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L`eroe dal mito alla tragedia attica

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L`eroe dal mito alla tragedia attica
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volume
B
1
L’eroe nel mito
L’eroe nella poesia epica
L’intelligenza dell’eroe tra
metis e dolos
OBIETTIVI
1a Chiarire il passaggio dalla
narrazione orale alla
trascrizione dei miti.
1b Seguire l’evoluzione dal mito,
alla poesia epica, alla
tragedia attraverso la figura
dell’eroe.
Il teatro greco
2a Per la figura dell’eroe nel
mito, riconoscere la presenza
di tratti fissi: caratteristiche
comuni ai diversi eroi e
situazioni ricorrenti in
vicende differenti.
L’eroe nella tragedia attica
2b Vedere come nella poesia
epica gli eroi si trasformano
in personaggi che si
integrano nel contesto
sociale di cui esemplificano i
valori più alti.
3a Conoscere la nascita del
teatro greco e della tragedia.
L’eroe nell’epica latina
3b Vedere come la tragedia
attica riprende le vicende del
mito e dell’epica,
arricchendo di particolari le
vicende degli eroi.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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volume
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L’eroe dal
mito alla
tragedia attica
La vera ragione della prodezza eroica è altrove; non dipende da calcoli utilitaristici, né dal bisogno di prestigio sociale, ma è di ordine, si potrebbe dire, metafisico: è cioè legata alla condizione umana, che gli dei hanno fatto non soltanto
mortale, ma anche soggetta, come per tutte le creature di quaggiù, dopo il fiorire della giovinezza, al declino delle forze e all’invecchiamento. L’impresa eroica si radica nella volontà di sfuggire alla vecchiaia e alla morte, per quanto “inevitabili” esse siano, e di superare entrambe. Si va oltre la morte se la si accetta invece di subirla, facendone la posta in gioco costante di una vita che assume così valore esemplare e che gli uomini celebreranno come un modello di “gloria imperitura”. Gli onori resi alla sua persona vivente, che l’eroe perde quando
rinuncia alla lunga vita per scegliere la rapida morte, li riacquista centuplicati nella gloria che circonderà il suo personaggio di defunto per tutti i tempi a venire.
J.P. Vernant, La morte eroica in L’individuo, la morte, l’amore, Raffaello Cortina, Milano 2000.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
L’eroe nel mito
LA TRASCRIZIONE DEI MITI
Il mito è un particolare tipo di racconto che ha come oggetto eventi svoltisi in un
tempo remoto, diverso da quello attuale, e come protagonisti creature particolari: dei, demoni, eroi e, in alcuni casi, animali. I miti appartengono al patrimonio tradizionale di una comunità e vengono tramandati oralmente da speciali narratori, che li raccontano in pubblico in occasioni legate a momenti religiosi e scandite da specifici riti. Narrare miti e eseguire riti sono attività sociali che hanno come finalità principale la costituzione, la conservazione e il rafforzamento di
una comunità.
Una delle conseguenze della trasmissione orale dei miti è che dallo stesso racconto vengono generate varianti diverse, non sempre tra loro coerenti. Questo
fenomeno si attenuerà solo con l’invenzione della scrittura quando l’atto della trascrizione conferirà alle storie mitiche la forma stabile e definitiva in cui noi le conosciamo.
La formalizzazione di una particolare variante del mito da parte di scrittori prestigiosi ne garantisce l’immortalità ma non comporta l’immediata sparizione delle altre possibili versioni dello stesso racconto. Per questo motivo i mitografi che
a partire dal IV secolo a.C. compilano raccolte sistematiche di miti cercano di appianare le contraddizioni presenti tra le diverse storie in vari modi.
I canali scritti attraverso cui il ricco patrimonio mitologico è pervenuto sono la
poesia epica, la letteratura erudita e la tragedia, generi assai diversi tra loro
ma accomunati dal loro carattere profano1. Gli scrittori antichi infatti, dall’età classica in poi, si avvicinano ai miti con finalità letterarie più che religiose e la stesura di queste narrazioni avviene fuori dal contesto sacro e rituale in cui esse sono
nate.
DEI ED EROI
1. profano: l’aggettivo
profano significa “privo di
carattere sacro, che non
ha attinenza con la
religione né con ciò che
ad essa è connesso”. Il
termine deriva dal latino
profanum che alla lettera
vuol dire “che sta
davanti, fuori (pro) dal
recinto sacro del tempio
(fanum), e ha come
opposto semantico la
parola sacro.
Protagonisti di numerosi miti greci sono gli eroi, personaggi a metà tra gli uomini e gli dei che Omero ed Esiodo definiscono emìtheioi, cioè “semidei”, e il filosofo Aristotele afferma essere fisicamente e spiritualmente «superiori ai comuni
mortali».
La differenza più notevole tra gli eroi e gli dei sta nel fatto che le divinità sono,
per definizione, eterne e immortali, mentre gli eroi sono vissuti – seppure in modo
mitico e non storico – in un passato di lotte, conflitti e pericoli, hanno compiuto
azioni decisive per il genere umano e infine sono morti, anche se in qualche mito
si parla di eroi che invece di morire vengono rapiti e condotti all’isola dei Beati
o trasferiti direttamente sull’Olimpo.
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lʼeroe nel mito
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Né dei né uomini, gli eroi si qualificano in relazione alla funzione che viene loro
attribuita. Possono essere eroi civilizzatori, ossia fondatori di istituzioni civili o
economiche, eroi antenati, cioè fondatori di stirpi o popoli, o eroi eponimi, figure da cui prendono nome luoghi geografici.
La poesia epica antica definiva eroi esclusivamente coloro che avevano combattuto
a Troia e a Tebe. Tuttavia a partire dal VI secolo anche uomini reali – ma eccezionali sotto qualche aspetto – dopo la morte ottengono la qualifica di eroi: i primi casi di eroizzazione di personaggi umani riguardano gli oikistai (fondatori di
nuove colonie) e gli atleti vincitori di gare, mentre alla fine del V secolo anche il
tragediografo Sofocle viene venerato come eroe dopo la morte.
IL CULTO DEGLI EROI
Il culto degli eroi, la cui origine risale all’epoca micenea (XVII-XII secolo a.C), è
pubblico e si concentra nei pressi della loro tomba, l’hērōion, dove vengono
celebrati rituali analoghi a quelli destinati alle divinità infere in quanto i sacrifici
avvengono di notte e le vittime sono animali neri con la testa volta verso terra.
Una delle ragioni di questo culto è costituita dalla protezione che l’eroe
assicura alla propria città in guerra.
Si narra che a Maratona fu visto Teseo
a capo delle truppe ateniesi, mentre i cittadini di Locri lasciavano nel loro esercito un posto per Aiace Oileo e prima
della battaglia di Salamina gli ateniesi
invocarono Aiace e suo padre Telamone
chiedendo loro aiuto e sostegno.
I CARATTERI
DELL’EROE
L’interno del Tesoro
di Atreo a Micene,
XIII secolo a.C.
L’analisi dei miti centrati sulla figura dell’eroe rivela la presenza di tratti costanti
che accomunano personaggi diversi e
di situazioni analoghe che riaffiorano
in storie mitiche differenti.
Quasi tutti gli eroi sono figli di divinità che si sono unite con un essere mortale e proprio a causa della loro nascita “illegittima” spesso da bambini sono esposti o abbandonati nelle acque da cui vengono fortunosamente salvati. La ricorrenza di situazioni di partenza tanto rischiose introduce un altro tratto tipico degli eroi, ossia la loro capacità di sopravvivere in condizioni estreme e di compiere gesta prodigiose e straordinarie.
Anche dal punto di vista fisico gli eroi presentano caratteri insoliti e particolari
che manifestano la loro diversità rispetto agli uomini comuni. Secondo il mito il
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
corpo di Achille è potente e smisurato, le ossa di Oreste rinvenute a Tegea rivelano una statura di sette cubiti (un cubito corrispondeva a circa cinquanta centimetri!) ed Eracle è dotato di una triplice fila di denti.
Un altro tratto che accomuna gli eroi, distinguendoli decisamente dalle divinità, è il loro ruolo di combattenti. Infatti, nonostante molti dei abbiano combattuto in un passato mitico per consolidare la loro posizione e combattano ancora intervenendo nei conflitti umani, essi non possono essere considerati veri e
propri guerrieri poiché, in quanto immortali, non rischiano la vita. I combattimenti
sostenuti dagli eroi – che sono sempre monomachie perché tutti gli eroi sono
esseri solitari – hanno invece sempre come esito finale la loro morte o quella
degli avversari.
LE SITUAZIONI RICORRENTI
Una circostanza narrativa ricorrente nei miti eroici è costituita dal racconto delle peregrinazioni dei protagonisti, spesso costretti ad allontanarsi dalla patria
d’origine a causa di guerre o atti colpevoli e ad affrontare lunghi e difficoltosi viaggi o vagabondaggi solitari durante i quali combattono con avversari di varia natura, fondano nuove città o stabiliscono speciali rapporti con i luoghi che accolgono
le loro spoglie mortali. Il fatto poi che molti eroi mitici (per esempio il tebano Edipo e l’argivo Oreste) nel loro incessante vagare passino immancabilmente per
Atene può essere considerato una rappresentazione mitica e simbolica dell’effettiva egemonia politica della città attica.
Un’altra situazione frequentemente richiamata nei miti è l’uccisione casuale di
un personaggio da parte dell’eroe, di cui una variante significativa e altrettanto
comune è rappresentata dal caso in cui l’eroe uccide accidentalmente un familiare o una persona di cui solo dopo scopre la vera identità (come accade ad Edipo che uccide il padre Laio credendolo un brigante). In altri casi, pur
non commettendo materialmente omicidio, l’eroe è causa involontaria della morte di un parente (come Teseo che inconsapevolmente spinge il padre Egeo al suicidio).
Infine, un ulteriore tratto comune a questi racconti è la morte violenta e spesso prematura del protagonista. Moltissimi eroi muoiono nei combattimenti intorno a Tebe e a Troia, alcuni vengono trucidati a tradimento (come accade ad
Agamennone al suo ritorno in patria), altri sono sbranati o fatti a pezzi dai loro
antagonisti, altri ancora sono fulminati da Zeus o finiscono vittime di incidenti durante gare e sfide di vario genere.
LA COSTRUZIONE DEL PERSONAGGIO-EROE
Basandosi sui numerosi elementi mitici ricorrenti, alcuni studiosi sono giunti
alla conclusione che i diversi eroi sono frutto della composizione e dell’organizzazione di tratti fissi non riferibili in esclusiva a un singolo personaggio. Il carattere distintivo e peculiare di ciascun eroe deriverebbe perciò dalla diversa combinazione degli stessi motivi di partenza. L’accentuazione dell’uno o dell’altro tratto darebbe origine a quelle figure mitiche uniche e inconfondibili che chiamiamo eroi.
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lʼeroe nella poesia epica
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L’eroe nella
poesia epica
L’EROE DAL MITO ALL’EPICA
Nell’ampio tessuto narrativo del poema epico gli eroi del mito si trasformano in
veri e propri personaggi e i loro tratti originari – eccessivi, feroci e a volte disumani – si ridimensionano, integrandosi nel contesto sociale in cui sono inseriti e del quale esemplificano i valori più alti.
Nell’Iliade gli eroi sono l’espressione del principio ideale della kalokagathìa secondo il quale la magnificenza, la forza e l’armonia dell’aspetto fisico riflettono
la nobiltà dei valori morali. La figura che rappresenta in modo più emblematico
questo concetto è quella di Achille, il più temibile dei guerrieri achei, nel quale
alla bellezza e all’eccezionale potenza del corpo si abbinano uno straordinario
coraggio e un fortissimo senso dell’onore che lo spingono ad affrontare pericoli e avversari di ogni genere allo scopo di dimostrare la propria superiorità di guerriero.
Anche in Ettore, il maggiore antagonista di Achille, ritroviamo tratti riconducibili ai valori della kalokagathìa ma poiché gli eroi mitici acquisiscono spessore di
personaggi soprattutto grazie alle loro peculiarità individuali, nel guerriero troiano queste virtù eroiche vengono messe al servizio della comunità. Infatti, pur tenendo al proprio prestigio di combattente, Ettore si sente eroe in quanto difensore della patria, del nucleo familiare e degli dei della sua città.
APPROFONDIMENTO
Achille nel mito
Achille è figlio di Peleo e della dea marina Teti che, secondo un mito, immergeva nel fuoco i figli
appena nati per purificarli dalla loro parte mortale. Per questo motivo Peleo le sottrasse il settimogenito Achille quando le fiamme gli avevano già bruciato un osso del piede destro e lo affidò al
centauro Chirone il quale disseppellì il corpo del gigante Damiso – celebre per la sua velocità nella
corsa –, ne prese un osso e lo mise al posto di quello mancante.
Successivamente Peleo (o in altri miti Teti) per scongiurare la profezia secondo cui Achille sarebbe
morto sotto le mura di Troia, lo fece nascondere alla corte di Sciro; qui l’eroe, travestito da donna,
rimase fino al momento in cui Odisseo, con l’astuzia, smascherò il suo inganno costringendolo a
partire.
Nell’Achilleide, il poeta latino Stazio (I secolo d.C.) sostiene invece che Teti immerse Achille bambino nelle acque dello Stige, rendendo invulnerabile tutto il suo corpo ad eccezione del tallone per il
quale lo teneva e proprio in quel punto successivamente l’eroe fu colpito a morte.
Nella rappresentazione che ne dà Omero il tratto della semi-invulnerabilità di Achille non è presente
e l’eroe si distingue dai compagni soprattutto per la straordinaria e selvaggia forza fisica.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
VIRTÙ, ONORE E
GLORIA
Oplita in
combattimento.
Il mondo descritto nell’Iliade riproduce
la struttura della società micenea –
guidata da un’aristocrazia guerriera dotata di potere e ricchezza e nettamente distinta dal popolo – il cui valore dominante è quello dell’aretè, vale a dire
la forza e il coraggio fisico e morale
che vanno dimostrati nello scontro con
il nemico.
L’eroe compie imprese eccezionali allo
scopo di ottenere timè kai klèos, “onore e fama”, poiché non è sufficiente essere forti e coraggiosi, ma occorre che
queste virtù vengano riconosciute socialmente. I guerrieri impegnati nella
guerra di Troia, infatti, non combattono né per il proprio popolo né per difendere un ideale ma per affermare il
proprio valore individuale attraverso
le gesta gloriose compiute in battaglia.
Queste imprese, accolte dai compagni come segno di eccezionalità, vengono premiate con il bottino di guerra, tripodi di bronzo, armi preziose, donne di rango fatte prigioniere e schiave dell’eroe: senza questi segni visibili un atto eroico non sarebbe del tutto compiuto.
Il riconoscimento esterno, infatti, quando è reso tangibile dagli oggetti ricevuti
in dono, manifesta all’eroe che la sua eccezionalità è stata accolta e sancita dal
gruppo di cui l’eroe fa parte. Tanto più è consistente e prezioso il premio ottenuto con l’azione bellica, quanto più l’eroe viene confermato nel suo ruolo e come
tale può posizionarsi all’interno della società di cui fa parte (la città, il gruppo dei
combattenti in una guerra ecc.).
LA BELLA MORTE
Il destino comune a molti eroi mitici di morire precocemente e in modo violento è alla base dell’ideale epico della bella morte, che si raggiunge affrontando
valorosamente un nemico di pari forza e dignità.
Tutti gli eroi dell’Iliade ricercano con ostinazione la bella morte poiché essa è l’unico strumento per ottenere una gloria che non muoia con la loro morte naturale
e sottrarre il proprio nome all’inevitabile dimenticanza che cancella ogni traccia
della presenza umana. Poiché i Greci non attribuiscono alcuna importanza alla
vita nell’oltretomba, configurata come un luogo in cui si aggirano ombre senza
memoria, l’unica immortalità possibile è quella che si realizza nel ricordo dei vivi
i quali, attraverso il racconto delle imprese eccezionali dell’eroe, legano per sempre il suo nome agli ideali eterni di valore, bellezza e coraggio.
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lʼeroe nella poesia epica
OMERO
Il duello finale
tra Achille ed Ettore
IL BRANO
Incalzati dagli Achei, i Troiani si rifugiano all’interno delle mura della città
mentre Ettore rimane sul campo di battaglia deciso ad affrontare Achille in un
duello finale da cui dipende il destino dei due popoli. Il feroce combattimento
si conclude con la sconfitta dell’eroe troiano, la cui fine esemplifica l’ideale
greco di “bella morte”: con il suo valore Ettore può acquisire una fama che
farà sopravvivere il suo nome alla dissoluzione del corpo, ma solo a condizione che esso possa ricevere un’adeguata sepoltura.
quando furon vicini marciando uno sull’altro,
il grande Ettore elmo lucente, parlò per primo ad Achille:
«Non fuggo più1 davanti a te, figlio di Peleo, come or ora
corsi tre volte intorno alla grande rocca di Priamo, e non seppi
sostenere il tuo assalto; adesso il cuore mi spinge
a starti a fronte, debba io vincere o essere vinto.
Su invochiamo gli dei: essi i migliori
testimoni saranno e custodi dei patti;
io non intendo sconciarti2 orrendamente, se Zeus
mi darà forza e riesco a strapparti la vita;
ma quando, o Achille, t’abbia spogliato l’inclite3 armi,
renderò il corpo agli Achei: e anche tu fa’ così».
E guardandolo bieco,4 Achille piede rapido disse:
«Ettore, non mi parlare, maledetto,5 di patti:
come non v’è fida alleanza fra uomo e leone,
e lupo e agnello non han mai cuori concordi,
ma s’odiano senza riposo uno con l’altro,
così mai potrà darsi che ci amiamo io e te; fra di noi
non saran patti, se prima uno, caduto,
non sazierà col sangue Ares,6 il guerriero indomabile.
Ogni bravura ricorda;7 ora sì che tu devi
esser perfetto con l’asta e audace a lottare!
Tu non hai via di scampo, ma Pallade Atena8
t’uccide con la mia lancia: pagherai tutte insieme
le sofferenze dei miei, che uccidesti infuriando con l’asta».
Diceva, e l’asta scagliò, bilanciandola;
ma vistala prima, l’evitò Ettore illustre:
la vide, e si rannicchiò, sopra volò l’asta di bronzo
e s’infisse per terra; la strappò Pallade Atena,
la rese ad Achille, non vista da Ettore pastore di genti.9
Ettore, allora, parlò al Pelide10 perfetto:
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genere
poema
epico
tratto da
Iliade
(libro XXII,
vv. 248-400)
anno
VIII secolo a.C.
luogo
Grecia
E
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270
275
1. Non fuggo più:
precedentemente Ettore
era fuggito davanti ad
Achille e, inseguito da lui,
aveva fatto tre volte il
giro delle mura della
città.
2. sconciarti: straziare il
tuo cadavere.
3. inclite: gloriose.
4. bieco: minaccioso,
accigliato.
5. maledetto: la violenta
risposta di Achille è
causata dalla sua ira
contro Ettore, che ha
ucciso l’amico Patroclo.
6. Ares: il dio della
guerra.
7. Ogni bravura
ricorda: fa’ appello a
tutta la tua abilità di
guerriero.
8. Pallade Atena: la dea
Atena, figlia di Zeus,
aveva l’appellativo di
Pallade che significa
“scuotitrice dell’asta”.
9. pastore di genti:
epiteto che significa
“capo”, “condottiero”.
10. Pelide: Achille, figlio
di Peleo.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
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11. leggera:
sopportabile.
12. Teucri: Troiani, dal
nome di Teucro, mitico re
della regione della
Troade.
13. te morto: se tu fossi
morto.
14. dardo: termine che
definisce qualunque
arma da lancio, quindi sia
la freccia che la lancia.
15. Deífobo: è il fratello
minore di Ettore di cui
Atena ha preso le
sembianze per ingannare
il principe troiano che
crede erroneamente di
poter contare sul suo
aiuto.
16. figlio arciero di
Zeus: Apollo, armato di
arco.
17. Moira: la divinità che
presiede alla vita
dell’uomo decretandone
la fine.
18. i futuri: i posteri.
19. si raccolse: si
rannicchiò per prendere
maggiore slancio.
20. appiattato:
nascosto.
21. acuta: dalla punta
acuminata.
22. parò: oppose come
riparo.
23. squassava:
scuoteva violentemente.
24. a quattro ripari: a
quattro strati.
25. la bella chioma
d’oro, che fitta Efesto
lasciò cadere in giro al
cimiero: la criniera
dorata che Efesto aveva
applicato al pennacchio
dell’elmo (cimiero) di
Achille costruito da lui su
invito di Teti, madre
dell’eroe.
26. Espero: il pianeta
Venere.
27. pervia: accessibile
alla lancia.
28. ch’Ettore aveva
rapito, uccisa la forza
di Patroclo: che Ettore
aveva sottratto al
cadavere di Patroclo
dopo averlo ucciso.
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«Fallito! Ma dunque tu non sapevi, Achille pari agli dei,
no affatto, da Zeus la mia sorte; eppure l’hai detta.
Facevi il bel parlatore, l’astuto a parole,
perché atterrito, io scordassi il coraggio e la furia.
No, non nella schiena d’uno che fugge pianterai l’asta,
ma dritta in petto, mentre infurio, hai da spingerla,
se un dio ti dà modo. Evita intanto questa mia lancia
di bronzo: che tu possa portarla tutta intera nel corpo.
Ben più leggera11 sarebbe la guerra pei Teucri,12
te morto:13 ché tu sei per loro l’angoscia più grande».
Diceva, e bilanciandola scagliò l’asta ombra lunga;
e colse nel mezzo lo scudo d’Achille, non sbagliò il colpo;
ma l’asta rimbalzò dallo scudo; s’irritò Ettore,
che inutile il rapido dardo14 gli fosse fuggito di mano,
e si fermò avvilito, perché non aveva un’altr’asta di faggio;
chiamò gridando forte il bianco scudo Deífobo,15
chiedeva un’asta lunga: ma quello non gli era vicino.
Comprese allora Ettore in cuore e gridò:
«Ahi! Davvero gli dei mi chiamano a morte.
Credevo d’aver accanto il forte Deífobo:
ma è fra le mura, Atena m’ha teso un inganno.
M’è accanto la mala morte, non è più lontana,
non è inevitabile ormai, e questo da tempo era caro
a Zeus e al figlio arciero di Zeus,16 che tante volte
m’han salvato benigni. Ormai m’ha raggiunto la Moira.17
Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò,
ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri18 lo sappiano».
Parlando così, sguainò la spada affilata,
che dietro il fianco pendeva, grande e pesante,
e si raccolse19 e scattò all’assalto, com’aquila alto volo,
che piomba sulla pianura traverso alle nuvole buie,
a rapir tenero agnello o lepre appiattato:20
così all’assalto scattò Ettore, la spada acuta21 agitando.
Ma Achille pure balzò, di urla empì il cuore
selvaggio: parò22 davanti al petto lo scudo
bello, adorno, e squassava23 l’elmo lucente
a quattro ripari;24 volava intorno la bella chioma
d’oro, che fitta Efesto lasciò cadere in giro al cimiero.25
Come la stella avanza fra gli astri nel cuor della notte,
Espero,26 l’astro più bello ch’è in cielo,
così lampeggiava la punta acuta, che Achille scuoteva
nella sua destra, meditando la morte d’Ettore luminoso,
cercando con gli occhi la bella pelle, dove fosse più pervia.27
Tutta coprivan la pelle l’armi bronzee, bellissime,
ch’Ettore aveva rapito, uccisa la forza di Patroclo;28
là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle
dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita.
Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava,
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lʼeroe nella poesia epica
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Oplita in corsa con il
tipico scudo nella mano
sinistra e la lancia in
quella destra, lastra in
terracotta dipinta del
VI secolo a.C.
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dritta corse la punta traverso al morbido collo;
però il faggio greve29 non gli tagliò la strozza,30
così che poteva parlare, scambiando parole.
Stramazzò nella polvere: si vantò Achille glorioso:
«Ettore, credesti forse, mentre spogliavi Patroclo,
di restare impunito: di me lontano non ti curavi,
bestia! ma difensore di lui, e molto più forte,
io rimanevo sopra le concave navi,
io che ti ho sciolto i ginocchi.31 Te ora cani e uccelli
sconceranno sbranandoti: ma lui32 seppelliranno gli Achei».
Gli rispose senza più forza, Ettore elmo lucente:
«Ti prego per la tua vita, per i ginocchi, per i tuoi genitori,
non lasciare che presso le navi mi sbranino i cani
degli Achei, ma accetta oro e bronzo infinito,33
i doni che ti daranno il padre e la nobile madre:
rendi il mio corpo alla patria, perché del fuoco
diano parte a me morto34 i Teucri e le spose dei Teucri».
Ma bieco guardandolo, Achille piede rapido disse:
«No, cane, non mi pregare, né pei ginocchi né pei genitori;
ah! che la rabbia e il furore dovrebbero spingere me
a tagliuzzar le tue carni e a divorarle così, per quel che m’hai fatto:
nessuno potrà dal tuo corpo tener lontane le cagne,
nemmeno se dieci volte, venti volte infinito riscatto
o mi pesassero qui, altro promettessero ancora;
29. il faggio greve: la
pesante asta di faggio. La
lancia era nei duelli la
principale arma d’offesa.
30. la strozza: la gola.
31. io che ti ho sciolto i
ginocchi: io che ti ho
ucciso, privandoti del
vigore. Le ginocchia
erano considerate la sede
della forza vitale.
32. lui: Patroclo.
33. oro e bronzo
infinito: un abbondante
riscatto di oggetti d’oro e
di bronzo.
