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L`eroe dal mito alla tragedia attica
on line volume B 1 L’eroe nel mito L’eroe nella poesia epica L’intelligenza dell’eroe tra metis e dolos OBIETTIVI 1a Chiarire il passaggio dalla narrazione orale alla trascrizione dei miti. 1b Seguire l’evoluzione dal mito, alla poesia epica, alla tragedia attraverso la figura dell’eroe. Il teatro greco 2a Per la figura dell’eroe nel mito, riconoscere la presenza di tratti fissi: caratteristiche comuni ai diversi eroi e situazioni ricorrenti in vicende differenti. L’eroe nella tragedia attica 2b Vedere come nella poesia epica gli eroi si trasformano in personaggi che si integrano nel contesto sociale di cui esemplificano i valori più alti. 3a Conoscere la nascita del teatro greco e della tragedia. L’eroe nell’epica latina 3b Vedere come la tragedia attica riprende le vicende del mito e dell’epica, arricchendo di particolari le vicende degli eroi. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 2 on line volume B L’eroe dal mito alla tragedia attica La vera ragione della prodezza eroica è altrove; non dipende da calcoli utilitaristici, né dal bisogno di prestigio sociale, ma è di ordine, si potrebbe dire, metafisico: è cioè legata alla condizione umana, che gli dei hanno fatto non soltanto mortale, ma anche soggetta, come per tutte le creature di quaggiù, dopo il fiorire della giovinezza, al declino delle forze e all’invecchiamento. L’impresa eroica si radica nella volontà di sfuggire alla vecchiaia e alla morte, per quanto “inevitabili” esse siano, e di superare entrambe. Si va oltre la morte se la si accetta invece di subirla, facendone la posta in gioco costante di una vita che assume così valore esemplare e che gli uomini celebreranno come un modello di “gloria imperitura”. Gli onori resi alla sua persona vivente, che l’eroe perde quando rinuncia alla lunga vita per scegliere la rapida morte, li riacquista centuplicati nella gloria che circonderà il suo personaggio di defunto per tutti i tempi a venire. J.P. Vernant, La morte eroica in L’individuo, la morte, l’amore, Raffaello Cortina, Milano 2000. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 on line volume B 3 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA L’eroe nel mito LA TRASCRIZIONE DEI MITI Il mito è un particolare tipo di racconto che ha come oggetto eventi svoltisi in un tempo remoto, diverso da quello attuale, e come protagonisti creature particolari: dei, demoni, eroi e, in alcuni casi, animali. I miti appartengono al patrimonio tradizionale di una comunità e vengono tramandati oralmente da speciali narratori, che li raccontano in pubblico in occasioni legate a momenti religiosi e scandite da specifici riti. Narrare miti e eseguire riti sono attività sociali che hanno come finalità principale la costituzione, la conservazione e il rafforzamento di una comunità. Una delle conseguenze della trasmissione orale dei miti è che dallo stesso racconto vengono generate varianti diverse, non sempre tra loro coerenti. Questo fenomeno si attenuerà solo con l’invenzione della scrittura quando l’atto della trascrizione conferirà alle storie mitiche la forma stabile e definitiva in cui noi le conosciamo. La formalizzazione di una particolare variante del mito da parte di scrittori prestigiosi ne garantisce l’immortalità ma non comporta l’immediata sparizione delle altre possibili versioni dello stesso racconto. Per questo motivo i mitografi che a partire dal IV secolo a.C. compilano raccolte sistematiche di miti cercano di appianare le contraddizioni presenti tra le diverse storie in vari modi. I canali scritti attraverso cui il ricco patrimonio mitologico è pervenuto sono la poesia epica, la letteratura erudita e la tragedia, generi assai diversi tra loro ma accomunati dal loro carattere profano1. Gli scrittori antichi infatti, dall’età classica in poi, si avvicinano ai miti con finalità letterarie più che religiose e la stesura di queste narrazioni avviene fuori dal contesto sacro e rituale in cui esse sono nate. DEI ED EROI 1. profano: l’aggettivo profano significa “privo di carattere sacro, che non ha attinenza con la religione né con ciò che ad essa è connesso”. Il termine deriva dal latino profanum che alla lettera vuol dire “che sta davanti, fuori (pro) dal recinto sacro del tempio (fanum), e ha come opposto semantico la parola sacro. Protagonisti di numerosi miti greci sono gli eroi, personaggi a metà tra gli uomini e gli dei che Omero ed Esiodo definiscono emìtheioi, cioè “semidei”, e il filosofo Aristotele afferma essere fisicamente e spiritualmente «superiori ai comuni mortali». La differenza più notevole tra gli eroi e gli dei sta nel fatto che le divinità sono, per definizione, eterne e immortali, mentre gli eroi sono vissuti – seppure in modo mitico e non storico – in un passato di lotte, conflitti e pericoli, hanno compiuto azioni decisive per il genere umano e infine sono morti, anche se in qualche mito si parla di eroi che invece di morire vengono rapiti e condotti all’isola dei Beati o trasferiti direttamente sull’Olimpo. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nel mito 4 on line Né dei né uomini, gli eroi si qualificano in relazione alla funzione che viene loro attribuita. Possono essere eroi civilizzatori, ossia fondatori di istituzioni civili o economiche, eroi antenati, cioè fondatori di stirpi o popoli, o eroi eponimi, figure da cui prendono nome luoghi geografici. La poesia epica antica definiva eroi esclusivamente coloro che avevano combattuto a Troia e a Tebe. Tuttavia a partire dal VI secolo anche uomini reali – ma eccezionali sotto qualche aspetto – dopo la morte ottengono la qualifica di eroi: i primi casi di eroizzazione di personaggi umani riguardano gli oikistai (fondatori di nuove colonie) e gli atleti vincitori di gare, mentre alla fine del V secolo anche il tragediografo Sofocle viene venerato come eroe dopo la morte. IL CULTO DEGLI EROI Il culto degli eroi, la cui origine risale all’epoca micenea (XVII-XII secolo a.C), è pubblico e si concentra nei pressi della loro tomba, l’hērōion, dove vengono celebrati rituali analoghi a quelli destinati alle divinità infere in quanto i sacrifici avvengono di notte e le vittime sono animali neri con la testa volta verso terra. Una delle ragioni di questo culto è costituita dalla protezione che l’eroe assicura alla propria città in guerra. Si narra che a Maratona fu visto Teseo a capo delle truppe ateniesi, mentre i cittadini di Locri lasciavano nel loro esercito un posto per Aiace Oileo e prima della battaglia di Salamina gli ateniesi invocarono Aiace e suo padre Telamone chiedendo loro aiuto e sostegno. I CARATTERI DELL’EROE L’interno del