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La letteratura italiana delle origini

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La letteratura italiana delle origini
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volume
B
1
Dal latino al volgare
OBIETTIVI
I primi documenti
in volgare
La poesia religiosa
Il volgare letterario
in Francia
La Scuola siciliana
1a Conoscere la trasformazione
dal latino al volgare e la
nascita delle lingue romanze.
1b Esaminare i primi documenti
in volgare.
2a Conoscere la poesia religiosa
e la codificazione delle laude
in volgare.
3a Riconoscere gli elementi
stilistici e tematici della
poesia provenzale espressi
dalla società cortese e
recuperati dalla Scuola
siciliana.
3b Conoscere i poeti siciliani
che sulla base del volgare
siciliano costruiscono una
lingua colta separata da
quella parlata.
4a Riconoscere il legame dei
poeti siculo-toscani con la
Scuola siciliana di cui
rinnovano temi e stili,
rimanendo comunque lontani
dalla lingua parlata.
I poeti siculo-toscani
5a Conoscere la poesia comicorealistica che capovolge i
valori della società cortese e
utilizza per primi la lingua
parlata dal popolo con finalità
artistiche.
La poesia comico-realistica
Confrontare il linguaggio
letterario e quello iconico.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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La letteratura
italiana
delle origini
È dato e sempre sarà dato
immettere vocaboli
che rechino il sigillo del presente.
Come il bosco muta le foglie
nel fluire degli anni
e cadono le prime,
così passa il tempo delle parole,
e hanno fioritura e vigore della gioventù
le ultime nate.
[…]
Molte parole cadute in disuso rivivranno
e cadranno quelle che ora sono in onore,
se l’uso, in cui risiede
l’arbitrio, il diritto e la norma
del nostro idioma, lo vorrà.
Orazio, Ars poetica, in Le opere, Garzanti, Milano 1988
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Dal latino
al volgare
IN ORIGINE ERA IL LATINO
Stabilire con precisione il momento in cui una lingua ha origine è pressoché impossibile. La formazione di una lingua è infatti un processo lungo e complesso, basato sulla costante interazione tra elementi ereditati dalla tradizione e innovazioni
apportate dalla comunità dei parlanti. Per questo motivo, anche se è noto che l’italiano, il francese (la lingua d’oïl 1 parlata nella Francia del Nord), il provenzale (la
lingua d’oc parlata nella Francia del Sud), il portoghese, lo spagnolo, il catalano (parlato nella regione di Barcellona), il rumeno, il ladino (parlato nelle Alpi svizzere e in alcune valli del Trentino), hanno una comune matrice latina, non è facile definire quando ha avuto inizio la loro storia di lingue autonome e indipendenti.
LA DIFFUSIONE E LA TRASFORMAZIONE
DEL LATINO
Nel mondo antico il latino ha un’ampia diffusione poiché è la lingua dei Romani,
il popolo che ha creato un vastissimo impero che si estende dalle coste del Mediterraneo all’Asia minore e all’Europa centrale. Tuttavia il latino non è parlato alla
portoghese
provenzale
spagnolo
sardo
catalano
italiano
francese
romancio,
ladino,
friulano
(da ovest a est)
franco-provenzale
1. I termini oïl e oc si
riferiscono al modo in cui
si dice “sì” nelle lingue
del Nord e del Sud della
Francia.
rumeno
Le lingue neolatine (o romanze) in Europa oggi.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
dal latino al volgare
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stessa maniera in ogni parte di questo immenso territorio né da tutti gli abitanti. Nelle zone conquistate, la lingua dei vincitori si sovrappone a idiomi preesistenti e, con molta probabilità, viene pronunciata diversamente, mentre a Roma il
latino di scrittori, uomini politici e giuristi risulta assai differente da quello utilizzato da mercanti, contadini e schiavi.
Dotato di grande prestigio sociale, il latino delle classi dominanti esercita un influsso di gran lunga superiore rispetto a quello parlato da plebei e popoli sottomessi e, a partire dal III secolo a.C., costituisce la base del latino classico, una
lingua codificata da precise norme grammaticali e stilistiche che diviene il modello al quale per molti secoli gli scrittori continueranno a fare riferimento.
L’AFFERMAZIONE DEL VOLGARE
Fino a quando l’Impero romano mantiene la propria compattezza politica
e territoriale anche la lingua latina conserva la sua coesione interna, dimostrando grande capacità di penetrazione.
La situazione comincia a cambiare a partire dal IV secolo dopo Cristo, quando la profonda crisi economica e le continue ondate di invasioni barbariche dapprima indeboliscono, poi segnano la fine dell’unità dell’Impero, mettendo in discussione anche l’egemonia culturale del latino.
La decadenza romana determina la scomparsa delle istituzioni scolastiche che fino a quel momento hanno garantito una formazione culturale omogenea nelle varie parti del territorio, consentendo alle innumerevoli variazioni
e innovazioni espressive tipiche dell’uso quotidiano di prendere il sopravvento.
Al latino classico si sostituisce una lingua volgare – cioè parlata dal popolo
(vulgus) –, più aperta e dinamica, ma meno regolamentata e territorialmente
disomogenea.
Il latino classico tuttavia non scompare completamente e continua a essere utilizzato nelle situazioni in cui è necessario disporre di uno strumento linguistico più qualificato e prestigioso. Per questo diviene la lingua della cultura e della Chiesa, conservando le strutture grammaticali e sintattiche della tradizione, ma modificandosi profondamente sotto l’aspetto
lessicale grazie all’inserimento di numerosi neologismi, derivanti dal contatto con altri popoli e dalla diffusione del Cristianesimo che conia parole
nuove per esprimere termini e concetti originariamente in ebraico, aramaico e greco.
LA SEPARAZIONE TRA LATINO E VOLGARE
Agli inizi del VI secolo nelle aree un tempo dominate dai Romani è ormai in atto
una netta separazione linguistica che si accentuerà nei secoli successivi:
da una parte i volgari, le lingue dell’uso comune, parlate – ma non scritte – da
buona parte della popolazione;
dall’altra il latino, ormai slegato dall’attualità, incomprensibile per molti e appannaggio quasi esclusivo dei chierici, cioè di coloro che possono vantare una
lunga formazione ecclesiastica.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
La separazione tra questi due codici linguistici comincia a essere considerata
un problema tra il IX e il X secolo e non a caso il primo intervento esplicito a
tale proposito proviene dalla Chiesa, che costituisce la principale forza unificante
all’interno della società medioevale. Così, mentre la liturgia, ossia l’insieme delle preghiere e dei riti a cui i fedeli partecipano, continua a essere celebrata nel
latino della tradizione, nel Concilio di Tours (813) per la prima volta si insiste
sulla necessità che gli ecclesiastici utilizzino la rustica romana lingua, cioè
il volgare, per assolvere in modo efficace ad alcuni compiti particolarmente delicati quali la predicazione e l’amministrazione del sacramento della confessione. In sostanza, si suggerisce al clero di servirsi di un codice comunicativo
diverso da quello ufficiale quando entra in contatto diretto con il popolo che,
evidentemente, non capisce più il latino.
I VOLGARI E L’ORIGINE DELLE LINGUE
ROMANZE
Il cosiddetto Glossario di
Reichenau, VIII secolo,
nel quale i termini del
latino classico sono
interpretati con voci
del latino parlato,
testimonia la progressiva
affermazione
del volgare.
La proposta del Concilio di Tours, però, non prevede di adottare i volgari effettivamente parlati dal popolo, ma di scegliere una lingua che risulti comprensibile ai fedeli. Si tratta di un processo che va dall’alto (il clero) verso il basso (il popolo) e non viceversa, ma che è comunque importantissimo per la nascita delle lingue moderne perché inizia a disegnare dei confini territoriali stabili – che con termine attuale potremmo definire “regionali” – entro i quali utilizzare le specifiche varianti della lingua volgare.
Poiché questo lungo processo di selezione e differenziazione linguistica si svolge sul piano della comunicazione
orale, non abbiamo quasi nessuna testimonianza scritta delle tappe in cui esso si articola. Tuttavia qualche segnale
indiretto di quanto sta accadendo in Europa possiamo ricavarlo dalle parole di Ibn Khurdādhbih, un geografo persiano vissuto nel IX secolo, che nel suo Libro delle strade
e delle province attesta l’esistenza di due lingue nettamente distinguibili tra loro, quella di Spagna e quella
di Francia, utilizzate dai mercanti nei loro traffici nel bacino del Mediterraneo. Da ciò si può dedurre che in questa fase storica alcuni volgari europei sono già tanto
evoluti e differenziati da poter essere considerati lingue autonome e distinte da chi le utilizza con finalità
pratiche e commerciali.
È a partire da questo periodo che è possibile individuare
le radici delle lingue romanze (o neolatine), ossia derivate
dal romanice loqui (il parlare come i Romani), che si svilupperanno nell’area comprendente Italia, Francia, Penisola Iberica e Dacia (l’attuale Romania) e che inizialmente saranno utilizzate esclusivamente per la comunicazione orale.
La “rivoluzione culturale” del volgare inizia però quando esso fa la sua comparsa all’interno di testi scritti: inizialmente si tratta di brevi stralci inseriti in testi in latino per risolvere necessità pratiche e solo dopo un tirocinio durato alcuni
secoli i volgari romanzi assumeranno il prestigioso ruolo di lingue letterarie.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
i primi documenti in volgare
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I primi documenti
in volgare
L’INDOVINELLO VERONESE
Nella ricostruzione dei passaggi che conducono dal latino al volgare, un posto
di notevole importanza è occupato dal cosiddetto indovinello veronese, un breve documento risalente alla fine dell’VIII secolo e rinvenuto nel 1924 nella Biblioteca
Capitolare di Verona. Si tratta di una dozzina di parole seguite da una formula
liturgica di ringraziamento, scritte sul recto (parte anteriore) del terzo foglio di un
libro di preghiere, trascritte e successivamente tradotte dagli studiosi.
Se pareba boves
alba pratalia araba
et albo versorio teneba
et negro semen seminaba
Spingeva avanti i buoi
solcava bianchi campi
teneva un bianco aratro
e spargeva il nero seme
L’indovinello veronese,
fine VIII secolo.
1. La prima quartina della
poesia Il piccolo aratore di
Giovanni Pascoli (Myricae
1891) recita: Scrive… (la
nonna ammira): ara bel
bello, / guida l’aratro con
la mano lenta; / semina
col suo piccolo marrello:
/ il campo è bianco, nera
la sementa.
Si tratta di un indovinello popolare, diffuso in Italia fino al XIX secolo,1 nel quale
l’attività della scrittura è paragonata a quella dell’agricoltura, con una corrispondenza
tra i buoi e le dita, i campi bianchi e il foglio di pergamena o di carta, il bianco
aratro e la penna d’oca, il nero seme e l’inchiostro. Nonostante l’indovinello non
possa essere considerato un esempio di uso intenzionale di una nuova lingua, ma più probabilmente rappresenti solo l’innocuo scherzo di un copista, il
testo veronese è molto importante perché dimostra come il volgare sia ormai sul punto di affrancarsi dalla lingua madre. Infatti, a parole che conservano la forma classica del latino, come boves e et, se ne affiancano altre in cui
sono evidenti i segni grafici e fonetici che contraddistingueranno in seguito il volgare italiano, come la desinenza -o al posto di -um in albo, versorio, negro, la mancanza della originaria desinenza in -t nei verbi pareba, araba, teneba, seminaba,
la é al posto della ı̆ nella parola negro.
I GIURAMENTI DI STRASBURGO
Il primo documento ufficiale nel quale si riscontra un uso intenzionale e consapevole della lingua volgare è quello conosciuto con il nome di Giuramenti
di Strasburgo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Siamo nel IX secolo e alla morte di Ludovico il Pio, erede di Carlo Magno, il titolo di imperatore passa al suo primogenito Lotario contro il quale i fratelli minori Ludovico il Germanico, sovrano della parte orientale dell’Impero e Carlo il
Calvo, re di quella occidentale, ingaggiano una lunga ed estenuante guerra di successione.
La loro alleanza è attestata nei Giuramenti di Strasburgo, pronunciati nell’842
e riportati da Nitardo (795 ca.-844), nella sua Storia dei figli di Ludovico il Pio,
nei quali, allo scopo di farsi comprendere dai soldati, i due re dichiarano il proprio impegno a condurre a oltranza la guerra, ciascuno nella lingua dell’alleato:
Ludovico pronuncia il giuramento in romana lingua, cioè in francese e Carlo in
teudisca lingua, cioè in tedesco. Questa scelta dimostra che popoli che abitano in territori limitrofi non usano più il latino come lingua comune ma che
i loro idiomi sono ormai tanto differenziati da impedire una comunicazione
diretta.
Ecco le parole pronunciate in romana lingua da Ludovico il Germanico al cospetto
degli uomini di Carlo.
Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament,
d’ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai
eo cist meon fradre Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum
om per dreit alvar dift, in o quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul
plaid nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in
damno sit.
Per amore di Dio e per la salute del popolo cristiano e nostra comune, da questo giorno in avanti, in quanto Dio me ne concede sapere e potere, io sosterrò questo mio fratello Carlo d’aiuto e d’ogni
cosa, come si deve secondo giustizia sostenere il proprio fratello,
a tal patto ch’egli faccia altrettanto nei miei risguardi, e con Lotario non verrò mai ad accordo alcuno che, di mia volontà, sia a danno di questo mio fratello Carlo (traduzione in Storia della Letteratura Italiana, a cura di E. Cecchi, N. Sapegno, Garzanti, Milano 1979).
Il giuramento di Carlo il Calvo, che non abbiamo riportato, si differenzia soltanto per il fatto che manca il nome Ludovico dopo l’espressione “questo mio fratello”.
Frammento
dei Giuramenti
di Strasburgo, 842.
Le lingue in cui si esprimono Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, tuttavia, non corrispondono completamente ai volgari effettivamente parlati nei loro territori e possono essere considerati un primo embrionale tentativo di definire un canone, cioè
un insieme di regole ricalcate dalla tradizione latina, cui i nuovi idiomi devono sottostare. Se le parole dei sovrani riproducono
fedelmente i formulari giuridici e le strutture sintattiche della lingua antica dei documenti ufficiali, il loro lessico proviene invece da lingue “nuove” che dimostrano l’ormai raggiunta autonomia espressiva di alcuni idiomi “territoriali”.
Sotto questo aspetto i Giuramenti di Strasburgo possoni essere
considerati frutto della stessa esigenza pratica, manifestatasi pochi decenni
prima nel Concilio di Tours, di rendere accessibili al popolo – di fedeli o di soldati – manifestazioni di pensiero e di volontà nate ed elaborate negli ambienti
colti dei ceti dirigenti.
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i primi documenti in volgare
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I PLACITI CASSINESI
I primi documenti attestanti un uso ufficiale del volgare italiano risalgono al
960, più di un secolo dopo quelli francesi. Questo ritardo si può spiegare con la
differente storia politica e sociale dei due territori. Negli anni in cui vengono trascritti i Giuramenti di Strasburgo, l’Italia è sottoposta all’influenza di dominatori
diversi, situazione che non consente la formalizzazione di un codice linguistico
scritto distinto e autonomo dal latino, relegando il volgare a lingua parlata esclusivamente dai ceti più bassi.
Le prime testimonianze in volgare italiano sono i Placiti cassinesi, quattro giuramenti (placiti) dalla struttura formale molto simile, registrati all’interno di un documento redatto nel corso di una disputa legale.
Nella città di Capua, dominata dagli ultimi principi longobardi, don Aligerno, abate del monastero di San Benedetto di Montecassino e un tal Rodelgrimo si contendono la proprietà di un fondo agricolo dinanzi al giudice Arechisi. A sostegno
delle sue rivendicazioni, l’abate porta tre testimoni che confermano come quel
terreno sia da trent’anni di proprietà del monastero; ma mentre tutti gli atti relativi al procedimento giudiziario sono redatti in latino, le dichiarazioni dei testimoni
a favore del monastero vengono riportate in volgare in questa forma:
Sao ke kelle terre, per kelle fini che ki contene, trenta anni le possette parte
sancti Benedicti.
So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono [si fa riferimento alla memoria che Rodelgrimo ha presentato per rivendicare il possesso del
terreno], trenta anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di san Benedetto.
Frammento dei Placiti
cassinesi, 960.
Il motivo per il quale il giudice avverte l’esigenza di registrare in volgare le dichiarazioni dei testimoni è probabilmente lo stesso che un secolo prima aveva
indotto Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico a pronunciare i loro giuramenti in
lingua romana e teudisca, ossia la necessità di farsi capire da persone che non
parlano né comprendono il latino ufficiale e che non sarebbero in grado di sottoscrivere alcuna testimonianza in una lingua ignota.
Come abbiamo già osservato per i giuramenti di Strasburgo, anche i plàciti – seppure riguardanti un ambito circoscritto e una questione di scarsa importanza –
vanno considerati come il tentativo di standardizzare la lingua spontanea e
non regolata del popolo filtrando i materiali originali e inserendoli in una struttura colta. È questa la ragione per cui negli anni seguenti la formula elaborata
nei giuramenti cassinesi verrà utilizzata pressoché identica in documenti giuridici stilati in territori vicini.
Nei due secoli successivi le testimonianze scritte in volgare si fanno più frequenti, anche se rimangono legate a funzioni pratiche. Inizialmente riguardano documenti notarili, inventari di beni e ricordi personali, mentre l’altro
ambito nel quale la scrittura in volgare comincia a muovere i primi passi è quello della predicazione religiosa, che come i contratti e le testimonianze necessita una piena reciproca comprensione tra le parti.
Per parlare di letteratura in volgare occorrerà però attendere fino al XIII secolo quando alcuni individui dotati di una solida cultura latina ma parlanti in lingua volgare sceglieranno di dare alla lingua degli umili e degli incolti dignità
espressiva, superando la funzione esclusivamente pratica che essa ha ricoperto per molto tempo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
La poesia
religiosa
UNA NUOVA SPIRITUALITÀ
Nel corso del Medioevo la Chiesa cattolica, che è l’unica organizzazione unitaria nella frammentata Europa feudale, assume un’importanza fondamentale sul
piano culturale. Con la fine dell’Impero romano, infatti, la trasmissione della cultura avviene quasi esclusivamente attraverso le scuole istituite presso le cattedrali o le sedi vescovili e l’attività di trascrizione dei manoscritti viene realizzata
dagli amanuensi nei monasteri benedettini.
Se in ambito politico e sociale la presenza della Chiesa è capillare ed energica,
non sempre il clero adotta un comportamento improntato all’attuazione dei principi evangelici. A partire dall’XI secolo si sviluppano movimenti di protesta popolare contro la simonia – ossia la pratica di comprare e vendere cariche religiose – e la corruzione del clero che si diffondono in tutta Europa impegnando gli uomini del tempo, che attribuiscono un valore centrale al rapporto con Dio,
nella ricerca di nuove strade per esprimere la loro fede.
Tra il XII e il XIII secolo questa crescente tensione spirituale dà origine a un’abbondante produzione letteraria di argomento religioso che viene stimolata dall’acceso dibattito sulla necessità di un radicale rinnovamento della Chiesa.
Una delle testimonianze più alte in questa direzione è il trattato in latino De contemptu mundi (Il disprezzo del mondo) di Giovanni Lotario di Segni (1179-1180),
in cui l’autore – che sarà Papa dal 1198 al 1216 con il nome di Innocenzo III –
teorizza il disprezzo dei beni terreni e la rinuncia alle lusinghe del mondo allo scopo di condurre una vita davvero cristiana, nell’attesa della beatitudine celeste.
Con il suo richiamo a un’esistenza più pura e autentica questo trattato ha una
larghissima diffusione e moltiplica tra i fedeli le pratiche devozionali e religiose. Contemporaneamente, però, il diffuso desiderio di rinnovamento religioso
genera anche diverse eresie che, partendo dalla critica alla corruzione e all’eccessiva ricchezza del clero, finiscono col mettere in discussione i principi fondanti della teologia cattolica e la stessa organizzazione della Chiesa. È il caso dell’eresia dei càtari (dal greco katharós che vuol dire “puro”) i quali separano nettamente il bene, appannaggio di pochissimi eletti o puri, dal male,
che identificano con i beni terreni e materiali e, non riconoscendosi più nella Chiesa ufficiale, creano comunità di credenti che vivono secondo rigidissime regole morali. Contro l’eresia càtara, particolarmente diffusa in Provenza, la Chiesa reagisce con estrema durezza, organizzando la cosiddetta Crociata degli Albigesi (1209-1229), che si conclude con l’eccidio indiscriminato di tutti gli abitanti del territorio e l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione (1233) che ha il
compito, con il supporto delle autorità politiche, di scoprire, processare e condannare gli eretici.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la poesia religiosa
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I NUOVI ORDINI MENDICANTI
Mentre la repressione delle eresie si fa più intensa, la Chiesa intraprende anche un percorso di rinnovamento interno, facendo proprie alcune istanze di
cambiamento. Così dall’esigenza, largamente avvertita, di una vita ecclesiastica più sobria e dalla necessità ideologica di disporre di predicatori in grado di
diffondere correttamente la dottrina cattolica, nascono due nuovi ordini religiosi
mendicanti, quello domenicano e quello francescano, che saranno determinanti
per la rinascita morale della Chiesa e influenzeranno ogni aspetto della vita del
tempo. L’ordine domenicano, fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman e
approvato da papa Onorio III nel 1216, si dà come obiettivo prioritario l’eliminazione delle eresie mediante la predicazione e l’approfondita conoscenza della dottrina e della teologia. L’ordine francescano, istituito da Francesco d’Assisi e approvato dallo stesso Onorio III nel 1223, porta alle estreme conseguenze la ricerca della povertà evangelica che diviene rinuncia totale al possesso di beni materiali secondo il modello dell’Imitatio Christi e delle prime comunità cristiane.