34. del fuoco diano
parte a me morto:
possano bruciare il mio
cadavere.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Fabbricazione delle
armi di Achille in un
affresco del I secolo d.C.
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35. Dardanide:
discendente di Dardano.
36. ché: perché.
37. un cuore di ferro:
un animo duro,
insensibile.
38. numi: dei.
39. Febo Apollo: Febo è
un appellativo di Apollo
che significa “luminoso”.
40. sopra le Scee: sulle
porte della città di Troia.
41. La Chera io pure
l’avrò: anch’io sono
destinato a morire. La
Chera è un demone che
rapisce le anime per
portarle nel mondo degli
inferi.
42. meditò ignominia
contro Ettore: decise di
oltraggiare il corpo del
glorioso Ercole.
43. corregge: cinture.
44. alte levando:
sollevando verso l’alto.
45. vogliosi: ubbidienti.
360
365
395
400
nemmeno se a peso d’oro vorrà riscattarti
Priamo Dardanide,35 neanche così la nobile madre
piangerà steso sul letto il figlio che ha partorito,
ma cani e uccelli tutti ti sbraneranno».
Rispose morendo Ettore elmo lucente:
«Va’, ti conosco guardandoti! Io non potevo
persuaderti, no certo, ché36 in petto hai un cuore di ferro.37
Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi,38
quel giorno che Paride e Febo Apollo39 con lui
t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee».40
Mentre diceva così, l’avvolse la morte:
la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore.
Rispose al morto il luminoso Achille:
«Muori! La Chera io pure l’avrò,41 quando Zeus
vorrà compierla e gli altri numi immortali».
[…]
Disse, e meditò ignominia contro Ettore42 glorioso:
gli forò i tendini dietro ai due piedi
dalla caviglia al calcagno, vi passò due corregge43 di cuoio,
lo legò al cocchio, lasciando strasciconi la testa
e balzato sul cocchio, alte levando44 le nobili armi,
frustò per andare: vogliosi45 i cavalli volarono.
da Omero, Iliade, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990
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lʼeroe nella poesia epica
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STRUMENTI DI LETTURA
I temi
La gloria imperitura: la condizione dell’eroe
omerico è tragica e paradossale in quanto
egli può raggiungere l’immortalità solo
morendo. Per questo motivo, nel corso del
suo duello con Achille, Ettore cerca ostinatamente la bella morte, disposto a subire i colpi
dell’avversario fino allo stremo e con onore,
senza fuggire voltando le spalle all’avversario
(vv. 283-284 No, non nella schiena d’uno che
fugge pianterai l’asta, / ma dritta in petto,
mentre infurio, hai da spingerla).
Tuttavia, perché il nome del guerriero venga
consegnato ai posteri, il suo corpo deve essere onorato con riti funebri che gli permettano di passare dalla condizione di essere
umano vivo, inserito in un tessuto di relazioni
sociali, a quello di morto degno di essere ricordato.
Infatti la mancanza di un rito funebre impedisce alla psychè – lo spirito che lascia il
corpo dopo la morte – di accedere all’Ade
e disonora l’eroe, sottraendogli la gloria imperitura che meriterebbe per il suo coraggio
(v. 305 ma avendo compiuto qualcosa di
grande, che anche i futuri lo sappiano). Per
questo, prima di dare inizio al combattimento
fatale, Ettore propone ad Achille un patto che
impegni il vincitore a restituire le spoglie del
nemico (vv. 256-259 io non intendo sconciarti
orrendamente, / se Zeus mi darà forza e riesco
a strapparti la vita; / ma quando, o Achille, t’abbia spogliato l’inclite armi, / renderò il corpo
agli Achei: e anche tu fa’ così) affinché esse ricevano i meritati onori e diano all’eroe fama
immortale.
L’oltraggio al cadavere: nel rifiutare la proposta di Ettore, Achille esprime la volontà
di vendicare la morte di Patroclo abbandonando il corpo del nemico agli uccelli e ai cani
affinché lo divorino e ne facciano scempio
(vv. 335-336, v. 348, v. 354). La minaccia di
Achille e il terrore con cui l’indomito Ettore la
accoglie sono spiegabili se si considera l’importanza che l’integrità del cadavere assume
nei rituali funebri greci. Nell’Iliade i cadaveri
dei guerrieri morti in battaglia vengono lavati,
cosparsi d’olio, profumati e ornati di stoffe
preziose; successivamente vengono esposti
sul letto funebre per il lamento delle donne
ed infine bruciati; dopo il rogo le loro ossa
vengono deposte nella tomba nei cui pressi
viene eretta una stele allo scopo di ricordare
il nome e le imprese dell’eroe, rendendone
eterne la giovinezza e la bellezza che continueranno a vivere nei pubblici encomi e nei
canti epici.
Non restituire o profanare il corpo dell’avversario significa di fatto impedirgli di
accedere alla condizione di morto glorioso, condannandolo all’ignominia estrema.
Il cadavere sporcato di polvere, tanto straziato da essere irriconoscibile, smembrato
dagli animali o abbandonato alla decomposizione rappresenta l’esatto contrario della
bella morte, perché la mancata sepoltura impedisce all’anima dell’eroe di varcare le porte
Partenza di un soldato
per la guerra raffigurata
su un vaso
dell’VII secolo a.C.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
dell’Ade e alla comunità di perpetuare, mediante la tomba, il ricordo del suo nome e
delle sue gesta. Solo il corpo integro, bello
come bello è stato in vita l’eroe, può rendere
completa e piena la “gloria” (in greco il kléos),
che ogni eroe cerca, in pari misura con gli atti
della sua vita e con la sua morte.
I personaggi
L’intervento degli dei: nel mondo omerico
vittorie e sconfitte non sono mai comple tamente nelle mani di chi combatte ma dipendono dalla volontà degli dei. Questa
consapevolezza da un lato spinge gli eroi all’azione, alimentando la convinzione che un
intervento soprannaturale possa risolvere
anche le circostanze più difficili, dall’altro
costituisce l’aspetto più tragico del loro destino in quanto, se le divinità sono ostili,
nessuno sforzo può garantire il successo di
un’impresa.
In quest’episodio risulta decisivo l’intervento
della dea Atena, da cui Achille si sente sostenuto mentre scaglia la sua lancia contro
l’avversario (vv. 270-271 Tu non hai via di
scampo, ma Pallade Atena / t’uccide con la
mia lancia) poiché prima ella restituisce all’acheo l’arma che ha fallito il colpo (vv. 276277 la strappò Pallade Atena, / la rese ad
Achille, non vista da Ettore pastore di genti)
poi, assunte le sembianze di Deìfobo, induce
Ettore ad affrontare da solo il furore di Achille,
(vv. 294-295 chiamò gridando forte il bianco
scudo Deífobo, chiedeva un’asta lunga: ma
quello non gli era vicino).
Nell’Iliade accade di frequente che gli dei non
si comportino in modo leale per favorire con
ogni mezzo i loro protetti tanto che Zeus è
spesso costretto a richiamarli all’ordine affinché i loro interventi non ostacolino i disegni
della Moira.
Le parole chiave
La Moira: Moira in greco significa “parte”. Infatti proprio questo si tratta: a ciascuno è assegnata la propria “parte” fin dalla nascita e
con essa una porzione di beni e di mali che è
inevitabile. La Moira è una forza impersonale
e inflessibile che impone una legge che non
può essere trasgredita da nessuno poiché ciò
altererebbe l’ordine del mondo. È la Moira il
vero arbitro delle vicende umane e neanche Zeus conosce le sue decisioni. Poco
prima che inizi lo scontro vero e proprio, infatti, Zeus pesa le sorti dei due eroi sulla sua
bilancia d’oro, scoprendo in quel momento
che quello destinato a morire è Ettore. Solo
allora ad Atena è concesso scendere sul
campo di battaglia per l’ultimo ingannevole
ma risolutivo intervento a favore di Achille
che consentirà di attuare le decisioni della
Moira. Di fronte alla Moira anche Ettore è costretto ad arrendersi, consapevole del fatto
che la sua vita è giunta al termine e che neppure gli dei che fino a quel momento lo hanno
protetto potranno più aiutarlo (v. 303 Ormai
m’ha raggiunto la Moira).
La Moira, che in Omero è una forza inevitabile
e astratta, viene personificata già nelle opere
di Esiodo nella figura di tre filatrici, per l’idea
che la vita è assimilabile a una tessitura.
Atropo, Cloto e Lachesi, le Moire, sono dunque le tre sorelle tessitrici che regolano la durata della vita degli uomini, rappresentata da
un filo che la prima tende, la seconda avvolge
e la terza taglia al momento della morte. Nessuno ha la possibilità di distogliere le tre
Moire dalla loro opera eterna di tessitura, né
di conoscerne in anticipo l’opera che andrà
accettata con inevitabile necessità.
Fabula e intreccio
Nelle parole che Ettore morente rivolge ad
Achille troviamo un esempio di prolessi, poiché il troiano anticipa la fine dell’eroe acheo
per mano di Paride (vv. 358-360 Bada però,
ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi, / quel
giorno che Paride e Febo Apollo con lui /
t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra
le Scee) in modo analogo a quanto in precedenza aveva fatto Patroclo in una circostanza
simile (vedi a p. 50). Ogni volta che un uomo
si avvicina alla morte ha uno squarcio di preveggenza e anticipa con veridicità avvenimenti del futuro. Sotto questo aspetto l’Iliade
dimostra il proprio legame con l’epica orale
poiché si ripropongono situazioni fisse che si
ripetono nel poema. Si tratta di episodi formulari, che permettevano al poeta epico di
facilitare la sua performance orale e nella
forma scritta riproponevano situazioni ricorrenti, nelle quali il pubblico riconosceva l’indicazione di un modello di comportamento o
di una informazione significativa.
La lingua e lo stile
Anche in questo episodio l’autore fa largo
uso di epiteti che si riferiscono ai due protagonisti e alludono soprattutto alle loro peculiarità di combattenti. Achille è detto piede
rapido (vv. 260, 344) per la velocità che durante i combattimenti gli consente di spostarsi rapidamente, mente Ettore è elmo
lucente (vv. 249, 337, 355) perché la sua imponenza e il suo coraggio lo rendono visibile
da qualunque punto del campo di battaglia.
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Quale accordo propone Ettore ad Achille prima di iniziare il duello?
2 Qual è la risposta di Achille?
3 In quale punto del corpo Achille ferisce Ettore?
di
ffi
co
ltà
4 Come si conclude il combattimento?
Analisi
I temi
Vedi a p. 14
5 Per quale ragione ideale Ettore, pur consapevole della morte imminente, decide di combattere fino alla fine? Trascrivi le frasi in cui l’eroe spiega i motivi del proprio comportamento.
6 Con quali azioni Achille cerca di profanare il cadavere di Ettore?
I personaggi
Vedi a p. 8
7 Da quali divinità si sentono protetti i due eroi?
8 In quale momento Ettore comprende di essere stato abbandonato dagli dei?
Le parole chiave
Vedi a p. 14
9 Anche Achille fa un indiretto riferimento al’inesorabile destino che regola la
vita di tutti gli uomini: in quale punto dell’episodio?
La lingua e lo stile
Vedi a p. 10
10 Individua gli epiteti con i quali vengono definiti i due eroi e spiega quali di essi
sottolineano le caratteristiche specifiche dei personaggi e quali, invece, sono
generici e quindi riferibili indifferentemente all’uno o all’altro.
Trova poi un esempio di epiteto riferito ad un oggetto inanimato.
Produzione
di
ffi
co
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Laboratorio
lʼeroe nella poesia epica
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11 Dividi il brano in sequenze e a ciascuna attribuisci un titolo sotto forma di proposizione.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
L’intelligenza dell’eroe
tra metis e dolos
LA METIS
Se le qualità distintive della maggior parte degli eroi sono la forza fisica e il valore guerriero, molti sono i protagonisti dei miti celebri per l’astuzia con cui riescono a portare a termine imprese apparentemente disperate. I Greci definiscono
metis quella particolare forma d’intelligenza fatta di accortezza, prudenza ed
efficacia pratica che si rivela indispensabile nelle situazioni incerte e che, grazie ad accorgimenti, artifici, inganni e stratagemmi di vario genere, fa trionfare
chi – meno potente dell’avversario – sembrerebbe destinato alla sconfitta.
A differenza degli uomini comuni, l’eroe dotato di metis è in grado di progettare – cioè di anticipare nella mente le conseguenze delle proprie azioni orientando il corso di un futuro oscuro per definizione – e di attendere il momento adatto per agire rapidamente ma non sotto la spinta dell’impulso. Essere dotato di
metis significa dunque possedere abilità, astuzia e pazienza, doti tanto importanti quanto il coraggio e la forza fisica.
L’eroe greco simbolo della metis è Odisseo, che nell’Iliade svolge un ruolo determinante nella vittoria achea e nell’Odissea è protagonista di un lungo e tormentato viaggio di ritorno verso casa, altro tema ricorrente nei miti eroici.
APPROFONDIMENTO
Odisseo nel mito
Nei poemi omerici Odisseo è detto figlio di Laerte e Anticlea, mentre altre tradizioni sostengono che
la madre lo avrebbe concepito con Sisifo, lo scaltrissimo figlio di Eolo che dopo la morte riuscì con
l’astuzia a sfuggire all’oltretomba e a tornare sulla terra.
Divenuto adulto, Odisseo sostituisce Laerte nel governo dell’isola di Itaca. È lui a consigliare a
Tindaro, padre della bella Elena, di far giurare ai molti pretendenti della ragazza che rispetteranno la
scelta matrimoniale e aiuteranno il prescelto a far valere i propri diritti nel caso qualcuno li metta in
discussione. Ed è a causa di questo impegno che, quando Paride sottrae Elena a Menelao, molti
eroi sono obbligati a partecipare alla guerra contro Troia.
Anche Odisseo è tenuto a partire per Troia ma, secondo una tradizione posteriore a Omero, giunge
a fingersi pazzo per evitarlo. Smascherato da Palamede, è costretto a mettersi in viaggio alla testa
di dodici navi. Nel corso del lungo conflitto entra a far parte del consiglio dei capi achei, assumendo il ruolo di mediatore e consigliere di Agamennone e portando a termine numerose imprese nelle
quali dimostra la propria metis: a lui è attribuita l’idea della costruzione del cavallo di legno che
provocherà la disfatta della città assediata.
A guerra conclusa, Odisseo intraprende un lungo nóstos (viaggio di ritorno verso casa) alla fine del
quale approda a Itaca dove con un’ulteriore prova di astuzia riesce a sconfiggere i pretendenti di
Penelope che hanno occupato il suo palazzo e a riprendere possesso del regno.
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lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos
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Odisseo nell’Ade
sacrifica il montone
per propiziare
l’incontro con Tiresia,
particolare da un vaso
del IV secolo a.C.
IL DOLOS: L’INGANNO COME NECESSITÀ
Protetto da Atena, Odisseo è per definizione il molto astuto (polymetis) e il molto abile (polyméchanos). La sua metis si manifesta sotto forme sempre diverse
perché le difficoltà che deve affrontare sono mutevoli e cangianti come la vita
stessa e richiedono grande duttilità mentale. La maggiore abilità di Odisseo consiste nel dissimulare le proprie intenzioni presentandosi per quello che non è, occultando le sue trappole sotto un’apparenza rassicurante o seducente. Per questo motivo, se da un lato la sua metis suscita ammirazione poiché spesso si rivela più preziosa e risolutiva della forza, dall’altro essa assume talvolta la connotazione negativa del dolos, ossia dell’inganno.
In effetti, in molti miti preomerici Odisseo è presentato soprattutto come autore di imbrogli e subdole macchinazioni che non trovano spazio nell’Iliade e nell’Odissea probabilmente perché risultano estranee al sistema di valori su cui sono
costruiti i due poemi nei quali, invece, gli inganni architettati dall’eroe vengono
“idealizzati”, cioè giustificati come inevitabili e finalizzati alla realizzazione di una
nobile impresa. Nell’Iliade, ad esempio, l’episodio in cui, insieme a Diomede, Odisseo rapisce i velocissimi cavalli bianchi di Reso, sterminando a tradimento nel
sonno dodici guerrieri nemici, viene presentato come un’azione necessaria per
conseguire la conquista di Troia.
Nel mondo omerico non esiste quindi contrapposizione tra metis e dolos, né
su queste qualità viene espresso un diverso giudizio morale, in quanto esse appaiono strettamente e intrinsecamente collegate. Il dolos non è altro che lo strumento di cui si serve la metis per perseguire un obiettivo legittimo, sia esso conquistare una città o fare ritorno in patria.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
OMERO
La metis contro la magia:
Odisseo e Circe
IL BRANO
genere
poema
epico
tratto da
Odissea
(libro X, vv. 210-399)
anno
VIII secolo a.C.
luogo
Grecia
Con l’unica nave scampata alle tempeste e un drappello di sopravvissuti Odisseo giunge all’isola di Eèa, abitata dalla bellissima maga Circe, figlia del Sole.
Un piccolo gruppo di uomini parte per esplorare il territorio ma rimane vittima
degli incantesimi di Circe che trasforma i compagni di Odisseo in maiali e li
rinchiude in un recinto. Il compito dell’eroe appare difficilissimo perché la
forza e il coraggio nulla possono contro la potenza dei sortilegi della maga,
ma la sua astuzia e l’intervento determinante del dio Ermes gli permettono di
capovolgere a proprio vantaggio una situazione disperata.
rovarono in un vallone la casa di Circe,
fatta di pietre lisce, in posizione scoperta.
E intorno c’erano lupi montani e leoni,
che lei stregò, dando farmachi tristi.1
Questi non si lanciarono sugli uomini, anzi,
con le code diritte a carezzarli si alzarono.
Come i cani intorno al padrone, che dal banchetto ritorna,
si sfregano; perché porta sempre qualche dolce boccone;
così intorno a loro i lupi zampe gagliarde2 e i leoni
si sfregavano; allibirono quelli a veder mostri paurosi.3
Si fermarono nell’atrio della dea trecce belle,4
e Circe dentro cantare con bella voce sentivano,
tela tessendo grande e immortale, come sono i lavori
delle dee, sottili e splendenti e graziosi.
Fra loro prendeva a parlare Políte capo di forti,
ch’era il più caro per me dei compagni e il più accorto:
«O cari, qui dentro una che tesse gran tela
soave canta, e tutto il paese ne suona;
o donna o dea. Su, presto, chiamiamo!»
Così disse e quelli gridarono chiamando.
Subito lei, uscita fuori, aperse le porte splendenti
e li invitava; e tutti stoltamente le tennero dietro.
Ma Euríloco restò fuori, ché temeva un inganno.
Li condusse a sedere sopra troni e divani
e per loro del cacio, della farina d’orzo e del miele
nel vino di Pramno5 mischiò: ma univa nel vaso
farmachi tristi, perché del tutto scordassero la terra paterna.
T
215
220
225
1. farmachi tristi: filtri
magici dal potere nocivo.
2. zampe gagliarde:
dalle zampe possenti.
3. allibirono quelli a
veder mostri paurosi: i
compagni si
spaventarono vedendo le
belve feroci comportarsi
in modo tanto mansueto.
4. trecce belle: l’epiteto
si riferisce alla bellezza
dei capelli di Circe.
5. vino di Pramno: un
vino forte, molto rinomato
nell’antichità.
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E appena ne diede loro e ne bevvero, ecco che subito,
con la bacchetta battendoli, nei porcili li chiuse.
Essi di porci avevano testa, e setole e voce
e corpo: solo la mente era sempre quella di prima.
Così quelli piangenti furono chiusi; e a loro Circe
ghiande di leccio6 e di quercia gettava e corniole7
a mangiare, come mangiano i porci che a terra si voltolano.8
Euríloco tornò indietro, all’agile nave nera,
notizia a dir dei compagni, a narrarne la sorte crudele.
Ma non poteva formare parola per quanto volesse,
sconvolto in cuore dallo strazio terribile: i suoi occhi
erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva.
Ma quando tutti l’interrogammo stupiti,
finalmente degli altri compagni narrò la rovina:
«Andammo come ordinasti, in mezzo al querceto, Odisseo luminoso,
e in un vallone trovammo bella dimora,
fatta di pietre lisce, in un luogo scoperto.
Dentro una, che gran tela tesseva, cantava armoniosa,
o dea o donna. Essi gridarono chiamando.
Subito lei, uscita fuori, aperse le porte splendenti
e ci invitava: e tutti stoltamente le tennero dietro.
Ma io rimasi fuori, perché sospettavo un inganno.
E son tutti spariti, nessuno di loro
è riapparso; a lungo seduto, io son rimasto a spiare».
Così raccontava, e io allora la spada a borchie d’argento
sulla spalla gettai, grande e bronzea; e l’arco a tracolla;
e volevo forzarlo9 a guidarmi per la medesima via.
Ma con le due mani le ginocchia afferrandomi, mi supplicava
e singhiozzando parole fugaci diceva:
«Non mi condurre, non voglio, alunno di Zeus, lasciami!
So già che tu pure non tornerai, e nessun altro
ricondurrai dei compagni: piuttosto, con questi prestissimo
fuggiamo; ancora, forse, possiamo evitare il mal giorno».10
Così parlava, ma io ricambiandolo dissi:
«Euríloco, dunque tu resta qui in questo luogo
mangiando e bevendo, vicino alla nera concava nave.
Io però vado, troppo grave dovere mi stringe!»
Così dicendo, mi allontanavo dalla nave e dal mare.
E quando ormai, movendo per i sacri valloni,
di Circe ricca di farmachi stavo per giungere al grande palazzo,
allora mi venne incontro Ermes verga d’oro,11
mentre arrivavo alla casa, simile a un giovane eroe,
cui fiorisce la prima peluria, bellissima è la sua giovinezza.
Mi prese per mano e parlava parola, diceva:
«Dove, o infelice, per questi colli vai solo,
ignaro del luogo? I tuoi compagni in casa di Circe
son chiusi come maiali, abitando solide stalle.
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6. leccio: un tipo di
quercia.
7. corniole: frutti del
corniolo, di colore rosso e
con forma simile all’oliva.
8. si voltolano: si
rotolano.
9. forzarlo: costringerlo.
10. il mal giorno: la
morte.
11. Ermes verga d’oro:
Ermes, divinità preposta
al collegamento tra terra
e cielo, porta messaggi
tra gli dei e gli uomini. Il
bastone d’oro (cadùceo)
è segno del suo potere
sulla parola, mezzo di
trasmissione dei suoi
messaggi.
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E tu per liberarli qui vieni? Io ti dico
che neanche tu tornerai, ma resterai là con gli altri.
Suvvia, dai pericoli voglio liberarti e salvarti.
Tieni, con questa erba benefica12 in casa di Circe
entra; il suo potere t’eviterà il mal giorno.
Ti dirò anche tutti gli inganni funesti di Circe.»
[Ermes avverte Odisseo che Circe tenterà prima di fargli bere una pozione incantata, poi di colpirlo con
una lunga bacchetta; allora l’eroe dovrà minacciarla con la spada e quando la dea proverà a sedurlo non
potrà rifiutare il suo amore ma prima dovrà farsi giurare solennemente che ella non tramerà altri inganni ai suoi danni.]
310
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12. erba benefica: è il
moli, una pianta di cui
non si conosce l’identità
e che alcune fonti antiche
descrivono come una
liliacea, dalla radice nera
e il fiore bianco. Era
ritenuta potente antidoto
contro la magia.
13. acuta: appuntita.
14. appena passata la
siepe dei denti: appena
messo in bocca.
15. refrattaria agli
incanti: che respinge gli
incantesimi.
16. l’Argheifonte aurea
verga: Argheifonte è un
epiteto di Ermes e vuol
dire uccisore di Argo, il
mostruoso cane dai cento
occhi vinto dal dio. Il dio
Ermes aveva predetto a
Circe l’arrivo di Odisseo.
17. talamo: letto.
18. farmi: rendermi.
330
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Ermete, quindi, se ne tornò all’alto Olimpo,
per l’isola folta; e io alla casa di Circe
andavo; e molto il mio cuore nell’andare batteva.
Mi fermai sulla porta della dea belle trecce,
e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce.
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti,
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore.
Mi condusse a sedere su un trono a borchie d’argento,
bello, ornato: e sotto c’era lo sgabello pei piedi.
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno v’infuse, mali meditando nel cuore.
Ma come me l’ebbe dato e bevvi – e non poté farmi incantesimo –
con la bacchetta colpendomi parlava parola, diceva:
«Va’ ora al porcile, stenditi con gli altri compagni».
Così diceva; e io la spada acuta13 dalla coscia sguainando,
su Circe balzai, come deciso ad ucciderla.
Lei gettò un urlo acuto, mi corse ai piedi e m’afferrò le ginocchia,
e singhiozzando parole fugaci diceva:
«Chi e donde sei fra gli uomini? Dove la tua città e i genitori?
Stupore mi prende, perché, bevuto il veleno, non hai subíto incantesimo.
Nessuno, nessun altro uomo poté sopportare il veleno,
chiunque lo bevve, appena passata la siepe dei denti.14
Ma forse nel petto hai mente refrattaria agli incanti;15
oppure tu sei Odisseo, l’accorto, che doveva venire,
come mi prediceva sempre l’Argheifonte aurea verga,16
tornando da Troia con l’agile nave nera.
Ma via, nel fodero la spada riponi, e noi ora
sul letto mio saliremo, che uniti
di letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda».
Così parlava, ma io ricambiandola dissi:
«O Circe, come m’inviti a esserti amico,
tu che porci m’hai fatto nel tuo palazzo i compagni,
e me ora qui avendo, con inganno m’adeschi
a entrare nel talamo,17 a salire il tuo letto,
per farmi18 poi, così nudo, vile e impotente?
