Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per
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Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per
Aprile-Giugno 20112012 Ottobre-Dicembre • Vol.• Vol. 41 •42 N. •162 N. 168 • Pp.• xx-xx pp. 236-242 nefrologia frontiere Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche Claudio Mussolino Center of Chronic Immunodeficiency, University Medical Center Freiburg, Freiburg, Germania Sommario Le malattie genetiche sono causate da alterazioni nella sequenza del DNA genomico di una cellula. Tali cambiamenti (o mutazioni) possono interessare singoli nucleotidi così come lunghi tratti di DNA e nei casi più comuni aboliscono la funzione di un gene. La terapia genica ha come scopo la cura di un difetto genetico, utilizzando un frammento di DNA contenente la sequenza nucleotidica del gene “corretto” come agente terapeutico. Tale concetto è stato applicato nell’uomo per la cura di varie malattie genetiche, utilizzando vettori virali per introdurre il DNA “corretto” nella cellula bersaglio, in modo da ripristinare l’espressione del gene mancante. Tuttavia, quest’approccio non è esente da rischi; il sistema immunitario può, infatti, reagire contro questi vettori virali o, in alcuni casi, il meccanismo parzialmente stocastico, con cui alcuni vettori si integrano nel genoma, può portare all’inattivazione di geni essenziali per la vita della cellula o alla pericolosa attivazione di proto-oncogeni. In quest’articolo saranno trattati metodi alternativi e potenzialmente più sicuri, che possono essere applicati per la “cura” di difetti genetici in un campo della terapia genica noto come “ingegneria genomica” evidenziando potenzialità terapeutiche e rischi ad essa associati. Summary Genetic disorders are due to alterations of the genomic DNA within a cell. These changes (or mutations) can affect single nucleotides as well as long DNA tracts leading to the loss of a gene function in the most common cases. The aim of gene therapy is the treatment of a genetic defect by using a DNA fragment containing the nucleotide sequence of the “corrected” gene as therapeutic agent. This concept has been applied in humans for the treatment of a variety of genetic disorders using viral vectors to introduce the “corrected” DNA fragment into the target cells to restore the expression of the mutated gene. However, this approach has risks; the immune system can react against these viral vectors and the non-random integration patterns used by some viral vectors to integrate into the host genome can result in the inactivation of endogenous genes important for cell viability or in the activation of protooncogenes. In this article, we reviewed alternative and potentially safer methods of “genome engineering”, a field of gene therapy aiming at the development of a “cure” for genetic disorders, and the risks associated with these approaches. Introduzione Le malattie genetiche sono causate da difetti nel DNA (mutazioni) che possono interessare singoli nucleotidi o ampie sequenze geniche e nei casi più comuni aboliscono la funzione di un determinato gene all’interno di una cellula, inducendo l’insorgere di determinate patologie genetiche. La terapia genica ha come scopo la cura di tali difetti genetici, utilizzando del DNA come agente terapeutico contenente la sequenza corretta del gene mutato. Il DNA corretto deve essere tuttavia trasferito all’interno della cellula affetta e ciò è possibile utilizzando vettori virali, ovvero virus modificati in laboratorio il cui genoma è stato modificato per eliminare i geni codifanti proteine dannose e per inserire il DNA codificante per la proteina terapeutica. Tali vettori, una volta entrati nella cellula bersaglio, integrandosi o meno nel genoma ospite, ristabiliranno la funzione del gene mutato. Negli ultimi venti anni, tale approccio è stato ampiamente applicato anche nell’uomo, sopratutto per alcune malattie genetiche che interessano il sistema immunitario (Aiuti et al., 2009; Boztug et al., 2010; Hacein et al., 2010). In tali situazioni, cellule estratte da un individuo malato sono state coltivate in laboratorio, modificate ex vivo con vettori retrovirali in modo da ristabilire la funzione genica mancante e trapiantate nuovamente nel paziente di origine. Questo tipo di approccio, che si basa sul trapianto di cellule autologhe, rappresenta ad oggi un’alternativa più sicura 236 rispetto al trapianto di cellule eterologhe estratte da un donatore sano, in quanto quest’ultimo approccio è ancora associato ad un alto tasso di mortalità dovuto principalmente ai regimi di condizionamento a cui è sottoposto il paziente prima del trapianto, che sono altamente tossici, e alla malattia del trapianto contro l’ospite (GvHD), che si verifica quando le cellule del donatore, aggrediscono i tessuti del paziente che è riconosciuto come estraneo. Tuttavia, nonostante i primi successi, il rischio che il vettore virale possa integrarsi