Se dal punto di vista culturale, all’interno della Chiesa i domenicani assumeranno ben presto il ruolo di intellettuali, utilizzando come codice di comunicazione scritta il latino, i seguaci di Francesco d’Assisi, dediti a una vita semplice e modesta, cercheranno con la loro predicazione un contatto diretto con
il popolo non sempre acculturato e per questo saranno i primi ad avvertire la
necessità di esprimere il messaggio cristiano secondo modalità adeguate
alle risorse culturali dei destinatari.
1. Filone escatologico
... movimenti
millenaristi: il termine
escatologia indica ciò che
la teologia, a partire dal
Medioevo, chiamava
“dottrina delle cose
ultime”, cioè il destino
dell’uomo e del mondo
dopo la morte. Già nei
primi secoli del
cristianesimo nacquero i
“movimenti millenaristi”
la cui speranza
escatologica nel regno
millenario trovò la sua
fonte principale
nell’Apocalisse di
Giovanni. Nel capitolo 20
di questo testo, infatti, è
scritto che, a un certo
punto della storia umana,
i nemici di Dio verranno
sconfitti, Satana
rinchiuso negli abissi per
mille anni e per mille
anni il Messia e i suoi
seguaci risuscitati
regneranno sulla Terra.
Trascorsi questi mille
anni di regno Satana
verrà liberato e tornerà
sulla Terra ma verrà
nuovamente sconfitto e
rigettato nell’abisso per
l’eternità.
IL MOVIMENTO DEI FLAGELLANTI
L’istituzione dei due nuovi ordini assorbe ma non esaurisce completamente le istanze spirituali dei fedeli e per tutto il XIII secolo continuano a moltiplicarsi nuove esperienze di fede che in certi casi rimangono nell’alveo dell’ortodossia cristiana, in altri si trasformano in vere e proprie eresie. Tra gli altri, riprende vigore il filone escatologico, che aveva dato origine ai movimenti millenaristi1 e si diffondono profezie e visioni che annunciano la fine dei tempi e l’avvento del regno di Dio.
Grandissimo seguito tra i credenti ha la profezia del teologo Gioachino da Fiore (1130 ca.-1202), secondo cui sta per avere inizio una nuova era nella quale
la Chiesa ufficiale – gerarchica, dogmatica e legata agli interessi materiali – sarà
sostituita da una Chiesa nuova, più spirituale e tollerante, e l’umanità potrà finalmente vivere nella purezza e nella libertà.
Flagellanti raffigurati in una miniatura, 1365.
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Bibbia di Souvigny,
miniatura su
pergamena, fine
XII secolo.
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Influenzato dalla profezia gioachimita, nel 1260 l’eremita francescano Raniero Fasani (...-1281), fonda la Compagnia dei Disciplinati di Cristo e inizia la sua predicazione pubblica annunciando calamità per coloro che non si purificheranno dai
peccati mediante penitenze corporali. Dall’esempio di Raniero, che si autoflagella
in pubblico per imprimere sul proprio corpo i segni fisici della sofferenza di Cristo sulla Croce, nasce il movimento popolare dei Flagellanti (detti anche Disciplinati o Battuti) costituito soprattutto da laici che si riuniscono in fraternità dapprima concentrate a Perugia, Assisi e nelle città minori dell’Umbria, poi diffuse nel
resto dell’Italia centro-settentrionale. Migliaia di persone seguono in processione i penitenti vestiti di bianco che pregano e si percuotono a sangue per espiare i peccati, alternando alla recitazione degli inni liturgici in latino quello di laude in volgare che reinterpretano e semplificano i contenuti della tradizione innografica latina in modo che tutti ne possano comprendere il senso.
LA LAUDA
2. Il libro dei Salmi è la
più importante raccolta
di canti contenuta nella
Bibbia. Si tratta di 150
preghiere che riflettono
ogni possibile situazione
umana, vissuta e
meditata da chi pensa
e prega davanti Dio.
Inizialmente le laude vengono trasmesse oralmente dagli appartenenti alle confraternite, ma poi, per l’ampliarsi e il diffondersi del movimento, i testi vengono trascritti e in un certo senso codificati anche se, passando di fraternità in fraternità, continuano a essere modificati per adattarsi alle tradizioni e alle
esigenze spirituali dei diversi contesti.
È quindi grazie all’attività dei Disciplinati che la lauda inizia il proprio cammino di genere letterario, dandosi precise regole formali e tematiche ma al contempo conservando l’iniziale funzione pratica di diffondere il messaggio evangelico e stimolare la conversione dal peccato. Da questo punto di vista si può
affermare che la scelta del volgare sia dettata più da concrete esigenze comunicative che da ragioni stilistiche. Questo spiega perché l’area geografica
in cui il volgare assume per la prima volta una forma letteraria sia l’Italia centrale e in particolar modo l’Umbria, terra d’origine delle prime comunità francescane e delle fraternità dei Disciplinati.
Sotto l’aspetto formale, la lauda religiosa può essere considerata un adattamento della ballata (vedi a p. 34), un componimento poetico di matrice popolare nato in Italia centrale nel corso del Duecento per celebrare con musica,
canto e danza gli eventi festivi della comunità e costruito alternando secondo precisi schemi metrici un ritornello o ripresa – cantato da un coro e ripetuto dopo
ogni strofa – a un numero variabile di stanze cantate da un solista.
Tuttavia, mentre la ballata popolare è incentrata su temi di carattere profano –
per esempio l’amore – le laude hanno come contenuto argomenti religiosi ritenuti essenziali per la salvezza spirituale dei fedeli e si basano sulla semplificazione
del contenuto dei Salmi,2 o su temi ricorrenti come l’invocazione a Gesù e Maria per allontanare il demone della tentazione e del peccato, il ricordo della Passione e della morte di Gesù, l’esaltazione dell’amore per Cristo.
Analogamente alle ballate, le laude sono spesso costruite secondo la tecnica del contrasto che consiste nel contrapporre le parole del solista, contenute nelle stanze, a quelle del coro che recita il ritornello. Con il tempo questa peculiare modalità espressiva si accentua fino a dare origine a elementari forme
di rappresentazione teatrale – le laude drammatiche – in cui personaggi fissi in
costume recitano, su un semplice palcoscenico diviso in scomparti, episodi tratti dalla Bibbia.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la poesia religiosa
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Francesco d’Assisi
Laudes Creaturarum
(o Cantico di Frate Sole)
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
l’intertestualità
LA POESIA
Anche se esistono documenti volgari precedenti di qualche decennio, il Cantico di Francesco d’Assisi è considerato il primo testo letterario della nostra poesia sia perché costituisce uno straordinario esempio di continuità
tra la tradizione cristiana in latino e la nascente cultura volgare sia perché
offre un’altissima testimonianza della profonda spiritualità dell’epoca.
Attraverso la rappresentazione di un universo lieto e pacificato in cui ogni elemento simboleggia la grandezza di Dio creatore, Francesco persegue la finalità pratica di offrire ai frati del suo ordine e al popolo di devoti un testo da
cantare a lode del Signore. Il Cantico era infatti destinato a essere recitato in
pubblico con l’accompagnamento di una musica composta dallo stesso Francesco di cui però non è rimasta alcuna testimonianza.
l’extratestualità
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’1 le laude, la gloria e l’honore et onne2 benedictione.
METRO
prosa rimata suddivisa
in versetti di misura
variabile, spesso in
assonanza tra loro e
solo occasionalmente
legati da rime
Ad te solo, Altissimo, se konfano,3
et nullu homo ène dignu Te mentovare.4
5
10
Laudato sie,5 mi’ Signore, cum6 tucte le Tue creature,
spetialmente messor7 lo frate Sole,
lo qual è iorno,8 et allumini noi per lui.9
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:10
de Te, Altissimo, porta significatione.11
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate12 clarite13 et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno14 et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
1. Tue so’: a Te appartengono.
2. onne: ogni.
3. se konfano: si addicono.
4. et nullu homo ène dignu Te mentovare: e nessun uomo è (ène)
degno di nominarti.
5. sie: sii.
6. cum: questo cum, di origine latina, è stato diversamente
interpretato dai critici come “a causa di”, oppure “insieme a”, o
ancora “così come”; tutte le possibilità garantiscono intelligibilità al
testo anche se con diverse sfumature di significato.
7. messor: messere, cioè signore. È una forma tipica del volgare umbro.
8. lo qual è iorno: grazie al quale c’è la luce.
9. allumini noi per lui: ci illumini grazie a lui.
10. radiante cum grande splendore: radioso grazie alla sua grande
luminosità.
11. de Te ... porta significatione: e di Te, Dio, è simbolo.
12. l’ài formate: le hai create.
13. clarite: luminose.
14. et nubilo et sereno: e per le nuvole e per il sereno. Nubilo e
sereno vanno intesi come sostantivi.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Francesco nasce ad Assisi nel 1181 con il nome di Giovanni, ma viene chiamato Francesco dal padre Pietro Bernardone, un ricco mercante di stoffe, per ricordare l’origine della moglie probabilmente conosciuta in Provenza.
Vive una giovinezza agiata e spensierata, ma nel 1204, fatto prigioniero nel corso della
guerra contro Perugia, si ammala ed entra in una profonda crisi spirituale che nel 1206 culminerà nella conversione. Dopo un periodo trascorso in un eremo, rinuncia alle ricchezze
paterne e dal 1207 inizia la sua nuova vita religiosa costituendo una piccola comunità che
vive predicando in assoluta povertà.
Ricevuta l’approvazione di papa Innocenzo III, tenta più volte di portare la parola del Vangelo in Oriente dove si combatte la Quinta Crociata, ma raggiunge il suo scopo solo nel
1219 quando tenta inutilmente di convertire al-Malik al-Kamil, sultano di Egitto e Siria.
Alla morte del padre rientra in Italia, ad Assisi, e redige la Regola dell’Ordine, che nel 1223 viene approvata da papa
Onorio III. L’ultimo periodo della sua vita è caratterizzato da sofferenze fisiche ed esperienze mistiche: nel 1224 riceve le stigmate e nel 1226 muore nell’eremo della Porziuncola. Oltre al Cantico di frate Sole, redatto in volgare
umbro, Francesco d’Assisi è autore di diversi scritti in latino, tra cui brevi admonitiones ai frati e lettere ai fedeli che
hanno come tema la povertà, la carità, l’umiltà e la penitenza.
15
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini15 la nocte:
ed ello è bello et iocundo16 et robustoso17 et forte.
20
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,18
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.19
25
30
Beati quelli ke ’l sosterrano20 in pace,
ka21 da Te, Altissimo, sirano22 incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:23
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà24 ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.25
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli26 cum grande humiltate.
Laudes Creaturarum, in G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Milano 1982
15. per lo quale ennallumini: grazie al quale illumini. Il prefisso enha valore rafforzativo.
16. iocundo: allegro.
17. robustoso: il suffisso -so ha valore rafforzativo.
18. ne sustenta et governa: ci nutre e ci accudisce.
19. sostengo infirmitate et tribulatione: sopportano malattie e
sofferenze.
20. ’l sosterrano: sosterranno ciò, ossia le malattie e le sofferenze.
21. ka: poiché.
22. sirano: saranno.
23. pò skappare: può scampare, sfuggire.
24. ke trovarà: che la Morte (soggetto sottinteso) troverà.
25. ka la morte secunda no ’l farrà male: che la dannazione
dell’anima (morte secunda) non farà loro del male.
26. serviateli: servitelo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la poesia religiosa
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STRUMENTI DI LETTURA
Il significante
Il Cantico riproduce la struttura degli inni latini ispirati ai Salmi che venivano recitati durante la liturgia e si sviluppa secondo una
prosa rimata in cui si succedono gruppi di
versetti di misura variabile, spesso in assonanza tra loro (vv. 1-2 Signore/benedictione;
vv. 6 e 9 sole/significatione; vv. 12-13 vento/
tempo) e solo occasionalmente legati da
rime (vv. 10-11 stelle/belle).
La lingua utilizzata da Francesco appartiene
all’area del volgare umbro, come testimoniano le frequenti desinenze in –u invece che
in –o (v. 1 altissimu, v. 4 nullu, dignu, v. 8 ellu,
bellu), le forme verbali in -ano invece che in
-anno (v. 3 konfano, v.), il termine messor (v.
6) per messer e l’epitesi che trasforma
l’espressione è in ène (v. 4).
La destinazione del componimento a un pubblico ampio e non particolarmente colto, giustifica la scelta del volgare, considerato lo
strumento linguistico che meglio si presta alla
diffusione di un messaggio universale. Si
tratta, tuttavia, di un volgare privo di sfumature propriamente dialettali, che rivela lo
sforzo di codificare una lingua media, diversa dal latino ma non piattamente modellata sul vernacolo.
Nel testo affiorano anche numerose persistenze grafiche del latino nei termini honore
(v. 2) e homo (v. 4), benedictione (v. 2), spetialmente (v. 6), significatione (v. 9), pretiosa
(v. 16), rengratiate (v. 32) in cui il gruppo ti+
vocale va letto zi; altre forme latineggianti
sono fructi (v. 22), nocte (v. 18) e la congiunzione et più volte ripetuta.
inevitabile ma necessario affinché l’anima si
avvicini a Dio. Un peculiare doppio ruolo
viene attribuito alla Terra (v. 20) che è sora
perché creata da Dio come ogni altra cosa e
matre in quanto fonte di sostentamento per i
viventi.
La bellezza e la varietà del creato vengono celebrate da Francesco mediante una ricca aggettivazione che di ogni creatura restituisce
in modo naturalistico le caratteristiche più vivaci: così il Sole è bellu e radiante (v. 8), l’Acqua utile et humile et pretiosa et casta (v. 16),
il Fuoco iocundo et robustoso et forte (v. 19).
I temi
La lode al Creatore: nella sua apparente
semplicità stilistica e strutturale, il Cantico
costituisce un’importante testimonianza della
complessa spiritualità duecentesca. Emerge
innanzitutto l’intento laudativo di Francesco
che, esaltando gioiosamente gli elementi naturali come altrettante manifestazioni di Dio,
ricompone la scissione tra cielo e terra
che impronta il pensiero di molti teologi medioevali, per i quali il mondo costituisce una
tentazione diabolica da cui occorre fuggire.
Il Cantico di Francesco tratteggia invece un
universo caratterizzato da bellezza e bontà,
che celebra la grandezza, l’onnipotenza e
l’amore di Dio poiché è frutto della sua volontà creatrice: Dio non è distante dall’uomo,
ma è presente nella concreta realtà del creato
e può essere compreso con semplicità, ap-
Le parole chiave
Gli epiteti altissimu, onnipotente, bon (v. 1)
con cui Francesco si rivolge a Dio evidenziano lo stretto rapporto del componimento
con la tradizione biblica nella quale si fa largo
uso di questi appellativi per definire il Creatore.
È tipica dei francescani, invece, la rappresentazione del forte legame spirituale che
unisce i seguaci della Regola mediante una
terminologia che appartiene al campo semantico della famiglia: nel Cantico il concetto
di fratellanza giunge a comprendere tutti gli
elementi del creato (v. 6 frate Sole, v. 10 sora
Luna; v. 12 frate Vento, v. 15 sor’Aqua, v. 17
frate Focu) e a includere persino la Morte
corporale (v. 27), che consente il passaggio
San Francesco e i
confratelli, miniatura,
fine XIII secolo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
prezzando la perfezione delle sue opere. Da
tale convinzione scaturisce una totale accettazione dell’esistente, anche nei suoi
aspetti terribili e spaventosi della malattia,
della sofferenza e persino della morte che
nella religiosità francescana assumono una
funzione salvifica se accolte e sopportate con
spirito cristiano (vv. 24-27).
L’uomo nel mondo: nella sua incondizionata
lode a Dio, Francesco esprime una visione
decisamente antropocentrica della creazione e la natura viene esaltata non solo
come “segno” della mente creatrice di Dio
ma anche per la sua utilità, in quanto offre all’uomo la possibilità di vivere in modo degno
sulla Terra. Per esempio, il valore del sole
consiste nella sua capacità di illuminare
l’umanità (v. 7) mentre l’alternarsi delle stagioni viene interpretato come uno strumento
per garantire la sopravvivenza della specie
umana (vv. 13-14).
L’intertestualità
Alleluia
Laudate Dominum de caelis,
laudate eum in excelsis.
Laudate eum, omnes angeli eius,
laudate eum, omnes virtutes eius.
Laudate eum, sol et luna,
laudate eum, omnes stellae lucentes
Laudate eum, caeli caelorum
et aquae omnes, quae super caelos sunt.
Laudent nomen Domini,
quia ipse mandavit, et creata sunt.
Alleluia.
Lodate il Signore dai cieli,
lodatelo nell’alto dei cieli.
Lodatelo, voi tutti, suoi angeli,
lodatelo, voi tutte, sue schiere.
Lodatelo, sole e luna,
lodatelo, voi tutte, fulgide stelle.
Lodatelo, cieli dei cieli,
voi, acque al di sopra dei cieli.
Lodino il nome del Signore,
perché al suo comando sono stati creati.
Salmo 148, 1-5
Sul piano stilistico, lessicale e semantico il
Cantico di Francesco si richiama esplicitamente alla tradizione del Vecchio Testamento.
In particolare, il motivo della benedizione al
Signore da parte delle sue creature è ripreso
dal Cantico de I tre giovani nella fornace contenuto nel libro di Daniele (III, 51-90), mentre
la ripetizione della formula Laudato sie è riconducibile al Salmo 148, di cui proponiamo
i versi iniziali.
Oltre a compendiare temi e motivi della tradizione cristiana, il componimento di Francesco
diviene a sua volta un modello nell’ambito
della poesia religiosa poiché apre la strada all’utilizzo del volgare in tutte le cerimonie di carattere non sacramentale il cui scopo sia
istruire i fedeli (paraliturgia) e nei decenni seguenti darà origine al genere letterario della
lauda drammatica (vedi a p. 312).
L’extratestualità
Giotto (1267-1337),
La predica a gli uccelli,
1296-1298.
Secondo la tradizione francescana, il Cantico
sarebbe stato composto nella chiesetta di
san Damiano presso Assisi nel 1224 al termine di una notte passata da Francesco tra
tormentosi dolori agli occhi e assalti di topi e
conclusasi con una visione celeste che gli
avrebbe promesso la beatitudine eterna. I
versi sul perdono (vv. 23-26) sarebbero stati
invece composti nel 1225 in occasione di un
grave dissidio tra il vescovo e il podestà di
Assisi che Francesco si era adoperato di ripianare, mentre la parte sulla morte (vv. 2731) sarebbe stata scritta nel 1226, quasi
come presentimento della fine vicina.
Non sappiamo se questa ricostruzione sia del
tutto attendibile, poiché l’idea di una composizione del Cantico in fasi diverse potrebbe
essere frutto della tendenza tipicamente medioevale di stabilire uno stretto legame tra il
contenuto dei componimenti e i passaggi
cruciali della biografia degli autori.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
16
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Quali creature sono esplicitamente citate da Francesco nella sua lode a Dio?
di
ffi
co
ltà
2 Per quali motivi alcune di esse vengono considerate “utili” per l’uomo?
Analisi
Il significante
LE
SS
IC
O
Vedi a p. 28 e 55
3 Individua e trascrivi di seguito due termini che, a tuo avviso, sono tratti dal
volgare umbro e due in cui si riconosce la matrice latina.
Termini derivanti dal volgare umbro: ............................................................................................................
Termini latineggianti: ............................................................................................................................................................
4 Individua altri due esempi di assonanza oltre a quelli segnalati negli Strumenti
di lettura.
I temi
Vedi a p. 76
5 Quale, tra le creature elencate nel Cantico, simboleggia maggiormente la potenza di Dio? Per quale motivo?
6 Spiega brevemente per quali aspetti, secondo Francesco, la Morte corporale (v. 27) differisce dalla morte secunda (v. 31).
Le figure retoriche
Vedi a p. 29 e 59
7 Dal punto di vista retorico come si definisce la ripetizione a inizio verso dell’espressione Laudato si’?
8 Individua la paronomasia presente nel v. 16.
L’intertestualità
Vedi a p. 67 e 75
9 Confronta il Cantico di Francesco d’Assisi con i versi del Salmo 148: quali analogie e quali differenze esistono tra i due testi?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
la poesia religiosa
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10 Riscrivi il componimento di Francesco in italiano corrente , modificando il meno
possibile la struttura sintattica del testo.
11 Scegli una delle creature che Francesco considera “utili” all’uomo e dedicale un testo in prosa in cui esalti le sue caratteristiche positive.
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volume
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Jacopone da Todi
Donna de Paradiso
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
LA POESIA
La lauda XCIII, conosciuta anche come Pianto della Madonna, è uno dei momenti più alti della poesia di Jacopone da Todi per la sua straordinaria capacità di riportare un episodio centrale della religiosità cristiana, la passione
e la morte di Gesù Cristo, su un piano umano tanto intenso dal punto di vista
emotivo da colpire in modo immediato e profondo la sensibilità dei fedeli.
Il testo è strutturato come un dialogo a quattro voci nel quale è centrale la figura di Maria, colta soprattutto nel suo ruolo di madre, affranta dalla sofferenza
del figlio che affronta una morte, agli occhi della donna, ingiusta e insensata.
l’intertestualità
METRO
ballata di settenari con l’eccezione di qualche
ottonario, con stanze di quattro versi (schema
aaax) e ritornelli di tre versi (schema mmx)
l’extratestualità
Voce
dialogante
Schema
rima
1
“Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso,
Iesù Cristo beato.
Fedele
1. de Paradiso: del
cielo.
2. l’allide: lo percuote.
