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Donna inciampa e cade sul marciapiede: risarcimento a carico del

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Donna inciampa e cade sul marciapiede: risarcimento a carico del
dottrina
di giurisprudenza
di Ugo Terracciano*
Donna inciampa
e cade sul marciapiede:
risarcimento a carico
del comune
I
l pedone, nella fattispecie una signora che si recava al cimitero per far visita ai
suoi cari, cade inciampando sul marciapiede. Chiede i danni al Comune che
declina, negando ogni responsabilità. Fa causa, ma anche il giudice le dà torto.
Stessa cosa in appello: nessuna responsabilità della pubblica amministrazione. Alla
fine, premiata della sua tenacia, la donna ottiene ragione in Cassazione: i danni
sono a carico del Comune, che avrebbe dovuto fare una migliore manutenzione del
marciapiede. Così, l’Alta Corte, con la sentenza Sez. III Civ., 15 ottobre 2010, n. 21329,
è tornata ad occuparsi di uno dei temi più controversi nel campo del danno: quello
della responsabilità civile della pubblica amministrazione nella circolazione stradale. Il
caso è banale, ma le questioni giuridiche che si aprono sullo sfondo sono di notevole
portata. Il tutto avviene a Trieste. Nel mese di novembre va da sé che la zona del
cimitero sia più frequentata in occasione della tradizionale ricorrenza dedicata alla
visita dei defunti. Il tratto del marciapiede antistante al cimitero, percorso di pedoni,
non era asfaltato ma malformato e avallato, quindi potenzialmente pericoloso per la
sicurezza dei pedoni. Infatti, la signora inciampa rovinosamente.
Doveva stare più attenta, ha detto il Comune. Sarebbe dovuto essere sistemato il
marciapiede, hanno invece replicato i difensori. Non bastava che a presidiare il luogo
vi fosse un maresciallo della Polizia Municipale di Trieste. Poi il tutto è passato alle
decisioni della giustizia. La cosa singolare, nella vicenda è la posizione “ondivaga”
dei giudici, alcuni propensi ad accollare il danno al malcapitato, altri ad imputarlo
all’ente pubblico. Per comprendere la recentissima decisione, allora, cerchiamo di
procedere in questo ginepraio di pronunce contrastanti.
La
manutenzione e le responsabilità
che ne derivano
Partiamo dagli obblighi rispetto alla tenuta della strada. La manutenzione spetta
all’ente proprietario, cioè alla pubblica amministrazione nella cui circoscrizione il
bene strada è censito. Le strade sono definite e classificate dall’art. 2 Cds che, in
particolare, al comma 5 ne disciplina la proprietà. La questione della manutenzione
delle strade e della connessa responsabilità dei danni provocati agli utenti, però, è
stata sempre oggetto di controversie. Volendo riassumere, si sono creati due fronti
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interpretativi: il primo reputa che la materia sia
esclusa dal campo d’applicazione dell’art. 2051
cod. civ. e rientri normalmente nelle previsioni
dell’art. 2043 cod. civ.; la seconda ha formulato i
concetti di “insidia” o “trabocchetto” come elementi
di limitazione della responsabilità della pubblica
amministrazione.
Queste due visioni sono state sostenute da dottrina
e giurisprudenza contestualmente e di pari passo. In
realtà, da un punto di vista tecnico-giuridico i danni
conseguenti all’uso delle strade pubbliche rientrano
senza dubbio nell’ambito dell’ipotesi di cui all’art.
2051 cod. civ. il quale sancisce che ciascuno è
responsabile del danno cagionato dalle cose che ha
in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Si tratta
di una disciplina piuttosto rigorosa perché, accertato
il danno, l’ente proprietario (custode della strada)
paga, salvo che provi il “caso fortuito”.
Quindi in termini pratici, l’utente infortunato deve
provare che ha subito il danno e che tale danno è
stato determinato dall’anomalia della strada, mentre
l’ente può salvarsi solamente se riesce a dimostrare
la fatalità dell’evento. Data questa chiarezza della
disciplina, ma considerata ancora di più la sua
rigidità, gli interpreti ed anche i giudici, hanno cercato
un temperamento che esponesse in misura minore
gli enti.
La
demanialità del bene
Così, come criterio distintivo teorici e giuristi hanno
fatto riferimento al carattere di demanialità o meno
del bene. In sostanza hanno sostenuto (e in qualche
recente decisione ancora sostengono) che i beni
demaniali, data la loro estensione ed il loro utilizzo
diretto e generale da parte degli utenti, sfuggono
ad un rapporto d custodia.
Quindi, nel caso di danno nell’uso delle strade
demaniali non si applica la responsabilità del custode
(che paga sempre salvo che provi il caso fortuito),
ma quella generale (detta “aquiliana”) dell’art. 2043
cod. civ. il quale stabilisce che chi cagiona un danno
ingiusto deve risarcirlo. La cosa singolare, rispetto a
questa interpretazione, è che (ingiustificatamente) si è
tracciata una distinzione (ed un differente trattamento)
sulla base della titolarità della strada, escludendo il
principio predetto (applicabilità dell’art. 2043 in luogo
del 2051) le strade dei Comuni e delle Province.
