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Hegel: “L`Essenza come riflessione in se stessa”

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Hegel: “L`Essenza come riflessione in se stessa”
Giuliano Broggini1
Hegel: “L’Essenza
come riflessione in se stessa”
“L’essenza proviene dall’essere; non è quindi immediatamente in sé e per sé, ma è un
risultato di quel movimento”2. E’ questa la spiegazione hegeliana del “ciò che già era
essere” di Aristotele: l’essenza non è l’immediato. L’immediato è l’essere. L’essenza si
disvela lungo il movimento logico, immanente all’essere stesso. Quindi “l’essenza è l’essere
che è in sé e per sé tolto”3. L’essere di fronte all’essenza è solo “parvenza”. Ma la riduzione
dell’essere a parvenza è il “proprio porre dell’essenza”4. L’essenza riduce il movimento
dell’essere a parvenza. L’essere è inessenziale, è “privo di essenza, è parvenza”5.
Dunque la parvenza dell’essere non è estrinseca, ma è il “parere dell’essenza, la sua
riflessione”6. L’essenza, come afferma Hegel, è “l’essere che si è tolto”; in quanto negazione
dell’essere, è “semplice uguaglianza con sé”.
L’essenza ha necessariamente di fronte a sè l’immediatezza dell’essere da cui è divenuta;
l’essenza nel togliere l’essere comunque lo conserva, in quanto negato. Quindi l’essenza a
questo livello, è solo essenza che è, “essenza immediata”7 e l’essere è semplicemente un
negativo rispetto all’essenza, ma non ancora rispetto a sé. Ma in questo rimbalzo tra essere
ed essenza, l’essenza è determinata solo come altro in relazione all’essere; perciò ancora
legata alla sfera dell’essere. Dunque la differenza tra essere ed essenza è solo estrinseca, è il
semplice contrapporsi tra ciò che è inessenziale e ciò che, nello stesso ciò, è essenziale.
Come afferma Hegel: “più precisamente l’essenza diventa solo un essenziale a fronte di
un inessenziale per il fatto che l’essenza è presa solo come un tolto essere”8.
Ma se fosse soltanto così, ancora si penserebbe l’essenza come interna alla sfera
dell’essere. Invece l’essenza è la “negazione assoluta dell’essere da cui proviene”9. Se così,
allora l’essere nel suo trapassare nell’essenza, non è più semplicemente un esserci
1 Ex professore di Filosofia e storia presso il Liceo Scientifico “G. Ferraris”, Varese.
2 Hegel, Scienza della Logica, p. 437, editori Laterza 2004
3 Ibidem
4 Ibidem
5 Ibidem
6 Ibidem
7 Ivi, p. 438
8 Ivi, p. 439
9 Ibidem
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inessenziale, ma è “l’immediato in sé e per sé nullo; è solo una non – essenza, la
parvenza”10.
“L’essere è parvenza”11. Ma la parvenza è solo in relazione immanente all’essenza; “essa
è il negativo posto come il negativo”12. La parvenza è l’ultimo stadio della sfera dell’essere.
La parvenza è questo immediato non esserci.
La sua determinata nullità è solo in relazione all’essenza; quindi è la “vuota
determinazione dell’immediatezza del non-esserci”13. La parvenza è la determinazione del
non-essere inessenziale.
Ma la “Verità dell’essere è l’essenza”14. Questo è il punto cardinale che non si deve mai
dimenticare. E’ nell’essenza che si presenta la verità dell’essere. Quindi è nell’essenza che
entrano in gioco le categorie del pensiero apofantico. Ma tutto ciò deve mostrarsi come
immanente al movimento stesso dell’essere.
Dato che la parvenza è la determinatezza ultima dell’essere in relazione all’essenza, cioè
il suo inessenziale, essa stessa contiene necessariamente un “lato indipendente a fronte
dell’essenza”15.
La parvenza, in quanto esserci in relazione immanente all’essenza, si configura come
“presupposizione immediata”16.
L’immediatezza del non essere che costituisce la parvenza è tale solo in relazione
all’essenza, per cui l’essere è il non - essere nell’essenza. Ma qui tutto si complica e si
chiarisce in modo davvero straordinario.
Se l’essere in relazione all’essenza è parvenza, allora l’immediatezza che ha
determinatezza nella parvenza, non ha più in sé l’immediatezza in quanto esserci, ma
l’immediatezza come parvenza.
