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Scioperi alla rovescia, voce e cam

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Scioperi alla rovescia, voce e cam
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Testimonianze
Scioperi alla rovescia, voce e cambiamento
Giuseppe Celi
Quando ero ancora studente alla Facoltà di Economia di Modena,
insieme a Mannino Bordet, un amico abruzzese anch’egli studente di Economia a Modena, realizzammo un video sulle lotte per l’occupazione
nella Val Vomano, in Abruzzo. Credo che l’idea di raccogliere testimonianze su una lotta collettiva così significativa fosse la conseguenza “differita” del convegno sul Piano del Lavoro che si era tenuto a Modena
nel 1975 con il contributo di Vittorio Foa. In effetti, l’iniziativa del documentario fu presa in assoluta controtendenza rispetto alle dinamiche
del periodo, l’inizio degli anni ’80 appunto, tempi di ripiegamento verso
il privato e di ripensamento dell’idea di lotta collettiva. Evidentemente,
le influenze positive, come un fiume carsico, prima o poi riemergono.
All’inizio degli anni ’80, insieme a Mannino Bordet girai - con un
malandato videoregistratore portatile da mezzo pollice prestato
dall’ARCI - un documentario sulle lotte sociali per l’occupazione nella
Val Vomano, una valle che è attraversata dall’omonimo fiume e che si
estende a partire dal versante teramano del Gran Sasso per poi degradare
verso l’Adriatico.
Realizzammo una serie di interviste a personaggi locali che avevano
partecipato negli anni cinquanta ai cosiddetti “scioperi alla rovescia”,
forme di lotta che rivendicavano il diritto al lavoro da parte della popolazione del luogo. Gli intervistati ricordavano con pathos e commozione
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Giuseppe Celi
l’organizzazione della lotta, la mobilitazione della popolazione, la repressione della polizia.
Un vivido ricordo è legato all’intervista di Vera Finavera – purtroppo
scomparsa nel 2006 - una donna di Montorio al Vomano che da giovane
aveva partecipato agli scioperi alla rovescia per poi diventare una dirigente del sindacato. Ricordo ancora la potente forza rievocativa di quella
donna straordinaria che faceva rivivere in modo quasi epico i momenti
salienti del suo impegno nella lotta: l’organizzazione delle donne nella
preparazione e distribuzione del cibo per i disoccupati impegnati nei lavori dimostrativi lungo gli argini dei fiumi (I cafoni deviano i fiumi, titolava un vecchio numero della rivista Vie Nuove che faceva la cronaca di
quegli eventi), la difesa delle donne e dei bambini di fronte agli attacchi
della polizia preannunciati da tre squilli di tromba, la mediazione con le
autorità locali. Gli scioperi alla rovescia in Abruzzo negli anni ’50 rientravano nell’ambito delle lotte sindacali legate al Piano del lavoro ideato
da Giuseppe Di Vittorio per mitigare l’elevata disoccupazione presente in
Italia in quegli anni. In particolare, l’esito delle lotta sindacale organizzata da Tom Di Paoloantonio, segretario della Camera del Lavoro di Teramo, si rivelò decisamente felice: duemila disoccupati ripresero di propria
iniziativa la costruzione di una centrale elettrica con invaso sospesa sei
anni prima e, alla fine, ottennero dal Governo il finanziamento per le assunzioni e il completamento dei lavori.