Tesoro di Atreo a Micene, XIII secolo a.C. L’analisi dei miti centrati sulla figura dell’eroe rivela la presenza di tratti costanti che accomunano personaggi diversi e di situazioni analoghe che riaffiorano in storie mitiche differenti. Quasi tutti gli eroi sono figli di divinità che si sono unite con un essere mortale e proprio a causa della loro nascita “illegittima” spesso da bambini sono esposti o abbandonati nelle acque da cui vengono fortunosamente salvati. La ricorrenza di situazioni di partenza tanto rischiose introduce un altro tratto tipico degli eroi, ossia la loro capacità di sopravvivere in condizioni estreme e di compiere gesta prodigiose e straordinarie. Anche dal punto di vista fisico gli eroi presentano caratteri insoliti e particolari che manifestano la loro diversità rispetto agli uomini comuni. Secondo il mito il V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 5 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA corpo di Achille è potente e smisurato, le ossa di Oreste rinvenute a Tegea rivelano una statura di sette cubiti (un cubito corrispondeva a circa cinquanta centimetri!) ed Eracle è dotato di una triplice fila di denti. Un altro tratto che accomuna gli eroi, distinguendoli decisamente dalle divinità, è il loro ruolo di combattenti. Infatti, nonostante molti dei abbiano combattuto in un passato mitico per consolidare la loro posizione e combattano ancora intervenendo nei conflitti umani, essi non possono essere considerati veri e propri guerrieri poiché, in quanto immortali, non rischiano la vita. I combattimenti sostenuti dagli eroi – che sono sempre monomachie perché tutti gli eroi sono esseri solitari – hanno invece sempre come esito finale la loro morte o quella degli avversari. LE SITUAZIONI RICORRENTI Una circostanza narrativa ricorrente nei miti eroici è costituita dal racconto delle peregrinazioni dei protagonisti, spesso costretti ad allontanarsi dalla patria d’origine a causa di guerre o atti colpevoli e ad affrontare lunghi e difficoltosi viaggi o vagabondaggi solitari durante i quali combattono con avversari di varia natura, fondano nuove città o stabiliscono speciali rapporti con i luoghi che accolgono le loro spoglie mortali. Il fatto poi che molti eroi mitici (per esempio il tebano Edipo e l’argivo Oreste) nel loro incessante vagare passino immancabilmente per Atene può essere considerato una rappresentazione mitica e simbolica dell’effettiva egemonia politica della città attica. Un’altra situazione frequentemente richiamata nei miti è l’uccisione casuale di un personaggio da parte dell’eroe, di cui una variante significativa e altrettanto comune è rappresentata dal caso in cui l’eroe uccide accidentalmente un familiare o una persona di cui solo dopo scopre la vera identità (come accade ad Edipo che uccide il padre Laio credendolo un brigante). In altri casi, pur non commettendo materialmente omicidio, l’eroe è causa involontaria della morte di un parente (come Teseo che inconsapevolmente spinge il padre Egeo al suicidio). Infine, un ulteriore tratto comune a questi racconti è la morte violenta e spesso prematura del protagonista. Moltissimi eroi muoiono nei combattimenti intorno a Tebe e a Troia, alcuni vengono trucidati a tradimento (come accade ad Agamennone al suo ritorno in patria), altri sono sbranati o fatti a pezzi dai loro antagonisti, altri ancora sono fulminati da Zeus o finiscono vittime di incidenti durante gare e sfide di vario genere. LA COSTRUZIONE DEL PERSONAGGIO-EROE Basandosi sui numerosi elementi mitici ricorrenti, alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che i diversi eroi sono frutto della composizione e dell’organizzazione di tratti fissi non riferibili in esclusiva a un singolo personaggio. Il carattere distintivo e peculiare di ciascun eroe deriverebbe perciò dalla diversa combinazione degli stessi motivi di partenza. L’accentuazione dell’uno o dell’altro tratto darebbe origine a quelle figure mitiche uniche e inconfondibili che chiamiamo eroi. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella poesia epica 6 on line L’eroe nella poesia epica L’EROE DAL MITO ALL’EPICA Nell’ampio tessuto narrativo del poema epico gli eroi del mito si trasformano in veri e propri personaggi e i loro tratti originari – eccessivi, feroci e a volte disumani – si ridimensionano, integrandosi nel contesto sociale in cui sono inseriti e del quale esemplificano i valori più alti. Nell’Iliade gli eroi sono l’espressione del principio ideale della kalokagathìa secondo il quale la magnificenza, la forza e l’armonia dell’aspetto fisico riflettono la nobiltà dei valori morali. La figura che rappresenta in modo più emblematico questo concetto è quella di Achille, il più temibile dei guerrieri achei, nel quale alla bellezza e all’eccezionale potenza del corpo si abbinano uno straordinario coraggio e un fortissimo senso dell’onore che lo spingono ad affrontare pericoli e avversari di ogni genere allo scopo di dimostrare la propria superiorità di guerriero. Anche in Ettore, il maggiore antagonista di Achille, ritroviamo tratti riconducibili ai valori della kalokagathìa ma poiché gli eroi mitici acquisiscono spessore di personaggi soprattutto grazie alle loro peculiarità individuali, nel guerriero troiano queste virtù eroiche vengono messe al servizio della comunità. Infatti, pur tenendo al proprio prestigio di combattente, Ettore si sente eroe in quanto difensore della patria, del nucleo familiare e degli dei della sua città. APPROFONDIMENTO Achille nel mito Achille è figlio di Peleo e della dea marina Teti che, secondo un mito, immergeva nel fuoco i figli appena nati per purificarli dalla loro parte mortale. Per questo motivo Peleo le sottrasse il settimogenito Achille quando le fiamme gli avevano già bruciato un osso del piede destro e lo affidò al centauro Chirone il quale disseppellì il corpo del gigante Damiso – celebre per la sua velocità nella corsa –, ne prese un osso e lo mise al posto di quello mancante. Successivamente Peleo (o in altri miti Teti) per scongiurare la profezia secondo cui Achille sarebbe morto sotto le mura di Troia, lo fece nascondere alla corte di Sciro; qui l’eroe, travestito da donna, rimase fino al momento in cui Odisseo, con l’astuzia, smascherò il suo inganno costringendolo a partire. Nell’Achilleide, il poeta latino Stazio (I secolo d.C.) sostiene invece che Teti immerse Achille bambino nelle acque dello Stige, rendendo invulnerabile tutto il suo corpo ad eccezione del tallone per il quale lo teneva e proprio in quel punto successivamente l’eroe fu colpito a morte. Nella rappresentazione che ne dà Omero il tratto della semi-invulnerabilità di Achille non è presente e l’eroe si distingue dai compagni soprattutto per la straordinaria e selvaggia forza fisica. