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la contrattazione collettiva prof . francesco manica

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la contrattazione collettiva prof . francesco manica
LEZIONE:
“LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA”
PROF. FRANCESCO MANICA
La contrattazione collettiva
Indice
1 Il Contratto Collettivo Di Lavoro ------------------------------------------------------------------------------------------- 3 2 I Contratti Collettivi Di Diverso Livello. La Contrattazione Collettiva E La Legge ----------------------------- 11 3 Il Sistema Delle Relazioni Sindacali Nelle Pubbliche Amministrazioni. -------------------------------------------- 14 4 I Limiti All’autonomia Privata Nel Rapporto Di Lavoro -------------------------------------------------------------- 27 5 La Tassatività Del Tipo E Qualificazione Della Fattispecie Del Lavoro Subordinato --------------------------- 29 6 La Formazione Del Contratto Di Lavoro. -------------------------------------------------------------------------------- 31 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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La contrattazione collettiva
1 Il contratto collettivo di lavoro
Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro (o un
gruppo di datori di lavoro) ed un’organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di
stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali
dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio
nazionale.
L’unico tipo di contratto collettivo che possa realizzarsi nel nostro
ordinamento è il contratto collettivo di diritto comune (così chiamato perché
regolato da norme di diritto comune). Tale tipo di contratto – proprio per un
principio di diritto comune –vincola esclusivamente gli associati alle
organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato. Nei fatti, tuttavia, la
giurisprudenza ha esteso in taluni casi l’efficacia di tali contratti anche nei
confronti di lavoratori non appartenenti alle associazioni stipulanti, in particolare
in applicazione dell’art. 36 Cost. si è operata l’estensione del contratto collettivo
di diritto comune per garantire ai lavoratori la sufficienza della retribuzione. Il
contratto collettivo può trovare una applicazione in via di fatto quando vi sia
stata, da parte dei soggetti del rapporto individuale, una adesione ai contratti
collettivi, ovvero una ricezione di essi nei contratti individuali, desumibili da una
pratica costante, consolidatesi attraverso l’uniforme e prolungata applicazione dei
contratti stessi.
Con l’emanazione del codice civile del 1942, il contratto collettivo fu
introdotto nel sistema delle fonti del diritto, in una posizione subordinata alla
legge ed ai regolamenti, a cui non poteva derogare. Nel 1944 con la soppressione
dell’ordinamento corporativo, però, venne meno anche il contratto collettivo
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corporativo. Il contratto collettivo ritornò nell’area dell’autonomia private, perché
le organizzazioni sindacali stipulanti i nuovi contratti erano ritornate sotto il
regime privatistico. Per quanto riguarda l’efficacia dei contratti collettivi si sono
succeduti numerosi dibattiti. L’art. 39 C. al comma VI stabilisce che i sindacati
registrati, e quindi dotati di personalità giuridica, possono, attraverso una
delegazione che rappresenti ciascuno di essi (in proporzione al numero dei loro
iscritti), stipulare con i datori di lavoro contratti collettivi, aventi efficacia per tutti
gli appartenenti alla categoria interessata, anche se non iscritti ai sindacati
stipulanti: cosiddetta “efficacia erga omnes”. Senonché, la mancata emanazione
della legge, destinata a disciplinare la registrazione dei sindacati, ha di fatto reso
inoperante il meccanismo previsto in costituzione dei contratti collettivi efficaci
“erga omnes”. I contratti collettivi, così, anziché sottostare alla disciplina dell’art.
39 C. comma IV, seguono le ordinarie regole sui contratti fra i privati e si dicono,
quindi, contratti collettivi di diritto comune. In base a tali regole i contratti
collettivi dovrebbero avere efficacia solo nei confronti dei lavoratori e dei datori
di lavoro, iscritti ai sindacati stipulanti. Per rimediare a tutto ciò, il Parlamento
votò la legge n. 741 del 1959 che delegava il Governo a trasformare in “decreti
legislativi”, vincolanti per tutti i soggetti dell’ordinamento, il contenuto dei
contratti collettivi, che fossero stati stipulati dai sindacati non registrati. Ciò, però,
non ebbe lunga durata. E, nella realtà, tuttavia i contratti collettivi hanno, di fatto,
una efficacia che va al di là degli iscritti ai sindacati stipulanti, e finiscono per
applicarsi a tutti i lavoratori del settore, cui il contratto collettivo si riferisce,
anche se non iscritti al sindacato, ciò almeno per quello che concerne la
determinazione della retribuzione. Questo è dovuto principalmente al fatto che la
giurisprudenza considera i minimi retributivi, stabiliti nei contratti collettivi, la
retribuzione sufficiente, richiesta dall’art. 36 C., per assicurare al lavoratore ed
alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Nel rapporto tra contratto
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collettivo e contratto individuale di lavoro, è prevista la prevalenza delle
clausole del primo su quelle del secondo, a meno il secondo non disponga più
favorevolmente per il lavoratore. I contratti collettivi, dunque, sono definibili
come “quei contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e
dalle corrispondenti associazioni dei datori di lavoro (ovvero del singolo datore di
lavoro), contenenti le regole, cui sono tenuti ad uniformarsi i singoli contratti
individuali di lavoro”. Il contratto collettivo, che appartiene alla categoria dei
“contratti normativi” mediante i quali le parti fissano il contenuto dei futuri
contratti, che essi saranno liberi di concludere tra loro, vincola il contenuto dei
successivi contratti individuali di lavoro, stipulati dal singolo lavoratore con il
proprio datore di lavoro. Con il meccanismo del contratto collettivo, le condizioni
di lavoro non vengono contrattate con il datore, dai singoli lavoratori isolati: i
lavoratori, infatti, si presentano alle trattative con i datori di lavoro come un
“gruppo organizzato” e grazie a ciò con una maggiore forza contrattuale; in tal
modo si riduce lo squilibrio tra lavoratori e datore che, per le diverse posizioni
economiche e sociali, esiste a vantaggio dei secondi. In origine, i contratti
collettivi regolavano solo la misura della retribuzione ed, infatti, erano chiamati
“concordati di tariffa”. Oggi, invece, essi hanno un contenuto più complesso che
si può distinguere in due parti:
•
la parte economica è quella in cui vengono definiti gli aspetti
retributivi;
•
la parte normativa è quella che disciplina i diritti dei lavoratori, non
aventi carattere immediatamente patrimoniale, come ad es. il diritto al riposo, alle
ferie, o altri diritti (come l’informazione su determinati avvenimenti).
La dottrina ha teorizzato una distinzione, all’interno del contratto collettivo,
secondo la quale accanto ad una parte normativa, costituita dalle disposizioni
contrattuali preordinate a determinare minimi di trattamento economico e
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normativo, sarebbe individuabile un’altra parte che viene definita obbligatoria.
