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Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi Adelphi

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Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi Adelphi
Serena Vitale
Il defunto odiava i pettegolezzi
Pages 284
Isbn: 978 8845929915
Book Excerpt and Translation Sample: pages 183-87
Il defunto odiava i pettegolezzi © 2015 Adelphi
English Translation © Maria Chiara Piccolo
Foreign Rights
Simonetta Mazza
[email protected]
Marco Saggioro
[email protected]
Adelphi, 2015
Un minuto di silenzio
Porte che sbattono, rumore cadenzato di tacchi: esce il drappello di
soldati. La camera ardente viene chiusa al pubblico. Non è altrettanto
semplice chiudere la bara: seduto sul coperchio, lo scrittore RAPPista
Jurij Libedinskij preme con quanta forza proletaria ha in corpo. Non
ci riesce, altri dovranno aiutarlo: il cadavere si è gonfiato, le eleganti
scarpe straniere non vogliono saperne di piegarsi.
Il feretro viene portato a braccia nel cortile della FOSP da dieci «amici
del defunto»: Osip Brik, i poeti Aseev e Tret’jakov, ma anche Averbach,
fondatore e massimo ideologo della RAPP, Fadeev... La precedono
due operai che sorreggono una pesante corona fatta di grossi martelli,
volani, bulloni, dadi: «Per il poeta di ferro, una corona di ferro!» è
scritto sul nastro.
Osip Brik chiede a un dirigente della RAPP: »Possibile che non siate
riusciti a trovare per Majakovskij un lavoro consono alle sue capacità?».
«Come no?» risponde quello stupito. «Gli avevamo chiesto di visionare
le migliaia di poesie che arrivano alla redazione di “Ok1jabr’” per
vedere se magari qualcuna si poteva pubblicare ... ».
Fuori è pronto un camion Packard aperto: con pannelli di legno
dipinti di grigio metallizzato e pezzi di lamiera Tatlin lo ha reso simile
a un’autoblindo. Professori della Filarmonica moscovita suonano la
Marcia funebre di Chopin. La bara coperta da un drappo nero e rosso
viene issata sul pianale.
Uno dopo l’altro, dall’ampia balconata al primo piano del palazzo
neoclassico appartenuto un giorno ai conti Sollogub, uomini di cultura
e nomenklatura (bassa: non un notabile del Partito), nemici e amici
del defunto (Averbach, Chalatov, Lunacarskij, Fedin, Tretjakov, ecc.)
prendono la parola per l’estremo saluto.
L’ultimo oratore è il giovane Semjon Kirsanov, promettente discepolo
e creatura di Majakovskij (solo due mesi prima, dopo lo scisma causato
da Vent’anni di lavoro, ha rinnegato il maestro: »Spellarmi le dita con la
pomice / innaffiarle di benzina / pur di raschiar via / tutte le sue strette
di mano»). Non tiene discorsi. Legge brani di A piena voce, il poema
che la morte ha lasciato incompiuto.
Professore,
toglietevi gli occhiali-bicicletta!
Io stesso
racconterò del tempo
e di me
Io, svuotacessi
e acquaiolo,
dalla rivoluzione
mobilitato,
lasciai le nobiliari serre
della poesia,
donnetta capricciosa,
per il fronte.
Il mio verso
si aprirà una breccia
nella mole degli anni
e apparirà ponderoso,
rozzo,
tangibile.
Non è mia abitudine
carezzare
l’udito
con le parole ...
Per voi,
sani
e destri,
il poeta
ha leccato
gli sputi della tisi
con la scabra lingua del manifesto.
Le strade che portano in via Voròvskij sono gremite. Continua ad
arrivare gente- fiumane. La polizia stenta a mantenere l’ordine. ««
«Majakovskij non riesce neanche a morire senza far casino» commenta
qualcuno.
Me ne frego
dei quintali di bronzo,
me ne frego
del marmoreo muco
Presentandomi
alla Commissione Centrale
dei luminosi
anni futuri
sopra la banda
di poetici
sciacalli e parassiti
alzerò
come tessera di bolscevico
tutti e cento i tomi
dei miei
libretti di partito.
La cerimonia è conclusa. Il giomalista Michail Kol’cov si mette
al volante del camion. Non ne ha mai guidato uno. Prima a sbalzi e
strattoni, poi troppo velocemente per l’interminabile corteo (più
di centomila persone, altre migliaia stanno sui tetti delle case, sui
balconi da cui pendono drappi neri, sui rami degli alberi, arrampicate
ai lampioni) che attraversa Mosca: piazza Arbatskaja, via Znamenka,
Volchonka, Bol’saja Jakimanka, Donskaja...
Davanti al crematorio inaugurato tre anni prima nella ex chiesa dei
santi Serafim di Serov e Anna Ksesinskaja, al cimitero Donskoj, risuona
l’Internazionale.
«Vergognatevi! È un funerale!» grida un poliziotto strappando dalla
testa di Chalatov il colbacco da cui non si separa mai – in ufficio, a
teatro, in riunione (neanche quando va al bagno, sostiene chi lo conosce
bene). Il copricapo di karakul nero rotola sul selciato, inseguito dal
proprietario che a gomitate si fa largo tra la folla. La brezza agita folte
ciocche untuose.