Non vorrò certo salire il tuo letto,
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lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos
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se non hai cuore, o dea, di giurarmi il gran giuramento,
che nessun sortilegio trami ancora a mio danno».
Così dicevo, e lei subito giurò come volli,
e quando ebbe giurato, compiuta la formula,
allora solo di Circe salii il letto bellissimo.
[Successivamente le ancelle di Circe lavano e cospargono di unguenti
Odisseo e lo invitano a mangiare.]
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Circe, come s’accorse di me, che sedevo e sul cibo
non gettavo le mani, ma avevo troppo dolore,
vicino mi venne e parole fugaci parlava:
«Perché così, Odisseo, siedi simile a un muto,
il cuore mangiandoti,19 e cibo e vino non tocchi?
forse altro inganno sospetti? Non devi
temere: già l’ho giurato il gran giuramento».
Così parlava; e io rispondendole dissi:
«O Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia,20
il quale ardirebbe empirsi21 di cibo e di vino,
prima che sian liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi?
Se con cuore sincero a bere e a mangiare m’inviti,
scioglili,22 che li veda con gli occhi, i fedeli compagni».
Così dicevo: e Circe uscì attraverso la sala,
la verga in mano tenendo, le porte aprì del porcile
e fuori li spinse, simili a porci grassi di nove stagioni.23
Quelli le stavan davanti, e lei in mezzo a loro
andando, li ungeva a uno a uno con altro farmaco.
E dalle loro membra le setole caddero, nate
dal veleno funesto, che diede loro Circe sovrana:
uomini a un tratto furono, più giovani di com’eran prima,
e anche molto più belli e più grandi a vedersi.
Mi conobbero24 essi, e ciascuno mi strinse la mano,
e in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa
terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà.
da Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990
La metamorfosi dei
compagni di Odisseo,
particolare di un vaso
del V secolo a.C.
19. il cuore
mangiandoti: rodendoti
nell’animo.
20. purché abbia
giustizia: che abbia
senso di giustizia.
21. ardirebbe empirsi:
avrebbe il coraggio di
nutrirsi.
22. scioglili: liberali.
23. di nove stagioni: di
novi anni.
24. Mi conobbero: mi
riconobbero.
STRUMENTI DI LETTURA
I temi
Scontro tra pari: per raggiungere i loro obiettivi Circe e Odisseo utilizzano gli stessi mezzi
poiché entrambi dissimulano la loro vera natura e ingannano l’avversario mostrandosi per
quello che non sono. Ma in questa contesa
Odisseo possiede un’arma in più fornitagli dagli
dei che lo proteggono poiché, grazie ad Ermes,
egli sa ciò che la maga è in procinto di fare ed
è perciò in grado di guardarsi dai pericoli.
In realtà anche Circe dispone di informazioni utili sull’avversario, dal momento
che lo stesso Ermes le ha predetto l’arrivo
dell’accorto Odisseo di ritorno da Troia
(v. 330). A differenza dell’eroe, però, ella
non sfrutta le proprie conoscenze per agire
in modo accorto e prudente, probabilmente
perché si sente sicura della forza dei suoi
sortilegi ritenendoli sufficienti a tener testa
a ogni strategia elaborata da un’intelligenza
umana.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Trasformazione in animali: Circe trasforma i
compagni di Odisseo in animali e altri aveva
trasformato prima di loro. Proprio quegli animali feroci – maiali, lupi, leoni – accolgono
mansueti chi si avvicina al palazzo di Circe,
mostrando un atteggiamento insolito per belve
di quella forza. Inoltre ragionano come fossero
uomini o in modo simile a loro. Circe ha dunque il potere di trasformare gli uomini, non
dando loro uno statuto superiore a quello
umano (come per esempio Calipso, quando
voleva rendere Odisseo un dio), ma uno inferiore, quello animale. Quale valore ha questa
trasformazione? La riflessione attuale sull’episodio mostra che l’intera vicenda è una metafora. Nell’isola prima dell’arrivo di Odisseo
avevano potere su uomini e cose solo donne,
la dea e le sue ancelle, mentre gli uomini poco
accorti venivano soggiogati e trasformati in animali. Pur avendo zanne, lupi e leoni non attaccavano, esattamente come se fossero uomini
che rinunciavano al loro ruolo: potenzialmente
capi nella società, ammettevano invece di essere soggiogati da donne. Odisseo, resistendo
grazie al moli, alla sua spada e alla sua parola,
ristabilisce un ordine che altrimenti, per la mentalità greca, sarebbe stato pericolosamente
posto in discussione e addirittura sovvertito.
Gli ascoltatori degli aedi, lo abbiamo detto,
sono uomini cresciuti negli ideali della forza
eroica. Odisseo doveva confermare quei
principi, non smentirli e così secondo le direttrici della forza e dell’intelligenza, ricolloca
ogni cosa al suo posto, secondo gli ideali tradizionali, senza spostare dal proprio ruolo chi
aveva potere e collocando chi era sottoposto al suo ruolo di sottomissione.
Le parole chiave
Stolti e accorti: per due volte nell’episodio si
dice che i compagni di Odisseo si sono comportati stoltamente (vv. 231, 257), facendosi ingannare dalle apparenze e, di conseguenza,
finendo vittime delle stregonerie della maga. Essere stolti significa quindi non saper valutare
gli eventi, fermarsi alla loro superficie e non calcolare i rischi connessi alle proprie azioni.
Odisseo, al contrario, è accorto (v. 330) soprattutto perché riesce a prevedere gli inganni altrui e quindi a difendersene, e in
questo senso può a ragione essere definito
alunno di Zeus (v. 266), il dio che più di ogni
altro è in grado di ingannare e smascherare le
macchinazioni. I miti, infatti, sostengono che il
padre degli dei, nel timore di essere ucciso da
un figlio, avesse inghiottito la prima moglie
Metis – incinta di Atena – riempiendo così
tutto se stesso di accorta prudenza (metis),
motivo per cui nell’universo non poteva essere
tramata o pensata alcuna astuzia che prima
non fosse stata elaborata nella sua mente.
I personaggi
Le scelte di Polite e Eurìloco: a differenza
dell’eroe acheo, nessuno è immune dal rischio di comportarsi stoltamente, nemmeno
Polite il quale, nonostante sia considerato il
più accorto dei compagni di Odisseo (v. 225),
si fa trascinare dalla curiosità mettendo a repentaglio la vita dei suoi uomini. Più prudente
e accorto è il comportamento di Eurìloco che,
temendo un inganno (v. 232), non entra nella
casa stregata e quindi sfugge all’incantesimo
e fa ritorno alla nave. La sua prudenza però
non ha niente in comune con quella di Odisseo perché è dettata esclusivamente da
paura e viltà, come dimostrano il suo muto
terrore seguito da un pianto disperato (vv.
246-248), il rifiuto di tornare alla casa di Circe
e la pressante richiesta affinché la nave abbandoni rapidamente l’isola (vv. 268-270).
La prudenza e il coraggio: in Odisseo, invece, la prudenza si coniuga a coraggio,
senso di responsabilità e, soprattutto, capacità di azione e il risolutivo intervento di
Ermes si verifica solo dopo che l’eroe ha già
preso la decisione di agire.
In questa situazione Odisseo manifesta la
propria metis controllando l’impulso che lo
spingerebbe ad affrontare la situazione con
la forza (vv. 261-263 e io allora la spada a
borchie d’argento / sulla spalla gettai, grande
e bronzea; e l’arco a tracolla; / e volevo forzarlo a guidarmi per la medesima via) e tenendo conto dei suggerimenti e dell’aiuto
offerti dalla divinità. La sua scelta rivela l’adesione a un codice ideale piuttosto diverso da
quello che caratterizzava l’Iliade poiché ora
la forza e il coraggio fisico non hanno valore
in sé ma vanno messi al servizio di un disegno razionalmente predisposto.
La lingua e lo stile
Il fiabesco: l’atmosfera dell’episodio è ricca di
elementi fiabeschi tratti dall’antichissimo serbatoio della tradizione popolare come filtri incantati, pozioni, bacchette magiche, piante
misteriose accessibili solo agli dei, formule magiche pronunciate da maghe potenti, aiuti inattesi e straordinari a sostegno dei protagonisti.
Anche l’ambientazione contribuisce a creare
un’atmosfera fatata e fuori dal tempo: la casa
di Circe, isolata nel bosco (vv. 211-212), le
belve feroci che si muovono festanti e amichevoli (vv. 214-215), il canto soave che
giunge in lontananza (v. 221) irretiscono e attirano in trappola i malcapitati che incautamente si avvicinano.
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Perché Euriloco decide di restare fuori della casa di Circe?
2 Di quale incantesimo sono vittime gli uomini di Odisseo?
3 Quale personaggio viene in aiuto di Odisseo sulla strada che lo porta alla dimora di Circe?
4 Perché la pozione magica di Circe non ha alcun effetto su Odisseo?
di
ffi
co
ltà
5 In che modo l’eroe si mette definitivamente al sicuro dagli inganni della maga?
Analisi
I temi
Vedi a p. 14
6 Quali indizi segnalano che l’isola di Eèa è un luogo di sortilegi?
7 Individua nell’episodio i passaggi in cui Odisseo dimostra di essere accorto
e prudente.
8 Nella parte conclusiva de brano, Odisseo si rifiuta di mangiare perché ………………....……
....................................................................................................................................................................................................................................
Secondo te la scelta dell’eroe è dettata da autentica preoccupazione o è frutto di un disegno?
I personaggi
Vedi a p. 8
9 La trappola di Circe si basa sulla sua capacità di sedurre coloro che sbarcano
sull’isola: con quali stratagemmi suscita l’interesse e conquista la fiducia degli uomini di Odisseo? Motiva la tua risposta.
Le parole chiave
Vedi a p. 14
10 Individua e trascrivi termini ed espressioni appartenenti al campo semantico dell’incantesimo.
La lingua e lo stile
Vedi a p. 10
11 Lo stile formulare è caratterizzato dalla ripetizione pressoché identica di interi moduli narrativi: trovane un esempio all’interno dell’episodio.
Produzione
di
ffi
co
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Laboratorio
lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos
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12 Fa’ una ricerca sul dio Ermes e spiega in 15 righe al massimo per quale motivo, secondo te, egli interviene a favore di Odisseo.
13 Riassumi il contenuto del brano assumendo il punto di vista di un narratore
esterno.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Il teatro
greco
IL RAPPORTO TRA TEATRO E TRAGEDIA
Il teatro è un’invenzione peculiare della cultura greca la cui origine è strettamente
legata a quella della tragedia. È tuttora una questione aperta la definizione dell’origine e dell’evoluzione del teatro e della tragedia: non intendiamo entrare in
temi così complessi, avendo a disposizione poche righe. Per avvicinarci, però,
almeno in parte, a una definizione di teatro tragico, citiamo la voce più antica a
proposito, quella del filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) che si riferisce alla
tragedia come alla «rappresentazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, avente una determinata ampiezza, […] di persone agenti e non in forma narrativa; e che attraverso pietà e terrore consegue l’effetto di liberare da siffatte passioni», aggiungendo che l’elemento più importante della tragedia «è la combinazione
di fatti, poiché essa è un’imitazione (mimesis) non di uomini ma di azione e di vita».
Il sacrificio di Ifigenia,
particolare di un
affresco della Casa
del Poeta Tragico
a Pompei.
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il teatro greco
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La tragedia è una rappresentazione
Approfondiamo il contenuto della citazione di Aristotele, sviluppando tre temi in
particolare. Il primo riguarda il fatto che la tragedia non è in forma narrativa,
cioè non nasce come un testo scritto per essere letto, ma anzi per essere rappresentato da persone agenti, cioè da attori che si muovono, parlano, agiscono sulla scena, sviluppando un’azione dall’inizio alla fine (un’azione seria e compiuta in se stessa). La tragedia, cioè, è per i greci un “dramma” (parola che viene dal verbo greco drào, agire), indica una forma artistica che viene agita da
persone che la compiono, imitando ciò che accade nella vita reale. Dei ed eroi,
pur essendo personaggi non reali e mitici, sono voci viventi di un dramma che
parla delle azioni e della vita di chi assiste alla rappresentazione.
Pietà e terrore
Il secondo aspetto di cui parla Aristotele è che la tragedia si serve di pietà e
terrore, cioè di due sentimenti; l’aspetto emotivo, infatti, è molto importante nella rappresentazione tragica. La paura e la pietà non sono citate a caso, ma per
un motivo, che risponde a una precisa funzione della tragedia. Nello spettacolo tragico, infatti, viene portato in scena sempre un “caso limite” di un certo problema (per esempio un figlio costretto a uccidere la madre per adempiere a una
legge) in modo tale che gli spettatori, immedesimandosi nei personaggi, provino compassione (in questo senso va intesa la pietà aristotelica) ovvero “pa-
APPROFONDIMENTO
Origini della tragedia
Il termine tragedia deriva dal greco tragoidía, il cui significato etimologico è “canto dei capri” (da
trágos “capro” e oidè “canto”). Secondo alcuni studiosi questa espressione si riferirebbe alle
maschere di coloro che partecipavano ad antichi rituali legati al culto di Dioniso, anche se il
processo che ha portato da queste arcaiche manifestazioni di carattere magico-religioso alla nascita della tragedia come genere teatrale rimane piuttosto oscuro.
Il legame tra teatro, tragedia e culto di Dioniso è testimoniato dal fatto che nel VI secolo a.C. Pisistrato, tiranno di Atene, istituì dei concorsi che si svolgevano nel corso delle Grandi Dionise o
Dionise cittadine – celebrazioni in onore del dio Dioniso che si tenevano annualmente all’inizio della
primavera – durante le quali i tragediografi si sfidavano presentando al pubblico un’opera (successivamente, una trilogia di opere) che non era destinata alla lettura ma esclusivamente a questa
occasione. E fu lo stesso Pisistrato a definire un apposito spazio per queste rappresentazioni, all’interno del recinto sacro a Dioniso Eleutero, sulla pendice sudorientale dell’Acropoli dove sorgeva un
antico tempio dedicato al dio.
Nel secolo seguente ad Atene venne allestito un teatro secondario nell’agorà (la piazza-mercato
della città bassa) e si inaugurò l’usanza di presentare un dramma satiresco1 a chiusura di ogni
trilogia tragica estendendo il concorso drammatico anche alla commedia. Ogni spettacolo veniva
preceduto da solenni manifestazioni e alla fine, mediante un complesso sistema di votazione e
sorteggio, si formulava la graduatoria dei vincitori.
1. Il dramma satiresco: è una forma teatrale antichissima riconducibile al culto del dio Dioniso. In esso gli attori del coro sono travestiti
da satiri e si muovono sulla scena recitando e danzando vivacemente. Le storie rappresentate nel dramma satiresco sono di genere
comico o parodistico e, poste al termine della trilogia tragica, hanno la funzione di sollevare gli spettatori dalla tristezza provocata dagli
episodi luttuosi delle tragedie.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
tiscano con” il protagonista il suo dramma e lo facciano proprio. Unita alla pietà/compassione, gli spettatori proveranno anche paura nel sentire fin dove l’odio,
la vendetta, la guerra, la trasgressione della legge ecc. possono portare.
I due sentimenti citati da Aristotele, quindi, permettono di comprendere meglio
la qualità della tragedia, che è fatta per lo spettatore, perché entri in un certo
problema e lo viva, attraverso l’immedesimazione, fino alle sue estreme conseguenze.
Oltre il dramma
Statuetta col viso
coperto da una
maschera tragica.
Qual è il fine di questo processo? Lo dice ancora Aristotele nel suo testo: per
conseguire l’effetto di liberare da siffatte passioni. La conseguenza ultima di
una tragedia dunque non è più tra le mura del teatro, ma fuori da quel luogo,
nella vita reale. Avere vissuto con partecipazione il dolore che provano i personaggi sulla scena fa comprendere agli spettatori fin dove portano gli atti, i pensieri, i problemi posti dal dramma, in modo da non ripeterli nella vita
reale. Il caso estremo portato dalla tragedia veniva posto in tutta
la sua radicalità e non risolto. Attraverso il dramma gli spettatori prendevano atto della questione posta dai personaggi
e dalla storia stessa, in modo da elaborarlo nella realtà e
risolverlo o almeno avviarlo a una risoluzione.
Nell’Orestea di Eschilo, per esempio, si poneva il problema
della legge da seguire, se quella antica o quella recente elaborata dalla polis; nell’Edipo re di Sofocle il tema del destino, se sia così costrittivo da non permettere libertà di scelta o
se permetta un margine di autonomia nelle decisioni umane; nella Medea di Euripide la questione della pari dignità di diritti tra
stranieri e greci.
Andare a teatro era dunque prendere atto di quei problemi che,
fuori da quel luogo aspettavano una risoluzione, al di là del mito
e dentro la realtà.
IL TEATRO, SIMBOLO DELLA POLIS
In poco tempo gli spettacoli teatrali si diffusero in tutto il mondo
greco e nei territori politicamente e culturalmente ellenizzati e l’edificio dove si svolgevano le rappresentazioni diventò – con il tempio e l’agorà – il nucleo simbolico di ogni polis. L’importanza del
teatro era tale che spettava all’arconte eponimo, la massima magistratura cittadina, l’annuale scelta dei coreghi, coloro i quali dovevano sostenere la parte maggiore delle spese per l’allestimento
degli spettacoli.
Di norma si trattava dei cittadini più ricchi che difficilmente rifiutavano questa onerosa incombenza per non perdere prestigio
agli occhi dei concittadini. Era una forma di redistribuzione della ricchezza al di là della tassazione. D’altro canto, anche i meno
abbienti avevano la possibilità di partecipare alle rappresentazioni
perché a chi non poteva pagare l’ingresso agli spettacoli lo stato
attribuiva uno speciale sussidio.
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il teatro greco
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Gli attori
Nelle rappresentazioni teatrali gli attori sono esclusivamente maschi e mai
più di tre, anche se il numero dei personaggi del dramma può essere maggiore
poiché ogni attore – che in relazione all’importanza del ruolo viene definito protagonista, deuteragonista, tritagonista – è in grado di interpretare più parti
semplicemente cambiando costume e maschera. Nelle tragedie essi indossano costumi solenni ma anacronistici, poiché imitano quelli dei personaggi eminenti della loro epoca e non corrispondono affatto a quelli in uso nel periodo
miceneo nel quale la tradizione colloca le vicende rappresentate.
La maschera, elemento tipico di molte cerimonie religiose e funebri, nella rappresentazione drammatica assolve anche a una funzione pratica, in quanto permette agli attori di ricoprire ruoli diversi nello stesso dramma e consente al pubblico di identificare subito un personaggio in base ai suoi lineamenti caratteristici.
Ricostruzione di un
teatro greco del tardo
IV secolo.
Cavea
Corridoio di ingresso/uscita
degli attori
Scena
Orchestra
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Il coro
Il coro è presente in tutte le forme del teatro greco
ed è formato da coreuti maschi anche quando
l’opera prevede la presenza di figure femminili, il cui numero varia da dodici a quindici nella
tragedia e arriva a ventiquattro nella commedia. Esso è guidato dal corifeo che
spesso dialoga con gli attori, fino a poter essere considerato un personaggio vero e proprio. Anche il corifeo e
i coreuti indossano maschere e costumi adeguati al rango e alla natura dei
personaggi interpretati.
Disposto di fronte al pubblico secondo
uno schema quadrangolare, il coro rimane talvolta in scena per tutta la durata del dramma.
Una delle sue funzioni è quella di rappresentare simbolicamente la partecipazione e la condivisione della polis alle vicende narrate e di commentare attraverso la voce del corifeo le azioni e le scelte dei
personaggi.
Maschera teatrale
di terracotta
del IV secolo a.C.
La scena
La rappresentazione si svolge su una scena aperta su tre lati e delimitata da un
fondale costituito inizialmente da una tenda dipinta e poi da una facciata in legno
(e in età romana in muratura), sulla quale sono dipinti gli elementi di un edificio,
normalmente una reggia. Mancando il sipario, l’azione si sviluppa sempre davanti
al pubblico e al coro, situazione che impone l’utilizzo di alcuni accorgimenti, come
quello di far raccontare da un nunzio gli avvenimenti che non è possibile e conveniente presentare sulla scena, per esempio la morte di uno dei personaggi.
Nel corso delle rappresentazioni è frequente l’utilizzo di macchine di scena come
l’ekkiklema, una piattaforma scorrevole su ruote la cui funzione è mostrare un interno dove sta avvenendo una parte dell’azione e la mechanè, una gru con un braccio girevole manovrata da un argano a mano utilizzata per portare sulla scena dall’alto la divinità, che talvolta nel finale dell’opera interviene a risolvere la vicenda.
I poeti tragici
Secondo la tradizione, il primo poeta tragico sarebbe stato il leggendario Tespi,
vissuto nel VI secolo, ma i soli tragediografi dei quali ci sono pervenute opere complete sono gli attici Eschilo, Sofocle ed Euripide, l’attività dei quali copre quasi tutto il v secolo a. C.
Ad Eschilo (525-459) vengono attribuite numerose innovazioni nel campo della poesia tragica, come l’introduzione del secondo attore grazie al quale il gioco drammatico risulta potenziato e arricchito. Nelle sue tragedie una funzione
decisiva viene attribuita al coro, che partecipa all’azione esaminando i fatti nel
corso del loro svolgimento, collegandoli reciprocamente e approfondendo le
ragioni etiche e religiose del conflitto messo in scena.
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Da Eschilo in avanti la tragedia assume una struttura stabile e definitiva: ogni
rappresentazione inizia con un prologo, cui seguono l’ingresso del coro (parodo) e gli episodi recitati dagli attori intervallati da canti corali (stasimi), per
concludersi con la scena finale (esodo).
Ulteriori variazioni vengono realizzate da Sofocle (496-406) che introduce il terzo attore, aumenta il numero dei coreuti da dodici a quindici e spezza il legame tra i drammi della trilogia tragica, che da questo momento costituiranno unità isolate e in sé compiute. La principale novità del teatro sofocleo consiste però
nel fatto che il dramma – più che nell’azione – si svolge nell’animo del protagonista il quale, posto al centro di un conflitto morale, acquista progressivamente consapevolezza delle ragioni del proprio destino, emergendo con forza sugli altri personaggi.
Un’altra tappa decisiva nello sviluppo del teatro tragico è costituita dalla produzione di Euripide (485-406) che, mosso ancor più dei suoi predecessori da
un continuo bisogno di sperimentazione, elimina definitivamente il legame tra
i drammi della trilogia, attribuisce grande rilievo agli elementi scenografici e limita la funzione del coro a semplice intermezzo musicale. Anche l’architettura delle sue tragedie si presenta molto più varia, tanto che alcune sono imperniate
su un unico personaggio, altre su una coppia, altre su tre, altre addirittura su
un gruppo di individui.
Euripide è molto attento a indagare le profondità dell’animo umano e costruisce
personaggi psicologicamente complessi e spesso oscillanti tra stati d’animo
contraddittori. Talvolta poi la stessa figura, inserita in contesti drammatici diversi, è tratteggiata dall’autore da punti di vista differenti.
Il teatro di Epidauro,
IV secolo a.C.
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Euripide
La contesa
tra Ecuba ed Elena
L’OPERA
Nel prologo dell’opera Le troiane, Poseidone e Atena decidono di distruggere
la flotta greca durante il ritorno verso la patria, il primo per vendicare Troia di
cui è il fondatore, la seconda perché Aiace le ha mancato di rispetto strappando dal suo altare la supplice Cassandra.
Sulla scena compare Ecuba, circondata dal coro delle troiane che rievocano
la spedizione dei Greci e la distruzione della loro patria e delle loro famiglie.
Poi sopraggiunge l’araldo Taltibio che comunica l’assegnazione delle prigioniere troiane ai vincitori e prende in consegna Cassandra la quale, invasata
dal dio, profetizza la morte che attende lei ed Agamennone.
Su un carro che trasporta le spoglie di Ettore arriva Andromaca – destinata
come schiava a Neottolemo, il figlio di Achille – con il piccolo Astianatte e a
questa vista il dolore di Ecuba si accende nuovamente.
Taltibio ritorna in scena per informare le donne che i Greci hanno deciso di uccidere Astianatte, suscitando così una nuova ondata di disperazione. Subito
dopo sopraggiunge Menelao, deciso a condurre Elena ad Argo per punirla con
la morte del suo tradimento. Senza mostrare alcun segno di pentimento, Elena
prova a giustificarsi ma Ecuba controbatte punto per punto alle sue parole
accusandola di essere la sola responsabile di tanti lutti e rovine e supplicando
Menelao di ucciderla senza farsi nuovamente sedurre dalla sua bellezza.
All’arrivo del cadavere di Astianatte collocato sullo scudo di Ettore, Ecuba riprende a piangere e a lamentarsi, vittima di un nuovo dolore che si somma a
quelli già sofferti.
La scena conclusiva della tragedia vede le donne troiane condotte in schiavitù verso le navi greche mentre le fiamme avvolgono la loro città.
genere
tragedia
tratto da
Le troiane
(vv. 860-1059
nel testo greco)
anno
V-IV secolo
a.C.
luogo
Grecia
LA SCENA
Tra i diversi temi affrontati ne Le troiane, il brano proposto pone l’accento sul
peso e sulle conseguenze delle scelte individuali quando esse coinvolgono e
procurano danni ad altri. La scena si svolge nell’accampamento greco dove
giunge l’acheo Menelao, intenzionato a punire con la morte la moglie Elena
che lo ha abbandonato per seguire Paride, provocando con il suo comportamento la guerra tra Greci e Troiani.