La caratteristica comune delle clausole obbligatorie e individuata nel fatto che
instaurano rapporto obbligatori, nono facenti capo alle parti del rapporto
individuale di lavoro, bensì a soggetti collettivi. La distinzione, non è sempre
rilevabile: a volte vengono stipulati contratti collettivi in qui mancano del tutto
clausole dell’uno o dell’altro tipo. Altre clausole presenti possono essere anche
quelle di amministrazione o istituzionali che delineano, ad esempio, le
procedure conciliative o di arbitrato o che pongono in essere particolari organi o
istituzioni. Ci sono, in fine, delle clausole che per la loro funzione, pur
avvicinandosi a quella normativa, ne differisce per alcuni aspetti: si tratta delle
ipotesi in qui le parti nell’esercizio di una funzione compositiva dei conflitti
giuridici, dispongono, in genere, in forma transattiva o accertativa, di situazioni
giuridiche gia formatesi (transazioni, ad esempio, intorno a somme contestate, o
accordi per l’interpretazione di clausole ambigua ecc.). L’”inderogabilità in
peius” consiste nel fatto che il contratto individuale, che regola il singolo
rapporto di lavoro, non può disporre trattamenti economici e normativi peggiori
per il lavoratore di quanto previsto dal contratto collettivo applicabile a quel
rapporto di lavoro. Qualora ciò avvenga la conseguenza è, non solo un’azione di
risarcimento di danno, bensì l’automatica sostituzione delle clausole di contenuto
peggiorativo con quelle più favorevoli per il lavoratore previste dal contratto
collettivo. Per il contratto collettivo di diritto comune, l’affermazione del
principio dell’inderogabilità ha costituito per anni un tema di acceso dibattito. La
dottrina può essere distinta in due orientamenti di fondo:
•
l’uno tendente a risolvere il problema con soluzioni interne al sistema
di principi del diritto civile;
•
l’altro tendente a cercare soluzioni fondate sui dati normativi: estranei
ai principi civilistici classici.
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All’interno del primo orientamento, ha ancora oggi rilievo l’elaborazione di
Passarelli per il quale il contratto collettivo è l’espressione di un fenomeno
d’autoregolamentazione di privati interessi fra gruppi contrapposti, che può essere
sintetizzata nella formula “autonomia collettiva”. Questa particolare forma
d’autonomia privata ha natura collettiva perché i soggetti che la esprimono sono
portatori dell’interesse di una pluralità di persone ad un bene idoneo a soddisfare
il bisogno comune di tutte. Pur essendo entrambi interessi privati, l’interesse
collettivo prevale sull’interesse individuale e il contratto collettivo prevale sul
contratto individuale. L’inderogabilità del contratto collettivo concerne solo i
trattamenti peggiorativi per i lavoratori; e invece possibile che il contratto
individuale di lavoro si discosti dal contratto collettivo, derogandolo “in melius”.
Il principio è esplicitato dell’art. 2077 c.c. per cui “ i contratti individuali di
lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto
collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo. Le clausole difformi dei
contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono
sostituite di diritto da quale del contratto collettivo, salvo che contengono speciali
condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”. Non sempre è agevole stabilire
se il trattamento previsto dal contratto individuale sia più favorevole per i
lavoratori rispetto al trattamento previsto dal contratto collettivo. La questione è
di semplice soluzione quando varia un solo elemento (per esempio la durata delle
ferie); a volte, però, possono variare due o più elementi. Sul punto si sono
decimati due orientamenti:
•
il cosiddetto “conglobamento” prevede che la comparazione deve
essere operata tra i trattamenti complessivi previsti da ciascuna fonte, applicando
la regolamentazione e che, valutata globalmente, risulti più favorevole per il
lavoratore;
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•
il cosiddetto “cumulo” prevede la messa a confronto delle singole
clausole di ciascuna delle regolamentazioni estraendo da ogni contratto le
clausole più favorevoli e cumulandole tra loro.
Problema del contratto collettivo di diritto comune è quello dell’efficacia
soggettiva, che si estende solo agli iscritti alle associazioni stipulanti. Tale
contratto è, infatti, efficace solo nei confronti di quei soggetti che abbiano
conferito all’associazione il potere di rappresentanza per la stipulazione dei
contratti collettivi, ed i l conferimento del mandato rappresentativo è, di norma,
collegato all’adesione all’associazione: nel momento in cui si iscrivono ad un
organizzazione sindacale, il lavoratore o l’imprenditore conferiscono il mandato a
stipulare contratti collettivi. Il “principio generale” in materia di efficacia
soggettiva è, pertanto, quello della vincolatività solo nei confronti degli aderenti
alle associazioni stipulanti. Tuttavia, nel corso degli anni, si sono delineati una
serie di meccanismi di estensione dell’ambito di applicazione del contratto
collettivo. La Cassazione ha fatto propria una tesi secondo la quale il datore di
lavoro, aderente all’associazione firmataria di un contratto collettivo, deve
applicare le disposizioni contrattuali nei confronti di tutti i proprio dipendenti e,
quindi, anche nei confronti del lavoratore non iscritto alle contrapposte
organizzazioni sindacali stipulanti. Tuttavia il contratto collettivo continua di
fatto, ad avere un’applicazione quasi generalizzata. Un orientamento che si sta
affermando progressivamente quello che considera il contratto collettivo
vincolante anche nei confronti del datore di lavoro il quale, pur non essendovi
tenuto ne abbia spontaneamente applicato il contenuto. Le clausole obbligatorie
del contratto collettivo istituiscono rapporti di obbligazione direttamente tra i
soggetti che stipulano il contatto (sindacati, associazioni imprenditoriali). La
dottrina ha individuato due ipotesi di clausole obbligatorie, particolarmente
rilevanti: quelle che impongono all’associazione il dovere d’influenza e quelle
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che pongono a carico dei soggetti collettivi, il dovere di pace sindacale, ossia il
dovere, nella vigilanza del contratto, di non far ricorso all’azione diretta. Per
quanto riguarda il dovere di influenza, esso impegna l’associazione, nel
momento in cui stipula il contratto collettivo, ad influire sugli associati perché
applichino la parte normativa dello stesso. Ben maggiore è l’importanza del
dovere di pace o di tregua sindacale, che consiste in un impegno a non far
ricorso all’azione diretta e a non organizzare agitazioni per conseguire la
modificazione del contratto prima della sua scadenza o prima che si presenti una
vicenda risolutiva dello stesso. In dottrina si è sostenuto che la stessa stipulazione
del contratto collettivo determinerebbe, come effetto naturale, il porsi tale dovere
di pace. Comunque, l’obbligo di tregua, ove venisse assunto senza ulteriori
specificazioni, sarebbe naturalmente relativo alle sole materie sulle quali si è
formato l’accordo, escludendo i punti di conflitto sui quali il consenso non si è
ancora realizzato, nonché quelli relativi a controversie nuove che dovessero
sorgere (cosiddetto dovere relativo di pace sindacale): un’estensione del suo
contenuto a materie non regolate espressamente dal contratto, potrebbe
ammettersi solo ove fosse statuito in maniera esplicita in tal senso (cosiddetto
dovere assoluto di pace sindacale) de in limiti tali, comunque, da non vanificare
totalmente il diritto di sciopero. Rientrano nella parte obbligatoria anche le norme
contrattuali che obbligano l’imprenditore a dare alle rappresentanze dei lavoratori
informazione preventiva su alcune decisioni gestionali che intende assumere; in
genere, a seguito dell’informazione le rappresentanze sindacali possono chiedere
un incontro per esaminare il problema e il potere dell’imprenditore di assumere la
decisione rimane sospeso per la durata del procedimento. Questa tecnica
normativa ha assunto il nome di procedimentalizzazione del potere
dell’imprenditore, la quale consiste in una complicazione del processo decisionale
dell’imprenditore, essenzialmente volta a garantire che nel formarsi di certe
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decisioni si tenga conto degli interessi antagonistici sui quali va ad incidere
l’esercizio del potere. Il discorso sulla procedimentalizzazione ci consente di
individuare una doppia funzione del contratto collettivo aziendale: da un lato, essi
possono dettar norme sul trattamento economico e normativo dei lavoratori e
sulle relazioni sindacali, assolvendo dunque, anch’essi ad una funzione
normativa e ad una funzione obbligatoria. Ma il contratto aziendale può
assumere anche una funzione gestionale, cioè quella di concordare un
provvedimento di gestione del personale. Il contratto, in tal caso, non è chiamato
ad attribuire ai lavoratori bene0fici, ma a distribuire sacrifici, talvolta anche in
deroga agli standard, stabiliti dalla legge o da altri contratti collettivi.