in porzioni “funzionali” del genoma, alterando l’espressione di oncogeni o onco-soppressori è alto. Casi di leucemia indotti dal vettore sono stati riportati, ridimensionando le speranze offerte da tale concetto terapeutico (Stein et al., 2010; Hacein-Bey-Abina et al., 2003; Hacein-Bey-Abina et al., 2008) in particolare utilizzando vettori gamma-retrovirali che integrandosi preferenzialmente in prossimità di geni correlati all’insorgenza di tumori, ne alterano i livelli di espressione, promuovendo lo sviluppo di neoplasie. Questo genere di tossicità, denominata mutagenesi inserzionale (Fig. 1), può essere limitata utilizzando vettori che presentano un profilo di integrazione potenzialmente più sicuro come i lentivirus o gli alfaretrovirus (Montini et al., 2006; Cattoglio et al., 2007; Suerth et al., 2012) o utilizzando vettori non integranti come gli adenovirus che tuttavia possono indurre reazioni del sistema immunitario (Teramato et al., 2000). Questi approcci descritti, prevedono che s’inserisca nella cellula Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche Figura 1. Fenomeno della mutagenesi inserzionale. Il vettore virale integrante, una volta entrato nella cellula, si integrerà in maniera stocastica nel genoma ospite. Se l’integrazione avviene in una regione che codifica per un gene oncosoppressore (sinistra) è probabile che il gene venga inattivato. Tuttavia, l’integrazione può anche avvenire in prossimità di oncogeni inattivi (destra). In tal caso, elementi genetici presenti nel genoma del vettore virale essenziali per l’espressione del gene terapeutico, come ad esempio il promotore o l’enhancer, possono indurre la riattivazione dell’oncogene. Entrambi questi meccanismi facilitano l’insorgenza di tumore. questo meccanismo sia molto efficiente e rapido, esso purtroppo non è preciso, poiché alcuni nucleotidi sono inseriti o escissi per permettere che la giunzione possa avvenire in modo efficiente. Pertanto, se la lesione del DNA avviene all’interno di una sequenza codificante per un gene, il riparo genererà in esso una mutazione in esso. Il meccanismo di ricombinazione omologa, invece, è attivo principalmente durante le fasi S e G2 del ciclo cellulare e utilizza il cromatidio fratello come stampo per il riparo del DNA. In questo caso, il complesso proteico (MRE11/RAD50/NBS1 (MRN) inizia il riconoscimento del DNA danneggiato, rendendolo a singolo filamento e successivamente alcuni fattori proteici, come RAD51, BRCA1 e BRCA2, permettono a quest’ultimo di contattare il cromatidio fratello che contiene la corrispondente sequenza omologa, che può essere utilizzata da stampo per il riparo preciso del DNA danneggiato (San Filippo et al., 2008). In cellule umane, la giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) è il meccanismo di malata un frammento di DNA esogeno, contenente la sequenza corretta dell’intero gene da rimpiazzare, dalla quale poi sarà espressa la proteina mancante. Tuttavia, il gene mutato è lasciato inalterato nel genoma del paziente. Un’alternativa a tale approccio consiste, invece, nella correzione diretta della mutazione nel gene alterato. A questo scopo, si utilizzano enzimi artificiali capaci di tagliare il DNA del paziente in prossimità della mutazione da correggere. Introducendo nella cellula, insieme a tali enzimi, anche un piccolo frammento di DNA “corretto”, quest’ultimo sarà utilizzato dalla cellula come stampo per correggere la mutazione presente in quella specifica posizione del genoma del paziente. Tale strategia rientra nel campo della terapia genica noto come “ingegneria genomica” che sfrutta i naturali meccanismi di riparo del DNA, per introdurre modificazioni specifiche e stabili nel genoma bersaglio e che potrebbe rappresentare un nuovo potenziale terapeutico in futuro. Il riparo del dna In ogni organismo, la stabilità del proprio patrimonio genetico è un requisito essenziale affinché esso possa essere trasferito alle generazioni future. Tuttavia, ogni giorno il DNA subisce lesioni dovute a fattori ambientali e metabolici che, se non riparate, potrebbero avere conseguenze serie per la vita stessa delle cellule. Di conseguenza, meccanismi di riparo estremamente efficienti si sono evoluti per permettere alla cellula di rispondere rapidamente a tali lesioni. Quando il DNA genomico di una cellula subisce un danno, questo è riparato principalmente utilizzando due meccanismi: (i) la giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) e (ii) la ricombinazione omologa (Kass, 2010). Il primo è il meccanismo più diffuso in eucarioti multicellulari ed è attivo in tutte le fasi del ciclo cellulare, ma è principalmente utilizzato durante le fasi G0, G1 e la fase S iniziale. Quando avviene una rottura nella doppia elica di DNA, le estremità libere vengono riconosciute da fattori proteici essenziali che sono altamente conservati in varie specie, come Ku70/Ku80. Questi, legandosi alla protein-chinasi DNA-dipendente (DNA-PKcs), formano