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- LA GARANZIA PER I VIZI NELLA COMPRAVENDITA E NELL’APPALTO -
- Si tratta del sistema di tutele previsto in favore del compratore e del committente a fronte di
ipotesi di inesatto adempimento da parte del soggetto tenuto, nella compravendita e
nell’appalto, ad eseguire la prestazione caratteristica.
E’ possibile fare un parallelo tra la tutela approntata dall’ordinamento in favore del
compratore e quella prevista in favore del committente a fronte, rispettivamente, di vizi della
cosa venduta o dell’opera realizzata.
Sia nel contratto di vendita che nel contratto di appalto la parte tenuta alla prestazione
caratteristica (venditore e appaltatore, rispettivamente tenuti al trasferimento di un diritto o
alla realizzazione di un’opera) risponde verso l’altra parte per i vizi occulti riguardanti
l’oggetto della prestazione dovuta.
I rimedi approntati dall’ordinamento per tutelare il compratore e il committente a fronte dei vizi
costituiscono, dunque, il contenuto della garanzia per i vizi.
La disciplina di tale istituto opera un bilanciamento di interessi: da un lato, vi è l’esigenza di
apprestare una tutela rafforzata in favore del soggetto compratore o committente destinatario
della prestazione caratteristica; da un altro lato, vi è l’esigenza di tutelare l’interesse della
parte obbligata ad un accertamento rapido delle eventuali contestazioni sull’esattezza della
prestazione (questione della necessità di denunciare - contestare il vizio entro brevi termini di
decadenza e questione del termine di prescrizione entro cui è possibile agire in giudizio per
il riconoscimento del diritto alla garanzia).
- Agli effetti pratici il confronto in questione si impone perché, mentre sono simili gli strumenti
di tutela, diverse sono le condizioni per avvalersi della garanzia, con conseguente rilevanza
del problema della qualificazione della fattispecie concreta (se, cioè, il contratto debba
essere qualificato come vendita o come appalto).
In sintesi:
Nella Vendita, il contenuto della garanzia (che ricorre ogni qual volta la cosa venduta presenti
vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile
il valore, ex art. 1490 C.C.) è incentrato sulla possibilità di chiedere la risoluzione del
contratto o la riduzione del prezzo (art. 1492 C.C.). E’, poi, prevista la possibilità di chiedere il
risarcimento del danno (art. 1494 C.C.).
1
Il compratore decade dal diritto alla garanzia se non denunzia i vizi al venditore entro otto
giorni dalla scoperta; la denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza
del vizio o l’ha occultato; l’azione, inoltre, si prescrive in un anno dalla consegna della cosa
(art. 1495 C.C.).
Anche nel contratto di Appalto, in presenza di difformità o vizi dell’opera, il contenuto della
garanzia prevede che il committente possa chiedere, oltre che l’eliminazione dei vizi a spese
dell’appaltatore, i rimedi della riduzione del prezzo e della risoluzione del contratto (art. 1668
C.C.).
Quanto alle condizioni per avvalersi della garanzia, il committente deve, a pena di
decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro 60 giorni dalla scoperta; la
denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha
occultati (art. 1667 co. 2 C.C.); l’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno
della consegna dell’opera. (art. 1667 co. 3 C.C.).
Tener presente, al riguardo, che la più recente giurisprudenza, ai fini della distinzione tra
vendita e appalto, fa leva (più che sulla prevalenza dell’obbligazione di dare o di fare o a
quella della materia o del lavoro) sullo scopo o volontà delle parti, sì che “la distinzione tra
vendita e appalto, nei casi in cui la prestazione di una parte consista sia in un dare, sia in
un facere, non si esaurisce nel dato meramente oggettivo del raffronto fra il valore della
materia e il valore della prestazione d’opera, ma è necessario avere riguardo alla volontà
dei contraenti, per cui si ha appalto quando la prestazione della materia costituisce un
mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio...” (così
Cass. 30/3/1995 n. 3807 secondo cui è appalto il contratto relativo alla realizzazione di un
capannone prefabbricato da installare e porre in opera nel luogo indicato dal committente).
I profili di interesse nel confronto tra la disciplina della garanzia per vizi prevista per la vendita
e quella prevista per l’appalto meritano di essere considerati per l’ulteriore rilievo della
particolare disciplina della garanzia per i vizi prevista in favore del committente nell’ambito
del contratto di prestazione d’opera, ossia quel contratto con cui una persona si obbliga a
compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (art. 2222 C.C.): in tale
contratto, l’art. 2226 prevede che l’accettazione dell’opera libera il prestatore dell’opera per
le difformità e i vizi riconoscibili e, quanto alla garanzia del committente per difformità e difetti
occulti, prevede un contenuto della garanzia analogo a quello dell’appalto (art. 1668 C.C.) ma
con i più brevi termini di decadenza e prescrizione propri della vendita.
2
Tale profilo di disciplina della garanzia per i vizi prevista per il contratto d’opera fa emergere
un ulteriore, ricorrente, problema di qualificazione della fattispecie concreta, se cioè ci si trovi
di fronte ad un contratto di appalto ovvero ad un contratto di prestazione d’opera.
Tener presente, al riguardo, che la differenza tra contratto di appalto e contratto di
prestazione d’opera va ravvisata sotto un aspetto quantitativo piuttosto che qualitativo, posto
che “il contratto di appalto e il contratto d’opera hanno in comune l’obbligazione, verso il
committente, di compiere, a fronte di corrispettivo, un’opera o un servizio senza vincolo di
subordinazione e con assunzione di rischio da parte di chi li esegue, mentre la differenza
tra i due negozi è costituita dalla circostanza che nel primo l’esecuzione avviene mediante
un’organizzazione di media o grande impresa cui l’obbligato è preposto, nel secondo con il
prevalente lavoro di questi, pur se adiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche
collaboratore..” (così Cass. 17/7/1999 n. 7606).
Sempre per ciò che riguarda i problemi di qualificazione della fattispecie, non può
dimenticarsi l’ ulteriore problematica della disciplina di tutela accordata alla parte acquirente
nei casi in cui questa assuma lo “status” di consumatore rispetto all’acquisto di beni di
consumo, quale risulta ora prevista nell’ambito del testo normativo del Codice del Consumo
di cui al D.Lgs 6/9/2005 n. 206: invero, premesso che, ai fini di tale disciplina, per bene di
consumo deve intendersi, in generale, “qualsiasi bene mobile, anche da assemblare” e che
“ai contratti di vendita sono equiparati i contratti di permuta e di somministrazione nonchè
quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di
consumo da fabbricare o produrre” (art. 128 Codice del Consumo), va osservato che, in
caso di difetto di conformità del bene consegnato rispetto al contratto, la tutela dell’acquirente
consumatore è rafforzata per il fatto che, quanto a rimedi, a quelli già noti della riduzione del
prezzo e della risoluzione del contratto si aggiunge il “diritto al ripristino, senza spese, della
conformità del bene mediante riparazione o sostituzione..” (art. 130) e per il fatto che,
quanto a condizioni per avvalersi della “garanzia”, il venditore risponde per il difetto di
conformità quando questo si manifesta entro due anni dalla consegna del bene, che il termine
di decadenza per la denuncia del difetto di conformità è di due mesi dalla data della scoperta
del difetto e che l’azione diretta a far valere i difetti non dolosamente occultati dal venditore si
prescrive in ventisei mesi dalla consegna del bene (art. 132).