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2 I contratti collettivi di diverso livello. La
contrattazione collettiva e la legge
I contratti collettivi possono essere nazionali se riguardano tutta una categoria
di lavoratori (metalmeccanici, edili, ecc.) o aziendali, se riguardano solo i lavoratori
di una determinata impresa (Olivetti, Fiat, ecc.). In tal caso controparte del sindacato
dei lavoratori non è il sindacato degli imprenditori, ma un singolo imprenditore. Le
condizioni del contratto aziendale “integrano” e “specificano” quelle del contratto
nazionale della categoria cui appartiene l’impresa in questione: è la cosiddetta
contrattazione articolata o integrativa.
Soggetti del contratto collettivo possono definirsi quelle entità collettive che
risultano portatrici, per investitura dei singoli, del relativo potere negoziale di
autonomia. Benché dette entità possano essere talvolta il risultato di una
rappresentanza occasionale e limitata, solitamente si tratta invece di soggetti investiti
della negoziazione collettiva in via permanente e cioè i sindacati.
Nel nostro paese si è instaurata una prassi di contratto a tre (CGIL, CISL, UIL)
dalla parte dei lavoratori con la Confindustria dalla parte dei datori di lavoro. Alla
luce di questa ulteriore precisazione si può affermare che i livelli principali della
contrattazione sono:
•
il livello interconfederale, in cui contrattano le Confederazioni Cgil, Cisl, Uil e
le associazioni negoziali delle imprese, come la Confindustria, la Confapi, le
organizzazioni rappresentative dell’artigianato e della cooperazione. A questo livello
si producono i protocolli d’intesa sulle relazioni industriali;
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•
il livello nazionale di categoria, in cui contrattano sindacati nazionali
rappresentanti le varie categorie (es. metalmeccanici, chimici ecc.) e le relative
associazioni imprenditoriali. Questo livello produce i contratti collettivi nazionali di
lavoro;
•
il livello aziendale, che produce un accordo valido per i lavoratori di una
determinata impresa, solitamente migliorativo rispetto ai CCNL.
Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in
contrasto fra loro, il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato, per la
dottrina e la giurisprudenza dominanti, nel criterio della specialità, ossia nella
preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale. Per quanto
concerne i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale va detto che essi
sono
strettamente
regolati,
nel
nostro
ordinamento,
dal
meccanismo
dell'inderogabilità in peius di natura reale; è invece possibile che il contratto
individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius. Tuttavia, in
tema di fonti del diritto del lavoro, l'argomento di maggior interesse è quello del
rapporto tra la legge e contrattazione collettiva.
Così come abbiamo avuto modo di osservare in occasione delle lezioni
precedenti, per il rapporto di lavoro la gerarchia delle fonti è la seguente:
1.
principi generali del diritto;
2.
Costituzione e norme di diritto internazionale generalmente riconosciute;
3.
regolamenti e direttive comunitarie immediatamente dispositive;
4.
leggi nazionali ed atti aventi forza di legge;
5.
contratti collettivi e contratti individuali di lavoro;
6.
usi e consuetudine;
7.
principi interpretativi.
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L’applicazione rigida di tale schema presupporrebbe che nel contratto
collettivo contenente deroghe rispetto alle disposizioni di legge, queste ultime
prevarrebbero comunque rispetto ai contratti collettivi stessi. Sennonché, il principio
del favore verso il lavoratore fa prevalere, fra più fonti regolatrici del rapporto di
lavoro, quella più favorevole verso il lavoratore (derogabilità in melius).
Tra tali fonti possono stabilirsi tre forme di relazione funzionale:
1.
una funzione ordinaria del contratto collettivo di applicazione e specificazione
dei princìpi posti dalla legge;
2.
una funzione di disciplina del contratto collettivo, in virtù di espressa
previsione legislativa;
3.
una funzione derogatoria del contratto collettivo, abilitato da specifica
previsione legislativa a dettare una disciplina difforme da quella posta con legge.
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3 Il sistema delle relazioni sindacali nelle pubbliche
amministrazioni.
Una ricostruzione del sistema delle relazioni sindacali nel pubblico impiego
dopo l'ingresso della contrattazione come metodo generalizzato per la definizione del
rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti deve, necessariamente, partire dall’analisi
dei provvedimenti legislativi al riguardo maggiormente significativi, così come
succedutisi nel corso degli anni.
La legge quadro sul pubblico impiego del 29 marzo 1983, n. 93 rappresenta
una pietra miliare nell'avvio dei processi di cambiamento dell'amministrazione
pubblica anche se nei contenuti ed effetti ha risentito fortemente dei condizionamenti
derivanti dalla presenza, durante la sua formazione, di molti protagonisti ciascuno dei
quali portatore di uno specifico interesse.
In quel clima sono fissati i principi fondamentali cui la normativa del pubblico
impiego si deve ispirare: omogeneizzazione, perequazione, trasparenza retributiva ed
efficienza della pubblica amministrazione.
A tali principi conferiscono maggiore significato le norme per la definizione
degli strumenti organizzativi per la programmazione e la gestione del personale nel
settore pubblico (qualifica funzionale e profili professionali, mobilità); le procedure
di reclutamento, improntate a criteri di omogeneità; le norme di tutela dell'attività
sindacale nel pubblico impiego e dell'individuazione dei soggetti da ammettere alla
contrattazione.
Il negoziato, sulla base del principio di delegificazione che ispira la legge
quadro nel primo tentativo di flessibilizzazione dell'attività amministrativa, diviene
principio e metodo esteso a tutto il pubblico impiego per la definizione della
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disciplina di rilevanti assetti dello stato giuridico oltre che dell'intero trattamento
economico dei pubblici dipendenti e riguarda anche importanti momenti
dell'organizzazione della pubblica amministrazione, secondo i criteri di ripartizione
delle competenze tra la legge, o atto da essa derivante, e la contrattazione.
L'estensione del metodo della contrattazione si basa sul presupposto del
coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte organizzative come strumento idoneo al
recupero dell'efficienza e produttività delle pubbliche amministrazioni.