Inoltre, per le strade demaniali, non solo si è ritenuta
applicabile la disciplina generale dell’art. 2043 cod.
civ., ma sempre nell’ottica di restringere il campo
delle responsabilità, sono state elaborate le figure
dell’insidia e del trabocchetto, come unica fonte
di responsabilità per la pubblica amministrazione.
Secondo questo criterio il danneggiato, per ottenere
il risarcimento, oltre a provare il comportamento illecito
(per negligenza) della pubblica amministrazione, deve
altresì fornire la prova dell’esistenza dell’insidia
caratterizzata da due elementi: quello oggettivo della
non visibilità del pericolo e quello soggettivo della
imprevedibilità del pericolo medesimo. In sostanza è
come incappare in una trappola, in un trabocchetto
appunto, creato o non eliminato per negligenza dalla
pubblica amministrazione.
La concezione dell’insidia come fonte di
responsabilità è stata accolta e consolidata per
lunghi anni nella giurisprudenza, fino alla metà degli
anni 2000. A dare una svolta, circa l’insidia come
preteso elemento costitutivo dell’illecito, è stata
la sentenza Cass. 14 marzo 2006, n. 5445, per la
quale si tratta di un elemento non previsto dalla
legge. Ciò non toglie che in linea generale, tra le
due tesi contrapposte dell’applicabilità alla pubblica
amministrazione del criterio comune di cui all’art.
2043 cod. civ. (con l’ulteriore temperamento della
dimostrazione dell’insidia) e dell’applicabilità del
regime più favorevole all’utente di cui all’art. 2051
cod. civ., non vi sia ancora concordia né tra i teorici,
né in giurisprudenza.
Due
discipline due diversi regimi della
prova
Ma perché la divergenza di cui si è detto assume
tanta importanza? La risposta è molto interessante sul
piano operativo, in quanto spostare l’indagine su un
terreno (quello dell’art. 2051) piuttosto che sull’altro
(quello del 2043), può notevolmente aggravare l’onere
probatorio a carico del danneggiato.
Anzi, a volte si può giungere a rendere la prova
pressoché impossibile a tutto vantaggio della pubblica
amministrazione. Se è consentita un’osservazione
di carattere meta-giuridico, l’impostazione che
tutela l’ente proprietario si pone in contrasto con
una tendenza generale che si fonda sulla visione
solidaristica di favore per il danneggiato. La ragione
di queste resistenze, che attraverso l’applicazione
del principi dell’insidia come fonte di responsabilità
aquiliana, si rinviene nel timore che l’apertura delle
maglie della disciplina in favore dei danneggiati
comporterebbe il pericolo dell’elevazione dei costi
economici gravanti sugli enti.
La dottrina più recente, però, sostiene che
quando sono in gioco interessi così rilevanti, quali
l’incolumità personale dei cittadini, il bilanciamento
di valori deve essere attento, mentre la ricerca
delle scelte economiche per rendere sostenibili i
rischi appartiene ad altri campi, e non può essere
operata trascurando la necessità che la pubblica
amministrazione operi una razionale pianificazione
degli interventi manutentivi al fine di garantire la
sicurezza delle strade.
In altre parole, il vento sta cambiando e la più
recente letteratura propende per una rigorosa
applicazione dell’art. 2051 cod. civ. che impone
all’ente, se vuole evitare il risarcimento, di provare che
il danno non è dipeso dalla negligente manutenzione
della strada, ma da una fatalità derivata da cause
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esterne. Si tratta di una nuova visione peraltro
sostenuta dalla giurisprudenza di cui prima si è
detto (v. Cass. 5445/2006). Quindi, nuova dottrina e
recente giurisprudenza, sono allineate sull’idea che
non si possano stravolgere – a favore della pubblica
amministrazione – gli elementari principi riguardanti
l’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ. con
la pretesa che il danneggiato dimostri la mancanza
della sua colpa otre che la colpa del danneggiante.
Volendo poi restare ancorati alla teoria dell’insidia
o trabocchetto, sul piano prettamente teorico non è
per nulla agevole individuare un criterio risolutivo, se
non facendo capo a valutazioni concrete da svolgersi
nel caso concreto. In altri termini non è possibile far
riferimento a generiche situazioni di sfavore: esempio, la
mancata illuminazione non può di per sé rappresentare
elemento di colpa per l’ente ed automatica esenzione
di colpa per il danneggiato.
Né, si può affermare che un oggettivo difetto, come
per esempio la sconnessione del suolo stradale, sia di
per sé insidiosa a prescindere dalle circostanze: essa
può infatti essere percepita facilmente in condizioni
normali, ma restare occulta solo per la presenza in
quel dato momento di un intenso traffico pedonale.