Quindi non più l’essere come essere, ma l’essere solo come momento immanente alla
riflessione dell’essenza. L’essere è davvero risolto nell’essenza; la parvenza nell’essenza
non è la parvenza di un altro, non è dunque un passare, tipico dell’esserci, ma è la parvenza
in sé, la “parvenza dell’essenza stessa”17.
“La parvenza è dunque l’essenza stessa”; ma l’essenza in quanto parvenza è ancora
legata alla determinazione, sebbene quest’ultima sia solo un suo momento, e quindi
l’essenza è il suo proprio riflettersi in sé. “L’essenza in questo suo proprio movimento è la
riflessione”18.
La parvenza è l’inessenziale, proprio per questo essa non ha il suo essere in altro, in cui
appaia. La parvenza è tutta interna alla riflessione, al movimento dell’essenza; il suo essere
è la sua stessa uguaglianza con se stessa. Questa uguaglianza non è un passare della
10 Ibidem
11 Ibidem
12 Ibidem
13 Ivi, p. 440
14 Ivi, p. 433
15 Ivi, p. 441
16 Ibidem
17 Ivi, p. 442
18 Ivi, p. 443
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parvenza nell’uguaglianza con sé, come nel suo esser – altro, ma è un immediato coincidere
del negativo con se stesso.
“Questa immediatezza, che è solo come ritorno in sé del negativo, è quell’immediatezza
che costituisce la determinatezza della parvenza e da cui dianzi sembrava cominciare il
movimento riflessivo”19.
Ma non è così; la parvenza è tale solo nel movimento dell’essenza, nella riflessione, cioè
nel suo ritornare a se stessa. Immediatezza che toglie se stessa.
“Questo è l’esser posto”20, dunque non è il “cominciamento”, pura immediatezza, puro
essere, ma essere che si media nell’essenza, posto nell’essenza.
Si è così giunti ad un punto chiave della speculazione logica di Hegel: l’essenza è un
“porre, in quanto è l’immediatezza come tornare. Non vi è un altro, né un altro in cui ritorni,
né un altro da cui essa ritorni. Essa è dunque solo come tornare, ossia come il negativo di se
stessa”21.
La riflessione che riduce l’essere a parvenza, toglie il suo altro,toglie l’immediatezza
dell’esserci, toglie il negativo.
L’essere quindi è posto, è interno al movimento dell’essenza.
L’essenza è questo movimento riflessivo. Negazione del negativo come negativo: perciò
è un “presupporre”22.
Questa ulteriore caratterizzazione del movimento essenziale è fondamentale.
Per capire meglio è necessario aver presente il capitolo introduttivo alla “Dottrina
dell’essenza”. L’essenza è mediana tra il passare dell’essere e l’autosvolgimento del
concetto. L’essenza sorge dalla misura, l’ultima figura categoriale dell’esserci; essa è il
permanente, l’universale che determina e regola secondo un preciso riferimento i movimenti
estrinseci qualitativi – quantitativi dell’esserci. L’essenza è quindi il fondamento, lo stare in
sé del passare dell’esserci.
Ma l’essenza non è il concetto, che sta in sé e per sé, l’essenza è in sé,ma non ancora per
sé.
Dunque il movimento circolare dell’essenza, in quanto essenza che sorge dall’esserci, è
in sé, in quanto eguaglianza con sé, ma al tempo stesso è necessitata a porre l’altro, cioè
l’essere di cui è essenza.
Quindi il porre dell’essenza, è sempre un presupporre, nel senso che la dialettica
dell’essenza è il rapporto immanente tra una eguaglianza e il ciò di cui è l’eguaglianza. Per
cui è in sé, ma non per sé. E’ sempre in altro.
Scrive, infatti, Hegel: “la riflessione dunque trova prima di sé un immediato ch’essa
sorpassa e dal quale essa costituisce il ritorno. Ma questo ritorno è solo il presupporre ciò
che è stato trovato. Questo trovato diviene solo ciò che vien lasciato indietro; la sua
19 Ivi, p. 445
20 Ibidem
21 Ivi, p. 446
22 Ibidem
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immediatezza è l’immediatezza tolta. L’immediatezza tolta è il ritorno in sé, il giungere
dell’essenza presso di sé”23.