Bella e sensuale come sempre, la donna prova a discolparsi sostenendo di
non poter essere considerata responsabile di eventi determinati dalla volontà
divina, ma Ecuba, madre del troiano Ettore e ora destinata come schiava a
Odisseo, respinge duramente le sue argomentazioni smontandole e ribaltandole punto per punto e invitando ripetutamente Menelao a fare giustizia della
traditrice in modo esemplare.
1. contro l’uomo
traditore dell’ospitalità:
essendo stato accolto
presso la reggia di
Menelao, Paride era
legato a lui dal sacro
vincolo dell’ospitalità, che
aveva spezzato
portandogli via i tesori e
rapendo la moglie Elena.
2. fio: colpa.
3. Spartana: Elena,
originaria di Sparta.
(entrando, con scorta di armati) O splendido fulgore di questo giorno, in
cui porrò le mani su Elena, mia sposa! Sono Menelao e ho sofferto molto, io e
l’esercito degli Achei. Venni a Troia non, come dicono, per via di una donna, ma
contro l’uomo traditore dell’ospitalità,1 che mi rapì dalle case la moglie.
Ora, con l’aiuto degli dei, ha pagato il fio,2 lui e la sua terra caduta sotto le
lance elleniche. Son venuto qui per condurre via la Spartana:3 non mi è dolce,
MENELAO
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
il teatro greco
infatti, chiamare col nome di moglie colei che un giorno fu mia. Con altre
Troiane ella è nel numero delle prigioniere sotto queste tende. Coloro che a
fatica la ripresero con la lancia, me la diedero perché io la uccida, o, senza ucciderla a Troia, la riporti nella terra di Argo. E io ho deciso che Elena non
abbia morte a Troia, ma sia ricondotta sulla nave ondivaga4 in terra ellenica,
perché ivi le diano morte a vendetta quanti persero i loro cari ad Ilio. Orsù,
compagni, entrate nella tenda, portatela via trascinandola per la chioma sozza
di sangue! E quando i venti spireranno favorevoli, la ricondurremo nell’Ellade.
ECUBA O Zeus, fulcro della terra, che sopra la terra hai sede, chiunque mai tu sia,
arduo a conoscere, o legge di natura o intelletto dei mortali, ti prego: tu, procedendo per vie silenziose, reggi secondo giustizia tutte le vicende dei mortali!
MENELAO E che? Tu invochi gli dei con preghiere insolite.
ECUBA Ti approvo, o Menelao, se uccidi tua moglie. Ma evita di guardarla, che il
desiderio di lei non ti prenda. Ella lusinga gli occhi degli uomini, abbatte le città,
incendia le case, tanto è il suo fascino. Io ben la conosco, e anche tu e coloro che
per lei hanno sofferto!
ELENA (in sontuoso abbigliamento, trascinata fuori della tenda) Menelao, questo è un
preambolo che incute paura. A viva forza sono tratta dalle mani dei tuoi servi davanti a questa tenda. E pur sapendo di essere odiata da te, voglio tuttavia chiederti:
quali sono le decisioni tue e degli Elleni circa la mia vita?
MENELAO Non sei venuta qui per un giudizio: tutto l’esercito ti diede a me, che
tu offendesti, perché ti uccidessi.
ELENA Posso rispondere a queste accuse che, se morrò, sarà ingiustizia?
MENELAO Non sono venuto qui per discutere, ma per ucciderti.
ECUBA Ascoltala, o Menelao; non ucciderla senza concederle questo favore e permettimi di confutare le sue parole: tu non sai nulla delle sciagure di Troia. Ma
tutto il mio discorso varrà a ucciderla, così da non consentirle scampo.
MENELAO Ti concedo questa tregua inutile: se vuol parlare, può. E sappia che faccio questo perché ascolti le tue ragioni, non per renderle un favore.
ELENA Giacché mi consideri nemica, forse non mi risponderai, sia che io sembri parlare a ragione, sia a torto. Pure, mi difenderò, opponendomi alle accuse
che, penso, mi rivolgerai. Innanzi tutto costei5 partorì insieme con Paride l’inizio delle sventure; poi ha distrutto me stessa e Troia il vecchio che non uccise
Alessandro, funesto sogno di una fiaccola.6 Ascolta ora quel che ne seguì: Paride giudicò il gruppo di tre dèe. La promessa di Pallade per Alessandro fu la
signoria sui Frigi7 e la distruzione dell’Ellade; Era gli garantì la signoria d’Asia
e d’Europa, se Paride avesse scelto lei; Cipride,8 stupita per la mia avvenenza,
mi promise in dono a lui, se avesse superato le altre dèe per bellezza. Considera adesso le conseguenze di ciò: Cipride vinse le altre dèe, e le mie nozze, almeno in questo, giovarono all’Ellade: infatti non siete stati soggiogati dai
barbari,9 non veniste alle armi né sotto la loro tirannide. Ma quella che fu la
fortuna dell’Ellade fu la mia rovina: venduta per la mia bellezza, sono accusata
di cose per cui avrei dovuto meritare una corona. Dirai che non ho ancora parlato del fatto più grave, e cioè come fuggii dalla tua casa di nascosto. Il demone
nato da costei, Paride o Alessandro, che ti piaccia chiamarlo, venne con l’aiuto
di una dea potente. E tu, sciagurato, salpasti da Sparta verso Creta, 10 lasciandolo in casa tua! E sia pure: ma non te, bensì me stessa interrogherò per quanto
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4. ondivaga: che oscilla
sulle onde.
5. costei: Ecuba.
6. il vecchio che non
uccise Alessandro,
funesto sogno di una
fiaccola: Alessandro è
l’altro nome di Paride.
Elena si riferisce al fatto
che quando era incinta
Ecuba aveva sognato una
fiaccola che incendiava la
città e aveva compreso
che il nascituro avrebbe
provocato la rovina di
Troia; per questo motivo
appena nato Paride fu
esposto sul monte Ida
dove fu raccolto ed
allevato da un pastore.
7. Frigi: popolo stanziato
in Anatolia (attuale
Turchia) e alleato di
Troia; in questo caso sta
per Troiani.
8. Cipride: appellativo
della dea Venere che a
Cipro era oggetto di un
particolare culto.
9. barbari: i popoli
dell’Asia che gli abitanti
della Grecia
consideravano barbari.
10. salpasti da Sparta
verso Creta: il mito
racconta che, una volta
accolto Paride, Menelao
dovette partire per Creta.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Poche sono le notizie certe sulla vita di Euripide. Nasce a Salamina tra il 485 e
il 483, riceve una buona educazione letteraria, è adepto del culto di Apollo e nel
408 abbandona Atene per recarsi prima in Tessaglia, poi in Macedonia. Muore a
Pella fra la fine del 407 e l’inizio del 406. Delle novanta tragedie attribuitegli ne
sono pervenute diciassette, tutte scritte nel periodo della maturità, ma per alcune di esse la datazione e le circostanze della messa in scena sono solo ipotizzabili sulla base di elementi stilistici o riferimenti a fatti di attualità. Questa è la
successione dei drammi secondo l’ipotesi più accreditata: Alcesti (438), Medea
(431), Ippolito (428), Ecuba (420 circa), Andromaca (430?), Eraclidi (430?), Supplici (424), Eracle (tra il 421 e il 415), Le troiane (415), Elettra (413), Elena (412),
Ifigenia in Tauride (414), Ione (412), Fenicie (dopo il 412), Oreste (408) e infine
Ifigenia in Aulide e Baccanti, rappresentate postume. A Euripide viene anche attribuito Il Ciclope, l’unico
dramma satiresco giunto fino a noi.
11. scolte: sentinelle.
12. Deifobo: fratello di
Ettore e Paride che sposa
Elena dopo la morte di
quest’ultimo.
13. Ida: il monte dove si
svolse la gara di bellezza
tra le dèe a cui fece da
arbitro Paride.
14. impetrò: ottenne con
una supplica.
15. Amicle: città della
Laconia a sud di Sparta.
segue. Con quale animo abbandonai la dimora insieme a uno straniero, tradendo patria e casa? Punisci dunque la dea, e sii più potente di Zeus, signore
di tutti gli altri dei, eppur suo schiavo! Dunque, ho delle attenuanti. Qui tu
potresti farmi un discorso plausibile: giacché Alessandro, morendo, era andato
sotterra, non esistendo più il mio vincolo coniugale voluto dagli dei, io, lasciata la casa, avrei dovuto recarmi alle navi degli Argivi. È proprio quello che
tentai di fare, e possono attestarlo le scolte11 delle torri e le guardie delle mura,
le quali spesso mi sorpresero mentre con una corda calavo furtivamente a terra
questo mio corpo giù dagli spalti. Il mio nuovo marito, Deifobo,12 dopo avermi
presa con la forza, mi ebbe in moglie contro la volontà dei Frigi. Come potrei
dunque, o mio sposo, morire giustamente per mano tua, se Paride mi ha sposata con la forza e gli eventi della patria mi hanno condotta ad amara servitù,
invece che a trofei di vittoria? E se pensi di ergerti ad arbitro tra gli dei, la tua
pretesa è stolta!
CORIFEA Regina, difendi i tuoi figli e la patria, smascherando le suadenti parole
di costei, perché – pur avendo operato tanto male – ella parla bene: e questa è
cosa terribile.
ECUBA Anzitutto sarò alleata alle dèe e mostrerò che le parole di costei non sono
giuste. Non credo che Era e la vergine Pallade siano giunte a tal punto di stoltezza, per cui una avrebbe venduto Argo ai barbari e Pallade avrebbe asservito
Atene ai Frigi. Esse si recarono sull’Ida13 alla gara di bellezza per gioco e per
civetteria. Perché mai Era, una dea, avrebbe avuto un tal desiderio di bellezza?
Per ottenere forse un marito più potente di Zeus? E Atena, poi, cercava le
nozze con qualche iddio, lei che, rifuggendo dalle nozze, impetrò 14 dal padre
la verginità? Non fare le dèe così stolte, per abbellire la tua colpa! Non convincerai i saggi. Tu affermasti che Cipride – quale ridicolaggine! – venne con
mio figlio alla reggia di Menelao. Ma non avrebbe forse potuto, restandosene
tranquillamente in cielo, trasportarti con tutta Amicle 15 a Ilio? Mio figlio era
di una bellezza straordinaria e, contemplandolo, il tuo desiderio diventò Cipride! Tutte le follie sono Afrodite, per gli uomini! E il nome della dea nell’idioma ellenico comincia giustamente come la parola «afrosyne», che significa
«pazzia». T’innamorasti follemente di lui, vedendolo magnificamente vestito
in foggia straniera e splendente d’oro. Ad Argo tu vivevi modestamente; e laV. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
il teatro greco
sciata Sparta, sperasti di sommergere con i tuoi sperperi la città dei Frigi, dove
l’oro correva a fiumi: la casa di Menelao non ti bastava per trasmodare16 nel tuo
lusso. Sia pure: affermi che mio figlio ti condusse via con la forza. E chi mai se
ne accorse fra gli Spartani? Qual grido di allarme lanciasti, benché fossero vivi
il giovane Castore e suo fratello,17 non ancora assunti tra le costellazioni? Dopo
che fosti giunta a Troia e con te gli Argivi sulle tue orme e fu lotta di mortifere lance, se qualcuno ti narrava le gesta di Menelao, lodavi costui, cosicché
mio figlio si crucciava di avere un grande rivale in amore. Se invece i Troiani
prevalevano, egli per te non era più nulla. E mirando alla fortuna, facevi in
modo di trovarti sempre con essa senza curarti della virtù. Inoltre, affermi di
esserti calata di nascosto dalle torri con una fune, come se restassi qui contro
voglia. Ma quando mai fosti sorpresa a sospendere una corda o ad affilare un
pugnale, come avrebbe fatto una donna onesta, rimpiangendo il primo marito?
Eppure io più e più volte ti ammonivo: «Va’ dunque, figlia! Mio figlio contrarrà un altro matrimonio; io ti invierò nascostamente alle navi achee: metti
fine alla guerra fra noi e i Greci!». Ma questo era per te qualcosa di amaro. Infatti nelle case di Alessandro tu insuperbivi e volevi essere riverita dai barbari:
ciò per te contava molto. Dopodiché sei venuta qui curando la tua persona, e
guardi lo stesso cielo che guarda tuo marito, o essere spregevole? Dovevi invece presentarti vestita di cenci, tremante di paura, col capo rasato e fidando
più nella modestia che nella sfrontatezza, proprio per le tue colpe. (A Menelao)
Menelao, perché tu sappia a che mirano le mie parole, corona di gloria l’Ellade
uccidendo costei, e stabilisci questa legge anche per le altre donne: muoia chi
tradisce il marito!
CORIFEA Menelao, punisci tua moglie e sii degno dei tuoi avi e del casato: evita
da parte dei Greci il biasimo di debolezza, tu che ti sei mostrato così valoroso
di fronte al nemico.
MENELAO Tu e io siamo venuti allo stesso discorso: costei di sua volontà passò
dalla mia casa al letto di uno straniero. Nelle sue parole Cipride è un mero
vanto. (A Elena) Va’ da coloro che ti lapideranno, sconta in un momento con
la tua morte i lunghi affanni degli Achei, e impara a non disonorarmi!
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ELENA (a Menelao) Per le tue ginocchia, non uccidermi addossandomi una follia voluta dagli dei; abbi pietà di me!
ECUBA Non tradire i tuoi alleati, che costei condusse a morte! Ti scongiuro per
loro e per i miei figli!
MENELAO Basta, vecchia! Di costei non mi curo. Ordino ai miei uomini che la
portino alla nave, su cui navigherà. (La scorta esegue)
ECUBA Non salga mai sulla tua stessa nave!
MENELAO E perché? Forse ora pesa più di prima?
ECUBA Non v’è amante che non ami sempre.
MENELAO Secondo l’animo della persona amata. Sarà come vuoi: non salirà sulla
mia stessa nave, hai ragione. E giunta ad Argo, questa sciagurata morrà di mala
morte, come si merita, e insegnerà a tutte le donne ad essere oneste. Non è
semplice: ma la sua fine incuterà timore alla loro follia, anche se siano più malvage. (Esce)
da Euripide, Le troiane, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori 1977
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16. trasmodare:
esagerare.
17. il giovane Castore e
suo fratello: Castore e
Polluce, i Dioscuri, erano
fratelli di Elena.
18. per le tue
ginocchia: invocazione
con valore di supplica
corrispondente al nostro
“Per pietà!”.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
STRUMENTI DI LETTURA
I temi
Nave mercantile in
navigazione, riprodotta
su un vaso attico
del VI secolo a.C.
La responsabilità delle scelte: nel contrasto verbale tra Ecuba ed Elena emerge il
tema del rapporto esistente tra le scelte
degli uomini e la volontà degli dei: sono
state la vanità e l’avidità di Elena a provocare
le innumerevoli morti e distruzioni che hanno
accompagnato la guerra di Troia o la bellissima moglie di Menelao è vittima della volontà divina?
Prima di Euripide gli scrittori tragici avevano in
vario modo sostenuto che il destino umano
fosse determinato dagli dei e che il principale
compito degli uomini fosse quello di sopportare prove e avversità considerandole una
conseguenza della loro natura limitata ed imperfetta. È su questa tesi che si basa la difesa
di Elena la quale assolve se stessa affermando
che la sua fuga da Argo e il conseguente abbandono di Menelao, causa scatenante della
decennale guerra tra Achei e Troiani, sono
state il frutto di capricci, vendette e rancori
delle dee.
È Ecuba a riportare la questione in un ambito
prettamente umano e sociale su un piano
che – con termine moderno – potremmo definire morale, permettendo a Euripide di dibattere in modo problematico e analitico il
tema della responsabilità individuale delle
scelte, senza tuttavia che si giunga ad una
conclusione certa e definitiva. Sconfitta, prigioniera, segnata da lutti e sciagure, la regina
troiana sostiene che Elena avrebbe potuto
comportarsi diversamente, ma ha scelto di
non farlo mossa da interesse, avidità e superbia e animata da impulsi e desideri irrazionali. Decidendo di seguire Paride e di non
tornare da Menelao quando gliene è stata offerta l’occasione, la spartana ha pertanto oggettivamente ostacolato la ricomposizione
del conflitto ed è a causa del suo atteggia-
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
il teatro greco
mento volontariamente irresponsabile che
Ecuba ne chiede la morte, unico e tardivo risarcimento alle sue sofferenze.
I personaggi
La vendetta di Ecuba: Euripide mostra nelle
sue opere una spiccata predilezione per le
figure femminili che, considerate più istintive e irrazionali degli uomini, gli consentono
di indagare e scandagliare gli impulsi profondi e oscuri della natura umana.
Ne Le troiane il personaggio di Ecuba, moglie del re Priamo e madre di diciannove figli
– i maschi tutti morti nel corso della guerra,
le femmine uccise o ridotte in schiavitù dai
vincitori – diviene un simbolo di Troia. La
drammatica rovina di quella città sembra anticipare profeticamente la fine della stessa
Atene che, pochi anni dopo la composizione
della tragedia, sarebbe stata sconfitta dagli
Spartani e avrebbe conosciuto l’imposizione
di un regime oligarchico e la repentina conclusione della sua esperienza democratica.
Un tempo potente per il suo prestigioso matrimonio, la ricchezza della sua città, la forza
e la bellezza dei suoi figli, Ecuba è ormai una
donna anziana, vestita di stracci e bloccata
da catene: non le rimane altro che piangere i
propri morti e lamentare il destino di schiavitù che la attende. Tuttavia la vecchia regina
ritrova dignità e grandezza proprio nel rancore e nell’odio che riversa nei confronti di
Elena, che l’ha sprofondata in quella condizione, e mediante la sua reiterata e quasi ossessiva richiesta di vendetta, recupera il
proprio ruolo di guida, dando voce al dolore
di tutte le troiane vittime della stessa sorte. Il
personaggio di Ecuba, così come quello di
Andromaca e delle altre principesse troiane,
sedute sulla spiaggia, in attesa di essere assegnate come schiave a chi ha ucciso i loro
padri, mariti, figli è espressione della particolare ottica con cui Euripide guarda la guerra:
non dalla parte trionfale dei vincitori, ma da
quella triste e disarmata dei vinti, che rappresentano secondo l’autore il vero e ultimo
risultato di ogni guerra.
Le parole chiave
Bellezza, passione, follia: è la bellezza straordinaria di Paride, secondo Ecuba, ad aver
suscitato in Elena la passione amorosa, un
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sentimento governato dalla dea Afrodite, il cui
nome ha la stessa radice del termine afrosyne,
che significa “pazzia”. Bellezza, passione, follia sono quindi concetti reciprocamente legati
e il loro effetto è l’irruzione nella vita sociale di
una devastante irrazionalità che spinge gli esseri umani a compiere azioni ingiuste, immorali
e dannose.
Considerate dai Greci maggiormente in preda agli istinti, le donne cadono vittime della
passione con più facilità, tuttavia con la loro
bellezza esse sono a loro volta capaci di scatenare questo sentimento distruttivo. Per
questo Ecuba supplica Menelao di non fidarsi mai di Elena il cui fascino, inesorabile
come una forza di natura, travolge le difese
di chi la guarda provocando lutti e rovine.
La lingua e lo stile
Il procedimento dialettico: il dialogo tra
Ecuba ed Elena si sviluppa seguendo modalità che Euripide mutua dai sofisti, i filosofi che nel v secolo a. C. mettono in crisi i
principi fondanti del patrimonio culturale
della tradizione negando l’esistenza di una
verità unica e indiscutibile e affermando che
in una società possono coesistere opinioni,
concezioni e valori diversi, la cui prevalenza
non dipende dalla loro intrinseca validità ma
dalle capacità persuasive di chi li sostiene.
Partendo da questo presupposto, assumono un ruolo centrale gli aspetti tecnici
della comunicazione, e l’attività principale
dei sofisti consisterà soprattutto nell’insegnamento della retorica e della dialettica,
ossia la capacità di elaborare discorsi convincenti sul piano formale e sostenere qualunque tesi con adeguate argomentazioni.
Euripide discute il problema della responsabilità di Elena nell’esplosione del conflitto tra
greci e troiani applicando alla disputa la tecnica tipica dei sofisti, fondata sulla contrapposizione di tesi sostenute da argomenti
convincenti e logici. L’uso accorto del linguaggio finisce con mettere sullo stesso
piano ciò che è giusto e ciò che è ingiusto,
ciò che è vero e ciò è falso, rischio segnalato dalla Corifea la quale, riferendosi all’abilità verbale di Elena, sollecita Ecuba a
stare in guardia poiché “pur avendo operato
tanto male – ella parla bene: e questa è
cosa terribile”.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 A chi Elena attribuisce l’origine prima delle proprie sventure?
2 Ecuba cerca di convincere Menelao ……………………………...........................................................……………………….
3 Quali elementi dell’aspetto di Elena, secondo Ecuba, denunciano la vera natura della donna?
di
ffi
co
ltà
4 Qual è la decisione finale di Menelao?
Analisi
I personaggi
Vedi a p. 8
5 In che modo Menelao mostra il proprio disprezzo nei confronti di Elena?
6 Perché di Elena si dice che ha la chioma sozza di sangue? Quale figura retorica si cela in questa espressine?
7 Quale delle due contendenti sostiene la Corifea con i suoi interventi?
Le parole chiave
Vedi a p. 14
8 Nella parte conclusiva del brano Ecuba afferma che “non v’è amante che non
ami sempre”: che cosa intende dire con queste parole?
La lingua e lo stile
Vedi a p. 10
9 Abbina a ciascuna delle tesi sostenute da Elena la corrispondente risposta
di Ecuba.
Elena sostiene che
Il suo destino è stato dettato dalla
follia delle divinità
Paride l’ha portata via da Argo
con la forza
Ella ha sempre desiderato fuggire
da Troia
Produzione
Ecuba sostiene che
...................................................................................................................
...................................................................................................................
...................................................................................................................
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
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10 Quale delle due posizioni ti pare maggiormente persuasiva? Sostieni la tesi
che hai scelto con un’ulteriore argomentazione .
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lʼeroe nella tragedia attica
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L’eroe nella
tragedia attica
DAL MITO ALLA TRAGEDIA
Le tragedie attiche hanno come argomento episodi tratti dalla mitologia e
dall’epica, che i drammaturghi traducono in azione sulla scena, leggendo i fatti narrati in modo nuovo. Il mito, cioè, dà la struttura della storia, nota sia all’autore sia agli spettatori; la tragedia, attraverso personaggi e dialoghi, porta
una riflessione su quel fatto mitico, con argomenti nuovi.
Il poeta tragico peraltro non può intervenire sulla successione degli eventi che,
riprendendo direttamente il mito, sono per definizione immodificabili. Per questo motivo l’azione creativa dell’autore è tesa soprattutto a spiegare il modo
in cui la storia giungerà a una conclusione che è già nota al pubblico. A tale scopo i poeti tragici modificano in maniera a volte significativa particolari e dettagli dell’intreccio narrativo consegnato dalla tradizione. Conservano ben poco
dei tratti originari degli eroi protagonisti e li fanno diventare personaggi originali in grado di esprimere la propria visione del mondo. Per esempio, dal mito di
Oreste – che per vendicare l’assassinio del padre Agamennone uccide la madre
Clitemnestra – derivano le Coefore di Eschilo (vedi a p. 198), l’Elettra di Sofocle
e l’omonima tragedia di Euripide, tre testi che hanno protagonisti diversi e interpretano lo stesso mito da punti di vista molto differenti.
LO SCONTRO TRA NECESSITÀ E VOLONTÀ
All’origine dei fatti narrati nelle tragedie c’è sempre una macchia (in greco mìasma) che segna l’esistenza del protagonista. È una situazione involontaria, ignota o trasmessa come una maledizione familiare, causata da una successione inarrestabile di eventi o conseguente a una scelta obbligata tra due trasgressioni egualmente inique. Ciò che il personaggio si troverà a compiere dà al drammaturgo
l’occasione di riflettere sulla condizione dell’uomo, stretto tra la coercizione degli dei – i cui piani imperscrutabili determinano l’agire umano – e la volontà di rivendicare la propria dignità mediante la libertà di scelta.
L’eroe tragico, che non può risolvere il conflitto tra ciò che gli è imposto dal destino e la sua propria volontà, appare destinato alla sconfitta ed è costretto, alla
fine, a riconoscere la propria impotenza di fronte alla Moira. Nell’indagare i sentimenti e le ragioni che spingono l’eroe all’azione, la tragedia greca è ancora oggi
un potente strumento di analisi sui temi del male e del dolore che affliggono
la condizione degli uomini.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Eschilo
La vendetta di Oreste
genere
tragedia
tratto da
Coefore
(vv. 123-509
nel testo greco)
L’OPERA
L’Orestea di Sofocle è l’unica trilogia tragica sviluppata intorno a un personaggio che ci sia pervenuta completa e assume un’importanza particolare
poiché illustra le modalità attraverso cui l’autore indaga i nessi che intercorrono tra le vicende di una stirpe.
Agamennone – È il primo dramma della trilogia e si svolge intorno alla reggia degli Atridi in Argo.
Quando Agamennone ritorna da Troia portando come preda di guerra Cassandra, la moglie Clitemnestra lo accoglie con gioia ma, appena entrati nel
palazzo, lo invita al bagno dovuto a chi rientra dopo una lunga assenza e con
l’aiuto dell’amante Egidio lo uccide con un’accetta nella vasca di pietra. Cassandra, fuori dalla reggia, annunzia profeticamente la strage che l’adultera sta
per compiere e la vendetta che seguirà. Subito dopo anche la troiana muore
per mano di Clitemnestra che si giustifica al coro ricordando la lunga scia di
sangue lasciata dagli Atridi, il cui ultimo atto è stato l’uccisione della figlia
Ifigenia, sacrificata dal padre prima della spedizione militare contro Troia.
