. 63 e sgg. Anche il GIULI (op. cit., p. 19 e sgg.), che ebbe occasione di visitare la zona dei lagoni di Castelnuovo e Montecerboli (1809) prima che 1’industria dell’acido borico vi si stabilisse, riconobbe le seguenti formazioni minerali: 1) Fiori di zolfo aderenti alla terra e ai sassi presso i lagoni o attaccati alle parti dei « vegetabili » (Castelnuovo); 2) Zolfo frammisto alla terra dei bulicami; 2) Solfuri di ferro cristallizzati, tanto a Castelnuovo che a Montecerboli; 3) Acido borico, ai bordi dei lagoni, ove 1’acqua è evaporata Dall’azione del sole; 5) Solfato di calcio cristallizzato; 6) Solfato d’allumina ed ammoniaca aderente ad un pezzo di arenaria di Castelnuovo; 7) Solfato di ferro in polvere bianca. Le osservazioni del Mascagni si riferiscono in particolare ai lagoni di Castelnuovo, Monterotondo, Sasso. In genere concorda pure la descrizione del BARTALINI (op. cit., p. 338 e sgg.). L’accurata indagine del SANTI (op. cit., pp. 251, 267) riscontrò ai lagoni di Monterotondo i seguenti minerali: zolfo cristallizzato e polverulento; solfuri di calce e di ferro (quest’ultimo in minuti cristalli); solfati di calce, magnesio, alluminio ed ammoniacale cristallizzati e amorfi; solfato di ferro filamentoso; acido borico e borato d’ammoniaca, in laminette e filamenti. — 115 — potrebbe racorre in quantità, onde anche in questo prodotto la industria potrebbe comodamente utilizzare ». Le masse di queste concrezioni vetrioliche si presentavano filamentose e lucide, tanto « che io a prima vista le presi per allume piumoso ». Ma ancora più interessante e la constatazione del Mascagni circa il colore del vetriolo marziale o romano: « I cristalli di vetriolo marziale sogliono esser verdi; i nostri son bianchi e non lasciano con tutto ciò d’esser vetriolo marziale ». È facile convalidare il risultato delle ricerche del celebre scienziato pomarancino. Come è noto, il vapore naturale trascina, fra l’altro, acido borico, ammoniaca, idrogeno solforato: il primo veniva facilmente trattenuto dall’acqua del lagone e per evaporazione, specie in estate, si depositava sul terreno sottoforma di borati (lardellite, lagonite, bachelite) per avvenuta salificazione, o come acido (sassolino). L’idrogeno solforato — ripetiamo — generava zolfo ed in parte, per ulteriore ossidazione, si trasformava in acido solforico. Le calde acque dei lagoni divenute così fortemente acide attaccavano la roccia circostante, originando quei complessi sali alluminosi e vetriolici, che, per saturazione, cristallizzavano, depositandosi ai bordi dei lagoni. La parte di ammoniaca che era trattenuta nelle acque acide dei lagoni reagiva, dando luogo a quei solfati ammoniacali (probabilmente solfato doppio di magnesio e ammoniaca) che il Mascagna descrisse, ed anche a borato ammonico. In terreno prevalentemente calcareo la roccia, per effetto del vapore, si trasformava in solfato (selenite), formando una vistosa gamma di colori, se si aveva formazione di ossidi di ferro. È probabile poi che in certe condizioni i cristalli di solfato ferroso, per effetto del calore prodotto dallo stesso vapore, perdessero sei molecole d’acqua, divenendo nonoidrati e decolorandosi. Ciò spiegherebbe perchè le fioriture sul terreno di vetriolo romano apparivano bianche anzichè verdi. Ora, nei documenti che scorrono dal ‘200 al ‘500, tutto il — 116 — complesso dei depositi di zolfo, vetriolici, alluminosi, compresi in una determinata zona di lagoni, si come apparisce nella descrizione del Mascagni, non era identificato in modo esatto, con uguale definizione, ma la diversità di minerali ottenuti, dei tempi, dei luoghi, ne determinava empiriche classificazioni. In un primo tempo — fine del sec. XIII e primi del sc. XIV — si riportano i prodotti dei lagoni allo « allume delle acque », alle « acque alluminose », allo « allume e vene dello zolfo dei lagoni ». Nel ‘400 la terminologia si evolve verso altre espressioni: « lumaie dello zolfo e vetriolo », « lumaie e solfinaie », « rendite sulfuris et aluminis lagonum », « lumare e solfinaie de’ lagoni » (272), mentre viene anche usato l’appellativo di putizza. Una deliberazione del 1435 (273) così allude ai lagoni di Castelnuovo: « solfinarie e alumarie delle putizze ». La definizione della produttività dei bulicami non tendeva evidentemente a restringersi e precisarsi nemmeno con l’andar del tempo: nel 1514 quelli di Castelnuovo sono chiamati a puzarias seu luminarias », mentre, nello stesso libro e nello stesso foglio, si registrano nel 1521 come « puzarias seu sulfarias » (274); ed anche « sulpharias seu putridarias ». Si generalizzò comunque la qualifica di lumaria o lumaia, la quale, più che indicare una esclusiva industria dell’allume, si indirizzava al campo più vasto delle utilizzazloni solfatariche e vetrioliche, designando l’insieme del campo di attività dell’industria dei lagoni. Il vetriolo, che l’industria ed il commercio medievali largamente richiedevano, distinguevasi, riguardo all’origine, in fattizio e naturale. Il fattizio era il risultato di laboriosi trattamenti di terre, mentre il naturale raccoglievasi in caverne ad uso di stalattiti e « congelato sulla superfice della terra, chiamato cop(272) ASCV., E. I, anno 1407, c. 1. (273) ASCV., A. 38, c. 198. (274) ASCV., S. 11 (1514-1S28), cc. 43, 43t. — 117 — parosa » (275). Naturalmente la più gran parte del vetriolo trafficato era quello fattizio, che si otteneva partendo da terre ricche di piriti ferrose o cuprifere, sottoponendole per lungo tempo all’aria umida e, dopo, ad un processo di lisciviazione, cottura e cristallizzazione. Quando possibile, usavasi utilizzare acque provenienti da terreno ricco di minerale metallico, dette acqueforti (276). Il suolo volterrano offriva la possibilità di ottenere vetriolo, sia attraverso il descritto procedimento, sia raccogliendolo allo stato naturale. Il vetriolo azzurro o solfato di rame non sembra potesse ritrovarvisi nativo, ed a quella varietà era riservata la preparazione artificiale (277). Il vetriolo ferroso o verde si rinveniva allo stato naturale (275) Ricettario, cit., p. 42. Il solfato di rame che si trova cristallizzato in natura chiamasi oggi calcantite, quello ferroso melanterite (V. VILLAVECCHIA, Dizionario di merceologia e di chimica applicata, Milano, 1926, IV, cl. 964, 978). (276) TARGIONI, III, p. 350. (277) Terra atta all’estrazione del vetriolo si trovava pure nei beni della comunità di Volterra, a Tatti e Brenti. Sotto il titolo « Locatio puzarie vitreoli Tactis et Brentis » si trova registrato che il 27 settembre 1517 i priori « concesserunt et locaverunt locum sive solum in quo effoditur et eximitur terra ad conficiendum vitreolum in loco qui dicitur Fuori di Riserbo di Brenti verso le Terzete nel botro delle Putridaie » per anni 5 e per il canone di 1. 50 a ser Giovanni di Taviano Picchinesi (ASCV., S. 11, c. 47). Dalla lavorazione di terre minerali si otteneva del vetriolo nel distretto di Montecerboli, come apparisce dalla seguente ricognizione di beni del vescovado, da ascriversi al ‘600: « Un altro pezzo di terra lavorativa macchiosa e boscata di staiora 24 in circa, posto nel Comune di Montecerboli luogo detto all’Edifizio, nel quale pezzo di terra vi è un casalone dove prima era una casa dell’edifizio per fare il vetriolo; I via, II beni della pieve di Morba, III Luca Gori da Ponzano, IV la mensa episcopale » (AVV., Filza 72, n. 14). Riteniamo che la terra usata nella confezione del vetriolo avesse la propria matrice in sali di rame o in piriti cuprifere e si trattasse, quindi, di vetriolo azzurro; deducendo la probabile vicinanza dell’edifizio con le miniere di rame di quel territorio. Due notevoli cave di vetriolo, con i relativi edifizi per la confezione del prodotto, si trovavano nella comunità di Libbiano, una — 118 — nelle fioriture dei lagoni, si come abbiamo veduto nella descrizione del Mascagni, ma, nella massa, difficilmente poteva aversi di sufficiente purezza e commerciabilità senza un preventivo trattamento. Partendo dagli opportuni concreti salini, già allo stato di solfati, si seguiva un processo di cottura e di cristallizzazione delle acque, processo al quale non doveva restare talvolta estraneo un arricchimento con rottami di ferro (278), per rendere il vetriolo sicuramente ferroso, conferendogli quell’apprezzata