Detto questo, osserviamo che la questione che rimane
aperta è quella dell’applicabilità o meno dell’art. 2051
cod. civ. piuttosto che (come vuole una parte di dottrina
e giurisprudenza) dell’art. 2043 cod. civ. (facendo in
tale ultimo ambito valere la figura dell’insidia). L’unico
punto su cui si è approdati ad una visione condivisa è
l’esclusione della demanialità del bene come criterio
di esenzione della responsabilità.
La Cassazione, con sentenza n. 15384/2006 ha
sancito che la responsabilità delineata dall’art. 2051
cod. civ. ha carattere oggettivo anche in relazione
ai beni demaniali in effettiva custodia della P.A. La
pubblica amministrazione risponde quindi del danno
causato dalle cose in custodia (strada non mantenuta),
salvo che sia dimostrato il caso fortuito. Il giudice
può valutare, al fine di escludere la presunzione di
responsabilità della P.A. l’estensione del bene, per
verificare se obiettivamente nel caso concreto sia da
escludersi la stessa possibilità di garantirne l’effettiva
custodia. Quando si rilevi che effettivamente la custodia
è impossibile per la grande estensione del bene,
cadrà la presunzione di cui all’art. 2051 cod. civ. e
si applicherà la regola generale dell’art. 2043 cod.
civ. Ciò equivale, in termini probatori ad affermare
che se il bene non è ritenuto di estensioni tali da
escludere la possibilità di custodia, l’utente deve
semplicemente dimostrare il fatto dannoso e la sua
derivazione dall’anomalia stradale
La P.A. in questo caso, potrà escludere la propria
responsabilità solo provando il caso fortuito.
Qualora invece il giudice determini che il bene, per
la sua estensione non poteva essere concretamente
custodito, in applicazione dell’art. 2043 cod. civ. sarà
l’utente a dover provare il danno e la colpa della P.A.
Inoltre, dovrà anche provare l’assenza di una propria
colpa, poiché il comportamento colposo del soggetto
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danneggiato nell’uso dei beni demaniali esclude la
responsabilità della pubblica amministrazione se è
idoneo ad escludere il nesso eziologico tra cause
precedenti ed evento.
La più recente dottrina (G. Annunziata “Responsabilità
civile e risarcibilità del danno”, CEDAM, 2010, 449)
sul tema si dimostra piuttosto rigorosa ritenendo
applicabile la disciplina (più sfavorevole per la P.A.)
dell’art. 2051 cod. civ. alle strade pubbliche ed alle
autostrade, a prescindere dall’estensione del bene.
Detta disciplina si ritiene valida sia rispetto alle
situazioni di pericolo connesse alla struttura del bene,
sia nelle altre in cui si possono profilare interferenze
di fatti estranei collegabili a comportamenti di terzi o
dello stesso danneggiato.
Nel valutare poi, in concreto, l’impossibilità del
controllo (escludendosi automatismi presuntivi, tipo
l’estensione del bene tout court) non si può fare
riferimento ad elementi di relatività del comportamento:
in sostanza l’adeguatezza degli interventi manutentivi
va valutata non in astratto, dando spazio all’arbitrio
dell’ente proprietario, ma in concreto considerando
lo stato del bene e la pianificazione degli interventi.
E’ piuttosto interessante, la pronuncia di Cassazione,
23 gennaio 2009, n. 1691, che per superare la
questione dell’estensione del bene come esimente
della responsabilità da beni in custodia, fa presente
che la zonizzazione dell’intervento manutentivo
(mediante l’appalto) operata da molti Comuni, favorisce
la vigilanza nelle zone medesime e fa venir meno le
premesse di una impossibilità del controllo. Quindi,
affidare a terzi la manutenzione a zona equivale a
migliorare l’attività di custodia.
La stessa pronuncia, poi, aggiunge un altro fattore
importante, poiché esclude che l’ente possa esimersi
dalla responsabilità per aver affidato a terzi il compito
di garantire la manutenzione. L’appalto, infatti, è uno
strumento tecnico giuridico per la realizzazione degli
obblighi dell’amministrazione stessa
Il cittadino danneggiato, quindi, in deroga ai principi
di responsabilità del solo appaltatore, può chiamare
direttamente o in solido, l’amministrazione appaltante
a pagare il danno.
In termini più semplici se è la ditta a lavorare male
ne risponde chi le ha affidato i lavori.
Nel
caso di
Trieste
Dopo questo lungo discorso comprendiamo perché
la Cassazione con la sentenza 21329/2010 (conforme
a Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010
n. 9546), cassando le due sentenze dei giudici friulani,
ha condannato il Comune a pagare i danni al pedone. Il
marciapiede costituisce il normale percorso di calpestio
dei pedoni e l’ente proprietario deve custodirlo come
si deve. In caso di danno si presume la sua colpa.
* Funzionario della Polizia di Stato e
Docente di Politiche della Sicurezza
Presso l’Università di Bologna
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