Tener presente, al riguardo, che, ai fini dell’applicabilità della speciale disciplina di tutela
relativa alla vendita dei beni di consumo, determinante è, oltre che la nozione di bene di
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consumo, l’attribuibilità alla parte dello “status” di consumatore, quale “persona fisica che
agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”
(art. 3 Codice del Consumo).
GARANZIA PER I VIZI NELLA VENDITA
- Si tratta del contenuto della garanzia prevista in favore del compratore per i vizi della cosa
venduta come disciplinata dagli artt. 1490 ss. C.C., con esclusione, quindi, del pur importante
panorama dei rimedi previsti in favore del compratore nella legislazione speciale, specie di
quelli che attengono ad ipotesi di vendita intercorse con un compratore consumatore,
recentemente ricollocate nell’unico testo normativo del Codice del Consumo di cui al D.Lgs
6/9/2005 n. 206.
In generale, in base alla norma di cui all’art. 1476 C.C., “quella di garantire il
compratore...dai vizi della cosa” costituisce una delle obbligazioni principali del venditore.
Da alcuni, in dottrina, è stato evidenziato, peraltro, che le effettive obbligazioni principali del
venditore sarebbero quelle di cui ai nn. 1) e 2) dell’art. 1476 C.C. (consegnare la cosa nello
stato di fatto in cui si trovava al momento della conclusione del contratto e far conseguire la
proprietà della cosa o del diritto se l’acquisto non è effetto immediato del contratto) e che la
soggezione del venditore alla garanzia per i vizi configurerebbe un’ipotesi di responsabilità
per inadempimento indipendentemente dalla colpa o di inesatta esecuzione del rapporto.
I presupposti per l’operare della garanzia sono previsti nella norma di cui all’art. 1490 C.C.
secondo cui “il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la
rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il
valore”.
L’art. 1490 co. 2 C.C. prevede la possibilità di un patto per escludere o limitare la garanzia;
tale patto non ha effetto per il caso che il venditore abbia in mala fede taciuto al compratore i
vizi della cosa; tener presente che tale patto soggiace ai limiti di cui all’art. 1229 C.C. e che,
se relativo a condizioni generali di contratto di cui all’art. 1341 C.C., configura clausola
vessatoria che richiede specifica sottoscrizione ai sensi del comma 2 dello stesso art. 1341
C.C. (Cass. 23/12/1993 n. 12759).
- Quanto a contenuto della garanzia, il sistema codicistico della garanzia per i vizi della cosa
venduta è incentrato sui rimedi della risoluzione del contratto e della riduzione del prezzo, e,
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quindi, sugli strumenti dell’azione “redibitoria” o di risoluzione contrattuale e sulla “quanti
minoris” o di riduzione del prezzo.
(Inciso: discorso sull’affermazione storica di questi strumenti nel diritto romano quando
oggetto delle compravendite erano essenzialmente beni infungibili, es. schiavi o cavalli:
problema dell’inadeguatezza di tali strumenti rispetto alla vendita di cose prodotte in serie, in
cui l’interesse dell’acquirente si incentra sulla sostituzione o sulla riparazione del bene.
Questione dibattuta circa l’esistenza di un’azione di esatto adempimento. Ipotesi particolare
dell’art. 1512 C.C. e possibilità del risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058
C.C. . Ora questione in parte superata, quanto alla materia della vendita dei beni di consumo
a seguito del D.Lgs. 2/2/2002 n. 24 che, dando attuazione a una direttiva CE, aveva inserito
un nuovo paragrafo nel C.C. agli artt. 1519 bis e ss. C.C. prevedendo, per il caso di difetto di
conformità, anche il diritto del consumatore acquirente al ripristino, con la riparazione o
sostituzione: tali rimedi risultano ora previsti e disciplinati agli artt. 130 e 132 Codice di
Consumo).
Risoluzione del contratto e riduzione del prezzo sono i rimedi previsti a scelta del compratore.
Trattasi di una scelta irrevocabile se fatta con domanda giudiziale.
I due rimedi sono fondati sul medesimo presupposto (art. 1490), per cui, in generale, la
relativa tutela è accordata al compratore in via alternativa, con conseguente inammissibilità
della proposizione cumulativa delle due azioni, ossia della proposizione in via subordinata
dell’azione di riduzione rispetto ad una principale richiesta di risoluzione del contratto
(essendo entrambe fondate sul medesimo presupposto, rigettata la domanda principale,
sarà rigettata anche la domanda subordinata di riduzione del prezzo).
In tal senso si è espressa Cass. SS.UU. 25/3/1988 n. 2565, secondo cui “l’acquirente che
agisca in garanzia per i vizi della cosa venduta non può esercitare l’azione per la riduzione
del prezzo subordinatamente al mancato accoglimento della domanda principale di
risoluzione del contratto”, principio ribadito da Cass. 11/4/1996 n. 3398, secondo cui “in
tema di garanzia per vizi della cosa venduta e per il caso in cui l’azione di riduzione del
prezzo sia accordata non in via esclusiva, ma in via concorrente con l’azione di risoluzione,
deve negarsi l’ammissibilità della domanda di riduzione in modo subordinato rispetto alla
proposizione in via principale dell’azione di risoluzione”.
Questo in generale; perché nel caso in cui l’azione di riduzione del prezzo è accordata non in
via concorrente ma in via esclusiva, allora in questo caso è possibile chiedere l’azione di
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riduzione del prezzo in via subordinata e in via principale l’azione di risoluzione, e, ciò, nel
dubbio sulla ricorrenza dei presupposti per la fattispecie di cui all’art. 1492 u.c. C.C.
(secondo cui, se la cosa consegnata è perita “per caso fortuito o per colpa del compratore, o
se questi l’ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo”).
In questo senso Cass. 24/10/1995 n. 11036, secondo cui “in caso di alienazione o
trasformazione della cosa venduta, da parte del compratore, qualora originariamente
sussista dubbio sull’ammissibilità dell’azione redibitoria, ovvero l’ammissibilità della stessa
sia contestata dal venditore - convenuto, il compratore - attore legittimamente può - per il
caso in cui detta azione redibitoria dovesse essere ritenuta inammissibile ed al fine di non
perdere ogni garanzia - chiedere anche l’unica tutela apprestatagli dall’art. 1492 terzo
comma C.C., vale a dire l’azione di riduzione del prezzo”.
Tener presente che la giurisprudenza, in tema di art. 1492 u.c., ha esteso l’ambito di
applicazione di tale norma dalla trasformazione del bene all’utilizzo del bene stesso (es.
Cass. 4/4/1998 n. 3500); la “ratio” dell’esclusione del rimedio della risoluzione del contratto in
tale ipotesi viene ricondotta non tanto alla impossibilità obbiettiva di ripristinare la situazione
delle parti anteriore al contratto quanto alla volontà dell’acquirente, manifestata attraverso
l’uso della cosa, di accettarla nonostante i vizi (da ultimo, Cass. 29/11/2004 n. 22416).
- Differenza tra azione di risoluzione quale contenuto della garanzia di cui all’ art. 1492 C.C. e
azione di risoluzione per inadempimento di cui all’ art. 1453.
