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La teoria dell`autocontrollo

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La teoria dell`autocontrollo
UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA
Facoltà di Scienze dell’Educazione
Corso monografico di Sociologia della Devianza
Ricerca monografica
LA TEORIA DEL CONTROLLO ANALIZZATA
DA T. HIRSCHI E M.R. GOTTFREDSON
Francesca Abballe
Roma, 12/03/13
INTRODUZIONE
La ricerca muove dall’interesse verso le teorie del controllo e gli sviluppi che ne sono
scaturiti successivamente. Questo tipo di prospettiva pone in luce tutti i fattori che entrano
in relazione con il controllo esterno e, nel caso della teoria dell’autocontrollo, con la capacità
umana di autocontrollarsi. L’interesse si riflette soprattutto in quest’ultimo aspetto,
nell’osservare come l’essere umano cresce e matura nel pieno controllo delle sue abilità e
nella profonda conoscenza di se stesso.
Gli obiettivi che mi sono prefissata nel percorrere questo tipo di ricerca si
concretizzano nel:
-
Introdurre la vita di Hirschi e il contesto che lo ha influito;
-
Esporre le due principali teorie (controllo e autocontrollo) definendone gli
elementi principali;
-
Fare riferimento ai punti critici che emergono dalla letteratura adiacente;
-
Lasciar spazio alle aree tematiche di maggiore interesse come la famiglia.
Nel seguire questa sequenza di operazioni mi sono proposta di seguire una
documentazione variegata: dalle fonti su internet al testo di ricerca vero e proprio (“The
generality of deviance”).
Ho tentato di procedere in ordine cronologico, partendo prima dal contributo di
Hirschi, per poi illustrare il momento della collaborazione tra i due autori. Al fine di ogni
capitolo ho dedicato una sezione alle critiche, elaborate da altri autori ma anche dai
ricercatori stessi.
PRIMO CAPITOLO
Travis Hirschi
Travis Hirschi (nato il 15 aprile 1935, Rockville, Utah, U.S) criminologo americano
conosciuto per la sua prospettiva sul controllo sociale della delinquenza giovanile e
dell’autocontrollo nel crimine.
Hirschi ricevette una cattedra in sociologia all’Università della California di Berkley
(1968) e insegnò in diverse università prima di unirsi all’Università dell’Arizona.
(Enciclopedia britannica).
Le teorie sul controllo sociale formatesi attorno agli anni ’60, muovono dall’idea che
“l’attore sociale valuta costi e benefici delle diverse linee d’azione, legale e illegale, e sceglie
quella giudicata più conveniente. Le presentazioni della teoria del controllo, come la mia
(Hirschi, 1969), rappresentano il tentativo di elencare i fattori che il soggetto considera nel
costruire la sua decisione; attaccamento alle persone o alle istituzioni, impegno in linee
d’azione convenzionali, coinvolgimento in attività non criminali, convinzione nella validità
morale delle leggi.” (Berzano-Prina, 2010, 24).
La sua prima versione della teoria del controllo, presentata in “Causes of Delinquency”
(1969), prende piede dalla prospettiva sulla disorganizzazione sociale. Le sue
argomentazioni spiegano come i deboli legami sociali potrebbero portare un individuo libero
a valutare i benefici del crimine. Hirschi discusse e lavorò sulle quattro variabili capaci di
influenzare la probabilità a conformarsi, o a deviare dalle norme della società, le quali
saranno discusse più nel dettaglio.
La teoria generale sul crimine presenta una più specifica teoria del controllo che
riconosce l’autocontrollo, anziché il controllo sociale, come la radice di criminalità o
conformità. Grande enfasi, infatti, viene posta sull’educazione genitoriale, considerata la
fonte della socializzazione, in grado di instillare l’autocontrollo nel bambino, anche se sono
molte altre le variabili che giocano un ruolo fondamentale nel processo, proprio o improprio,
della socializzazione. (testo accademico in rete)
Nel testo “Causes of Delinquency” (1969) – un innovativo lavoro che ebbe profonda
influenza sulla criminologia durante i tre decenni seguenti – Hirschi trattò e dimostrò come
la delinquenza possa essere spiegata dall’assenza di obblighi sociali. Secondo l’autore,
l’attaccamento sociale (es. ai genitori, agli insegnati e ai pari) coinvolge una persona in
attività sociali e richiede l’accettazione delle norme e il riconoscimento della validità morale
della legge.
La collaborazione di Hirschi con il criminologo americano Michael R. Gottfredson
emerse prima in “A general Theory of Crime” (1990), nel quale definirono il crimine stesso
come un insieme di “atti di forza o frode intrapresi per passatempo e per interessi personali”.
Il testo spiega che tutte le tipologie di crimine possono essere descritte, attraverso la
combinazione tra due elementi: l’opportunità di compiere atti criminali e il basso autocontrollo.
Gottfredson e Hirschi ipotizzarono che il livello di auto controllo nel bambino, il quale
è fortemente influenzato dalle pratiche educative, si stabilizza nel tempo fino al
raggiungimento degli otto anni. Così, identificarono nella parentela il fattore più decisivo
nel determinare le preferenze che la persona commetterà nel crimine. I bambini allevati in
ambienti di negligenza o di abuso, per esempio, saranno più inclini a commettere atti
criminali, mentre bambini cresciuti in case con un’adeguata supervisione, dove le punizioni
sono la conseguenza di un cattivo comportamento, svilupperanno una resistenza maggiore
alla tentazione di condotte criminali.
Oltre agli atti criminali e delinquenziali, il basso autocontrollo si manifesta nell’essere
“impulsivo, insensibile, materiale, orientato al rischio, poco lungimirante, e introverso”.