colorazione verde smeraldo che sembrava appunto difettare naturalmente (279). Di sicuro, la scelta sul terreno del vetriolo marziale, stante le inclusioni di altri sali, non poteva essere rigorosa; anzi, se si ammette il verificarsi di un procedinel luogo detto la Giunca, dal nome del botrello che scola nel torrente Adio (MAFFEI, mss. cit., c. 13; TARGIONI, III, p. 350); l’altra alle cosiddette cave di Tigugnano (MAFFEI, mss. cit., c. 13). Il TARGIONI dice che un secondo edifizio era alla Tassinaia. Evidentemente le cave di vetriolo della Giunca non erano lungi dalle manifestazioni solfatariche della valle dell’Adio, mentre 1’edifizio della Tassinaia non trovavasi nel territorio di Libbiano. Esiste un Tassinaia nel piano di Trossa, ma non certo per la strada di Montecerboli, come asserisce il Targioni. Le più famose cave di vetriolo azzurro erano alla Striscia, e, benchè comprese nel contado fiorentino, possono considerarsi appartenere geograficamente al territorio volterrano (MAFFEI, c. 13t.; TARGIONI, III, p. 112 e sgg.). Per alcune notizie di carattere locale sul vetriolo della Striscia e sulle altre risorse del territorio dell’alta val d’Era, v. anche S. I SOLANI, Storia politica, e religiosa dell’antica comunità di Montignoso, Volterra, 1919, p. 119 e sgg. Tanto il vetriolo della Striscia come quello di Libbiano erano di rame: il primo per generale e sicura testimonianza, il secondo in quanto il MAFFEI dice: « la terra era migliore facendosi vetriolo senza ferro ». La descrizione del capitano RONDINELLI della fabbrica di vetriolo del territorio volterrano si riferisce in modo certo a Montecerboli o Libbiano. (278) MATTIOLI, op. cit., p. 736; F. IMPERATO, Historia naturale, ed. 2a, Venezia, 1672, p. 339. L’opera dell’Imperato fu redatta nell’anno 1599. (279) MASCAGNI, op. cit., p. 70. Sull’aggiunta del ferro, e per altre considerazioni chimiche sul vetriolo, v. BIRINGUCCIO, op. cit., cap. 5, note 2, 3, 4. — 119 — mento il quale comporti una reazione di sostituzione per l’intervento dell’ossido di ferro, tutti i solfati potevano essere utilizzati nella manifattura del vetriolo verde. Di modo che i concreti salini scelti come materia prima nella manifattura del solfato ferroso erano generalizzati con il nome di luma, o allume, o lumaria, anche quando dall’utilizzazione delle efflorescenze saline si aveva del vetriolo e non già dell’allume. A loro volta opportune acque di lagoni — ad esempio quelle del lago Sulfureo — potevano essere utilmente impiegate come « acqueforti », atteso il loro elevato tenore in solfato ferroso ed acido solforico. In definitiva, tale processo era più breve di quello in uso per la confezione dei vetrioli ottenuti da terre o piriti disgregate per il quale erano necessari molti mesi di esposizione all’aria per trasformare, mediante ossidazione, i solfuri in solfati. Eventuali inclusioni di acido borico erano eliminate dal diverso grado di solubilità di questi (280). Nell’ inventario delle attività di Roberto d’Andrea Minucci, che eserciva l’industria del vetriolo all’epoca del Catasto (1427), si nota: « lb. 1000 di vetriuolo lavorato nel castello del Saxo e some 15 di lume, in tutto vale fl. 30; e più si trova masserizia da far vetriuolo e per lavorar decto vetriuolo li quali sono al Saxo: 5 chaldaie di piombo del peso di lb. 1000, 30 chonche di rame vecchio di peso di lb. 150, 1 tino grande di tenuta di some 14, 1 tinetto piccolo di tenuta di some 6, un paio di tinelli da rechare 1’alume » (281). Nel protocollo vescovile dei censi dell’anno 1440 è ricordato: « per le lumaie del solfo e vetriuolo » del Sasso; e pure la già rilevata denunzia catastale di Lodovico di Giovanni com(280) Ibid., p. 74. (281) ASF., Cat., reg. 271, c. 633t. —120 — prende « uno affitto di lumaie » e le « masserizie da far vetriuolo » in quel di Castelnuovo. Si distingueva quindi un prodotto finito, vetriolo, da un minerale greggio, alume o luma, e se i tinelli da recare quest’ultimo all’edifizio facevano parte dell’armamentario atto alla preparazione del vetriolo, si può veramente supporre che la materia prima impiegata era ciò che si chiamava impropriamente allume. È comprensibile come la scelta dei concreti salini richiedesse particolare perizia, acquisita da secolare pratica. La raccolta era effettuata più specialmente in estate, quando l’evaporazione delle acque era maggiore, e dovevasi approfittare dei momenti meteorologici più opportuni, giacchè bastava una forte pioggia per disperdere gran parte delle formazioni superficiali. Qualche studioso potrà obiettare circa l’entita delle concrezioni, dubitando della loro capacità di alimentare un’apprezzabile industria estrattiva. I dubbi dovrebbero però sparire seguendo, alla luce dei risultati dell’analisi chimica delle acque dei lagoni (282) e della loro fanghiglia (283), l’accurata ricognozione del Mascagni e le sue considerazioni sulla quantità del liquido evaporato e dei concreti formatisi (284). Naturalmente, oltre ai concreti superficiali ed ai depositi lasciati nel terreno dall’attività di vecchi lagoni, erano utilizzate quelle formazioni di vetriolo fissate nella roccia dai vapori dei soffioni cosiddetti secchi. Abbiamo raccolto un campione di minerale nella zona Acquaviva, al Sasso, in cui, oltre a deposito di zolfo, si notano alcune stratificazioni verdastre di solfato ferroso; mentre nel 1929 in località la Villa, a Castelnuovo, furono ritrovati, a 2 metri circa di profondità, dei banchi di are- (282) NASINI, p. 210 e sgg. (283) V. nota 231. (284) MASCAGNI, op. cit., pp. 43, 45, 64, 67, 73; SANTI, op. cit., p. 265. — 121 — naria con numerose vene di vetriolo cristallizzato e di facile estrazione (285). È evidente che, in genere, queste masse od inclusioni saline poco profonde altro non rappresentino che l’accumulazione secolare di concreti, originati dalla deposizione di solfati sul terreno di antichi lagoni, o determinati dalla fuoruscita di soffioni, poi deviati, in rocce arenarie. Le inclusioni di solfato ferroso nella roccia non sempre subivano decolorazione, o il colore riacquistavano, se ora ci appariscono in strati verdastri. In quell’inesauribile fonte di osservazioni e di acuta indagine che e il Viaggio del Targioni Tozzetti, l’autore, che sintetizza la cultura naturalistica del tempo, propone un processo di estrazione del vetriolo e dell’allume, utilizzando quelle formazioni dei soffioni in cui trovansi inclusi: « ....fonderei lo zolfo ad uso di crostone e mi contenterei di quello che ne potessi cavare; i bolliticci che restassero nelle pentole, gli metterei sotto una tettoia, ove fossero dominati dall’aria per qualche mese, e potessero formare la copparosa vetriolica, e quelli dove predominasse l’allume gli farei macerare per molti giorni in trogoli ben murati con pozzolana. Indi gli farei bollire nella caldaia di terra cotta, o di lavoro, murata, per fame la liscia o maestra, dalla quale ne farei accagliare in tinozze a freddo il vetriuolo, o l’allume, e spererei farci un guadagno non spregevole » (286). In pratica sembra che tale procedimento fosse stato seguito per l’innanzi, se il processo per l’estrazione del vetriolo, praticato a Monterotondo nella prima metà del ‘600, è così sommariamente delineato: « A Monterotondo vi sono due cave di (285) Comunicazione del dr. G. CAPPON. Con ogni probabilità, le cave di vetriolo di Castelnuovo ricordate dal TARGIONI (III, p. 462), e delle quali esisteva ancora una lontana tradizione, si riferivano a queste formazioni. (286) TARGIONI, III, p. 446. — 122 — vetriolo le quali si sono esercitate ai tempi nostri e anco in parte s’esercitano al presente dai Baldassarri di quel luogo. L’una per essere assai attaccata all’allume e al solfo fa molta feccia, ma col fuoco si purga, e se ne fa buon vetriolo. L’altra pure in detto Comune, luogo detto il Lago, partecipa anche essa un poco di solfo; cavasi in terra e non in marcassita ed è stimato questo vetriolo molto buono per la tinta della seta, perchè è dolce al pari di ogni altro » (287). L’industria dei lagoni fu molto attiva, e la tecnica cercava di utilizzare nel modo migliore le possibilità e le caratteristiche di produzione di ogni luogo: non dobbiamo quindi irrigidirci nella ricerca di un metodo rigorosamente uguale in tempi e zone diverse. Anche nella raccolta dei campioni del Mercati (288) si distingue un « Chalcanthum in Volaterrano agro, circa lacunas, et alibi », da un « Chalcanthum fossile viride, cum sulphure mixtum, Volaterranum ». E così potrebbero conciliarsi con la realtà quelle circostanze che abbiamo considerato contrastanti al mancato traffico di allume durante il ‘400: la vendita dei priori a Piero Tani, il quale si era proprio allora aggiudicato la locazione delle lumaie comunali, si riferiva certamente ad una contestazione sorta con il precedente affittuario e non poteva riguardare che un materiale greggio. quando il prezzo di lire otto il migliaio era di gran lunga inferiore alla quotazione del vero allume (289). I (287) MAFFEI, mss. cit., c. 13. È manifesto che si alludeva agli edifizi dell’attuale S. Federigo e di Carboli (cfr. pp85, 96). (288) M. MERCATI, Metallotheca Vaticana, Romae, 1717, Opus posthumum, armarium IV. Anche il GUIDI afferma che presso i lagoni si ritrovava il vetriolo (I. GUIDI, De mineralibus, tractatus in genere, Venetiis, 1625, p. 46). (289) Nel 1471, quando già abbondante era il prodotto della Tolfa, l’allume era quotato in Firenze lire 120 il migliaio di lb. (dai « Capituli de’partionieri della lumiera » in « Rivista Volterrana », Documenti, 1876, II, p. 8). — 123 — veduti riferimenti delle deliberazioni comunali, in cui è particolarmente ricordato l’allume, non debbono interpretarsi come assoluta testimonianza della sua produzione. Nell’appalto delle lumaie di Castelnuovo si sarà voluto scientemente includervi la voce « allume » per comprendere quel materiale, di cui cominciava in Italia l’affannosa ricerca, fra le ricchezze minerarie che il Comune intendeva rivendicare alla sua sovranità. Inscrivendo poi nell’elenco delle devastazioni aragonesi i danni riportati dagli edifizi dell’allume e del vetriolo, il Comune volle sicuramente alludere ad attrezzature simili a quella descritta nella rilevazione catastale dei Minucci, e non già a fabbriche di allume. Se nel Medioevo si confondevano sovente dei sali uguali in apparenza, ma diversi di struttura chimica, resta però da domandarsi se l’appellativo di lumaria o luma, applicato genericamente al campo di attività dei lagoni, derivasse soltanto dall’esteriore somiglianza delle concrezioni saline con l’allume, o testimoniasse piuttosto una manifattura ed un traffico svoltosi con quella materia, che in effetti, come è stato notato, si ritrova nelle efflorescenze dei bulicami. Rimane cioè da stabilire se il prodotto salino dei lagoni immesso in commercio sia sempre stato il vetriolo, come nel ‘400, o se, in un primo tempo, il minerale ricercato in quelle concrezioni fosse piuttosto l’allume, da cui sarebbe poi derivata « lumaria ». È intanto da chiarire che l’allume ottenuto allo stato naturale dalle incrostazioni del suolo, o dall’evaporazione di acque e successiva loro cristallizzazione (290), non è a confondere con quello ottenuto dalla pietra alluminosa, in dipendenza di un lungo e complicato processo di lavorazione, come avveniva nelle miniere dell’Asia Minore o come avverrà più tardi alla Tolfa o nello stesso territorio volterrano (1470). Questi costituiva l’al(290) Ricettario, cit., p. 14. Si distingueva infatti 1’allume naturale dal fattizio. — 124 — lume di cava, la migliore qualità del quale era conosciuta come allume di rocca. L’allume dei lagoni si presentava cristallizzato alla super ficie del terreno, laddove l’allume di rocca era un vero ed uniforme prodotto minerario, la cui pratica di escavazione e manipolazione fu introdotta in Italia solo alla metà del sec. XV dagli operai genovesi che avevano lavorato nelle miniere levantine. Il Mascagni, che nella regione dei lagoni potè distinguere l’allume dagli altri complessi salini, rende chiara l’idea della differenza fra l’allume naturale ritrovato nella zona dei lagoni di Castelnuovo e di Travale, composto di filamenti di un bianco sudicio, leggerissimi, aspri, friabili al tatto, e di cui il più scelto sarà stato trafficato come allume piumoso, e l’allume di cava o pietra alluminosa, di colore bianco rossastro, quale si rinveniva in masse compatte alla vecchia allumiera di Montaleo, fra Monterotondo e il Frassine (291). Potrebbe verosimilmente ritenersi che in origine l’allume fosse raccolto sul terreno dei lagoni e trafficato dopo uno sbrigativo procedimento di purificazione, a somiglianza di quanto avveniva per allumi di altre provenienze (Ischia, Pozzuoli, Vulcano), di natura e formazione non molto diversa da quello volterrano (292). Se ciò avvenne, la raccolta dell’allume dei lagoni (291) MASCAGNI, op. cit., p. 53. (292) Dal SAVARY (op. cit., I, cl. 96) si apprende che l’allume di Pozzuoli si otteneva raccogliendo sul terreno le efflorescenze saline, macerandole, ed evaporando il liquido in vasche di piombo. È interessante notare che l’evaporazione delle acque era ottenuta affondandolIe vasche di piombo nel terreno. Si sfruttava così il calore naturale sotterraneo, ed il concetto di utilizzare la temperatura dei soffioni per evaporare le acque di cristallizzazione era quindi applicato industrialmente nel sec. XVIII. Sarà azzardato supporre che in qualche lontano tempo l’industria dei lagoni volterrani abbia sfruttato il calore naturale per evaporare la soluzione dei concreti salini? Circa la priorità della scoperta di estrarre acido borico dai lagoni, giovandosi del calore naturale, v. E. REPETTI, Rapporto d’una Commissione speciale incaricata di riferire sul merito respettivo dei — 125 — non doveva però esser facile, stante la confusa natura di quei concreti salini, affini nei loro caratteri organolettici. Forse una lunga pratica avrà permesso una certa empirica sicurezza nella cernita delle concrezioni saline e delle formazioni cristalline sulla roccia, più appropriate alla confezione dell’allume. Quando poi le città marinare e la Repubblica fiorentina, stabiliti i regolari rapporti con l’Asia Minore, poterono profittare del pregiato allume di rocca orientale e trafficarne in grandi quantità, il prodotto indigeno fu soppiantato dalla superiorità del materiale importato. Solo la caduta di Costantinopoli e la impossibilità di continuare, in favorevoli condizioni, il commercio con i paesi dipendenti ormai dall’Impero turco, suscitarono in Italia ed altrove la ricerca di miniere di allume simili a quelle del Levante (293). Se vi fu quindi un periodo in cui il mercante volterrano non si interessò più della raccolta dell’allume, non diminuì per ciò l’attività produttiva dei lagoni, il cui sfruttamento si orientò, affermandosi stabilmente, verso la manifattura di quelle materie meno soggette ad una concorrenza esteriore, fra le quali il vetriolo. Se dai lagoni si fosse ricavato allume in quantitativi apprezzabili, e commerciato come tale, la scoperta, nel 1470, delle allumiere del Sasso non sarebbe stata considerata una novità; mentre l’esplicita esclusione dello zolfo e del vetriolo dalla concessione accordata dal Comune in quell’occasione al senese Benuccio Capacci (294), e l’evidente riprova che solo questi ultimi erano i prodotti ottenuti dalle lumaie dei lagoni. In più, la concessione di ricerca di allume a favore di Benuccio fu estesa al territorio di Castelnuovo, quando le cosiddette lu- primi intraprenditori intorno la manifattura dell’acido borico e del borace toscano di fronte alla scienza ed alla pubblica economia, in « Atti Accademia Georgofili », vol. XVII, 1839, p. 41. (293) G. HEYD, Storia del commercio del Levante nel Medioevo, Torino, 1913, p. 1134. — 126 — marie e solfinarie di quella corte erano state in precedenza accordate per un quinquennio a Gaspare Marchi (295). Dalle osservazioni fatte è da concludere: Le concrezioni saline dei lagoni fornirono, fino da tempi immemorabili, allume; ma per ragioni economiche e, forse, per la difficoltà di riconoscere e separare la mescolanza dei concreti, l’estrazione dell’allume si confuse con quella del vetrioto, alla quale cede il posto. Le lumaie continuarono per tradizione a chiamarsi tali, mentre solo una varietà scelta di allume, il piumoso, avrà potuto essere sempre ricercata sul terreno dei lagoni, per limitati impieghi farmaceutici. Una convincente considerazione si delinea dall’esame dei documenti del ‘300, nei quali, quando si definiscono i prodotti delle lumaie e zolfinaie, l’allume ed il vetriolo non vengono ricordati