La storia si è incaricata di dimostrare che il pur lodevole tentativo del
legislatore, di fatto, non ha raggiunto il proprio obiettivo di ammodernamento della
pubblica amministrazione, introducendo, al contrario, elementi di consociativismo
che hanno reso difficile la distinzione dei ruoli dei soggetti pubblici e sindacali
coinvolti nel processo e, quindi, l'individuazione delle responsabilità per il mancato
raggiungimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia. Ciò nonostante, proprio
l'esperienza della legge 93 del 1983, ha consentito di realizzare con le successive
riforme del 1993 l'avvio di un reale processo di privatizzazione del pubblico impiego.
Infatti, dal momento che la contrattazione è stata posta dalla legge quadro
come principio e metodo nella definizione di parte cospicua del trattamento giuridico
ed economico del personale pubblico, si deve ad essa l'avvio della costruzione del
sistema della rappresentatività sindacale nel pubblico impiego, frutto inizialmente di
accordi e di autoregolazione sino alle attuali regole legislative che la disciplinano.
L'art. 6 della legge n. 93 del 1983 stabilisce la composizione delle delegazioni
trattanti a livello nazionale nei comparti del pubblico impiego, sia di parte pubblica
che sindacale. Per le organizzazioni e le confederazioni sindacali viene introdotto il
principio della «maggiore rappresentatività» su base nazionale in ciascun comparto,
senza, tuttavia che siano stabiliti i parametri di riferimento. La stessa legge individua
i comparti in cui sono suddivise le amministrazioni pubbliche ed estende
l'applicazione di parte della legge n. 300 del 1970 ai pubblici dipendenti.
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La definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività delle
organizzazioni sindacali del pubblico impiego, nel periodo di vigenza della legge
quadro n. 93, si deve all'accordo intercompartimentale recepito con D.P.R. 23 agosto
1988, n. 395, che si caratterizza anche per altri aspetti significativi diretti alla
regolazione dei diritti e delle relazioni sindacali, anticipatori della disciplina
legislativa degli anni successivi (cfr. artt. da 8 ad 11 del decreto).
L'accertamento della maggiore rappresentatività di cui all'art. 6 della legge
quadro n. 93 del 1983, riferito alle organizzazioni e confederazioni sindacali da
ammettere alle trattative nazionali, non più fondato sul principio della mera
apposizione della firma dei precedenti contratti, è stato reso possibile dall'art. 8 del
citato accordo intercompartimentale con la fissazione dei relativi criteri e principi
guida.
La disposizione affida il compito della rilevazione dei dati e della misurazione
della rappresentatività al Dipartimento della Funzione Pubblica che vi provvede con
l'invio a tutte le amministrazioni della circolare-direttiva n. 24518/88-8.93.5 del 28
ottobre 1988 (pubblicata sulla G.U. del 2 novembre 1988, n. 257) e modificata con
circolare n. 2759, dell'11 marzo 1991. La rilevazione è diretta ad accertare:
- la consistenza associativa dei sindacati rilevata in base alle deleghe rilasciate
dai dipendenti alle singole amministrazioni per la ritenuta del contributo sindacale;
- l'adesione ricevuta in occasione di elezione di membri sindacali in organismi
amministrativi previsti dalle leggi all'epoca vigenti, costituiti nell'ambito dei vari
comparti, ovvero di altre consultazioni elettorali (ad es. il Consiglio superiore della
pubblica amministrazione, etc);
- la diffusione e consistenza delle strutture organizzative dei sindacati negli
ambiti territoriali di ciascun comparto di contrattazione, valutate sulla base
dell'applicazione del criterio indicato nel primo alinea.
Peraltro, alcune delle considerazioni dell'epoca, prevalentemente rivolte
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La contrattazione collettiva
all'autoreferenzialità del sistema di accertamento proveniente da un accordo tra le parti,
sono riprese nel parere
espresso dal Consiglio di Stato dopo l'esito del referendum sull'originario art. 47
del D.Lgs n. 29, che aveva nuovamente affidato la definizione delle regole di
rappresentatività delle organizzazioni sindacali del pubblico impiego ad un analogo
strumento.
Da un sommario esame del complesso delle disposizioni dell'epoca emerge,
comunque, che erano ammesse alle trattative nazionali le organizzazioni sindacali che
superavano il 5% delle deleghe complessive del personale del comparto ovvero dei
voti nelle elezioni degli organismi rappresentativi individuati dalle leggi di settore.
Tali criteri erano alternativi tra loro ma non sufficienti - isolatamente presi - a produrre
l'ammissione se non accompagnati dal dato della consistenza territoriale, attestato dalla
percentuale di presenza in almeno un terzo delle regioni e province. La percentuale
richiesta per il riconoscimento della rappresentatività saliva al 6% per le
organizzazioni sindacali della dirigenza. A tal fine si deve rammentare che nei
comparti in cui la dirigenza era già allora «contrattualizzata» (comparto delle RegioniAutonomie locali, Sanità, Enti ed Istituzioni di ricerca), l'accordo di lavoro era unico
o, al più, come nel Servizio sanitario nazionale, formato da due separate aree negoziali
all'interno del medesimo accordo.
Le confederazioni erano considerate rappresentative a livello nazionale a
condizione di avere, in almeno due comparti, l'adesione di organizzazioni di categoria
rappresentative sulla base dei criteri sopra indicati o, in alternativa, di essere presenti
nel CNEL.
Per sottolineare la peculiarità del precedente sistema, si evidenzia che le
confederazioni riconosciute rappresentative erano ammesse a partecipare anche alle
trattative per gli accordi quadro e a qualsiasi altra trattativa di comparto, anche se prive
di organizzazioni di categoria aderenti e rappresentative in ciascuno di essi.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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La contrattazione collettiva
L'unica eccezione alla regola era rappresentata dall'area della dirigenza medicoveterinaria al cui tavolo, all'epoca, erano ammesse solo le organizzazioni sindacali di
categoria.
I criteri così definiti, essendo meramente numerici e, quindi, troppo rigidi, erano
stati temperati dalle stessi circolari-direttive del Dipartimento, con il riconoscimento in capo a quest'ultimo - di un potere discrezionale nel valutare l'ammissibilità alle
trattative nazionali anche di organizzazioni di categoria che - pur non avendo
raggiunto la soglia di rappresentatività richiesta - fossero sufficientemente vicine ad
essa ovvero risultassero rappresentative di minoranze di lavoratori di particolare o alta
professionalità, comunque, significative nell'ambito del comparto preso in
considerazione.
Le modalità di esercizio del potere discrezionale da parte del Dipartimento della
Funzione Pubblica hanno dato luogo ad un notevole contenzioso e ad una copiosa e
significativa giurisprudenza dei TAR, ai quali si deve la concettualizzazione delle
specifiche tipologie professionali e categorie settoriali che ha consentito l'ammissibilità
alle trattative delle piccole organizzazioni rappresentative di professionisti o di settori
(ad esempio, nel caso degli enti locali, delle camere di commercio o dei vigili; nella
sanità dei chimici etc), ritenute meritevoli di tutela sindacale per la loro specificità, a
prescindere dal raggiungimento della percentuale di rappresentatività richiesta alla
generalità delle organizzazioni (cfr. per tutte le più recenti: TAR Lazio n. 518 del
1994; Cons. St., sez. IV, 23 marzo 1998, n. 347; idem 3 dicembre 1998, n. 948; idem
27 aprile 1999, n. 525, tutte relative a controversie instauratesi prima del D.Lgs. n. 396
del 1997).