Per la risoluzione del contratto per vizi non è necessaria la valutazione sulla non scarsa
importanza dell’inadempimento (art. 1455 C.C.), o, meglio, una tale valutazione è assorbita
nella verifica del presupposto di cui all’art. 1490 C.C. (Cass. SS.UU. 25/3/1988 n. 2565).
Altra grossa e fondamentale differenza sta nella diversità dei termini di prescrizione, nel
senso che per la risoluzione di cui all’art. 1453 C.C. è prevista la prescrizione ordinaria, per
quella di cui all’art. 1492 C.C. il termine di prescrizione è fissato all’art. 1495 in un anno dalla
consegna: la norma di cui all’art. 1495 prevede, infatti, sia un termine di decadenza di 8
giorni, dalla scoperta, per la denuncia del vizio, sia un termine di prescrizione di un anno,
dalla consegna, per far valere il diritto alla garanzia.
- Concettualmente distinta dalla categoria del vizio redibitorio di cui all’art. 1490 C.C. (che
richiama un’imperfezione materiale della cosa che incide sulla sua utilizzabilità o sul suo
valore) è l’ipotesi della mancanza di qualità di cui all’art. 1497 C.C. (ove “qualità” esprime
quegli attributi di funzionalità ed utilità o pregio la cui mancanza integra inesattezza della
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prestazione ove si tratti di qualità promessa della cosa ovvero essenziale per l’uso a cui la
cosa è destinata); per l’ipotesi della mancanza di qualità di cui all’art. 1497 C.C. è previsto il
solo rimedio della risoluzione del contratto; comunque, da un punto di vista della disciplina,
non vi è particolare distinzione tra vizio redibitorio e mancanza di qualità posto che anche il
rimedio della risoluzione del contratto per mancanza di qualità soggiace agli stessi termini di
decadenza e prescrizione di cui all’art. 1495 C.C. previsti per l’operatività della garanzia per i
vizi di cui all’art. 1490 C.C.
- Uno spazio per l’azione generale di cui all’art. 1453 C.C. (con prescrizione decennale) nella
trattazione del tema generale dei vizi del bene venduto viene individuato nell’ipotesi di
consegna di ”aliud pro alio”, tradizionalmente distinta dalle ipotesi di vizi e mancanza di
qualità, posto che, mentre il vizio redibitorio di cui all’art. 1490 C.C. e la mancanza di qualità
di cui all’art. 1497 C.C. presuppongono l’appartenenza della cosa al genere pattuito, si ha
l’ipotesi dell’ “aliud pro alio” qualora la cosa consegnata sia completamente diversa da quella
assunta nel contratto in quanto appartenente ad un altro genere.
Peraltro, la distinzione tra le varie ipotesi non sempre è agevole in concreto; in
giurisprudenza sono stati ricondotti all’ipotesi dell’ “aliud pro alio” non solo casi di consegna
di una cosa di genere assolutamente diverso da quello oggetto del contratto ma anche casi
in cui la cosa consegnata, per le sue caratteristiche, “sia assolutamente priva delle capacità
funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente” (così Cass. 3/8/2000 n. 10188
che, peraltro, ha escluso che, nel caso, la consegna di fibra regolare di seconda scelta
integrasse gli estremi dell’ “aliud pro alio”, in quanto “era pur sempre fibra acrilica, anche se
di qualità inferiore a quella richiesta, per cui l’acquirente non può avvalersi dell’ordinaria
azione di risoluzione ex art. 1453 C.C.”). Tenere poi presente che l’onere della relativa prova,
ossia della riconducibilità alla fattispecie di “aliud pro alio”, spetta all’acquirente (Cass.
23/2/2001 n. 2659).
- Effetti della risoluzione del contratto: in base alla norma di cui all’art. 1493 C.C. la
risoluzione del contratto di vendita per i vizi della cosa venduta determina un effetto
restitutorio analogo a quello previsto in generale ex art. 1458.
- Risarcimento del danno: la norma di cui all’art. 1494 co. 1 C.C. prevede il risarcimento del
danno come un ulteriore strumento di tutela del compratore in presenza di vizi della cosa
venduta ed espressione della responsabilità contrattuale del venditore: è dovuto se il
venditore non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa (colpa presunta).
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L’azione di danni di cui all’art. 1494 C.C. si basa su un presupposto diverso dalle azioni
edilizie di cui all’art. 1492 C.C.: mentre in queste si fa valere l’obbligazione di garanzia del
venditore su cui incombe il rischio della scoperta dei vizi occulti, con l’azione di danni il
compratore fa valere l’inadempimento del venditore all’obbligazione di comportamento
presupposta dall’art. 1494 C.C. (mentre per le azioni edilizie si prescinde dalla colpa del
venditore, nel caso dell’azione di risarcimento del danno la colpa è presunta).
Si ammette pacificamente la proponibilità della domanda di risarcimento del danno in via
autonoma rispetto ai rimedi peculiari del contenuto della garanzia e, quindi, la possibilità di
chiedere il solo risarcimento del danno senza aver fatto valere gli altri rimedi (risoluzione del
contratto o riduzione del prezzo): tuttavia l’esercizio (anche) in via autonoma dell’azione di
risarcimento è in ogni caso assoggettato al rispetto dei termini di cui all’art. 1495 C.C. (Cass.
22/11/2000 n. 15104; Cass. 6/12/2001 n. 15481).
Tener presente la differenza tra la responsabilità risarcitoria del venditore di cui al primo
comma art. 1494 C.C. (che ha natura contrattuale) e la responsabilità risarcitoria di cui al
secondo comma per i danni derivanti dai vizi della cosa (quale ipotesi di responsabilità
extracontrattuale oggettiva per la quale è ammessa la prova liberatoria).
- Quanto alla possibilità per il compratore dell’esperimento della c.d. “azione di esatto
adempimento”, ossia diretta all’eliminazione dei vizi mediante riparazione o sostituzione
della cosa, va detto che, al di fuori delle ipotesi espressamente previste (art. 1512 C.C., art.
130 Codice del Consumo), il sistema non conosce un’azione generale di esatto
adempimento; che, inoltre, in tema di vendita, l’obbligazione principale del venditore attiene
ad un dare e non ad un facere; che peraltro, l’obbiettivo di conseguire l’eliminazione del vizio
può essere conseguito con una richiesta di risarcimento del danno in forma specifica ai sensi
dell’art. 2058 C.C.; che, invece, in generale, non pare esservi spazio per il rimedio della
sostituzione del bene.
- Quanto alle condizioni per avvalersi della garanzia, ai sensi dell’art.1495 C.C. “il
compratore decade dal diritto alla garanzia se non denunzia i vizi al venditore entro 8 giorni
dalla scoperta” (art. 1495 co. 1 C.C.); tener presente che tale denuncia non è necessaria se il
venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha occultato (art. 1495 co.2 C.C.), inoltre,
“l’azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna” (art. 1495 co. 3 C.C.).