distintamente, ma l’una voce esclude di solito l’altra. Negli Statuti dell’anno 1336, ove i due minerali sono insieme citati, fra i termini allume e vetriolo troviamo seu e non et: redditus sulphuris et aluminis seu vetrioli laconum (296). È da ammettere che le due parole fossero usate l’una per 1’altra, e l’espressione « aluminis seu vetrioli » sembra quasi personificare il trapasso fra il periodo in cui le formazioni alluminose erano vendute come tali e l’epoca della utilizzazione loro nella fabbrica del vetriolo; così che i soli alluminosi e vetriolici servirono come materia prima con il nome generico di luma. § 3. - Acido Borico e Borace. Come è noto, il borace o borato di sodio, largamente usato quale fondente nella saldatura dei metalli, nella vetrina delle (295) ASCV., ibid. Anche le deliberazioni della Rep. fior., nel 1472, distinguono le cave di allume dalle « allumiere et solpharie » dei lagoni (ASF., Capitoli, reg. 72 (Liber rerum volaterrarum), c. 23 t.). (296) V. App.,doc. II. — 127 — porcellane, in cristalleria e negli impieghi farmaceutici, si trovava allo stato naturale in depositi lacustri — residui di evaporazione di estese masse d’acqua — del Tibet, dell’India, della Cina, dai quali paesi era importato generalmente sotto il nome di tinkal (279). Il raffinamento, raggiunto mediante ripetute cristallizzazioni, era effettuato a Venezia ed, in seguito, in Olanda (298). Ai primi del Trecento il borace era oggetto di notevole traffico nei porti dell’Asia Minore, ed il Pegolotti ne ha lasciato un’esauriente quanto realistica descrizione, la quale potrà servire a rilevare l’identità fra il borace greggio naturale del Medioevo e l’odierno (299). Nel 1305 il borace era incluso fra le spezierie che potevano trovarsi nel porto di Pisa, e per il suo acquisto era prevista una senseria di s. 1 per cento lb. (300). Nel 1702 W. Homberg, trattando il borace con acido solforico, ottenne l’acido borico, che fu chiamato sale sedativo. La sua natura acida fu riconosciuta da Scheele nell’anno 1747; ma solo con la moderna nomenclatura chimica di Lavoisier lasciò il nome di sale sedativo per l’attuale (301). L’acido borico si rinviene allo stato nativo, isolato o frammisto a formazioni saline, sotto forma di minute scaglie cristalline lucenti intorno ai lagoni, o aderente allo schisto in masse considerevoli, depositatevi dall’evaporazione delle acque: ciò è (297) Ancora nel 1824 furono importate dall’India 400 tonn. di borace greggio (DE STEFANI, La produzione, cit., p. 112). (298) LEMERY, op. cit., p. 53. (299) Op. cit., p. 375: « Borrace si è una pietra fatta a modo d’allume, ed è circondata da una pasta fatta a modo di merda d’orecchie d’uomo, e quella, che ha più pietra, e meno pasta, e che la pietra sua è più grossa, e più bianca, e più chiara, forbendola di detta pasta, tanto è migliore e vale meglio ». (300) Statuti inediti della città di Pisa dal sec. XII al XIV, raccolti ed illustrati per cura di F. BONAINI, Firenze, III, 1857, pp. 106, 115. (301) I. GUARESCHI, La chimica in Italia dal 1750 al 1800, in « Suppl. Enc. di Chimica », XXVIII, 1912, pp. 412, 413. — 128 — stato rilevato in tempi diversi (302). L’acido borico allo stato naturale prende il nome di sassolino, dalla nota località del Sasso. Il colore varia da un bianco niveo al bianco sudicio, con tonalità giallastre o verdastre. Come è stato detto, la sua presenza nelle acque dei bulicami, ove era depositato dal vapore naturale, fu avvertita da Hoefer nel 1777. È ora da stabilire se, fra i prodotti che potevano ricavarsi dalle efflorescenze dei lagoni, ebbesi consapevolezza, nel Medioevo e nei primi tempi dell’era moderna, di trovarsi in presenza dell’acido borico, riconoscendolo non certo come tale, ma come un prodotto di analoghe proprietà ed impieghi del borace. Quando si ponga mente, nei testi cinquecenteschi di Agricola, di Aldrovandi, del Mercati, alla descrizione del nitro (303), spontaneamente formatosi nel territorio volterrano, e si rilevi l’insistente connessione, se non addirittura identificazione, fra il nitro ed il borace, l’appassionante quesito sembrerebbe risolversi in senso positivo. Ad es. il Mercati « Nitrum glebosum, ex quo Venetiis Borax conflatur » o « Nitrum nativum scissile ex quo Borax excoquitur », mentre cataloga « Nitrum nativum Volaterranum » candido e cenerino (304). Più esplicito ancora è Ferrante Imperato, il quale così si esprime a proposito di una varietà di nitro: « Inoltre vi è il nitro adoprato dagli orefici a conglutinar l’una parte di oro con l’altra: adoprasi, anche all’attaccamento di altri metalli: e ha appo essi il nome di borace dipendente dall’arabico idioma » (305). Non vi è dubbio quindi che una varietà di nitro si identificasse con il borace e fosse usato nelle stesse applicazioni industriali. Resta però a (302) MASCAGNI, op. cit., p. 71; G. D'ACHIARDI, Acido borico e borati dei soffioni e lagoni boraciferi della Toscana, Pisa, 1900, p. 5. (303) G. AGRICOLA, De la generatione de le cose, che sotto la terra sono, ecc., Venezia, 1550, III, p. 211; U. ALDROVANDI, Musaeum metallicum, Bononiae, 1648, p. 324; MERCATI, op. cit., p. 51. (304) Ibid., p. 51. (305) Op. cit., p. 335. — 129 — vedere se il cosidetto nitro volterrano fu compreso in quella varietà. In genere, quando si cerchi di ricostruire la fisonomia del borace e del nitro nella confusa terminologia tecnologica dei tempi andati e si intenda stabilire la natura di quei prodotti che si comprendevano sotto lo stesso nome, pur essendo di diversa struttura chimica, si presentano difficoltà e contraddizioni non facilmente superabili (306). Riguardo al nitro, non è semplice discernere le sostanze cui si intendeva alludere con quel vago termine. Nel commercio non sembra fosse confuso con il borace, poichè nella stessa « Pratica di Mercatura » il Balducci Pegolotti distingue: borrace pietra e pasta, nitro, salnitro (307). Così è ammissibile che lo pseudo Geber (sec. XIV) attribuisca il nome di borace al vero sale dell’acido borico (308). Le gabelle fiorentine dei primi del ‘400 distinguevano le seguenti voci: borrace pasta, nitro cotto, nitro crudo, salnitro (309). Salnitro è da ritenersi la qualifica appropriata dell’odierno nitrato di potassio, quando si osservi che quel sale serviva per preparare acido nitrico ed entrava nella confezione dei fuochi d’artifizio, per la sua proprietà di deflagare con carbone (310). Venne poi usato nella preparazione della polvere da sparo, con carbone dolce e zolfo (311). Non è da escludere che la voce nitro potesse anche riferirsi al natron o carbonato sodico nativo (312), noto dalla più re(306) V. NASINI e GRASSINI, op. cit., p. 399 e segg.: « Il Borace e gli Antichi ». Importante indagine sulla natura ed affinità fra borace, crisocolla, nitro, dell’antichità classica e medievale. (307) Op. cit., pp. 295, 297, 298. (308) GUARESCHI, op. cit., p. 412. (309) GIOVANNI DA U ZZANO, La pratica della mercatura, in PAGNINI, op. cit., IV, pp. 18, 22, 24. (310) MEYER e GIUA, Storia della chimica, Milano, 1915, p. 57. (311) IMPERATO, op. cit., pp. 335, 372. (312) NASINI e GRASSINI, op. cit., p. 408; LEMERY, op. cit., pp. 17, 240. Il Grassini riporta che il natron era prezioso per le sue qualità 9. — Fiumi — 130 — mota antichità, ma in ogni caso non solo a quello. A noi pare che l’appellativo di nitro fosse generalizzato dai trattatisti a composti inorganici di differente natura; ed attraverso la confusa descrizione cinquecentesca sia possibile ricostruire alcune indicazioni sul suo probabile significato: a) nitrato di potassio prodotto dalle efflorescenze delle cantine umide e di spelonche, o dalle cosiddette nitriere artificiali (313); b) un sale definito come « schisto di sustanza densa, lucida e trasparente, che si fende in scheggie e fibre dritte e lunghe, freddo nel gustarsi, di sapor non dispiacente ma che leggermente amareggia » (314), forse carbonato sodico nativo; c) borace greggio (315); d) acido borico e borati dei lagoni, come più avanti dimostreremo; detergenti e come materia prima nella fabbricazione del vetro. È da notare, però, che nelle gabelle fiorentine delle spezierie, del ‘300, sono discriminati il nitro cotto ed il nitro crudo dalla « soda da fare vetro » (v. R. CIASCA, L’arte dei medici e speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal sec. XII al XV, Firenze, 1927, pp. 769, 772). Rimane anche da ricercare come fossero classificate le sabbie silicee per vetreria. Esiste una voce « terra da bicchieri » (p. 772), ma non sappiamo come interpretarla. Il borace è distinto in « borascie diritta » e « borascie contrafatta » (p. 766). Il carbonato sodico ottenuto dalla calcinazione della pianta kalì si chiamava allume catina (LEMERY, op. cit., p. 12; ROSETTI, op. cit., p. 379). È superfluo sottolineare quanto difficoltosa e sconcertante sia la giusta interpretazione chimica delle denominazioni usate nel Medioevo, specialmente per il fatto che i trattatisti sembrano maggiormente preoccupati di interpretare il significato delle voci usate dai classici, piuttosto di descrivere la pratica loro attuale, e nella quale regnava certo maggiore uniformità e precisione. Lo studio delle voci doganali e degli inventari analitici dei fondaci degli speziali dovrebbero rischiarare 1’argomento. (313) IMPERATO, op. cit., p. 335. (314) Ibid., p. 335. (315) MERCATI, op. cit., p. 51; ALDROVANDI, op. cit., p. 324; A. CAESALPINI, De Metallicis, libri tres, Romae, 1596, I, cap. XX; IMPERATO, op. cit., p. 335. — 131 — e) il salnitro, indicato come « volgarissima spezie di nitro », era ottenuto dalla lavatura di terre nitrose, e poichè « partecipa molto del sapor salso se ne ritiene il nome composto »316). Di modo che il salnitro, pure se tenuto distinto, si riconosceva già della stessa natura di un nitro; in seguito le due parole si immedesimarono usandosi come sinonimi. Nell’edizione del 1623 del Ricettario fiorentino è detto: « La borrace naturale, chiamata dai Greci Crysocolla è una specie di nitro fossile… » e più avanti: « Il Nitro e l’Afronitro si trovano ne’ lagoni di Volterra, di color bianco e rosseggiante con i contrassegni tutti di Dioscoride, quantunque cavare non si possano se non ne’ dì canicolari, quando l’acque sono più basse, che allora si ritrovano alle prode e negli argini de’ detti luoghi, ove spesso è appiccata al Nitro la Melanteria il Sori il Misi. Per i medicamenti si usi questo di Volterra, lasciando ogni altra cosa che volgarmente passa sotto il nome di Nitro » (317). Per avere conferma che il nitro dei lagoni fosse l’acido borico, bisognerebbe intanto stabilire cosa si intendeva con sori, misi, melanteria. Anche il Mercati classifica il sori, il misi, il chalcite, la melanteria fra i prodotti del Volterrano, oltre il vetriolo, l’allume ed il nitro nativo (318). Quelle voci non erano proprie dell’età di mezzo, ed appare anzi evidente che i naturalisti e i metallurgisti del ‘500 e ‘600 si sforzavano di ricercare, alla luce delle loro attuali conoscenze mineralogiche, la realtà di tali prodotti, come anche del nitro, giunti attraverso le descrizioni dei testi classici, in particolare di Dioscoride, di Galeno, di Plinio. È così molto generico, se non confuso, il significato che a quei (316) IMPERATO, op. cit., p. 335. (317) Ricettario, cit., pp. 23, 52. (318) MERCATI, op. cit., Index armarii IV: « Chalcitis Volaterrana, cum Sory mixta; Misy friabile Volaterranum; Sory Volaterranum; Melanteria friabilis ex agro Volaterrano ». — 132 — nomi venne assegnato, e che non trova, beninteso, alcun riscontro nella pratica mercantile. Ad esempio, il Mattioli confessa di avere veduto il misi solo due volte: una a Praga, l’altra in una mostra proveniente da cave di vetriolo del Tirolo, e respinge l’opinione del Brasavola, che il misi fosse il vetriolo romano (319). Quanto alla melanteria dichiara di averne « veduta assai nelle bocche d’entrata delle cave de’metalli ». L’Imperato confuta il parere di alcuni, che stimarono essere il sori della stessa natura della melanteria (320). Il Lemery afferma, nel ‘700, che il sori non si trovava più da molti secoli (321). Attraverso la disparità delle circostanze e dei concetti, è facile però intravedere che con queste voci, come pure con calcite, si intendevano riconoscere nel Medioevo una serie indeterminata di formazioni generatesi più che altro in vicinanza di filoni metallici, sopratutto cupriferi, ove se ne potevano contare esempi numerosi e variati. Poteva trattarsi di cristalli di calcosina, quarzo, calcite, erubescite, di solfuri, ed anche di formazioni vetrioliche determinatesi dall’azione ossidante dell’aria e dell’acqua su minerali metallici (marcassite). Sembra che la melanteria rispondesse appunto ad efflorescenze più che ad un aspetto metallico, e, seguendo il concetto di Plinio (322), si tendeva a credere fosse una variazione cristallina del sori, del misi, del calcite o « un fiorimento » (323). Il misi ed il calcite erano formazioni minerali con inclusioni metalliche, mentre il sori si presentava come pietra porosa di natura grassa, di odore sgradevole, da esser ritenuto dal Lemery un miscuglio di vetriolo e bi- (319) MATTIOLI, op. cit., p. 758. (320) IMPERATO, op. cit., p. 340. (321) LEMERY, op. cit., p. 325. L’ALDROVANDI (op. cit., p. 344) asserisce che quelle cinque formazioni, « succos concretos », presentavano tra loro molte affinità. (322) Ibid., p. 217. (323) IMPERATO, op. cit., p. 342. — 133 — tume calcinato (324). Queste formazioni erano caratterizzate e distinte dal colore prevalente; il misi tendeva al giallo-oro, il sori al nero, il calcite al color del rame, la melanteria al giallo di zolfo. Si rinveniva nella regione di manifestazione dei soffioni, con le efflorescenze saline, una varietà di pietre e di incrostrazioni di differente aspetto e colore, determinate dal disgregamento, dall’alterazione e dalla reazione della roccia a contatto del vapore. Si avevano delle piriti, probabilmente dovute alla riduzione di solfato di ferro in solfuro a causa dell’idrogeno solforato o all’azione dell’idrogeno solforato sugli ossidi di ferro, delle pietre così corrose da apparire spugnose come pomici, o più compatte, di color cenerino, giallastro, bianco sudicio, con incrostazioni gialle, rosse, filamenti ocracei (325), tanto che se ne sceglieva per colori da pittori (326). Di certo le colorazioni più vistose si saranno rilevate nei terreni ove predomina il (324) LEMERY, op. cit., p. 325. Il BALDASSARRI, nella seconda metà del ‘700, fece osservazioni importanti circa le formazioni vetrioliche (di colore verde, ceruleo e verde-cerulo) delle miniere di rame di Prata, ma solo prospettò la questione dei rapporti fra esse ed il sori, misi, melanteria e calcite degli antichi, senza approfondirne l’indagine (G. BALDASSARRI, Saggio di osservazioni intorno ad alcuni prodotti naturali fatto a Prata e in altri luoghi della Maremma di Siena, in « Atti Accademia Fisiocritici », Siena, II, 1763, p. 21). (325) TARGIONI, III, p. 416: « Qui a Montecerboli vi sono delle pomici rosse, gialle, zolfine, nericce e trasparenti, e non si trovano sennonchè dove sono spiragli e buchi, da’ quali esce l’acqua soffiando con grandissimo impeto ». Nei lagoni di Castelnuovo, ad es.: « ....si vede molta ocra di un rosso più vivo che nel cinabrese » (Ibid., p. 441). Cfr. MASCAGNI, op. cit., art. III, « Delle Piriti ». Per es.: « Per il tratto dei lagoni, e massime in alcuni dirupi si trovano dell’istesse piriti, che vanno in efflorescenza, a cui sono aderenti delle concrezioni saline di una grossezza considerabile »; « Dell’Ocra se ne vede anche una crosta, aderente alla superfice, donde scappano i filetti, che compongono i concreti salini » (p. 26). V. anche, per la presenza ed alterazione delle piriti, ibid., p. 67 e GIULI, op. cit., p. 15. (326) ALBERTI, op. cit., p. 50, su testimonianza di Z. ZACCHI. V. al § 4 quanto è detto sulle terre coloranti dei lagoni. — 134 — calcare, nei quali, mentre il carbonato di calcio si trasforma in solfato per azione dell’acido solforico, il ferro presente, ossidandosi, assume colorazioni gialle, rosse, violette, più o meno intense. Nel terreno siliceo il vapore ha effetto piuttosto decolorante, apparendo l’arenaria quarzosa screpolata e biancastra, mentre abbondanti incrostazioni gialle testimoniano la deposizione dello zolfo. Ancora oggi sono evidenti sulla roccia ove scaturiscono i vapori o scorrono le acque dei lagoni (per es. nel rio Ponte a Carboli) delle ocre gialle e rosse di tonalità accentuata, formatesi sulle pietre corrose dal vapore, che erompe con grande violenza. La diversità di comportamento della roccia riguardo alla