Aderendo a tali decisioni, le successive integrazioni della circolare-direttiva del
1988 hanno, comunque, dettato apposite regole anche per l'ammissione alle trattative
nazionali di tali organizzazioni, individuando criteri di calcolo della consistenza
associativa basati sul personale sindacalizzato appartenente alla categoria o settore
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La contrattazione collettiva
anziché sul complesso del personale del comparto.
Da sottolineare, infine, che le circolari in questione dettavano regole identiche a
quelle nazionali per l'accertamento della rappresentatività e l'individuazione delle
organizzazioni sindacali da chiamare alla contrattazione decentrata; sicché poteva
verificarsi che i soggetti di quest'ultima fossero in tutto o in parte diversi dai
sottoscrittori
dell'accordo
nazionale.
Il
compito
era
affidato
alle
stesse
amministrazioni. Sulla legittimità del principio cfr. TAR Lazio, Sez. I, 4 ottobre 1996,
n. 1748, che si è espresso sulla normativa vigente prima del referendum. La
rappresentanza del personale nei luoghi di lavoro era dunque affidata agli stessi
soggetti ivi riconosciuti come rappresentativi, non essendo richiamata dall'art. 23 della
legge quadro n. 93, che riguarda l'applicazione nel pubblico impiego dei principi della
legge n. 300 del 1970, proprio la norma sulla rappresentanza del personale nei luoghi
di lavoro (art. 19), a dimostrazione della specificità del pubblico impiego.
Ai criteri di rappresentatività del D.P.R. 395 del 1988 e delle successive
circolari del Dipartimento della Funzione Pubblica, si deve un altro fenomeno:
l'aggregazione delle sigle sindacali ai fini del raggiungimento della percentuale
richiesta, che - se da una parte - ha prodotto il risultato di far scomparire una miriade di
piccoli sindacati, in precedenza ammessi singolarmente alle trattative nazionali,
dall'altra è stato sinonimo di una elevata conflittualità all'interno delle sigle sindacali
che si federavano tra di loro più per motivi contingenti, legati al raggiungimento della
prevista consistenza associativa, che per la condivisione di una strategia e politica
sindacale comuni; il che ha comportato un'alta mobilità associativa, inducendo il
Dipartimento a cambiare con molta frequenza ed anche in corso di trattativa, i decreti
di individuazione della delegazione di parte sindacale da ammettere alle trattative.
Come ulteriore considerazione si deve annotare che la procedura della
rilevazione ed il riconoscimento dell'ammissibilità avevano assunto, nel quadro di
riferimento dell'epoca, anche per la natura degli atti adottati (decreti) la chiara
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La contrattazione collettiva
connotazione di provvedimenti amministrativi pur vertendosi in materia di diritti
sindacali, con conseguente tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo.
Per effetto delle leggi collegate alla manovra finanziaria di metà anno 1992, la
contrattazione del pubblico impiego è stata sospesa e rinviata al 1 gennaio 1994 in
attesa della riforma avvenuta con il D.Lgs. del 3 febbraio 1993, n. 29, recante le norme
per la razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche e la revisione della disciplina
in materia di pubblico impiego, al quale si deve l'avvio del processo di privatizzazione
del rapporto di lavoro dei dipendenti e dirigenti pubblici.
In tale contesto, l'originario art. 47 del citato decreto, con riguardo alle
organizzazioni e confederazioni sindacali da ammettere alle trattative nazionali e
decentrate conferma, in via transitoria, la regolamentazione del D.P.R. n. 395 del 1988
e delle successive circolari-direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica, sino
alla conclusione di un ulteriore accordo con il quale avrebbe dovuto essere
nuovamente disciplinato l'accertamento della maggiore rappresentatività sul piano
nazionale delle confederazioni ed organizzazioni sindacali.
il referendum abrogativo dell'11 giugno 1995 ha avuto esito positivo, decretando
la caducazione dell'art. 47 che regolava, in via transitoria, l' accertamento della
rappresentatività dei soggetti da ammettere alle trattative nazionali e decentrate. In tal
senso si è espresso anche il Consiglio di Stato, il quale, con il parere del 27 settembre
1995, n. 355, ha individuato in una fonte normativa, presumibilmente di legge, la fonte
abilitata a rivedere, per il futuro, il sistema della rappresentatività e rappresentanza
sindacale, come poi avvenuto con la legge 59 del 1997 ed i successivi Decreti
Legislativi n. 396 del 1997 e n. 80 del 1998 cui sarà fatto un cenno più avanti.
L'abrogazione dell'intero art. 47 ha prodotto effetti diversi sull'individuazione
dei soggetti da ammettere alle trattative nazionali e decentrate, incidendo sia sulla
rappresentatività che sulla rappresentanza del personale. Infatti a livello nazionale, si è
verificato un totale vuoto normativo, arrivato in un momento assai critico,
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La contrattazione collettiva
caratterizzato - nell'imminenza dell'avvio dei negoziati dei contratti collettivi relativi al
secondo biennio 1996-1997 - dalla necessità di un nuovo accertamento della
rappresentatività (ferma ai dati rilevati dal Dipartimento della Funzione Pubblica oltre
tre anni prima), anche nel rispetto dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte
Costituzionale 4 dicembre 1995, 497 che aveva considerato illegittima ogni forma di
cristallizzazione della rappresentatività.
Per affrontare la momentanea emergenza ed in mancanza di un atto normativo, il
Governo - con propria direttiva - ha conferito all'Aran («Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni» costituta dal D.Lgs. n. 29 per la
contrattazione nel pubblico impiego) il mandato di individuare nuovi criteri di
rappresentatività per l'ammissione alle trattative delle organizzazioni e confederazioni
sindacali nel biennio citato.
Essendo l'Aran priva, all'epoca, di qualsiasi competenza in materia di
accertamento della rappresentatività - funzione rimasta ancora al Dipartimento della
Funzione Pubblica - la forzatura delle direttive governative appare evidente, anche se
giustificabile, sul piano logico, perché, in fondo, coerente con il sistema privatistico
nel cui ambito il potere del riconoscimento della propria controparte compete al
soggetto negoziale datore di lavoro, anche se tale qualificazione è impropria rispetto
all'Aran. Il difetto di competenza dell'Agenzia, eccepito dalle organizzazioni sindacali
nei giudizi instauratisi avverso i successivi accertamenti della rappresentatività, si è,
comunque, definitivamente sanato con la legge n. 59 del 1997 ed i successivi decreti
delegati.
L'Aran, sempre nella logica che l'accertamento fosse un provvedimento
amministrativo, ha assolto il mandato affidatole con deliberazioni assunte il 9 e 13
febbraio 1996 che presentano qualche spunto di novità rispetto alle circolari-direttive
del Dipartimento, poi ripreso dalla successiva legislazione delegata. Infatti, fermi
rimanendo i criteri relativi alla consistenza associativa ed alla diffusione territoriale,
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La contrattazione collettiva
viene meno il criterio dei voti riportati nell'elezione degli organismi sindacali interni,
ove previsti, essendo questi ormai stati soppressi dalla legislazione della riforma;
rimangono anche invariate le differenti percentuali di rappresentatività richieste per i
comparti e per le aree della dirigenza dalle circolari-direttive del Dipartimento della
Funzione Pubblica.