Quanto al termine di decadenza di 8 giorni per la denuncia, va detto, anzitutto, che, decisiva è
l’individuazione del momento della scoperta; al riguardo, va chiarito che il “dies a quo”
soltanto per il vizio apparente coincide con il giorno di ricevimento della merce, mentre per gli
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altri vizi, ossia per quelli non rilevabili attraverso un rapido e sommario esame del bene, il
termine decorre dal momento della scoperta, la quale si ha allorquando il compratore abbia
acquisito certezza e non semplice sospetto che il vizio sussista, ciò che, nella compravendita
tra imprenditori, esperti del settore merceologico specifico, può ritenersi verificato nel
momento in cui l’acquirente ha potuto eseguire gli esami necessari, equiparandosi in tal caso
la possibilità di accertamento della condizione del bene alla riconoscibilità dei vizi apparenti
(es. Cass. 3/8/1994 n. 7202).
In secondo luogo, va detto che la prova della tempestività della denuncia, il cui onere grava
sulla parte acquirente, può essere assolta con qualsiasi mezzo di prova, evidentemente
quindi anche con la prova testimoniale.
Il mancato rispetto dei termini di decadenza e prescrizione determina l’estinzione del diritto
alla garanzia; la relativa questione, peraltro costituisce eccezione in senso proprio e deve
essere sollevata nel corso del processo dalla parte venditrice entro i termini previsti, a pena
di decadenza, per la proposizione delle eccezioni (processuali e) di merito non rilevabili
d’ufficio.
Va, a tal punto, richiamata, peraltro la previsione di cui all’art. 1495 co. 3 seconda parte
secondo cui “il compratore che sia convenuto per l’esecuzione del contratto, può sempre far
valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro otto giorni dalla
scoperta e prima del decorso dell’anno dalla consegna”.
Trattasi di una previsione che ricorre in modo analogo in tema di disciplina della garanzia per
i vizi nell’appalto (art. 1667 co. 3 seconda parte, secondo cui “il committente convenuto per
il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati
denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla
consegna”) nonché in tema di disciplina della garanzia per la vendita dei beni di consumo
(art. 132 co. 4 seconda parte Codice del Consumo, secondo cui “il consumatore, che sia
convenuto per l’esecuzione del contratto, può tuttavia far valere sempre i diritti di cui all’art.
130 comma 2, purché il difetto di conformità sia stato denunciato entro due mesi dalla
scoperta e prima della scadenza del termine di al periodo precedente”, ossia quello di
ventisei mesi dalla consegna del bene) ma che non ricorre in tema di disciplina della
garanzia per i vizi nell’ambito del contratto di prestazione d’opera ex art. 2226 C.C..
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GARANZIA PER I VIZI NELL’APPALTO
Nel contratto di Appalto, in presenza di difformità o vizi dell’opera, il contenuto della garanzia
prevede che il committente possa chiedere “che le difformità o i vizi siano eliminati a spese
dell’appaltatore oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento
del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. Se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali
da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la
risoluzione del contratto” (art. 1668 C.C.).
Fra i diversi strumenti di tutela del committente si segnala, anzitutto, la possibilità di chiedere
che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore.
Sulla scorta di tale norma, intesa quale momento di emersione della figura dell’azione di
esatto adempimento, il committente potrebbe limitarsi a chiedere la condanna
all’eliminazione dei difetti, da eseguirsi nelle forme previste dall’art. 2931 C.C.; peraltro,
l’inciso “a spese dell’appaltatore” può indurre a ritenere che l’appaltatore sia tenuto a
sostenere, più che la diretta eliminazione dei vizi, i costi necessari per l’eliminazione dei vizi;
è, pertanto, possibile ritenere che la domanda di condanna all’eliminazione dei vizi di cui
all’art. 1668 C.C. sia, più che un’ipotesi di azione di esatto adempimento, un’ipotesi di
risarcimento del danno in forma specifica, con conseguente applicabilità dell’art. 2058 C.C.
(secondo cui il danneggiato può richiedere la reintegrazione in forma specifica, “qualora sia
in tutto o in parte possibile” ed il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per
equivalente, “se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il
debitore” ).
In alternativa alla richiesta di eliminazione dei vizi, il committente può chiedere la riduzione
del prezzo in ragione del minor valore dell’opera realizzata.
Nei casi in cui le difformità o i vizi dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua
destinazione, il committente può, poi, chiedere la risoluzione del contratto.
Va, quindi, notato che nella disciplina della garanzia per i vizi dell’appalto, la risoluzione del
contratto e la riduzione del prezzo, quali possibili misure a garanzia del committente a fronte
di vizi dell’opera, si coordinano tra loro diversamente da quanto avviene nella vendita.
La previsione della risoluzione del contratto per vizi nell’appalto di cui all’art. 1668 C.C. è
diversa da quella di cui all’art. 1492 C.C. perché nell’appalto per chiedere la risoluzione del
contratto è necessario che si tratti di gravi vizi o difformità dell’opera, tali da renderla del tutto
inadatta alla sua destinazione (trattasi di vizi più gravi), laddove, nella compravendita,
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l’esperibilità dei due rimedi in questione è posta in via alternativa in quanto rimedi fondati sui
medesimi presupposti.
In proposito, Cass. 20/9/1990 n. 9613, secondo cui “ai fini della risoluzione del contratto per
i vizi dell’opera si richiede un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione
della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l’art. 1668 secondo
comma C.C. la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell’opera sono tali da
renderla del tutto inidonea alla sua destinazione, l’art. 1490 C.C. stabilisce che la
risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della
cosa...”.
E’, quindi, possibile nell’appalto chiedere la riduzione del prezzo in via subordinata rispetto
ad una domanda principale di risoluzione del contratto, e ciò per il caso in cui i vizi non siano
ritenuti di gravità tale da far luogo alla risoluzione del contratto.
“In tema di appalto, ove le difformità o i vizi dell’opera, tenuto conto dell’entità e del valore
di quest’ultima, siano facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può ottenere, a
sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal primo comma dell’art. 1668 C.C., e cioè
l’eliminazione delle difformità oppure la riduzione del prezzo, salvo il risarcimento del
danno nel caso di colpa dell’appaltatore, mentre può chiedere la risoluzione del contratto,
ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, quando le difformità o i vizi, incidendo in
modo notevole sulla struttura e funzionalità dell’opera, siano tali da rendere la stessa
totalmente inidonea alla destinazione sua propria” (Cass. 6/2/1989 n. 715).
Peraltro, è stato affermato che anche in presenza dei presupposti per domandare la
risoluzione del contratto d’appalto, il committente può limitarsi a chiedere l’eliminazione a
spese dell’appaltatore delle difformità e dei vizi da cui l’opera risulti affetta, pur se tale
eliminazione sia possibile solo attraverso l’integrale rifacimento dell’opera (Cass. 12/4/1996
n. 3454).
Differenza tra l’ipotesi di risoluzione del contratto per vizi dell’appalto e quella di cui all’art.
1453 C.C. per il termine di prescrizione che nell’art. 1667 C.C. viene fissato in due anni dalla
consegna dell’opera (oltre al fatto che l’art. 1667 C.C. prevede poi il termine di decadenza
per la denunzia in 60 giorni dalla scoperta).
- L’azione di risarcimento del danno si aggiunge, quale ulteriore tutela del committente, a
quella diretta all’eliminazione delle difformità e vizi ed a quella di riduzione del prezzo.
11
Per quanto espressamente previsto in aggiunta a tali due possibili azioni, tuttavia è pacifico
che il risarcimento del danno sia ammissibile anche nell’ipotesi di risoluzione del contratto di
cui all’art. 1668 co. 2 C.C.