Sebbene le teorie di Hirschi furono criticate per essere, tra le altre cose, tautologiche,
paternalistiche e difettose nelle definizioni, furono ampiamente popolari tra i criminologi
americani.
Hirschi ricevette un numero di premi per i suoi lavori, incluso il C. Wright Mills dalla
società per lo gli studi dei Social Problems e l’Edwin H. Sutherland dalla società americana
di criminologia. (dall’enciclopedia Britannica in rete).
1.1
Concetti fondamentali
Le teorie del controllo partono dal presupposto che le azioni illegali e delinquenziali
si manifestano nel momento in cui, il legame che unisce l’individuo con la società di
appartenenza si riduce o è malsano. Queste teorie hanno descritto quelli che sono i principali
elementi di questo legame, io intendo soffermarmi su due aspetti generali: l’attaccamento e
l’impegno.
Le teorie psicologiche che indagano sulla devianza, tendono a diagnosticare questo
fenomeno con le diverse psicopatologie, correlandole ad ogni tipologia di crimine. In finale
ognuna di queste caratteristiche, richiamate dalle teorie psicodinamiche, può essere rinviata
alla teoria dell’attaccamento. In altri termini, per l’autore, la mancanza di un attaccamento
sicuro, può voler dire sentirsi liberi dalle restrizioni di tipo morale e sociale.
L’autore procede nella sua argomentazione affermando che l’uomo è un animale
aggressivo e impulsivo che può sembrare naturalmente libero da restrizioni di qualsiasi tipo,
ma che è anche coinvolto in un processo di socializzazione con gli altri che lo rende sensibile
alle regole sociali. Nel momento in cui un soggetto si sente allontanato esternamente e
internamente dagli altri, sorge un conflitto interpersonale in grado di generare un serbatoio
di sufficiente ostilità socialmente derivata.
Durkheim disse che “noi siamo esseri morali sulla base del risultato che siamo esseri
sociali”, in merito a questo emerge un interrogativo: cosa significa dire che le persone
internalizzano norme? Le regole sono condivise, per definizione, da tutti i membri della
società, e per violarle è necessario agire al contrario delle aspettative e del desiderio degli
altri. Se una persona non nutre interesse per gli altri è libera di agire, di conseguenza è libera
di deviare!
L’essenza dell’internalizzazione delle norme, della coscienza e del super ego si trova
quindi proprio nell’attaccamento dell’individuo agli altri. (Causes of Delinquency da pag.
16)
Per quanto riguarda l’impegno, Becker suggerisce un’idea interessante: in primo
luogo, l’individuo si trova nella condizione di decidere come agire, considerando le
conseguenze delle proprie azioni e gli interessi che ne derivano. In secondo luogo, l’uomo
pone se stesso in una posizione che parte dalle sue precedenti azioni e infine, il suo pensiero
deve essere consapevole e deve riconoscere che la decisione presa avrà “ramificazioni”
future.
Questa linea di pensiero, ci porta ad ammettere che ogni soggetto che si propone di
assumere un comportamento deviante dovrà considerare una serie di costi, di rischi e
investimenti che potrà perdere nel momento in cui abbandonerà un comportamento
convenzionale.
Se l’attaccamento agli altri è la controparte sociologica del super-ego o della
coscienza, l’impegno è la controparte dell’ego o del senso comune.
Per comprendere il paradigma dal quale Hirschi teorizzò il suo lavoro, è importante
comprendere il contesto nel quale egli scrisse “Causes of Delinquency”. Nel 1960 la società
americana stava vivendo delle serie difficoltà emerse nella prospettiva sulla
disorganizzazione sociale, che era stata precedente dominata dal pensiero criminologico.
In quel periodo, Hirschi era impegnato nell’osservazione della mancanza del controllo
sociale sugli individui. L’autore si soffermò sull’analisi dei cambiamenti relativi alle
istituzioni sociali. La Chiesa, la famiglia, le istituzioni educative e i gruppi politici persero
favore mentre ci fu l’avvento della musica rock, le droghe, e movimenti civili dei diritti
umani che incoraggiarono le persone a tagliare i legami con le norme sociali convenzionali.
L’autore notò che uno degli aspetti più rilevanti del 1960, fu la rottura della tipica famiglia
americana. La teoria attribuisce questa rottura, anziché alla disorganizzazione sociale, al
crescente malessere sociale.
La teoria del controllo sulla delinquenza è prettamente sociologica, diversamente da
quelle sviluppate dai contemporanei di Hirschi, i quali seguivano una linea psicologica. Il
ricercatore si dedicò alla previa spiegazione delle inadeguatezze rispetto alle teorie espresse
dai contemporanei, prima di introdurre la sua. Anziché tratteggiare un tipo di personalità che
coincidesse con quella del criminale-tipo, l’autore si concentrò sul ruolo delle relazioni
sociali, alla base dei rapporti sociali.
In questa sede, ci soffermiamo sui legami sociali e sulle istituzioni, anziché
sull’individuo e sull’autocontrollo, ai quali diede spazio nella sua auto-teoria del controllo
del crimine nel 1990.
L’autore sostiene che senza fattori motivazionali diviene inevitabile, per un individuo
qualsiasi, avvicinarsi alla devianza. L’altro requisito sembra essere l’assenza del controllo
(prima esterno e poi interno) che permette all’individuo di essere libero di valutare i benefici
e i costi del crimine.
Le spiegazioni fornite da Hirschi relative alle motivazioni per le quali gli individui si
conformano o scelgono di deviare dalle norme, comporta aspetti fondamentali come:
l’attaccamento, l’impegno (affidamento), coinvolgimento, e il credo.