Infine Clitemnestra si ritira nel palazzo con Egidio.
Coefore – La vicenda narrata nel secondo dramma si svolge ancora ad Argo,
dieci anni dopo.
Ubbidendo all’ordine di Apollo, Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra,
torna di nascosto in città con l’amico Pilade per vendicare l’uccisione del padre.
Mentre depone offerte sulla tomba di Agamennone, sopraggiunge uno stuolo
di fanciulle che portano libagioni (le coefore) guidate dalla sorella Elettra, a cui
poco dopo Oreste si rivela spiegando le ragioni della sua presenza in Argo.
Fingendosi un forestiero, l’eroe si presenta a palazzo per chiedere ospitalità.
Qui viene accolto da Clitemnestra cui racconta che Oreste è morto e che a lui
sono state affidate le ceneri da consegnare ai genitori. Alla notizia Clitemnestra chiama Egisto ed esce di scena. Appena varcata la soglia del palazzo,
Egisto viene ucciso da Oreste. Al sopraggiungere della madre l’eroe brandisce di nuovo la spada, esitando però dinanzi al seno che lo ha nutrito. Pilade
gli ricorda il comando di Apollo e Oreste, trascinata la donna nel palazzo, la
uccide accanto all’amante, proclamando di aver compiuto giustizia per ordine di Apollo che nel tempio di Delfi lo purificherà del sangue versato.
anno
V-IV secolo
a.C.
luogo
Grecia
Oreste e Pilade, in un
affresco della Casa del
Centenario a Pompei.
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lʼeroe nella tragedia attica
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Eschilo nasce a Eleusi intorno al 525. Partecipa alle guerre persiane combattendo nelle battaglie di Maratona (490), Salamina (480) e Platea (479). Le sue prime vittorie negli agoni drammatici risalgono al
485. Nel 471 si trasferisce presso la corte di Ierone di Siracusa e successivamente ritorna ad Atene,
dove trionfa con una trilogia tragica legata al ciclo tebano.
Ritornato in Sicilia, muore a Gela nel 459 e la sua tomba diviene ben presto meta di pellegrinaggi.
Oltre a numerosi frammenti di opere inseriti in testi di altri autori, di Eschilo sono pervenute solo sette
tragedie complete: Persiani (472), Sette contro Tebe (467), Supplici (di datazione incerta, probabilmente rappresentata nel 463), Prometeo incatenato (collocabile tra il 470 e il 460) e la trilogia dell’Orestea (458), costituita da Agamennone, Coefore ed Eumenidi, con cui il poeta vince per l’ultima
volta un concorso drammatico.
Eumenidi – L’azione inizia nel santuario di Apollo a Delfi dove Oreste viene
difeso da Apollo dalla furia delle mostruose Erinni, le divinità che vendicano
i delitti contro i familiari torturando il reo fino a farlo impazzire.
Inviato dal dio ad Atene, Oreste viene assolto da un tribunale di cittadini ma lo
spettro di Clitemnestra incita alla vendetta le Erinni, che inseguono l’eroe e lo raggiungono davanti al tempio di Pallade Atena. Appare la dea, che istituisce l’Areopago, un nuovo tribunale cittadino che si impegna a giudicare il caso di Oreste
con equità. Durante il processo le Erinni accusano Oreste di aver violato i legami
di sangue, ma Apollo replica che l’eroe ha agito per vendicarsi di colei che, assassinando il marito, ha infranto il legame altrettanto sacro del matrimonio.
Alla fine del dibattito Oreste viene assolto grazie al voto favorevole di Atena
che placa le Erinni assicurando loro culto e onori in Atene.
Il dramma si conclude con il corteo del popolo che accompagna le nuove dee
le quali, ormai placate e benevole, assumono il nome di Eumenidi. Esse saranno garanti della legge, attraverso la paura che ispireranno ai cittadini.
LA SCENA
Rientrato in incognito ad Argo con l’amico Pilade, Oreste si reca sulla tomba
del padre dove depone alcuni riccioli dei suoi capelli in segno di devozione e
gratitudine. Poco dopo sopraggiunge sua sorella Elettra insieme a un gruppo
di fanciulle inviate da Clitemnestra per offrire sacrifici che plachino l’ira del
defunto. Rivolgendosi a loro, che fungono da coro, la ragazza esprime il proprio dolore per l’uccisione del padre e l’indegno comportamento della madre;
dice la sofferenza per le condizioni in cui è costretta a vivere, chiedendo agli
dei che la aiutino in ogni modo a ottenere giustizia.
(versando da una coppa le libagioni1 sulla tomba) Ascolta, Ermes infero,2 e
proclama questo mio voto: gli dei di sotterra,3 che custodiscono lo sguardo di mio
padre, e la terra stessa, che tutto genera e alleva e poi ne accoglie ancora il germe,
ascoltino le mie preghiere! E io, queste acque lustrali4 versando in onore dei morti,
invocando mio padre dico: «Abbi pietà di me e del diletto Oreste; come torneremo padroni di queste case? Poiché ora distrutti siamo e in qualche modo erranti
per volontà della madre: ed essa come marito si è preso in cambio Egisto, che è
complice della tua strage.5 E io son quasi una schiava, e Oreste è esule dai suoi
averi, mentre quelli,6 insolentemente, molto insuperbiscono nel frutto delle tue
fatiche. Venga qui Oreste con buona sorte, ti prego; e tu ascoltami, padre: a me
concedi ch’io sia molto più casta di mia madre e più pia per la mano.7 Questi i voti
per noi: e per i nemici io chiedo che apparisca, padre, il tuo vendicatore, e secondo giustizia ricambi con uccisione chi ha ucciso. Questo io pongo al centro
della mia sinistra imprecazione, mentre contro di essi pronunzio questa sinistra
imprecazione: a noi invece invia quassù buon esito, con l’aiuto degli dei e della
terra e di Dike8 vittoriosa». Su questi voti queste libagioni io verso (esegue; al coro):
a voi, come è costume, coronarle di gemiti intonando il peana9 in onore del morto.
ELETTRA
1. libagioni: offerta alle
divinità o ai morti di vino,
latte o altri liquidi.
2. Ermes infero: una
delle prerogative di
Ermes consiste
nell’accompagnare le
anime dei defunti agli
Inferi, da cui l’appellativo
di “psicopompo”.
3. di sotterra: degli
Inferi.
4. lustrali: offerte in
sacrificio.
5. della tua strage:
della tua morte.
6. quelli: la madre
Clitemnestra e il suo
amante Egidio.
7. più pia per la mano:
e che la mia mano sia più
pietosa.
8. Dike: figlia di Zeus e
Temi, è la dea della
giustizia che regola la
convivenza umana, ma è
anche la custode
dell’ordine cosmico
stabilito da Zeus ed
interviene quando esso
viene violato.
9. peana: canto corale
commemorativo in onore
di divinità e uomini
illustri.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
[Elettra osserva turbata come capelli sulla tomba del padre siano simili ai suoi e, piena di speranza, non
riesce tuttavia a dare a se stessa una spiegazione convincente. Frattanto Oreste esce dall’ombra e le si
avvicina.]
(avanzando verso Elettra, seguito da Pilade)10 Prega che le altre cose, pronunciando voti agli dei perché compiano,11 felicemente avvengano.
ELETTRA Che cosa dunque mi tocca ora per volontà degli dei?
ORESTE Sei giunta alla vista di chi da lungo tempo bramavi.
ELETTRA E sai tu chi fra i mortali invocavo?
ORESTE So che molto invocavi appassionatamente Oreste.
12
ELETTRA E in che cosa dunque conseguo i miei voti?
ORESTE Sono io: non cercare altri, che ti ami più di me.
13
ELETTRA (guardinga) Forse, o straniero, qualche inganno ordisci intorno a me?
ORESTE In tal caso, tramo insidie contro me stesso.
ELETTRA (come sopra) Vuoi dunque ridere delle mie sventure?
ORESTE E anche delle mie, allora, se proprio rido delle tue.
ELETTRA (dubbiosa) Mi rivolgerò dunque a te, sicura che tu sei Oreste?
ORESTE Ora che mi vedi in persona, stenti a riconoscermi: invece, quando vedesti questa ciocca recisa per l’offerta funebre, la speranza ti diede le ali e ti parve
di vedermi, e così quando esaminavi le mie orme.14 Il ricciolo di tuo fratello, simile a quelli della tua testa, ponilo là donde fu reciso, e osserva; e guarda questo
tessuto; opera della tua mano, e i colpi della spatola nel disegno della scena di caccia. Ritorna in te, non smarrir l’anima per la gioia: so bene che i nostri parenti
più cari sono a noi due ostili.
CORIFEA O desiderio carissimo della casa del padre, lacrimata speranza di seme di
salvezza, nel tuo coraggio fidando riacquisterai la casa del padre!
ELETTRA Occhio mio soave, tu per me adempi a quattro uffici: padre è necessario che io ti chiami; poi cade in te 1’amore per mia madre – che giustissimamente è odiata – e per la sorella spietatamente sacrificata;15 tu eri infine per me
il fratello fedele, che solo mi restituisci alla dignità dovutami. Mi assista Kratos 16
e anche Dike e Zeus per terzo, che di tutti è il più grande!
17
ORESTE Zeus, Zeus, sii spettatore di questi fatti! Guarda la stirpe dell’aquila,
18
orba del padre ucciso fra le spire e le volute di terribile vipera. E gli orfani opprime digiuna fame: poiché non può portare al nido la cacciagione paterna. In
questa condizione puoi vedere me e costei, dico Elettra, prole orba di padre, entrambi in esilio dalla loro stessa casa: e se tu distruggi questi piccoli di un padre
che a te sacrificava e molto ti onorava, donde potrai avere offerte da mano parimente generosa? E se distruggi la stirpe dell’aquila, non potrai ancora mandare
ai mortali segni suadenti,19 e questo tronco regale tutto, una volta inaridito, non
darà aiuto presso gli altari nei giorni dei sacrifici. Proteggici: da umile stato tu
puoi innalzare a grandezza la casa, che ora sembra del tutto caduta.
CORIFEA O figli, o salvatori del focolare paterno, tacete, o figli, perché nessuno
sappia né, per il piacere di parlare, riveli tutto ciò a quelli che comandano: possa
io un giorno vederli morti in resinoso vapore di fiamma!
20
ORESTE Certo, non mi tradirà l’oracolo molto possente del Lossia, che mi ordina di
attraversar questo rischio, alto gridando e pronunciando gelidi tormenti al caldo
mio cuore, se non perseguo gli uccisori di mio padre, allo stesso modo ricambiandoli di morte, inferocito come un toro per il danno della mia eredità. E diceva che
ORESTE
10. Pilade: cugino di
Oreste e suo amico
inseparabile.
11. perché compiano:
affinché essi le realizzino.
12. E in che cosa
dunque conseguo i
miei voti?: e in che
modo i miei desideri sono
stati realizzati?
13. guardinga :
sospettosa, diffidente.
14. così quando
esaminavi le mie orme:
poco prima osservando le
impronte nei pressi della
tomba, Elettra si era
stupita che fossero uguali
a quelle dei suoi piedi. Le
orme dei piedi nel mondo
greco arcaico erano
considerati veri e propri
calchi della persona
assente.
15. sorella
spietatamente
sacrificata: Ifigenia,
sorella di Elettra, viene
sacrificata dal padre
Agamennone per placare
la collera di Artemide che
blocca la flotta achea in
Aulide; secondo il mito
all’ultimo momento la
dea ha pietà di lei e,
messa al suo posto una
cerbiatta,
la porta in Tauride dove
ne fa la sua
sacerdotessa.
16. Kratos:
personificazione della
forza, che esegue la
volontà di Zeus
17. la stirpe dell’aquila:
i discendenti di
Agamennone, Oreste ed
Elettra.
18. orba: priva,
mancante.
19. segni suadenti:
oracoli convincenti.
20. Lossia: appellativo di
Apollo che si riferisce alle
capacità oracolari del dio
(da loxias, l’oscuro).
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
lʼeroe nella tragedia attica
con la vita avrei scontato la trasgressione, in molti ingrati tormenti.21 E il modo di
placare le potenze ostili di sotterra rivelò ai mortali: ma predisse anche, per noi due,
morbi che assalgono le carni con selvagge mascelle,22 lebbra divorante il corpo antico,23 onde il male fa sorgere bianchi lembi.24 E altri assalti delle Erini prediceva,
compiuti dal sangue paterno, che avrei visto movendo nella tenebra il fulgido occhio:
poiché il dardo tenebroso degl’inferi, scagliato dai consanguinei uccisi che chiedono
vendetta, e il furore e il vano terrore delle notti turba e sconvolge. E disse che dalla
città, oltraggiato corpo, sarei scacciato con bronzeo flagello.25 A siffatti esseri26 non
è lecito avere parte nelle libagioni, non libarne offerte:27 dagli altari li respinge, non
veduta, l’ira del padre; e nessuno li accoglie o li ospita. E da tutti inonorati e odiati
morranno,28 col tempo, malamente disseccati da perniciosa tabe.29 A tali oracoli bisogna dunque credere? Ma anche se non credo, l’opera dev’esser compiuta. Poiché
molti desideri in un sol punto coincidono: gli ordini del dio e il dolore grande per
mio padre; e mi opprime inoltre povertà, perché cittadini gloriosissimi fra tutti, distruttori di Troia con glorioso animo, non siano, in tal modo, soggetti a due donne:30
cuor di femmina ha Egisto;31 e se non è vero, lo saprà presto.
[Elettra e le Corifee iniziano il lamento per Agamennone, rievocando la vergognosa uccisione a tradimento
che ha dovuto subire e supplicando le divinità degli Inferi ed Agamennone stesso affinché aiutino i figli
a fare giustizia.]
(inginocchiandosi sulla tomba e toccandone la terra con le mani) Padre, ucciso
in modo indegno di un re, ti supplico: dammi il potere della tua casa!
ELETTRA (c.s.) Anch’io, padre, questo attendo da te: salvami dopo aver inferto
grande rovina ad Egisto!
ORESTE Così, saranno approntati per te i conviti rituali degli uomini: altrimenti,
in mezzo ai morti che godono di offerte, tu sarai senza onori, senza le vittime
della terra consunte nel fuoco.
ELETTRA Anch’io, della mia eredità, libagioni nuziali ti porterò dalle case paterne:
prima di ogni cosa io onorerò questa tomba.
ORESTE O Terra, rimandami il padre che sorvegli la lotta!
32
ELETTRA O Persefone, concedi ancora splendida vittoria!
33
ORESTE Ricordati del bagno, nel quale fosti ucciso, padre!
34
ELETTRA Ricordati, quale strana rete inventarono!
35
ORESTE In ceppi senza bronzo fosti serrato, padre!
36
ELETTRA E turpemente in veli premeditati!
ORESTE Ti risveglierai dunque a queste infamie, padre?
ELETTRA Non risollevi il capo tuo dilettissimo?
ORESTE Giustizia dunque invia come alleata ai tuoi cari: ovvero concedi in cambio che noi usiamo gli stessi mezzi, se, vinto, vuoi vincere a tua volta.
ELETTRA E questo estremo grido ascolta, padre: guarda questi piccoli presso la tua
tomba, la femmina e la prole maschile insieme: abbi pietà!
37
ORESTE Non cancellare questa stirpe dei Pelopidi: in tal modo, pur morto, non
sarai morto.
ELETTRA Per un eroe morto i figli sono fama salvatrice: e come sugheri sostengono la rete salvando dal profondo i ritorti lini.38
ORESTE Ascolta, per te sono questi lamenti: e tu ti salvi onorando questa parola.
ORESTE
da Eschilo, Coefore, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori, Milano 1992
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21. E diceva che con la
vita avrei scontato la
trasgressione, in molti
ingrati tormenti: e
l’oracolo di Apollo diceva
che nel caso non avessi
ubbidito ai suoi comandi,
per tutta la vita sarei stato
punito con atroci tormenti.
22. morbi che assalgono
le carni con selvagge
mascelle: malattie che
dilaniano la carne.
23. lebbra divorante il
corpo antico: piaghe che
devastano l’aspetto
originario del corpo.
24. onde il male fa
sorgere bianchi lembi:
sofferenze che rendono i
capelli bianchi.
25. con bronzeo flagello:
con le armi.
26. siffatti esseri: a coloro
che non rispettano le divinità.
27. non è lecito avere
parte nelle libagioni, non
libarne offerte: non
possono prendere parte a
riti e sacrifici perché sono
considerati impuri.
28. da tutti inonorati e
odiati morranno: e
morranno odiati e
disprezzati da tutti.
29. malamente disseccati
da perniciosa tabe:
prosciugati da una malattia
mortale.
30. due donne: Clitemnestra
ed Egidio che viene definito
donna per la sua viltà.
31. cuor di femmina ha
Egisto: è vile come una donna.
32. Persefone: la regina
degli Inferi, sposa di Ade.
33. Ricordati del bagno:
Agamennone viene ucciso
da Clitemnestra mentre fa il
bagno.
34. quale strana rete
inventarono: per evitare
che le sfuggisse,
Clitemnestra ha bloccato il
marito in una rete.
35. In ceppi senza bronzo
fosti serrato: ti fecero
prigioniero senza usare
catene.
36. in veli premeditati: con
un inganno premeditato.
37. Pelopidi: discendenti di
Pelope, il progenitore della
dinastia.
38. come sugheri
sostengono la rete
salvando dal profondo i
ritorti lini: come sugheri
che sostengono la rete
evitando che i fili
scompaiano nelle profondità
del mare.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
APPROFONDIMENTO
Oreste nel mito
Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra, ancora bambino viene portato di nascosto a Cirra, in
Focide, dove il re Strofio, marito della sorella di Agamennone lo alleva insieme al figlio Pilade.
Divenuto adulto, Apollo gli ordina di uccidere Egisto e Clitemnestra per vendicare la morte del
padre, ma il suo gesto provoca la persecuzione delle Erinni che lo costringono a rifugiarsi nel
tempio del dio a Delfi. Nel processo che viene istruito nei suoi confronti nell’Areopago di Atene
interviene come difensore lo stesso Apollo, ma solo grazie al voto di Atena egli viene assolto.
Un episodio del mito che lo riguarda si riferisce al matrimonio dell’eroe con Ermione, la figlia di Menelao e Elena, cui Oreste è stato promesso sin da bambino. Quando Menelao decide, invece di offrire
Ermione in sposa a Neottolemo, Oreste rapisce la ragazza che successivamente gli darà un figlio,
Tisameno. In seguito l’eroe diviene re di Argo e anche di Sparta, dove succede a Menelao. Secondo
un’altra tradizione, la sua tomba si trovava a Tegea dove a Oreste venivano tributati onori divini.
STRUMENTI DI LETTURA
I personaggi
Le Erinni: oltre ai personaggi fisicamente
presenti sulla scena come Elettra e Oreste, il
vero motore dell’Orestea sono le Erinni, geni
alati con serpenti al posto dei capelli che vivono nell’Erebo, la parte più profonda degli
Inferi. Il compito essenziale delle Erinni è
vendicare i delitti – in particolar modo quelli
commessi contro la famiglia – poiché essi costituiscono un’inaccettabile alterazione dell’ordine cosmico. Dopo il sacrificio di Ifigenia
sono loro a scatenare una lunga scia di lutti,
prima spingendo Clitemnestra a uccidere il
marito per vendetta, poi punendola del suo
atto per mano del figlio e infine perseguitando Oreste come matricida.
La spaventosa furia delle Erinni traspare nelle
profetiche parole che Apollo rivolge a Oreste:
prima l’eroe sarà colpito da malattie atroci e
dolorose (morbi che assalgono le carni con
selvagge mascelle, lebbra divorante il corpo
antico, onde il male fa sorgere bianchi lembi…
malamente disseccati da perniciosa tabe), poi
sarà bandito dalla città (oltraggiato corpo, sarei
scacciato con bronzeo flagello) e infine sarà
costretto a errare di luogo in luogo fino al momento in cui potrà purificarsi del suo crimine.
I temi
La macchia, il mìasma: le tragedie di Eschilo
sono costruite su una dinamica cui nessuno
dei protagonisti riesce a sfuggire. Secondo la
concezione della vita umana riportata dalla tragedia eschilea, agli uomini viene assegnato un
particolare limite entro il quale è lecito che essi
agiscano. Quando qualcuno di loro lo oltrepassa, compie un atto di hybris cioè di “prevaricazione”, che deve essere punito dagli
dei, sdegnati dal comportamento umano. Non
è detto che la macchia generata dall’atto di hybris sia del tutto lavata da chi l’ha compiuta,
talvolta ricade sui figli all’interno della famiglia
e segna negativamente un’intera stirpe. Inoltre, per rimediare a un atto di hybris si può talvolta compierne un altro, inaugurando così
una terribile catena senza sosta.
Oreste è l’ultimo discendente dei Pelopodi,
una stirpe segnata da un delitto originario la
cui colpa ricade sulle generazioni seguenti:
Pelope, figlio di Tantalo, da bambino viene
ucciso e fatto a pezzi dal padre che ne offre le
carni agli dei, i quali si accorgono del terribile
banchetto loro offerto e riportano in vita il
bambino, mentre Zeus maledice Tantalo e la
sua discendenza.
I delitti di sangue proseguono con i figli di Pelope, Atreo e Tieste, che uccidono il fratellastro Crisippo e per questo vengono a loro
volta maledetti dal padre. Successivamente
Atreo si vendica di Tieste, che gli ha sedotto
la moglie, invitandolo a un banchetto dove, a
sua insaputa, gli fa mangiare il corpo dei tre
figli. Egisto, il figlio di Tieste, punisce con la
morte il misfatto di Atreo i cui discendenti
continuano a spargere il sangue dei familiari.
Agamennone, re di Argo, sacrifica in Aulide
la figlia Ifigenia per propiziarsi la benevolenza
di Artemide ma al suo ritorno da Troia viene
trucidato dalla moglie Clitemnestra che intende vendicare l’innocente creatura. Nem-
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lʼeroe nella tragedia attica
meno Oreste sfugge alla contaminazione del
delitto e per fare giustizia della morte del
padre, seguendo i dettami di Apollo, si macchia del più atroce tra i crimini di sangue, il
matricidio (l’oracolo molto possente del Lossia, che mi ordina di attraversar questo rischio, alto gridando e pronunciando gelidi
tormenti al caldo mio cuore, se non perseguo
gli uccisori di mio padre).
Libertà e necessità: quale margine di scelta,
dunque, ha l’individuo rispetto a un destino
che spesso appare condizionato da eventi
molto lontani nel tempo? Questa domanda attraversa tutta la produzione teatrale di Eschilo,
secondo il quale le divinità non intervengono
nell’esistenza umana per capriccio o invidia –
come si riteneva in epoca omerica – ma agiscono secondo giustizia, punendo l’atto di
chi, con il suo comportamento, ha oltrepassato il limite posto agli uomini. Non c’è contraddizione, quindi, tra Fato e responsabilità individuale poiché l’uomo imbocca
liberamente la propria strada ma deve sottostare alle inevitabili conseguenze delle sue
azioni poiché il suo destino – e quello dei suoi
discendenti – è soggetto a un ineludibile criterio di giustizia secondo cui chi è colpevole
presto o tardi verrà punito. Il conflitto tra la necessità imposta dal Fato e la libertà di scelta
rimanda al mistero del rapporto tra uomini e
dei: in Oreste si risolve nel momento in cui
l’eroe comprende la perfetta corrispondenza
tra la sua volontà e ciò che gli dei gli impongono di fare (…anche se non credo, l’opera
dev’esser compiuta. Poiché molti desideri in
un sol punto coincidono: gli ordini del dio e il
dolore grande per mio padre).
Giustizia e vendetta: le Coefore si fondano
su un’idea arcaica di giustizia, che si identifica con la vendetta, come dimostrano le parole di Elettra la quale, sulla tomba del padre,
chiede l’apparizione di un vendicatore che
“secondo giustizia ricambi con uccisione chi
ha ucciso”. La tragedia pone un caso limite,
in proposito: se poniamo che sia giusto vendicare morte con morte, quando questo avviene all’interno di una stessa famiglia, da
parte di un figlio verso la madre, il sistema
della vendetta può ancora essere ritenuto valido per ristabilire la giustizia? La risoluzione
della domanda sembrerebbe essere proposta dall’ultima tragedia della trilogia, le Eumenidi, in cui alla pratica della vendetta viene
sostituita quella del giudizio in tribunale.
Le parole chiave
L’esilio: si tratta di una condizione ricorrente nella storia degli eroi che spesso vengono allontanati dalla patria perché accusati
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di una colpa effettivamente commessa o attribuita loro ingiustamente.
Nel dialogo tra Elettra e Oreste nel termine esilio la valenza letterale si sovrappone a quella
metaforica: entrambi sono stati esclusi da
quanto spettava loro di diritto, Oreste perché
è stato privato dei suoi beni (esule dai suoi
averi), mentre a lei – che per rango dovrebbe
essere la padrona della reggia – sono state
tolte la libertà e la dignità (quasi una schiava).