Inoltre, per quanto il diritto al risarcimento dei danni derivanti da vizi o difformità sia previsto
espressamente “nel caso di colpa dell’appaltatore”, tuttavia si afferma che “il committente
non è tenuto a dimostrare la colpa dell’appaltatore medesimo, in quanto, vertendosi in
tema di responsabilità contrattuale, tale colpa è presunta fino a prova contraria” (così Cass.
26/10/2000 n. 14124).
- Per quanto, poi, il rimedio dell’azione di risarcimento del danno sia concettualmente distinto
dagli altri rimedi, in particolare da quello relativo all’azione per l’eliminazione dei vizi e da
quello relativo all’azione di riduzione del prezzo, sì che “le predette azioni non sono
surrogabili l’una con l’altra ed in particolare non è consentito ottenere con la domanda di
risarcimento dei danni gli effetti dell’azione per l’eliminazione dei vizi, se questa non è stata
proposta” (Cass. 21/2/1996 n. 1334), tuttavia, nelle applicazioni giurisprudenziali la
distinzione tra tali azioni appare molto sfumata: è stato così affermato che “il committente,
ove non intenda ottenere l’affermazione giudiziale dell’inadempimento con la relativa
condanna dell’appaltatore e l’attuazione dei suoi diritti nelle forme della esecuzione
specifica, può sempre chiedere il risarcimento del danno nella misura corrispondente alla
spesa necessaria alla eliminazione dei vizi, senza alcuna necessità del previo
esperimento dell’azione di condanna alla esecuzione specifica”, e che il committente che
agisce per la riduzione del prezzo, ai sensi dell’art. 1668 C.C., “ha l’onere di provare il
deprezzamento, non essendo questo un effetto necessario e costante delle difformità
dell’opera, a meno che queste difformità non dipendano dall’impiego di materiali meno
pregiati di quelli contrattualmente previsti o da altre cause che incidono sul pregio
dell’opera; “in tal caso la riduzione, che, di regola, deve essere determinata in base al
raffronto del valore e del rendimento dell’opera pattuita con quelli dell’opera difettosamente
eseguita, può anche farsi coincidere con il costo delle opere necessarie per la
eliminazione delle difformità” (Cass. 10/1/1996 n. 169).
Nell’esperienza giudiziaria si riscontra, peraltro, che di norma le parti committenti chiedano,
congiuntamente, l’ eliminazione dei difetti a spese dell’appaltatore o la riduzione del prezzo
insieme al risarcimento dei danni.
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Ai fini della fruttuosità dell’istruttoria e della rispondenza della decisione alle domande delle
parti, occorre, comunque, in sede di formulazione del quesito al C.T.U., porre particolare
attenzione alle domande svolte dalla parte committente così da non solo indirizzare l’attività di
indagine del C.T.U. sulle questioni tecniche controverse tra le parti ma da conseguire anche
da questi le risposte utili alla decisione.
- Quanto alla possibilità di individuare uno spazio per la risoluzione del contratto di cui all’art.
1453 C.C. in tema di appalto, va detto che tale rimedio di carattere generale ricorre per il
caso in cui l’opera non sia stata eseguita e per il caso in cui, pur eseguita, non sia stata
consegnata.
La risoluzione ex art. 1668 prevede, invece che l’opera sia stata completata con la presenza
di vizi (anche se, in concreto, spesso, nella stessa percezione delle parti, minime lacune incompletezze dell’opera vengono ricondotte all’ipotesi di vizi).
Invero, è stato più volte affermato che “le disposizioni speciali in tema di inadempimento del
contratto di appalto (artt. 1667, 1668, 1669) integrano, ma non escludono, l’applicazione
dei principi generali in materia di inadempimento contrattuale, che sono applicabili quando
non ricorrano i presupposti delle norme speciali, nel senso che la comune responsabilità
dell’appaltatore ex artt. 1453 e 1455 C.C. sorge allorquando egli non esegua interamente
l’opera o, se l’ha eseguita, si rifiuti di consegnarla, o vi proceda con ritardo rispetto al
termine di esecuzione pattuito, mentre la differente responsabilità dell’appaltatore, inerente
alla garanzia per i vizi o difformità dell’opera, prevista dagli artt. 1667 e 1669 C.C., ricorre
quando il suddetto abbia violato le prescrizioni pattuite per l’esecuzione dell’opera o le
regole imposte dalla tecnica” (es. Cass. 9/8/1996 n. 7364, o, da ultimo, Cass. 17/5/2004 n.
9333).
Lo spartiacque tra la disciplina generale di cui agli artt. 1453 e 1455 C.C. e quella speciale
prevista agli artt. 1667 e 1668 C.C. è quindi rappresentato dal completamento - consegna
dell’opera: successivamente a tale momento la tutela del committente per l’inesatta
esecuzione dell’opera è data dal contenuto della garanzia di cui all’art. 1668 nel rispetto dei
termini di cui all’art. 1667 C.C.; prima di tale momento, invece, il committente dovrà far valere
la responsabilità dell’appaltatore ai sensi degli artt. 1453 e 1455 C.C.; tenere poi presente
che il committente, in base all’art. 1662 C.C., sino a che l’opera non è completata, ha sempre
la possibilità di controllare lo svolgimento dei lavori e, a fronte di una inesatta esecuzione dei
lavori, avvalersi di una apposita diffida ad adempiere, posto che quando si accerta che che
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l’esecuzione dell’opera non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola
d’arte “può fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali
condizioni”, con la conseguenza che “trascorso inutilmente il termine stabilito, il contratto è
risoluto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno”.
- Il controllo del committente sull’esecuzione dell’opera e la responsabilità dell’appaltatore.
In generale, va detto che per la definizione stessa del contratto di appalto come “contratto
con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a
proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”
(art. 1655 Codice Civile), il contratto di appalto si caratterizza per l’autonomia
dell’appaltatore che organizza e gestisce come meglio crede i mezzi ed il personale
necessari alla produzione del risultato; se poi si considera che il diritto al pagamento del
corrispettivo diviene esigibile con il compimento dell’opera e con l’accettazione da parte del
committente, potrebbe ritenersi che il committente non abbia un particolare interesse ad
ingerirsi nell’esecuzione del contratto.
Tuttavia, s’è visto che il Codice Civile riconosce al committente la facoltà di compiere
verifiche in corso d’opera (art. 1662 C.C.) senza che queste comportino rinuncia alla verifica
finale di cui all’art. 1665 C.C.
Altra forma di controllo viene esercitata dal committente tramite il direttore dei lavori che ha il
compito di sovraintendere all’intera esecuzione dell’opera con funzioni di rappresentanza del
committente per ciò che attiene alle questioni di carattere strettamente tecnico.
Per quanto possa esservi la tendenza delle imprese appaltatrici ad identificare la
committenza con il professionista da questa incaricato di dirigere i lavori, tuttavia va tenuto
presente che, di norma, l’incarico di direttore dei lavori conferito dal committente investe il
professionista di un potere di rappresentanza limitatamente alla materia strettamente tecnica,
con la conseguenza che le dichiarazioni del D.L. sono vincolanti per il committente soltanto
se contenute in detto ambito tecnico, mentre sono prive di valore vincolante se invadono altri
campi come quello concernente l’accettazione del prezzo finale dell’opera (Cass. 1/3/1995 n.