Il movimento riflessivo è quindi caratterizzato da un “contraccolpo” in se stesso.
La riflessione, in quanto riflessione che pone l’esserci, è necessariamente “riflessione
esterna”.
Hegel la definisce così: “La riflessione esterna è il sillogismo, in cui sono i due estremi,
l’immediato e la riflessione in sé. Il medio di codesto sillogismo è la relazione di quei due,
l’immediato determinato”24.
Ma nella riflessione esterna, l’immediato è un estremo, la determinazione o negazione,
cioè la riflessione, l’altro estremo. Quindi la riflessione esterna pone l’immediato, ma essa è
anche immediatamente un togliere l’immediato, cioè toglie questo suo posto, che è il
presupposto. Per cui la riflessione esterna ruota su se stessa. L’immediato da cui la
riflessione comincia ad esercitarsi come se fosse un estraneo, in realtà è il suo stesso
cominciare. La riflessione si cerchia, e quindi è tolta la “esteriorità” della riflessione di
fronte all’immediato. La riflessione nega la sua determinazione, in quanto altro da sé.
La riflessione esterna è dunque “riflessione immanente dell’immediatezza stessa”.25
Questo è un passaggio decisivo: da esterna o estrinseca, la riflessione che pone diventa
immanente.
Si comprende bene, a questo punto la “nota” critica rivolta a Kant, in relazione alla sua
interpretazione del giudizio riflettente.
La riflessione viene presa comunemente “in senso soggettivo, come il movimento della
potenza giudicatrice che cerca di connettere una rappresentazione immediata ad una
determinazione generale. Dal particolare all’universale. Quindi l’immediato è determinato
come particolare solo tramite questo suo riferimento al suo universale”26.
E’ chiaro che dal punto dei vista hegeliano, Kant è rimasto fermo alla riflessione esterna
che si limita a cogliere l’immediato come un dato su cui riflettere, regolativamente, in
funzione dell’unità sistemica.
Ma allora il dato assume la sua determinazione effettiva solo entro l’unità sistematica,
cioè, hegelianamente, solo entro un movimento riflessivo “essenziale”.
Il riferimento critico di Hegel nei confronti del modo estrinseco, “soggettivo”, con cui
Kant affronta l’analisi della “potenza” del giudizio riflettente, è molto interessante, per
comprendere sempre meglio il rapporto soggettività – oggettività, essere – pensiero nella
sua filosofia.
La posizione hegeliana è assolutamente anti-soggettiva. In fondo in Hegel è presente una
sorta di “dislocazione” del logos.
23 Ivi, p. 446
24 Ivi, p. 448
25 Ivi, p. 449
26 Ibidem
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Il logos (comunque lo si voglia chiamare “Io penso” , “Io puro”… ) non è colui cui spetti
la funzione di categorizzare i dati esperienziali che si offrono all’attività conoscitiva
dell’uomo. Il logos si limita a mostrare il già dato, cioè la struttura categoriale dell’Essere.
In questo Hegel è vicino al metodo fenomenologico; lasciare che le cose si mostrino per ciò
che sono.
L’essere, cioè la presenza, è essa stessa, in sé e per sé, la sua stessa struttura categoriale.
Quindi l’essere è Ragione, Idea, logos immanente, che la filosofia si limita speculativamente
a disvelare. La presenza stessa è la Ragione stessa. La catena categoriale che la ragion
dialettica percorre è immanente all’essere stesso in sé e per sé.
L’analisi hegeliana si avvia alla conclusione e quindi il filosofo prussiano riesamina tutta
la speculazione messa in atto.
La distinzione fondamentale riguarda quella che intercorre tra la determinatezza
riflessiva e quella dell’essere, la qualità.
Nella qualità l’essere passa in altro; la determinatezza riflessa, cioè l’esser posto è
anch’esso rifermento ad altro, ma nel suo esser riflesso.
Riflesso nell’essenza, l’esser posto è fissato, determinato come tale, non passa più in
altro. E’ uguale a se stesso.
Come scrive Hegel: “L’uguaglianza con sé della riflessione, che ha il negativo solo come
negativo, come tolto o posto, è quello che gli dà il sussistere”27.