È un latinismo.
3. l’ho flagellato: lo
hanno flagellato.
4. Com’essere porria:
come è possibile.
5. spene: speme, cioè
speranza.
6. om l’avesse pigliato:
che l’abbiano catturato.
7. fatto n’ha gran
mercato: lo ha venduto
a un prezzo vilissimo.
8. Maddalena: nella
tradizione evangelica
Maria Maddalena è una
delle tre donne che
assistono alla
crocifissione di Gesù.
9. Ionta m’è adosso
piena: mi è giunta
addosso una sciagura
improvvisa e
insopportabile.
10. se mena: è portato
via.
5
Maria
10
Fedele
15
Maria
Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide:2
credo che lo s’occide,
tanto l’ho flagellato.3”
Ripresa
m
m
x
Strofa
a
a
a
x
“Com’essere porria,4
ché non fece follia,
Cristo, la spene5 mia,
om l’avesse pigliato?6”
“Madonna, ell’è traduto:
Iuda sì l’ha venduto;
trenta denar’ n’ha avuto,
fatto n’ha gran mercato.7”
“Soccurri, Maddalena!8
Ionta m’è adosso piena:9
Cristo figlio se mena,10
com’è annunzïato.”
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la poesia religiosa
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Jacopo de’ Benedetti nasce a Todi tra il 1230 e il 1240 da una nobile famiglia.
Dopo aver studiato legge, esercita la professione di notaio e, secondo la leggenda, conduce una vita allegra e godereccia fino al momento in cui la moglie
muore durante una festa a causa del crollo della sala dove sta ballando. In quell’occasione Jacopo scopre che la donna indossa un cilicio (veste intessuta di peli
di capra indossata sulla nuda pelle per fare penitenza) e ne rimane così sconvolto
da abbandonare ogni interesse materiale.
Dopo un periodo di penitenza durato dieci anni, durante il quale si avvicina ai Disciplinati (vedi a p. 312), nel 1278 diviene frate laico nell’ordine dei Francescani. A causa
delle sue posizioni polemiche nei confronti della corruzione della Chiesa, nel 1298
papa Bonifacio VIII lo scomunica e successivamente lo fa processare e imprigionare.
Alla morte di Bonifacio VIII, avvenuta nel 1303, viene liberato e si ritira nel convento di san Lorenzo di Collazzone, tra Perugia e Todi, dove muore alla fine del 1306.
Degli scritti di Jacopone da Todi ci è rimasto un laudario, ossia una serie di laude raccolte in volume a partire dal XIV secolo in ambiente francescano, che può essere considerato una fedele testimonianza del percorso mistico e spirituale del frate, anche se non tutti i testi sono attribuiti a lui in modo certo. Nelle laude
di Jacopone la celebrazione dell’amore per Dio e degli ideali di carità e povertà si affianca di frequente a
una critica feroce e serrata della realtà mondana di cui il frate denuncia l’aspetto vano e caduco.
20
Fedele
Maria
25
Popolo
30
Maria
35
“O Pilato, non fare
el figlio mio tormentare,
ch’io te pozzo mustrare15
como a torto è accusato”.
“Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,16
secondo nostra lege
contradice al senato.”
“Prego che me ’ntennate,
nel mio dolor pensate:
forsa mo vo mutate
de che avete pensato.18”
17
“Traàm for li ladruni,19
che sian suoi compagnoni:
de spine se coroni,20
ché rege s’è chiamato!”
Popolo
40
Maria
“Soccurre, donna, adiuta,11
cà ’l tuo figlio se sputa12
e la gente lo muta;13
hòlo14 dato a Pilato.”
“ O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustïato?
11. adiuta: aiuta.
12. cà ’l tuo figlio se
sputa: perché sputano
su tuo figlio.
13. e la gente lo muta:
e lo trasferiscono (dal
sinedrio dove è stato
processato).
14. hòlo: lo hanno.
15. te pozzo mustrare:
ti posso dimostrare.
16. che se fa rege: che
si dichiara re.
17. me ’ntennate: mi
comprendiate.
18. forsa mo vo mutate
de che avete pensato:
forse ora (forsa mo) voi
potreste cambiare idea.
19. Traàm for li ladruni:
scarceriamo i ladri.
20. de spine se coroni:
sia incoronato di spine.
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21. occhi iocundi: dagli
occhi che danno gioia.
22. co’: come.
23. perché t’ascundi al
petto o’ si’ lattato?:
perché ti sottrai al petto
che ti ha allattato?
24. l’aduce: la porta (si
riferisce alla croce del
verso precedente).
25. ove la vera luce déi
essere levato: nel luogo
in cui (ove) la luce della
Verità (cioè Gesù) deve
essere sollevata.
26. torrai?: prenderai
con te?
27. doglia: dolore.
28. se spoglia: viene
spogliato.
29. martirizzato:
crocifisso.
30. Se i tollete el
vestire: se a lui togliete
i vestiti.
31. lassatelme:
lasciatemelo.
32. la man li è presa,
ennella croce è stesa:
gli hanno afferrato la
mano e l’hanno stirata
sulla croce. Il verbo
stendere deriva da
extensio, termine tecnico
che definiva lo stiramento
delle membra sul
cavalletto della tortura.
33. con un bollon l’ho
fesa: l’hanno spaccata
con un chiodo.
34. tanto lo ci ho
ficcato: tanto lo hanno
fatto penetrare.
35. li pè se prenno:
afferrano i piedi.
36. e chiavellanse al
lenno: e li inchiodano
(chiavellanse) al legno
della croce.
37. onne iontur’
aprenno: hanno
spaccato tutte le
giunture.
38. tutto l’ho
sdenodato: lo hanno
tutto snodato.
39. comenzo el
corrotto: comincio il
pianto. Il corrotto (o
rèpito) è il lamento
funebre sul corpo del
defunto.
40. lo mio deporto: mia
gioia. È un gallicismo
diffuso nell’antico
italiano.
41. chi me t’ha morto:
chi ti ha ucciso.
42. Meglio averiano
fatto: sarebbe stato
meglio.
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
45
Fedele
50
Maria
55
“Madonna, ecco la croce,
che la gente l’aduce,24
ove la vera luce
déi essere levato.25”
“O croce, e che farai?
El figlio mio torrai?26
Como tu ponirai,
chi non ha en sé peccato?”
“Soccurri, piena de doglia,27
ca ’l tuo figliol se spoglia:28
la gente par che voglia
che sia martirizzato.29”
Fedele
60
Maria
Fedele
Figlio occhi iocundi,21
figlio, co’22 non respundi?
Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ si’ lattato?23”
65
70
75
“Se i tollete el vestire,30
lassatelme31 vedere,
como el crudel ferire
tutto l’ha ensanguenato.”
Svenimento della Vergine
ai piedi della croce
(1480-1490).
“Donna, la man li è presa,
ennella croce è stesa;32
con un bollon l’ho fesa,33
tanto lo ci ho ficcato.34
L’altra mano se prende,
ennella croce se stende
e lo dolor s’accende,
ch’è più moltiplicato.
Donna, li pè se prenno35
e chiavellanse al lenno:36
onne iontur’ aprenno,37
tutto l’ho sdenodato.38”
“E io comenzo el corrotto:39
figlio, lo mio deporto,40
figlio, chi me t’ha morto,41
figlio mio dilicato?
Maria
80
Meglio averiano fatto42
che ’l cor m’avesser tratto,
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la poesia religiosa
20
on line
che ne la croce è tratto,43
stace descilïato!44”
Gesù
85
Maria
90
Gesù
95
“Figlio, che m’aio anvito,49
figlio, pate e marito!
Figlio, chi t’ha ferito?
Figlio, chi t’ha spogliato?”
“Mamma, perché te lagni?
Voglio che tu remagni,50
che serve ei mei compagni
ch’al mondo aio aquistato.51”
“Figlio, questo non dire:
voglio teco morire;
non me voglio partire
fin che mo m’esce ’l fiato.52
Maria
100
Gesù
“Mamma, ove si’ venuta?45
Mortal me dài feruta,46
ca ’l tuo planger me stuta,47
che ’l veio sì afferrato.48”
105
110
Maria
115
C’una aiam sepultura,53
figlio de mamma scura:54
trovarse en afrantura
mate e figlio affocato!55”
“Mamma col core afflitto,
entro le man te metto
de Ioanne, meo eletto:56
sia tuo figlio appellato.
Ioanni, èsto mia mate:57
tollela en caritate,58
aggine pïetate,59
ca ’l cor sì ha furato.60”
“Figlio, l’alma t’è ’scita,61
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,62
figlio attossecato!63
Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,64
figlio e a chi m’apiglio?65
Figlio, pur66 m’hai lassato!
43. che ’l cor
m’avesser tratto, che
ne la croce è tratto: che
mi avessero strappato
(tratto) il cuore, che
adesso è dilaniato (tratto)
nella croce.
44. stace descilïato:
e sta lì lacerato.
45. ove si’ venuta?:
dove sei venuta?
46. feruta: ferita.
47. me stuta: mi
spegne, mi uccide.
48. che ’l veio sì
afferrato: che lo vedo
(il tuo pianto) così
lancinante.
49. che m’aio anvito:
ne ho un buon motivo.
50. che tu remagni: che
tu rimanga in questo
mondo (remagni).
51. che serve ei mei
compagni ch’al mondo
aio aquistato: che tu
conservi i compagni (gli
apostoli) che ho avuto in
questo mondo.
52. fin che mo m’esce
’l fiato: fino a quando
non respirerò più.
53. C’una aiam
sepultura: che ci sia per
noi una sola sepoltura.
54. scura: infelice.
55. trovarse en
afrantura mate e figlio
affocato: che la madre e
il figlio si trovino insieme
soffocati nella
disperazione (afrantura).
56. de Ioanne, meo
eletto: Gesù affida la
madre a Giovanni
Evangelista.
57. èsto mia mate:
questa è mia madre.
58. tollela en caritate:
prendila per carità di
figlio.
59. aggine pïetate: abbi
di lei pietà.
60. ca ’l cor sì ha
furato: poiché ha il cuore
trafitto (furato).
61. l’alma t’è ’scita: la
tua anima ha lasciato il
corpo.
62. sparita: annientata.
63. attossecato:
intossicato dall’aceto e
dal fiele bevuto sulla
croce.
64. senza simiglio:
senza uguali.
65. a chi m’apiglio?:
a chi mi aggrappo?
66. pur: per sempre.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
120
67. sprezzato:
disprezzato,
misconosciuto.
68. hatte la gente
malamente trattato: la
gente ti ha (hatte) trattato
in modo ingiusto e
crudele.
69. che fo profetizzato:
Simeone aveva
profetizzato che l’anima
di Maria sarebbe stata
trafitta da una spada.
70. Che moga: che
muoiano.
71. d’una morte
afferrate: straziati
insieme da una sola
morte.
72. trovarse
abraccecate: che si
trovino abbracciati.
73. mate e figlio
impiccato: la madre e il
figlio appeso alla croce.
125
130
135
Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, per che t’ha ’l mondo,
figlio, così sprezzato?67
Figlio dolze e placente,
figlio de la dolente,
figlio hatte la gente
malamente trattato.68
Ioanni, figlio novello,
mort’è lo tuo fratello:
ora sento ’l coltello
che fo profitizzato.69
Che moga70 figlio e mate
d’una morte afferrate:71
trovarse abraccecate72
mate e figlio impiccato!73”
Donna de paradiso, in G. Contini,
Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Milano 1982
Crocifissione, icona, fine XII secolo.
STRUMENTI DI LETTURA
Il significante
Il testo è costituito prevalentemente da versi
settenari, con l’eccezione di qualche ottonario (vv. 25, 28, 56, 69, 76, 128) e riprende
la struttura strofica della zagialesca, un’antica ballata di origine arabo-ispanica di cui
segue il semplice e regolare schema della
rima (aaax nelle stanze, mmx nel ritornello).
A differenza delle laude recitate dalle confraternite nel corso delle processioni, i componimenti di Jacopone sono abitualmente
costruiti su un contrasto tra personaggi,
talvolta reali – la Madonna e un devoto, Cristo e un peccatore, un vivo e un morto – talvolta astratti o simbolici – i cinque sensi, i
sette vizi capitali –. Ma Donna de Paradiso si
distingue dagli altri componimenti del frate
poiché è l’unico ad assumere la forma di un
vero e proprio dialogo in cui si alternano le
voci di un fedele (probabilmente san Giovanni), che fino al v. 75 assume il ruolo del
narratore onnisciente, di Maria, del popolo
degli Ebrei che sollecitano la condanna di
Cristo e di Gesù stesso (dal v. 84). Per questo motivo viene considerata il primo esempio di lauda drammatica, un genere caratterizzato da un andamento quasi teatrale che
fiorirà nei decenni successivi.
Attraverso le parole dei soggetti dialoganti è
possibile ricostruire le tappe della passione e
morte di Gesù Cristo (vedi la rubrica L’intertestualità a p. 323), che sono presentate in
forma narrativa e vengono esposte in una
sintassi prevalentemente paratattica che
semplifica al massimo la struttura testuale.
L’utilizzo del volgare umbro appare frutto di
una precisa scelta comunicativa dell’autore
che avverte l’esigenza, condivisa da molti
contemporanei, di elaborare un testo a con-
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la poesia religiosa
tenuto religioso in una lingua comprensibile
dal popolo. Allo scopo di enfatizzare la drammaticità dell’argomento, dà ai versi un ritmo
rapido e concitato e adotta un lessico diretto e a volte crudo e violento (v. 21’l tuo figlio se sputa, v. 63 ensanguenato, v. 74 onne
iontur’ aprenno, v. 75 sdenodato, v. 135 impiccato).
Le parole chiave
Il linguaggio fortemente espressivo della
lauda, teso a coinvolgere emotivamente i fedeli, è ricco di termini appartenenti al campo
semantico del dolore che rimarcano la sofferenza interiore della Madonna (v. 33 nel mio
dolor, v. 43 cor mio angustïato, v. 56 piena
de doglia), progressivamente trasformata in
annullamento fisico e morale (v. 97 voglio
teco morire, v. 101 figlio de mamma scura,
vv. 113-114 figlio de la smarrita, / figlio de la
sparita).
Per contrasto, numerose espressioni mettono
in rilievo la bellezza (v. 116 bianco e vermiglio, v. 120 bianco e biondo, v. 124 dolze e
placente), la gioiosa giovinezza (v. 44 occhi
iocundi, v. 121 volto iocondo) e la purezza di
Gesù (v. 41 amoroso giglio, v. 79 dilicato) rendendo ancora più assurda e incomprensibile
la sua morte.
I temi
L’umanizzazione di Gesù e Maria: nella religione cristiana la morte di Gesù costituisce
un momento fondamentale poiché la natura
divina di Cristo si manifesta nel sacrificio con
cui espia i peccati degli uomini e nella successiva resurrezione che lo riconduce alla
casa del Padre, ma di questa concezione
teologica nella lauda di Jacopone traspare
assai poco. Nel testo affiorano soltanto alcuni
riferimenti alle profezie che hanno anticipato
l’evento della morte (v. 19 com’è annunzïato;
v. 131 che fo profitizzato) e un unico richiamo,
ad opera del fedele, al compito di Gesù di
portare agli uomini la luce della verità (v. 50 la
vera luce).
Nel componimento prevale invece il motivo
dello straziante dolore della madre, rappresentata soprattutto nella sua umanità di
donna disperata e carnalmente legata al figlio (v. 47 al petto o’ si’ lattato) di cui tenacemente sostiene l’innocenza (v. 9 ché non
fece follia; v. 55 chi non ha en sé peccato) di
fronte a chi lo accusa di aver violato la legge
(vv. 38-39 de spine se coroni, / ché rege s’è
chiamato).
La trasposizione sul piano umano dell’episo-
22
on line
dio evangelico si giustifica con l’origine sociale del pubblico cui la lauda è destinata, costituito da popolani semplici e di modesta
cultura, più pronti a farsi coinvolgere affettivamente ed emotivamente dalla vicenda che
a riflettere sugli aspetti dottrinali. Così, allo
scopo di suscitare una pietà spontanea e immediata in chi ascolta, l’autore conferisce al
testo il tono semplice e ingenuo di un racconto popolare che sollecita la devozione dei
fedeli attraverso l’identificazione nei sentimenti dei protagonisti.
Il compianto funebre: le radici popolari di
Donna de Paradiso sono confermate dalla
modalità con cui Maria esprime il proprio dolore quando inizia il compianto funebre. A tale
proposito l’etnologo Paolo Toschi (18931974) ha osservato come diverse espressioni
del lamento della Madonna (v. 41 amoroso
giglio; v. 44 occhi iocundi; vv. 46-47 figlio,
perché t’ascundi / al petto o’ si’ lattato; v. 101
figlio de mamma scura; vv. 114-115 figlio de
la sparita, / figlio attossecato; vv. 118-119 figlio e a chi m’apiglio? / Figlio, pur m’hai lassato!) non siano ascrivibili al cerimoniale
funebre ecclesiastico dell’epoca, centrato
soprattutto sulla prassi penitenziale, ma ricalchino invece la fraseologia del pianto funebre (rèpito o corrotto) recitato dalle donne
ai tempi di Jacopone (e per molti secoli ancora) in tutta l’Umbria, le cui radici affondano
in rituali antichissimi, precedenti il Cristianesimo.
Le figure retoriche
La rilevanza dell’anafora del termine Figlio
nel lamento di Maria alla croce (vv. 88-91, vv.
112-126) ha lo scopo di accrescere la partecipazione del fedele al dolore della Madonna,
assolvendo a una funzione drammatica oltre
che ritmica. Inoltre riecheggia la struttura formale delle litanie recitate durante le processioni che, nella loro forma più antica, consistevano in un’elencazione rituale dei santi ai
quali si chiedeva di intercedere presso Dio e
allontanare le calamità naturali.
L’intertestualità
Il processo, la flagellazione, la crocifissione e
la morte di Gesù Cristo sono riportati dai
quattro evangelisti, ma solo nel Vangelo di
Giovanni si fa riferimento alla presenza di
Maria ai piedi della croce. Il confronto tra il
componimento di Jacopone e i rispettivi
passi del Vangelo evidenzia come il frate
abbia ripreso alcune immagini e situazioni
presenti nella Scrittura (sottolineati nel testo),
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
dando loro un taglio interpretativo inedito che
punta lo sguardo sulla disperazione di madre
della Madonna e riporta l’episodio evangelico su un piano totalmente umano.
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di
porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve,
re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una
Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».[…]
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il
luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno
dall’altra, e Gesù nel mezzo. […]
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella
di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il
discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna,
ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua
madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù
disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo
spirito.
Giovanni, 19, 1-7; 16-18; 25-30
Simone Martini (12841344) Cristo sulla via
del Calvario, 1342,
particolare.
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Quali personaggi dialogano nel componimento?
2 Chi avvisa Maria di quanto sta accadendo a Gesù?
3 In che modo Gesù cerca di attenuare il dolore della madre?
di
ffi
co
ltà
4 Che cosa si augura Maria nei versi conclusivi della lauda?
Analisi
Il significante
LE
SS
IC
O
Vedi a p. 55
5 Rifletti sui participi furato (v. 111), attossecato (v. 115), lassato (v. 119). Qual
è il loro significato letterale? Quali parole attuali, secondo te, derivano da questi termini in volgare?
LE
SS
IC
O
Le parole chiave
Vedi a p. 62
6 Il realismo del linguaggio di Jacopone risalta in modo particolare nella rievocazione della crocifissione di Gesù (vv. 65-75): sottolinea e trascrivi tutti i
termini che riproducono la violenza della scena e per ciascuno trova l’attuale parola corrispondente.
I temi
Vedi a p. 76
7 Rileggi le strofe attribuite al popolo: che cosa viene contestato a Gesù? Perché ciò è una colpa?
8 Come accade in Maria, anche in Gesù i sentimenti umani prevalgono sulla natura divina: in quali circostanze testuali questa affermazione trova conferma?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
la poesia religiosa
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9 Riscrivi il testo in prosa , trasformando il dialogo tra i quattro personaggi in
discorso indiretto.
10 La crocifissione di Gesù Cristo è probabilmente uno dei soggetti più frequenti
nella tradizione pittorica italiana, sia per il suo significato religioso sia per la
drammaticità umana dell’evento narrato. Effettua un confronto extratestuale
tra la riproduzione del polittico della Passione di Simone Martini, conservato
al Museo del Louvre di Parigi, e la lauda di Jacopone da Todi: quali versi del
testo potrebbero essere illustrati dal dipinto? Quali figure del quadro rappresentano i personaggi che recitano il componimento o in esso sono citati?
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Il
volgare letterario
in Francia
L’IDEALE CAVALLERESCO
Gruppo di cavalieri,
miniatura dal codice
De universo di Rabano
Mauro, 1028.
A partire dall’XI secolo, nel territorio francese, organizzato secondo il modello feudale imposto da Carlo Magno, si sviluppa un nuovo ceto di cavalieri, formato
dai figli cadetti dell’antica classe nobiliare esclusi dalla successione ereditaria dei
feudi, ma anche da individui provenienti da famiglie non nobili che si mettono al
servizio di un grande feudatario ricevendone in cambio terre. Nel corso di qualche decennio il rango di cavaliere diviene ereditario e gli appartenenti a questa
nuova classe, pur godendo di un grado inferiore di nobiltà, cominciano a condividere alcuni dei privilegi dei grandi signori.