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 7 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA VIRTÙ, ONORE E GLORIA Oplita in combattimento. Il mondo descritto nell’Iliade riproduce la struttura della società micenea – guidata da un’aristocrazia guerriera dotata di potere e ricchezza e nettamente distinta dal popolo – il cui valore dominante è quello dell’aretè, vale a dire la forza e il coraggio fisico e morale che vanno dimostrati nello scontro con il nemico. L’eroe compie imprese eccezionali allo scopo di ottenere timè kai klèos, “onore e fama”, poiché non è sufficiente essere forti e coraggiosi, ma occorre che queste virtù vengano riconosciute socialmente. I guerrieri impegnati nella guerra di Troia, infatti, non combattono né per il proprio popolo né per difendere un ideale ma per affermare il proprio valore individuale attraverso le gesta gloriose compiute in battaglia. Queste imprese, accolte dai compagni come segno di eccezionalità, vengono premiate con il bottino di guerra, tripodi di bronzo, armi preziose, donne di rango fatte prigioniere e schiave dell’eroe: senza questi segni visibili un atto eroico non sarebbe del tutto compiuto. Il riconoscimento esterno, infatti, quando è reso tangibile dagli oggetti ricevuti in dono, manifesta all’eroe che la sua eccezionalità è stata accolta e sancita dal gruppo di cui l’eroe fa parte. Tanto più è consistente e prezioso il premio ottenuto con l’azione bellica, quanto più l’eroe viene confermato nel suo ruolo e come tale può posizionarsi all’interno della società di cui fa parte (la città, il gruppo dei combattenti in una guerra ecc.). LA BELLA MORTE Il destino comune a molti eroi mitici di morire precocemente e in modo violento è alla base dell’ideale epico della bella morte, che si raggiunge affrontando valorosamente un nemico di pari forza e dignità. Tutti gli eroi dell’Iliade ricercano con ostinazione la bella morte poiché essa è l’unico strumento per ottenere una gloria che non muoia con la loro morte naturale e sottrarre il proprio nome all’inevitabile dimenticanza che cancella ogni traccia della presenza umana. Poiché i Greci non attribuiscono alcuna importanza alla vita nell’oltretomba, configurata come un luogo in cui si aggirano ombre senza memoria, l’unica immortalità possibile è quella che si realizza nel ricordo dei vivi i quali, attraverso il racconto delle imprese eccezionali dell’eroe, legano per sempre il suo nome agli ideali eterni di valore, bellezza e coraggio. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella poesia epica OMERO Il duello finale tra Achille ed Ettore IL BRANO Incalzati dagli Achei, i Troiani si rifugiano all’interno delle mura della città mentre Ettore rimane sul campo di battaglia deciso ad affrontare Achille in un duello finale da cui dipende il destino dei due popoli. Il feroce combattimento si conclude con la sconfitta dell’eroe troiano, la cui fine esemplifica l’ideale greco di “bella morte”: con il suo valore Ettore può acquisire una fama che farà sopravvivere il suo nome alla dissoluzione del corpo, ma solo a condizione che esso possa ricevere un’adeguata sepoltura. quando furon vicini marciando uno sull’altro, il grande Ettore elmo lucente, parlò per primo ad Achille: «Non fuggo più1 davanti a te, figlio di Peleo, come or ora corsi tre volte intorno alla grande rocca di Priamo, e non seppi sostenere il tuo assalto; adesso il cuore mi spinge a starti a fronte, debba io vincere o essere vinto. Su invochiamo gli dei: essi i migliori testimoni saranno e custodi dei patti; io non intendo sconciarti2 orrendamente, se Zeus mi darà forza e riesco a strapparti la vita; ma quando, o Achille, t’abbia spogliato l’inclite3 armi, renderò il corpo agli Achei: e anche tu fa’ così». E guardandolo bieco,4 Achille piede rapido disse: «Ettore, non mi parlare, maledetto,5 di patti: come non v’è fida alleanza fra uomo e leone, e lupo e agnello non han mai cuori concordi, ma s’odiano senza riposo uno con l’altro, così mai potrà darsi che ci amiamo io e te; fra di noi non saran patti, se prima uno, caduto, non sazierà col sangue Ares,6 il guerriero indomabile. Ogni bravura ricorda;7 ora sì che tu devi esser perfetto con l’asta e audace a lottare! Tu non hai via di scampo, ma Pallade Atena8 t’uccide con la mia lancia: pagherai tutte insieme le sofferenze dei miei, che uccidesti infuriando con l’asta». Diceva, e l’asta scagliò, bilanciandola; ma vistala prima, l’evitò Ettore illustre: la vide, e si rannicchiò, sopra volò l’asta di bronzo e s’infisse per terra; la strappò Pallade Atena, la rese ad Achille, non vista da Ettore pastore di genti.9 Ettore, allora, parlò al Pelide10 perfetto: 8 on line genere poema epico tratto da Iliade (libro XXII, vv. 248-400) anno VIII secolo a.C. luogo Grecia E 255 260 265 270 275 1. Non fuggo più: precedentemente Ettore era fuggito davanti ad Achille e, inseguito da lui, aveva fatto tre volte il giro delle mura della città. 2. sconciarti: straziare il tuo cadavere. 3. inclite: gloriose. 4. bieco: minaccioso, accigliato. 5. maledetto: la violenta risposta di Achille è causata dalla sua ira contro Ettore, che ha ucciso l’amico Patroclo. 6. Ares: il dio della guerra. 7. Ogni bravura ricorda: fa’ appello a tutta la tua abilità di guerriero. 8. Pallade Atena: la dea Atena, figlia di Zeus, aveva l’appellativo di Pallade che significa “scuotitrice dell’asta”. 9. pastore di genti: epiteto che significa “capo”, “condottiero”. 10. Pelide: Achille, figlio di Peleo. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 9 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA 280 285 11. leggera: sopportabile. 12. Teucri: Troiani, dal nome di Teucro, mitico re della regione della Troade. 13. te morto: se tu fossi morto. 14. dardo: termine che definisce qualunque arma da lancio, quindi sia la freccia che la lancia. 15. Deífobo: è il fratello minore di Ettore di cui Atena ha preso le sembianze per ingannare il principe troiano che crede erroneamente di poter contare sul suo aiuto. 16. figlio arciero di Zeus: Apollo, armato di arco. 17. Moira: la divinità che presiede alla vita dell’uomo decretandone la fine. 18. i futuri: i posteri. 19. si raccolse: si rannicchiò per prendere maggiore slancio. 20. appiattato: nascosto. 21. acuta: dalla punta acuminata. 22. parò: oppose come riparo. 23. squassava: scuoteva violentemente. 24. a quattro ripari: a quattro strati. 25. la bella chioma d’oro, che fitta Efesto lasciò cadere in giro al cimiero: la criniera dorata che Efesto aveva applicato al pennacchio dell’elmo (cimiero) di Achille costruito da lui su invito di Teti, madre dell’eroe. 26. Espero: il pianeta Venere. 