Esemplificando un po’ grossolanamente: nella “Dottrina dell’essere”, un libro (in realtà,
l’esserci) nella sua limitatezza e finitudine (il negativo del “da”), si affianca, “trapassa” nel
tavolo, nel senso di uno scorrere di esserci qualitativamente omogenei nella loro
caratteristica categoriale. Determinano così una estrinseca serialità che sfocia nella quantità.
Nella determinazione essenziale, invece, un libro è posto come libro, la sua negazione nei
confronti del tavolo è fissata. Il libro non è il tavolo, nel senso che il libro è libro. Il non,
non è estrinseco, come nell’esserci qualitativo,ma immanente, attraverso il movimento
negativo dell’essenza che lo riduce a determinazione posta, quindi non indipendente.
Per cui “la determinatezza riflessiva è la relazione al suo altro in se stessa”28.
La determinazione riflessiva, dunque, riprende in sé il suo altro, è negazione dell’altro, il
posto, ma proprio per questo è negazione come “unità di se stessa e del suo altro”29.
Nella terminologia hegeliana questa unità è chiamata “essenzialità”. Nel movimento
dell’essenza, l’esser posto toglie se stesso come posto e negandosi come semplicemente
tale, è “infinito riferimento a se stesso”: pura identità. Con l’identità si apre lo scenario delle
categorie “essenziali”.
27 Ivi, p.452
28 Ivi, p. 453
29 Ivi, p.454
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NOTA
Se si confronta la speculazione hegeliana con quella aristotelica, balza agli occhi della
mente una differenza fondamentale.
Per Hegel l’identità e la sua non contraddittorietà, non è affatto assiomatica, ma è
speculativamente fondabile solo con l’analisi del movimento dell’essenza. L’identità si
costituisce alla sola condizione che l’essere, in quanto essere con una determinazione
immediata (Dasein) sia relazionato all’essenza (Wesen), al suo eidos.
Il principio “inconcusso” della logica apofantica, si basa, per Hegel, sul movimento
essere – essenza. Questo è il movimento categoriale del “ciò che già era essere”. L’apofansi
lavora solo e soltanto sull’essenza. L’essere, in quanto dasein, è passato nell’essenza. Ma
non è un movimento che accada nel tempo, non è un fatto; è una necessità categoriale,
immanente all’essere stesso.
Dunque i principi supremi della logica sono sì i principi dell’essere, purchè si capisca
che si logicizza non l’essere in sé, ma l’essere mediatosi nell’essenza.
Senza la mediazione essenziale non è possibile determinare alcunché.
Fondamentalmente Hegel in queste pagine, ritenute dai suoi studiosi, tra le più
esoteriche, al limite dell’incomprensibile, di tutta la sua speculazione logica, ricostruisce il
percorso “storico” che la filosofia ha percorso.
Il passaggio dalla “misura”, ultima figura dell’esserci, all’essenza è il passaggio,
speculativamente inteso, dal pitagorismo a Platone.
La matematica, il regno della misura, è ancora immerso nella estrinsecità della dialettica
qualitativa – quantitativa delle grandezze messe in campo: il permanente di un continuo
variare estrinseco. Solo con l’essenza si determina la molteplicità, in quanto strutturata
eideticamente. Qui si colloca la fondamentale svolta platonica della “seconda navigazione”.
“Questo è quel che Platone esigeva dal conoscere, di considerare le cose in sé e per se
stesse, da un lato di considerarle nella loro universalità, dall’altro poi di non sviarsi da loro
ed attaccarsi a circostanze, esempi e paragoni, ma di avere innanzi a sé unicamente le cose e
portare alla coscienza quel che vi è in esse d’immanente”30. Da qui la successiva svolta
aristotelica e l’approdo al “ciò che già era essere”. La logica lavora solo su un essere che è
ormai solo essere del logos, in quanto essere dell’essenza, quindi secondo identità e non
contraddizione. L’essere in sé, la cosa stessa, per Hegel che pensa Aristotele, è
definitivamente uscita fuori dalla speculazione filosofica. E’ solo il “caput mortuum” di una
astrazione che non coglie il movimento immanente all’essere stesso che si fa essenza, poi
concetto, quindi Idea, Ragione disvelata. Ma è un passare “senza tempo”. Pura necessità.
Ma è pur vero che l’Anfang del movimento logico – dialettico è l’Essere puro, la sua
stessa immediatezza.