Per legittimare la loro rapida ascesa sociale i cavalieri elaborano un sistema di valori proprio che, definendo in modo preciso le virtù che li distinguono
dai villani (cioè da chi lavora la terra), costituisce una sorta di rappresentazione idealizzata della cavalleria e della sua funzione. Sono considerati valori cavallereschi la prodezza, che si rivela nell’esercizio delle armi, il senso dell’onore,
la lealtà nel combattimento e la fedeltà al proprio signore, virtù quindi esclusivamente militari che solo successivamente l’intervento della Chiesa riuscirà a mitigare e ingentilire, mettendo il valore dei guerrieri al servizio dei deboli, degli oppressi e della vera fede.
La prima espressione letteraria degli ideali cavallereschi è costituita dalle chansons de geste, lunghi poemi epici in lingua d’oïl – il volgare parlato nella zona
settentrionale della Francia (vedi a p. 304) – raggruppati in cicli centrati sulla figura di Carlo Magno e dei suoi paladini, di cui l’esempio più noto è la Chanson
de Roland (vedi Volume C) composta alla fine dell’XII secolo.
In Italia la circolazione delle chansons de geste
è favorita da una serie di fattori diversi tra cui
la dominazione normanna, che diffonde nel
Mezzogiorno la conoscenza del francese, i pellegrinaggi e gli intensi traffici commerciali che
ogni anno spingono migliaia di uomini a percorrere la via Francigena. Attraverso questa via,
che dalla Francia conduce a Roma un incessante flusso di mercanti e fedeli, si diffonde la
fama delle gesta del re Carlo e del paladino
Orlando in tutta la penisola, come testimoniano i numerosi reperti iconografici e la toponomastica di molte località che conserva
tracce dei nomi dei personaggi celebrati nella
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il volgare letterario in Francia
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Chanson de Roland1. Quando le corti dei signori di Francia si trasformano in centri eleganti e raffinati dove si vive secondo un codice di comportamento minuziosamente definito, al cavaliere non basta più dimostrare di essere valoroso in
battaglia, ma comincia a perseguire virtù adatte ai tempi di pace, come la liberalità, cioè il disprezzo del denaro e dei beni materiali, la magnanimità, ossia
la capacità di compiere atti generosi, e la misura, che si manifesta nella capacità di tenere a freno le proprie passioni.
L’AMOR CORTESE
Centro della corte è la donna, di condizione aristocratica e spesso moglie del
signore feudale, il cui culto diviene l’elemento distintivo del sistema di valori cavalleresco e si traduce in una particolare concezione dell’amore, definita amor cortese, che impronta tutta la produzione letteraria del tempo.
Considerata un essere sublime e impareggiabile, essa è irraggiungibile e nei
suoi confronti il cavaliere esprime una dedizione assoluta, proclamandosi suo
servitore e rendendole omaggio senza pretendere nulla in cambio. Questo tipo
di rapporto viene definito “servizio d’amore” e genera in chi ama sentimenti di
sofferenza e tormento interiore per l’impossibilità di conseguire il proprio obiettivo, ma anche di gioia e pienezza perché la passione d’amore purifica, ingentilisce e nobilita chi la sperimenta. Trattandosi di un amore non lecito, il cavaliere
utilizza ogni accorgimento per mantenerlo segreto in modo da non incrinare
l’onorabilità dell’amata alla quale si riferisce soltanto attraverso l’artificio retorico
del senhal (pronuncia sequàl = segnale), uno pseudonimo riconoscibile solo dalla donna stessa.
Tuttavia, un sentimento tanto esclusivo e totalizzante distoglie da
ogni interesse che non sia l’amata e quindi allontana l’uomo anche
da Dio; ciò, oltre a generare nell’amante un irrisolvibile senso di colpa, spingerà la Chiesa a esprimere un’energica condanna nei confronti dell’amor cortese, la cui fortuna durerà comunque ben oltre
la fine del mondo cavalleresco.
Gli ideali cortesi sono fortemente influenzati dal contesto in cui nascono, una società ristretta ed elitaria nella quale anche l’espressione di un sentimento ha la funzione di segnalare l’appartenenza a un preciso gruppo, poiché può amare finemente solo
chi è cortese, cioè appartiene a una corte. A proposito del nesso esistente tra la concezione dell’amor cortese e la società feudale, alcuni studiosi hanno interpretato il rapporto di subalternità
del cavaliere rispetto all’amata come una metafora del vincolo che
stringe il vassallo al suo signore e che viene riprodotto nel linguaggio
letterario quando l’uomo, rivolgendosi alla donna, la chiama al maschile midons, che significa “mio signore”.
Miniatura dal Codex
Manesse, XIII secolo.
Il manoscritto raccoglie
poesie liriche cortesi e
miniature che
raffigurano in maniera
idealizzata dei poeti
intenti in attività
cavalleresche e cortesi.
1. Ecco alcuni esempi dell’influenza dalla poesia cavalleresca francese in Italia.
Toponomastica: il nome di Capo d’Orlando, sulla costa siciliana, attestato già nel secolo XII tra il 1185 e il 1187.
Onomastica: a Capua nel 1131, a Pavia nel 1145, a Genova nel 1150, a Parma nel 1174, a Ferrara nel 1176 viene registrata la nascita di coppie
di fratelli chiamati rispettivamente Orlando e Oliviero, segno della diffusione popolare del poema cavalleresco lungo la via Francigena e nei luoghi
della dominazione normanna.
Iconografia: a Brindisi, porto d’imbarco della Terrasanta, il vecchio pavimento a mosaico della cattedrale, costruito nel 1178 e distrutto
definitivamente nel terremoto del 1858, rappresentava scene della battaglia di Roncisvalle; a Verona fin dalla prima metà del XII secolo Orlando e
Oliviero campeggiano in due bassorilievi ai lati del portale del Duomo; nella stessa epoca la figura di Orlando domina la città di Modena da uno
spigolo della torre Ghirlandina.
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Gli ideali dell’amor cortese sono espressi in forma narrativa nel romanzo cavalleresco e in particolare nel Ciclo bretone che si basa su antiche leggende fiorite intorno al mito di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda e viene elaborato nel XII secolo in lingua d’oïl da Chrétien de Troyes (vedi Volume C), mentre il genere poetico che interpreta più fedelmente questi valori è la lirica nella
lingua d’oc (o occitano) che raggruppa diversi volgari della Francia meridionale, il più importante dei quali è il provenzale.
LA POESIA LIRICA PROVENZALE
CANZONE
componimento
formato da più stanze
(vedi a p. 33).
SESTINA
fu inventata dal poeta
provenzale Arnaut
Daniel e introdotta
nella poesia italiana
da Dante, è composta
da sei stanze indivise
(senza fronte e
sirma), con una coda
costituita da una
terzina. Ogni stanza è
formata da sei parolerima, che si ripetono
sempre uguali di
stanza in stanza,
secondo l’ordine
chiamato di
“retrogradazione a
croce”: ABCDEF,
FAEBDC, CFDABE,
ECBFAD, DEACFB,
BDFECA.
PASTORELLA
componimento in
forma di dialogo che
ha come tema
l’incontro tra un
cavaliere e una
pastorella la quale,
il più delle volte,
respinge le offerte
amorose del
cavaliere.
SIRVENTESE
componimento
spesso polemico e
calunnioso, a volte
satirico.
TENZONE
componimento
destinato alla
discussione di un
tema controverso tra
più interlocutori.
La poesia lirica che a partire dal XII secolo viene prodotta all’interno delle corti
feudali del Sud della Francia è il risultato artisticamente più alto di questa fase
storica. Originariamente essa viene cantata in pubblico, con un accompagnamento musicale, dai trovatori (da trobar, che significa comporre musica),
professionisti che talvolta eseguono personalmente le loro composizioni, talvolta
le affidano a cantori professionisti chiamati giullari.
All’inizio le poesie dei trovatori vengono trasmesse oralmente, ma dal XIII secolo
esse vengono trascritte e raccolte in canzonieri, dove i testi sono preceduti
da brevi introduzioni (razos) e accompagnati dalle biografie, spesso fantasiose
e romanzate, degli autori (vidas).
Secondo la tradizione, il primo dei trovatori è stato il grande signore feudale Guglielmo IX di Aquitania vissuto tra l’XI e il XII secolo, ma sono noti i nomi di altri
poeti, appartenenti a classi sociali meno prestigiose e autori di alcuni dei 2542
componimenti giunti fino a noi poiché, a differenza di quanto accadeva per i poemi cavallereschi, di solito tramandati in forma anonima, i provenzali hanno la consuetudine di firmare le loro opere.
La poesia trobadorica esprime sentimenti, pensieri e stati d’animo degli autori
mediante un repertorio codificato di immagini e strutture metriche e strofiche
– come la canzone, la sestina e la pastorella – destinate a influenzare in modo duraturo la letteratura dei secoli seguenti.
L’argomento centrale della lirica provenzale è l’amore, sviluppato secondo il
canone cortese che impone l’asservimento dell’amante all’amata, impedisce
la soddisfazione del desiderio ma contemporaneamente celebra la gioia che colma l’animo di chi è in grado di provare questo nobile sentimento. I temi morali
e politici vengono trattati solo in particolari strutture strofiche tra cui il sirventese
e la tenzone.
A causa del successo e della grande diffusione della lirica trobadorica, l’occitano acquista dignità letteraria e si impone come lingua canonica della poesia d’amore fino agli inizi del XIII secolo, quando la crociata contro gli Albigesi bandita dal papa Innocenzo III pone bruscamente fine alla civiltà cortese di Provenza, distruggendo la ricchezza e la potenza dei grandi signori meridionali, i cui
feudi finiscono sotto il diretto controllo della corona francese, e riducendo la prestigiosa lingua d’oc al rango di idioma territoriale.
Nonostante ciò la cultura dei trovatori non sparisce completamente: per merito
dei provenzali sfuggiti al massacro della crociata che si rifugiano nelle corti e nelle città dell’Italia settentrionale e grazie alla scelta di scrittori appartenenti ad altre aree linguistiche e culturali di recuperare elementi stilistici e tematici tipici della lirica trobadorica, come accade presso la corte di Federico II dove
nasce la Scuola siciliana, un fenomeno singolare nel panorama culturale italiano del XIII secolo.
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la Scuola siciliana
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Scuola
siciliana
La
LA MAGNA CURIA
Nella prima metà del XIII secolo l’imperatore Federico II di Svevia crea
un organismo statale assoluto, accentrato e fondato su un solido apparato amministrativo, il cui centro propulsivo si trova in Sicilia e che,
per diversi aspetti, può essere considerato il primo Stato moderno d’Europa.
Nella Magna Curia, la corte simbolo del potere imperiale, Federico II riunisce le personalità più colte dell’epoca, di ogni
fede religiosa e provenienza geografica e, in un clima culturale
vivace e insolitamente aperto rispetto ai tempi, promuove
lo studio della filosofia, della medicina e delle scienze
naturali, ma anche dell’astrologia e dell’alchimia, considerate strumenti attendibili di conoscenza. A differenza di quelle feudali, la corte di Federico è mobile
poiché si sposta di continuo per la Sicilia e in tutta
Italia in relazione alle molteplici necessità politiche del
sovrano e, anche grazie a ciò, diviene un luogo di fertile interscambio culturale.
Federico II col falcone,
miniatura dal codice
De arte venandi cum
avibus, XIII secolo.
I POETI SICILIANI
È nell’ambito della corte che tra il 1230
e il 1250 nasce la Scuola poetica siciliana, i cui protagonisti sono funzionari
amministrativi, burocrati e rappresentanti
dell’imperatore forniti di cultura giuridica
e retorica e quindi omogenei per condizione sociale e formazione. Più che alla
loro origine geografica l’appellativo “Siciliani” si riferisce infatti alla comune
matrice culturale, al condiviso sistema
di valori e all’ambito politico nel quale
essi operano. La produzione letteraria dei
Siciliani si ispira in modo esplicito e dichiarato ai modelli stilistici e tematici
Federico II concede privilegi al comune di Asti,
miniatura dal Codex Astensis, XIII secolo.
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Miniatura dal Codex
Manesse, XIII secolo.
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
dei provenzali, ma a differenza di trovatori e giullari, che della composizione di versi avevano fatto una professione dotata di autonoma dignità, per i Siciliani scrivere poesie è un diletto, una forma di evasione dalla realtà quotidiana
e, allo stesso tempo, un segno di appartenenza a una cerchia ristretta ed eletta.
Dai provenzali i Siciliani riprendono fedelmente la tematica dell’amor cortese,
che costituisce l’argomento pressoché unico delle loro composizioni con tutto il suo
repertorio di tópoi e situazioni standardizzate
– omaggio feudale alla dama di cui l’uomo
si professa umile servitore, esaltazione della perfezione dell’amata, lode alla sua bellezza paragonata a quella della natura, dolore per la sua lontananza e rimpianto per le
gioie d’amore perdute – ma abbandonano
la consuetudine dell’accompagnamento
musicale poiché la loro poesia è destinata
alla lettura individuale e non alla recitazione
pubblica.
IL VOLGARE SICILIANO
Sul piano formale i Siciliani compiono un’operazione destinata ad avere un’importanza decisiva nella storia letteraria italiana, assumendo come lingua poetica il volgare siciliano di cui costruiscono lessico e sintassi prendendo a
modello le due lingue più prestigiose del tempo, il latino e la lingua d’oc, in modo
da accogliere ed esprimere degnamente il patrimonio concettuale dei trovatori.
Il loro volgare è un siciliano alto e illustre, adoperato con intenzione non dialettale ma letteraria e lontanissimo dall’uso parlato, depurato da ogni espressione
bassa e colloquiale e sostanziato di vocaboli rigorosamente selezionati.
Orgogliosi di appartenere a un’élite, i Siciliani non operano scelte linguistiche
dettate dall’esigenza di rendere accessibili i loro testi a un pubblico più ampio ma si muovono nella direzione opposta della netta separazione tra la lingua
parlata e la lingua poetica che caratterizzerà a lungo la tradizione letteraria italiana. Occorre tuttavia precisare che scarsissime sono le testimonianze della forma
autentica del volgare siciliano poiché i testi di questi autori, diffusi e ammirati in tutta Italia, ci sono pervenuti nelle trascrizioni
effettuate da copisti toscani che hanno sovrapposto le caratteristiche del loro idioma a quelle originarie.
Federico II, miniatura dalla Chronica regia Coloniensis,
XIII secolo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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Jacopo da Lentini
Meravigliosamente…
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
LA POESIA
L’amore per una donna sublime, tanto intenso da rendere muto e vergognoso
chi lo prova, è un tópos della poesia provenzale che Jacopo da Lentini interpreta con grande maestria tecnica, giocando con un lessico ricco di allusivi
rimandi interni. Come sempre accade nella poesia dei Siciliani, la situazione
rappresentata è astratta e decontestualizzata. Tuttavia l’autore mostra grande
abilità nel descrivere il senso di impotenza e di paralisi che coglie l’innamorato al cospetto di una donna la cui perfezione richiama quella divina, introducendo in questo modo una tematica che avrà grande fortuna fino alla
poesia stilnovista (vedi a p. 335).
l’intertestualità
l’extratestualità
5
10
15
20
Meravigliosamente1
un amor mi distringe2
e mi tene ad ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo3 pinge
la simile pintura,4
così, bella, facc’eo:5
che ’nfra lo core meo6
porto la tua figura.7
a
b
c
a
b
c
d
d
c
METRO
canzonetta formata
da sette stanze in
versi settenari
In cor par ch’eo vi porti
pinta como parete,8
e non pare di fore.9
O Deo, co’ mi par forte.10
Non so se lo sapete,
con’ v’amo di bon core:11
ch’eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso12
e non vi mostro amore.13
Avendo gran disio,14
dipinsi una pintura,15
bella, voi simigliante;
e quando voi non vio16
1. Meravigliosamente: straordinariamente.
2. mi distringe: mi avvince, mi stringe con forza. Il prefisso di- ha
valore rafforzativo.
3. che pone mente in altro exemplo: che osserva attentamente
(pone mente) un modello (altro exemplo).
4. pinge la simile pintura: riproduce la copia esatta.
5. facc’eo: faccio io.
6. ’nfra lo core meo: nel mio cuore.
7. figura: immagine.
8. pinta como parete: dipinta come apparite.
9. e non pare di fore: e non traspare all’esterno.
10. co’ mi par forte: come è crudele.
11. con’ v’amo di bon core: con quanta devozione io vi amo.
12. ca pur vi guardo ascoso: che vi guardo solo di nascosto (ascoso)
13. non vi mostro amore: non vi dimostro il mio amore.
14. Avendo gran disio: avendo un grande desiderio (di guardarvi).
15. dipinsi una pintura: impressi dentro di me una vostra immagine.
16. e quando voi non vio: e quando non vi vedo (vio).
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Jacopo (o Giacomo) da Lentini nasce probabilmente (le notizie certe sono molto scarse) a
Lentini, nei pressi di Siracusa, intorno al 1210. La sua attività presso la corte di Federico II è
documentata da due privilegi del 1233 nei quali viene definito fidelis scriba e notarius – da
cui l’appellativo Notaro con il quale si autodefinisce in alcuni componimenti – e da un documento del 1240 firmato “Jacobus de Lentino domini Imperatoris notarius”.
Partendo da alcuni vaghi accenni contenuti nei suoi testi si è ipotizzato che tra il 1241 e il 1245
sia stato in Lazio e in Toscana, probabilmente al seguito della corte di Federico. La sua morte
dovrebbe risalire al 1260 circa.
Nel canto XXIV del Purgatorio, Dante Alighieri parla di Jacopo da Lentini come del primo e più
autorevole rappresentante della Scuola siciliana, di cui ancor oggi viene considerato l’interprete
più alto per la grande abilità inventiva e retorica. Dei circa 150 componimenti attribuibili ai Siciliani, ben 38 appartengono al suo canzoniere, che offre un repertorio completo delle scelte metriche e tematiche della
poesia siciliana: a lui si devono la codifica della struttura della canzone (vedi a pp. 328 e 33) e, quasi certamente, l’invenzione del sonetto, il cui nome deriva dal provenzale sonet – diminutivo di so che vuol dire suono, melodia – nel
senso di “poesia per musica”. Il sonetto viene considerato dai Siciliani una struttura metrica meno nobile della canzone
ed è inizialmente destinato a esporre argomenti di tono discorsivo e dottrinale, ma il prestigio acquisito nei secoli seguenti estenderà l’uso di questa composizione metrica ad ambiti tematici molto differenziati (vedi a p. 32).
25
30
35
40
45
guardo ’n quella figura,
e par ch’eo v’aggia avante:17
come quello che crede
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.18
Al cor m’arde una doglia,19
com’om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso,20
e quando più lo ’nvoglia,21
allora arde più loco22
e non pò stare incluso:23
similemente eo ardo
quando pass’ e non guardo
a voi, vis’ amoroso.24
S’eo guardo, quando passo,
inver’ voi,25 no mi giro,
bella, per risguardare.26
Andando, ad ogni passo
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;27
e certo bene ancoscio,28
c’a pena mi conoscio,29
tanto bella mi pare.30
17. ch’eo v’aggia avante: che vi abbia davanti a me.
18. ancor non veggia inante: nonostante non veda davanti a sé ciò
in cui si crede.
19. Al cor m’arde una doglia: nel cuore sento un dolore (doglia).
20. com’om che ten lo foco a lo suo seno ascoso: come chi
nasconde il fuoco nel petto.
21. e quando più lo ’nvoglia: e quando più lo avvolge (’nvoglia).
22. allora arde più loco: tanto più esso lì (loco) brucia.
23. non pò stare incluso: non può rimanere rinchiuso (incluso).
24. amoroso: che suscita amore.
25. inver’ voi: verso di voi.
26. risguardare: guardarvi nuovamente.
27. che facemi ancosciare: che mi fa singhiozzare.
28. e certo bene ancoscio: e tanto mi affanno.
29. c’a pena mi conoscio: che mi riconosco appena.
30. mi pare: mi appari. È frequente nella poesia siciliana l’alternanza
dei pronomi allocutori “tu” e “voi”.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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60
Assai v’aggio laudato,
madonna, in tutte parti31
di bellezze ch’avete.
Non so se v’è contato32
ch’eo lo faccia per arti,33
ché voi pur v’ascondete.34
Sacciatelo per singa35
zo ch’eo no dico a linga,36
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella,37
va’ canta38 nova cosa;
lèvati da maitino39
davanti a la più bella,
fiore d’ogn’amorosa,40
bionda più c’auro fino:
“Lo vostro amor, ch’è caro,41
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino.42”
Meravigliosamente…, in G. Contini,
Letteratura italiana delle origini,
Sansoni, Milano 1982
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31. in tutte parti:
dappertutto.
32. Non so se v’è
contato: non so se vi è
stato detto.
33. per arti: ad arte.
34. ché voi pur
v’ascondete: e per questo
anche voi vi nascondete.
35. Sacciatelo per singa:
riconoscete dai segni
esteriori. Sacciatelo e singa
sono forme meridionali
come i successivi zo, linga,
vedite.
36. zo ch’eo no dico a
linga: ciò che io non dico
con le parole (a linga).
37. novella: appena
composta, ma secondo
un’altra interpretazione,
straordinaria.
38. va’ canta: vai a
cantare.
39. lèvati da maitino:
alzati di buon mattino.
40. d’ogn’amorosa: di
ogni donna capace di
amore.
41. caro: prezioso.
42. ch’è nato da Lentino:
che si chiama da Lentini
oppure, secondo un’altra
interpretazione, che è
nativo di Lentini.
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
La poesia è strutturata secondo lo schema
della canzonetta, un componimento formato
da un numero variabile di stanze costruite in
modo simmetrico, composta, a differenza
della canzone (vedi a p. 33), solo da versi
brevi. In questo caso si tratta di sette stanze
in versi settenari, ciascuna delle quali consta
di una fronte divisa in due piedi identici (abc
abc) e di una sirma indivisa il cui verso conclusivo rima con l’ultimo verso del secondo
piede (ddc).