Nell’attaccamento lo scrittore si riferisce alla misura e al modo con il quale le persone
si legano le une con le altre. Più l’individuo sviluppa attaccamento meno avrà probabilità di
deviare. Le prime esperienze di legame si sviluppano con i genitori, seguite dal rapporto con
i pari, gli insegnanti, gli ecclesiastici, e gli altri membri della comunità. Il ricercatore
preferisce definire l’attaccamento come un processo d’internalizzazione, proprio perché può
essere misurato indipendentemente dalla condotta deviante.
L’impegno viene descritto come: “la componente razionale nell’essere conformi”. In
generale, si riferisce alla paura delle conseguenze generate dall’infrazione delle norme. Nella
situazione in cui un soggetto considera l’impegno a deviare, o una condotta criminale, deve
considerare il rischio di perdere l’investimento fatto nel momento in cui assumeva un
comportamento convenzionale. Se una persona sviluppa una reputazione positiva,
guadagnata con una buona educazione, sviluppata all’interno di una famiglia solidale, e/o
stabilizzata, con un nome incisivo nel mondo degli affari, soffrirà pesantemente la perdita
infrangendo le regole. Aver mantenuto un atteggiamento convenzionale negli anni è
considerata una garanzia per la società, proprio perché la persona ha mantenuto per un lungo
lasso di tempo un comportamento conforme.
Conformarsi, farsi assorbire dalle attività convenzionali è una dinamica che appartiene
alla componente del coinvolgimento. Hirschi afferma che il coinvolgimento in attività
convenzionali tiene impegnato l’individuo, talmente tanto da permettergli l’indulgenza del
comportamento deviante. L’idea che “le mani in mano sono l’officina del diavolo” è la
ragione per cui l’autore ha dichiarato: “il bambino che gioca a ping-pong, nuota in piscina,
o fa i suoi compiti non sta commettendo atti delinquenziali”. Hirschi riflette sul fatto che
persone coinvolte in attività ricreative e sociali fossero lontane dalla possibilità di deviare.
Questa affermazione fu una delle maggiori fonti di critica, perché come discusse in
seguito, la criminalità dei colletti bianchi non viene considerata. Per colletti bianchi si
intendono coloro che deviano in un contesto di lavoro e che hanno il tempo per commettere
un crimine, proprio perché sono assorbiti da un contesto impegnativo.
Il concetto di partecipazione, visto con l’ottica di Hirschi, ha generato programmi per
giovani che si concentrano sulle attività positive ricreative per occupare il tempo libero. La
convinzione si riferisce all’esistenza di un comune sistema di valori, esistente entro la
società. Una persona è più conforme quando crede nelle norme che condividono gli altri.
Il ricercatore riconosce che gli individui variano anche nel loro credo, in base alla loro
profondità e grandezza, e questa variazione è strettamente legata al grado di attaccamento ai
sistemi che rappresentano le credenze in questione. (materiale accademico su internet)
1.2
Considerazioni critiche
Come menzionato precedentemente, queste quattro componenti attribuite alla
conformità e alla devianza hanno incontrato diverse critiche. Primo di tutto, non sembrano
spiegare tutti i tipi di crimine. Il coinvolgimento, come già anticipato, non spiegherebbe i
crimini dei colletti bianchi, in quanto una persona che esegue il suo mestiere ed è
apparentemente conforme alla norma, non è necessariamente troppo impegnata per
commettere un crimine; ma è proprio perché il soggetto è introdotto in un contesto lavorativo
che ha l’opportunità di commetterlo.
Secondo, la teoria provvederebbe un’eccessiva e semplicistica soluzione ai problemi
generati dalla delinquenza. Per esempio, il suggerimento di Hirschi, già menzionato, relativo
ai bambini che giocano e nuotano, implicherebbe il fatto che per sbarazzarsi dalla devianza
basterebbe impegnarli in questo tipo di attività.
L’ordine pubblico sembra basarsi, secondo l’autore,
su queste semplici
“raccomandazioni”, che ignorano la mancanza di risorse offerte dalle basse classe sociali
che appartengono comunque al contesto sociale; ad esempio il fatto che non tutti i ragazzi
hanno accesso a queste attività.
Dall’impegno, Hirschi non deduce un significato profondo come la dedizione interiore
verso di se e nei confronti degli altri. Nel momento in cui parla di un coinvolgimento
personale, l’autore non si riferisce ad uno di tipo emozionale. Per quanto riguarda il credo,
il ricercatore non si riferisce ad una vera o propria fede interiore e profonda in qualcosa o
qualcuno; il legame che intendeva era molto meno significativo.
Una serie di critiche sono state fornite da Hirschi stesso, specialmente quelle riguardo
l’origine della teoria. Il supporto dell’autore stesso, a questa prima stesura è scemato nel
tempo, e alla fine ha portato allo sviluppo della teoria del controllo presentata nel “Teoria
generale del crimine”. (materiale accademico su internet)
SECONDO CAPITOLO
“The Generality of Deviance”
Il corposo testo scientifico presenta un’ampia gamma di ricerche su diverse tematiche
che hanno a che fare direttamente con la devianza. Il materiale proposto, su cui gli autori
argomentano i risultati, corrisponde allo studio sul campo da parte degli autori stessi, e a
tutta la documentazione già esistente sull’argomento.
Ogni capitolo è dedicato ad una tematica di interesse criminologico, mi soffermerò su
quelle di maggior interesse per la ricerca personale.