E’ proprio questa immediatezza che si svolge in se stessa, fino a disvelare la sua stessa
pienezza, la sua “intensiva totalità”31. Quindi è vero che l’immediato si toglie, ma è pur
sempre il fondo nascosto della totalità dispiegata: l’Idea.
30 Ivi, p.942
31 Ivi, p.956
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L’immediato è ciò che “rimane assolutamente immanente alle sue ultime
determinazioni”32. L’immediato, quindi, non può essere effettivamente pensato, ma solo
accolto dal pensiero. Come afferma Hegel, alla fine della sua gigantesca speculazione sulla
logica, l’immediato, il cominciamento, non può essere oggetto dell’intuizione sensibile o
della rappresentazione, ma solo del pensare, che a causa della immediatezza stessa
dell’Inizio, può anche esser chiamato un “intuire soprasensibile”33.
Questa sconcertante definizione hegeliana del pensiero dell’Inizio merita, sicuramente,
una pausa di riflessione. La conoscenza “iniziale” non può essere nulla di oggettivo, di
determinato. Se così fosse, il pensiero logico, dovrebbe subito innalzarsi alla ricerca della
ragioni della determinatezza, in sé e per sé inspiegabile. Quindi l’Inizio non può essere nulla
di empirico, ma neppure un concetto determinato. Anche in questo caso la presenza
immediata della determinatezza richiederebbe al concetto giustificazioni ulteriori. “Una
filosofia che attribuisse all’essere finito come tale, un vero essere, un essere definitivo,
assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia”34. Il tentativo kantiano di tenere assieme i
due lati della conoscenza, porta a ciò che Hegel ha sempre criticato radicalmente: la
divisione tra fenomeno e noumeno, e la conseguente inconoscibilità della ragione del mondo
fenomenico. E allora come caratterizzare questo “intuire non sensibile”, se non nel senso
che la ragione inizialmente non può categorizzare il già dato, ma deve limitarsi ad accogliere
nel pensiero una eccedenza, che essa stessa è costretta a concedere, per poter giustificare il
suo sviluppo, che è poi lo svolgimento stesso del puro Inizio all’Idea?
Come dire: al fondo dello sviluppo categoriale “sta” l’assolutamente non-categoriale.
“Quello, che costituisce il cominciamento, il cominciamento stesso, bisogna quindi
prenderlo come tale che non si possa analizzare, bisogna prenderlo nella sua semplice, non
riempita immediatezza, epperò come essere”35. La ferrea identità parmenidea tra essere e
pensiero che Hegel ricostruisce con la ragion dialettica, è necessitata a concedere che al
fondo del Dasein (la prima verità dialettica del puro essere) sta un semplice Sein che la
ragione non può categorizzare, se non già, nella figura dell’esserci, cioè dell’essere con una
determinatezza immediata. La logica, anche nella sua speculazione più alta, è costretta a
lasciare che l’essere ecceda la sua stessa categorizzazione. Ma se l’essere non può essere
categorizzato, se non mostrando la sua prima determinatezza immediata, il dasein, in cui si
invera, allora bisogna pur dire che la “differenza ontologica”, a qualsiasi titolo (il dasein non
va confuso con l’esistente) si insinua necessariamente in ogni forma di pensiero orientato
logicamente.
Prima di chiudere questa breve “nota” sulla difficoltà della logica di fondare l’Inizio del
suo stesso cammino, non si può eludere un confronto, seppure molto sintetico, con la
riflessione severiniana sulla questione discussa. Tra i grandi filosofi contemporanei,
Severino, è, forse, quello che ha difeso con maggior forza il principio di non contraddizione.
La sua radicale speculazione sul principio primo della logica, ha portato il filosofo italiano a
superare la base di partenza aristotelica – tomista, per approdare ad una concezione olistica,
di stampo hegeliano, del principio stesso.