L’ultima stanza funge da congedo e, seguendo il modello di alcuni poeti provenzali,
si rivolge direttamente alla canzone (v. 55
Canzonetta novella), modalità questa che
successivamente sarà utilizzata anche dagli
stilnovisti e da Francesco Petrarca
Vedi Appendice
.
Nel testo sono presenti diversi esempi di rima
siciliana che, assimilando i suoni i a è e u a ó,
legano foneticamente le parole ora/pintura/figura (vv. 3, 6, 9), ascoso/incluso/amoroso (vv.
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30, 33, 36), avete/ascondete/vedrite (vv. 48,
51, 54). È probabile che questo tipo di rima,
considerato legittimo dagli scrittori del passato, sia una conseguenza della toscanizzazione della poesia siciliana operata dai copisti
e che, inizialmente, il v. 3 finisse con la parola
ura, i vv. 33, 36 suonassero ascusu/amurusu
e i vv. 48, 51 avite/ascondite.
Fedeli all’originario volgare siciliano sono invece le forme eo (vv. 7, 10), meo (v. 8), vio (v.
22) e zo (v. 53).
Oltre alle rime vere e proprie la poesia presenta una fitta trama di ripetizioni lessicali
come porto/porti (vv. 9, 10) e pass’ …
guardo/guardo … passo (vv. 35, 37) che collegano rispettivamente la prima alla seconda
stanza e la quarta alla quinta.
LE PAROLE CHIAVE
La selezione lessicale operata dai Siciliani è
estremamente rigorosa e la loro abilità tecnica si manifesta soprattutto nella capacità di
inventare artifici retorici sofisticati e comV. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
plessi, basandosi su una limitata partitura linguistica. Una delle strategie retoriche ricorrenti è costituita dall’iterazione, di cui si trova
un significativo esempio nella seconda stanza quando in quattro versi consecutivi il
verbo parere viene ripetuto con lievi variazioni semantiche che gli fanno assumere di
volta in volta il significato di sembrare (vv. 10,
13), apparire (v.11), essere visibile (v. 12).
Nella prima parte del componimento la ripetizione dei termini pintura/figura definisce alternativamente l’atto materiale del dipingere (vv. 4-6 om … pinge la simile pintura)
e la rappresentazione mentale e sentimentale dell’amata (v. 9 la tua figura; v. 11
pinta como parete, vv. 20, 21 dipinsi una
pintura bella, voi simigliante) con cui il poeta
si consola della sua assenza fisica (v. 23
guardo ’n quella figura).
I TEMI
Il poeta e l’amata: il tema dell’intenso innamoramento del poeta per una donna è uno stereotipo che non corrisponde affatto a una reale
esperienza autobiografica e la figura femminile
– sempre presente nelle liriche del Notaro – è
priva di qualsiasi determinazione concreta e
realistica e viene tratteggiata in modo stilizzato
ricalcando i motivi provenzali della bellezza (vv.
7, 39, 43, 58 bella) e della radiosa luminosità (v.
60 bionda più c’auro fino).
La fenomenologia amorosa: più dettagliata
e sentita è la descrizione dello stato d’animo
e dei sentimenti dell’amante che attraverso
sospiri e singhiozzi (vv. 41-44) manifesta ciò
che le sue parole non riescono a dire (v. 53).
Tuttavia, a differenza dei provenzali, Jacopo
da Lentini non giustifica il suo “silenzio” con
le convenzioni letterarie che imponevano di
tenere segreta la passione per riguardo all’onorabilità della donna ma con un rapido riferimento alla sua timidezza (v. 16 ch’eo son
sì vergognoso), che consente di attribuire al
poeta una maggiore capacità introspettiva
dei suoi predecessori.
LE FIGURE RETORICHE
I poeti siciliani esprimono la loro concezione
cortese dell’amore attraverso figure retoriche
costruite su immagini convenzionali che, attinte per lo più dal modello provenzale, avranno larga fortuna nella poesia d’amore dei secoli seguenti.
Nella prima stanza l’autore si serve di una si-
militudine per paragonare il processo che
porta il pittore a riprodurre fedelmente un oggetto dopo averne attentamente osservato
l’originale a quello attuato dal poeta-amante
per interiorizzare l’immagine della donna (vv.
4-9). Le due situazioni hanno in comune l’interesse totalizzante dei soggetti nei confronti
dei rispettivi modelli e la duratura persistenza
delle loro rappresentazioni.
Nella quarta strofa un’altra similitudine (vv.
28-33) esprime l’idea che la passione sia più
dolorosa se occultata e che, come il fuoco,
l’amore diviene più impetuoso e ardente
quando si cerca di soffocarlo.
L’INTERTESTUALITÀ
I tópoi dell’incontro con l’amata in grado di
provocare uno stato di estasi ma anche di
angosciosa paralisi (vv. 37-45) e della lode
alla bellezza della donna, qualche decennio
dopo verranno ripresi dai poeti stilnovisti
che li reinterpreteranno accentuando il legame tra la sublime apparizione femminile e
la perfezione di Dio.
Successivamente gli stessi temi saranno sviluppati con sensibilità più acuta da Petrarca
che si impossesserà anche di molte immagini care ai Siciliani, come la metafora del
fuoco ardente per rappresentare l’intensità
del sentimento amoroso.
In questo sonetto tratto dal Canzoniere, Petrarca Vedi Appendice descrive la passione
amorosa come un fuoco interiore che brucia
a tal punto da rendere palesi nel corpo i sentimenti che l’amante infelice vuol tenere celati.
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human la rena stampi.
5 Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
10 et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sì selvagge
cercar non so, ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Solo et pensoso…, in G. Contini, Letteratura italiana
delle origini, Sansoni, Milano 1982
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Per quale motivo il poeta non rivela alla donna il suo amore?
2 Che cosa lo spinge a costruire nella sua mente una fedele rappresentazione
dell’amata?
3 In che modo si manifestano la sofferenza e lo smarrimento dell’autore?
di
ffi
co
ltà
4 Che cosa chiede alla canzonetta nell’ultima strofa?
Analisi
LE
SS
IC
O
Il significante
Vedi a p. 50
5 Individua l’iterazione lessicale presente nella quarta stanza (vv. 28-36) e spiega a quale campo semantico essa si riferisce.
Le figure retoriche
Vedi a p. 52
6 Sottolinea la similitudine presente nella terza stanza e spiegane il significato indicando quali sono i termini di paragone.
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
la Scuola siciliana
on line
Produzione
7 Riassumi strofa per strofa il contenuto del testo.
8 Fa’ la parafrasi della poesia.
9 Elabora in forma scritta un confronto intertestuale tra la canzonetta di Jacopo da Lentini e il sonetto di Petrarca Solo et pensoso che hai appena letto, mettendo in evidenza gli elementi tematici che accomunano i tre componimenti.
APPROFONDIMENTO
Il dolce stil novo
Nel canto XXIV del Purgatorio Dante Vedi Appendice definisce Dolce Stil Novo la corrente poetica
sviluppatasi tra il 1280 e il 1310 a Firenze e a Bologna all’interno della nuova classe borghese, politicamente influente e dotata di una cultura raffinata: a questo movimento letterario appartengono,
tra gli altri, lo stesso Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Guido Guinizzelli.
Il termine dolce si riferisce alla scelta di adottare uno stile terso e musicale e una sintassi semplice
e limpida dalla quale sono escluse le espressioni lessicali caratteristiche del parlato; l’aggettivo
novo sottolinea la modalità nuova con cui si interpreta il sentimento amoroso, che costituisce il
tema unico della poesia stilnovista. I poeti stilnovisti celebrano la donna-angelo, la cui perfezione
nobilita l’amore terreno, trasformandolo in una forza spirituale in grado di operare una prodigiosa
metamorfosi interiore nell’animo di chi ne fa esperienza.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Pier della Vigna
Però c’Amore
no si pò vedere
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
l’intertestualità
LA POESIA
Per i poeti siciliani il tema dell’amore è spesso al centro di discussioni teoriche, come accade nella tenzone, di cui riportiamo una parte, nella quale Jacopo Mostacci, Pier delle Vigne e Jacopo da Lentini dibattono sulla natura di
questo sentimento.
Jacopo Mostacci sostiene che la disposizione ad amare, caratteristica degli esseri umani, non sia in sé una prova dell’esistenza reale dell’amore, visto che
l’esperienza comune dimostra che esso no parse ni pare (non si è mai veduto e
non si vede). A ciò Pier delle Vigne controbatte affermando che, pur non essendo
né visibile né tangibile, l’Amore può essere considerato una sostanza reale proprio in virtù della forza invincibile che esercita sulla volontà degli uomini.
l’extratestualità
Però c’Amore no si pò vedere1
e no si tratta corporalemente,2
manti ne son de sì folle sapere3
che credono c’Amor[e] sia nïente.4
5
10
METRO
sonetto costituito da
due quartine a rima
baciata e due terzine
a rima replicata
Ma po’ ch’Amore si face sentire5
dentro dal cor signoreggiar la gente,6
molto maggiore pregio de[ve] avere7
che se ’l vedessen visibilemente.8
Per la vertute de la calamita
como lo ferro at[i]ra no se vede,9
ma sì lo tira signorivolmente;10
e questa cosa a credere mi ’nvita11
ch’Amore sia, e dàmi grande fede12
che tutor sia creduto fra la gente.13
da Però c’Amore no si pò vedere, in Poesia Italiana.
Duecento, a cura di C. Segre e C. Ossola,
Einaudi-Gallimard, Torino 1997
1. Però c’Amore no si pò vedere: poiché l’Amore non si può vedere.
I versi iniziali riprendono l’argomento sostenuto da Jacopo Mostacci
nel sonetto precedente.
2. e no si tratta corporalemente: e non si può toccare fisicamente.
3. manti ne son de sì folle sapere: parecchi (manti) sono di
un’opinione tanto folle; manti è un gallicismo.
4. che credono c’Amor[e] sia nïente: da sostenere che l’Amore non
sia niente, dunque non esista. Pier delle Vigne si riferisce
polemicamente all’opinione di Mostacci e a quella sostenuta da
Jacopo da Lentini nella tenzone con l’abate di Tivoli del 1241.
5. Ma po’ ch’Amore si face sentire: ma quando l’amore si fa
sentire.
6. dentro dal cor signoreggiar la gente: e domina il cuore della
gente.
7. molto maggiore pregio de[ve] avere: dimostra di avere molta più
forza (pregio).
8. che se ’l vedessen visibilemente: che se lo si vedesse
effettivamente.
9. Per la vertute de la calamita como lo ferro at[i]ra no se vede:
come non è visibile (no se vede) la facoltà (vertute) della calamita di
attirare il ferro.
10. ma sì lo tira signorevolmente: eppure essa lo attrae con forza
incontrastabile (signorivolmente).
11. e questa cosa a credere me ’nvita: e ciò mi spinge a credere.
12. ch’Amore sia, e dàmi grande fede: che l’Amore esista, e mi dà
una grande fiducia in questa opinione.
13. che tutor sia creduto fra la gente: che sempre (tutor) la gente
gli ubbidisca; tutor è un gallicismo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la Scuola siciliana
36
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Pier della Vigna (o delle Vigne) nasce a Capua intorno al 1190 da una famiglia
di origini modeste e successivamente studia diritto all’Università di Bologna. La
sua presenza alla corte di Federico II è attestata fin dal 1220, quando ricopre
l’incarico di notaio. Nel 1225 viene nominato giudice della Magna Curia e contribuisce alla realizzazione delle Costituzioni di Melfi, il codice legislativo emanato
da Federico II.
Raggiunge il culmine della carriera nel 1247 quando viene eletto cancelliere di
corte, capo della cancelleria imperiale e logoteta (funzionario preposto al bilancio e ai conti).
Nel 1249 viene arrestato a Cremona perché sospettato di tradimento e detenuto
in un carcere toscano dove viene accecato per ordine del re. Nello stesso anno muore in circostanze
oscure, probabilmente suicida.
I più importanti scritti di Pier delle Vigne sono in latino, lingua nella quale compone un Epistolario che rivela una raffinata conoscenza delle tecniche retoriche ed espositive dei prosatori d’arte, ma come molti
funzionari di corte è anche autore di alcune canzoni e di un sonetto in volgare siciliano.
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Il componimento di Pier delle Vigne è parte
di una tenzone, una forma di dibattito in versi
su un tema tra due o più interlocutori – in
questo caso Jacopo Mostacci, l’autore stesso e Jacopo da Lentini – che espongono le
loro opinioni sull’argomento prescelto utilizzando la forma del sonetto.
La poesia proposta è costituita da due quartine a rima baciata (ABAB ABAB) e due terzine a rima replicata (CDB CDB) in una
struttura metrica parzialmente continua in
quanto la rima A delle prime due strofe si ripete in quelle successive, mentre nella risposta di Pier delle Vigne viene ripresa la rima in
-ire presente nella proposta con cui Mostacci
apre la discussione. Questo procedimento si
chiama “risposta per le rime”, da cui deriva
un modo di dire in uso ancor oggi.
LE PAROLE CHIAVE
La parola chiave del testo è amore che l’autore personifica mediante la scelta strategica
della maiuscola (vv. 4, 5, 13) per rafforzare la
tesi secondo cui esso esiste ed è una sostanza dotata di forza effettiva.
Nel selezionato tessuto lessicale del poeta
spiccano inoltre il verbo signoreggiar (v. 6) e
l’avverbio signorivolmente (v. 11) che, accomunati dalla medesima radice “signor”, definiscono l’impotenza dell’uomo nei confronti
della passione amorosa facendo riferimento
al rapporto di subalternità, tipico della società
del tempo, che vincola i sudditi al sovrano.
I TEMI
La natura dell’Amore: la tenzone poetica
cui Pier delle Vigne prende parte testimonia
del clima culturale che si respira alla corte
imperiale, esemplificando l’astratto intellettualismo dei poeti siciliani, che in questa occasione si servono della loro grande abilità
tecnica per discutere in versi un tema di carattere filosofico, ossia quale sia la natura
dell’amore e se esso possa o no essere ritenuto una sostanza dotata di esistenza propria.
Nel sonetto che apre la tenzone Jacopo Mostacci sostiene che ciò che non è percepibile
con i sensi non esiste e di conseguenza
l’amore – che non si vede né si tocca – non
può essere considerato una sostanza reale.
Al ragionamento di Mostacci, Pier delle Vigne
oppone il valore dell’esperienza affermando
che la capacità dell’amore di dominare la volontà degli uomini è una dimostrazione della
forza di questo sentimento e di conseguenza
ne attesta l’esistenza.
Il complesso ragionamento sviluppato dai
due poeti, che si concluderà con il sonetto di
Jacopo da Lentini secondo cui l’amore è un
desiderio che nasce nel cuore stimolato dalla
vista dell’amata, è un’ulteriore conferma del
fatto che per i Siciliani l’interesse per le tematiche amorose non ha alcun rapporto
con la loro vita emotiva e sentimentale o con
una donna reale, ma è piuttosto uno stru-
mento per esibire la propria superiorità
culturale e sociale.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
LE FIGURE RETORICHE
La similitudine che collega la forza invisibile
ma potentissima dell’Amore alla facoltà della
calamita di attirare il ferro (vv. 9-11) appartiene al vasto repertorio retorico dei Siciliani
che, in modo maggiore rispetto ai provenzali,
mostrano una spiccata predilezione per i paragoni basati sugli elementi naturali – fuoco,
mercurio, argento vivo, pietre dure – le cui
peculiarità ricavano da enciclopedie, bestiari
e lapidari (raccolte sulle virtù mediche e magiche delle pietre), dimostrando così la loro
ampia cultura e allo stesso tempo il deciso
interesse della corte di Federico II nei confronti delle scienze.
L’INTERTESTUALITÀ
La figura di Pier delle Vigne ci è nota soprattutto grazie a Dante Alighieri, che nel XIII
canto dell’Inferno lo colloca nella selva dei
suicidi, riabilitandolo senza alcuna prova concreta dall’accusa di tradimento e rappresentandolo come un uomo di corte che, fedele
al proprio signore, viene colpito dalle invidiose calunnie di chi gli sta accanto.
Nelle parole con cui si rivolge a Dante e a Virgilio, Pier delle Vigne – mutato in un macabro
albero sanguinante – riassume la fulminea
parabola della sua vita, dai prestigiosi incarichi attribuitigli dall’imperatore alla fine ingloriosa, segnato dal discredito e dal disprezzo,
circostanze queste che per molto tempo faranno della sua figura il simbolo stesso dell’instabilità della Fortuna.
dendo tanto dolcemente da allontanare da lui
ogni altro; e restai tanto fedele al mio prestigioso incarico da perdere la pace e la vita.
Lʼinvidia, che mai allontanò i suoi occhi disonesti dalla corte imperiale, causa di rovina per
tutti e vizio delle corti, infiammò contro di me
tutti gli animi; e coloro che ardevano dʼinvidia
infiammarono tanto lʼimperatore che i miei gloriosi incarichi si trasformarono in tristi lutti. Credendo di fuggire la vergogna con la morte, per
un amaro piacere il mio animo mi spinse a
compiere contro di me, che ero giusto, un atto
ingiusto. Per le strane radici di questo albero,
vi giuro che mai ho infranto la fedeltà al mio
signore, che fu tanto degno di onore.
L’EXTRATESTUALITÀ
La causa dell’arresto di Pier delle Vigne, personaggio di primo piano alla corte di Federico II, e le modalità misteriose della sua
morte non sono ancor oggi del tutto chiarite,
ma l’ipotesi più accreditata è che sia stato
accusato di tradimento – quanto a ragione
non sappiamo – cosa di cui egli mostra di essere preoccupato in questa lettera, tratta dal
suo epistolario e indirizzata all’imperatore al
quale ribadisce la propria lealtà.
da Inferno, in Divina Commedia, SEI, Torino 2008
Oltre a ciò, o clementissimo tra i principi, se mi è concesso non nascondere un mio cruccio, vorrei parlare,
se pure con qualche timore, del fatto che nella vostra
lettera v’è una benevola espressione che mi ha sbigottito, là dove dite: “Ti raccomandiamo vivamente che, nel servirci, tu ti mostri, come al solito, scrupoloso e sollecito soprattutto dei nostri interessi, poiché, sebbene in queste incombenze ti abbiamo dato dei
collaboratori, tuttavia è noto che la serenità nostra
conta esclusivamente su di te”.
Confesso, o signore, che in queste parole risuona una
grande benevolenza nei miei riguardi, a meno che non
significhino proprio l’opposto e vogliano essere un’accusa alla mia pigrizia e una sferzata alla mia negligenza. In questo caso, se c’è chi mi ha accusato di
ciò, si tratta di una lingua maledica che calunnia un
innocente; e chi si compiacque di far questo, sia uomo
o angelo, anche se d’ uomo o d’angelo ha il nome, ha
sprecato il fiato tra i figli della verità. E son certo che,
per quanto vicino possa esservi colui che così mi denigra, se l’altissimo mi concede di restare ai vostri piedi, l’iniquità contro di me dovrà chiudere la bocca.
Ma il Signore ponga fine, e presto, a queste chiacchiere, in modo da smascherare costoro, da rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra noi, da ricondurre il padre al figlio, il benefattore e signore al
suo fedele.
Io sono colui che tenne entrambe le chiavi del
cuore di Federico e le adoperai aprendo e chiu-
da Lettera a Federico II (traduzione di Tilde Nardi),
in G. Contini, Letteratura italiana delle origini,
Sansoni, Milano 1982
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
38
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 In quale situazione viene scritto e a chi è rivolto il sonetto di Pier delle Vigne?
2 Come considera l’autore coloro che non credono nell’esistenza dell’amore?
di
ffi
co
ltà
3 A che cosa l’autore paragona la forza dell’amore?
Analisi
Il significante
Vedi a p. 10, 12 e 24
4 Quale lunghezza metrica hanno i versi in questo componimento?
5 Individua la rima siciliana (vedi a p. 333) presente nelle due quartine iniziali.
6 Quale figura metrica è presente nella parola nïente (v. 4)? Qual è la sua funzione?
I temi
Vedi a p. 76
7 Per quali ragioni il contendente di Pier delle Vigne sostiene che l’amore non
esiste?
8 Qual è invece la tesi dell’autore? Con quali argomentazioni la sostiene?
Le figure retoriche
Vedi a p. 50
9 Nel testo sono presenti alcuni esempi di iterazione lessicale: quali sono?
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
la Scuola siciliana
on line
Produzione
10 Fa’ la parafrasi della poesia.
11 E tu che cosa pensi sia l’amore? Esponi il tuo punto di vista sulla questione
in un breve testo in prosa .
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
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volume
B
39
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Federico II
Dolze meo drudo
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
LA POESIA
Scrivere poesie è segno di aristocratica appartenenza e anche Federico, promotore e sostenitore della Scuola siciliana non può esimersi dal partecipare
in prima persona all’attività letteraria dei suoi funzionari. A lui viene attribuito
questo commiato, un dialogo tra due amanti costretti a separarsi a causa di
un imprecisato impegno bellico (forse una crociata?) cui l’uomo non può sottrarsi. È un componimento unico nel suo genere non solo perché nasce dall’ispirazione di uno degli uomini più potenti del tempo ma anche perché è
l’unico tra i testi dei Siciliani di cui sia stato rinvenuto un accompagnamento
musicale (che però risale al XIV secolo).
l’intertestualità
l’extratestualità
5
10
15
“Dolze meo drudo, e vaténe!1
meo sire, a Deo t’acomando,2
ché ti diparti da mene3
ed io tapina rimanno.4
Lassa, la vita m’è noia,5
dolze la morte a vedere,6
ch’io non penso mai guerire7
membrandome fuor di gioia.8
METRO
canzone formata da
cinque stanze in versi
ottonari
Membrandome che ten vai,9
lo cor mi mena gran guerra:10
di ciò che più disïai
mi tolle lontana terra11.