2333).
Del pari, per la giurisprudenza, l’accettazione da parte del direttore dei lavori dell’opera
consegnata dall’appaltatore non vincola il committente per le opere extra contratto da
quest’ultimo non ordinate.
In ragione dei limiti della rappresentanza del D.L. (le cui dichiarazioni non hanno un carattere
negoziale vincolante per il committente, ad es. con riferimento al prezzo finale o alle opere
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extracontratto), lo stesso “non è legittimato a ricevere in nome e per conto del committente
le comunicazioni dell’appaltatore circa la non eseguibilità del progetto o la necessità di
apportare variazioni. Pertanto, l’appaltatore non è esonerato dalla responsabilità per la
rovina o il difetto dell’opera qualora, pur avendo fatto presente al direttore dei lavori la non
eseguibilità del progetto, abbia ricevuto da questi, e non dal committente, l’ordine di
eseguire comunque il progetto” (Cass. 19/6/1996 n. 5632).
Il principio dettato dalla citata massima giurisprudenziale richiama, fra l’altro, la
responsabilità propria dell’appaltatore, che si presume esperto della materia edilizia, per
difetti della costruzione riconducibili ad errori di progetto, in quanto l’appaltatore “è tenuto
non solo ad eseguirlo a regola d’arte, ma anche a controllare, con la diligenza richiesta dal
caso concreto e nei limiti delle cognizioni tecniche da lui esigibili, la congruità e
completezza dello stesso, segnalando al committente gli eventuali errori riscontrati” (Cass.
23/4/1997 n. 3520).
Così, anche “l’indagine sulla natura e sulla consistenza del suolo edificatorio rientra tra gli
obblighi dell’appaltatore, in quanto l’esecuzione a regola d’arte di una costruzione dipende
dall’adeguatezza del progetto rispetto alle caratteristiche geologiche del terreno su cui
devono porsi le fondazioni; con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui detta indagine non
presenti difficoltà particolari, superiori alle conoscenze che devono essere assicurate
dall’organizzazione necessaria allo svolgimento dell’attività edilizia, l’appaltatore deve
rispondere, in solido con il progettista (a sua volta responsabile per inadempimento del
contratto d’opera professionale, essendosi rivelata inadeguata la progettazione) dei vizi
dell’opera dipendenti dal cedimento delle fondazioni dovuto alle caratteristiche geologiche
del suolo, non tenute presenti in progetto” (Cass. 23/9/1996 n. 8395).
Per concludere il tema della responsabilità dell’appaltatore in conseguenza di errori di
progettazione, va solo precisato che la giurisprudenza esclude tale responsabilità
dell’appaltatore nei soli in casi in cui, per espressa previsione contrattuale, l’appaltatore “si
ponga come “nudus minister”, ossia come passivo strumento nelle mani del committente,
direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza nessuna possibilità
di iniziativa e vaglio critico” (Cass. 12/5/2000 n. 6088).
- Quanto alle condizioni per avvalersi della garanzia, il committente deve, a pena di
decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro 60 giorni dalla scoperta; la
denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha
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occultati (art. 1667 co. 2 C.C.); l’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno
della consegna dell’opera. (art. 1667 co. 3 C.C.); analogamente a quanto previsto in tema di
garanzia per i vizi nella vendita, anche nel contratto di appalto “il committente convenuto per
il pagamento può sempre far valere la garanzia, purchè le difformità o i vizi siano stati
denunciati entro 60 giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi 2 anni dalla consegna”
(art 1667 co. 3 seconda parte C.C.).
Infine, va detto che la garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le
difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purchè in questo caso non
siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore (art. 1667 co 1 C.C.).
L’accettazione dell’opera da parte del committente comporta, quindi, oltre che l’effetto,
disciplinato all’art. 1665 C.C., di rendere esigibile il prezzo, anche la conseguenza di liberare
l’appaltatore dalla responsabilità per i vizi riconoscibili (ma, evidentemente, non anche per
quelli occulti).
Tener presente che la presa in consegna dell’opera, nel contratto di appalto, non equivale
necessariamente ad accettazione della medesima senza riserve; invero, la consegna
dell’opera costituisce un fatto materiale effettuantesi nella “traditio”, mentre l’accettazione
dell’opera da parte del committente rappresenta un atto di volontà che produce effetti ben più
importanti della mera ricezione, quali l’esonero dell’appaltatore da ogni responsabilità per
vizi e difformità riconoscibili dell’opera ed il diritto al pagamento del prezzo (es. Cass.
3/2/1993 n. 1317; Cass. 22/11/1996 n. 10314); peraltro, l’art. 1665 prevede talune tipiche
ipotesi di accettazione tacita dell’opera da parte del committente.
Quanto alla decorrenza del termine di decadenza di 60 giorni per la denuncia, anche in
questo caso decisiva è l’individuazione del momento della scoperta; al riguardo, pare
opportuno segnalare la responsabilità del direttore dei lavori nei confronti del committente
per ciò che attiene la scoperta dei difetti e la conseguente possibilità per il committente di
farne denuncia all’appaltatore, posto che “l’accertamento dei vizi di un’opera appaltata da
parte del direttore dei lavori nominato dal committente fa decorrere il termine per la
denunzia da parte di questi all’appaltatore, il cui onere non è assolto se la contestazione è
effettuata da detto direttore, che non ha il potere di compiere atti giuridici per conto del
committente” (Cass. 8/9/2000 n. 11854).
Tale principio (che è coerente con la regola, sopra vista, secondo cui l’appaltatore, per
esonerarsi da responsabilità, deve comunicare direttamente al committente la propria
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valutazione di ineseguibilità del progetto) che apparentemente sembra essere foriero di
possibili gravi conseguenze per il committente (posto che, essendo la tempestività della
denuncia dei difetti una condizione perchè il committente possa avvalersi della garanzia per i
difetti dell’opera, da un lato, la scoperta del difetto da parte del D.L. fa decorrere, per il
committente, il termine per la contestazione del difetto, da un altro lato, l’onere di tempestiva
contestazione non è assolto se a farla è il D.L.), fa discendere una regola responsabilità per il
D.L. chiamato ad immediatamente informare il committente dei difetti scoperti; peraltro il
pregiudizio che sembra poter derivare da tale principio per il committente va ridimensionato
in considerazione del fatto che la garanzia per i difetti dell’opera scatta dal momento in cui
l’opera è completata, che ad un tale momento la stessa viene consegnata ed è oggetto di
verifica da parte del committente il quale, a tal punto, è nelle condizioni di accettarla o di
contestare i vizi riconoscibili, che da un tale momento l’opera è nella disponibilità del
committente il quale avrà modo di ulteriormente rilevare e contestare i vizi occulti
successivamente emersi nel termine di due anni.
Anche nel caso dell’appalto, l’onere della prova della tempestività della denuncia grava sul
committente e può essere assolto con qualsiasi mezzo di prova, evidentemente quindi anche
con la prova testimoniale.
- Questioni comuni circa operatività di decadenza e prescrizione nella disciplina della
garanzia per i vizi della VENDITA e dell’APPALTO.