formazione dei colori doveva maggiormente avvertirsi laddove il nucleo di manifestazione liberamente erompeva in terreni di differente natura, come a Castelnuovo, ove l’emissione del vapore avviene parte nell’arenaria e parte nel calcare. Ed a Carboli, ove lo zolfo si generava nei lagoni del piano del rio Secchino, mentre le ocre si formavano — ed ancora si formano — nel botrello su menzionato, che resta più a monte. È evidente che tutte queste formazioni, allora di incerta classificazione, si richiamavano, per supposta analogia, al sori, al misi, alla melanteria descritti dagli antichi, ed a niente altro, che ai prodotti dei lagoni, ci sembra possa alludere il Mercati nella sua rassegna (327). (327) Naturalmente non dobbiamo immaginare che nella merceologia medievale esistesse il caos (cfr. nota 312), poichè diversa dalla teoria era la pratica del commercio. Sarà talvolta problematico interpretare il significato attuale di certe voci impiegate nelle classifiche doganali e nei traffici, ma in modo sicuro esse rispecchiavano lo stato di fatto della domanda e dell’offerta dei prodotti. Invano si cercherebbero nella realtà dei documenti di gabella e dei libri dei fondaci le voci del sori, misi, e di quelli oscuri materiali la cui natura si connetteva alla descrizione dei testi dell’antichità. Una cosa era dunque la pratica mercantile, altre erano le interpretazioni dottrinarie e di raffronto dei medici e dei metallurgisti. Anche i Ricettari riportavano, — 135 — In una precedente edizione del Ricettario (328) è detto: « Il nitro fossile (secondo alcuni) è la borace non rifatta ed è opinione che a Colle di Val d’Elsa se ne trovi, il che non è venuto a nostra notizia. Nei lagoni di Volterra si vede il nitro appiccato a certi sassi, dentro alle caverne, in cui sbattendo l’acqua nitrosa vi si secca diventando parte nitro e afronitro e parte mescolato con la Melanteria. Il sincero si deve usare nelle nostre ricette e quello che è mescolato con la melanteria si può mettere nelle docce: le quali si fanno per disseccare i catarri, parendo così ai medici che le ordinano ». Con « melanteria » si alludeva probabilmente alla massa di quei concreti alluminosi e vetriolici con i quali l’acido borico poteva trovarsi frammisto, costituendo quell’insieme di sali, che impiegati industrialmente nella manifattura del vetriolo ferroso abbiamo chiamato « lumaria » o « luma ». Quindi, dato che l’acido borico (o il suo sale) si depositava tanto nei terreni calcarei che in quelli silicei, è da ritenere fosse frammisto alla melanteria in questi ultimi, ai cosiddetti sori e misi nei primi. Certo non può essere dimostrato che con le voci sori, misi, melanteria il Ricettario del 1623 intendesse escludere ogni altra varietà di sali o di formazioni del territorio dei lagoni, perchè si possa circoscrivere il termine « nitro » all’acido borico. Ma è anche da notare che lo stesso Ricettario indica, quali prodotti del territorio volterrano, il vetriolo naturale e l’allume naturale. Non specifica che questi si ritrovassero nei lagoni, come il nitro, ma la descrizione, benchè sommaria, non può lasciare dubbi in tal senso: oltre a prescrizioni di uso ricorrente, dei formulari tratti, per es., da GALENO, i quali non potevano evidentemente realizzarsi se non in modo arbitrario. Circa l’importanza del Ricettario nell’arte farmaceutica, è fondamentale CIASCA, op. cit., p. 337 e segg. e bibl. cit. (328) Ricettario fiorentino, Firenze, 1567; cifr. NASINI e GRASSINI, op. cit., p. 405. — 136 — « Il naturale (vetriolo) si trova congelato nelle vene della terra e fra le connessure dei sassi, ovvero distillato nelle caverne.... Del naturale se ne trova in Toscana nel Volterrano e di quello si deve usare per l’avvenire » (329). « Gli allumi naturali sono più e si ritrovano in Italia, come a Pozzuoli e nel Volterrano » (330). All’infuori della regione dei bulicami non potevano trovarsi nel territorio volterrano delle formazioni di allume e di vetriolo che potessero considerarsi naturali, nel senso che allora, ed oggi, è dato da quell’espressione. Se dunque il vetriolo e l’allume erano riconosciuti distintamente dal nitro e tutti e tre i prodotti si ottenevano dall’evaporazione delle acque dei lagoni, non sapremmo a quale altra formazione assegnare il nitro, se non all’acido borico. I vari solfati di ammonio, di sodio, di ferro, di magnesio, se indicati talvolta come melanteria, potevano causare un difficile apprezzamento specifico, ma non evadevano dalla loro classificazione nella massa del veltriolo e dell’allume. Certo l’individuazione dell’acido borico non doveva esser facile, specie quando trovavasi incluso con altre sostanze nello stesso complesso, ma è anche evidente che la pratica della raccolta e l’abbondanza delle formazioni rendevano possibile una certa cernita. Come indica il Mascagni (331), la separazione dell’acido borico dagli altri sali non era cosa difficile (pure se impurezze in solfati restavano), considerata la sua diversa solubilità in confronto di essi. Quanto poi agli effetti delle applicazioni industriali, l’acido borico ed il borace potevano anche sostituirsi l’uno all’altro (332), ma specialmente nella saldatura dei metalli, per (329) Ricettario, ed. 1623 cit., p. 72. (330) Ibid., p. 14. (331) Op. cit., p. 74. (332) DE STEFANI, La produzione, cit., p. 105. — 137 — esperienza ripetuta (333), l’acido borico non raggiunge affatto i risultati del borato di sodio. È quindi naturale che, se non si conosceva nel Medioevo un processo per trasformare l’acido borico dei lagoni in borace, il prodotto volterrano doveva apparire inferiore, per quell’importante uso, al prodotto orientale, vero sal borace raffinato. Non può facilmente supporsi che i sali dell’acido borico, borati, rinvenuti allo stato nativo fra i bulicami volterrani, si potessero distinguere da quello, quand’anche la moderna tecnica di ricerca mineralogica non soltanto ha trovato molto laborioso procurarsi dei « campioni tipici e normali fra la complessa serie delle concrezioni », ma ha concluso che la loro determinazione è lungi da essere precisata (334). È comunque inferiore la quantità dei borati in confronto dell’acido borico libero, quale si riscontra nei vapori e nelle concrezioni dei lagoni (335). Il borace orientale non veniva usato se non previo un geloso processo di raffinazione conosciuto dai Veneziani, i quali è logico ostacolassero l’eventuale affermazione dell’acido borico volterrano. D’altra parte, nella fioritura delle industrie e dei commerci italiani, ogni economia si modellò naturalmente su quelle attività per le quali, a seguito di ragioni ambientali e contingenti, era possibile stabilire una superiorità produttiva. Così i mercanti di Volterra avranno trovato certo molto più conveniente dedicarsi alla completa utilizzazione dello zolfo e del vetriolo anzichè affrontare la concorrenza di un prodotto ormai affermatosi negli usi industriali, e nei confronti del quale l’acido borico non poteva non essere in posizione di svantaggio, sia per la natura stessa del prodotto, sia per le impurità che (333) MASCAGNI, op. cit., p. 74. (334) D’ACHIARDI, op. cit., p. 33. (335) Il borace ora prodotto a Larderello è ottenuto trattando l’acido con soda, o con altri processi (v. M. G. LEVI, Studi sulla preparazione tecnica del borace, in NASINI, p. 359 e sgg.). — 138 — conteneva (336). Le difficoltà create al commercio dell’allume levantino dall’invadenza turca avranno avuto anche ripercussioni sul borace da importazione, e non è da escludere che il prodotto volterrano fosse studiato come possibile surrogato del tinkal orientale in quel periodo di affannose ricerche autarchiche. Ma gli ostacoli frapposti agli scambi dalla caduta di Costantinopoli non incisero praticamente sul traffico del borace con l’intensità verificata per l’allume, in quanto la sua raccolta non avveniva in terrotori sottoposti all’Impero, ma in quei paesi che la scoperta delle nuove vie marittime mise in contatto diretto col mondo europeo. Poteva riscontrarsi l’acido borico ottimo preparato nelle manipolazioni farmaceutiche, e ciò spiegherebbe le speciali raccomandazioni del Ricettario per il nitro del Volterrano. Le ricette circa gli impieghi galenici di tale prodotto, inserite nello stesso formulario, se non danno alcun preciso indizio sulla sua possibile