Successivamente le parole di Oreste ribadiscono il comune destino di esclusione (entrambi in esilio dalla loro stessa casa). Anche
nella tremenda profezia di Apollo l’esilio appare come la somma punizione per l’eroe che
si sottrarrà al suo compito. L’esilio è ritenuto
una condizione terribile perché nella cultura
della polis l’appartenenza alla propria città
permetteva di essere identificati, riconosciuti
e collocati all’interno di una famiglia e della
comunità stessa. Essere esiliati significava
l’esclusione dal consesso umano e civile
(dalla città, oltraggiato corpo, sarei scacciato
con bronzeo flagello), nel quale si vive e si è
riconosciuti. Perciò l’esilio è una condizione
che equivale alla morte.
La lingua e lo stile
Le figure retoriche: rivolgendosi a Zeus,
Oreste rievoca il crudele assassinio di Agamennone da parte di Clitemnestra rappresentando i due rispettivamente come un’aquila e
una vipera (Guarda la stirpe dell’aquila, orba
del padre ucciso fra le spire e le volute di terribile vipera), con una metafora che può essere interpretata a più livelli.
L’aquila, animale sacro a Zeus, simboleggia
infatti la potenza e la regalità – doti che ben si
addicono ad Agamennone, re di Argo e capo
dell’esercito acheo – e nella cultura greca
essa è tradizionalmente considerata nemica
della vipera. Dunque che la vipera-Clitemnestra abbia ucciso l’aquila-Agamennone stritolandolo tra le sue spire potrebbe quindi
significare che il re di Argo è stato assassinato con l’inganno e non in un leale scontro.
Inoltre, nelle Storie di Erodoto, lo scrittore
greco vissuto nel V secolo a.C., viene riportata
la notizia che la femmina della vipera, dopo
essersi accoppiata, uccide il maschio divorandolo. Questo atto suscita il desiderio di
vendetta nei piccoli i quali, al momento della
nascita, squarciano il ventre della madre e la
uccidono. Questa immagine è stata spesso
collegata alla mitica vicenda del matricida
Oreste, anche perché, proprio nelle Coefore,
prima del ritorno dell’eroe, in un sogno premonitore, Clitemnestra si vede partorire un
serpente che le succhia il sangue dal seno.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Dove si svolge la scena?
2 All’inizio del brano a chi Elettra rivolge la propria preghiera?
3 Chi ha imposto a Oreste di tornare ad Argo?
di
ffi
co
ltà
4 Che cosa chiedono Elettra e Oreste allo spirito di Agamennone?
Analisi
I temi
Vedi a p. 14
5 In quale punto del testo compare un riferimento alla colpa contro il proprio
sangue commessa da Agamennone?
6 Con quale artificio Clitemnestra è riuscita a uccidere Agamennone?
7 Che cosa pensi dell’idea di giustizia che emerge in questo brano? Credi che
essa sia stata effettivamente superata o in determinate situazioni il desiderio di vendetta affiora ancora oggi?
I personaggi
Vedi a p. 8
8 Quali prove convincono Elettra dell’identità del fratello?
9 Per quali ragioni il legame di Elettra nei confronti di Oreste è più forte dell’usuale?
La lingua e lo stile
Vedi a p. 13
10 Con quale metafora Oreste rappresenta se stesso e la sorella quando chiede a Zeus di proteggerli affinché possano portare a termine il loro piano?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
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11 Riassumi il contenuto del brano in terza persona, sostituendo ai dialoghi il discorso indiretto.
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lʼeroe nella tragedia attica
Sofocle
La follia dell’eroe
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genere
tragedia
tratto da
Aiace
(vv. 1-133; 430-480
nel testo greco)
L’OPERA
L’azione si svolge nell’accampamento acheo dove Aiace, umiliato dall’assegnazione delle armi di Achille a Odisseo e portato alla follia dalla dea Atena,
durante la notte fa strage di pecore e buoi che scambia per i suoi compagni
d’arme dei quali vuole vendicarsi.
Il mattino dopo l’eroe torna in sé e comprende di aver compiuto un atto vergognoso che lo ha ulteriormente disonorato. Per questo motivo decide di suicidarsi e nonostante la concubina Tecmessa, madre del piccolo Eurisace,
cerchi di dissuaderlo in ogni modo, si allontana dall’accampamento, raggiunge la riva del mare e si uccide gettandosi sulla spada donatagli da Ettore
al termine di un duello.
Alla scoperta del cadavere Teucro, fratello di Aiace, si scontra violentemente
con gli Atridi Agamennone e Menelao i quali, avendo tenacemente odiato
l’eroe quand’era in vita, vorrebbero ora punirne l’insubordinazione abbandonando il suo corpo agli uccelli e ai cani.
Sostenuto da Odisseo, Teucro riesce però a ottenere la giusta sepoltura per
il fratello e il dramma si conclude con la celebrazione del rito funebre al quale
sono presenti solo Tecmessa, il figlio e lo stesso Teucro.
anno
V-IV secolo
a.C.
luogo
Grecia
LA SCENA
La follia di Aiace
L’azione inizia all’alba, dinanzi alla tenda di Aiace, con un dialogo tra la dea
Atena e Odisseo mediante il quale il pubblico viene a conoscenza di quanto
è appena accaduto: poiché non gli sono state assegnate le armi di Achille,
Aiace si è furtivamente introdotto tra le tende dei guerrieri achei per farne
strage ma, reso folle da Atena, ha massacrato il bestiame e i suoi guardiani,
coprendosi di ridicolo e di vergogna.
Per umiliarlo ulteriormente e portare a compimento la sua vendetta, Atena
convince l’eroe a uscire dalla tenda in cui si è rinchiuso e gli fa narrare la sua
impresa al cospetto di Odisseo, reso invisibile mediante un sortilegio. Aiace
racconta orgogliosamente di aver fatto scempio di molti Achei e di averne
catturati altri che ora tiene prigionieri nella sua tenda, tra i quali c’è Odisseo
– in realtà un montone – che ha legato al centro della tenda e che sta torturando lentamente.
Ti ho sempre visto, figlio di Laerte,1 in atteggiamento di chi caccia,
pronto a cogliere un’opportunità contro i tuoi nemici; ed ora, davanti alla tenda
di Aiace, sul mare, qui dove egli occupa la posizione estrema,2 ti scorgo intento
già da tempo a seguire ed esaminare le sue orme recenti, per capire se si trova
o no nella tenda. E ben ti guida il tuo passo dal fiuto sottile, come di cagna lacena:3 l’uomo,4 infatti, è da poco rientrato, col capo madido di sudore e le mani
cruente.5 Non hai più alcun motivo di spiare dentro a questa porta. Dimmi
piuttosto perché ti sei preso questa cura: io so, e da me potrai apprendere ogni
cosa.
6
ODISSEO O voce di Atena, la dea a me più cara, come distinta, sebbene non ti
possa scorgere,7 io intendo la tua voce, e l’accolgo nel mio cuore quale bronzeo squillo di tromba tirrena!8 Sì, anche questa volta hai colto nel segno: mi agATENA
1. figlio di Laerte:
Odisseo.
2. dove egli occupa la
posizione estrema:
nell’Iliade le tende di
Aiace e di Achille si
trovano alle estremità
opposte del campo
acheo, mentre quella di
Odisseo è situata al
centro
dell’accampamento.
3. cagna lacena: simile
a quello delle cagne della
Laconia, note per il loro
olfatto. La Laconia è una
regione meridionale della
Grecia.
4. l’uomo: Aiace.
5. cruente: insanguinate.
6. la dea a me più cara:
Atena è la protettrice di
Odisseo.
7. sebbene non ti
possa scorgere: Atena
si trova in un punto della
scena dal quale risulta
invisibile ad Odisseo.
8. bronzeo squillo di
tromba tirrena: la
tromba degli Etruschi (o
Tirreni) era nota per il suo
suono penetrante.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Sofocle nasce ad Atene nel 496. Nel 468 sconfigge Eschilo in un concorso tragico, nel 440
viene eletto stratego con Pericle e nel 413 – dopo la disfatta ateniese in Sicilia – partecipa
a una magistratura eccezionale istituita per fronteggiare il difficile momento. Assume anche
diversi incarichi religiosi e dopo la sua morte, avvenuta nel 406 ad Atene, gli viene tributato il culto dovuto agli eroi.
Delle centotrenta opere attribuitegli, sono giunte integre sino a noi sette tragedie, delle
quali sono databili in modo certo solo l’Antigone (442) e il Filottete (409), mentre per le rimanenti viene ipotizzata la seguente successione: Aiace, Edipo re, Trachinie, Elettra, Edipo
a Colono.
Dell’autore ci sono pervenuti anche i primi quattrocento versi del dramma satiresco I cercatori di tracce e oltre 1100 frammenti di altri opere.
9. nemico: Aiace, che
appartiene allo
schieramento acheo, è
un nemico per il modo in
cui ha reagito
all’attribuzione delle armi
di Achille.
10. portatore di scudo:
epiteto che nell’Iliade
definisce Aiace.
11. due comandanti: i
due Atridi, Agamennone,
capo dell’esercito greco,
e Menelao, signore di
Sparta.
giro in cerca di un nemico,9 di Aiace portatore di scudo;10 di lui, e di nessun
altro, seguo da tempo le tracce. Un gesto inconcepibile egli ha compiuto contro di noi questa notte, se pure è stato lui l’autore del fatto: nulla infatti sappiamo di chiaro, ma vaghiamo nel dubbio; ed io, spontaneamente, mi sono
sobbarcato la fatica di questa ricerca. Poco fa abbiamo trovato ucciso tutto il
bestiame, trucidato da mano d’uomo insieme con i guardiani stessi. Tutti ne attribuiscono la colpa a lui. Anzi, un testimone lo vide percorrere da solo la pianura, a grandi balzi, con in pugno la spada intrisa di fresco sangue, mi ha
riferito il fatto, precisandone i particolari. Subito mi lancio sulle sue tracce: alcune le identifico, ma per altre rimango perplesso, e non so comprendere a chi
appartengano. Sei giunta a proposito: in tutto, nel passato come nel futuro, io
mi lascio guidare dalla tua mano.
ATENA Lo so, Odisseo, e da tempo mi sono messa sui tuoi passi, vigile custode
della tua caccia.
ODISSEO Dunque, amata signora, la mia fatica non è vana?
ATENA Sì, perché questa è opera sua.
ODISSEO E a che scopo egli spinse così la mano insana?
ATENA Era gravato dall’ira per le armi di Achille.
ODISSEO Ma perché è piombato con tale impeto contro il bestiame?
ATENA Credendo di immergere la mano nel vostro sangue.
ODISSEO Questo suo proposito era dunque rivolto agli Argivi?
ATENA E l’avrebbe attuato, se io non avessi provveduto.
ODISSEO Ma con quale ardire, con quale furia dell’animo?
ATENA Di notte, solo, furtivo, si diresse contro di voi.
ODISSEO E riuscì ad arrivarvi? Raggiunse la sua méta?
11
ATENA Già si trovava alle porte dei due comandanti.
ODISSEO E come trattenne la mano, avida di sangue?
ATENA Io l’ho fermato, gettandogli sugli occhi le ingannevoli immagini di una
gioia funesta, e l’ho deviato sulle vostre mandrie, sul bottino sorvegliato dai
pastori, ancora confuso e indiviso. Là egli, avventatosi sulle prede, fece massacro del bestiame dalle molte corna, roteando intorno la spada e trucidando,
e credeva di uccidere di sua mano ora i due Atridi, avendoli in suo potere, ora
l’uno o l’altro dei capi greci, piombando loro addosso. E mentre l’uomo infuriava nel morbo della follia, io lo incitavo, lo sospingevo in funesti lacci.
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Quando poi fu sazio di tale strage, stretti in catene i buoi ancora vivi e tutte le
pecore, li trascinò nella sua tenda, credendoli uomini e non preda dalle belle
corna; e ora là dentro infierisce su di loro, così legati insieme.
Mostrerò anche a te questo suo male in piena luce, perché, dopo aver visto, tu
lo possa annunziare a tutti gli Argivi. Rimani lì senza paura, e non considerare
quest’uomo un pericolo per te: io infatti stornerò la luce dei suoi occhi dalla
vista di te12 (Rivolgendosi verso la tenda.) O tu che costringi nei ceppi le mani
dei prigionieri, accorri al mio richiamo! Dico a te, Aiace: esci davanti alla tua
dimora!
[…]
(Aiace esce dalla tenda con in mano una sferza intrisa di sangue)
Salve, Atena, salve, figlia di Zeus! Quanto prezioso è stato il tuo aiuto! In
ringraziamento di questa caccia ti offrirò spoglie d’oro massiccio.
ATENA Sagge parole. Ma dimmi: hai bene immerso la tua spada nel sangue dei
soldati argivi?
AIACE Sì, posso vantarmene, e non lo nego!
ATENA Anche sugli Atridi hai vibrato la tua mano?
AIACE In tal modo che mai più, lo so, oltraggeranno Aiace.
ATENA Dunque sono morti, se ho ben inteso le tue parole.
AIACE Morti: ed ora vengano a prendersi le mie armi!
ATENA Bene. E il figlio di Laerte? Che sorte gli hai riservato? Ti è sfuggito?
AIACE Mi hai chiesto dov’è quella scaltra volpe?
ATENA Appunto. Parlo di Odisseo, del tuo rivale.
AIACE Siede lì dentro in catene, o mia signora, prigioniero a me graditissimo. Ancora non voglio che muoia.
ATENA Cosa intendi fargli prima? Che altro vuoi ricavare da lui?
AIACE Prima, legato a una colonna del mio tetto…
ATENA Qual pena darai a quell’infelice?
AIACE …perisca sotto i colpi di sferza, col dorso insanguinato.
ATENA Oh no, non torturarlo così, povero sventurato!
AIACE Sono disposto ad appagarti in ogni altro desiderio, Atena, ma egli avrà la
punizione che ho detto, e non diversa.
ATENA Ebbene, poiché è tuo piacere farlo, battilo pure, non risparmiare nulla di
quanto hai in mente.
AIACE Vado a compiere l’opera. Questo soltanto ti chiedo: di assistermi alleata
sempre, come ora.
AIACE
(Aiace rientra nella tenda)
Vedi, Odisseo, quanto è grande la potenza degli dei? Quale uomo avresti
potuto trovare più accorto di costui o più valente al momento di agire?
ODISSEO Io non ne conosco nessuno. Ma nonostante mi sia nemico, ho pietà di
quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova aggiogato:13 nella sorte di
lui trovo riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se
non fantasmi o vana ombra.
ATENA
12. stornerò la luce dei
suoi occhi dalla vista
di te: impedirò che lui ti
veda.
13. a cui si trova
aggiogato: a cui deve
sottostare.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Quanto hai visto ti insegni dunque a non proferire mai contro gli dei alcuna
parola arrogante e a non sollevarti ad orgoglio, se più di altri sei potente per braccio o per vastità di ricchezza: un giorno solo basta a piegare tutte le cose umane
e ad innalzarle di nuovo. Gli dei amano gli uomini saggi e odiano i malvagi.
ATENA
da Sofocle, Aiace Elettra, traduzione di M. P. Pattoni, Rizzoli, Milano 2006
LA SCENA
14. il mio nome fosse
così consonante alle
mie sciagure: Sofocle
interpreta il nome di
Aiace facendolo derivare
dall’interiezione
(pronuncia: aiai) usata
per esprimere dolore.
15. terra Idea: il
territorio del monte Ida,
nella regione della
Troade.
16. dopo aver ottenuto
il primo e più bel
premio dell’esercito:
secondo il mito,
Telamone aveva
partecipato ad una
precedente spedizione
contro Troia ed essendo
stato il primo a penetrare
nella città aveva ricevuto
come ricompensa Esione,
figlia di Laomedonte.
17. dallo sguardo di
Gorgone: dallo sguardo
intenso. Le Gorgoni erano
tre mostri con la testa
circondata di serpenti,
zanne simili a quelle dei
cinghiali, mani di bronzo,
ali d’oro e uno sguardo
così penetrante da
mutare in pietra chi le
fissava.
18. sono inviso agli dei:
sono odiato dagli dei.
19. mi aborre: mi
detesta.
20. di essere da lui
nato non degenere
nell’indole: di non
essere diverso da lui per
temperamento e
coraggio.
21. Quale piacere ha in
sé … il morire?: l’idea
espressa in queste parole
è che ogni giorno
avvicina e
contemporaneamente
allontana la morte perché
rende più vecchi ma al
tempo stesso rinvia la
fine ad un momento
successivo.
Aiace verso il suicidio
Rinsavito dalla sua follia, Aiace scopre di aver compiuto un’azione ignobile e
vergognosa che lo ha privato del suo onore di guerriero, esponendolo al pubblico disprezzo e all’esclusione dalla collettività. La sua colpa può essere cancellata solo da un gesto estremo e l’eroe, allontanatosi dalla tenda, si dirige
verso un boschetto di cespugli nei pressi del mare e lì si uccide.
Queste sono le ultime parole, dirette al coro e a Tecmessa che inutilmente
cerca di dissuaderlo facendo leva sui suoi sentimenti, con cui Aiace sostiene
l’ineluttabilità della sua scelta.
Aiai! Chi mai avrebbe pensato che il mio nome fosse così consonante alle
mie sciagure?14 Ora posso ben gridare due o tre volte «aiai»: tali sono i mali in
cui mi trovo! Da questa terra Idea15 mio padre, dopo aver ottenuto il primo e più
bel premio dell’esercito,16 tornò in patria riportando ogni gloria: ed io, suo figlio,
giunto nella stessa regione della Troade con forza non minore, e compiute di
mia mano non meno grandi imprese, così mi spengo, nel disprezzo degli Argivi.
Eppure questo almeno credo di sapere: se Achille, vivo, come premio del valore
avesse dovuto aggiudicare le sue armi a qualcuno, nessun altro le avrebbe prese
al posto mio. Ora invece gli Atridi le hanno assegnate con l’intrigo a un uomo
d’animo malvagio, capace di tutto, disprezzando il mio valore. Ma se questi occhi
e la mente stravolta non mi avessero deviato dal mio intento, essi non avrebbero
mai più emesso un simile giudizio a danno di altri. Ora invece la figlia di Zeus,
l’indomita dea dallo sguardo di Gorgone,17 mentre su di loro levavo il mio braccio, mi trasse in inganno lanciandomi furioso morbo di follia, sì che le mani fra
queste mandrie insanguinassi; ed essi, scampati contro la mia volontà, esultano:
se un dio vuol far del male, anche il vile può sfuggire al più forte. Ed ora che
devo fare? Manifestamente sono inviso agli dei;18 l’esercito dei Greci mi aborre19
e mi odiano tutta Troia e queste pianure. Dovrei forse far ritorno in patria, lasciare i quartieri delle navi, gli Atridi soli, e attraversare il mar Egeo? E quale
volto mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendogli innanzi? Come potrà
sopportare di vedermi apparire nudo senza i trofei, dei quali egli ebbe corona di
gloria? No, non è sopportabile questo. Debbo allora andare alle mura dei Troiani, piombare io solo contro essi soli, e compiendo qualche atto di valore trovare infine la morte? Ma così farei contenti gli Atridi. Non può essere. Si deve
cercare una prova per cui io possa mostrare al vecchio padre di essere da lui nato
non degenere nell’indole.20 È turpe che desideri una lunga vita chi nei suoi mali
non vede mutamento alcuno. Quale piacere ha in sé il giorno aggiunto a un altro
giorno, che avvicini e allontani il morire?21 Non posso tenere in nessun conto un
mortale che si riscalda di vuote speranze. Chi è nato nobile deve o gloriosamente
vivere o gloriosamente morire. Hai udito tutto.
AIACE
da Sofocle, Aiace Elettra, traduzione di M. P. Pattoni, Rizzoli, Milano 2006
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APPROFONDIMENTO
Aiace nel mito
Aiace, figlio di Telamone e Peribea e re di Salamina, partecipa alla guerra di Troia dove si dimostra
il più forte tra i guerrieri achei dopo Achille. A causa della sua statura gigantesca viene anche definito il grande Aiace per distinguerlo da Aiace Oileo, capo dei Locresi.
Tra le varie versioni del mito relativo alla sua morte, la più nota è quella sviluppata da Sofocle
secondo il quale Aiace, defraudato con l’inganno delle armi di Achille che Teti aveva destinato al più
valoroso degli Achei, impazzisce e massacra buoi e pecore credendoli i suoi compagni d’arme; poi,
rinsavito, si uccide per la vergogna e viene sepolto sul promontorio Reteo.
Secondo una tradizione posteriore, è Agamennone che – su consiglio di Atena – assegna a Odisseo
le armi di Achille, mentre un ulteriore mito racconta che, durante una tempesta, le armi di Achille
vengono strappate dalla nave di Odisseo che se ne è impossessato con l’inganno e sospinte fino
alla tomba di Aiace.
Nell’antichità l’eroe Aiace godeva di grande popolarità ed esistevano diversi luoghi di culto a lui
dedicati; a Salamina ogni anno gli venivano tributati onori divini.
L’Aiace, la più antica tra le tragedie attribuite a Sofocle – composta probabilmente tra il 450 e il 435
– ha come argomento la follia e il suicidio dell’eroe.
STRUMENTI DI LETTURA
I temi
La hybris punita: nel pensiero greco la parola hybris definisce il superamento e la violazione dei limiti che gli dei hanno posto a
tutte le creature viventi. Coloro che tentano
di competere con le divinità sul piano della
forza, dell’intelligenza, della bellezza o dell’abilità in qualche arte si macchiano di hybris
e per questo – siano essi uomini comuni o
eroi – incorrono in feroci punizioni il cui scopo
è ristabilire la gerarchia e l’ordine del mondo.
Aiace è colpevole di hybris nei confronti di
Atena perché, come spiega un personaggio
in un passo della tragedia che non abbiamo
riportato, a Telamone che prima della partenza lo ammonisce di “vincere con la sua
lancia, ma di vincere sempre con l’aiuto di
dio”, risponde superbamente che “con il favore degli dei anche chi è nulla può riportare
vittoria”, mentre lui confida “di ottenere la
gloria pur senza di essi”. La tracotanza dell’eroe, però, non si ferma qui e quando, nel
corso della battaglia, Atena gli si accosta per
sostenerlo contro i nemici, egli la allontana
chiedendole di proteggere gli altri Achei, perché dove c’è lui “la linea di battaglia non s’infrangerà mai”.
L’inevitabile reazione della dea scaturisce
dalla volontà di punire in modo esemplare chi
ha voluto considerasi pari a lei e, soprattutto,
educare gli altri uomini. A Odisseo che – accorto come sempre – dichiara di confidare
nel suo aiuto in ogni circostanza (in tutto, nel
passato come nel futuro, io mi lascio guidare
dalla tua mano), Atena ordina di riferire ai
Greci che cosa può accadere a chi osa sfidare gli dei (Mostrerò anche a te questo suo
male in piena luce, perché, dopo aver visto, tu
lo possa annunziare a tutti gli Argivi) in modo
che nessuno osi dubitare della loro potenza.
La follia e il suicidio: Atena castiga Aiace
rendendolo folle, cioè impedendogli di vedere
la realtà com’è effettivamente e spingendolo
a compiere gesti che successivamente si riveleranno assurdi e ignominiosi (E mentre
l’uomo infuriava nel morbo della follia, io lo incitavo, lo sospingevo in funesti lacci). Ha cercato di avere le armi di Achille che testimoniassero, come bottino personale, il suo
proprio eroismo, ma l’atto che ha compiuto lo
allontana sempre più da quel valore che vorrebbe vedere confermato. Rinsavito, l’eroe è
costretto a confrontarsi con le conseguenze
delle proprie azioni e, in base al suo codice
morale, sceglie la morte come unica possibile
forma di espiazione della vergogna (Si deve
cercare una prova per cui io possa mostrare al
vecchio padre di essere da lui nato non degenere nell’indole).
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
A fargli scegliere il suicidio, per rimediare alla
vergogna che prova, è dunque ancora una
concezione dell’eroismo paragonabile a
quella degli antichi eroi omerici, che vedono nel riconoscimento altrui la fonte certa
del proprio valore (vedi p. 168), ma diverso
è il percorso che porta alla conclusione
della sua vicenda. Solo con la sua vergogna, Aiace si dà la morte attraversando la follia, l’angoscia, la sofferenza interna come
solo un uomo dall’animo particolarmente
grande può dimostrare di fare. Si inaugura
così un nuovo tipo di eroismo, legato a una
diversa e più profonda conoscenza della dimensione interna dell’animo umano.
I personaggi
La solitudine dell’eroe: il tratto distintivo di
Aiace è l’orgogliosa solitudine nella quale conduce l’esistenza, che dapprima lo spinge ad affrontare i nemici senza l’aiuto di Atena, poi a
portare a termine da solo quella che egli ritiene
essere la sua vendetta e infine ad allontanarsi
da una collettività che disprezza ma nella quale
non potrebbe rientrare neanche volendo, visto
che ne ha violato le regole di convivenza (l’esercito dei Greci mi aborre e mi odiano tutta Troia
e queste pianure). Anche la sua morte avviene
in perfetta solitudine, in un punto della costa
lontano dal campo acheo, rendendo concretamente visibile agli spettatori del dramma la totale “diversità” dell’eroe e l’insanabile conflitto
che lo oppone al mondo degli uomini.
Le parole chiave
Il disprezzo: l’ingiusta sottrazione delle armi di
Achille, destinate da Teti al più valoroso degli
Achei, costituisce per Aiace uno smacco insopportabile perché lo espone al disprezzo di
quanti fino a quel momento lo hanno considerato degno d’onore e, soprattutto, del padre Telamone (nel disprezzo degli Argivi quale volto
mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendogli innanzi? Come potrà sopportare di vedermi apparire nudo senza i trofei, dei quali egli
ebbe corona di gloria?). Nella figura di Aiace rivive il sistema di valori centrato sull’aretè – il
coraggio fisico e morale che si dimostra sul
campo di battaglia (vedi Il duello tra Achille ed
Ettore a p. 169) – tipico degli eroi omerici i quali
ricercavano nello scontro con l’avversario la
bella morte per evitare l’onta del disprezzo e
del disonore. Inserito in un diverso contesto
culturale, l’eroe di Sofocle spinge però alle
estreme conseguenze gli ideali epici, cercando
di riacquistare con la morte volontaria la gloria
perduta (Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire).