Or se ne va lo mio amore
ch’io sovra gli altri l’amava:12
biasmomi de la Toscana,13
che mi diparte lo core.14”
“Dolce mia donna, lo gire
non è per mia volontate,15
1. Dolze meo drudo, e vaténe: dolce mio amico (drudo), allora (e)
va’(vaténe).
2. meo sire, a Deo t’acomando: mio signore, ti affido (t’acomando) a
Dio.
3. ché ti diparti da mene: poiché ti allontani (ti diparti) da me (mene).
Nella parola mene è presente un’epitesi, che consiste nell’aggiunta
della sillaba finale ne con valore rafforzativo.
4. ed io tapina rimanno: e io misera (tapina) rimango; tapina è
un’espressione lessicale popolareggiante.
5. Lassa, la vita m’è noia: afflitta (Lassa), la vita è per me profonda
pena (m’è noia).
6. dolze la morte a vedere: la prospettiva della morte (la morte a
vedere) è dolce.
7. ch’io non penso mai guerire: poiché non penso di poter mai
guarire.
8. membrandome fuor di gioia: pensando me stessa
(membrandome) senza (fuor di) gioia.
9. Membrandome che ten vai: pensando (Membrandome) che te ne
vai.
10. lo cor mi mena gran guerra: il mio cuore si agita (mi mena gran
guerra).
11. di ciò che più disïai mi tolle lontana terra: una terra lontana mi
strappa (mi tolle) ciò che più amai (disïai ). Nei versi successivi si
chiarisce che l’amato sta per partire per la Toscana.
12. Or se ne va lo mio amore ch’io sovra gli altri l’amava: ora se
ne va il mio amore, che io più di tutto amavo.
13. biasmomi de la Toscana: rimprovero (biasmomi) la Toscana.
14. che mi diparte lo core: che mi spezza (diparte) il cuore.
15. Dolce mia donna, lo gire non è per mia volontate: mia dolce
donna la partenza (lo gire) non dipende dalla mia volontà.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la Scuola siciliana
20
25
30
35
ché mi convene ubidire
quelli che m’ha ’n potestate.16
Or ti conforta s’io vado,17
e già non ti dismagare,18
ca per null’altra d’amare,
amor, te non falseraggio.19
Lo vostro amore mi tene
ed hami in sua segnoria,20
ca lëalmente m’avene
d’amar voi sanza falsìa.21
Di me vi sia rimembranza22
[e] non mi aggiate ’n obrìa,23
c’avete in vostra balìa
tutta la mia disïanza.24
Dolze mia donna, commiato
domando sanza tenore:25
che vi sia racomandato,
che con voi riman mio core.26”
“Cotal è la ’namoranza
degli amorosi piaceri27
che non mi posso partire
da voi, [mia] donna, in lëanza.28”
Dolze meo drudo, in G. Contini, Letteratura italiana
delle origini, Sansoni, Milano 1982
Federico II, figlio dell’imperatore Enrico VI degli Hohenstaufen di Svevia e di
Costanza d’Altavilla, nasce a Jesi nel 1194. Nel 1195 il padre lo incorona re
di Germania e tre anni dopo gli attribuisce il titolo di re di Sicilia. Successivamente viene nominato re d’Italia e nel 1220 è incoronato imperatore dal
papa Onorio III con il nome di Federico II.
A differenza dei suoi predecessori, stabilisce il centro dell’Impero in Italia,
precisamente in Sicilia, da cui governa i suoi vasti domini con l’obiettivo di restaurare l’autorità regia. Il tentativo di limitare l’ingerenza politica della Chiesa
è però motivo di continui scontri con papa Gregorio IX, che nel 1227 arriva a
scomunicarlo poiché non ha rispettato l’impegno di partire per una crociata.
Allo scopo di ridimensionare l’autonomia della nobiltà feudale e delle città, Federico II vara le Constitutioni melfitane (1231), un insieme di leggi che rafforzano il potere imperiale
contro ogni forma di particolarismo e costituiscono l’ossatura del suo Stato centralizzato. Muore nel
1250.
Il regno di Federico II è caratterizzato da una grande apertura culturale: l’imperatore fonda a Napoli la
prima Università Statale d’Occidente e dà impulso alla Scuola medica di Salerno. Convinto protettore
di artisti e letterati, fa della sua corte il luogo di incontro tra le diverse culture del Mediterraneo, richiamando presso di sé intellettuali e scienziati da ogni luogo.
Scrittore egli stesso, è autore del trattato latino De arte venandi cum avibus, dedicato alla caccia con
il falcone. Gli sono inoltre stati attribuiti sei componimenti poetici in volgare.
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16. ché mi convene ...
potestate: poiché devo
(mi convene) ubbidire
a colui che ha potere
(’n potestate) su di me.
17. Or ti conforta s’io
vado: ora consolati
(ti conforta), anche se io
parto.
18. e già non ti
dismagare: e non
scoraggiarti (ti dismagare).
19. ca per null’altra ...
falseraggio: perché,
amore, non ti ingannerò
(falseraggio) per nessuna
altra donna (null’altra
d’amare).
20. Lo vostro amore ...
segnoria: l’amore per voi
mi lega e mi tiene in suo
potere (hami in sua
segnoria). Il passaggio dal
tu al voi non è insolito nei
poeti siciliani (vedi Jacopo
da Lentini,
Meravigliosamente…
a p. 331).
21. ca lëalmente ...
sanza falsìa: poiché
davvero (lëalmente) mi
accade (m’avene) di
amarvi senza inganni.
22. Di me vi sia
rimembranza: conservate
il mio ricordo
(rimembranza).
23. [e] non mi aggiate
’n obrìa: e non mi abbiate
(no mi agiate) in oblio
(’n obrìa), cioè non
dimenticatemi.
24. c’avete in vostra
balìa tutta la mia
disïanza: poiché avete in
vostro potere (balìa) tutti i
miei desideri (disïanza).
25. commiato domando
sanza tenore: chiedo di
andare (commiato
domando) senza indugio
(tenore).
26. che vi sia ... mio
core: mi raccomando a voi,
a cui lascio il mio cuore.
27. Cotal è ... piaceri: tale
l’attrattiva (la ’namoranza)
del piacere d’amore.
28. che non mi posso ...
in lëanza: che, in fede mia
(in lëanza), da voi non
posso separarmi. Dal
momento che, poco prima,
l’amante ha dichiarato di
dover partire senza indugio
(vv. 33-34), va considerato
soggetto di questi ultimi
quattro versi il core che,
secondo un tópos della
lirica provenzale, ha preso
dimora presso la donna.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
APPROFONDIMENTO
La modernità di Federico II
Federico II è una personalità complessa e tanto controversa da poter essere definito da Pier delle
Vigne come “il salvatore inviato da Dio, il principe della pace, il messia-imperatore” e dal papa
Gregorio IX come “la bestia che sorge dal mare carica di nomi blasfemi […] e spalanca la bocca ad
offesa del Santo Nome senza cessare di scagliare la stessa lancia sul tabernacolo di Dio e sui Santi
che abitano nei cieli“.
Convinto sostenitore dell’autonomia del potere imperiale, Federico II combatte una lotta durissima contro l’insubordinazione di vescovi e baroni avvezzi a governare i loro territori senza alcun
controllo, stabilendo che nessuno possa conservare possessi e privilegi di cui non sia in grado di
presentare i titoli legittimi. Impone inoltre l’abbattimento di fortificazioni e castelli eretti senza
permesso imperiale e arroga a sé l’esercizio della giustizia penale, che sottrae all’arbitrio della nobiltà, rispondendo con le armi alle rivolte dei feudatari e scacciando i vescovi ribelli dalle loro sedi.
Scomunicato dal Papa per essersi rifiutato di guidare una crociata, finalmente nel 1228 parte alla
volta di Gerusalemme ma qui, invece di combattere, intavola con il sultano d’Egitto Malik alKamil una lunga trattativa al termine della quale Gerusalemme, Betlemme e Nazareth passano
sotto l’amministrazione cristiana per la durata di dieci anni, mentre ai musulmani viene garantito
l’accesso ai loro luoghi sacri.
Questa azione più diplomatica che religiosa, conclusasi senza spargimenti di sangue, non viene
affatto apprezzata dalla Chiesa, come testimonia Salimbene da Adam nella sua Chronica: “Avendolo infatti mandato la Chiesa oltremare per recuperare la Terra Santa, egli fece pace con i Saraceni
senza alcun vantaggio per i Cristiani. E per di più fece invocare il nome di Maometto pubblicamente
nel tempio dei Signore”.
Federico dà prova di grande lungimiranza politica quando affronta il problema della pacificazione della Sicilia, periodicamente afflitta da rivolte della numerosa e radicata comunità musulmana. Tra il 1224 e il 1300 fa trasferire forzatamente a Lucera, nei pressi di Foggia, circa ventimila
musulmani a cui, in cambio del pagamento di una tassa, viene concesso il diritto
di scegliersi il capo e gli organi di vigilanza e di conservare la propria religione, costruire moschee e minareti e vivere
secondo le proprie usanze. Quest’inedita
decisione costa a Federico aspri rimproveri da parte del Papa, ma trasforma gli antichi ribelli nei più fedeli sudditi dell’imperatore che li arruola permanentemente come
arcieri nell’esercito e dei migliori fa la propria guardia del corpo.
La sua distanza dai pregiudizi del tempo
si osserva anche nel modo in cui modifica
la posizione giuridica degli ebrei che fino
a quel momento non godono di alcun diritto civile: nelle Costituzioni Melfitane Federico II li parifica ai cristiani nel diritto di
difesa e di protezione. Inoltre, riconoscendo che essi sono odiati dai cristiani e
pertanto particolarmente soggetti alle loro
persecuzioni, vieta che vengano insultati a
causa della diversità di fede, che vengano
battezzati con la violenza o contro la loro
volontà e che siano sottoposti alla prova
del ferro arroventato, dell’acqua bollente o
gelata o ad altre torture per estorcere loro
una confessione.
Federico II incontra il sultano Malik al-Kamil, miniatura dalla Nova cronica
di Giovanni Villani, XIV secolo.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
la Scuola siciliana
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STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Questo componimento, attribuito all’imperatore Federico II, appartiene al genere del
contrasto o discordo, una variazione del
canto d’amore cortese accompagnato da
musica di origine provenzale, che esprimeva
il turbamento dell’amante mediante la discordanza metrica e melodica delle stanze.
Anche in area germanica esistevano testi analoghi, detti wechsel, basati su uno
scambio di versi di argomento amoroso tra
un uomo e una donna, alla cui composizione
si era dedicato anche l’imperatore Enrico VI,
padre di Federico. Attraverso questa poesia
è perciò possibile ricostruire almeno parzialmente la fitta rete di rapporti culturali esistenti tra aree geografiche diverse. Federico,
infatti, oltre a conoscere bene la lingua latina, greca e araba, padroneggia il tedesco,
parlato dal padre, l’idioma franco-normanno
della madre e il volgare illustre siciliano elaborato dalla Scuola poetica fondata presso
la sua corte e pertanto non deve stupire che
nella sua produzione letteraria affiorino e si
mescolino generi e temi di varia origine.
Il testo è formato da cinque stanze in versi
ottonari, ciascuna delle quali è suddivisa in
Corrado IV di Svevia, secondogenito di Federico II,
in una battuta di caccia con falcone, miniatura
dal Codex Manesse, XIII secolo.
Miniatura dal Codex
Manesse, XIII secolo.
una fronte di due piedi uguali (abab) e una
sirma (cddc). Come quasi tutti i componimenti della Scuola siciliana, anche questo ci
è stato tramandato nella versione manoscritta dai copisti di area toscana e pertanto,
quelle che a noi oggi paiono rime imperfette
o assonanze, con molta probabilità originariamente suonavano come rime perfette. Un
esempio è costituito dalla rima siciliana dei
vv. 6-7, che vanno letti come vediri/gueriri,
dei vv. 21-24, e dei vv. 38-39, da leggere rispettivamente come vaiu/falseraiu e piaciri/
partiri.
Vanno considerate invece semplici assonanze i legami fonici che legano i vv. 2-4
(acomando/rimanno) e i vv. 14-15 (amava/
Toscana).
Questo commiato è uno dei primissimi
esempi di poesia dialogata nell’ambito
della Scuola siciliana. Anche se il testo tramandatoci non permette di distinguere con
certezza assoluta le voci dei personaggi dialoganti, l’ipotesi più plausibile attribuisce alla
donna le prime due strofe (vv. 1-15), all’uomo quelle successive fino al v. 36, mentre i versi conclusivi (vv. 37-40) dovrebbero
essere pronunciati dal “cuore dell’uomo”
che, secondo un tópos della tradizione trobadorica, rimane con la donna.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
LE PAROLE CHIAVE
Nel componimento, modellato sul canone linguistico del siciliano illustre, sono presenti diverse espressioni mutuate dal linguaggio
amoroso dei trovatori, come l’aggettivo
dolze (vv. 1, 6, 33) alternato a dolce (v. 17) e
i sostantivi con desinenza provenzale -anza
come rimembranza (v. 29), disïanza (v. 32),
’namoranza (v. 37) che definiscono i momenti
fondamentali dell’esperienza amorosa.
I TEMI
Dialogo tra innamorati: i versi riportano il
dialogo tra un cavaliere in procinto di partire
e la sua amata rattristata dalla prospettiva
dell’imminente separazione, modulando lo
scambio di battute secondo i tópoi della poesia cortese. La donna lamenta che l’allontanamento dell’amato le sottrae la gioia di
vivere (v. 5 la vita m’è noia; v. 8 fuor di gioia),
l’uomo ribadisce l’autenticità dei suoi sentimenti (vv. 25-26 Lo vostro amore mi tene / ed
hami in sua segnoria), le promette fedeltà e
lealtà (vv. 27-28 ca lëalmente m’avene /
d’amar voi sanza falsìa) e conclude affermando che, anche quando sarà partito, il suo
cuore rimarrà con lei (v. 36 che con voi riman
mio core).
La situazione narrata è quasi del tutto avulsa
dalla realtà, neanche un dettaglio illustra le
caratteristiche dei personaggi e non è espli-
citato il motivo per cui l’uomo debba partire
e dove sia destinato. I fugaci accenni alla
terra lontana (v. 12 lontana terra) e alla Toscana (v. 15 biasmomi de la Toscana) non
contribuiscono a dare alla situazione contorni
più certi e sembrano essere scelti soprattutto
per la loro capacità allusiva di sottolineare
l’enorme distanza che separerà la coppia.
Il conflitto tra Amore e necessità: nonostante l’abilità letteraria di Federico II sia testimoniata da più voci – il cronista Salimbene
de Adam scriveva che l’imperatore “sapeva
leggere, scrivere, cantare e comporre canzoni
e poesie” – alcuni studiosi dubitano che egli
sia l’autore di questo componimento perché
le parole con cui l’innamorato giustifica la
propria partenza con l’ubbidienza dovuta ad
un superiore (vv. 17-20 Dolce mia donna, lo
gire / non è per mia volontate, / ché mi convene ubidire / quelli che m’à ’n potestate)
sembrano incompatibili con la potenza di un
imperatore. Questa osservazione non considera il fatto che anche per Federico, come
per gli altri poeti della Scuola siciliana, la
poesia non ha alcuna connotazione autobiografica ma è uno strumento intellettuale
che consente di esibire la propria abilità nel
comporre, sviluppando tematiche convenzionali o dibattendo teorie accuratamente selezionate dagli appartenenti al gruppo. In
questo senso, la situazione descritta nel
commiato non lo riguarda personalmente ma
potrebbe avere un valore esemplare dimostrando l’insanabile contrasto tra la forza
della passione e la necessità che costringe
gli uomini a separarsi da ciò che amano.
LE FIGURE RETORICHE
Trovatori, miniatura
dalle Càntigas de Santa
Maria, XIII secolo.
L’iterazione lessicale, consueta nella poesia siciliana, sottolinea l’importanza sentimentale del ricordo (v. 8 membrandome, v. 9
membrandome, v. 29 rimembranza). In particolare, tra i vv. 8 e 9 l’autore ricorre all’artificio retorico delle coblas capfinidas – codificato nella tradizione provenzale e consistente nella ripresa nel primo verso della
stanza di una parola o di un’espressione contenuta nell’ultimo verso del precedente – che
in questo caso ha soprattutto una funzione
dialogica perché segna il passaggio da un
interlocutore all’altro.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Chi sono i protagonisti del componimento?
2 Qual è l’origine della loro sofferenza?
3 Che cosa chiede l’uomo alla donna?
di
ffi
co
ltà
4 Che cosa le promette?
Analisi
Il significante
Vedi a p. 50
5 Individua l’iterazione lessicale con variazione semantica presente nelle stanze 1 e 2.
LE
SS
IC
O
LE
SS
IC
O
Le parole chiave
Vedi a p. 62
6 Evidenzia le espressioni utilizzate dall’autore per definire la sincerità dell’amore
tra i protagonisti del commiato e osserva se esse vengono messe in rilievo
da particolari artifici retorici.
I temi
Vedi a p. 76
7 Definisci con tre sostantivi lo stato d’animo e i sentimenti dei due protagonisti del colloquio.
Stato d’animo della donna
Stato d’animo dell’uomo
1
1
2
2
3
3
Le figure retoriche
Vedi a p. 52
8 Indica quale figura retorica si cela nel verso lo cor mi mena gran guerra (v. 10)
e spiegane il significato.
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
la Scuola siciliana
on line
9 Trascrivi il testo in italiano corrente attribuendo le strofe alle rispettive voci
dialoganti.
10 Attualizza la situazione descritta nella poesia e scrivi un dialogo tra due persone dei giorni nostri costrette a separarsi per causa di forza maggiore.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
B
on line
volume
B
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
I poeti
siculo-toscani
Nel 1250 muore Federico II e pochi anni dopo suo figlio Manfredi viene sconfitto e ucciso dalle truppe di Carlo I d’Angiò nella battaglia di Benevento (1266). La
fine della dinastia sveva comporta la scomparsa della Scuola siciliana, che del
progetto imperiale di Federico è stata la più alta espressione ideologica. Tuttavia l’eredità culturale della Magna Curia non si disperde ma viene accolta e
assorbita in altri ambiti territoriali, soprattutto in Toscana dove gode di grandissimo prestigio.
Con l’espressione poeti siculo-toscani si definisce un ampio gruppo di rimatori tra loro assai eterogenei, originari per lo più delle maggiori città toscane, che
riprendono nel loro volgare temi e convenzioni stilistiche dei Siciliani per conservarne gli insegnamenti, trasmetterne e diffonderne il patrimonio espressivo allo scopo di far sopravvivere una civiltà letteraria che considerano un modello esemplare di raffinatezza formale.
Per questi poeti scrivere significa innanzitutto imitare più o meno fedelmente
il modello siciliano e occitanico, ma nonostante i vincoli imposti dall’osservanza
del canone tradizionale, alcuni di essi sono artefici di importanti innovazioni sul
piano metrico, stilistico e tematico che sono anche il frutto del diverso contesto sociale e politico in cui operano e che assumeranno un peso determinante
nel successivo sviluppo della letteratura italiana. A differenza dei loro predecessori,
la cui poesia fiorisce all’interno di una corte (feudale nel caso dei poeti provenzali, imperiale per i Siciliani), i poeti siculo-toscani vivono infatti in città organizzate come liberi comuni e caratterizzate da un forte dinamismo sociale
ma anche da un’accentuata conflittualità che si manifesta in continue guerre territoriali e, soprattutto, in laceranti lotte interne che oppongono famiglie e fazioni avversarie. Mentre i Siciliani, ligi e ubbidienti funzionari di un imperatore autoritario e accentratore, si esprimevano sviluppando temi e argomenti totalmente
avulsi dalla realtà contingente, i poeti siculo-toscani sono in primo luogo cittadini che vivono intensamente i contrasti e i conflitti del loro tempo. Per questo motivo, pur teorizzando una poesia sostanzialmente astorica, nei loro testi
– principalmente nelle canzoni politiche – emerge in modo più o meno intenso
la complessità del mondo circostante.
La trasposizione dei componimenti dei Siciliani nel volgare toscano attribuisce
un ruolo decisivo a quest’area geografica, che si estende a nord fino a Bologna
e a est fino a Faenza, in una dimensione sovra cittadina assimilabile a quella sperimentata dai poeti siciliani. E anche se il linguaggio dei Siculo-toscani, innervato di formule convenzionali, appare ancora più artefatto e lontano dal parlato
di quello dei loro modelli, esso va considerato un importante momento di transizione nel processo che qualche decennio dopo porterà il volgare fiorentino ad assumere il ruolo di lingua letteraria dominante.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
i poeti siculo-toscani
46
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Guittone d’Arezzo
Ahi lasso, or è stagion...
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
l’intertestualità
LA POESIA
Questa canzone politica, di cui, a causa delle notevoli difficoltà linguistiche,
ti proponiamo solo la prima strofa, è una delle più note di Guittone e trae spunto
dalla battaglia di Montaperti del 1260, conclusasi con la disfatta di Firenze,
un evento storico che assunse un grande significato per gli uomini del tempo.