Si è già detto che la disciplina della garanzia della vendita e dell’appalto si differenziano per i
diversi termini di decadenza e prescrizione previsti per la denuncia dei vizi e per l’esercizio
dell’azione.
Tuttavia entrambe le figure pongono analoghi problemi applicativi quanto all’onere della
prova ed al valore giuridico del riconoscimento del vizio da parte del venditore o
dell’appaltatore.
I) Onere della prova.
A) Con riguardo alla decadenza dalla garanzia, ci si domanda se spetta al compratore (che
intende avvalersi della garanzia) di provare di avere tempestivamente denunciato i vizi o se è
il venditore che deve eccepire e provare che la denuncia è stata tardiva.
La soluzione che viene accolta è nel senso che si addossa al venditore l’onere di sollevare
l’eccezione di decadenza ma si fa gravare sul compratore l’onere di provare che la denuncia
è stata tempestiva, in quanto la tempestività della contestazione è considerata come una
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condizione dell’azione (per la compravendita, es. Cass. 26/8/1993 n. 9010; per l’appalto, es.
Cass. 10/6/1994 n. 5677).
Tale soluzione opera una sorta di bilanciamento di interessi: da un lato, la denuncia
tempestiva costituisce per il compratore e per il committente un onere imposto a pena di
decadenza, da un altro lato, vertendosi in materia di diritti disponibili, la decadenza non è
rilevabile d’ufficio ma deve essere eccepita dalla parte interessata (art. 2969 C.C.).
B) Con riguardo alla prescrizione, trattasi di una eccezione in senso stretto che deve essere
sollevata e dimostrata dal venditore - appaltatore; il venditore, ad es., oltre a sollevare
l’eccezione, deve dimostrare quando è avvenuta la consegna, quale momento di decorrenza
del termine di prescrizione.
II) Riconoscimento del vizio da parte del venditore (appaltatore).
Sul tema si registra un’ampia mole di contributi giurisprudenziali.
In sintesi, possono darsi le seguenti ipotesi:
A) Ai sensi dell’art. 1495 co. 2 C.C., il riconoscimento del vizio da parte del venditore rende
superflua la denuncia dei vizi da parte del compratore (così anche, in tema di appalto, ai
sensi dell’art. 1667 co. 2 seconda parte C.C.).
Si tratta del caso più semplice. In proposito va segnalato che, a questi fini, il riconoscimento
dei vizi, idoneo a determinare la superfluità della tempestiva denuncia, non implica
necessariamente da parte del venditore o appaltatore l’ammissione di una sua
responsabilità e ricorre pur quando il venditore o appaltatore, ammessa l’esistenza del vizio
o della difformità, neghi in qualsiasi modo o per qualsiasi ragione di doverne rispondere; che,
inoltre, il riconoscimento in questione non è soggetto ad alcuna forma determinata e può
esprimersi attraverso qualsiasi manifestazione, anche per “facta concludentia” (per la
compravendita, es. Cass. 20/5/1997 n. 4464; Cass.24/4/1998 n. 4219; per l’appalto, es.
Cass. 14/7/1981 n. 4606; Cass. 9/11/2000 n. 14598).
B) Il riconoscimento del vizio che venga fatto dal venditore o appaltatore successivamente
alla scadenza del termine di decadenza per la giurisprudenza vale a sanare gli effetti della
decadenza già maturata (es. Cass. 30/5/1995 n. 6073): si tratta, nel caso, di una rinuncia
negoziale alla decadenza, espressa mediante un atto incompatibile con la volontà di
avvalersi della decadenza in materia di diritti disponibili (art. 2698 C.C.).
C) Se il riconoscimento del vizio avviene prima della scadenza del termine di prescrizione,
può valere quale atto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 C.C. (con
conseguente decorrenza di un nuovo termine di prescrizione).
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In questo caso, peraltro, più che di riconoscimento del vizio in quanto tale, deve potersi
parlare di riconoscimento dell’altrui diritto alla garanzia che vale ad impedire la decadenza ex
art. 2966 C.C. e ad interrompere la prescrizione ex art. 2944 C.C.
Spesso il riconoscimento dell’altrui diritto alla garanzia viene individuato in situazioni in cui il
venditore o appaltatore, nel riconoscere la sussistenza dei vizi lamentati, assuma anche nei
confronti della controparte l’impegno ad eliminarli (es. Cass. 26/6/1995 n. 7216).
D) Se il riconoscimento dell’altrui diritto alla garanzia (connesso al riconoscimento della
sussistenza del vizio) avviene dopo la scadenza del termine di prescrizione, lo stesso
potrebbe essere interpretato quale atto incompatibile con la volontà di avvalersi della
prescrizione e, quindi, quale rinuncia tacita ad eccepire la prescrizione già maturatasi ai
sensi dell’art. 2937 co. 3 C.C.
E) Se al riconoscimento del vizio da parte del venditore o appaltatore si accompagna
l’impegno stesso ad eliminare i vizi della cosa venduta o dell’opera realizzata, occorre dire
che spesso, per una tale ipotesi, si è sostenuto che sulla base dell’impegno ripristinatorio del
venditore o appaltatore sorgerebbe una nuova obbligazione sostitutiva di quella originaria di
garanzia svincolata dai termini di prescrizione di questa e soggetta all’ordinario termine di
prescrizione decennale.
Con recente sentenza la Cass. SS.UU. ha, peraltro, chiarito che il semplice impegno
ripristinatorio del venditore, di per sè, non può dar vita ad una nuova obbligazione estintiva
dell’originaria obbligazione di garanzia ma vale a superare il problema della decadenza e ad
interrompere la prescrizione, laddove solo in presenza di un accordo delle parti, volto a
determinare le modalità ed il contenuto dell’intervento ripristinatorio, l’impegno del venditore
può dar luogo ad una novazione oggettiva (Cass. SS. UU. 21/6/2005 m. 13294).
- LA RESPONSABILITA’ DEL COSTRUTTORE PER ROVINA E DIFETTI DI COSE
IMMOBILI EX ART. 1669 C.C.
“Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata,
se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della
costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi
difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa,
purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
Il diritto del committente si prescrive in anno dalla denunzia”.
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Va, anzitutto, detto che per la giurisprudenza, al di là dell’ipotesi di rovina o di evidente
pericolo di rovina, i gravi difetti della costruzione idonei a configurare la fattispecie di
responsabilità del costruttore nei confronti del committente o dell’acquirente ai sensi dell’art.
1669 C.C. possono essere costituiti anche dai vizi che “senza influire sulla stabilità
dell’opera, pregiudichino in modo grave il normale godimento e/o la funzionalità della
medesima” (Cass. 29/11/1994 n. 10218) e, quindi, anche dai vizi “che riguardano elementi
secondari ed accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purchè tali da
compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa” (Cass. 1/2/1995 n. 1164). Al
riguardo, ad esempio, è pacifico in giurisprudenza che possano essere ricondotti a tale
genere di gravi difetti di costruzione le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze della
impermeabilizzazione (es. Cass. 8/1/2000 n. 117).
Deve essere chiaro che l’esito positivo del collaudo di un’opera non esclude la responsabilità
dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 C.C. quale norma di garanzia dell’opera nel tempo
laddove il collaudo costituisce prova di tenuta in un unico contesto (Cass. 5/2/2000 n. 1290).