un complesso enzimatico che, in seguito, richiama altri fattori come nucleasi, polimerasi e ligasi, che ultimano il processo di giunzione delle due estremità di DNA libere (Lieber, 2008). Sebbene Figura 2. Meccanismi di riparo del DNA. Quando il DNA genomico è danneggiato, la cellula cercherà di riparare il danno, attivando dei meccanismi specifici molto efficienti che garantiscono l’integrità del patrimonio genetico della cellula. Due meccanismi sono utilizzati con maggior frequenza: la giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) (sinistra) e la ricombinazione omologa (destra). Il primo è attivo durante tutto il ciclo cellulare ed è il meccanismo preferito per il riparo in eucarioti multicellulari. Questo meccanismo genera tuttavia mutazioni, in quanto pochi nucleotidi sono rimossi o aggiunti durante la fase di riparo per permettere la giunzione delle estremità libere di DNA. La ricombinazione omologa invece è attiva principalmente durante la fase S e G2, quando diventa disponibile il cromatidio fratello, che è utilizzato come stampo per correggere in modo preciso il DNA danneggiato. Tuttavia, tale meccanismo di riparo è impiegato più raramente. In figura sono indicati i fattori proteici più importanti che intervengono durante i due meccanismi di riparo e lo spessore delle frecce indica la frequenza con cui i due meccanismi sono utilizzati. 237 C. Mussolino riparo, mentre la ricombinazione omologa è utilizzata molto raramente (Fig. 2). Ingegneria genomica La capacità di introdurre modifiche sito-specifiche in un genoma ha rappresentato un grande passo in avanti per i ricercatori interessati nella ricerca di base e nella terapia genica. L’ingegneria genomica sfrutta i meccanismi naturali che la cellula dispone per il riparo del DNA appena descritti, al fine di indurre modifiche permanenti nel genoma bersaglio. Affinché ciò sia possibile, il ricercatore deve mimare la creazione di un danno nella doppia elica del DNA, nella posizione dove si desidera introdurre una modifica. A questo punto la cellula bersaglio cercherà di riparare il danno al DNA utilizzando i meccanismi naturali di riparo menzionati in precedenza, che possono essere sfruttati quindi per indurre la cellula a modificare il proprio genoma nella regione prescelta. In generale, il meccanismo della giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) è quello più usato in cellule di mammiferi. Come discusso, questo tipo di riparo per risaldare le due estremità di DNA creerà delle mutazioni, aggiungendo o rimuovendo alcuni nucleotidi. Pertanto, il ricercatore può indurre la cellula ad utilizzare questo meccanismo per l’inattivazione mirata di un certo gene (Fig. 3, Box A) al fine di studiarne, ad esempio, la funzione in un organismo modello (Bibikova et al., 2002) o per esplorare nuovi concetti terapeutici. Strategie più complesse possono anche essere impiegate per indurre delezione di lunghi frammenti genomici (Sollu et al., 2010), inducendo due punti di rottura del DNA in zone diverse su uno stesso cromosoma. In tal caso, il frammento di DNA compreso tra i due siti di rottura sarà eliminato ottenendo una delezione (Fig. 3, Box B). Tuttavia, studi pionieristici in questo campo, effettuati nel laboratorio della Dr.ssa Jasin, hanno dimostrato che, creando una lesione nella doppia elica di DNA in una specifica posizione e, contestualmente, fornendo un frammento di DNA esogeno omologo al sito bersaglio, la frequenza di ricombinazione omologa in tale regione viene drammaticamente aumentata in cellule umane (Smih et al., 1994; Smih et al., 1995) e tale meccanismo di riparo viene preferito rispetto alla giunzione non omologa. In tale situazione, il frammento di DNA esogeno sarà utilizzato come stampo per il riparo e l’informazione genetica in esso contenuta sarà trasferita nel genoma ospite. Tale meccanismo può essere quindi sfruttato per correggere una mutazione nel caso in cui il DNA esogeno contiene la sequenza corretta (Fig. 3, Box C) o per inserire un nuovo gene in una porzione ‘sicura’ (Lombardo et al., 2011) del genoma bersaglio per scopi terapeutici o biotecnologici (Fig. 3, Box D). Per questo tipo di approccio, generare il DNA esogeno, che dovrà fungere da templato per il riparo, è un processo cruciale e complesso, in particolare quando tale DNA è inteso sotto forma di plasmide (Bibikova et al., 2003). Pertanto, negli ultimi anni sono stati riportati nuovi approcci per semplificare questa strategia, utilizzando frammenti di DNA lineare con corte sequenze omologhe al sito bersaglio (Orlando et al., 2010) o ancora corti oligonucleotidi a singolo filamento (Radecke et al., 2010; Chen et al., 2011). Poiché per indurre una modifica nel genoma è essenziale introdurre una lesione sito-specifica nel genoma bersaglio, grandi sforzi sono stati compiuti negli ultimi anni per generare enzimi artificiali capaci di tagliare il DNA genomico in sequenze a scelta, in modo da permettere modifiche permanenti in genomi