2.1
La teoria di fondo
Il fine del testo è quello di esplorare la generalità della teoria, in altre parole, gli autori
tentano di dimostrare quanto la loro tesi si possa allargare a diverse situazioni di devianza.
Ciò che emerge è che nel crimine vi è sempre la ricerca di un bene e di un piacere immediato,
non sono richieste abilità o insegnamenti speciali.
La teoria parte del presupposto, come abbiamo accennato in precedenza, che esiste una
proprietà dell’uomo: l’autocontrollo, che è alla base di ogni comportamento umano. Tale
caratteristica emerge in età precoce e rimane pressoché costante durante il resto della vita.
Una volta che il soggetto matura adeguatamente la sua identità, non ha più bisogno di
rinforzi esterni, ma ha sviluppato la sua capacità di controllarsi e di compiere delle scelte in
maniera autonoma e congrua alle norme sociali.
Un altro aspetto fondamentale è la socializzazione, denominata come processo
individuale, attraverso il quale la persona riesce ad assumere quei comportamenti consoni
all’orientamento collettivo.
La teoria si fa molto chiara sul fatto che questi processi fondamentali per la crescita
umana, rimangono stabili, come abbiamo già detto, non subiscono dei cambiamenti durante
l’arco di vita. Se pensiamo alla nuova corrente di psicologia che analizza l’uomo in tutto il
suo arco di vita, ci possiamo discostare facilmente da questa ipotesi azzardata, in quanto
afferma che la persona è soggetta continuamente alle influenze esterne e ai cambiamenti che
affronta nella sua vita.
Un altro elemento cardine della teoria del controllo, sta nella capacità della persona di
dimostrarsi lungimirante o meno rispetto alle scelte che fa. Un atto deviante presuppone che
non vi sia una giusta misurazione da parte del soggetto, di quelle che sono le conseguenze a
lungo termine, mentre la persona conformata ai parametri sociali, nell’agire quotidiano,
cercherà di misurare adeguatamente le conseguenze del proprio comportamento. Si tratta
sempre di un ragionamento acquisito nel tempo, in base all’educazione ricevuta in età
precoce.
Nella parte dedicata agli incidenti viene introdotto un principio che ha guidato la
ricerca degli studiosi: colui che è coinvolto in un tipo di comportamento definito
problematico o deviante, tenderà ad essere coinvolto in altri tipi di comportamento affini. Le
analisi condotte si focalizzano sulla concentrazione degli incidenti e rilevano come la
percentuale di questi ultimi sia maggiore nei casi di situazioni anomale, i quali verranno
specificati in seguito.
In tutta la documentazione alla base del fatto che sia possibile rendere generalizzabile
la teoria dell’autocontrollo a più tipologie di devianza, vi è il concetto di versatilità, ovvero
coloro che hanno una bassa capacità di controllarsi, commetteranno atti devianti di diverso
genere. Ad esempio, l’uso di una droga potrebbe essere così correlato all’uso di altre droghe,
soprattutto quelle più facili da reperire (tabacco, alcool). Rispetto a questo punto è necessario
chiarire che i soggetti che deviano tenderanno sempre a ripetere gli atti illeciti in cui avranno
avuto più successo, perché ciò comporta, dal punto di vista pratico, una maggiore capacità
di evitare l’arresto. Inoltre, il concetto di versatilità è opposto al concetto di carriera criminale
(Becker), in quanto il primo rifiuta l’idea che il criminale si specializzi verso una strada sola,
e il secondo lo afferma.
Risulta quasi improponibile interpretare i risultati relativi a queste affermazioni, in
quanto emergono elementi contraddittori. L’obiettivo dell’analisi è infatti molto complesso
da raggiungere, se si pensa che bisognerebbe seguire la vita di criminali per considerarne le
tappe decisive e verificare le variabili in gioco.
2.2 The generality of deviance
Il paragrafo è dedicato ai contenuti di maggiore interesse pedagogico che riguardano
il testo. Nell’analisi dell’aggressività, gli autori riprendono il filone di teorie che si sofferma
sul binomio frustrazione-aggressività. Dalle ipotesi di Dollard, secondo il quale
l’aggressività sorge da un’esperienza frustrante, alle teoria di Merton il quale attribuisce la
natura del crimine, a un fallimentare tentativo di raggiungere mete sociali (strain theory).
Seguendo l’ottica già premessa nel paragrafo precedente, gli atti violenti vengono
considerati come dei meri tentativi di raggiungere ciò che può soddisfare un piacere, un
interesse immediato. Le azioni illecite risultano irrazionali, impulsive e per certi versi
inesplicabili, come se fossero un prodotto di un bisogno piscologico profondo.
Per quanto riguarda il capitolo in cui viene trattata la famiglia, si potrebbe approfondire
ulteriormente nel dettaglio. L’ipotesi dominante parte dalla considerazione che le famiglie
monoparentali, statisticamente registrino una certa connessione con la condotta criminale e
con i casi di abuso. Negli anni ’90 gli autori erano pienamente convinti che un’educazione
inefficace era una delle cause maggiori del crimine, quest’idea si è andata sfumando nel
tempo.
Focalizzandosi sul concetto di famiglia ed educazione, si può considerare il fatto che
la manifestazione precoce della delinquenza non esclude il concetto di ereditarietà biologica,
e limita anche l’idea che la devianza abbia origine dal gruppo di pari e dal successo
capitalistico americano, in grado di attrarre i ragazzi verso beni irraggiungibili. Nonostante
le varie correnti, si possono considerare tutti questi aspetti come variabili interconnesse.