Il presupposto di operatività di tale fattispecie di responsabilità è il fatto che la scoperta dei
gravi difetti avvenga nel termine del decennio dalla ultimazione dei lavori. E’ evidente che la
denuncia, se la scoperta avviene nell’ultimo anno, può anche essere successiva al decennio,
sempre però entro l’anno dalla scoperta.
Al riguardo, decorrendo il termine annuale di decadenza dal momento della scoperta, si è
soliti affermare che la scoperta dei gravi difetti implichi l’adeguata conoscenza da parte del
committente o del suo avente causa del vizio e delle sue cause, e che, quindi, il termine di
decadenza inizi a decorrere dal momento in cui il denunciante abbia avuto un’apprezzabile
conoscenza non solo del difetto ma anche della sua riconducibilità all’operato del costruttore,
con la conseguenza che, spesso, tale momento viene fatto coincidere con l’acquisizione di un
parere tecnico qualificato (perizia di parte o anche accertamento tecnico preventivo).
Va, quindi, detto che le norme contenute negli artt.1667 e 1669 C.C. disciplinano fattispecie
del tutto diverse tra loro: “da tale diversità consegue che la regola eccezionalmente sancita
dall’ultimo comma dell’art. 1667 C.C. (secondo cui il committente convenuto per il
pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati
denunziati entro i prescritti termini) non è applicabile in via analogica alla fattispecie di cui
all’art. 1669 C.C., avendo efficacia, invece, per quest’ultima, la regola generale posta
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dall’art. 2934 C.C., secondo la quale la prescrizione estingue il diritto” (Cass. 15/7/1995 n.
6393).
Invero, è pacifico in giurisprudenza che “la norma di cui all’art. 1669 C.C. ha, nonostante la
relativa sedes materiae, natura indiscutibilmente extracontrattuale (essendo diretta a
tutelare l’interesse, di carattere generale, alla conservazione ed alla funzionalità degli
edifici e degli altri immobili destinati, per loro natura, ad una lunga durata), e trascende il
rapporto negoziale in base al quale il bene sia pervenuto nella sfera di dominio di un
soggetto che dalla rovina, dall’evidente pericolo di rovina o dai gravi difetti dell’opera, abbia
subito un pregiudizio. Ne consegue che, pur non configurandosi a carico del costruttore
una ipotesi di responsabilità obbiettiva, nè una presunzione assoluta di colpa, grava pur
sempre sul medesimo una presunzione iuris tantum di responsabilità” (es. Cass.
28/11/1998 n. 12106).
Da
tale
inquadramento
discende
che
tale
particolare
ipotesi
di
responsabilità
extracontrattuale “prescindendo dai rapporti negoziali intercorrenti tra le parti, può essere
fatta valere non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche da ogni attuale
proprietario dell’immobile contro ogni costruttore in genere” (Cass. 27/8/1994 n. 7550).
Da una tale premessa la giurisprudenza, ormai consolidata, fa derivare l’ulteriore principio
secondo cui “nel caso di rovina e gravi difetti dell’opera, la responsabilità extracontrattuale
ex art. 1669 C.C. si estende nei confronti del progettista che con la sua condotta - omissiva
e commissiva - abbia concorso a causare il danno. Tale responsabilità va affermata in via
solidale a norma dell’art. 2055 C.C. tutte le volte in cui il danno sia ascrivibile sia ad errata
progettazione che a cattiva esecuzione dell’opera” (Cass. 27/8/1994 n. 7550; da ultimo:
Cass. 5/2/2000 n. 1290).
Inoltre, “trattandosi di responsabilità extracontrattuale, specificamente regolata anche in
ordine alla decadenza ed alla prescrizione, non spiega alcun rilievo la disciplina dettata
dagli artt. 2226 e 2230 C.C. e si rivela ininfluente la natura dell’obbligazione - se di risultato
o di mezzi - che il professionista assume verso il cliente committente dell’opera data in
appalto” (Cass. 25/8/1997 n. 7992).
La medesima regola (responsabilità solidale del professionista con l’appaltatore alla stregua
del disposto di cui all’art. 1669 C.C.), vale, all’evidenza, per il caso in cui il danno risentito dal
committente per gravi difetti di costruzione sia ascrivibile alle condotte sia del direttore dei
lavori che dell’appaltatore (Cass. 28/1/2000 n. 972).
21
In definitiva, la disciplina dell’art. 1669 C.C. si applica non solo nei confronti dell’appaltatore
ma anche nei riguardi del progettista e del direttore dei lavori. La relativa responsabilità esula
dai limiti del rapporto contrattuale intercorso tra le parti per assumere la configurazione
propria della responsabilità da fatto illecito e le attività di tali soggetti possono concorrere
tutte alla produzione del danno, con la conseguenza che essi possono essere chiamati tutti a
risarcire in solido il danno integralmente ai sensi dell’art. 2055 C.C. (vedi anche Cass.
26/4/1993 n. 4900).
Va, a questo punto, esaminata la questione della applicabilità della fattispecie di
responsabilità di cui all’art. 1669 C.C. nei confronti del venditore delle unità immobiliari che
ne abbia curato la costruzione.
In proposito la giurisprudenza ha da tempo chiarito che “il venditore di unità immobiliari che
ne curi direttamente la costruzione, ancorché i lavori siano stati appaltati ad un terzo,
risponde dei gravi difetti ex art. 1669 C.C.... nei confronti degli acquirenti,
indipendentemente dall’identificazione del contratto con essi intercorso, a titolo di
responsabilità extracontrattuale, essendo la relativa disciplina di ordine pubblico, ovvero
nei confronti dell’amministratore del Condominio” (Cass. 25/3/1998 n. 3146).
Si tratta di un’affermazione giurisprudenziale che, ritagliando sul venditore delle unità
immobiliari la qualifica di “venditore - costruttore”, consente di chiamare a rispondere dei
gravi difetti di costruzione il soggetto che (spesso società immobiliare), proprietario
dell’area, abbia assunto l’iniziativa edificatoria ed abbia sostanzialmente diretto la
costruzione sia pure coinvolgendo terze imprese appaltatrici nell’esecuzione dei lavori.
Tale indirizzo giurisprudenziale, che sinora ha sempre implicato l’assunzione di un onere di
prova in capo ai danneggiati acquirenti in ordine alla possibile qualifica del loro venditore
quale costruttore dell’immobile ad essi venduto, ha trovato recentemente un decisivo conforto
normativo nel D. Lgs. 20/6/2005 n. 122 in tema di “Disposizioni per la tutela dei diritti
patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della L. 2 agosto 2004 n. 210”:
in tale testo normativo (diretto a tutelare gli acquirenti di immobili da costruire a fronte del
rischio di insolvenza del promittente venditore), all’art. 1 è espressamente previsto che debba
intendersi “per costruttore: l’imprenditore o la cooperativa edilizia che promettano in vendita
o che vendano un immobile da costruire...” , e, all’art. 4, che “il costruttore è obbligato a
contrarre ed a consegnare all’acquirente all’atto del trasferimento della proprietà una
polizza assicurativa indennitaria decennale a beneficio dell’acquirente e con effetto dalla
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data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi
i danni a terzi, cui sia tenuto ai sensi dell’art. 1669 del codice civile...”.
Roma 15/6/2006
Lorenzo Orsenigo
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