di diversa complessità. Tali enzimi, noti anche come nucleasi artificiali, sono dimeri in cui ogni monomero è composto da una porzione capace di legare il DNA in modo specifico, e da un dominio che opera il taglio nella doppia elica di DNA. Ad oggi, diverse classi di nucleasi artificiali sono state 238 Figura 3. Modifiche sito-specifiche del genoma. Creando un danno al DNA in una porzione specifica si attivano i meccanismi di riparo che possono essere utilizzati per creare modifiche stabili nel genoma bersaglio. Il danno al DNA sarà principalmente riparato attraverso il meccanismo di giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) (sinistra) che, inducendo mutazioni (*), può essere utilizzato per inattivare un gene (Box A) o, inducendo due tagli nel cromosoma bersaglio, per creare una delezione (D; Box B). Fornendo alla cellula un DNA esogeno omologo al sito danneggiato, il meccanismo della ricombinazione omologa sarà preferito (destra) e tale strategia può essere utilizzata per correggere una mutazione nel caso in cui il DNA esogeno contiene la sequenza corretta (Box C) o per inserire un nuovo gene in un sito ‘sicuro’ del genoma bersaglio (Box D). introdotte a tale scopo. In particolare, tre diversi tipi sono studiati maggiormente: le nucleasi a “dita di zinco” (ZFNs), quelle basate su struttura “TALE” (TALENs) e le Meganucleasi (MNs; Fig. 4). In questo articolo ci interesseremo principalmente delle due classi più diffuse, le ZFNs e le TALENs, in quanto le MNs rappresentano una classe di nucleasi con minore flessibilità ad essere manipolate, al fine di riconoscere una sequenza di DNA a scelta e pertanto meno utilizzate nel campo della terapia genica. Nucleasi artificiali a “dita di zinco” (ZFNs) Le nucleasi artificiali più comuni sono le zinc finger nucleases (ZFNs), composte dal dominio di taglio derivante dall’enzima di restrizione FokI e il dominio di legame al DNA, formato da moduli con struttura a “dita di zinco” (Urnov et al., 2010). Tali moduli sono capaci di legare in una prima approssimazione tre o quattro nucleotidi adiacenti e il legame avviene attraverso alcuni residui amminoacidici ‘chiave’, che contattano direttamente il solco maggiore del DNA. Sostituendo tali amminoacidi ‘chiave’, è possibile modificare la specificità del singolo modulo. Tali modifiche hanno permesso la creazione di moduli sintetici che riconoscono quasi tutte le 64 possibili triplette nucleotidiche, e la loro naturale modularità permette la fusione in serie di moduli con differente specificità, al fine di creare domini di legame al DNA capaci di legare sequenze di DNA a scelta. Poiché FokI è un enzima dimerico, affinché il taglio possa avvenire, due nucleasi devono essere generate in modo da legare sequenze di DNA separate da un opportuno spaziatore, all’interno del quale il dominio di taglio può dimerizzare e tagliare il DNA (Fig. 4a). Tuttavia, nella pratica, creare dei domini di legame a dita di zinco che riconoscano efficientemente una sequenza di DNA prescelta è un processo lungo e laborioso, in quanto ogni modulo mantiene le sue caratteristiche di legame solo nel contesto dei moduli adiacenti. Ciò significa che Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche 2012) (Fig. 3b). A differenza dei moduli a dita di zinco, l’interazione con il DNA dei singoli moduli TALE non è ostacolata dai domini vicini e, pertanto, generare nuove nucleasi artificiali basate su struttura TALE (TALENs) con diverse specificità è semplice e veloce e può essere fatto in ogni laboratorio, utilizzando tecniche di clonaggio standard (Engler et al., 2008). Specificità delle nucleasi artificiali Figura 4. Tipi di nucleasi artificiali più diffusi. (a) Nucleasi a ‘dita di zinco’ (ZFNs). Tali nucleasi sono enzimi dimerici in cui ogni monomero è composto dal dominio di taglio derivante dall’enzima di restrizione FokI (in rosso) e dal dominio di legame al DNA (in blu) formato in genere da 3 o 4 moduli a ‘dita di zinco’, ognuno capace di riconoscere una specifica tripletta di DNA. Il taglio avviene nella sequenza di DNA che separa i due siti bersaglio dei singoli monomeri. (b) Nucleasi con struttura ‘TALE’ (TALENs). In questo tipo di nucleasi artificiali il dominio di taglio è legato a moduli di legame al DNA con struttura ‘TALE’. Un singolo modulo lega un solo nucleotide e in genere fino a 18 moduli sono fusi insieme per creare il dominio di legame al DNA. (c) Meganucleasi (MNs). Tali nucleasi presentano una struttura proteica molto complessa, in cui il dominio di taglio è incorporato nella molecola insieme al dominio di legame al DNA e pertanto questi enzimi sono meno flessibili per essere modificati al fine di legare una sequenza bersaglio a scelta. la specificità di un modulo può cambiare a seconda dei moduli che ad esso sono fusi e questo fenomeno può portare alla formazione di nucleasi non specifiche per la sequenza desiderata, ma che possono tagliare il genoma anche in sequenze diverse, creando