Il principio più saldo: “A non può essere a un tempo A e non-A” interpretato
dialetticamente, si trasforma in principio di opposizione assoluta. Esso non solo afferma
32 Ivi, p.57
33 Ivi. P. 939
34 Ivi, p.159
35 Ivi, p.61
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l’opposizione escludente tra ogni ente e il suo stesso “nulla”, ma, anche, e questo è il punto
decisivo, di derivazione hegeliana, il differire di ogni ente da ogni altro ente. Ciò implica
immediatamente che l’identità di ogni essente, per il principio stesso di non contraddizione,
stia in un rapporto di necessità, logico – ontologica con la totalità. Ogni ente è altro da tutto
ciò che non è lui stesso. L’identità di A, ad esempio, è tale solo in relazione a tutto il suo
non-A. Questa opposizione universale è originaria. Quindi ogni predicazione di A è
immanente ad A. Seguendo non solo Hegel, ma anche Leibniz, secondo la speculazione
severiniana, ogni giudizio “vero” è una identità tra il soggetto e tutte le sue determinazioni.
Il giudicare apofantico non determina contraddizione, alla sola condizione che soggetto e
predicato siano pensati insieme, come costituenti l’identità monadica di ogni essente. Se
così non fosse, e i predicati venissero pensati come estrinsecamente legati al soggetto, grazie
ad un intervento “soggettivo” del logos, si determinerebbe necessariamente la
contraddizione di una identità, costituita da non – identici. Proprio l’originarietà del differire
di ogni ente dal nulla e da tutto ciò che non è lui stesso, porta Severino a negare qualsiasi
significato ad una presunta antecedenza delle cose rispetto al logos. Se un essente, un
“noema”, fosse davvero antecedente e quindi separato dal proprio essere immediatamente se
stesso e il suo non essere l’altro da sé, l’ente non sarebbe se stesso e, quindi, non sarebbe il
suo non essere il suo altro. L’immediato, dunque, è l’essere stesso, nella sua impossibilità
fenomenologica e logica di non essere immediatamente se stesso. Aristotele e Tommaso
d’Aquino non cogliendo l’immediata essentità di ogni essente, la sua identità originaria,
concedono che l’identità si realizzi solo attraverso “l’operazione seconda” dell’intelletto che
giudica secondo necessità logica la cosa stessa. Ma un essente isolato dalla dimensione
“dianoetica” è incapace di essere se stesso e negazione del proprio altro. La cosa in sé è
quindi un “nulla”, che il realismo pensa come un essente. Per Severino, l’apparire
dell’essente è l’apparire immediato dell’identità originaria dell’essente stesso. A ciò si deve,
però, subito aggiungere ciò che è già stato affermato, e cioè che l’originarietà dell’identità
dell’essente è tale in relazione alla totalità del suo non-essere: immediatezza logica. Quindi
il duplice volto della “struttura originaria”, determinata dalla relazione tra l’immediatezza
fenomenologica e quella logica: l’essente che appare, appare per ciò che è. Non può
apparire ed essere l’altro da sé. La sua identità è originaria. Quindi, in opposizione ad Hegel,
non il puro essere immediato, ma l’immediata determinatezza degli essenti, nel loro essere
ciò che sono e non-altro è il “cominciamento”. L’essere non è non essere. Ogni essente non
è tutti gli altri.
Ma la totalità, concretamente, cioè dal punto di vista fenomenologico, non è data, e non
può essere data, perché la visuale fenomenologica, in questo caso, verrebbe annientata36: se
necessariamente è così (l’argomentazione severiniana ha tratti comuni con quella hegeliana
tra “cattivo e vero infinito”),allora solo formalmente è data la connessione necessaria tra un
essente e la totalità.
Quindi l’immediata“verità”identitaria di ogni essente non è mai concretamente data.
L’ente che appare immediatamente come ciò che è, non appare come ciò che è in sé è per sé,
nella misura in cui la sua compiuta essentità è tale solo in relazione alla inapparente totalità
del suo non-essere.
Ciò comporta, in ultima istanza, che anche nella radicale speculazione severiniana
sull’essere, il logos sia costretto a riconoscere la presenza di una eccedenza d’essere che non
può colmare. La struttura dell’immediatezza, cioè di ciò che è affermato per sé e non per
36 E. Severino, La Gloria, Milano, Adelphi, 2001, p.83.
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altro, non è in grado, proprio per la sua originaria struttura olistica, di essere compiutamente
se stessa.
Quindi, o si nega assurdamente la presenza fenomenologica degli essenti, o si deve
necessariamente ammettere che nella dimensione di ogni presenza d’essere, già giace la sua
eccedenza, che né la logica apofantica, né quella dialettica, né la loro sintesi riesce a
sopprimere.
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