La famiglia è l’organismo che più degli altri, si fa promotrice di un sano sviluppo dei
figli, stimolando la socializzazione e l’autocontrollo. Quest’ultimo viene osservato dagli
autori come un continuum, al polo positivo vi sono i bambini che hanno sviluppato
adeguatamente la capacità di resistere alle tentazioni quotidiane, sanno gestire in qualche
modo i loro impulsi. Al polo negativo, viceversa, ci sono i bambini che non hanno ancora
potuto sviluppare in maniera consona la capacità di dominare se stessi. Il basso autocontrollo
dimostra l’incapacità e il fallimento delle istituzioni nel realizzare nel concreto un quadro di
valori.
In merito a queste argomentazione, gli autori propongono alcuni punti che la famiglia
può realizzare nel prevenzione di un atteggiamento deviante:
-
La famiglia potrebbe facilitare il processo di socializzazione, insegnando ai figli a
controllarsi; (il modello di socializzazione in questione racchiude: la cura del
bambino, il monitoraggio del suo comportamento, il riconoscimento di un
comportamento deviante, qualora si manifesti, e la sua conseguente punizione).
-
La famiglia dovrebbe delimitare l’attività dei bambini, così da poter mantenere una
reale sorveglianza su di loro, assicurarsi che essi siano coscienti di quando e dove
siano fuori dal controllo genitoriale;
-
La famiglia dovrebbe saper dosare amore in maniera adeguata, imponendo il
rispetto verso i suoi membri. In un ambiente dove è possibile fare esperienza di un
attaccamento sicuro è possibile realizzare se stessi, tenendo conto delle esigenze
degli altri;
-
La mera presenza di almeno uno dei genitori nell’ambiente casalingo, è considerato
un aspetto rilevante nella prevenzione della devianza;
-
Un ulteriore rischio da arginare è insito nelle situazioni in cui membri non
imparentati con il bambino ma a stretto contatto con esso, possano influenzarlo
verso percorsi di vita erronei. È il caso delle famiglie monoparentali e di contesti
in cui patrigni/matrigne compiono abusi sui figli del partner;
-
In ultimo, si sottolinea la funzione del genitore o della persona che tutela il minore,
di garantire la buona condotta di tutte le persone che s’interfacciano con il
bambino.
Gli autori pongono delle sottolineature sulla struttura monoparentale, dotata
unicamente di una madre, infatti secondo gli studi, la struttura familiare è un fattore
strettamente legato allo sviluppo di una carriera deviante. In questo caso, la percentuale di
devianza più alta si riscontra proprio nelle case dove vi è la sola presenza materna, questo
dato si accompagna facilmente con lo svantaggio economico, considerato dalla criminologia
classica come un fattore preponderante della criminalità.
Inoltre, sempre in riferimento a questo tipo di struttura famigliare, gli autori hanno
tentato di tracciare delle caratteristiche generali riferite a questo tipo di ragazzi, dimostrando
come:
-
Siano maggiormente orientati sulla dimensione del “qui ed ora” (presente);
-
Abbiano problemi a relazionarsi con gli adulti (per scarsità di figure valide);
-
Un numero maggiore di fratelli sembra peggiorare la situazione, in quanto limita
ulteriormente il controllo;
-
Presentano dei risultati bassi ai test d’intelligenza (QI);
Come accennato, i genitori che hanno molti figli hanno meno tempo a disposizione,
meno energie e soldi per dedicarsi a loro. Di conseguenza, i bambini con molti fratelli vivono
più tempo con i coetanei che con gli adulti e hanno meno tempo per crescere e sperimentare
la loro maturità.
Tutto ciò finisce per influenzare direttamente il rendimento scolastico, la capacità di
eloquio, la larghezza del vocabolario, fino ad incidere anche con la probabilità devianza.
A livello di supervisione, ciò che manca nelle famiglie allargate è la comunicazione,
a livello generale e su quello più specifico dell’insegnamento. Vi è anche una maggiore
possibilità per i figli di frequentare gruppi sbagliati.
La teoria ribadisce il fatto che la grandezza della famiglia predice il comportamento
deviante nei bambini, perché è un indicatore dell’autocontrollo dei genitori (ad esempio:
quando mio padre sta con me, la sua mente è da un’altra parte). In altre parole, se i genitori
non hanno un autocontrollo sviluppato rischiano ovviamente di non trasmetterlo. Ma
quest’ultimo aspetto potrebbe verificarsi anche nelle famiglie dove vi sono entrambi i
genitori. In questo senso, sarebbe più opportuno, preoccuparsi meno della grandezza della
famiglia e più di come vengano educati i bambini all’autocontrollo.