Spariscono dai comparti le verifiche della rappresentatività per le categorie
settoriali e le specifiche tipologie professionali mentre, in ottemperanza all'art. 46 del
D.Lgs. n. 29, non toccato dal referendum abrogativo, il personale appartenente a
queste ultime è annesso alle aree della dirigenza e, quindi, la flessibilizzazione delle
percentuali di rappresentatività si rinviene solo con riferimento a queste aree. I criteri
numerici fissati dalle deliberazioni sono vincolanti per l'Aran e non consentono a
questa di esercitare alcun potere discrezionale circa l'ammissione alle trattative delle
organizzazioni di categoria vicine alla soglia di rappresentatività. Le confederazioni
sono ammesse alle trattative di tutti i comparti o di tutte le aree dirigenziali solo se,
rispettivamente negli uni o nelle altre, hanno due organizzazioni di categoria
rappresentative ad esse aderenti, a differenza del passato in cui era sufficiente avere
due organizzazioni in totale (indifferentemente di comparto o di area) per essere
ammessi a tutte le trattative, comprese quelle degli accordi quadro. La modifica di
parte dei criteri di accertamento della rappresentatività ha provocato l'esclusione dalle
trattative del secondo biennio 1996-1997 di alcune confederazioni ed organizzazioni di
categoria di settori particolari con la conseguente impugnativa dinanzi al giudice
amministrativo.
Le istanze cautelari sono state accolte (con conseguente ammissione con riserva
dei soggetti esclusi alle trattative dei relativi comparti o aree) sorprendentemente, non
con riferimento ai criteri prescelti o al difetto di competenza dell'Aran (pur rilevato da
alcuni ricorrenti), ma al fatto che l'esclusione avrebbe comportato l'impossibilità, per
le organizzazioni e confederazioni non più rappresentative, di partecipare al rinnovo
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La contrattazione collettiva
dei contratti di lavoro del secondo biennio di parte economica, ritenuti dal TAR non
contratti autonomi ma prosecuzione del contratto quadriennale di parte normativa e I
biennio economico (cfr. per tutte TAR Lazio, sez. I, ordinanza motivata 899 del 1996;
id. dec. 2 dicembre 1997, n. 2007).
Vale la pena di ricordare che, nel corso di tali giudizi, l'Aran ha proposto il
regolamento di giurisdizione ritenendo che le controversie in tema di diritti sindacali
fossero, anche nel sistema pubblico, ormai di competenza del giudice ordinario. La
Corte di Cassazione a sezioni riunite con sentenze 1398 del 1997 e 7179 del 1998
(confermative della sentenza dello stesso giudice 17 marzo 1989, n. 1354) ha attribuito
alla giurisdizione del giudice ordinario la tutela degli interessi propri ed esclusivi delle
organizzazioni sindacali, anche quando tali interessi si concretizzino nell'ambito
dell'impiego pubblico. Principio ormai confermato nell'art. 68, comma 3 del D.Lgs. n.
29 del 1993 (ora 63 del D.Lgs. 165 del 2001).
Nessuno dei giudizi relativi ai ricorsi presentati avverso le delibere dell'Agenzia
si è concluso nel merito per la mancanza di interesse a proseguirli da entrambe le parti,
anche dinanzi al giudice ordinario, essendosi ormai concluse le trattative dei comparti
o delle aree interessate tra il 1996 ed il 1997. Non è dato, quindi, conoscere quale
sarebbe stato il giudizio finale sul contenzioso dell'epoca, ripresentatosi, come
vedremo più avanti, con altri esiti, anche nella stagione contrattuale 1998-2001.
Dall'esame delle norme legislative citate negli ultimi paragrafi e dal contributo
fornito, alla loro realizzazione e completamento, dai contratti collettivi quadro per la
parte di competenza, emerge con molta chiarezza che nel pubblico impiego esiste un
sistema forte di relazioni sindacali che - pur nel rispetto dei reciproci ruoli - trova la
sua ragione nella partecipazione delle parti sociali al processo di riforma, voluta
espressamente allo scopo di ottenere il massimo coinvolgimento e la condivisione dei
lavoratori interessati al cambiamento (art. 9 del D.Lgs. 165 del 2001).
L'affidamento alla fonte pattizia della regolazione delle relazioni e dei diritti
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La contrattazione collettiva
sindacali, oltre a prevedere la partecipazione di tali soggetti alla trasformazione del
modello organizzativo, contribuisce a garantire un confronto costruttivo tra le parti,
frutto dell'auto disciplina come regola di comportamento.
La rappresentatività e la rappresentanza nei luoghi di lavoro sono due concetti
del tutto diversi ma strettamente interconnessi al punto che spesso è difficile
distinguerli.
La misurazione della rappresentatività dei sindacati a livello nazionale per
l'ammissione alle trattative si fonda, infatti, sul consenso manifestato dai lavoratori
attraverso l'iscrizione ed il pagamento del contributo sindacale e con il voto espresso
nell'elezione degli organismi di rappresentanza nei luoghi di lavoro, dati che,
congiuntamente, concorrono a formare la media sulla quale si calcola la percentuale di
legge.
La partecipazione alle elezioni delle RSU, pur rimanendo facoltativa, diventa,
nei fatti, un evento irrinunciabile e quasi obbligatorio per le organizzazioni sindacali
che altrimenti metterebbero a rischio la propria rappresentatività nazionale (cfr.
Tribunale di Roma, sentenza del 5 novembre 1999, n. 16451).
La misurazione di quest'ultima è periodica ed esaurisce i suoi effetti con
riguardo al biennio di riferimento. I risultati raggiunti, per lo stesso arco di tempo non
sono intaccati né dai mutamenti associativi delle organizzazioni sindacali ammesse né
dalle vicende degli organismi di rappresentanza elettivi (decadenza, mancato
funzionamento).
Per tale motivo, mentre la rappresentatività delle organizzazioni sindacali è
garantita a livello nazionale per un biennio e tale garanzia si estende anche ai
componenti territoriali delle stesse che - se firmatarie - fanno parte della delegazione
sindacale dei luoghi di lavoro, per le RSU, in caso di loro decadenza prima del termine
naturale del triennio, si deve immediatamente procedere alla rielezione in quanto esse
vivono di vita propria. La rielezione non influenza più i dati elettorali della
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La contrattazione collettiva
rappresentatività nazionale poiché quelli presi a riferimento coincidono con i risultati
ottenuti dai sindacati nei giorni fissati per le elezioni generali.
Come si è sottolineato nel paragrafo n. 10, nella sede di lavoro la rappresentanza
del personale assume una forma complessa che si esprime, al suo massimo livello,
attraverso l'elezione della RSU - che è il risultato di una scelta liberamente espressa,
con il voto, dai lavoratori a prescindere dalla loro iscrizione al sindacato - non meno
che attraverso l'appartenenza al sindacato stesso che, se firmatario dei contratti
collettivi nazionali, diventa soggetto negoziale con dignità e peso pari a quello della
RSU. In questo contesto si potrebbe affermare che la rappresentanza dei lavoratori nel
pubblico impiego non è univoca e mantiene un carattere di specialità, non potendosi
negare che essa possa essere esercitata disgiuntamente dai due soggetti (RSU o
sindacato rappresentativo, comunque presente nella sede di lavoro) o congiuntamente,
da entrambi, nell'ambito della delegazione trattante di cui fanno unitariamente parte.