tossicità. Inoltre, non tutte le possibili triplette di nucleotidi possono essere, ad oggi, riconosciute da moduli a dita di zinco e questo complica ulteriormente il disegno di ZFN con nuove specificità di sequenza. Nucleasi artificiali basate su struttura “tale” (TALENs) Recentemente è stato scoperto un nuovo dominio di legame al DNA isolato da fattori di trascrizione presenti in batteri del genere Xanthomonas, chiamati transcription activator-like effectors (TALE) (Boch et al., 2009; Moscou, 2009). Anche questo dominio di legame al DNA è modulare, ma ogni singolo blocco è capace di riconoscere un singolo nucleotide; pertanto esistono soltanto quattro diversi moduli TALE capaci di riconoscere i quattro nucleotidi (Boch, 2010; Mussolino and Cathomen, 2012). Così come per le ZFNs, anche i singoli moduli TALE possono essere legati in serie per formare domini di legame al DNA, che riconoscono una sequenza di DNA a scelta, che è poi unito al dominio di taglio di FokI (Mussolino and Cathomen, La possibilità di applicare tecniche di ingegneria genomica in organismi modello e, in futuro, anche nell’uomo è strettamente dipendente dall’utilizzo di nucleasi artificiali estremamente specifiche, che sono capaci idealmente di tagliare un singolo sito in genomi complessi, come quello umano. Molti progressi sono stati fatti per rendere le nucleasi artificiali più specifiche, in modo da annullare o limitare il taglio in regioni genomiche non specifiche, i cosiddetti off-targets, che possono indurre effetti deleteri sulla cellula bersaglio, come l’inattivazione di geni essenziali per la vita della cellula o traslocazioni cromosomiche, aumentando il rischio potenziale di indurre tumori. A tal scopo, sono state introdotte mutazioni nel dominio di taglio, in modo da indurre la dimerizzazione di FokI, solo quando due eterodimeri sono nella giusta configurazione spaziale, come mostrato in figura 4 (Miller et al., 2007; Szczepek et al., 2007). Sebbene tale strategia abbia permesso di limitare notevolmente la citotossicità associata all’uso di nucleasi artificiali, in particolare per ZFNs, essa non è del tutto abolita e ancora molto lavoro deve essere compiuto per rendere tali nucleasi adatte all’utilizzo più diffuso in clinica. Con l’introduzione delle TALENs, un notevole passo avanti sembra essere stato fatto verso una piattaforma più sicura e meno citotossica. Gli off-targets occorrono principalmente in regioni di DNA che presentano un certo grado di identità nucleotidica rispetto al sito bersaglio. Ciò è stato osservato in vitro (Pattanayak et al., 2011) e in vivo (Gabriel et al., 2011), in due studi in cui le ZFNs analizzate hanno mostrato di tagliare principalmente i rispettivi siti bersaglio sono stati rivelati numerosi tagli in posizioni differenti del menoma, ma con sequenze nucleotidiche quasi identiche al bersaglio originale. Pertanto, poiché ogni monomero ZFN riconosce soltanto 12 nucleotidi nella configurazione più comune, è lecito supporre che le nucleasi TALEN abbiano una maggiore specificità, in quanto generalmente tali monomeri sono disegnati in modo da riconoscere sequenze bersaglio di 19 nucleotidi. A supporto di tale teoria, una comparazione tra ZFNs e TALENs, specifiche per una stessa regione nel genoma umano, ha evidenziato meno citotossicità nelle cellule trattate con TALENs (Mussolino et al., 2011), e simili risultati sono stati ottenuti in vivo in modello animale di ratto (Tesson et al., 2011). Inoltre, gli stessi ricercatori hanno anche dimostrato che due bersaglio quasi identici, differenti per un solo nucleotide, sono efficientemente discriminati da TALENs, ma non da ZFNs (Mussolino et al., 2011). Tuttavia, ad oggi, è ancora molto complicato identificare i siti off-targets. Bisogna infatti tenere presente che il taglio in siti off-targets avviene con una frequenza molto più bassa rispetto al sito bersaglio anche soltanto in una cellula su mille o meno. Eventi così rari possono portare a conseguenze deleterie, come l’immortalizzazione di cellule staminali che possono indurre tumori, come è stato riportato in seguito all’utilizzo di vettori retrovirali integranti (Modlich et al., 2006); ed è dunque essenziale sia migliorare la specificità associata alle nucleasi artificiali disponibili, sia investire in tecnologie che facilitino l’identificazione di off-targets rari. Inoltre, idealmente, il profilo di specificità delle nucleasi artificiali dovrebbe essere testato direttamente nel tipo cellulare che interessa al fine terapeutico, e non può essere testato in modelli animale, in quanto il 239 C. Mussolino differente contesto genomico ed epigenetico risulterebbe nell’identificazione di sequenze off-targets che potrebbero persino essere assenti nell’uomo. Applicazioni Le tecniche di ingegneria genomica, ad oggi, sono utilizzate sempre più frequentemente e ciò è principalmente dovuto alla sempre maggiore disponibilità di nucleasi artificiali che possono anche essere acquistate da