natura — figurando in una polvere per curare la rogna, con zolfo ed altri ingredienti, in un complicato impiastro ed in una pomata atta a medicare bruciature (337) —, non escludono poter trattarsi dell’acido borico. È interessante una indicazione del Mattioli, per cui il nitro, insieme al miele, avrebbe giovato a chiarificare la vista (338). Scorrendo i libri di gabella, non abbiamo rilevato la tassazione di alcun prodotto, all’influori dello zolfo e del vetriolo, che potesse orientarci sul traffico di altri minerali dei bulicami. Ciò non è peraltro sufficiente per smentire le precise indicazioni dei trattatisti e del Ricettario, dettate evidentemente da (336) L’utilizzazione dei lagoni boraciferi non potè industrializzarsi se non quando fu possibile trasformare l’acido borico in borace. Il processo fu realizzato nel 1817 da GIUSEPPE GUERRAZZI con l’aiuto del suo commesso GAETANO BAGLIONI (N ASINI, pp. 115-120). (337) Ricettario, ed. 1623 cit., pp. 208, 260, 281. Il « nitro » da pestarsi con lo zolfo nella confezione di una polvere per la rogna non poteva essere evidentemente il nitrato di potassio. (338) MATTIOLI, op. cit., p. 766. — 139 — una pratica farmaceutica da tempo stabilita. Anzitutto la mancata registrazione di una voce specifica negli Statuti di gabella non è indice di assenza di traffico di una merce, quando poteva ricorrersi ad una tariffa generica, come per altre spezierie. Inoltre l’esportazione da modeste quantità del cosiddetto nitro poteva esser compresa doganalmente nella classe del vetriolo e dichiarata come tale. Concludendo, crediamo sufficientemente provato che il nitro dei lagoni indicato nel Ricettario fosse l’acido borico e lo si impiegasse in farmacia; ma rimane da stabilire se ebbesi nozione di considerarlo affine al borace, pure esso indicato come una specie di nitro, e se fu talvolta usato nell’arte degli orafi in sostituzione del prodotto orientale. § 4. - Altri attributi. Abbiamo trovato segnato talvolta in uscita dal territorio volterrano una terra da bagno, proveniente presumibilmente dai lagoni (339). Poteva trattarsi della « luma », forse indicata nel Ricettario come nitro mescolato con la melanteria, da usarsi nelle doccie per sciogliere i catarri. Ma più probabilmente era la stessa famiglia dei bulicami, impiegata nella cura di malattie cutanee, e della quale il Gazzeri effettuò l’analisi chimica. Non fu solo infatti ai primi dell’800 che l’uso di quel fango si affermò a scopo terapeutico, poichè già il Targioni riferisce che dal fondo dei lagoni di Carboli si cavava una terra simile al mattaione, con la quale, frammiste minute scheggie di legno nero, si confezionavano delle « palle sigillate » (340). Queste, stemperate in acqua, curavano la tigna e la rogna del bestiame, mentre, con olio, erano usate come unguento per gli (339) ASCV., A’’’’ – I, anno 1480, c. 5 t.: « Da Benedetto di Gentile per due some di terra da bagnio mandò a Firenze, s. 4 ». (325) TARGIONI, VII, p. 214; III, p. 405. — 140 — uomini, nelle stesse affezioni, con ottimi risultati. Ciò era indubbiamente dovuto all’alta percentuale di zolfo contenuta nella famiglia dei bulicami, in particolare di quelli di Carboli. Anche la terra di un lagone di Castelnuovo, chiamato appunto « lagone della terra », era usata nella cura di malattie cutanee (341). Del resto, come ora si commerciano acque e sali di sorgenti termali di diffusa notorietà, non si sarà mancato, anche nel Medioevo, di mettere a disposizione dei meno abbienti gli attributi medicamentosi dei lagoni, che i frequentatori del Bagno a Morba o di altre stazioni avevano la possibilità di provare sul posto. Non è fuori luogo ricordare che, ancora ai nostri giorni, nelle sorgenti sulfuree di Mommialla si raccoglie una melma con la quale sono confezionate delle palle simili a quelle descritte dal Targioni, molto ricercate dai sofferenti di certe malattie della pelle. Essiccate, si presentano di colore giallastro, e la presenza dello zolfo è indicata dallo svolgersi di anidride solforosa per combustione. Una sommaria analisi ha rivelato altresì la presenza di potassio e l’assenza di carbonati. Fra i sali dei lagoni è attendibile siasi raccolta, e distintamente trafficata, la selenite (solfato di calcio cristallizzato), conosciuta anche come allume scagliola (342), di largo impiego nella tintura dei panni (343). Può sospettarsi che l’allume cui alludono i documeniti del ‘200 e ‘300 si riferisca a questo sale di calcio, che in buona quantità si rinveniva appunto ai lagoni (344), particolarmente presso quelli erompenti in terreni (341) GIULI, op. cit., p. 21. (342) Ricettario, ed. 1623 cit., p. 14. (343) ROSETTI, op. cit., p. 362. (344) MASCAGNI, op. cit., p. 76. Per l’azione del vapore sulla roccia calcarea si ha formazione di gesso monoidrato, il quale poi, assorbendo umidità dall’aria, si trasforma in gesso normale cristallizzato. Se noi scaviamo in vicinanza di manifestazioni endogene, troviamo delle masse bianche a struttura pastosa — originariamente calcaree —, che, all’analisi, risultano co- — 141 — calcarei, come a Montecerboli e a Serazzano. Tale ipotesi contrasta però con la mancata locazione dei bulicami di queste due terre, locazione che sarebbesi certamente verificata, quando da quelle manifestazioni si fosse tratto qualche redditizio attributo. Anche all’infuori della regione dei lagoni il territorio volterrano abbondava di selenite (detta pure specchio d’asino); specie a Spicchiaiola, sulla strada di Colle val d’Elsa, se ne trovava in gran copia. Era anzi il minerale proveniente da quella località che si introduceva in Firenze per essere impiegato nella fabbricazione della scagliola (345). Il rinomato « gesso da muratori volterrano » si otteneva invece dalla calcinazione dell’alabastro (346). È degna di considerazione la citata notizia di Zaccaria Zacchi, riportata dall’Alberti e dal Giovannelli (347), che dal territorio dei soffioni si ricavassero delle terre coloranti. Dice Leandro Alberti: « Appaiono tutte le pietre intorno di dette acque bruciate, che sono molto apprezzate dai pittori per ombreggiare i loro disegni. Vicino a quelle scorgesi la terra rossa, gialla e bianca, et nera, con alcune picciole pallotte come cece di fino azzurro, molto stimate dai pittori » (348). Tale passo ci sembra ancor piu notevole, se messo in rela- stituite da solfato di calcio monoidrato. In un secondo tempo, specialmente se esposte all’aria, queste masse induriscono e diventano cristalline. (345) TARGIONI, III, p. 134. (346) Ibid., p. 460; MASCAGNI, op. cit., p. 77. (347) ALBERTI, op. cit., p. 50; GIOVANNELLI, op. cit., p. 60. Cfr. cap. 3, p. 133 e note 325 e 326. (348) È stato dubitato che « le pallotte di fino azzurro » usate dai pittori fossero rinvenute nella zona dei lagoni (NASINI, p. 67). Il BALDASSARRI riscontrò però ai lagoni di Travale molte fioriture vetrioliche di colore bianco, verde e ceruleo (op. cit., p. 33); mentre fu rilevata dal Mascagni una tintura cerulea nell’interno di alcuni pezzi di sale sedativo ( op. cit., p. 73). Ai lagoni di Travale fu trovato anche del cinabro (MASCAGNI, op. cit., p. 84). — 142 — zione con quanto scrisse il Cennini (sec. XIV-XV) nel suo Trattato della pittura: « Giallo è un color naturale, il quale si chiama ocria. Quegto colore si trova in terra di montagna, là dove si trovano certe vene come di zolfore, e là, ov’è queste vene, vi si trova della sinopia, del verde terra, e di altre maniere di colori. Vi trovai questo, essendo guidato un dì per Andrea Cennini mio padre, menandomi per lo terreno di Colle di Valdelsa, presso a’ confini di Casole, nel principio della selva del Comune di Colle, di sopra a una villa che si chiama Dometaria » (349). Queste precise indicazioni topografiche ci portano ad identificare il campo di osservazione di Cennino con le emanazioni solfidriche di Montemiccioli, delle quali possediamo una scientifica relazione (350). A circa tre chilometri in direzione sud-est dell’antica torre di Montemiccioli, nel bosco di Brenta, ai confini del circondario volterrano col senese, si notano alcune cavità scavate nel calcare alberese, in fondo alle quali si sviluppano emanazioni di gas di idrogeno solforato (351). Trattasi in definitiva (349) C. CENNINI, Libro del’arte o Trattato della pittura, XLV, ed. G. e C. Milanesi, 1859, p. 29. Sul