Inizialmente l’autore – aretino di nascita ma guelfo per posizione (vedi la rubrica
L’extratestualità negli Strumenti di lettura a p. 349) e perciò politicamente vicino a Firenze – lamenta la fine della gloriosa città, contrapponendo la miseria
del presente alla grandezza del passato. Ma nelle strofe successive il suo dolore si muta in amaro sarcasmo e nella conclusione egli ironizza polemicamente sul Comune sconfitto, attribuendogli una potenza di cui è ormai privo.
l’extratestualità
METRO
canzone formata da
due piedi in versi
endecasillabi e da
una sirma nella quale
compaiono alcuni
settenari
5
10
Ahi lasso,1 or è stagion de doler tanto2
a ciascun om che ben ama ragione,3
ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,4
ca morto no l’ha già corrotto e pianto,5
vedendo l’alta Fior sempre granata6
e l’onorato antico uso romano7
ch’ a certo pèr, crudel forte villano,8
s’avaccio ella no è ricoverata:9
ché l’onorata sua ricca grandezza
e ’l pregio quasi è già tutto perito10
e lo valor e ’l poder si desvia.11
Oh lasso, or quale dia12
fu mai tanto crudel dannaggio audito?13
Deo, com’hailo sofrito,14
Deritto pèra e Torto entri ’n altezza?15
da Ahi lasso, or è stagion…, in G. Contini,
Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Milano 1982
Guittone del Viva di Michele nasce ad Arezzo da un’agiata famiglia borghese di parte
guelfa (vedi la rubrica L’intertestualità negli Strumenti di lettura a p. 349). Per l’acutizzarsi dei contrasti tra guelfi e ghibellini, nel 1263 viene esiliato dalla città e poco dopo,
con il nome di frate Guittone, entra a far parte della congregazione dei Milites Beatae
Virginis Mariae, comunemente detta dei Frati Gaudenti, svolta che determina il passaggio dalla poesia d’amore a quella di argomento spirituale e morale. Muore intorno
al 1294, all’età di circa sessant’anni.
Il suo ricchissimo Canzoniere comprende 251 sonetti e 50 canzoni e si sviluppa seguendo tre filoni tematici: quello amoroso in cui vengono rielaborati in modo originale i motivi della tradizione siciliana e
provenzale; quello politico che dà voce alla passione civile dell’autore; quello religioso, nel quale egli
esprime il ritrovato ardore spirituale componendo ballate sacre e laude.
Guittone è anche autore di trentasei Lettere in prosa poetica che riproducono nel volgare toscano il modello latino delle epistole didascaliche.
1. Ahi lasso: ahimè.
2. or ... tanto: ora è il
momento di lamentarsi
(doler tanto).
3. a ... ragione: per
chiunque (a ciascun om)
ami in modo giusto la
ragione.
4. ch’eo ... guerigione: e
mi chiedo con meraviglia
(eo meraviglio) dove (u’)
trovi conforto. Il soggetto è
ciascun om.
5. ca ... pianto: e come il
dolore e il lutto (corrotto)
ancora non lo abbiano
ucciso (morto).
6. l’alta ... granata: la
nobile Firenze ricca di
frutti (granata). La parola
fior si riferisce sia al giglio,
emblema di Firenze, sia
all’antico nome della città.
7. e l’onorato ... romano:
e l’antica e nobile
tradizione romana di cui la
città è erede.
8. ch’a ... villano: che è
destinata a perire (pèr),
ferocia crudele e priva di
cortesia.
9. s’avaccio ...
ricoverata: se la città di
Firenze (ella) non verrà
presto (avaccio) salvata.
10. ché ... perito: poiché
la sua grande e rispettata
potenza e il suo valore
(pregio) sono quasi del
tutto spariti.
11. e ... desvia: e la forza
e il potere cambiano
strada (si desvia).
12. or quale dia: in quale
giorno.
13. fu ... audito?: fu mai
udita una simile sventura?
14. com’hailo sofrito:
come hai potuto
sopportare?
15. Deritto ... altezza:
che il diritto perisca e si
imponga il torto?
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
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volume
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47
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Il mese di maggio,
miniatura dal codice
Les Très Riches Heures du
Duc de Berry dei Frères
de Limbourg,
XV secolo.
Il genere della canzone politica deriva dal
sirventese, un componimento provenzale
basato sulla successione di strofe (coblas)
concluse da una stanza finale più breve (tornada) dal contenuto morale, politico o letterario. Profondo conoscitore della tradizione
occitanica, Guittone rinnova e reinterpreta nel
volgare toscano le principali strutture metriche elaborate dai provenzali, di cui apprezza
e imita soprattutto lo stile del trobar clus
(poetare chiuso) che è alla base di una poesia ricchissima di artifici metrici e retorici, ma
oscura e di non immediata comprensione.
Anche i componimenti di Guittone sono
spesso di difficile interpretazione e se i suoi
contemporanei lo considerano un maestro,
nella generazione successiva Dante ne critica
lo stile e le scelte linguistiche accusandolo di
usare un lessico e una sintassi artificiosi e
poco limpidi.
Le prime sei stanze di questa canzone sono
formate da due piedi in versi endecasillabi
con rime in schema ABBA CDDC e da una
sirma dalla struttura rimica abbastanza simmetrica (EFGGFfE) nella quale compaiono alcuni settenari; l’ultima strofa è più breve e,
seguendo il modello provenzale, funge da
conclusione.
Tutte le stanze sono capfinidas, cioè iniziano
con la parola che conclude quella precedente: per esempio il primo verso della seconda strofa inizia con la parola altezza
(Altezza tanta êlla sfiorata Fiore), la stessa che
conclude la stanza precedente (v. 15).
Il volgare toscano di Guittone è estremamente vario e composito e viene arricchito
da espressioni di origine latina (v. 3 u’), siciliana (v. 3 eo, v. 12 dia, v. 5 Fior al femminile),
francese (v. 5 granata, v. 13 dannaggio).
LE PAROLE CHIAVE
Guittone rappresenta Firenze giocando sull’ambivalenza della parola Fior che richiama
sia il giglio – simbolo araldico del Comune –
sia l’antico nome della città.
La derivazione del toponimo Firenze dalla
parola fiore non è un’invenzione guittoniana
ma è attestata da diversi scrittori del passato.
Ecco come Giovanni Villani (1276-1348) nelle
sue Istorie fiorentine spiega l’origine del
nome della sua città:
Onde fu al cominciamento per molti chiamata la picciola Roma, altri l’appellavano Floria perché Fiorino fu quivi morìo, che fu il primo edificatore di
quello luogo, e fu in opera d’arme e di cavalleria fiore, e in quello luogo, e campi d’intorno, ove fu la città edificata, sempre nascono fiori e gigli. Poi la maggiore parte degli abitanti furono consenzienti di chiamarla Floria, siccome fosse in fiori edificata, cioè con
molte delizie […] Ma poi per lo lungo uso del vulgare fu nominata Fiorenza; cioè s’interpreta spada fiorita.
da Istorie fiorentine, www.book.google.it
I TEMI
La passione politica: la canzone politica
guittoniana può essere considerata il primo
esempio di quel progressivo ampliamento tematico che nei decenni successivi darà origine a una nuova stagione poetica. Rispetto ai
compositori siculo-provenzali ai quali si ispira,
Guittone è nutrito di esperienze personali diverse e – vissuto in un contesto sociale più vivace e conflittuale – non può accontentarsi di
imitare pedissequamente l’atmosfera canonica della tradizione d’amore. Il suo coinvol-
gimento nella realtà circostante finisce col
prevalere sugli elementi lirici, per cui i molteplici artifici retorici e stilistici che sperimenta
nel testo hanno la precipua funzione di ornare
e abbellire una materia più concreta e corposa di quella astratta e immobile celebrata
dai suoi predecessori.
Nei versi proposti, il compianto per l’umiliante
sconfitta di Firenze va ben oltre il motivo con-
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
venzionale ed esprime la delusione autentica
del poeta, che mentre sostiene la supremazia
morale e culturale della città – idea che si affermerà sempre più nei secoli seguenti – allo
stesso tempo ribadisce l’importanza dei
valori etici sui quali ha fondato la propria
stessa esistenza.
L’INTERTESTUALITÀ
Nel suo viaggio ultraterreno narrato nella Divina Commedia, Dante incontra Farinata degli
Uberti, uno dei ghibellini fiorentini che con il
loro tradimento hanno permesso ai senesi di
vincere a Montaperti e che per questo motivo è stato successivamente condannato all’esilio perpetuo dalla città. Al dannato che
chiede ragione di questa spietata decisione,
che ha colpito anche i suoi discendenti,
Dante risponde rievocando la ferocia della
battaglia di Montaperti.
«E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?»
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
da Inferno X, in Divina Commedia,
SEI, Torino 2008
«E, possa tu [Dante] tornare nel dolce mondo, dimmi: perché quel popolo [il popolo fiorentino] è così spietato contro quelli della mia
parte in ogni sua legge?».
Ed io gli risposi: «La tremenda strage che tinse di rosso sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nei nostri consigli».
i poeti siculo-toscani
48
tano in un lungo conflitto nel quale Firenze
gode dell’appoggio di diversi Comuni toscani, del re di Francia e del Papa, mentre
Siena è sostenuta da Pisa, Arezzo e da Manfredi, erede dell’imperatore Federico II.
Nel 1258 alcuni ghibellini scacciati da Firenze vengono accolti da Siena che con
quest’azione contravviene a un precedente
trattato e dà alla lega guelfa l’occasione di
attaccarla. I senesi rifiutano di arrendersi all’ultimatum degli avversari e schierano il
proprio esercito, numericamente inferiore,
sperando nell’appoggio dei ghibellini infiltrati nell’esercito nemico. La battaglia finale
tra le due rivali si scatena il 4 settembre
1260 nei pressi di Montaperti, un piccolo
borgo della Val d’Arbia. Nel corso dei combattimenti Bocca degli Abati, un ghibellino di Firenze che milita nell’esercito guelfo,
riesce a far cadere lo stendardo della cavalleria fiorentina, mandando nel panico le
truppe che non sanno più dove dirigere il
loro attacco. Mentre i senesi avanzano, i
ghibellini nascosti nelle fila dell’esercito avversario si scagliano contro i concittadini
dell’opposta fazione. Al termine della battaglia, che si conclude con la rovinosa sconfitta di Firenze, tra i soldati guelfi si contano
circa 10 000 morti e 15 000 prigionieri, mentre i senesi perdono soltanto 600 uomini,
conquistando, sia pur per pochi anni, l’egemonia territoriale.
La Commedia, Inferno,
miniatura lombarda,
prima metà XV secolo.
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L’EXTRATESTUALITÀ
I termini guelfo e ghibellino nascono nell’ambito della lotta per la supremazia che a
partire dal XII secolo oppone il Papa all’Imperatore. Ghibellino, che deriva da Weiblingen,
il nome del castello dei duchi di Svevia, con
l’elezione a imperatore di Federico I di Svevia
finisce con l’indicare tutti coloro che sostengono il potere imperiale. Guelfo, trascrizione
della parola Welfen (da Welf, capostipite della
casa di Baviera), definisce chi sta dalla parte
del Papa.
L’evento storico da cui prende spunto l’invettiva di Guittone è la battaglia di Montaperti, nella quale si fronteggiano Firenze, di
orientamento politico guelfo, e Siena, controllata dai ghibellini.
Nel corso del Duecento le due città, in concorrenza per motivi commerciali, si affronV. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
B
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Quale stato d’animo esprime il poeta nel testo?
2 Qual è stata la causa della rovina di Firenze?
di
ffi
co
ltà
3 Che cosa chiede l’autore negli ultimi tre versi della strofa?
Analisi
Il significante
Vedi a p. 12
4 Individua i settenari presenti nel testo.
Le parole chiave
Vedi a p. 62
5 La strofa è costruita sulla contrapposizione tra l’antica grandezza di Firenze
e l’attuale condizione di declino: individua e trascrivi tutte le parole che alludono alla potenza perduta della città toscana.
I temi
Vedi a p. 76
6 Spiega, brevemente, le ragioni per cui nella poesia di Guittone, a differenza
di quella siciliana, sono tanto presenti le tematiche politiche.
Le figure retoriche
Vedi a p. 52
7 Quale figura retorica si cela nell’espressione Fior sempre granata? Qual è il
suo significato?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
volume
B
8 Dopo aver ricostruito il testo secondo lo schema sintattico della prosa, fanne la parafrasi.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
i poeti siculo-toscani
50
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Compiuta Donzella
A la stagion che
’l mondo foglia e fiora
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
LA POESIA
Una lirica scritta da una donna va considerata un caso eccezionale nel panorama letterario italiano del XIII secolo. Ma l’autrice di questo sonetto mostra
una piena padronanza dello stile e interpreta con grazia e originalità i motivi
convenzionali della poesia siculo-provenzale, contrapponendo alla gioiosa atmosfera primaverile che fa da sfondo alla felicità degli innamorati il suo stato
d’animo dolente di donna perché, secondo i dettami dell’epoca, è costretta
a sposarsi contro la sua volontà.
la simbologia
A la stagion che ’l mondo foglia e fiora1
acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti:2
vanno insieme a li giardini alora
che3 gli auscelletti fanno dolzi canti;
l’intertestualità
l’extratestualità
METRO
sonetto
5
10
la franca gente tutta4 s’inamora,
e di servir ciascun trag[g]es’ inanti,5
ed ogni damigella in gioia dimora;6
e me,7 n’abondan mar[r]imenti e pianti.8
Ca9 lo mio padre m’ha messa ’n er[r]ore,10
e tenemi sovente in forte doglia:11
donar mi vole a mia forza segnore,12
ed io di ciò non ho disio né voglia,
e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però13 non mi ralegra fior né foglia.
A la stagion che ’l mondo foglia e fiora, in Poeti del Duecento
a cura di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
Non abbiamo alcuna notizia biografica di questa poetessa fiorentina di cui
ci sono pervenuti tre sonetti di gusto provenzale. In passato è stata fatta l’ipotesi che dietro il suo nome si celasse in realtà un poeta della Scuola siculotoscana, intenzionato a prendersi gioco dei suoi confratelli.
Le notevoli qualità artistiche di questo misterioso personaggio sono testimoniate dal fatto che in un’epoca nella quale per le donne è quasi impossibile
dedicarsi alla scrittura, molti rimatori inviano a Compiuta dei sonetti e lo
stesso Guittone le indirizza una lettera in cui ne loda le virtù.
È probabile quindi che questa poetessa sia effettivamente esistita e che possa
essere considerata la prima donna compositrice di versi in volgare italiano,
alla stregua delle poetesse provenzali (trobairitz) di cui è accertata l’esistenza.
In questo caso il nome Compiuta, attestato nella Toscana medievale, non sarebbe uno pseudonimo,
mentre l’appellativo Donzella potrebbe riferirsi alla sua condizione di donna non sposata.
1. A la stagion che ’l
mondo foglia e fiora:
nella stagione in cui la
natura mette fiori e
foglie. Si parla della
primavera.
2. acresce gioia a
tut[t]i fin’ amanti:
aumenta la gioia di coloro
che si amano in modo
nobile (fin’ amanti).
3. alora che: nell’ora in
cui.
4. la franca gente tutta:
tutte le persone rese
nobili nell’animo (la
franca gente) dall’amore.
5. e di servir ciascun
trag[g]es’ inanti: e
ognuno si offre
(trag[g]es’ inanti) per il
servizio d’amore.
6. in gioia dimora: vive
nella gioia.
7. e me: per me, invece.
8. n’abondan
mar[r]imenti e pianti:
crescono le afflizioni
(mar[r]imenti) e il dolore.
9. Ca: perché.
10. m’ha messa ’n
er[r]ore: mi ha messo in
una situazione difficile.
11. tenemi sovente in
forte doglia: mi provoca
un grande dispiacere.
12. donar mi vole a mia
forza segnore: mi vuole
dar marito (donar mi vole
... segnore) contro la mia
volontà (a mia forza).
13. però: perciò.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
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volume
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Il componimento è un sonetto le cui strofe si
succedono seguendo lo schema di rima alternata (ABAB, ABAB CDC, DCD). Il verso
che conclude il testo riprende quello iniziale
in forma di chiasmo negativo (v. 1 foglia e
fiora, v. 14 fior né foglia), conferendo alla
poesia un’elegante e armoniosa struttura
chiusa che rivela una buona conoscenza
delle regole stilistiche da parte dell’autrice.
LE PAROLE CHIAVE
L’adesione della poetessa al modello culturale cortese si esplicita nell’adozione di motivi topici della poesia d’amore provenzale,
come l’ambientazione primaverile (v. 1 A la
stagion che ’l mondo foglia e fiora), l’idea che
il sentimento amoroso raffini ulteriormente
l’animo nobile di chi lo prova (v. 2 fin’amanti,
v. 5 franca gente, v. 6 servir) e l’iterazione del
sostantivo gioia (vv. 2, 7), termine ricorrente
nella lirica d’amore duecentesca.
Anche nel lessico si riscontrano provenzalismi (v. 4 auscelletti, dolzi, v. 8 marrimenti) e
sintagmi di matrice siciliana (v. 9 messa ’n
errore).
Il contrasto tra la lieta ambientazione primaverile e il triste stato d’animo della protagonista è sottolineato dal pronome personale me
Il mese di aprile,
miniatura dal codice
Les Très Riches Heures du
Duc de Berry dei Frères
de Limbourg,
XV secolo.
con valore avversativo (v. 8 e me) che contrappone la gioia del mondo circostante alla
cupa malinconia della donna.
I TEMI
Il rifiuto dell’amor profano: capovolgendo
l’impostazione delle chansons de toile (vedi
la rubrica L’intertestualità) in questo componimento la poetessa non esprime né il dolore
per l’assenza dell’amato né l’aspirazione ad
avere un compagno più accattivante di quello
scelto dal padre, ma rifiuta completamente
la prospettiva matrimoniale (v. 12 ed io di
ciò non ho disio né voglia) perché – come dirà
in un altro sonetto – ella “lasciar voria lo
mondo e Deo servire” (vorrebbe lasciare il
mondo per dedicarsi alla vita monastica), preferendo l’amore divino a quello profano.
L’impossibilità di realizzare il suo desiderio
genera nell’autrice un senso di dolorosa impotenza che la condanna a marrimenti e
pianti (v. 8) e le rende impossibile condividere
la gioia della festosa stagione primaverile al
cui risveglio gli altri giovani partecipano invece con ardore (vv. 13-14 e ’n gran tormento
vivo a tutte l’ore; / però non mi ralegra fior né
foglia).
L’INTERTESTUALITÀ
Nella tradizione trobadorica francese un posto
particolare è occupato dalle chansons de
toile, canti composti e recitati da donne mentre cuciono, filano e tessono, che hanno come
argomento dominante l’amore. Tra questi i più
numerosi sono i lamenti della malmaritata
(dal francese antico mal mariée), espressione
con cui si designa una donna trascurata e infelice che con i suoi versi lamenta la violenza o l’indifferenza del marito, sognando un
amante che la compensi della crudeltà del
compagno e delle sofferenze subite.
Il genere della malmaritata si diffonde in Italia soprattutto nell’ambito della cultura popolare dove viene tramandato oralmente sotto
forma di ballata o canzone, ma viene assorbito e reinterpretato anche dalla poesia colta siciliana, da cui Compiuta Donzella trae
spunto per il suo sonetto.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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di
ffi
co
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LABORATORIO
Comprensione
1 In quale periodo dell’anno è ambientata la storia?
2 Qual è lo stato d’animo della poetessa?
di
ffi
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3 Da che cosa è causato?
Analisi
LE
SS
IC
O
Le parole chiave
Vedi a p. 62
4 Individua le parole utilizzate per indicare il dolore della poetessa e cerca un
sinonimo per quelle che oggi non sono più in uso.
I temi
Vedi a p. 76
5 Quali elementi del paesaggio comunicano una sensazione di gioia e felicità?
6 Per quali aspetti la protagonista del sonetto è diversa dai suoi coetanei?
7 Oltre che nel v. 8, in quale altro punto del sonetto l’autrice contrappone esplicitamente la propria volontà a quella del padre?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
i poeti siculo-toscani
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8 Fa’ la parafrasi del testo.
9 Ti è mai capitato di fare una scelta solo perché ti era stata imposta dai tuoi
genitori? Racconta la tua esperienza .
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
La poesia
comico-realistica
PARODIA
dal greco para,
“contro” e oidé,
“canto”. Fare la
parodia di qualcosa
(un’opera letteraria,
una persona ecc.),
significa accentuarne
i tratti in modo
caricaturale o ironico.
1. I clerici vagantes erano
studenti e intellettuali
poveri esclusi dalla
carriera nelle università
i quali, piegando la
solenne aulicità del latino
a una finalità comica,
presentavano in tono
burlesco e irriverente
temi come la sofferenza
umana causata
dall’avversa fortuna, la
volubilità e la corruzione
delle donne, l’avarizia dei
padri e la stupidità delle
madri.
Mentre i rimatori siculo-toscani accentuano ed esasperano il carattere artificioso del volgare letterario, una direzione radicalmente diversa viene intrapresa dai
poeti comico-realistici. Il termine definisce alcuni scrittori operanti in Toscana
– tra Firenze, Arezzo, Lucca e soprattutto in area senese – che nella seconda metà
del Duecento rifiutano le convenzioni della poesia d’amore e capovolgono
i valori della società cortese. Alla celebrazione di situazioni e sentimenti alti e
sublimi i poeti comico-realistici contrappongono la descrizione di una realtà quotidiana e triviale, di personaggi ai limiti della caricatura di cui enfatizzano i tratti più bassi e degradati mediante il meccanismo della parodia. All’amore puro e
nobile si sostituisce la forza del desiderio fisico, alla perfezione della dama dotata di eccelse virtù morali la meschinità della plebe rozza e venale, all’elogio del
coraggio l’esaltazione dei piaceri offerti dal vino e dal gioco.
Queste scelte tematiche sono influenzate dalle trasformazioni delle città italiane che tra il Duecento e il Trecento vedono l’emergere di un nuovo ceto sociale dinamico e spregiudicato, la borghesia mercantile, maggiormente aperta al contatto con altre realtà regionali ed europee e quindi piuttosto critica nei
confronti degli ideali politici e spirituali della società antica, ormai al tramonto.
