margine, confine, limite - Margine, Soglia, Confine, Limite
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margine, confine, limite - Margine, Soglia, Confine, Limite
MARGINE, CONFINE, LIMITE APPUNTI PER UN PERCORSO TEORICO Valentina Lusini Dal punto di vista dell'antropologia contemporanea, parlare di confine significa parlare di: IDENTITÀ Solitamente, l'identità è concepita come costruzione culturale di confini interni (status, genere, età, professione, ecc.) e di confini esterni (razza, etnia, religione, lingua, ecc.) al gruppo sociale. A partire dagli anni '80 del secolo scorso, tuttavia, la riflessione sull'identità e sull'alterità diventa per l'antropologia il punto di partenza per una valutazione critica dei processi di globalizzazione. L'irrimediabile esaurimento del formalismo e del razionalismo impone una revisione delle tradizionali categorie interpretative applicate all'indagine sulle strategie di costruzione di identità e sul concetto di autenticità. Dal punto di vista dell'ordine transnazionale e postcoloniale, la questione dell'appartenenza si pone sempre meno su un piano territoriale e sempre più su un piano simbolico, in cui lo spostamento è ciò che regola la costruzione della soggettività in quelle che T. Macrì chiama le "postculture". La condizione erratica di attraversamento di confini – che E. Said intende come modo di "essere discontinuo" e che si sostanzia nella figura del migratore – si compone di diverse condizioni (fuga come ricerca, fuga come esilio volontario o forzato, diaspora) che impongono di ripensare il concetto di identità come costruzione lacerata, scissa, sempre in costruzione e dunque sempre temporanea. Il punto di partenza geopolitico è il "mondo in frammenti" di C. Geertz, che si può interpretare attraverso l'analisi dell'internazionalizzazione dei circuiti di mobilità del capitale economico, culturale, umano e mediatico cui A. Appadurai ha dedicato gran parte della sua ricerca. Si tratta dunque, prima di tutto, di un problema di luogo, che serve a decostruire il tradizionale binomio tra identità insediata e identità relazionale (intesa dunque come "rete"). L'esigenza di definire una nuova identità – fondata sul concetto di métissage e non sulla rappresentazione di un'origine essenziale che conduce a sovrapporre l'omologazione di diritti-doveri all'idea di una cultura comune – è sentita soprattutto nelle analisi di J. L. Amselle, M. J. Fischer e G. E. Marcus, che partendo da concetti simili all'idea di "soggettività interstiziale" elaborata da H. K. Bhabha elaborano una nozione di identità frontaliera, intesa come modo di porsi che implica necessariamente l'eterogeneità e la differenza. Così concepita, è chiaro, l'identità impone un senso diverso al concetto di dimora, che viene sempre più spesso intesa come "habitat in movimento" (I. Chambers) che delinea quelle che J. Clifford chiamava le "travelling cultures", cioè quegli spazi di credenza in cui si sovrappongono il postmoderno metropolitano e il postcoloniale storico-teorico. POTERE Il concetto di margine, che si può intendere come "periferia", implica l'esistenza di un centro (decisionale e dunque dominante) e comporta una riflessione sul rapporto egemonico-subalterno. Il margine, infatti, come bordo e delimitazione, è ciò che si situa fuori dal centro e contemporaneamente lo avvolge. Implica cioè l'idea di esclusione nella prossimità che può essere intesa: - in senso negativo come non-integrazione e non-conformità alle norme (emarginazione); - in senso positivo come libertà di scelta (alter-nativa). Il margine è uno strumento di classificazione e costruzione di convenzioni, sia in senso metaforico che in senso politico. Il confine come cornice implica dunque la creazione di un ordine-disposizione (stigma). Quando il margine è scelto consapevolmente, spesso il rapporto al centro si definisce come resistenza e alter-nativa (altro rispetto ad un medesimo), capace di rileggere originalmente un insieme di regole e dunque di disposizioni (rapporto tra omogeneizzazione ed eterogeneizzazione). Nello spazio dell'alter-nativa si sono infatti mossi tutti i movimenti culturali e le persone che hanno utilizzato la trasgressione come risorsa per aprire nuovi orizzonti (basti leggere in questo senso il "folle volo" dell'Ulisse dantesco che tenta di abbattere i pregiudizi conoscitivi in favore di un razionalismo naturalistico che raccoglie la seduzione dell'ignoto). N. Heinich ha dimostrato come tutta l'arte occidentale, a partire dagli anni '60 del secolo scorso, si è costituita a partire dalla necessità e dall'intenzione di abbattere le frontiere concettuali per riformulare i concetti di autenticità, bellezza, opera, autore, pubblico, genere. Oltretutto, nel contesto attuale di allargamento delle frontiere, la pratica artistica, per il suo carattere di flessibilità e traducibilità, costituisce un ambito privilegiato di mediazione culturale, uno strumento di negoziazione politica, di definizione e consolidamento di appartenenze che prendono corpo in un processo permanente di costruzione, decostruzione e ricostruzione. Si può evidenziare, in particolare, il ruolo di quegli artisti che elaborano la diaspora in Occidente in funzione della costruzione di nuove simmetrie tra locale e globale, sperimentano ricostruzioni e rinnovamenti di integrazione o resistenza. Come dimostra J. L. Amselle, gli artisti capaci di giocare la propria identità "sul trattino", per usare un'efficace espressione di I. Chambers, sono quelli che riescono a rispondere criticamente al sistema dell'arte occidentale, che di fronte al "ritorno dell'indigeno" chiede all'artista del "Terzo Mondo" di prendere la parola come "autentico". Di fronte a questa richiesta di autenticità, le possibili risposte sono: - produrre un'arte "etnica", che risente di un complesso di identità tradizionale; - produrre un'arte "subalternista", che risente di un complesso di identità marginale; - produrre un'arte "del limite", che propone una nuova identità relazionale giocando con la "doppia coscienza" che sfugge alla trappola della determinazione territoriale. "Parlare dal limite", in questo senso, significa s-definire, de-condizionare. Così, è chiaro che la periferia diventa peripezia, che si muove nel campo del non-previsto, del non-convenzionale, del non-conosciuto, dell'in-stabile, situandosi dunque in quell'inter che appartiene a due spazi separati e ciononostante uniti. Qui, del resto, si colloca il discorso sul confine inteso come soglia, che implica da un lato una riflessione sui riti di passaggio contemporanei (in cui il limite si pone come attraversamento che ha valore temporale) e che, d'altra parte, comporta una critica al multiculturalismo politically correct di stampo statunitense, in cui l'idea di mosaico culturale sia sostituita dalla convivialità (accoglienza, ospitalità) auspicata da P. Gilroy.