Mi è ritornata in mente questa esperienza giovanile documentaristica
di storia sociale perché ho letto di recente Racconti siciliani di Danilo
Dolci, pubblicato da Einaudi nel 1963 e ripubblicato da Sellerio nel
2008. Questo libro è un racconto a più voci della storia del Sud dell’immediato dopoguerra che parla di latifondo e riforma agraria, di indigenza
e di malattia, di repressione da parte della mafia e della polizia, di lotte
per l’occupazione. Gli scioperi alla rovescia sono stati organizzati anche
in Sicilia, a Partinico, e sono appunto legati alla figura di Danilo Dolci,
poeta e intellettuale triestino, più che impegnato, “immerso” (gli inglesi
direbbero embedded) nella realtà sociale siciliana degli anni cinquanta
per dar voce e dignità agli ultimi. Racconti siciliani è un libro bellissimo
in cui ogni capitolo è una voce, un racconto, la consapevolezza di una vita nel proprio mondo senza divagazioni astratte e estranianti, in cui gli
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stessi strumenti espressivi di chi racconta non sono mai eterodiretti ma
profondamente veri e rivelatori di quella dinamica maieutica in cui perfino il discorso sgrammaticato diventa voce e testimonianza personale. In
questo libro Danilo Dolci fa sì che egli stesso non sia altro che autore tra
gli autori: Vincenzo, Rosario, Santo, Gaspare, Ciolino, Nonna Nedda,
E.A., Ignazio, Rosaria, XX, la Guaritrice, Zu Andrea, XY, un Amico di
Placido, Salvatore, un Amico di Miraglia, Gaetano, e via via tutti gli altri.
Uomo straordinario Danilo Dolci, attivista politico e sociale non violento
che ha messo in pratica forme di lotta e di coinvolgimento sociale assolutamente originali e inedite - la resistenza passiva, i digiuni collettivi, gli
scioperi alla rovescia - e per questo spiazzanti e contrastate dalle istituzioni del tempo, tra cui la Chiesa. Il Cardinale Ernesto Ruffini la domenica delle Palme del 1964 fece circolare in tutte le chiese della Sicilia una
lettera pastorale in cui Danilo Dolci veniva ritenuto insieme alla mafia e
al Gattopardo come uno dei fattori responsabili dell’organizzazione di
“una grave congiura per disonorare la Sicilia”.
Danilo Dolci venne grottescamente arrestato nel febbraio 1956 insieme ai suoi compagni per aver organizzato a Partinico e in una località vicina, Trappeto, un digiuno collettivo (con la musica di Bach) per protestare contro la pesca di frodo che affamava i pescatori del posto e, qualche giorno dopo, uno sciopero alla rovescia per ripristinare una vecchia
strada comunale dissestata e abbandonata (la “trazzera vecchia”). Appassionata e densa di valori civili l’arringa difensiva di Piero Calamandrei
pronunciata nel Tribunale di Palermo nel marzo del 1956: “….Ci sono a
Partinico, oltre i pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione
dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi
settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi
alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi? No. Decidono di lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse
pubblico…”.
Io credo che l’esperienza di un triestino che negli anni cinquanta va in
Sicilia per ascoltare, dare voce e costruire cambiamento sociale dal basso
e in senso orizzontale sia esemplare anche per riflettere sulla situazione
dell’Italia contemporanea, dove, per esempio, l’invito a “far politica partendo dal territorio” è ormai un luogo comune e una formula vuota che
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Giuseppe Celi
nasconde al più pulsioni localistiche di basso profilo ed eterodirette. A
mio avviso, il “territorio” non è unicamente luogo geografico, fisico, socialmente autarchico, ma è una costruzione culturale e identitaria che non
si limita alla tradizione – o, peggio, al ripristino di una presunta tradizione - ma è capacità di ascolto della dinamica sociale e proposizione di
cambiamento sociale. Uomini come Danilo Dolci, Giuseppe Di Vittorio,
e mi viene naturale affiancare a questi anche Franco Basaglia, sono stati
portatori di cambiamento e avanzamento sociale perché straordinariamente capaci di “sentire”, oltre che analizzare, gli ostacoli al progresso
umano e sociale - l’indigenza, la disoccupazione, le condizioni di lavoro,
il disagio mentale - grazie soprattutto alla pratica del condividere, e non
solo dirigere, la costruzione della comunità. Non è un caso che il riconoscimento del carattere innovativo del lavoro e delle pratiche sociali di
questi uomini abbia avuto una dimensione internazionale e non sia stato
solo circoscritto ad un “territorio”.
Facoltà di Economia, Università di Foggia
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