Nella sezione dedicata alle cause degli incidenti, la prima parte tratta situazioni
rischiose dove sono coinvolti minori (non vi è un’intenzionalità pienamente cosciente) che
si concludono con la morte, traumi fisici o psichici. Nella seconda parte invece, si fa
riferimento a incidenti nei quali sono coinvolti gli adulti e vengono menzionati, in primo
luogo, i motoveicoli e la scarsa capacità di controllarsi rispetto alle norme stradali. Come già
accennato nel paragrafo precedente, gli autori individuano le variabili alla base della
relazione positiva tra crimini e incidenti del primo tipo:
-
Problemi psichiatrici e di salute all’interno del nucleo familiare: si tratta di
disordini psichiatrici, problemi e tensioni collegate alla figura materna. Nel
momento in cui si ha un ricovero di quest’ultima, l’eventualità per i minori
d’incorrere in incidenti diminuisce sensibilmente;
-
Educazione materna: un basso livello di educazione è sempre collegato alla
possibilità d’incidenti;
-
Età della madre: più la madre è giovane e meno sarà l’attenzione che dedica ai
figli, ciò va direttamente ad influire sulle possibilità d’incidenti;
-
Tensioni coniugali: è un fattore che si lega non solo agli incidenti, ma risulta
sensibilmente correlato alla condotta deviante e delinquenziali dei figli;
-
Tipo di famiglia e ambiente: ovviamente la famiglia monoparentale è più a rischio,
mentre l’ambiente domestico deve essere adeguatamente curato, per garantire uno
sviluppo sano al bambino;
-
Pratiche socializzanti: quelle che portano alla devianza sono la permissività, il fatto
di stabilire un rapporto egualitario tra genitore e figlio, incoraggiare la mascolinità,
usare tonalità aggressive contro i figli;
-
Eventi avversi della vita: divorzi o problemi finanziari sembrano aumentare la
vulnerabilità dei minori;
Variabili a livello individuale: ci sono bambini che possono risultare più esposti al
rischio d’incidenti, piuttosto che altri, e le caratteristiche che li accomunano possono essere:
mancanza di autocontrollo, impulsività, frustrazione, intolleranza, problemi psicosomatici,
aggressività, estroversione, distruttività, ostilità e incapacità di sottomettersi all’autorità. Per
gli autori la causa principale rimane sempre la socializzazione.
Per quanto riguarda gli incidenti di motoveicoli vengono individuati tre fattori decisivi:
il guidatore, la strada e il veicolo stesso. Gli studi, in questo caso la predisposizione agli
incidenti si riferisce solamente a ciò che riguarda la personalità del guidatore. McGuire
definisce tale propensione come un essere umano che sia emozionalmente poco maturo, poco
responsabile, antisociale e asociale. Altre ricerche, condotte sui tassisti nell’Ontario da
Tillamnn e Hobbes affermano che la personalità soggetta a rischio di incidenti manifesta
delle tendenze all’aggressività, all’incapacità a tollerare l’autorità sia familiare che
comunitaria.
La forte relazione tra crimine e droghe è stata dimostrata a prescindere dai fattori d’età,
etnia, genere o appartenenza sociale. Gli autori ribadiscono, di comune accordo, il concetto
di basso autocontrollo e di scarsa lungimiranza (progettualità assente) presente nei soggetti
in questione. In base a queste considerazioni, i ricercatori hanno confermato l’ipotesi che lo
stato dell’autocontrollo permane nel tempo allo stesso livello, quindi coloro che sanno
controllarsi durante l’adolescenza saranno in grado di esercitare questo potere su ste stessi,
anche nella vita adulta, e viceversa.
Mi piacerebbe inserire, in ultima analisi, le considerazioni in merito all’atto di stupro.
La letteratura femminista ha considerato e maturato nel tempo, il concetto di stupro come
“malattia” maschile. L’immagine dello stupratore come un essere umano fuori dalla norma,
si è andata via via sostituendo con l’immagine dell’uomo della porta accanto.
Il concetto condiviso dalla prospettiva femminista consiste nell’affermare che lo
stupro derivi da un sessismo istituzionalizzato e/o da una violenta subcultura. In altre parole,
la critica va alla società patriarcale che stabilisce relazioni sociali di potere, nelle quali
l’uomo ne detiene una grossa parte nell’area del lavoro e sulla sessualità delle donne.
L’atto dello stupro diviene quindi uno strumento per rinforzare la dominanza maschile
nella società, tanto da perpetuarsi nella socializzazione tradizionale sui generi dove viene
promossa la mascolinità come dominante e la femminilità come passiva e sottomessa. Questi
valori finiscono per incentivare profondamente la violenza verso le donne.
C’è da considerare un altro aspetto di questo reato, negli Stati Uniti viene severamente
punito, solo l’omicidio è considerato più grave, anche nell’ambiente carcerario e nella sua
gerarchia interna questo tipo di reato è considerato ripugnante.
Gli autori definiscono lo stupro come un processo conscio di intimidazione, dal quale
tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura. Rispetto ad altri crimini violenti
nella civiltà occidentale questo è un crimine meno commesso. Quindi, se le norme patriarcali
sono presenti come dicono le teorie femministe, la questione rimane aperta: perché la
maggior parte degli uomini si astiene dal commettere lo stupro? Gli autori tentano di
rinvenire delle cause plausibili per rispondere al quesito:
Stupro come comportamento appreso: i ragazzi vengono educati a ruoli sessuali nei
quali apprendono la violenza sulle donne. Un canone prevalente nella letteratura femminista
sullo stupro è che le subculture maschili esistono, insegnano ed enfatizzano una mascolinità
aggressiva che conduce allo stupro. Le confraternite raffigurano bastioni che provvedono a
creare contesti sociali dove la coercizione sessuale delle donne è tollerata, se non
incoraggiata. Questa subcultura segue valori limitati come la competizione, l’atleticità, la
dominanza, la vittoria, il conflitto, il peso, il possesso materiale, la propensione a bere, e le
prodezze sessuali con le donne. Le donne sono considerate oggetto sessuale e possibili
conquiste per i confratelli. Per la teoria della subcultura i fratelli non violano mai le norme,
loro sono ben socializzati e integrati, non è l’individuo ad essere deviante ma lo è l’intera
subcultura (nella visione della confraternita).
Di conseguenza, lo stupro potrebbe divenire una forma di iper-conformismo rispetto
alla devianza singola. Le teorie femministe riflettono sul fatto che la pornografia forza
l’uomo a stuprare la donna, perché la rende oggetto e ne legittima la violenza. Quest’ultimo
assunto non è stato completamente verificato dalla ricerca, ma emergono risultati
controversi.