Nel crematorio può entrare solo chi è in possesso dell’invito. Qualcuno
guarda attraverso gli speciali oblò che si aprono nella parete di cemento:
vede una serie di fomi della fabbrica Topf di Erfurt. Davanti a un fomo
c’è, ancora aperta, la bara di Majakovskij. Alle 19.35 avanza, spinta da
un meccanismo. Si aprono i portelli di ghisa. Le fiamme. Il direttore:
«Un minuto di silenzio, prego» – richiesta superflua. Prendono fuoco
i capelli. Poi solo un denso vapore incandescente. All’uscita Dem’jan
Bednyj racconterà di aver visto la testa ormai carbonizzata.
Serena Vitale
The Departed Hated Gossip
Translation by Maria Chiara Piccolo
Adelphi, 2015
A minute’s silence
Slamming doors, the rhythmic tapping of heels: a company of soldiers
comes out. The mortuary chapel is now closed to the public. Closing the
coffin is not as easy: sitting on the lid, the RAPP writer Yuri Libedinsky
pushes at it with all his proletarian strength. He can’t manage, others
will have to help: the corpse has swollen, its stylish foreign shoes won’t
bend.
Ten “friends of the departed” bear the pall into the FOSP courtyard:
Osip Brik, the poets Aseyev and Tretyakov , as well as Averbach, the
RAPP’s founder and chief ideologist, Fadeyev... Two workmen walk on
ahead, holding a heavy wreath made of large hammers, flywheels, bolts
and nuts: “For the iron poet, an iron wreath” is inscribed on the ribbon.
Osip Brik asks an RAPP leader: “How come you weren’t able to find
Mayakovsky a job to match his skills?”. “Why,” replies the latter with
surprise “we asked him to examine the thousands of poems that arrive
in the ‘Oktyabr’ offices to see if maybe some could be published...”.
Outside an open Packard truck is ready: with wooden panels painted
in metallic grey and pieces of plate, Tatlin has made it look like an
armoured vehicle. Teachers from the Moscow Philharmonic play
Chopin’s funeral march. The coffin, covered with a red and black pall,
is hoisted onto the loading platform.
One by one, on the spacious first-floor balcony of the Neoclassical
palace that once belonged to the Counts of Sollogub , learned men,
members of the nomenklatura (low-ranking nomenklatura: not Party
notables), enemies and friends of the departed (Averbach, Chalatov,
Lunacharsky, Fedin, Tretyakov, etc.) all take the floor to pay their last
respects.
The last to speak is the young Semyon Kirsanov, a promising pupil
and protégé of Mayakovsky’s (only two months earlier, after the
split caused by Twenty Years of Work, he had disowned his teacher:
“Soaking my hand in petrol / scrubbing it with pumice / to scrape off
all his handshakes from my palm”). He does not make a speech. He
reads passages from At the Top of My Voice, the poem death has left
unfinished.
Professor,
take off your bicycle glasses!
I myself will expound
those times
and myself.
I, a latrine cleaner
and water carrier,
by the revolution
mobilized and drafted,
went off to the front
from the aristocratic gardens
of poetry .
...
My verse
by labour
will break the mountain chain of years,
and will present itself –
ponderous,
crude,
tangible.
...
It’s no habit of mine
to caress
the ear
with words...
For you,
who are now
healthy and agile,
the poet
with the rough tongue
of his posters,
has licked away consumptives’ spittle.
The streets leading to Vorovsky street are crammed. People keep
on coming – in streams. The police struggle to maintain order.
“Mayakovsky cannot even die without making a fuss” somebody
comments.
I don’t care a spit
for tons of bronze;
I don’t care a spit
for slimy marble.
...
When I appear
before the CCC
of the coming
bright years,
by way of my Bolshevik party card,
I’ll raise
above the heads
of a gang of self-seeking
poets and rogues,
all the hundred volumes
of my
communist-committed books.
The ceremony is over. The journalist Mikhail Koltsov takes the wheel
of the truck. He has never driven one. It jerks and jolts at first, then goes
too fast for the endless procession (over one hundred thousand people,
a few thousand more on the roofs of the houses, on the balconies
draped with black palls, on the branches of trees, others have shinned
up lampposts) now winding through Moscow: Arbatskaya square,
Znamenka, Volkhonka, Bolshaya Yakimanka and Donskaya streets...
Outside the crematorium that opened three years earlier in the church
of the saints Seraphim of Sarov and Anna of Kashin, at the Donskoy
cemetery The Internationale resounds.
“Shame on you! It’s a funeral!” a policeman shouts while whipping
from Chalatov’s head the cossack hat that is his constant companion
– in the office, at the theatre, during meetings (even when he goes to
the toilet, according to his closest acquaintances). The karakul hat rolls
down on the pavement, chased by its owner elbowing his way through
the crowd. The breeze shakes thick greasy locks.
Entry to the crematorium is by invitation only. Some people look
in through the special windows in the concrete wall: they see several
ovens from the Topf factory in Erfurt. Mayakovsky’s coffin has been
placed, still open, in front of one of the ovens. At 7.35 p.m. it moves
forward, impelled by the machinery. The cast-iron doors open. Flames.
The director: “A minute’s silence, please!” – an unnecessary request.
The hair catches fire. Then only thick, white-hot vapour. On leaving,
Demyan Bedny would describe seeing his charred head.
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