Ma su questi scrittori agisce in modo determinante anche la conoscenza della
poesia goliardica elaborata a partire dal XII secolo dai clerici vagantes.1
Nonostante amino presentarsi come personaggi rozzi e incolti, i poeti comicorealistici sono letterati a tutti gli effetti e l’anticonformismo dei loro testi non nasce da un istintivo gusto per la trasgressione ma, al contrario, va considerato il
frutto di una scelta consapevole che pur andando nella direzione opposta a quella della poesia d’amore presuppone e implica una pari perizia tecnica.
La stretta contemporaneità di questi poeti, l’affinità della loro formazione culturale, il ristretto ambiente geografico in cui operano, l’identità del loro pubblico
di riferimento e la predilezione per temi come l’incostanza delle amicizie, la passione per le donne e per il vino, l’esecrazione della povertà rendono i loro componimenti piuttosto uniformi, impressione accentuata dall’impiego quasi
esclusivo del sonetto, un genere metrico più aperto a temi e modi colloquiali.
Decisamente innovative sono invece le scelte linguistiche e lessicali di questi rimatori che, trasferendo in volgare toscano il portato della tradizione goliardica, creano una lingua assai più varia e articolata di quella selezionatissima dei poeti d’amore, adattando il vocabolario cortese a situazioni ignobili e
volgari e accostando il lessico di origine provenzale a termini di estrazione popolaresca con risultati di grande freschezza. Per questo motivo essi possono essere considerati dei pionieri poiché sono i primi scrittori colti ad avventurarsi nel campo inesplorato della lingua popolare e a utilizzarla intenzionalmente
con finalità artistiche.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
i poeti siculo-toscani
54
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Rustico Filippi
Su, donna Gemma,
co·la farinata
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
LA POESIA
Protagoniste di questa scenetta sono una ragazza e due donne adulte, mentre al poeta tocca il ruolo di voce fuori campo che esorta una di loro ad adoperarsi affinché la povera fanciulla, tanto dimagrita da apparire malata,
riprenda a mangiare e si rimetta in forze.
Il testo è un chiaro esempio del realismo stilistico e tematico di questa
scuola poetica perché dall’atmosfera rarefatta e stilizzata della lirica d’amore
ci conduce in un mondo comune fatto di gesti, azioni e parole quotidiane.
la simbologia
Su, donna Gemma,1 co·la2 farinata3
e col buon vino e co·l’uova ricenti,4
che la Mita per voi sia argomentata,5
ch’io veg[g]io ben ch’ell’ha alegati i denti.6
l’intertestualità
l’extratestualità
METRO
sonetto
5
10
Non vedete com’ell’è sottigliata?7
Maravigliar ne fate tut[t]e genti.8
Donna Filippa9 assai n’è biasimata10
da tutti i suoi amici e da’ parenti.
Or acendete il foco e sì cocete
cosa che spesso in boc[c]a si metta;11
se non, per certo12 morir la farete:
ché la gonella,13 che sì l’era stretta,
se ne porian far due – be·llo vedete14 –
così è fatta magra e sotiletta.15
Su, donna Gemma, co·la farinata, in Sonetti satirici e giocosi,
Carocci, Roma 2005
Rustico di Filippo, detto il Barbuto, nasce a Firenze tra il 1230 e il 1240. Di parte ghibellina (vedi la rubrica L’extratestualità negli Strumenti di lettura a p. 349) è in rapporti letterari con diversi rimatori del suo tempo ed è stimato da Brunetto
Latini Vedi Appendice che gli dedica un poemetto. La data della sua morte non è
certa, ma probabilmente può essere collocata agli inizi del 1300.
Rustico Filippi è il più antico tra i poeti comico-relistici fiorentini ed è autore di una
raccolta di 58 sonetti, la metà dei quali appartiene al filone della lirica amorosa di
ispirazione guittoniana mentre l’altra metà è di gusto realistico. La scelta di coltivare entrambi i generi è comune a molti scrittori dell’epoca, ma Rustico eccelle soprattutto nel secondo,
in particolar modo nel vituperium (componimento basato sull’insulto) e nella descrizione ironica e caricaturale di personaggi del mondo borghese comunale.
1. donna Gemma: la
madre o una parente
della Mita nominata al v. 3.
2. co·la: con la. Il puntino
tra co e la indica la
caduta della lettera n
(vedi anche vv. 2, 13)
3. farinata: minestra a
base di farina di grano,
farro o orzo cotta in
acqua o brodo.
4. ricenti: fresche. La i al
posto della e è tipica del
fiorentino.
5. per voi sia
argomentata: sia da voi
curata.
6. ch’io veg[g]io ben
ch’ell’ha alegati i denti:
che io vedo che ella ha i
denti legati a causa della
fame.
7. sottigliata: dimagrita.
8. Maravigliar ne fate
tut[t]e genti: fate stupire
tutti.
9. Donna Filippa:
potrebbe essere la madre
o una parente di Mita
(vedi n. 1).
10. n’è biasimata: è
rimproverata per questo.
11. cosa che spesso in
boc[c]a si metta: cibi
appetitosi che le facciano
venire voglia di mangiare
spesso.
12. se non, per certo:
altrimenti, di sicuro.
13. la gonella: la gonna.
14. se ne porian far
due – be·llo vedete: se
ne potrebbero fare due,
lo vedete bene.
15. così è fatta magra
e sotiletta: tanto è
diventata magra e sottile.
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volume
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55
LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Mercanti, banchieri,
cambiavalute, contabili
sono le nuove
professioni che si
sviluppano con la
borghesia mercantile,
miniatura.
Rustico Filippi è il primo poeta a rielaborare in
volgare toscano temi popolareschi o derivanti dalla tradizione goliardica. In questo
componimento conferisce un tono leggero e
quotidiano alla forma canonica del sonetto
mediante precisi espedienti formali tra cui
l’inserimento di vocaboli ricalcati dal dialetto
fiorentino (v. 2 ricenti per recenti), espressioni
tratte dalla parlata domestica (v. 4 ch’ell’ha
alegati i denti) e un anacoluto che riproduce
la sintassi colloquiale (vv. 12-13 la gonella,
che sí l’era stretta, / se ne porian far due).
n’è biasimata / da tutti i suoi amici e da’ parenti); donna Gemma, potenziale salvatrice
della fanciulla cui spetta il compito, necessario ma certo non sublime, di preparare manicaretti che risveglino l’appetito dell’inferma
(vv. 9-10 cocete / cosa che spesso in bocca
[la] si metta).
In un contesto sociale fin troppo partecipe e
prodigo di consigli la causa reale del dimagrimento della povera fanciulla rimane ignoto
(è innamorata? si è ammalata? ha subito una
punizione?) e ciò che soprattutto rimane al
lettore è la vivida rappresentazione di una
scenetta popolare in cui anche le figure secondarie appaiono fresche e vivaci (vv. 7-8).
Il realismo duecentesco: sebbene vengano
definiti da un nome e da precise caratteristiche fisiche e morali, i personaggi di questo,
come di altri componimenti di Rustico Filippi
risultano difficilmente identificabili, così come
non sempre sono del tutto comprensibili le
situazioni che l’autore rappresenta con dinamismo quasi narrativo.
Per gli scrittori del Duecento, infatti, realismo
non significa descrivere fedelmente ciò che
accade ma costruire una galleria di personaggi tipici e di situazioni verosimili che,
sviluppandosi in un’ambientazione popolaresca, sono di per sé considerate autentiche.
LE PAROLE CHIAVE
L’intento realistico dell’autore si traduce nella
selezione di un lessico che definisce con
semplice precisione alcuni elementi della vita
quotidiana dei protagonisti come il cibo (v. 1
farinata, v. 2 buon vino ... uova ricenti), l’ambiente domestico (v. 9 acendete il foco) e
l’abbigliamento (v. 12 la gonella che sí l’era
stretta), abbassando la realtà rappresentata
a un livello di concretezza ignoto all’astratta
raffinatezza della coeva lirica d’amore.
I TEMI
La giovane malata: il sonetto trae spunto dal
motivo popolare della “fanciulla malata d’amore”. Le protagoniste sono tre figure femminili agli antipodi rispetto a quelle esaltate
dalla lirica cortese: la Mita, magra e rinsecchita (v. 5 sottigliata, v. 14 magra e sotiletta),
con la bocca contratta (v. 4 ha alegati i denti)
e quasi in punto di morte (v. 11 per certo morir
la farete); donna Filippa oscuramente ritenuta
responsabile della situazione (vv. 7-8 assai
Pagina di manoscritto con un sonetto di Rustico
Filippi, XIV secolo.
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i poeti siculo-toscani
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Chi sono i protagonisti di questo sonetto? Quali figure, invece, fanno da sfondo?
2 Quale tra le protagoniste viene criticata da parenti e conoscenti?
di
ffi
co
ltà
3 Qual è il suggerimento dell’autore per risolvere la situazione?
Analisi
Il significante
Vedi a p. 32
4 Ricostruisci lo schema della rima del sonetto.
I temi
Vedi a p. 76
5 Da quali segni esteriori si comprende che Mita non mangia a sufficienza?
Le figure retoriche
Vedi a p. 54
6 Quale figura retorica si cela nella frase cosa che spesso in bocca si metta (v. 10).
Metafora
Perifrasi
Iperbole
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
CAPITOLO UNO
7 Delle cause che hanno reso Mita magra e sotiletta non ci viene detto nulla:
inventa tu una storia che spieghi la situazione raccontata nel sonetto, utilizzando come personaggi le figure create dall’autore.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
Cecco Angiolieri
La mia malinconia
è tanta e tale
il significante
le parole chiave
i temi
le figure
retoriche
la simbologia
l’intertestualità
l’extratestualità
LA POESIA
Un tema ricorrente nei testi di Cecco Angiolieri è quello dello umor nero, una
condizione di cupa insoddisfazione di volta in volta provocata nel poeta dalla
povertà o dalla sfortuna o dal padre taccagno che non si decide a morire…
In questo caso, responsabile della sua malinconia è una donna – Becchina,
figlia di un cuoiaio e protagonista di molti componimenti – che non ricambia
l’amore dell’autore ma lo tratta con ostentata indifferenza e si libera di lui con
poca grazia dicendogli di “andare a farsi i fatti suoi”.
In un breve giro di versi Angiolieri riesce a far coesistere abilmente il parodistico capovolgimento (vedi a p. 354) di uno dei temi più sviluppati dalla
poesia d’amore – l’incolmabile distanza che separa l’uomo dalla sua amata
– e l’acutezza psicologica con cui rileva che l’indifferenza è la peggiore punizione che si possa infliggere a una persona innamorata.
La mia malinconia1 è tanta e tale,2
ch’i’ non discredo che, s’egli ’l sapesse
un che mi fosse nemico mortale,
che di me di pieta[de] non piangesse.3
5
10
METRO
sonetto
Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale:4
che·mmi potrebbe, sed ella volesse,
guarir ’n un punto di tutto ’l mie male,5
sed ella pur: “I’ t’odio” mi dicesse.6
Ma quest’è la risposta c’ho da·llei:
ched ella7 non·mmi vòl né mal né bene,
e ched i’ vad’8 a·ffar li fatti mei;
ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ o pene,9
men ch’una paglia che·lle va tra’ piei.10
Mal grado n’abbi Amor, ch’a·lle’ mi diène.11
La mia malinconia è tanta e tale, Poeti del Duecento
a cura di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
1. La mia malinconia: il mio umor nero. Il termine malinconia è di
origine greca ed indica letteralmente la bile di colore nero.
2. tanta e tale: così grande (tanta) e di tale intensità (tale).
3. ch’i’ non discredo che, s’egli ’l sapesse un che mi fosse
nemico mortale, che di me di pieta[de] non piangesse: che credo
davvero (non discredo) che se lo sapesse qualcuno (un) che mi è
nemico mortale, piangerebbe di pietà per me. La combinazione tra
l’avverbio negativo non e il prefisso negativo dis- dà luogo ad una
frase affermativa.
4. Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale: poco importa (ne cale) di
ciò a colei che è la causa di quello che mi accade.
5. che·mmi potrebbe, sed ella volesse, guarir ’n un punto di
tutto ’l mie male: che se volesse potrebbe guarirmi subito (’n un
punto) di tutti i miei mali.
6. sed ella pur “I’ t’odio” mi dicesse: anche se mi dicesse soltanto
“Io ti odio”. In sed, la d finale ha valore eufonico.
7. ched ella: che lei.
8. ched i’ vad’: e che io vada.
9. ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ o pene: che lei (non) si preoccupa se
io provo gioia o dolore.
10. men ch’una paglia che·lle va tra’ piei: meno di quanto le
interessi se una pagliuzza le capita tra i piedi.
11. Mal grado n’abbi Amor, ch’a·lle’ mi diène: sia maledetto (mal
grado) Amore, che mi ha consegnato (diene) in suo potere.
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i poeti siculo-toscani
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Cecco Angiolieri nasce a Siena intorno al 1260 da una nobile e ricca famiglia. Di parte guelfa (vedi la rubrica L’extratestualità negli Strumenti di lettura a p. 349), trascorre una giovinezza sregolata. Nel 1281, mentre milita
nelle truppe senesi, viene multato due volte per essersi allontanato dall’accampamento e nel 1291 viene processato e assolto per il ferimento di
un uomo; qualche anno dopo lascia Siena, probabilmente diretto a Roma.
Non conosciamo la data della sua morte ma deve essere avvenuta prima del
1313, come dimostra il documento con cui i suoi figli rinunciano all’eredità
paterna perché gravata da eccessive ipoteche.
Cecco Angiolieri è autore di più di cento sonetti che, ad eccezione di qualche componimento di soggetto amoroso, sono quasi tutti ascrivibili al filone comico-realistico di cui è egli l’esponente di maggior spicco. Nei suoi testi il poeta si dipinge come un donnaiolo amante del vino e del gioco e animato
da un feroce odio nei confronti della famiglia, in particolare del padre, ricco banchiere senese. Oggi,
tuttavia, si tende a pensare che questo colorito ritratto non vada considerato in modo autobiografico
ma sia il frutto del vasto repertorio letterario dell’autore.
STRUMENTI DI LETTURA
IL SIGNIFICANTE
Il sonetto segue uno schema di rime alternate
(ABAB ABAB CDC DCD) e presenta una
struttura sintattica complessa, in particolar
modo nella prima quartina, basata su una
successione di negazioni che si elidono a
vicenda, per cui se nell’insieme il periodo ha
un significato affermativo non tutti i nessi sintattici appaiono limpidi (v. 2 non discredo, nel
senso di credo davvero; v. 4 non piangesse).
Più lineari sono le terzine conclusive che riferiscono ciò che la donna pensa del poeta e
del suo amore sotto forma di discorso indiretto.
Alternando e mescolando continuamente la
lingua volgare colta al dialetto senese il
poeta tende a imitare il linguaggio popolare
con una scelta stilistica originale che si oppone polemicamente alla limpida purezza
della poesia amorosa: in questo sonetto sono
tratti dal vernacolo senese l’aggettivo possessivo in forma invariabile mie (v. 7) e il sostantivo piei (v. 13), mentre la rozzezza del
parlato è riprodotta dall’anacoluto che trasforma il complemento di termine in soggetto
(v. 5 Quella nel senso di a quella).
LE PAROLE CHIAVE
Oggi il termine malinconia indica una condizione di lieve e soffusa tristezza, ma nell’accezione di Angiolieri questa parola ha un significato diverso, che deriva dalla concezione del
corpo elaborata dalla cultura medica grecolatina e largamente diffusa nel Medioevo.
Secondo il medico greco Galeno (II sec. d.C.)
il corpo umano è fondamentalmente costituito da quattro umori – sangue, bile gialla,
bile nera e flegma – che corrispondono ai
quattro elementi cosmici, fuoco, terra, aria e
acqua. La salute e il temperamento di un individuo sono condizionati dalla prevalenza
dell’uno o dell’altro per cui il flemmatico, che
ha un eccesso di flegma, è grasso, lento,
pigro, sciocco; il melanconico, con prevalenza di bile nera, è magro, debole, pallido,
avaro, triste; il collerico, con troppa bile
gialla, è magro, asciutto, di bel colore, irascibile, permaloso, furbo, generoso, superbo; il
sanguigno, con eccesso di sangue, è rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ai
piaceri del corpo.
I TEMI
La rivisitazione dei modelli letterari: nonostante il tono apparentemente rozzo e plebeo, i componimenti di Cecco Angiolieri sono
intessuti di citazioni colte che rivelano la
buona formazione letteraria dell’autore. Dalla
tradizione realistica dei poeti goliardi egli riprende il gusto per l’invettiva e per l’insulto, l’esaltazione del godimento fisico e
la celebrazione degli aspetti più bassi e
volgari dell’esistenza che sviluppa in una
prospettiva più ampia, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione caricaturale di
brevi squarci di vita quotidiana popolare cui
attribuisce una dignità letteraria che nel secolo successivo influenzerà anche altri generi, in particolar modo la novellistica.
In questo sonetto l’autore opera un anticonformistico rovesciamento degli stilemi della
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volume
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LA LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI
poesia d’amore, reinterpretando il tema della
sofferenza dell’uomo nei confronti dell’amata,
inaccessibile non più per la sua sublime perfezione ma per il rifiuto piuttosto plebeo che
oppone alle profferte amorose dello spasimante (v. 11 e ched i’ vad’ a·ffar li fatti mei).
Malinconia e indifferenza: con grande acume psicologico il poeta spiega la propria devastante malinconia, ossia lo stato di cupa in-
soddisfazione che lo attanaglia, con la perfetta indifferenza della donna osservando che
ella potrebbe salvarlo dal suo dolore (vv. 67 sed ella volesse, / guarir ’n un punto di tutto
’l mie male) se provasse nei suoi confronti un
sentimento qualsiasi, anche negativo come
l’odio (v. 8 sed ella pur: “I’ t’odio” mi dicesse),
mentre nella realtà egli sa di non essere tenuto in alcuna considerazione (v. 10 ched ella
non·mmi vòl né mal né bene; v. 12 ch’ella non
cura s’i’ ho gioi’ o pene).
LE FIGURE RETORICHE
Nei suoi testi Cecco Angiolieri presenta
spesso se stesso e la sua vita in modo drammaticamente esagerato, usando ogni sorta di
eccesso verbale per ottenere un effetto parodistico. In questo caso per descrivere la
sua profondissima insoddisfazione apre il sonetto con un’iperbole nella quale definisce la
sua condizione tanto disperata da suscitare
la pietà del suo peggior nemico (vv. 2-4, ch’i’
non discredo che, s’egli ’l sapesse / un che
mi fosse nemico mortale, / che di me di pieta
[de] non piangesse).
Pagina di manoscritto
con un sonetto di Cecco
Angiolieri, XV secolo.
L’INTERTESTUALITÀ
Nel XIX secolo il poeta francese Charles Baudelaire Vedi a p. 87 dà a quattro delle sue
liriche il titolo Spleen, una parola inglese che deriva dal greco antico splén e significa “milza”,
organo che – secondo la teoria degli umori di cui abbiamo parlato a proposito dei temi – produce la bile nera responsabile della malinconia.
Ecco come Baudelaire descrive la schiacciante sensazione di angoscia da cui è oppresso.
Spleen
Quando il cielo discende greve come un coperchio
sull’anima che geme stretta da noia amara,
e dell’ultimo orizzonte stringendo tutto il cerchio
ci versa un giorno cupo più della notte nera,
5
10
quando la terra è fatta di un’umida segreta,
entro cui la Speranza, pipistrello smarrito,
con le sue timide ali sbatte sulle pareti,
e va urtando la testa sul soffitto marcito,
quando la pioggia spiega le sue immense strisce
imitando le sbarre d’un carcere imponente,
e un popolo di ragni, silenzioso e viscido,
tende le reti in fondo a queste nostre menti,
d’improvviso campane esplodono furiose,
lanciando verso il cielo un gridio tremendo,
15 come anime che, erranti, senza patria, pietose
mandino un inatteso, ostinato, lamento.
– Funebri cortei, senza la musica e i tamburi,
lenti solcano l’anima. La Speranza, lo sguardo
vinto, piange, e l’Angoscia, che è dispotica e dura,
20 sul mio capo già chino pianta ora il suo stendardo.
Spleen, in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 2003
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i poeti siculo-toscani
di
ffi
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LABORATORIO
Comprensione
1 Come definisce il poeta il suo stato d’animo?
2 Da che cosa è causato?
di
ffi
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3 Che cosa lo farebbe stare meglio?
Analisi
Il significante
Vedi a p. 24
4 Cerca nel testo un esempio di eufonia simile a quello segnalato nella nota 6.
I temi
Vedi a p. 76
5 Quale sentimento esprime l’autore nel verso conclusivo?
6 La personificazione del sentimento amoroso è un tòpos della poesia lirica duecentesca: in che modo Angiolieri utilizza, capovolgendolo, questo motivo?
Le figure retoriche
Vedi a p. 52
7 Individua la similitudine presente nel sonetto di Angiolieri, spiegane il significato e rifletti sulla sua funzione: che tipo di effetto vuole ottenere l’autore
con questa immagine?
L’intertestualità
Vedi a p. 67
8 Con la guida dell’insegnante effettua un confronto intertestuale tra la malinconia di Cecco Angiolieri e lo Spleen di Charles Baudelaire: in che cosa questi due stati d’animo sono differenti?
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
CAPITOLO UNO
Produzione
9 Fa’ la parafrasi della poesia.
10 Utilizzando le informazioni contenute nel sonetto ricostruisci sotto forma di
discorso diretto la burrascosa conversazione tra il poeta e l’amata.
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