aziende specializzate. ZFNs o TALENs sono state utilizzate in molti laboratori al fine di studiare la funzione di un gene in un determinato organismo o per creare modelli cellulari di malattie umane o ancora per generare cellule isogeniche (Dreyer 2012; Soldner et al., 2011) o mammiferi transgenici (Hockemeyer et al., 2011; Tesson et al., 2011; Wood et al., 2011; Meyer et al., 2010; Bedell et al., 2012). Dopo i risultati positivi ottenuti in vitro, dove ZFNs sono state utilizzate per modificare il genoma umano in maniera sito-specifica, attivando il meccanismo di riparo della ricombinazione omologa (Bibikova et al., 2001; Porteus, 2003; Urnov et al., 2005), queste nucleasi artificiali sono state applicate anche in vivo in modello animale di emofilia B (Li et al., 2011), in cui la mutazione nel gene del Fattore IX è stata corretta direttamente nelle cellule epatiche del topo, in modo da ottenere i livelli circolanti di tale molecola capaci di fornire un beneficio terapeutico (>1-5%). Invece di correggere la mutazione nel gene dove essa è presente, un approccio alternativo è quello di trasferire il DNA per l’intero gene terapeutico, in un punto ‘sicuro’ del genoma umano, ottenendo un’integrazione specifica e non stocastica, come nel caso di utilizzo di vettori virali integranti. Per questo obiettivo è stato usato un sito sul cromosoma 19 umano, nel primo introne del gene PPP1R12C (meglio conosciuto come AAVS1), che rappresenta il naturale sito di integrazione del virus adeno-associato di tipo 2 (AAV2), un virus non patogeno per l’uomo. È stato infatti provato che l’introduzione di geni esogeni in questo sito permette l’espressione del gene inserito a lungo termine e senza interferire con geni vicini (Lombardo et al., 2011; Smith et al., 2008) e tale concetto può essere pertanto esteso per fini terapeutici. Le tecniche di ingegneria genomica possono essere anche impiegate nel campo della terapia tumorale, con lo scopo di creare linfociti capaci di riconoscere in modo specifico un tumore ed eliminarlo. Uno studio pre-clinico effettuato in Italia ha dimostrato che tale approccio è possibile, sfruttando ZFNs e il meccanismo di ricombinazione omologa per creare linfociti tumore-specifico (Provasi et al., 2012). In tale studio è stato osservato che linfociti T umani possono essere privati del recettore delle cellule T (TCR) endogeno che può poi essere sostituito con un TCR artificiale capace di riconoscere in modo specifico le cellule del tumore di Wilms. Tali linfociti tumore-specifici, trapiantati in un modello animale di topo con tumore di Wilms, hanno efficientemente eliminato la formazione neoplastica, fornendo nuove speranze per un approccio simile nell’uomo. Gli studi riportati hanno anche fornito nuove speranze per l’applicazione di tecniche di ingegneria genomica nell’uomo. Infatti, considerando i grandi successi in modello animale, ZFNs sono state applicate in clinica per inattivare il gene umano CCR5, che è un corecettore utilizzato da alcuni ceppi del virus HIV per infettare le cellule T. Quando tale recettore non è presente sulla membrana cellulare, il virus non può entrare nella cellula bersaglio e l’infezione non può pertanto aver luogo. La prova che tale concetto può avere rilevanza terapeutica è stata fornita dal “Berlin Patient” (Hutter et al., 2009). Tale paziente era affetto da AIDS e, in seguito allo sviluppo di leucemia mieloide acuta (AML), fu sottoposto a trapianto allogenico di 240 cellule staminali ematopoietiche da un donatore omozigote, per una mutazione che inattiva il gene CCR5 (la mutazione 32). Tre anni dopo, il paziente non ha alcun segno di infezione virale da HIV e presenta solo linfociti T circolanti, che non hanno il recettore CCR5. L’esperienza clinica di questo singolo paziente ha aperto la strada a due studi pre-clinici, in cui è stato dimostrato che tecniche di ingegneria genomica possono essere impiegate con finalità terapeutiche, inattivando CCR5 direttamente in cellule T (Perez, Wang et al., 2008) o in cellule staminali ematopoietiche (Holt, Wang et al., 2010). Questi studi hanno fornito la prova di principio che tale approccio può essere applicato all’uomo e, nel 2009 e 2010, due trial clinici (NCT00842634 and NCT01044654) sono iniziati con l’intento di estrarre cellule CD4+ da pazienti affetti da HIV, modificare il loro genoma utilizzando ZFNs in modo da inattivare il gene CCR5 e ritrapiantarle in maniera autologa nei pazienti. Tale approccio è al momento sotto osservazione per valutarne soprattutto la sicurezza, ma i primi risultati hanno mostrato miglioramenti importanti in molti parametri clinici associati con un declino dell’infezione virale. Sebbene le ZFNs utilizzate in questi studi sull’uomo hanno mostrato di avere effetti off-targets e una certa citotossicità (Gabriel et al., 2011; Pattanayak et al., 2011; Mussolino et al., 2011), ciò non ha limitato la loro applicazione in clinica su un bersaglio cellulare, le cellule T, che ha un