27. pervia: accessibile alla lancia. 28. ch’Ettore aveva rapito, uccisa la forza di Patroclo: che Ettore aveva sottratto al cadavere di Patroclo dopo averlo ucciso. 290 295 300 305 310 315 320 325 «Fallito! Ma dunque tu non sapevi, Achille pari agli dei, no affatto, da Zeus la mia sorte; eppure l’hai detta. Facevi il bel parlatore, l’astuto a parole, perché atterrito, io scordassi il coraggio e la furia. No, non nella schiena d’uno che fugge pianterai l’asta, ma dritta in petto, mentre infurio, hai da spingerla, se un dio ti dà modo. Evita intanto questa mia lancia di bronzo: che tu possa portarla tutta intera nel corpo. Ben più leggera11 sarebbe la guerra pei Teucri,12 te morto:13 ché tu sei per loro l’angoscia più grande». Diceva, e bilanciandola scagliò l’asta ombra lunga; e colse nel mezzo lo scudo d’Achille, non sbagliò il colpo; ma l’asta rimbalzò dallo scudo; s’irritò Ettore, che inutile il rapido dardo14 gli fosse fuggito di mano, e si fermò avvilito, perché non aveva un’altr’asta di faggio; chiamò gridando forte il bianco scudo Deífobo,15 chiedeva un’asta lunga: ma quello non gli era vicino. Comprese allora Ettore in cuore e gridò: «Ahi! Davvero gli dei mi chiamano a morte. Credevo d’aver accanto il forte Deífobo: ma è fra le mura, Atena m’ha teso un inganno. M’è accanto la mala morte, non è più lontana, non è inevitabile ormai, e questo da tempo era caro a Zeus e al figlio arciero di Zeus,16 che tante volte m’han salvato benigni. Ormai m’ha raggiunto la Moira.17 Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò, ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri18 lo sappiano». Parlando così, sguainò la spada affilata, che dietro il fianco pendeva, grande e pesante, e si raccolse19 e scattò all’assalto, com’aquila alto volo, che piomba sulla pianura traverso alle nuvole buie, a rapir tenero agnello o lepre appiattato:20 così all’assalto scattò Ettore, la spada acuta21 agitando. Ma Achille pure balzò, di urla empì il cuore selvaggio: parò22 davanti al petto lo scudo bello, adorno, e squassava23 l’elmo lucente a quattro ripari;24 volava intorno la bella chioma d’oro, che fitta Efesto lasciò cadere in giro al cimiero.25 Come la stella avanza fra gli astri nel cuor della notte, Espero,26 l’astro più bello ch’è in cielo, così lampeggiava la punta acuta, che Achille scuoteva nella sua destra, meditando la morte d’Ettore luminoso, cercando con gli occhi la bella pelle, dove fosse più pervia.27 Tutta coprivan la pelle l’armi bronzee, bellissime, ch’Ettore aveva rapito, uccisa la forza di Patroclo;28 là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita. Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava, V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella poesia epica 10 on line Oplita in corsa con il tipico scudo nella mano sinistra e la lancia in quella destra, lastra in terracotta dipinta del VI secolo a.C. 330 335 340 345 350 dritta corse la punta traverso al morbido collo; però il faggio greve29 non gli tagliò la strozza,30 così che poteva parlare, scambiando parole. Stramazzò nella polvere: si vantò Achille glorioso: «Ettore, credesti forse, mentre spogliavi Patroclo, di restare impunito: di me lontano non ti curavi, bestia! ma difensore di lui, e molto più forte, io rimanevo sopra le concave navi, io che ti ho sciolto i ginocchi.31 Te ora cani e uccelli sconceranno sbranandoti: ma lui32 seppelliranno gli Achei». Gli rispose senza più forza, Ettore elmo lucente: «Ti prego per la tua vita, per i ginocchi, per i tuoi genitori, non lasciare che presso le navi mi sbranino i cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo infinito,33 i doni che ti daranno il padre e la nobile madre: rendi il mio corpo alla patria, perché del fuoco diano parte a me morto34 i Teucri e le spose dei Teucri». Ma bieco guardandolo, Achille piede rapido disse: «No, cane, non mi pregare, né pei ginocchi né pei genitori; ah! che la rabbia e il furore dovrebbero spingere me a tagliuzzar le tue carni e a divorarle così, per quel che m’hai fatto: nessuno potrà dal tuo corpo tener lontane le cagne, nemmeno se dieci volte, venti volte infinito riscatto o mi pesassero qui, altro promettessero ancora; 29. il faggio greve: la pesante asta di faggio. La lancia era nei duelli la principale arma d’offesa. 30. la strozza: la gola. 31. io che ti ho sciolto i ginocchi: io che ti ho ucciso, privandoti del vigore. Le ginocchia erano considerate la sede della forza vitale. 32. lui: Patroclo. 33. oro e bronzo infinito: un abbondante riscatto di oggetti d’oro e di bronzo. 34. del fuoco diano parte a me morto: possano bruciare il mio cadavere. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 11 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Fabbricazione delle armi di Achille in un affresco del I secolo d.C. 355 35. Dardanide: discendente di Dardano. 36. ché: perché. 37. un cuore di ferro: un animo duro, insensibile. 38. numi: dei. 39. Febo Apollo: Febo è un appellativo di Apollo che significa “luminoso”. 40. sopra le Scee: sulle porte della città di Troia. 41. La Chera io pure l’avrò: anch’io sono destinato a morire. La Chera è un demone che rapisce le anime per portarle nel mondo degli inferi. 42. meditò ignominia contro Ettore: decise di oltraggiare il corpo del glorioso Ercole. 43. corregge: cinture. 44. alte levando: sollevando verso l’alto. 45. vogliosi: ubbidienti. 360 365 395 400 nemmeno se a peso d’oro vorrà riscattarti Priamo Dardanide,35 neanche così la nobile madre piangerà steso sul letto il figlio che ha partorito, ma cani e uccelli tutti ti sbraneranno». Rispose morendo Ettore elmo lucente: «Va’, ti conosco guardandoti! Io non potevo persuaderti, no certo, ché36 in petto hai un cuore di ferro.37 Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi,38 quel giorno che Paride e Febo Apollo39 con lui t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee».40 Mentre diceva così, l’avvolse la morte: la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade, piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore. Rispose al morto il luminoso Achille: «Muori! La Chera io pure l’avrò,41 quando Zeus vorrà compierla e gli altri numi immortali». […] Disse, e meditò ignominia contro Ettore42 glorioso: gli forò i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia al calcagno, vi passò due corregge43 di cuoio, lo legò al cocchio, lasciando strasciconi la testa e balzato sul cocchio, alte levando44 le nobili armi, frustò per andare: vogliosi45 i cavalli volarono. da Omero, Iliade, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990 V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella poesia epica 12 on line STRUMENTI DI LETTURA I temi La gloria