Le figure retoriche
Per la circospetta attenzione con cui Odisseo
avanza nell’accampamento, Atena lo paragona
a una astuta cagna da caccia, abile a trovare le
tracce della sua preda (in atteggiamento di chi
caccia… ti guida il tuo passo dal fiuto sottile,
come di cagna lacena) e poco più avanti lo
stesso Aiace usa una metafora animale per
definire colui che proditoriamente gli ha sottratto l’ambito trofeo (quella scaltra volpe).
Anche Aiace si riferisce alla sua impresa utilizzando la metafora della caccia (In ringraziamento di questa caccia ti offrirò spoglie
d’oro massiccio), tuttavia la reale natura della
situazione che sta vivendo, più che a un cacciatore lo rende simile ad una preda, braccata dalla divinità.
Fabula e intreccio
L’intensità drammatica del dialogo tra Atena
e Aiace si fonda sul contrasto tra la crudele
consapevolezza della dea, artefice delle
azioni dell’uomo, e la patetica incoscienza
dell’eroe (Questo soltanto ti chiedo: di assistermi alleata sempre, come ora). Questi,
incalzato dalle beffarde domande della divinità, giunge a gloriarsi della propria scellerata impresa di fronte all’invisibile Odisseo
– e al pubblico, al corrente di quanto è effettivamente accaduto – il quale non può che
immedesimarsi in quel povero infelice e
commiserarne la sorte (ho pietà di quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova
aggiogato). La follia è parte possibile di ogni
animo, infatti vederla in un altro significa
avere coscienza di quanto potrebbe accadere anche a sé.
Aiace, statua
bronzea
del I secolo a.C.
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Per quale ragione Aiace odia i suoi compagni di battaglia?
2 Con quale obiettivo l’eroe penetra nell’accampamento acheo nel corso della notte?
3 Perché la sua spedizione fallisce?
4 Per quale ragione l’eroe decide di togliersi la vita?
di
ffi
co
ltà
5 In quale luogo l’eroe si toglie la vita?
Nella sua tenda
Nell’accampamento acheo
Nei pressi della costa troiana
Analisi
I temi
Vedi a p. 14
6 Sottolinea i passaggi in cui Atena esplicita la propria volontà di punire Aiace
ed educare gli altri mortali.
7 Quando rinsavisce, Aiace comprende o no che la sua follia è stata voluta dagli dei? Motiva la tua risposta facendo riferimento al brano.
I personaggi
Vedi a p. 8
8 L’odio tra Odisseo e Aiace è reciproco ma si manifesta in modo diverso: quale atteggiamento mostra Aiace verso Odisseo? In che modo, invece, quest’ultimo si comporta nei confronti dell’eroe impazzito?
9 L’origine della punizione di Aiace è la sua orgogliosa superbia: in quale occasione l’eroe dà prova di non aver cambiato atteggiamento?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
lʼeroe nella tragedia attica
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10 Considerando la sorte di Aiace, Odisseo afferma: “... nella sorte di lui trovo
riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se non fantasmi o vana ombra.”
Spiega che cosa intende dire l’eroe ed esponi le tue riflessioni sulle sue parole.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Euripide
La vendetta di Medea
genere
tragedia
tratto da
Medea
(vv. 1021-1250
nel testo greco)
L’OPERA
La tragedia si svolge a Corinto e si apre con le parole della nutrice che prima
rievoca l’impegno di Medea nell’aiutare Giasone a conquistare il vello d’oro,
poi racconta le attuali sofferenze della donna, abbandonata dall’amato che ha
deciso di sposare la figlia del re Creonte.
Entra in scena Medea che, infuriata, cerca un modo per rispondere all’offesa
subita e poco dopo sopraggiunge il pedagogo dei figli che le rivela le decisioni
di Creonte, intenzionato a scacciarla dalla città insieme ai due piccoli.
La collera di Medea cresce ma quando Creonte giunge di persona a comunicarle le proprie disposizioni, ella riesce a dissimulare i sentimenti che la agitano e a ottenere che i figli rimangano un altro giorno a Corinto: poi, all’uscita
di scena del re, spiega al coro che intende vendicarsi di Giasone, uccidendo
la sposa e lo stesso Creonte.
Poco dopo arriva Giasone, con cui la donna discute aspramente, e successivamente Egeo, il re di Atene che si è recato a Delfi, perché è afflitto da sterilità; a questi Medea promette un filtro che lo guarirà dal suo male in cambio
di asilo ad Atene.
Egeo giura solennemente di accogliere la donna che, ormai sicura di avere
una via di scampo, finge con Giasone di accettare di buon grado l’allontanamento, dicendogli che intende donare alla giovane sposa una veste e una corona per convincerla a non bandire dalla città i suoi figli.
Subito dopo invia alla reggia i due fanciulli con i doni, ma immediatamente un
nunzio dà la notizia che la veste avvelenata donata da Medea ha straziato il
corpo della sposa e che la corona ha preso fuoco, aggiungendo che il re, tentando di salvare la figlia, è rimasto a sua volta vittima del maleficio.
A questo punto Medea compie l’ultimo e più atroce atto della sua vendetta e
uccide i figli: quando Giasone arriva per punirla del doppio delitto, scopre i loro
cadaveri e non può far altro che piangere la sua sorte e osservare Medea che
si allontana nel cielo sul carro del Sole portando con sé i corpi dei fanciulli cui
intende dare sepoltura lontano da Corinto.
anno
V-IV secolo
a.C.
luogo
Grecia
Euripide
vedi a p. 192
LA SCENA
Furiosa per l’abbandono di Giasone, che prima si è servito di lei e ora la allontana per contrarre un matrimonio d’interesse, Medea si accinge a inviare
alla reggia di Creonte dei doni nuziali che, grazie a un incantesimo, provocheranno la morte della sposa e di suo padre. Tuttavia, il gesto che sta per
compiere non appaga completamente la sua sete di vendetta e, ossessionata
dalla prospettiva dell’esilio, la donna giunge alla decisione estrema – e per
molti versi aberrante – di uccidere i figli per evitare che restino da soli in terra
straniera, privi di protezione ed esposti a ogni genere di umiliazioni.
Nel monologo che precede il suo ultimo delitto emerge con chiarezza il conflitto interiore che lacera l’animo di Medea, scissa tra l’amore materno e l’irrefrenabile desiderio di vendicare l’offesa subita cancellando ogni traccia del
rapporto con l’uomo che l’ha tradita.
[…] O figli, figli miei, ecco che avete una città e una casa1 in cui, lasciando questa sventurata, abiterete per sempre, orbati2 di vostra madre. Io
sto per andarmene in esilio, in un paese straniero, prima di aver gioito di voi
e di avervi visti felici; prima di avervi dato una sposa e di aver preparato e levata in alto la fiaccola nuziale. Ahi, povera me, per la mia superbia! Invano,
MEDEA
1. avete una città e una
casa: poco prima Medea
ha ottenuto da Giasone
che i figli rimangano a
Corinto.
2. orbati: privi.
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dunque, o figli, vi ho allevato; invano ho sofferto e mi sono tormentata per voi,
dopo avervi partoriti con crudeli doglie! Quante speranze, io infelice, avevo
posto in voi: avreste sostentato la mia vecchiaia e, morta, mi avreste seppellito, piamente, con le vostre mani; sorte degna di invidia! Ora addio, dolci
pensieri! Senza di voi, vivrò una vita triste e misera. E voi, con i vostri cari
occhi, non vedrete più vostra madre, lontani, in una vita tutta diversa. Ahi,
ahi, perché, figli miei, mi guardate con quegli occhi? Perché mai sorridete
con il vostro ultimo sorriso? Ahi, che fare? Il cuore mi manca, o donne,
quando vedo il volto sereno di questi fanciulli! No, non posso! Addio, miei
propositi di prima! Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per
far soffrire al padre le loro sventure, dovrei raddoppiare la mia? No, non
posso: addio, miei propositi (Pausa.) Ma che mi accade? Dovrei giustamente
essere derisa, lasciando impuniti i miei nemici? Bisogna osare! O mia viltà,
accogliere nel mio cuore parole miti! (Ai figli) Entrate in casa, figli. (I figli eseguono.) Chi non può assistere a questo sacrificio, ci pensi! La mia mano non
verrà meno. Ahi, mio cuore, no, non farlo! Lasciali vivere, sciagurata, risparmiali, i tuoi figli! Là, vivendo con me, ti daranno gioia. (Pausa.) Ma no, per i
demoni inferi dell’Ade, non sarà mai che io abbandoni i miei figli all’oltraggio dei miei nemici! Comunque, devono morire: e poiché è necessario, io li
ucciderò, io che li ho generati! Ormai è fatto, senza scampo. E già, cinta la corona e indossato il peplo, la sposa muore,3 lo so. E poiché io vado verso una
via infelicissima e ad una ancor più infelice condurrò costoro, voglio salutare
i miei figli. (I bambini tornano sulla scena). Datemi, o figli, datemi le mani, perché io le baci! O mano carissima, o volto carissimo, o nobili persone dei miei
figli! Siate felici, ma laggiù! Le gioie della vita ve le ha tolte vostro padre. O
dolci abbracci, o tenere carni, o soavissimo alito dei miei figli! (Congedandoli)
Andate, andate: non posso più guardare i miei figli, la sventura mi vince (I
bambini rientrano in casa). Comprendo il delitto che sto per osare: ma la passione, che è causa delle più grandi sventure per i mortali, è più forte dei miei
proponimenti.
[Terminato il monologo, giunge un nunzio a portare la notizia della morte di Creonte e di sua figlia.]
(arrivando trafelato) Tu che hai compiuto empiamente una cosa così terribile, fuggi, fuggi, Medea, o su una nave o su un carro!
MEDEA Che è mai successo, per cui dovrei fuggire?
NUNZIO È morta or ora la figlia del re e suo padre Creonte per i tuoi filtri!
MEDEA (esultante) Hai detto una cosa bellissima! D’ora innanzi sarai fra i miei
amici e benefattori.
NUNZIO Che dici? Ragioni o davvero sei impazzita, tu che hai distrutto la casa del
re e gioisci a udire una cosa simile, senza tremare?
MEDEA Anch’io avrei qualcosa da opporre alle tue parole: ma non aver fretta,
amico, e raccontami come sono morti. Quanto più orribilmente sono morti, mi
rallegrerai doppiamente.
NUNZIO Quando i due tuoi figli entrarono col padre nelle stanze della sposa, noi
servi, addolorati per le tue disgrazie, ci rallegrammo e subito ci dicemmo l’un l’altro che tu e tuo marito vi eravate del tutto riconciliati. Chi baciava la mano e chi
NUNZIO
3. cinta la corona e
indossato il peplo, la
sposa muore: la corona
e il peplo sono i doni
stregati che Medea ha
inviato alla sposa di
Giasone tramite i due
fanciulli.
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4. gineceo: parte della
casa riservata alle donne.
5. detestando: non
sopportando.
6. peplo: ampia e lunga
veste di lana bianca
indossata dalle donne
greche.
7. il terrore di Pan:
secondo il mito, il dio Pan
era capace di spaventare
chiunque grazie al suo
aspetto orribile e alle sue
urla terrificanti.
8. padre: il re Creonte.
9. novello sposo:
Giasone.
10. serto: corona.
11. dalle fauci invisibili
dei farmaci:
dall’invisibile morso del
veleno.
12. un vecchio che è
già una tomba: un
vecchio che è vicino alla
morte.
LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
il biondo capo dei tuoi figli: e io stesso, per la gioia, li accompagnai nel gineceo.4
La padrona, che noi adesso onoriamo al tuo posto, prima di aver visto la coppia dei tuoi figli, rivolse uno sguardo amoroso a Giasone. Ma poi si coprì gli
occhi e volse altrove il bianco volto, detestando5 l’arrivo dei bambini. E tuo
marito cercava di placare la collera e lo sdegno della giovane donna, dicendo:
«Non essere ostile verso chi ti è amico. Non vorrai deporre lo sdegno, volgendo il capo e considerando cari a te quelli che lo sono per tuo marito? Accetta questi doni e induci tuo padre per amor mio, a revocare il bando di esilio
per questi bambini». Ella, quando vide i doni, non si oppose più, acconsentì
in tutto al marito e, prima che i tuoi figli col padre si fossero allontanati, prese
il peplo6 ricamato e lo indossò. Poi, messa sui riccioli la corona d’oro, si acconciò le chiome dinanzi a un lucido specchio, sorridendo alla muta immagine
della sua persona. Quindi, alzatasi dal trono, attraversò le stanze posando con
grazia il candido piede, tutta felice per i doni ricevuti, spesso a lungo guardandosi, sulla punta dei piedi. Ed ecco, allora, una vista terribile! Mutando
colore, ella arretra di sghembo, tutta tremante, e fa appena in tempo ad abbandonarsi sul trono per non cadere a terra. Allora una vecchia serva, pensando che l’avesse colta il terrore di Pan7 o di qualche altro dio, levò alte grida;
e poi vide una bava biancastra venirle sulla bocca, le pupille stravolte e il sangue fuggirle dal corpo. La serva allora emise grandi gemiti di dolore. Subito
una corre alle stanze del padre,8 un’altra va in cerca del novello sposo9 per informarlo della disgrazia; e tutta la casa risuonava di passi precipitosi. E nel
tempo in cui un rapido corridore avrebbe percorso fino all’estremità duecento
metri di stadio, la sventurata, ritrovando la voce e la vista, si riebbe con un terribile gemito. Infatti due mali l’assillavano: dal serto10 d’oro che aveva sul capo
sgorgava un fiotto incredibile di fuoco distruttore, mentre il tenue peplo, dono
dei tuoi figli, divorava il candido corpo dell’infelice. In preda alle fiamme, ella
si alza dal trono e fugge, scuotendo qua e là il capo e le chiome come per gettar via la corona; ma il monile d’oro stava saldamente attaccato e il fuoco divampava il doppio, quanto più scuoteva le chiome. Infine, vinta dallo spasimo,
cade al suolo, a stento riconoscibile, tranne che al padre: non si distinguevano
più né la forma degli occhi, né il bel volto; sangue e fuoco commisti stillavano dalla sommità del capo, e le carni, dilaniate dalle fauci invisibili dei farmaci,11 cadevano dalle ossa come lacrime di pino, spettacolo orrendo! E tutti,
ammaestrati da quel caso, temevano di toccare il cadavere. Intanto, ignaro di
quella sciagura, il misero padre, entrando improvvisamente nella stanza, si
precipita sul cadavere: e piangendo e stringendola fra le braccia, la baciava
gridando: «Figlia sventurata, quale dio ti ha distrutta così malamente? Chi ha
orbato di te un vecchio che è già una tomba?12 Ahimè, che io muoia insieme
con te, figlia!». Quando ebbe finito di gemere e di lamentarsi, mentre cercava di rialzare le vecchie membra, restò avvinto al tenue peplo, come edera
ai rami del lauro. E fu una lotta terribile: se cercava di sollevare un ginocchio,
ella lo avvinghiava ancor più; e se tentava di tirarsi via con la forza, dilaniava
dalle ossa le vecchie membra. Alla fine rinunziò, il disgraziato, e abbandonò
la vita, incapace di vincere lo strazio. Ora giacciono morti insieme, il vecchio
padre e la figlia, sventura degna di lacrime. Di quanto ti riguarda, non dico
nulla: imparerai da te stessa come si ritorce il castigo. Non ora per la prima
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
lʼeroe nella tragedia attica
volta ritengo che le cose umane sono un’ombra; e senza tema13 affermo che
quelli che credono di avere intelletto saggio e acuto, meritano la punizione più
grave. Fra i mortali non esiste uomo felice: per copia di prosperità14 uno potrà
essere più fortunato di un altro, ma felice non mai. (Esce di scena)
CORIFEA Sembra che in questo giorno un dio ha giustamente accumulato molte
sventure su Giasone. O misera, come compiangiamo i tuoi casi, o figlia di
Creonte, che movesti alle porte d’Ade per15 le nozze con Giasone!
MEDEA Mie care, ho deciso di agire: uccidere i miei figli e allontanarmi al più
presto da questa terra, senza indugi, perché non li uccida una mano ancor più
nemica. Comunque, devono morire; e poiché è necessario, li ucciderò io, che
li generai. Armati, dunque, mio cuore! Perché indugiamo16 a compiere
un’azione crudele e pur necessaria? Su, mano mia sventurata, prendi la spada,
prendila, muovi a questa via di dolore. Non essere vile, non ricordarti dei figli,
come ti sono cari, come li partoristi! Dimentica che ti sono figli, per questo
breve giorno: e poi piangi! Anche se li ucciderai, ti furono cari tuttavia, o
donna sventurata! (Entra nel palazzo)
da Euripide, Medea, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori, Milano 1977
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13. senza tema: senza
timore.
14. per copia di
prosperità: per
abbondanza di ricchezza.
15. per: a causa.
16. indugiamo:
esitiamo.
APPROFONDIMENTO
Medea nel mito
Diverse tradizioni mitiche definiscono Medea, figlia del re Eeta e nipote del Sole e di Circe, come
una maga dotata di grandi poteri.
Quando gli Argonauti sbarcano nella Colchide per conquistare il vello d’oro, Medea tradisce il padre
proteggendo Giasone, capo della spedizione, con un unguento magico. Una volta portata a termine
l’impresa, Medea fugge per mare con Giasone, prendendo in ostaggio il fratello Absirto. Accortasi
di essere inseguita, Medea uccide il fratello, lo fa a pezzi e li getta in mare per rallentare l’inseguimento di Eeta.
Dopo essersi uniti nella terra dei Feaci, Medea e Giasone sbarcano a Iolco dove la donna si vendica di Pelia – che aveva tentato di far morire Giasone imponendogli la ricerca del vello d’oro –
promettendo alle figlie di ringiovanirlo con una pozione magica e convincendole a farlo a pezzi e a
gettarlo in un calderone. Il consiglio, naturalmente, si rivela fasullo nelle mani delle due giovani
inesperte.
Scacciati da Iolco per questo delitto, i due giungono a Corinto dove vivono insieme fino a quando
Giasone decide di sposare la figlia del re Creonte. Abbandonata dall’uomo amato, Medea mette in
atto un’atroce vendetta, uccidendo la nuova sposa di Giasone, Creonte e i suoi stessi figli (vedi la
trama di Medea a p. 212).
Dopo essere fuggita ad Atene, dove il re Egeo le ha garantito ospitalità e asilo, tenta di ucciderne il
figlio Teseo e per questo viene bandita dalla città. Successivamente ritorna in Colchide e qui riporta sul trono Eeta dopo aver fatto uccidere Perse che lo aveva spodestato.
Un ulteriore racconto mitico sostiene che alla fine della vita Medea viene trasportata nei Campi Elisi
dove si unisce ad Achille.
La Medea di Euripide fa parte di una tetralogia tragica comprendente due opere ormai perdute, Filottete e Ditti, e il dramma satiresco I mietitori. Il testo viene messo in scena per la prima volta durante
le Grandi Dionisie del 431 a.C., ma Euripide si classifica terzo perché la Medea – come altri drammi
dell’autore – non è apprezzata dai contemporanei per la sua distanza dalla tradizione tragica.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
STRUMENTI DI LETTURA
I temi
Gli eroi pezzenti: la produzione tragica di
Euripide è profondamente influenzata dalla
crisi morale, civile e politica seguita alla lunga
guerra tra Atene e Sparta (431-404), che determina il progressivo sgretolamento delle
certezze tradizionali e per la prima volta
mette in discussione l’idea stessa dell’esistenza di un ordine soprannaturale perfetto.
Così la riflessione sul rapporto tra uomini e
dei che aveva caratterizzato l’opera di Eschilo
e Sofocle, in Euripide cede il passo a un’analisi quasi esclusiva del piano umano degli
eventi, che sembrano svolgersi sotto gli occhi
indifferenti degli dei, dettati dall’arbitrio del
Fato.
Per questa ragione i drammi di Euripide
vengono poco apprezzati dai contemporanei, sconcertati dalle caratteristiche
troppo “umane” dei protagonisti – definiti
eroi pezzenti dal commediografo Aristofane,
contemporaneo di Euripide – e delle situazioni rappresentate. Anche se provenienti
dalla tradizione mitica greca, i personaggi euripidei appaiono desacralizzati, ossia spogliati
della loro natura eroica, simili in tutto a uomini comuni che agiscono in una realtà analoga a quella dell’autore, alle prese con la
propria irrazionalità, non conservando altro
che il nome dei modelli originali.
La forza dell’irrazionale: smarrita la possibilità di spiegare il senso complessivo dell’agire umano, l’attenzione di Euripide si
concentra soprattutto sull’analisi dell’interiorità dei personaggi. L’aspetto più moderno della sua opera consiste infatti nella
capacità di scavare nei contraddittori labirinti
delle emozioni e delle angosce di figure psicologicamente sfaccettate, oscillanti tra sentimenti contraddittori, dominate da impulsi
profondi e incontrollabili, incapaci di dominare razionalmente la realtà. Tra i personaggi
più emblematici di questa condizione si pone
Medea, che risponde all’offesa subita da Giasone, vivendo una condizione in bilico tra irrazionalità e ragione.
Un animo scisso: se nel colpire Creonte e la
sposa di Giasone, Medea non conosce esitazioni anzi si compiace in modo esplicito
dell’esito delle sue macchinazioni (Quanto più
orribilmente sono morti, mi rallegrerai doppiamente), inevitabilmente più complessa e
conflittuale è la decisione di uccidere i figli.
Nel monologo che precede quest’ultimo delitto pare quasi che si fronteggino due donne
diverse che sostengono posizioni opposte:
Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per far soffrire al padre le loro sventure, dovrei raddoppiare la mia?; Comunque,
devono morire: e poiché è necessario, io li
ucciderò, io che li ho generati. La vera tragedia non si svolge quindi nella città di Corinto o nella casa di Medea, ma all’interno
della mente ottenebrata e ferita della
donna, che è in ogni caso destinata alla
sconfitta, perché qualunque sia la sua decisione sarà costretta a rinunciare a una parte
di se stessa.
I personaggi
Medea, donna e barbara: nell’intensa figura
di Medea, Euripide concentra alcune delle tematiche più originali della sua opera.
Medea simboleggia la subalternità delle
donne nella cultura greca, costrette dalle
convenzioni sociali ad accettare norme imposte da altri, che consentono all’uomo di
rompere un patto di fedeltà per un legame
matrimoniale più vantaggioso. Allo stesso
tempo rappresenta anche la forza femminile
che si ribella con violenza a questa condizione iniqua.
La sua selvaggia irrazionalità – che viene
spiegata da coloro che la circondano come
una conseguenza del suo essere maga e per
di più barbara, cioè estranea al sistema di
valori condiviso dai greci – già prima di giungere a Corinto l’ha spinta a compiere delitti
atroci per amore di Giasone, anteponendo la
passione a ogni altra necessità. Tuttavia nel
caso che oppone Medea a Giasone si rispecchia una questione propria del diritto
greco, che giustifica la reazione della donna,
anche se non la sua violenza. Giasone è
principe della città e pensa al fatto che i figli
avuti da Medea non possono essere considerati suoi legittimi eredi, per via del fatto
che sono figli di un greco e di una barbara, di
una straniera. Come reggitore della città,
Giasone deve preoccuparsi della sua successione, per questo ripudia Medea e cerca
una sposa greca, che gli dia figli legittimi. La
preoccupazione di Medea circa i suoi bambini è anche in relazione al loro futuro, che
non sarà di legittima cittadinanza in alcuna
altra città. Quale domani può attenderli?
Dietro alla reazione di Medea sta la critica di Euripide al modello tradizionale di
famiglia: secondo il cittadino medio ateniese, Medea non può chiedere nient’altro ri-
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
lʼeroe nella tragedia attica
spetto a quanto ha già ottenuto, cioè di essere stata allontanata dal suo mondo di barbarie. La prospettiva di Giasone è quella
della “legalità”, che non tiene conto della figura umana di Medea, mentre Medea non
vede alcun rispetto di sé nel comportamento
di Giasone e si ribella al fatto di poter rivestire secondo la mentalità greca solo il ruolo
di concubina.
Un’eroina forte dell’irrazionalità: Medea
– come già abbiamo detto – nella sua terribile vicenda personale si comporta in un
modo profondamente segnato dall’irrazionalità (Ragioni o davvero sei impazzita, tu che
hai distrutto la casa del re e gioisci a udire
una cosa simile, senza tremare). Proprio questo è il dato che costituisce una svolta
dall’affettuosa presenza dei fanciulli (Là, vivendo con me, ti daranno gioia), ma subito
dopo l’orgoglio ferito prende il sopravvento
sull’istinto materno spingendola a un’azione
atroce che ancora di più confermerà il suo
destino di donna sventurata (mano mia sventurata, prendi la spada, prendila, muovi a questa via di dolore; Dimentica che ti sono figli
… e poi piangi … o donna sventurata) e non
le darà altra soddisfazione se non quella di
rendere a sua volta infelice Giasone, cui attribuisce la totale responsabilità della morte
dei due fanciulli (Le gioie della vita ve le ha
tolte vostro padre).
nuova al tema dell’eroismo in Euripide, il
fatto che non si intenda più essere eroi
solo nella sopportazione del proprio destino o nella sofferta accettazione di
esso, ma nella difficile relazione tra forze
che compongono la propria interiorità
Nel brano proposto è possibile osservare due
modalità espressive tipiche del teatro greco,
il monologo del protagonista e l’intervento
del nunzio che informa i presenti di ciò che
avviene fuori dalla scena.