Stupro come frustrazione: (strain theory) la corrente mertoniana tende a considerare la
natura umana incline al buono, mentre la devianza è socialmente indotta a causa di quello
che impone il consumo. Grande enfasi, infatti è riservata sul fatto di possedere denaro,
successo e prestigio.
Per le femministe le pressioni patriarcali corrompono i ragazzi innocenti. Le stesse
convinzioni di possesso vengono trasmesse ai ragazzi nei confronti delle donne.
Intuitivamente, possiamo dedurre che la premessa centrale per lo stupro è che la devianza è
un adattamento alla frustrazione di un desiderio sessuale insoddisfatto. Su questo punto vi
sono pensieri divergenti, Kanin, ad esempio, afferma che lo stupratore sembra avere più
successo nella società rispetto a chi non lo è.
Spiegazione dell’autocontrollo dello stupro: Hirschi e Gottfredson concordano con le
nozioni ecologiche messe in luce dalla teoria delle opportunità. Tale costrutto teorico
afferma che l’autocontrollo varia tra individui ma rimane ragionevolmente costante nel
tempo, perché il processo di socializzazione è differente per ognuno. La teoria del controllo
vede la società in procinto di creare cittadini modello. Gli stupratori non sono anime
sofisticate che pianificano lo stupro perché hanno imparato a rinforzare la loro posizione
dominante nella società. Quindi, lo stupratore non ha interiorizzato le norme che richiamano
al trattenersi dalla gratificazione immediata. L’atto non da benefici a lungo termine. Il
classico stupratore è giovane e povero, può e non può essere sposato. La percentuale più alta
si registra tra i 16 e i 20 anni.
2.2
Rilievi critici e considerazioni degli autori (relativo alle pubblicazioni
precedenti)
(da pag 6 a pag 8)
In merito a quelli che si sono stati i risvolti critici, gli autori lasciano ampio spazio
nella parte iniziale e introduttiva del loro lavoro. In maniera schematica vengono elencati i
punti deboli della teoria:
-
Generica: nella teoria non vengono considerati il crimine dei colletti bianchi e il
crimine di strada. Nonché il crimine progettato ha poco in comune con gli incidenti.
-
È tautologica: gli attori ignorano le conseguenze a lungo termine.
-
È basata su un concetto erroneo della relazione tra età e i vari comportamenti, e
ignora le prove che le cause della comparsa della criminalità differiscono dalle cause
della persistenza del crimine.
-
Ignora la distinzione tra incidenza e prevalenza del comportamento criminale e
deviante.
-
Non distingue tra le classi di trasgressori che differiscono profondamente nel livello
e nella varietà di devianza.
-
Suggerisce il fatto che le penalità del sistema giudiziario siano inefficaci (se tutto si
basa sulla socializzazione derivata da un educazione precoce).
-
Sopravvaluta l’importanza dell’autocontrollo come se fosse l’unica causa del
crimine.
-
Ignora il fatto che l’autocontrollo non sia stabile, anzi lo considera permanente e in
grado di formarsi esclusivamente nel momento della socializzazione. (p. 6)
Le risposte degli autori, in merito a queste considerazioni esterne, muovono dal fatto
che per inviare delle critiche bisognerebbe partire da un contesto di teorie competenti e
stabili. Ad esempio, dire che una teoria è generica è difficile da dire senza dimostrazioni.
Ovviamente una teoria generale non è danneggiata dal fatto che ecceda di generalità. Infatti,
la teoria, quando parla di due crimini come l’omicidio e il furto parla di ciò che hanno in
comune e non dice che sono la stessa cosa.
“Il fatto che la teoria viene giudicata tautologica, è quasi un complimento, afferma che
abbiamo seguito il cammino della logica nel produrre un risultato internamente coerente. Il
legame tra autocontrollo e crimine rimane probabilistico e non deterministico!” (p.7)
Per rispondere all’accusa di tautologia, gli autori considerano questo giudizio come
una sorta di complimento e che nel loro percorso di logica, ciò vuol dire che hanno
conseguito un risultato consistente, a livello di contenuti. Gli autori, partono da un concetto
di crimine per poi farne derivare il concetto di trasgressione. Rispetto alle altre teorie
criminologiche, la differenza è insita in questo, nel fatto che viene considerato prima l’atto
e poi l’attore. “Ciò che può rendere tautologica la nostra teoria sta proprio in questo rapporto
tra atto e attore, che altre teorie lasciano a interpretare e altre ancora invece appaiono ancora
più deterministiche.” (p.8)
La teoria dell’autocontrollo prende in considerazione una vasta gamma di atti illegali
senza distinguere in maniera decisiva gli atti criminali dagli atti semplicemente devianti.
Emerge una certa confusione proprio perché tali atti appaiono parecchio differenti tra loro,
per quanto riguarda la serietà delle conseguenze per le vittime e per i trasgressori.
Questa distinzione può causare insoddisfazione considerando la teoria tende a
considerare l’equivalenza degli atti in termini delle loro conseguenze per i trasgressori.
Come possono tutti questi atti provenire da una stessa causa!?
Dall’analisi delle cause dei più seri delitti (omicidio e rapimento) si evince che le
motivazioni sono diverse ma tutte sembrano essere accomunate dal fatto che richiedono poco
sforzo, abilità, o intelligenza.
La mancanza di interesse per le conseguenze a lungo termine, include la mancanza di
interesse per le conseguenze imposte dallo stato. Pertanto, la teoria parte dal presupposto che
le sanzioni statali siano irrilevanti e, da un certo punto di vista, anche inefficaci nel
mantenere un controllo consistente sul comportamento deviante, sia quando è serio sia
quando risulti banale. La teoria nega la punizione nell’interesse della deterrenza o della
riabilitazione.