imperitura: la condizione dell’eroe omerico è tragica e paradossale in quanto egli può raggiungere l’immortalità solo morendo. Per questo motivo, nel corso del suo duello con Achille, Ettore cerca ostinatamente la bella morte, disposto a subire i colpi dell’avversario fino allo stremo e con onore, senza fuggire voltando le spalle all’avversario (vv. 283-284 No, non nella schiena d’uno che fugge pianterai l’asta, / ma dritta in petto, mentre infurio, hai da spingerla). Tuttavia, perché il nome del guerriero venga consegnato ai posteri, il suo corpo deve essere onorato con riti funebri che gli permettano di passare dalla condizione di essere umano vivo, inserito in un tessuto di relazioni sociali, a quello di morto degno di essere ricordato. Infatti la mancanza di un rito funebre impedisce alla psychè – lo spirito che lascia il corpo dopo la morte – di accedere all’Ade e disonora l’eroe, sottraendogli la gloria imperitura che meriterebbe per il suo coraggio (v. 305 ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri lo sappiano). Per questo, prima di dare inizio al combattimento fatale, Ettore propone ad Achille un patto che impegni il vincitore a restituire le spoglie del nemico (vv. 256-259 io non intendo sconciarti orrendamente, / se Zeus mi darà forza e riesco a strapparti la vita; / ma quando, o Achille, t’abbia spogliato l’inclite armi, / renderò il corpo agli Achei: e anche tu fa’ così) affinché esse ricevano i meritati onori e diano all’eroe fama immortale. L’oltraggio al cadavere: nel rifiutare la proposta di Ettore, Achille esprime la volontà di vendicare la morte di Patroclo abbandonando il corpo del nemico agli uccelli e ai cani affinché lo divorino e ne facciano scempio (vv. 335-336, v. 348, v. 354). La minaccia di Achille e il terrore con cui l’indomito Ettore la accoglie sono spiegabili se si considera l’importanza che l’integrità del cadavere assume nei rituali funebri greci. Nell’Iliade i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia vengono lavati, cosparsi d’olio, profumati e ornati di stoffe preziose; successivamente vengono esposti sul letto funebre per il lamento delle donne ed infine bruciati; dopo il rogo le loro ossa vengono deposte nella tomba nei cui pressi viene eretta una stele allo scopo di ricordare il nome e le imprese dell’eroe, rendendone eterne la giovinezza e la bellezza che continueranno a vivere nei pubblici encomi e nei canti epici. Non restituire o profanare il corpo dell’avversario significa di fatto impedirgli di accedere alla condizione di morto glorioso, condannandolo all’ignominia estrema. Il cadavere sporcato di polvere, tanto straziato da essere irriconoscibile, smembrato dagli animali o abbandonato alla decomposizione rappresenta l’esatto contrario della bella morte, perché la mancata sepoltura impedisce all’anima dell’eroe di varcare le porte Partenza di un soldato per la guerra raffigurata su un vaso dell’VII secolo a.C. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 13 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA dell’Ade e alla comunità di perpetuare, mediante la tomba, il ricordo del suo nome e delle sue gesta. Solo il corpo integro, bello come bello è stato in vita l’eroe, può rendere completa e piena la “gloria” (in greco il kléos), che ogni eroe cerca, in pari misura con gli atti della sua vita e con la sua morte. I personaggi L’intervento degli dei: nel mondo omerico vittorie e sconfitte non sono mai comple tamente nelle mani di chi combatte ma dipendono dalla volontà degli dei. Questa consapevolezza da un lato spinge gli eroi all’azione, alimentando la convinzione che un intervento soprannaturale possa risolvere anche le circostanze più difficili, dall’altro costituisce l’aspetto più tragico del loro destino in quanto, se le divinità sono ostili, nessuno sforzo può garantire il successo di un’impresa. In quest’episodio risulta decisivo l’intervento della dea Atena, da cui Achille si sente sostenuto mentre scaglia la sua lancia contro l’avversario (vv. 270-271 Tu non hai via di scampo, ma Pallade Atena / t’uccide con la mia lancia) poiché prima ella restituisce all’acheo l’arma che ha fallito il colpo (vv. 276277 la strappò Pallade Atena, / la rese ad Achille, non vista da Ettore pastore di genti) poi, assunte le sembianze di Deìfobo, induce Ettore ad affrontare da solo il furore di Achille, (vv. 294-295 chiamò gridando forte il bianco scudo Deífobo, chiedeva un’asta lunga: ma quello non gli era vicino). Nell’Iliade accade di frequente che gli dei non si comportino in modo leale per favorire con ogni mezzo i loro protetti tanto che Zeus è spesso costretto a richiamarli all’ordine affinché i loro interventi non ostacolino i disegni della Moira. Le parole chiave La Moira: Moira in greco significa “parte”. Infatti proprio questo si tratta: a ciascuno è assegnata la propria “parte” fin dalla nascita e con essa una porzione di beni e di mali che è inevitabile. La Moira è una forza impersonale e inflessibile che impone una legge che non può essere trasgredita da nessuno poiché ciò altererebbe l’ordine del mondo. È la Moira il vero arbitro delle vicende umane e neanche Zeus conosce le sue decisioni. Poco prima che inizi lo scontro vero e proprio, infatti, Zeus pesa le sorti dei due eroi sulla sua bilancia d’oro, scoprendo in quel momento che quello destinato a morire è Ettore. Solo allora ad Atena è concesso scendere sul campo di battaglia per l’ultimo ingannevole ma risolutivo intervento a favore di Achille che consentirà di attuare le decisioni della Moira. Di fronte alla Moira anche Ettore è costretto ad arrendersi, consapevole del fatto che la sua vita è giunta al termine e che neppure gli dei che fino a quel momento lo hanno protetto potranno più aiutarlo (v. 303 Ormai m’ha raggiunto la Moira). La Moira, che in Omero è una forza inevitabile e astratta, viene personificata già nelle opere di Esiodo nella figura di tre filatrici, per l’idea che la vita è assimilabile a una tessitura. Atropo, Cloto e Lachesi, le Moire, sono dunque le tre sorelle tessitrici che regolano la durata della vita degli uomini, rappresentata da un filo che la prima tende, la seconda avvolge e la terza taglia al momento della morte. Nessuno ha la possibilità di distogliere le tre Moire dalla loro opera eterna di tessitura, né di conoscerne in anticipo l’opera che andrà accettata con inevitabile necessità. Fabula e intreccio Nelle parole che Ettore morente rivolge ad Achille troviamo un esempio di prolessi, poiché il troiano anticipa la fine dell’eroe acheo per mano di Paride (vv. 358-360 Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi, / quel giorno che Paride e Febo Apollo con lui / t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee) in