Ecco anche, perché molto spesso, quando indicano i soggetti sindacali della sede
decentrata, i contratti collettivi preferiscono fare riferimento più alla delegazione nel
suo complesso che ai soggetti che la compongono, benché la contrattazione integrativa
non esaurisca tutti gli altri livelli di relazioni sindacali del luogo di lavoro che possono
essere attivati singolarmente dalla RSU a tutela dell'interesse dei lavoratori.
La compresenza nella sede decentrata di più soggetti di rappresentanza (elettivi
o designati) determina nell'attuale sistema anche una forma di competitività che porta
ad azioni di lotta interna fra i soggetti sindacali, come si è evidenziato nel precedente
paragrafo.
Non va poi trascurato il fatto che una forma di rappresentanza, sia pure molto
limitata e singolare, sia esercitata anche dai sindacati non rappresentativi (specie nei
casi di alta concentrazione di essi in alcune sedi di lavoro) i quali, oltre a poter essere
presenti tra i componenti eletti nella RSU, sono comunque abilitati a costituire i
terminali di tipo associativo, eredi delle tramontate RSA, in virtù della loro
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La contrattazione collettiva
partecipazione alle elezioni; organismi con i quali essi attestano la loro presenza nella
sede di lavoro, quanto meno, ai fini del proselitismo (art. 10 dell'accordo collettivo
quadro del 7 agosto 1998). In ogni caso, pur con le incertezze e le specificità che la
rendono peculiare, la riforma del 1998 della rappresentatività e della rappresentanza
delle organizzazioni sindacali nel pubblico impiego costituisce un esempio
significativo di regolazione delle relazioni sindacali, quale insieme di norme
legislative e pattizie, le quali, nella loro piena attuazione, si sono, da ultimo,
consolidate anche con il conforto di una costante favorevole giurisprudenza del giudice
ordinario.
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La contrattazione collettiva
4 I limiti all’autonomia privata nel rapporto di
lavoro
La funzione tradizionale e tipica del contratto collettivo è quella di dettare la
disciplina dei rapporti individuali di lavoro. L’attitudine del contratto collettivo a
realizzare tale funzione deriva dal fatto che esso non è una somma di contratti
individuali di lavoro, ma è destinato a trovare applicazione ad una serie aperta e, se si
vuole, indefinita di soggetti, se e quando diventeranno parti di un rapporto di lavoro
al quale quel contratto collettivo sia applicabile. Questa funzione tipica trova il suo
fondamento nella circostanza che il sindacato provvede alla stipula sulla scorta di un
potere giuridico che gli originariamente proprio e, cioè, nell’esercizio di un potere
che non gli è conferito dai singoli lavoratori. Soltanto in questa prospettiva, si spiega
come l’organizzazione sindacale possa, indifferentemente, avere struttura associativa
o istituzionale e, soprattutto, possa stipulare contratti collettivi nell’esercizio di un
potere che non è, né potrebbe essere, conferito dai singoli associati, in quanto questi
sono esclusivamente titolari dei poteri caratteristici dell’autonomia privata
individuale e non già del potere costitutivo dell’autonomia collettiva.
Del resto, che l’autonomia nell’esercizio della quale è stipulato il contratto
collettivo, pur essendo privata, sia diversa da quella individuale risulta dalla stessa
tipicità degli effetti di quel contratto. Questi ultimi non operano, come invece sarebbe
tipico della autonomia privata individuale, sul piano obbligatorio, in quanto non
determinano un obbligo del datore e del prestatore di lavoro di conformare il
contenuto del singolo rapporto alla disciplina dettata in sede collettiva. Piuttosto, gli
effetti del contratto collettivo incidono direttamente, e in modo inderogabile, sul
contenuto stesso dei rapporti individuali di lavoro. Ed è in questo senso che
all’esercizio della autonomia collettiva può essere ricondotta una efficacia di tipo
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La contrattazione collettiva
normativo.
Questa conclusione, peraltro, non comporta affatto che il contratto individuale
sia relegato in una posizione marginale rispetto a quello collettivo. In realtà, entrambi
i contratti sono idonei a dare direttamente assetto alla medesima situazione e, cioè, al
rapporto di lavoro. L’eventuale conflitto tra le due fonti è, però, risolto nel senso che
il contratto collettivo prevale su quello individuale, a meno che quest’ultimo non
preveda condizioni più favorevoli al lavoratore. Tutto ciò aiuta anche a comprendere
l’automatica applicazione del contratto collettivo di diritto comune in occasione dei
suoi periodici rinnovi, indipendentemente da una qualsiasi attività del datore o del
prestatore di lavoro.
In sintesi, la disciplina del rapporto è una disciplina inderogabile che, però, non
ha natura strettamente imperativa potendo essere in ogni momento derogata
dall’autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il lavoratore.
Ci si trova, quindi, in presenza non di una soppressione dell’autonomia contrattuale,
bensì della sua compressione per effetto dei limiti imposti da norme inderogabili, le
quali, restringendo il potere di autoregolamento del contraente forte a vantaggio del
contraente debole, hanno la funzione di sostenere l’autonomia individuale
rafforzandola dal lato del lavoratore.
Sia consentita, infine, un ultima precisazione: i limiti imposti all’autonomia
negoziale nel rapporto di lavoro subordinato e sanciti a pena di nullità dei patti
contrari mirano a realizzare l’effetto dell’inderogabilità del regolamento contrattuale,
in virtù del quale le clausole volute dai contraenti in difformità dai precetti delle
norme imperative di legge sono dalle stesse sostituite di diritto ex art. 1419 c.c.. Si
producono l’effetto eliminativo proprio della nullità, che si mescola alla sostituzione
legale delle clausole nulle ed alla inserzione automatica (inserimento nel contratto di
quelle clausole imposte dalla legge o dalle norme corporative).
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La contrattazione collettiva
5 La tassatività del tipo e qualificazione della
fattispecie del lavoro subordinato
Anche il problema dell’interpretazione del contratto e della qualificazione del
rapporto come di lavoro subordinato o, in alternativa, autonomo viene a collocarsi sul
terreno dell’autonomia contrattuale o dei limiti cui questa va incontro.
Per qualificare il rapporto occorre, ai sensi dell’art. 1362 comma 1 c.c.,
interpretare il contratto che lo ha instaurato e che lo regola e verificare se
dall’intenzione comune dei contraenti risulti o meno la volontà di stabilire un
rapporto di lavoro subordinato oppure autonomo.
In concreto ciò che conta, non è il contenuto dell’accordo contrattuale ( c.d.
volontà cartolare) ma l’attuazione e lo svolgimento dello stesso. L’attenzione deve
essere posta sul comportamento tenuto dai contraenti nella fase esecutiva del
rapporto, verificando in concreto se ricorrono gli indici sintomatici della
subordinazione.