Dopotutto sembra che questa teoria presenti toni paternalistici, gli autori, infatti,
trovano nel ruolo tradizionale delle donne e degli uomini, un momento cruciale per lo
sviluppo dei bambini. Sembrano avvertire che se la società riproponesse i valori tradizionali
americani dove le donne stanno a casa, il marito lavora durante il giorno, e i bambini vengono
educati da entrambi i genitori, la criminalità sarebbe in decrescita.
Non prendono in considerazione quello che potrebbe risultare da un’educazione
mantenuta e condotta da un solo genitore, da genitori divorziati (e altri tipi di “nuove”
famiglie) che sono divenute ormai una realtà costante nella nostra società contemporanea.
Le implicazioni sull’ordine pubblico, richiamano ai limiti imposti sulla quantità giusta di
bambini a donna, si tratta di una sorta di controllo delle nascite che viene proposto dagli
autori, si tratta di indicazioni estremamente azzardate.
Suggeriscono agli uomini di rimanere impegnati in un matrimonio infelice, cercando
di incoraggiare i coniugi verso una felicità un po’ troppo idealista. Oggi sappiamo che questo
clima contraddittorio è estremamente negativo per la crescita dei figli, piuttosto che un
rapporto separato pacifico e coerente. (materiale accademico su internet).
3.2
Considerazioni pedagogiche
La lettura mi ha permesso di prendere in considerazione alcuni aspetti educativi,
soprattutto quelli riferiti al nucleo familiare, i quali menzionano in breve delle pratiche di
controllo che i genitori dovrebbero adottare. In merito a questi punti, penso vi sia poco di
educazione e che si tratti semplicemente di cura ordinaria dell’ambiente domestico. Non
vengono date delle vere linee pedagogiche su quello che potrebbe essere il miglior modo per
sviluppare nei bambini il giusto autocontrollo, manca la base di valori sulla quale si dovrebbe
poi costruire una salutare routine.
Focalizzandosi sulle considerazioni mosse sulla famiglia in generale, la ricerca risulta
obsoleta e superata, non presenta picchi di originalità in quello che viene affermato, si limita
sostanzialmente a presentare delle statistiche sui casi di devianza e i fattori che li
determinano. Con una vena maschilista, viene riproposto un modello di famiglia normocostituita e funzionante, inconciliabile con le esigenze odierne. I ricercatori si limitano ad
assolvere alla loro funzione di stesura e riflessione sui dati.
In positivo, si potrebbe sottolineare come gli autori diano importanza alle attività
extrascolastiche e al bisogno che ha il bambino di attivarsi in qualche campo, sperimentando
le sue personali attitudini. Il contributo essenziale sta nell’affermare come le attività che
impegnano i ragazzi siano fondamentali e irrinunciabili per il loro sviluppo, soffermandosi
poi sulla necessità di maturare l’autocontrollo e la socializzazione.
In merito alle riflessioni discusse in aula, è emerso come l’attaccamento, appartenente
alla corrente behaviorista, influenzi le affermazioni degli autori e le renda in qualche modo
deterministiche nel considerare l’educazione e il processo di socializzazione.
Le dimensioni dell’attaccamento evidenziate dalle analisi di Bowlby, esprimono
concetti che direttamente influiscono sul pensiero degli autori. Da un lato, ciò rappresenta
un limite, in quanto la teoria riduce le variabili in gioco in maniera meccanicistica, dall’altro
lato risulta un vantaggio perché l’attaccamento è una teoria valida e riscontrata a livello
scientifico.
Queste osservazioni si adattano anche alla riflessione pedagogica, con una vena di
criticità, nel momento in cui gli autori considerano una stretta fascia d’età che va dai 3 mesi
fino ai 10 anni di vita. Considerare questa età come il momento cruciale della formazione
dell’autocontrollo, ha un grave riscontro sull’educazione nell’adolescenza e nella
formazione pensata per tutto l’arco di vita.
Nonostante gli autori affermino che la loro teoria non appaia deterministica, alla luce
delle ricerche e dei risultati più recenti (Farrington) possiamo affermare che la teoria
dell’autocontrollo rischia di risultare un insieme di assunti deterministici e rigidi.
CONCLUSIONI
In merito al documento: “The generality of deviance”, non ho potuto allargarmi nel
considerare tutte le tematiche prese in questione, ma ciò che ho trovato interessante nella
lettura è stato il fatto che gli autori abbiano preso in considerazione, in primo luogo il
contesto familiare, e solo in secondo luogo, il contesto politico, la cerchia dei pari, la realtà
sociale ecc..
Questa scelta teorica è costata una serie di critiche agli autori, dato che offre un parere
limitato e sembra attribuire all’educazione familiare ogni tipo di accusa, come se fosse la
prima responsabile nel far nascere un comportamento che tende a deviare.
Ho incontrato molte difficoltà nel cercare di tirar fuori dei risultati adattabili a una
ricerca monografica di questo tipo. Soprattutto nell’elaborare la ricerca principale,
emergevano una serie di risultati contraddittori, presentati e confrontati con un’infinità di
altre ricerche complementari.
Mi sono resa conto, successivamente, che bisognerebbe seguire costantemente la
documentazione pubblicata in merito, per essere competenti in materia e in grado di leggere
e interpretare adeguatamente i risultati emersi.
Nonostante tutto, mi sento abbastanza soddisfatta nell’essere riuscita a presentare
un’elaborazione che si avvale di una documentazione diretta, in originale e di aver
mantenuto fermi gli obiettivi iniziali.
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