modo analogo a quanto in precedenza aveva fatto Patroclo in una circostanza simile (vedi a p. 50). Ogni volta che un uomo si avvicina alla morte ha uno squarcio di preveggenza e anticipa con veridicità avvenimenti del futuro. Sotto questo aspetto l’Iliade dimostra il proprio legame con l’epica orale poiché si ripropongono situazioni fisse che si ripetono nel poema. Si tratta di episodi formulari, che permettevano al poeta epico di facilitare la sua performance orale e nella forma scritta riproponevano situazioni ricorrenti, nelle quali il pubblico riconosceva l’indicazione di un modello di comportamento o di una informazione significativa. La lingua e lo stile Anche in questo episodio l’autore fa largo uso di epiteti che si riferiscono ai due protagonisti e alludono soprattutto alle loro peculiarità di combattenti. Achille è detto piede rapido (vv. 260, 344) per la velocità che durante i combattimenti gli consente di spostarsi rapidamente, mente Ettore è elmo lucente (vv. 249, 337, 355) perché la sua imponenza e il suo coraggio lo rendono visibile da qualunque punto del campo di battaglia. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 14 di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 Quale accordo propone Ettore ad Achille prima di iniziare il duello? 2 Qual è la risposta di Achille? 3 In quale punto del corpo Achille ferisce Ettore? di ffi co ltà 4 Come si conclude il combattimento? Analisi I temi Vedi a p. 14 5 Per quale ragione ideale Ettore, pur consapevole della morte imminente, decide di combattere fino alla fine? Trascrivi le frasi in cui l’eroe spiega i motivi del proprio comportamento. 6 Con quali azioni Achille cerca di profanare il cadavere di Ettore? I personaggi Vedi a p. 8 7 Da quali divinità si sentono protetti i due eroi? 8 In quale momento Ettore comprende di essere stato abbandonato dagli dei? Le parole chiave Vedi a p. 14 9 Anche Achille fa un indiretto riferimento al’inesorabile destino che regola la vita di tutti gli uomini: in quale punto dell’episodio? La lingua e lo stile Vedi a p. 10 10 Individua gli epiteti con i quali vengono definiti i due eroi e spiega quali di essi sottolineano le caratteristiche specifiche dei personaggi e quali, invece, sono generici e quindi riferibili indifferentemente all’uno o all’altro. Trova poi un esempio di epiteto riferito ad un oggetto inanimato. Produzione di ffi co ltà Laboratorio lʼeroe nella poesia epica on line 11 Dividi il brano in sequenze e a ciascuna attribuisci un titolo sotto forma di proposizione. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 15 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA L’intelligenza dell’eroe tra metis e dolos LA METIS Se le qualità distintive della maggior parte degli eroi sono la forza fisica e il valore guerriero, molti sono i protagonisti dei miti celebri per l’astuzia con cui riescono a portare a termine imprese apparentemente disperate. I Greci definiscono metis quella particolare forma d’intelligenza fatta di accortezza, prudenza ed efficacia pratica che si rivela indispensabile nelle situazioni incerte e che, grazie ad accorgimenti, artifici, inganni e stratagemmi di vario genere, fa trionfare chi – meno potente dell’avversario – sembrerebbe destinato alla sconfitta. A differenza degli uomini comuni, l’eroe dotato di metis è in grado di progettare – cioè di anticipare nella mente le conseguenze delle proprie azioni orientando il corso di un futuro oscuro per definizione – e di attendere il momento adatto per agire rapidamente ma non sotto la spinta dell’impulso. Essere dotato di metis significa dunque possedere abilità, astuzia e pazienza, doti tanto importanti quanto il coraggio e la forza fisica. L’eroe greco simbolo della metis è Odisseo, che nell’Iliade svolge un ruolo determinante nella vittoria achea e nell’Odissea è protagonista di un lungo e tormentato viaggio di ritorno verso casa, altro tema ricorrente nei miti eroici. APPROFONDIMENTO Odisseo nel mito Nei poemi omerici Odisseo è detto figlio di Laerte e Anticlea, mentre altre tradizioni sostengono che la madre lo avrebbe concepito con Sisifo, lo scaltrissimo figlio di Eolo che dopo la morte riuscì con l’astuzia a sfuggire all’oltretomba e a tornare sulla terra. Divenuto adulto, Odisseo sostituisce Laerte nel governo dell’isola di Itaca. È lui a consigliare a Tindaro, padre della bella Elena, di far giurare ai molti pretendenti della ragazza che rispetteranno la scelta matrimoniale e aiuteranno il prescelto a far valere i propri diritti nel caso qualcuno li metta in discussione. Ed è a causa di questo impegno che, quando Paride sottrae Elena a Menelao, molti eroi sono obbligati a partecipare alla guerra contro Troia. Anche Odisseo è tenuto a partire per Troia ma, secondo una tradizione posteriore a Omero, giunge a fingersi pazzo per evitarlo. Smascherato da Palamede, è costretto a mettersi in viaggio alla testa di dodici navi. Nel corso del lungo conflitto entra a far parte del consiglio dei capi achei, assumendo il ruolo di mediatore e consigliere di Agamennone e portando a termine numerose imprese nelle quali dimostra la propria metis: a lui è attribuita l’idea della costruzione del cavallo di legno che provocherà la disfatta della città assediata. A guerra conclusa, Odisseo intraprende un lungo nóstos (viaggio di ritorno verso casa) alla fine del quale approda a Itaca dove con un’ulteriore prova di astuzia riesce a sconfiggere i pretendenti di Penelope che hanno occupato il suo palazzo e a riprendere possesso del regno. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos 16 on line Odisseo nell’Ade sacrifica il montone per propiziare l’incontro con Tiresia, particolare da un vaso del IV secolo a.C. IL DOLOS: L’INGANNO COME NECESSITÀ Protetto da Atena, Odisseo è per definizione il molto astuto (polymetis) e il molto abile (polyméchanos). La sua metis si manifesta sotto forme sempre diverse perché le difficoltà che deve affrontare sono mutevoli e cangianti come la vita stessa e richiedono grande duttilità mentale. La maggiore abilità di Odisseo consiste nel dissimulare le proprie intenzioni presentandosi per quello che non è, occultando le sue trappole sotto un’apparenza rassicurante o seducente. Per questo motivo, se da un lato la sua metis suscita ammirazione poiché spesso si rivela più preziosa e risolutiva della forza, dall’altro essa assume talvolta la connotazione negativa del dolos, ossia dell’inganno. In effetti, in molti miti preomerici Odisseo è presentato soprattutto come autore di imbrogli e subdole macchinazioni che non trovano spazio nell’Iliade e nell’Odissea probabilmente perché risultano estranee al sistema di valori su cui sono costruiti i due poemi nei quali, invece, gli inganni architettati dall’eroe vengono “idealizzati”, cioè giustificati come inevitabili e finalizzati alla realizzazione di una nobile impresa. Nell’Iliade, ad esempio, l’episodio in cui, insieme a Diomede, Odisseo rapisce i velocissimi cavalli bianchi di Reso, sterminando a tradimento nel sonno dodici guerrieri nemici, viene presentato come un’azione necessaria per conseguire la conquista di Troia. Nel mondo omerico non esiste quindi contrapposizione tra metis e dolos, né su queste qualità viene espresso un diverso giudizio morale, in quanto esse appaiono strettamente e intrinsecamente collegate. Il dolos non è altro che lo strumento di cui si serve la metis per perseguire un obiettivo legittimo, sia esso conquistare una città o fare ritorno in patria. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 17 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA OMERO La metis contro la magia: Odisseo e Circe IL BRANO genere poema epico tratto da Odissea (libro X, vv. 210-399) anno VIII secolo a.C. luogo Grecia Con l’unica nave scampata alle tempeste e un drappello di sopravvissuti Odisseo giunge all’isola di Eèa, abitata dalla bellissima maga Circe, figlia del Sole. Un piccolo gruppo di uomini parte per esplorare il territorio ma rimane vittima degli incantesimi di Circe che trasforma i compagni di Odisseo in maiali e li rinchiude in un recinto. Il compito dell’eroe appare difficilissimo perché la forza e il coraggio nulla possono contro la potenza dei sortilegi della maga, ma la sua astuzia e l’intervento determinante del dio Ermes gli permettono di capovolgere a proprio vantaggio una situazione disperata. rovarono in un vallone la casa di Circe, fatta di pietre lisce, in posizione scoperta. E intorno c’erano lupi montani e leoni, che lei stregò, dando farmachi tristi.1 Questi non si lanciarono sugli uomini, anzi, con le code diritte a carezzarli si alzarono. Come i cani intorno al padrone, che dal banchetto ritorna, si sfregano; perché porta sempre qualche dolce boccone; così intorno a loro i lupi zampe gagliarde2 e i leoni si sfregavano; allibirono quelli a veder mostri paurosi.3 Si fermarono nell’atrio della dea trecce belle,4 e Circe dentro cantare con bella voce sentivano, tela tessendo grande e immortale, come sono i lavori delle dee, sottili e splendenti e graziosi. Fra loro prendeva a parlare Políte capo di forti, ch’era il più caro per me dei compagni e il più accorto: «O cari, qui dentro una che tesse gran tela soave canta, e tutto il paese ne suona; o donna o dea. Su, presto, chiamiamo!» Così disse e quelli gridarono chiamando. Subito lei, uscita fuori, aperse le porte splendenti e li invitava; e tutti stoltamente le tennero dietro. Ma Euríloco restò fuori, ché temeva un inganno. Li condusse a sedere sopra troni e divani e per loro del cacio, della farina d’orzo e del miele nel vino di Pramno5 mischiò: ma univa nel vaso farmachi tristi, perché del tutto scordassero la terra paterna. T 215 220 225 1. farmachi tristi: filtri magici dal potere nocivo. 2. zampe gagliarde: dalle zampe possenti. 3. allibirono quelli a veder mostri paurosi: i compagni si spaventarono vedendo le belve feroci comportarsi in modo tanto mansueto. 4. trecce belle: l’epiteto si riferisce alla bellezza dei capelli di Circe. 5. vino di Pramno: un vino forte, molto rinomato nell’antichità. 230 235 V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos 240 245 250 255 260 265 270 275 280 E appena ne diede loro e ne bevvero, ecco che subito, con la bacchetta battendoli, nei porcili li chiuse. Essi di porci avevano testa, e setole e voce e corpo: solo la mente era sempre quella di prima. Così quelli piangenti furono chiusi; e a loro Circe ghiande di leccio6 e di quercia gettava e corniole7 a mangiare, come mangiano i porci che a terra si voltolano.8 Euríloco tornò indietro, all’agile nave nera, notizia a dir dei compagni, a narrarne la sorte crudele. Ma non poteva formare parola per quanto volesse, sconvolto in cuore dallo strazio terribile: i suoi occhi erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva. Ma quando tutti l’interrogammo stupiti, finalmente degli altri compagni narrò la rovina: «Andammo come ordinasti, in mezzo al querceto, Odisseo luminoso, e in un vallone trovammo bella dimora, fatta di pietre lisce, in un luogo scoperto. Dentro una, che gran tela tesseva, cantava armoniosa, o dea o donna. Essi gridarono chiamando. Subito lei, uscita fuori, aperse le porte splendenti e ci invitava: e tutti stoltamente le tennero dietro. Ma io rimasi fuori, perché sospettavo un inganno. E son tutti spariti, nessuno di loro è riapparso; a lungo seduto, io son rimasto a spiare». Così raccontava, e io allora la spada a borchie d’argento sulla spalla gettai, grande e bronzea; e l’arco a tracolla; e volevo forzarlo9 a guidarmi per la medesima via. Ma con le due mani le ginocchia afferrandomi, mi supplicava e singhiozzando parole fugaci diceva: «Non mi condurre, non voglio, alunno di Zeus, lasciami! So già che tu pure non tornerai, e nessun altro ricondurrai dei compagni: piuttosto, con questi prestissimo fuggiamo; ancora, forse, possiamo evitare il mal giorno».10 Così parlava, ma io ricambiandolo dissi: «Euríloco, dunque tu resta qui in questo luogo mangiando e bevendo, vicino alla nera concava nave. Io però vado, troppo grave dovere mi stringe!» Così dicendo, mi allontanavo dalla nave e dal mare. E quando ormai, movendo per i sacri valloni, di Circe ricca di farmachi stavo per giungere al grande palazzo, allora mi venne incontro Ermes verga d’oro,11 mentre arrivavo alla casa, simile a un giovane eroe, cui fiorisce la prima peluria, bellissima è la sua giovinezza. Mi prese per mano e parlava parola, diceva: «Dove, o infelice, per questi colli vai solo, ignaro del luogo? I tuoi compagni in casa di Circe son chiusi come maiali, abitando solide stalle. 18 on line 6. leccio: un tipo di quercia. 7. corniole: frutti del corniolo, di colore rosso e con forma simile all’oliva. 8. si voltolano: si rotolano. 9. forzarlo: costringerlo. 10. il mal giorno: la morte. 11. Ermes verga d’oro: Ermes, divinità preposta al collegamento tra terra e cielo, porta messaggi tra gli dei e gli uomini. Il bastone d’oro (cadùceo) è segno del suo potere sulla parola, mezzo di trasmissione dei suoi messaggi. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 19 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA 285 E tu per liberarli qui vieni? Io ti dico che neanche tu tornerai, ma resterai là con gli altri. Suvvia, dai pericoli voglio liberarti e salvarti. Tieni, con questa erba benefica12 in casa di Circe entra; il suo potere t’eviterà il mal giorno. Ti dirò anche tutti gli inganni funesti di Circe.» [Ermes avverte Odisseo che Circe tenterà prima di fargli bere una pozione incantata, poi di colpirlo con una lunga bacchetta; allora l’eroe dovrà minacciarla con la spada e quando la dea proverà a sedurlo non potrà rifiutare il suo amore ma prima dovrà farsi giurare solennemente che ella non tramerà altri inganni ai suoi danni.] 