In questo modo, la sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo e di
controllo viene in rilievo non soltanto come comportamento esecutivo del vincolo
obbligatorio, essa rileva come indicatore degli elementi tipici della fattispecie ed
altresì come indicatore, sul piano della realtà sociale, della ricorrenza in concreto
della figura del lavoratore subordinato.
La prevalenza del momento attuativo è anzitutto la conseguenza della
compressione dell’autonomia individuale quale fonte regolatrice del rapporto di
lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate (legge e/o contratto collettivo): di qui
il collegamento tra il tipo legale (o normativo) del contratto, identificato sul piano
causale dalla subordinazione come vincolo funzionale alla collaborazione, e la
disciplina imperativa del rapporto o statuto protettivo del lavoratore come persona e
come contraente debole.
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La contrattazione collettiva
In questo modo il contratto di lavoro sembra distaccarsi dal modello civilistico
del contratto come regolamento di interessi dominato dalla libertà contrattuale (art.
1322 comma 1 c.c.) e quindi dalla volontà delle parti. Ed invero in quel modello la
volontà comune si manifesta mediante l’accordo (art. 1325 n. 1 c.c.) e può
determinare liberamente il contenuto del contratto, scegliendo gli elementi del
concreto regolamento di interessi indipendentemente dallo schema o tipo legale in cui
tale operazione dovrà essere inquadrata.
In generale l’autonomia privata può determinare la concreta qualificazione del
contratto nell’uno o nell’altro dei tipi c.d. nominati oppure in nessuno dei tipi previsti
dalla legge, in particolare richiamando, modificando od escludendo liberamente gli
elementi essenziali di ciascun tipo legale. Viceversa nel contratto di lavoro alla
volontà delle parti è inibito separare la subordinazione dallo statuto protettivo.
Proprio perché essa non può essere separata dal tipo legale del contratto di lavoro
subordinato, che diversamente dagli altri tipi legali si configura quale tipo o modello
rigido di regolamento imperativo di interessi, si parla in proposito di indisponibilità
del tipo legale.
Ma è necessario chiarire che la compressione dell’autonomia contrattuale nei
limiti della funzione genetica del rapporto e la riduzione della sua funzione
regolamentare nei limiti segnati dalla legge e dai contratti collettivi (e dunque
restando salva la determinazione di patti o condizioni più favorevoli al lavoratore), se
giustificano la prevalenza del momento attuativo sul momento costitutivo del
rapporto, non importano che l’autonomia negoziale sia spogliata della libertà di
determinare , sia pure nei limiti stabiliti dalle norme imperative, il contenuto e
l’oggetto delle reciproche obbligazioni e in genere la struttura del rapporto
contrattuale e le sue vicende.
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La contrattazione collettiva
6 La formazione del contratto di lavoro.
La questione relativa alla formazione del contratto ci impone di fornire brevi
cenni in ordine alla stipulazione dei contratti collettivi per poi riferirsi a quelli
individuali.
Ogni contratto collettivo ha generalmente durata biennale o triennale. Alla
scadenza si procede alla rinnovazione del contratto stesso mediante un procedimento
che si articola nelle seguenti tre fasi:
1.
preparazione ed elaborazione della proposta contrattuale;
2.
negoziazione ed eventuale mediazione dei pubblici poteri;
3.
accordo finale.
Già prima della scadenza (ed entro comunque tre mesi), le organizzazioni
sindacali solitamente presentano delle piattaforme rivendicative (c.d. “pacchetti”).
Queste contengono specifiche richieste che rappresentano la base minima della futura
contrattazione.
Per quanto concerne, invece, il contratto individuale di lavoro, la fattispecie
non presenta particolarità rispetto alla normativa generale in tema di formazione e
conclusione del contratto. Il contratto di lavoro presenta, comunque, alcune
peculiarità rispetto al contratto generico di diritto civile. In particolare assume un
rilievo specifico la necessità di stabilire in quale momento può considerarsi
intervenuto l’incontro delle volontà idoneo a perfezionarne la conclusione: cioè
quando si verifichi l’esatta corrispondenza tra la proposta e l’accettazione. Di norma
tutto questo avviene tramite l’adesione del lavoratore, la qualcosa ha determinato
l’affermarsi della teoria secondo cui il contratto individuale di lavoro è assimilabile al
contratto di adesione (art. 1341 c.c.). Questa assimilazione non è però assoluta, in
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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La contrattazione collettiva
quanto, nel contratto individuale di lavoro, la determinazione delle clausole generali
non è bilaterale, non essendo queste ultime imposte dal contraente forte al fine di
dettare una regolamentazione uniforme di una serie determinata di contratti di massa
(art. 1341 c.c. – ratio del contratto di adesione).
La determinazione delle clausole è, infatti, demandata, normalmente,
all’autonomia collettiva laddove all’autonomia individuale compete peraltro in via
secondaria la determinazione di speciali condizioni più favorevoli al lavoratore (art.
2077 comma 2 c.c.).
La formazione del contratto individuale di lavoro presenta, altresì, ulteriori
diversità rispetto alla disciplina generale del contratto.
Se, infatti, prendiamo in esame due elementi fondamentali perché costitutivi
della sequenza relativa alla formazione del negozio, e cioè la forma ed il consenso,
risulta evidente come nel contratto di lavoro il ruolo di entrambi questi elementi sia
caratterizzato dalla presenza di molteplici limiti imposti dalla legge all’autonomia
contrattuale, in funzione non della tutela bilaterale dei contraenti, ma della tutela
unilaterale del lavoratore, quale contraente debole.
Specificatamente è da rilevare che, in relazione alla formazione del contratto
individuale di lavoro, vige il principio della libertà della forma. Vi sono però alcune
eccezioni:
1.contratto di arruolamento marittimo (art. 328 cod. nav.) → atto pubblico;
2.contratti di lavoro parziale, intermittente, ripartito → forma scritta ad probationem;
3.contratto di inserimento → forma scritta ad substantiam;
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La contrattazione collettiva
4.contratto di apprendistato, contratto di formazione e contratto di lavoro a progetto
→ forma scritta ad substantiam.
Va, altresì, evidenziata la tendenza ad imporre la forma scritta ad substantiam
per particolari patti o elementi accidentali del contratto di lavoro che potrebbero
risultate lesivi di un interesse del lavoratore (apposizione di un termine).
Degna di nota è la direttiva 14 ottobre 1991 n. 91/533, attuata con D.lgs 26
maggio 1997 n. 152 con cui si è imposto al datore di lavoro di comunicare al
lavoratore le principali condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro e di
informare il lavoratore circa eventuali variazioni.
In ordine alla manifestazione del consenso si deve notare che il momento
genetico della formazione e il momento attuativo dell’esecuzione vanno tenuti
distinti, pur non trascurando la prevalenza del ruolo del secondo rispetto al primo. Lo
scambio del consenso nell’ambito della formazione dei contratto individuali di lavoro
è questione più teorica che pratica. La differente posizione contrattuale del datore e
del prestatore, impone a quest’ultimo di accettare la proposta contrattuale a
prescindere dalla convenienza del contenuto. Dunque, nella formazione del contratto
di lavoro, oggetto del consenso non è tanto il contenuto quanto la stipulazione stessa
del contratto → non si discute tanto del come quanto del se del contratto, a conferma
della posizione impari ricoperta dal lavoratore che resta sempre il contraente debole.
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