Se attraverso il monologo Euripide svela le
contraddittorie oscillazioni della mente di
Medea permettendo allo spettatore di esplorare i lati oscuri della psiche umana, al nunzio l’autore affida il compito di riportare il
dramma sul piano concreto dell’azione. Con
tocchi rapidi questo personaggio rende vivide le figure che fino a quel momento hanno
fatto da sfondo, mostrando il tenero amore
della giovane sposa per Giasone (rivolse uno
sguardo amoroso a Giasone), la sua insofferenza nei confronti dei figli dell’uomo (detestando l’arrivo dei bambini) e la giovanile
vanità che la induce a indossare i doni malefici (Poi, messa sui riccioli la corona d’oro, si
acconciò le chiome dinanzi a un lucido specchio, sorridendo alla muta immagine della
sua persona).
Poi, con una repentina accelerazione del
ritmo, il nunzio racconta l’improvviso spezzarsi dell’atmosfera gioiosa, il pallore e le
grida della vittima innocente (Mutando colore, ella arretra di sghembo, tutta tremante
… una bava biancastra venirle sulla bocca, le
pupille stravolte e il sangue fuggirle dal corpo)
e infine la morte della giovane e del padre avvinti in un ultimo abbraccio (Ora giacciono
morti insieme, il vecchio padre e la figlia).
Il ruolo del nunzio non si esaurisce qui, poiché
a lui spetta anche la riflessione finale sull’accaduto nella quale – accomunando Medea
alle sue vittime – sostiene che nessun essere
umano, colpevole o innocente che sia, può
sperare di raggiungere la felicità (Fra i mortali
non esiste uomo felice: per copia di prosperità uno potrà essere più fortunato di un altro,
ma felice non mai).
(Comprendo il delitto che sto per osare: ma
la passione, che è causa delle più grandi
sventure per i mortali, è più forte dei miei
proponimenti).
Medea dice il mio thumòs, (il mio animo irrazionale) è più forte della mia razionalità. Tesi
a trovare un qualche precario equilibrio tra
l’irrazionale che sta dentro di sé e l’irrazionale
che sta fuori da sé, nel movimento imperscrutabile del Fato, gli eroi euripidei, e Medea
in modo particolare, rendono evidente la condizione umana, che avvicina l’eroe o l’eroina
a qualunque uomo o donna, che divide con
lei la lotta profonda e terribile per governare
l’ingovernabile.
Le parole chiave
Sventurata e infelice: alla prospettiva dell’esilio Medea si definisce infelice e sventurata, immaginando per sé – separata a forza
dai figli – una vita futura triste e misera.
Nella prima parte del monologo la felicità
della donna sembra dipendere dalla sorte
delle sue creature e il suo amore di madre appare ancora vivo e presente quando contrappone alle sofferenze patite per mettere al
mondo e allevare i figli (invano ho sofferto e
mi sono tormentata per voi, dopo avervi partoriti con crudeli doglie), la prospettiva ormai
infranta di una futura serenità (Sto per andarmene in esilio … prima di aver gioito di voi e
di avervi visti felici).
In forza di questo sentimento a un certo
punto Medea viene anche sfiorata dall’idea
che l’esilio potrebbe essere reso meno duro
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Fabula e intreccio
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
volume
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 Qual è l’offesa che scatena la collera di Medea?
2 A quali momenti futuri Medea dovrà rinunciare a causa dell’esilio?
3 In quale modo Medea provoca la morte della sposa di Giasone?
di
ffi
co
ltà
4 Perché muore anche Creonte?
Analisi
I temi
Vedi a p. 14
5 Secondo te, Medea è consapevole o no del fatto che le sue azioni sono ingiustificabili sul piano umano? Come spiega la sua scelta? Rispondi facendo riferimento al testo.
6 Perché nel suo monologo Medea si dice convinta che i figli «comunque, devono morire?»
7 Quali scelte contraddittorie si affacciano alla mente della protagonista nel corso del suo monologo? Qual è la sua decisione finale?
I personaggi
Vedi a p. 8
8 Quali gesti e atteggiamenti sottolineano l’innocente inconsapevolezza dei figli di Medea?
Le parole chiave
Vedi a p. 14
9 Quale altra figura presente nel brano viene definita misera e sventurata? Per
quale motivo?
La lingua e lo stile
Vedi a p. 13
10 Individua, trascrivi e illustra il significato delle due similitudini usate dal nunzio per descrivere la morte di Creonte e di sua figlia. Perché, secondo te, il
personaggio sceglie immagini tanto delicate?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
volume
B
11 Esponi il contenuto degli eventi presentati nel brano disponendoli secondo l’ordine cronologico in cui si svolgono e sostituendo ai dialoghi il discorso indiretto.
12 L’autore non esprime alcun giudizio sulla protagonista della tragedia, limitandosi
a spiegare le ragioni psicologiche delle sue azioni: che cosa pensi tu di questo personaggio? Ti sembra che i suoi gesti possano essere compresi alla luce
della situazione in cui si trova o ritieni che essi non possano essere giustificati in alcun modo? Esponi la tua opinione in un breve testo.
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lʼeroe nellʼepica latina
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L’eroe nell’epica
latina
LA FUNZIONE POLITICA DELL’EPICA LATINA
Mentre i poemi omerici si basavano su un patrimonio tradizionale già noto al pubblico attraverso la secolare trasmissione orale di aedi e rapsodi, l’epica latina
nasce in un contesto esplicitamente letterario e assolve soprattutto al compito politico di celebrare ed esaltare le personalità e gli eventi storici grazie
ai quali Roma è divenuta una potenza di prima grandezza. Questa nuova funzione diviene evidente nel I secolo a.C. quando, dopo aver vittoriosamente portato a termine numerose campagne militari e aver posto fine a circa cinquant’anni
di guerre civili, Ottaviano, erede di Giulio Cesare, assume l’appellativo di Augusto e – interrompendo di fatto la tradizione repubblicana – dichiara di voler restaurare quei valori del passato che hanno reso potente Roma.
A tale scopo viene istituito il circolo culturale di Gaio Mecenate, dove i più valenti intellettuali dell’epoca contribuiscono con la loro opera a legittimare l’ambizioso progetto culturale di Ottaviano. È questo il contesto in cui il poeta Virgilio compone l’Eneide, un poema epico che ha come protagonista Enea, un leggendario guerriero troiano sopravvissuto alla distruzione della sua città.
LA PIETAS DI ENEA
Dei mitici eroi greci la figura di Enea conserva alcuni tratti peculiari, come l’origine divina, il coraggio, la determinazione, la forza fisica, ma Virgilio non attribuisce
al suo personaggio la facoltà sovrumana di affrontare vittoriosamente imprese
eccezionali, poiché in lui vede soprattutto l’uomo nel quale si incarnano le virtù
tradizionali che hanno fatto di Roma la maggiore potenza del mondo antico.
L’epiteto che con maggiore frequenza definisce Enea è infatti pius, che vuol dire
dotato di pietas, un valore che comprende il senso del dovere, la devozione verso gli dei, il rispetto della famiglia e delle leggi che regolano i rapporti umani. Le
scelte dell’eroe non nascono quindi né dal desiderio di gloria o di bottino, né dalla volontà di affermare la propria superiorità individuale, ma dalla capacità di portare a termine la missione attribuitagli dal Fato, subordinando i propri interessi
personali al bene collettivo. In Enea la soggezione al Fato, che egli condivide con
gli altri eroi del mito, coincide con la necessità di adempiere ai suoi doveri anche quando ciò comporta dolori e lutti, e di aderire al compito di fondare la nuova stirpe da cui avrà origine la gens Iulia.
La reinterpretazione virgiliana dell’eroe troiano attribuisce un valore mitico anche
alla figura di Ottaviano Augusto che viene presentato come l’ultimo e più grande
discendente di una dinastia divina destinata a realizzare un progetto grandioso:
il principe appare come l’uomo destinato a dare compimento allo stesso disegno
del Fato, cui secoli prima aveva ubbidito Enea. Lo straordinario potere che egli
concentra nelle proprie mani viene in questo modo giustificato e legittimato.
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Virgilio
L’incontro
con i discendenti
IL BRANO
genere
poema
epico
tratto da
Eneide
(libro VI, vv. 752-853)
anno
I secolo a.C.
luogo
Roma
Dopo aver abbandonato Didone, Enea approda finalmente sulle coste italiche
e, seguendo le indicazioni del padre apparsogli in sogno, si reca dalla Sibilla
cumana che lo accompagna nell’oltretomba affinché gli venga svelato come
proseguire il suo viaggio.
Agli Inferi l’eroe incontra lo spirito di Anchise che dalla sommità di un’altura
gli mostra la processione dei suoi discendenti, illustrandogli l’altissima missione cui essi saranno chiamati.
veva detto Anchise; e il figlio, e con lui la Sibilla,
conduce in mezzo a quei gruppi,1 tra la folla e il brusío,
e sale un’altura, da cui tutto il lungo corteo
può osservare di fronte, vedere ogni viso che viene.
«E ora la gloria che aspetta la prole di Dardano,
quali nipoti attendiamo dall’Itala gente,
1’anime ricche di gloria, che al nostro nome verranno,
io ti dirò, voglio che tu conosca il tuo fato.
Colui, che vedi, quel giovane2 che all’asta pura s’appoggia,
è il più vicino alla luce per sorte, e prima nell’aria
celeste nasce, misto d’italico sangue,3
Silvio, nome albano, il figlio tuo postumo,
che tardi a te vecchio la sposa Lavinia
alleva tra i boschi, re e padre di re:
per lui4 su Alba la Longa5 la nostra stirpe avrà regno.
A lui vicino ecco Proca, gloria del sangue troiano,
e Capi e Numitore, e chi rinnova il tuo nome,
Silvio Enea,6 per pietà parimenti e per l’armi
glorioso, se mai abbia sorte di regnare su Alba.7
Che giovani! Guarda quanta forza dimostrano!
e come le tempie hanno ornate di quercia civile!8
Questi Nomento e Gabii e la città di Fidene,
A
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765
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1. in mezzo a quei gruppi: tra la folla di anime che attendono di
incarnarsi in un corpo mortale.
2. quel giovane: Silvio, il figlio di Enea e Lavinia che, secondo la
leggenda, sarebbe nato dopo la morte dell’eroe troiano
3. misto d’italico sangue: nato da sangue troiano e italico.
4. per lui: grazie a lui.
5. Alba la Longa: la città di Albalonga.
6. Proca … Capi … Numitore … Silvio Enea: sono i nomi di alcuni
re albani tramandati dallo storico Livio.
7. se mai abbia sorte di regnare su Alba: quando potrà finalmente
regnare su Alba. Il testo allude al fatto che Silvio Enea fu spodestato da
un usurpatore e tornò a regnare dopo molto tempo.
8. quercia civile: chi si distingueva per le virtù civili veniva incoronato
con un serto di foglie di quercia.
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lʼeroe nellʼepica latina
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quest’altri sui monti le rocche t’alzeranno di Collazia,
Pomezia, e d’Inuo il Castello, e Bola e Cora.9
Questi nomi saranno, terre ora son senza nome.
Ed ecco, all’avo compagno va il figlio di Marte,
Romolo, che Ilia madre dà in luce, del sangue d’Assàraco:10
vedi tu come s’erge sull’elmo duplice cresta,11
e il padre stesso dei superi lo segna già del suo onore?12
Sì, figlio, fondata da lui la nobile Roma
pari alle terre l’impero, all’Olimpo avrà l’animo,13
e sette rocche, unica, cingerà del suo muro,14
feconda d’eroi:15 così avanza turrita la madre
Berecinzia sul carro, fra i borghi di Frigia,
feconda di dei,16 e abbraccia cento nipoti,
celesti tutti,17 tutti abitanti le vette del cielo.
E ora piega i tuoi occhi, vedi qui questa gente,
i tuoi Romani. Cesare è qui, e tutta la stirpe di Iulo,18
destinata a venire sotto la volta del cielo.
Ecco l’uomo, ecco è questo che spesso ti senti promettere,
l’Augusto Cesare, il figlio del Dio,19 che aprirà
di nuovo pel Lazio il secolo d’oro, nei campi regnati
da Saturno una volta;20 e sui Garamanti e sugli Indi21
allargherà il regno: fuor dello Zodiaco è la terra,22
fuor dalle strade del sole e dell’anno,23 ove Atlante celifero24
regge sull’omero l’asse prezioso di stelle splendenti.
[Anchise continua, indicando ad Enea dapprima le anime dei re che faranno grande Roma, poi quelle dei
protagonisti della vita militare, politica e civile del periodo repubblicano, ed infine illustrandogli le ragioni
storiche per cui i Romani verranno considerati il più grande popolo del mondo.]
Forgeran con più arte spiranti bronzi25 altri popoli,
lo credo, e vivi dal marmo sapran trarre i volti,
diranno meglio le cause,26 le strade del cielo
9. Questi Nomento … Gabii … Fidene … rocche di Collazia …
Pomezia … d’Inuo il Castello … Bola … Cora: sono i nomi di
antichi insediamenti nel Lazio la cui fondazione viene attribuita ai
discendenti di Enea.
10. all’avo compagno va il figlio di Marte, Romolo, che Ilia
madre dà in luce, del sangue d’Assàraco: accanto al nonno (avo), il
re Numitore, arriva Romolo, il figlio nato da Marte e Rea Silvia, una
donna di sangue troiano (Ilia madre) perché discendente di Assàraco,
antenato di Enea.
11. vedi tu come s’erge sull’elmo duplice cresta: guarda come sul
suo elmo spicca una doppia cresta. L’elmo con due cimieri è una
caratteristica di Marte e del figlio Romolo.
12. e il padre stesso dei superi lo segna già del suo onore?: e lo
stesso Giove, padre degli dei (superi), lo onora come una divinità?
13. all’Olimpo avrà l’animo: sarà simile agli dei per spirito.
14. e sette rocche, unica, cingerà del suo muro: e sarà l’unica
città ad inglobare nelle sue mura sette colline.
15. feconda di eroi: madre di eroi.
16. così avanza turrita la madre Berecinzia sul carro, fra i borghi
di Frigia, feconda di dei: allo stesso modo in cui Cibele, la dea
madre di molte divinità venerata a Berecinto (madre Berecinzia)
avanza sul carro nelle città della Frigia con il capo cinto da torri.
Durante le processioni, la dea Cibele veniva rappresentata con la testa
coronata di torri, accompagnata da leoni o su un carro trainato da
questi animali.
17. celesti tutti: tutti di origine divina.
18. Cesare è qui, e tutta la stirpe di Iulo: tra loro si trova anche
Giulio Cesare e la discendenza di Iulo (gens Iulia).
19. l’Augusto Cesare, il figlio del Dio: Ottaviano Augusto, figlio
adottivo di Giulio Cesare (figlio del Dio).
20. che aprirà di nuovo pel Lazio il secolo d’oro, nei campi
regnati da Saturno una volta: che nel Lazio darà origine ad una
nuova età dell’oro, analoga a quella di Saturno.
21. sui Garamanti e sugli Indi: sui popoli dell’Africa e dell’Asia.
22. fuor dello Zodiaco è la terra: il suo impero si estenderà sotto
costellazioni sconosciute.
23. fuor dalle strade del sole e dell’anno: al di là dei punti raggiunti
dal sole nel suo corso annuale: Anchise intende dire che l’impero di
Augusto non avrà limiti.
24. celifero: che sorregge il cielo.
25. spiranti bronzi: statue di bronzo tanto fedeli da sembrare che
respirino (spiranti).
26. diranno meglio le cause: saranno più abili a pronunciare
orazioni.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
Enea in fuga da Troia con il
padre Anchise e il figlio
Ascanio, rilievo in terracotta.
27 misureranno a
sestante, il sorger
degli astri sapranno:
sapranno realizzare
calcoli astronomici
estremamente precisi.
850
misureranno a sestante, il sorger degli astri sapranno:27
tu ricorda, o Romano, di governare le genti:
questa sarà l’arte tua, e dar costumanze di pace,
usar clemenza a chi cede, ma sgominare i superbi».
da Virgilio, Eneide, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989
APPROFONDIMENTO
Enea nel mito
Come tutti gli eroi del mito, Enea è figlio di un uomo, Anchise, e di una divinità, la dea Afrodite.
Discendente per parte di padre dalla mitica stirpe di Dardano (e quindi dallo stesso Zeus), inizialmente viene allevato su una montagna, poi a cinque anni è affidato allo zio Alcatoo che provvede
alla sua educazione.
Sin da giovanissimo mostra di essere uno dei più valorosi guerrieri troiani e nel corso del decennale conflitto contro gli Achei è protagonista di numerosi combattimenti. Sul punto di essere ucciso
per due volte, viene salvato dagli dei perché il Fato gli ha affidato il compito di dare continuità alla
stirpe troiana in un’altra terra.
Dopo la caduta di Troia, seguendo le indicazioni di Afrodite, fugge e porta con sé il padre Anchise, il
figlio Ascanio, la moglie Creusa e i più importanti simboli religiosi della sua città, i Penati e il Palladio.
Secondo le tradizioni raccolte da Virgilio, Ascanio (chiamato anche Iulo) è il fondatore di Albalonga
da cui avrà origine la città di Roma.
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lʼeroe nellʼepica latina
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STRUMENTI DI LETTURA
Le parole chiave
L’eroe e il Fato: nel mondo romano il termine
Fato definisce la necessità immodificabile che
regola ogni aspetto del reale, seguendo principi che non possono essere conosciuti o indagati per via razionale. La parola Fato deriva
dal verbo fateor, “dire” e significa “ciò che è
stato detto”. L’origine di quella “parola
detta” è perciò il divino, quindi quanto “è
stato detto” non può essere in alcun modo
modificato, ma solo individuato e seguito.
L’intera vicenda di Enea è fortemente condizionata dal Fato, di fronte al quale nessuna
istanza personale ha peso: è il Fato che gli ha
permesso di scampare alla morte durante la
guerra contro gli Achei e, allo stesso tempo,
che gli ha imposto prove difficili, costringendolo prima ad abbandonare la sua patria e
successivamente a lasciare Didone (vedi a
p. 109) per raggiungere una nuova terra.
Fabula e intreccio
La finalità del poema: pienamente consapevole dei propri doveri di uomo, Enea si
adegua ai disegni del Fato anche se quasi
sempre ciò comporta perdite, dolori e rinunce. C’è un momento però in cui la rigorosa ubbidienza dell’eroe al proprio destino
diviene fonte di fierezza e orgoglio ed è
quando, nell’oltretomba, Anchise gli spiega
che il suo fato (v. 759) lo vuole progenitore
dei futuri governanti di Roma, la città da cui
nascerà il più grande impero del mondo.
Si tratta di un importantissimo snodo narrativo perché, esattamente a metà del poema,
Enea scopre finalmente il senso di quanto gli
è accaduto fino a quel momento e viene
messo in condizione di affrontare consapevolmente ciò che ancora deve verificarsi.
In questo episodio diviene esplicita la finalità
del poema poiché Virgilio, celebrando la
missione di Roma nella storia, attribuisce a
un personaggio mitico, Enea, il rango di eroe
nazionale e a una figura reale, Ottaviano Augusto, il merito di aver portato a termine e
realizzato un progetto le cui radici affondano
in un tempo remoto e leggendario. Per Virgilio, perciò, l’epica e l’eroe epico sono funzionali al fine che si propone. Scegliendo un
genere letterario che fin dal suo esordio ha il
compito di tramandare storie con una funzione “modellizzante”, cioè capaci di tra-
smettere un modello di comportamento,
di pensiero, di aggregazione, Virgilio pro-
pone al suo pubblico un termine di confronto. Enea è il Romano per eccellenza, la
sua pietas è diretta a rispettare principi di valore e di culto tipicamente romani e indica
così nella forma più tradizionalmente consona alla trasmissione di modelli, una precisa
immagine di riferimento.
I temi
Enea, simbolo dei valori romani: l’eroe
Enea rappresenta il modello ideale di cittadino romano poiché in lui si concentrano
tutte le qualità dei mores maiorum, i costumi
e le tradizioni degli antenati da cui trassero
origine il primo nucleo del diritto civile e le
stesse Dodici Tavole, le prime leggi scritte dei
Romani.
I valori di cui Enea è emblema sono il coraggio e la prestanza fisica ma anche il rispetto
degli obblighi familiari e la consapevolezza
dei propri doveri nei confronti della collettività. Egli, infatti, pur soffrendo per le scelte
cui il Fato lo costringe, persegue tenacemente la missione cui è stato destinato perché, come ognuno dei discendenti incontrati
nell’oltretomba, sente di appartenere a un ingranaggio più ampio inserito in un piano che
trascende i suoi desideri di individuo.
La discesa agli Inferi: il tema dell’eroe che,
da vivo, visita l’altro mondo non è un’invenzione virgiliana ma ricorre in molti miti dell’antichità; già il protagonista dell’Odissea
aveva incontrato nell’Ade le anime dei defunti
presentatesi a lui per essere interrogate. Nel
poema di Virgilio però questa situazione
viene sviluppata in modo molto più ampio ed
Enea, accompagnato dal padre Anchise, si
imbatte nella lunga processione dei suoi discendenti, che vengono rappresentati in movimento perché per i Romani, il futuro esiste
solo come prosecuzione di quanto è avvenuto in passato e già prima di nascere ciascuno è avviato ineluttabilmente ad assolvere
allo specifico compito cui è stato destinato.
I personaggi
La processione delle anime: la scena della
sfilata degli illustri discendenti di Enea – che
si apre con Silvio, figlio postumo dell’eroe
troiano, e si chiude con Marcello, l’amato nipote dell’imperatore Ottaviano Augusto – è
strutturata allo stesso modo dei cortei
che si organizzavano in occasione dei funerali dei nobili romani.
V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011
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LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA
A Roma, infatti, le famiglie gentilizie acquisivano il diritto di conservare le riproduzioni in
cera dei volti dei loro antenati (realizzate
prima della sepoltura) e quando un membro
della famiglia moriva, le immagini e le maschere degli antenati (imagines maiorum) venivano indossate da uomini che avevano le
stesse caratteristiche fisiche dei defunti,
erano abbigliati in modo da ricordare le cariche pubbliche da essi ricoperte in vita e
avanzavano su carri preceduti dalle insegne
distintive delle diverse magistrature.
La successione delle immagini avveniva secondo precisi criteri genealogici, per cui gli
antenati più antichi venivano collocati in
testa al corteo mentre il feretro era situato
alla fine della processione. La grandiosa rappresentazione della gloria e del prestigio
passati aveva un’importante funzione educativa sulle nuove generazioni perché raffor-
zava lo spirito di appartenenza familiare e induceva a emulare i comportamenti virtuosi
dei predecessori.
Le figure retoriche
Un’articolata similitudine paragona la straordinaria potenza della città di Roma, non ancora nata ma già viva nei disegni del Fato, a
quella di Cibele (vv. 783-787), la dea della fecondità di origine anatolica il cui culto era
stato ufficialmente introdotto nel mondo latino agli inizi del III secolo a.C. L’elemento che
accomuna i due termini di paragone è la fecondità, e in particolare la capacità di generare esseri eccezionali, poiché la dea è madre
di numerosissime divinità (v. 786 feconda di
dei), mentre a Roma è assegnato il glorioso compito di dare i natali a moltissimi eroi
(v. 784 feconda d’eroi).
Ferdinand Bol (16101680), Enea alla corte dei
latini (1661-1663 ca.).
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di
ffi
co
ltà
LABORATORIO
Comprensione
1 A quale scopo Anchise mostra a Enea le anime dei suoi successori?
2 Quali personaggi compaiono nel lungo corteo?
3 Quale tra queste figure appare più prestigiosa?
di
ffi
co
ltà
4 Quali luoghi saranno fondati dai discendenti di Enea?
Analisi
Le parole chiave
Vedi a p. 14
5 Con quale espressione Anchise sottolinea che le vicende di Enea sono state determinate dal Fato? Qual è, invece, la missione che il Fato ha attribuito
alla civiltà romana?
I temi
Vedi a p. 14
6 Il discorso di Anchise sottolinea il legame che la gens Iula ha con l’antica città di Troia e con alcune divinità: individua nel testo i relativi riferimenti e trascrivili sul quaderno.
Legame tra gens Iula e la città di Troia: ........................................................................................................................................
Legame tra gens Iula e gli dei: .......................................................................................................................................................................
7 In quali ambiti, altri popoli si dimostreranno superiori ai Romani ?
Imprese militari
Creazioni artistiche
Capacità di parlare in pubb lico
Scoperte geografiche
Conoscenze astronomiche
Abilità nel coltivare la terra
Le figure retoriche
Vedi a p. 13
8 Nella parte conclusiva del brano, Anchise afferma che le conquiste territoriali
di Ottaviano Augusto arriveranno “fuor dello Zodiaco … fuor dalle strade del
sole e dell’anno, ove Atlante celifero regge s ull’omero l’asse prezioso di stelle splendenti”. Quale figura retorica si cela in questi versi?
Produzione
di
ffi
co
ltà
Laboratorio
lʼeroe nellʼepica latina
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9 Fa’ la parafrasi del brano.
10 Esponi in un testo di 15 righe al massimo le ragioni per cui quest’episodio assume una funzione esplicitamente celebrativa all’interno del poema.
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