basso potenziale proliferativo. Tuttavia queste cellule sono ciclicamente rinnovate nell’organismo e pertanto tale approccio non rappresenta una cura definitiva all’infezione da HIV. In futuro, tale concetto terapeutico dovrebbe essere applicato ad un bersaglio cellulare più rilevante, come le cellule staminali ematopoietiche che, una volta rese HIV-resistenti, produrrebbero per tutta la vita del paziente cellule T resistenti all’infezione virale. Tuttavia l’alto potenziale proliferativo di queste cellule, associato al profilo genotossico delle ZFNs utilizzate per inattivare il gene CCR5 discusso precedentemente, rende questo approccio ancora troppo rischioso per applicazioni sull’uomo. Pertanto, una piattaforma che associa una minore tossicità e una maggiore specificità come le TALENs può essere determinante in futuro per identificare una cura definitiva per l’infezione da HIV. Prospettive L’ingegneria genomica negli ultimi anni ha ottenuto successi di primaria importanza. I risultati pre-clinici per il trattamento di immunodeficienze acquisite o di tumori sono estremamente promettenti e l’evidenza che cellule umane parzialmente differenziate, come i linfociti T, possano essere estratte da pazienti, modificate ex vivo in modo da renderle resistenti ad infezioni virali e ritrapiantate a finalità terapeutiche, rappresenta un traguardo senza precedenti. Con l’avvento di nuovi tipi di nucleasi artificiali, che riducono l’intrinseco potenziale genotossico associato a tali enzimi, è lecito immaginare che in futuro tali tecniche possano essere applicate in cellule ad alto potenziale proliferativo, come le cellule staminali ematopoietiche, in modo da fornire una cura definitiva per pazienti che soffrono di immunodeficienze croniche o acquisite al momento incurabili. Tuttavia, poiché le TALENs sono state studiate da molto meno tempo rispetto alle ZFNs, c’è ancora molto da capire per evidenziare vantaggi e limiti associati a questa nuova piattaforma per modificare il genoma. In particolare, le TALENs sono enzimi di notevoli dimensioni, rispetto alle ZFNs, e la loro struttura altamente ripetuta rende il loro trasporto nelle cellule bersaglio molto complicato. Inoltre, un chiaro profilo di siti off-targets per TALENs non è stato ancora riportato, ma i primi risultati ottenuti, in termini di specificità e di genotossicità, suggeriscono che tali nucleasi artificiali abbiano un notevole potenziale per essere applicate in futuro anche sull’uomo. Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Le malattie genetiche sono causate da alterazioni nella sequenza del DNA genomico di una cellula (mutazioni), che possono essere ‘curate’ utilizzando tecniche di ingegneria genomica. In tali approcci una molecola di DNA, che contiene la sequenza corretta del gene da rimipiazzare, è inserita in un vettore virale, che è utilizzato per infettare la cellula malata. Dopo l’infezione, la sequenza del gene corretto, contenuto nel DNA virale, sarà utilizzata per esprimere il prodotto proteico deficiente nella cellula. Cosa sappiamo adesso L’ingegneria genomica ha compiuto grossi passi avanti negli ultimi anni. Oggi sono disponibili enzimi artificiali capaci di tagliare un genoma complesso, come quello umano contenente 3 miliardi di nucleotidi, in una sequenza ben precisa. Una volta indotto un danno nel DNA, la cellula attiva i naturali meccanismi di riparo del DNA, che possono essere utilizzati al fine di introdurre modifiche sito-specifiche nel genoma. Tale concetto può essere applicato a scopi terapeutici per correggere, ad esempio, una mutazione direttamente nel gene dove essa è presente o per inattivare un gene dannoso o ancora per inserire un nuovo gene in una porzione ben precisa del genoma ospite. Quali ricadute sulla pratica clinica Risultati estremamente incoraggianti hanno provato che le tecniche di ingegneria genomica possono essere utilizzate con successo, sia in studi preclinici per la cura di tumori e di malattie genetiche, come l’emofilia B, che in trial clinici per la cura dell’infezione da HIV nell’uomo. Con l’avvento di nucleasi artificiali più specifiche e metodi più robusti per il controllo degli effetti collaterali, associati all’uso di tali enzimi, è possibile in futuro che tali metodiche siano applicate per il trattamento di un numero sempre maggiore di malattie genetiche. Bibliografia Aiuti A, Cattaneo F, et al. Gene therapy for immunodeficiency due to adenosine deaminase deficiency. N Engl J Med. 2009;360:447-58. ** Questo articolo dimostra che tecniche di ingegneria genomica possono essere applicate all’uomo per la cura di malattie genetiche gravi. Bedell VM, Wang Y, et al. In vivo genome editing using a high-efficiency TALEN system. Nature 2012. Bibikova M, Beumer K, et al. Enhancing gene targeting with designed zinc finger nucleases. Science 2003;300:764. Bibikova M, Carroll D, et al. Stimulation of homologous recombination through target ed cleavage by chimeric nucleases. Mol Cell Biol 2001;21:289-97. Bibikova M, Golic M, et al. Targeted chromosomal cleavage and mutagenesis in Drosophila using zinc-finger nucleases. Genetics 2002;161:1169-75. Boch J, Bonas U. Xanthomonas AvrBs3 family-type III effectors: discovery and function. Annu Rev Phytopathol. 