Cennini e sul lavoro, v. GUARESCHI, Sui colori degli antichi, in « Suppl. Enc. Chim. » cit., XXIII, 1907, pp. 331-337. (350) E. DI POGGIO, Sulle esalazioni solfidriche di Montemiccioli, in « Atti della Soc. Toscana di Scienze Naturali », Proc. verb., vol. V, Pisa, 1886, p. 254. (351) Per quanto le esalazioni solfidriche emanino in terreno calcareo, sembrerebbe che non tutto lo zolfo fosse assorbito dalle reazioni di riduzione e trasformazione della roccia in solfato di calcio, poichè parte di esso si deposita allo stato naturale, incrostando le pareti della cavità (Ibid., p. 255). Alla teoria del DI POGGIO, che attribuisce la deposizione di zolfo sul terreno calcareo ad una reazione di ossidazione e decomposizione di parte dell’idrogeno solforato in zolfo e acqua, oltre, naturalmente, alla reazione che trasforma la roccia calcarea in solfato di calcio monoidrato ( cfr. nota 344), è stato obiettato (comunicazione privata del dr. G. CAPPON del 10 febibraio 1943) che il terreno nel quale scaturiscono le manifestazioni di Montemiccioli non è costituito da roccia calcarea pura, ma da roccia calcarea alternata con marmi o scisti argillosi. Così la formazione dello zolfo sarebbe da circoscrivere alla — 143 — di una delle tante serie di putizze che si aprono nella regione di Volterra. L’alterazione, che lo svilupparsi del gas provoca sul terreno circostante, cosi è descritta: « Sul declive della collina di sinistra l’alterazione del calcare alberese è molto più profonda. Ivi è quasi totalmente convertita in gesso, non solo, ma anche in una roccia giallo-rossastra, simile a limonite (e la presenza della limonite mi sarebbe attestata anche dal tingersi in giallo le dita toccando questa roccia) oppure in una specie di poltiglia argillosa nerastra, su cui abbondano efflorescenze di solfo, ed altre di una sostanza bianca, identica ad altre sostanze che si trovano efflorescenti in prossimità delle esalazioni solfidriche nelle vicinanze di Larderello » (352). Un’ocra gialla, simile a limonite terrosa, era dunque raccolta intorno a queste manifestazioni solfatariche, per essere usata nella confezione di colori per pittori. È facile analogia ritenere, dopo quanto e stato in precedenza detto, che alcune terre ed efflorescenze della regione dei lagoni, che con ben altra imponenza si presentavano, opportunamente scelte e selezionate, avessero identica destinazione (353). parte argillosa del terreno, mentre la massa calcarea e trasformata in solfato di calcio, assumendo in certi tratti colorazione giallo-rossastra per 1’ossido di ferro. Invero, la quantità di zolfo che si rinviene a Montemiccioli e nei terreni prevalentemente calcarei è molto modesta, se confrontata agli spessi crostoni che si formano sulle rocce di natura silicea. Al pari delle manifestazioni mofetiche (per es. Micciano), le esalazioni di Montemiccioli disturbano le persone e sono letali ai volatili. Ciò è dovuto all’azione dell’acido carbonico. (352) Ibid., p. 256. (353) Alcune reazioni, determinate sul terreno calcareo dai vapori dei soffioni, assumevano particolarità simili a quelle constatate a Montemiccioli: « L’alberese prende diversi colori, ma il più comune è il ferrugineo; vien corrosa, sfarinata, e ridotta in scheggiuole... ». « In quest’alberese a luoghi si vedono alcuni piccoli cavi regolari con entro della terra giallastra, la quale sembra un’ocra » (MASCAGNI, op. cit., p. 59). — 144 — Il Cennini ricorda anche la sinopia, la quale, come la descrive Dioscoride, era una terra naturale, grave, densa, color di fegato (354). La sinopia costituì, nel Medioevo, un articolo di largo traffico, ed è ricordata nelle tariffe della gabella fiorentina del ‘300 (355). Sotto quel nome si comprende ora — e non vi è alcuna ragione per supporre che diversa fosse la sinopia medievale — un’argilla in massa compatta, di colore rosso più o meno intenso per la presenza di sesquiossido di ferro, di aspetto simile alle ocre (356). È considerata una specie della cosiddetta terra bolare, conosciuta anche come terra sigillatta o terra di Lemno (357). Quanto agli Etruschi, è stato accertato che essi largamente usarono come sostanze tintorie l’ocra gialla e l’ocra rossa, utilizzando anche le scure sfumature che dalla prima si ottengono, se sottoposta a riscaldamento (358). È presumibile che la provenienza principale di tali terre fosse il Senese (terra gialla di Siena) e il Grossetano, ma non è da dimenticare che anche la regione dei lagoni poteva fornirne, se non nella misura di quelle regioni, in discreta quantità. Se il Medioevo ed il Rinascimento, pure disponendo di una tecnica tintoria ben più progredita e di una maggiore possibilità di rifornimento dal Levante di preziose materie (359), non disdegnarono le pietre dei bulicami, a queste certamente ricorsero gli artefici etruschi per la preparazione dei loro colori. Per quanto l’ambiente delle manifestazioni endogene del Volterrano sia completamente modificato, ed il suolo ove si sviluppano i lagoni sia ben lungi dal pittoresco aspetto (354) Cfr. GUARESCHI, Sui colori, cit., p. 336. (355) CIASCA, op. cit., p. 771. (356) VILLAVECCHIA, Diz., cit., I, cl. 397. (357) R. GUARESCHI, Su colori, cit., p. 435. (358) R. G RASSINI, Esame chimico dei colori nelle pitture murali della tomba dipinta delle Ficaie (Magliano-Grosseto), in « Studi Etruschi », VIII, 1934, p. 328. V. anche L. BRANZANI, Le pitture murali degli Etruschi, in « St. Etr. », VII, 1933, p. 340. (359) CIASCA, op. cit., p. 413 e sgg. — 145 — del secolo scorso, tuttavia il visitatore avverte ancora, a prima vista, le variopinte formazioni che, ben marcate, si staccano sul terreno. Spontaneamente vien fatto di pensare al loro impiego come sostanze coloranti. Dalla diffusa pratica della pittura murale e dall’entita dell’industria ceramica, si arguisce come gli Etruschi ricercassero sistematicamente nel loro territorio le terre colorate e gli ingredienti per gli impasti e la vetrina dei vasi. A più forte ragione può ritenersi che essi attingessero da quei vistosi depositi formatisi a fior di terra, in una zona attraversata da una delle più importanti arterie di traffico dell’Etruria. È stato anche riscontrato, dall’analisi di alcune pitture murali di Talamone, che gli Etruschi usarono il cinabro (360). Delle ipotesi sono state emesse circa la provenienza di quel minerale (361), e, fra queste, è possibile ora anche collocare l’origine dal suolo dei lagoni. Comunque, su tutte le terre e sui minerali ora ricordati, di impiego farmaceutico e colorante, e sulle loro analogie con i prodotti dei lagoni, sarebbe opportuno approfondire l’indagine chimico-storica, prendendo come punti di raffronto, oltre le sostanze tintorie, la natura delle argille impiegate nella fabbrica delle terraglie pomarancine e la loro vernice e, ancora una volta, la vetrina e l’impasto dei vasi etruschi e di alcune ceramiche del ‘500 (362). Allo stato attuale delle ricerche, se nel periodo che gravita intorno al ‘400 si ha notizia che nel territorio dei lagoni potevano raccogliersi allume, nitro od altre sostanze, trattasi più che altro di attività limitate a determinati impieghi farmaceutici e manifatturieri. Il fatto che i lagoni di Montecerboli e di Serazzano non (360) R. G RASSINI, Esame chimico di frammenti di pitture murali, di intonaci e di pavimenti, in « St. Etr. », X, 1936, p. 360. (361) Ibid. (362) V. nota 158. 10. — Fiumi — 146 — recavano alcun frutto al loro proprietario, il vescovo, pur essendo ricchi di minerali borici e di ocre per colori, indica che la paziente ricerca di tali prodotti non aveva, diremo, carattere capitalista, ma implicava solamente la paziente opera di qualche pratico ricercatore; sì come oggi ci può apparire la cernita di alcune erbe semplici. L’industria ed il commercio erano orientati verso lo zolfo ed il vetriolo romano, e le attestazioni sulla presenza di altri prodotti, se pure hanno grande importanza per lo studio del fenomeno, non rispecchiano lo stato di fatto dell’attività mercantile. Emerge però da tutte le circostanze prospettate come l’industria dei lagoni richiedesse una tecnica chimica ed estrattiva, che, se potrà sembrare empirica ai nostri giorni, non era improvvisata, e denotava anzi un intelligente senso di ricerca e di applicazione delle possibilità di sfruttamento di quelle manifestazioni.