2010;48:419-36. Boch J, Scholze H, et al. Breaking the code of DNA binding specificity of TAL-type III effectors. Science 2009;326:1509-12. *** Questo articolo ha dimostrato per la prima volta l’esistenza di domini di legame al DNA basati su struttura TALE. Boztug K, Schmidt M, et al. Stem-cell gene therapy for the Wiskott-Aldrich syndrome. N Engl J Med. 2010;363:1918-27. ** Questo articolo dimostra che tecniche di ingegneria genomica possono essere applicate all’uomo per la cura di malattie genetiche gravi. Cattoglio C, Facchini G, et al. Hot spots of retroviral integration in human CD34+ hematopoietic cells. Blood 2007;110:1770-8. Chen F, Pruett-Miller SM, et al. High-frequency genome editing using ssDNA oligonucleotides with zinc-finger nucleases. Nat Methods 2011;8:753-5. Dreyer AK, Cathomen T. Zinc-finger nucleases-based genome engineering to generate isogenic human cell lines. Methods Mol Biol. 2012;813:145-56. Engler C, Kandzia R, et al. A one pot, one step, precision cloning method with high throughput capability. PLoS One 2008;3:e3647. Gabriel R, Lombardo A, et al. An unbiased genome-wide analysis of zinc-finger nuclease specificity. Nat Biotechnol. 2011;29:816-23. Hacein-Bey-Abina S, Garrigue A, et al. Insertional oncogenesis in 4 patients after retrovirus-mediated gene therapy of SCID-X1. 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N Engl J Med. 2009;360:692-8. *** Questo articolo rappresenta la base razionale dal quale si sono mossi gli studi volti ad inattivare il gene CCR5 come terapia per l’infezione da HIV. Kass EM, Jasin M. Collaboration and competition between DNA double-strand break repair pathways. FEBS Lett. 2010;584:3703-8. Li H, Haurigot V, et al. In vivo genome editing restores haemostasis in a mouse model of haemophilia. Nature 2011;475:217-21. *** Questo è il primo articolo in cui ZFNs sono utilizzate in vivo in modello animale di Emofilia B e il loro utilizzo è associato ad un beneficio terapeutico. Lieber MR. The mechanism of human nonhomologous DNA end joining. J Biol Chem. 2008;283:1-5. Lombardo A, Cesana D, et al. Site-specific integration and tailoring of cassette design for sustainable gene transfer. Nat Methods 2011;8:861-9. Meyer M, de Angelis MH, et al. Gene targeting by homologous recombination in mouse zygotes mediated by zinc-finger nucleases. Proc Natl Acad Sci USA 2010;107:15022-6. 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Nat Med. 2012;18:807-15. ** In questo articolo che descrive uno studio pre-clinico si dimostra che l’ingegneria genomica può essere utilizzata anche per la cura del tumore. Radecke S, Radecke F, et al. Zinc-finger nuclease-induced gene repair with oligodeoxynucleotides: wanted and unwanted target locus modifiRouet P, Smih F, et al. Expression of a site-specific endonuclease stimulates homologous recombination in mammalian cells. Proc Natl Acad Sci USA 1994;91:6064-8. * Questo articolo dimostra che la frequenza di riparo del DNA, utilizzando il meccanismo di ricombinazione omologa, può essere aumentata anche in cellule umane, ponendo le basi per le tecniche di ingegneria genomica volte alla correzione di difetti genetici. San Filippo J, Sung P, et al. Mechanism of eukaryotic homologous recombination. Annu Rev Biochem. 2008;77:229-57. Smih F, Rouet P, et al. Double-strand breaks at the target locus stimulate gene targeting in embryonic stem cells. Nucleic Acids Res. 1995;23:5012-9. * Questo articolo dimostra che la frequenza di riparo del DNA, utilizzando il meccanismo di ricombinazione omologa, può essere aumentata anche in cellule umane, ponendo le basi per le tecniche di ingegneria genomica volte alla correzione di difetti genetici. Smith JR, Maguire S, et al. Robust, persistent transgene expression in human embryonic stem cells is achieved with AAVS1-bersaglioed integration. Stem Cells 2008;26:496-504. Soldner F, Laganiere J, et al. Generation of isogenic pluripotent stem cells differing exclusively at two early onset Parkinson point mutations. Cell 2011;146:31831. Sollu C, Pars K, et al. Autonomous zinc-finger nuclease pairs for targeted chromosomal deletion. Nucleic Acids Res. 2010;38:8269-76. Stein S, Ott MG, et al. Genomic instability and myelodysplasia with monosomy 7 consequent to EVI1 activation after gene therapy for chronic granulomatous disease. Nat Med. 2010;16:198-204. Suerth JD, Maetzig T, et al. 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Corrispondenza Claudio Mussolino, Laboratory of Cell and Gene Therapy, Center for Chronic Immunodeficiency, University Medical Center Freiburg, Engesserstr. 4, D-79108 Freiburg, Germania. Tel +49 (0)761 270-77738. Fax +49 (0)761 270-77744. E-mail: [email protected] 242