310 315 320 325 12. erba benefica: è il moli, una pianta di cui non si conosce l’identità e che alcune fonti antiche descrivono come una liliacea, dalla radice nera e il fiore bianco. Era ritenuta potente antidoto contro la magia. 13. acuta: appuntita. 14. appena passata la siepe dei denti: appena messo in bocca. 15. refrattaria agli incanti: che respinge gli incantesimi. 16. l’Argheifonte aurea verga: Argheifonte è un epiteto di Ermes e vuol dire uccisore di Argo, il mostruoso cane dai cento occhi vinto dal dio. Il dio Ermes aveva predetto a Circe l’arrivo di Odisseo. 17. talamo: letto. 18. farmi: rendermi. 330 335 340 Ermete, quindi, se ne tornò all’alto Olimpo, per l’isola folta; e io alla casa di Circe andavo; e molto il mio cuore nell’andare batteva. Mi fermai sulla porta della dea belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. Mi condusse a sedere su un trono a borchie d’argento, bello, ornato: e sotto c’era lo sgabello pei piedi. Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi, e il veleno v’infuse, mali meditando nel cuore. Ma come me l’ebbe dato e bevvi – e non poté farmi incantesimo – con la bacchetta colpendomi parlava parola, diceva: «Va’ ora al porcile, stenditi con gli altri compagni». Così diceva; e io la spada acuta13 dalla coscia sguainando, su Circe balzai, come deciso ad ucciderla. Lei gettò un urlo acuto, mi corse ai piedi e m’afferrò le ginocchia, e singhiozzando parole fugaci diceva: «Chi e donde sei fra gli uomini? Dove la tua città e i genitori? Stupore mi prende, perché, bevuto il veleno, non hai subíto incantesimo. Nessuno, nessun altro uomo poté sopportare il veleno, chiunque lo bevve, appena passata la siepe dei denti.14 Ma forse nel petto hai mente refrattaria agli incanti;15 oppure tu sei Odisseo, l’accorto, che doveva venire, come mi prediceva sempre l’Argheifonte aurea verga,16 tornando da Troia con l’agile nave nera. Ma via, nel fodero la spada riponi, e noi ora sul letto mio saliremo, che uniti di letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda». Così parlava, ma io ricambiandola dissi: «O Circe, come m’inviti a esserti amico, tu che porci m’hai fatto nel tuo palazzo i compagni, e me ora qui avendo, con inganno m’adeschi a entrare nel talamo,17 a salire il tuo letto, per farmi18 poi, così nudo, vile e impotente? Non vorrò certo salire il tuo letto, V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos 345 20 on line se non hai cuore, o dea, di giurarmi il gran giuramento, che nessun sortilegio trami ancora a mio danno». Così dicevo, e lei subito giurò come volli, e quando ebbe giurato, compiuta la formula, allora solo di Circe salii il letto bellissimo. [Successivamente le ancelle di Circe lavano e cospargono di unguenti Odisseo e lo invitano a mangiare.] 375 380 385 390 395 Circe, come s’accorse di me, che sedevo e sul cibo non gettavo le mani, ma avevo troppo dolore, vicino mi venne e parole fugaci parlava: «Perché così, Odisseo, siedi simile a un muto, il cuore mangiandoti,19 e cibo e vino non tocchi? forse altro inganno sospetti? Non devi temere: già l’ho giurato il gran giuramento». Così parlava; e io rispondendole dissi: «O Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia,20 il quale ardirebbe empirsi21 di cibo e di vino, prima che sian liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi? Se con cuore sincero a bere e a mangiare m’inviti, scioglili,22 che li veda con gli occhi, i fedeli compagni». Così dicevo: e Circe uscì attraverso la sala, la verga in mano tenendo, le porte aprì del porcile e fuori li spinse, simili a porci grassi di nove stagioni.23 Quelli le stavan davanti, e lei in mezzo a loro andando, li ungeva a uno a uno con altro farmaco. E dalle loro membra le setole caddero, nate dal veleno funesto, che diede loro Circe sovrana: uomini a un tratto furono, più giovani di com’eran prima, e anche molto più belli e più grandi a vedersi. Mi conobbero24 essi, e ciascuno mi strinse la mano, e in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà. da Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990 La metamorfosi dei compagni di Odisseo, particolare di un vaso del V secolo a.C. 19. il cuore mangiandoti: rodendoti nell’animo. 20. purché abbia giustizia: che abbia senso di giustizia. 21. ardirebbe empirsi: avrebbe il coraggio di nutrirsi. 22. scioglili: liberali. 23. di nove stagioni: di novi anni. 24. Mi conobbero: mi riconobbero. STRUMENTI DI LETTURA I temi Scontro tra pari: per raggiungere i loro obiettivi Circe e Odisseo utilizzano gli stessi mezzi poiché entrambi dissimulano la loro vera natura e ingannano l’avversario mostrandosi per quello che non sono. Ma in questa contesa Odisseo possiede un’arma in più fornitagli dagli dei che lo proteggono poiché, grazie ad Ermes, egli sa ciò che la maga è in procinto di fare ed è perciò in grado di guardarsi dai pericoli. In realtà anche Circe dispone di informazioni utili sull’avversario, dal momento che lo stesso Ermes le ha predetto l’arrivo dell’accorto Odisseo di ritorno da Troia (v. 330). A differenza dell’eroe, però, ella non sfrutta le proprie conoscenze per agire in modo accorto e prudente, probabilmente perché si sente sicura della forza dei suoi sortilegi ritenendoli sufficienti a tener testa a ogni strategia elaborata da un’intelligenza umana. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 21 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Trasformazione in animali: Circe trasforma i compagni di Odisseo in animali e altri aveva trasformato prima di loro. Proprio quegli animali feroci – maiali, lupi, leoni – accolgono mansueti chi si avvicina al palazzo di Circe, mostrando un atteggiamento insolito per belve di quella forza. Inoltre ragionano come fossero uomini o in modo simile a loro. Circe ha dunque il potere di trasformare gli uomini, non dando loro uno statuto superiore a quello umano (come per esempio Calipso, quando voleva rendere Odisseo un dio), ma uno inferiore, quello animale. Quale valore ha questa trasformazione? La riflessione attuale sull’episodio mostra che l’intera vicenda è una metafora. Nell’isola prima dell’arrivo di Odisseo avevano potere su uomini e cose solo donne, la dea e le sue ancelle, mentre gli uomini poco accorti venivano soggiogati e trasformati in animali. Pur avendo zanne, lupi e leoni non attaccavano, esattamente come se fossero uomini che rinunciavano al loro ruolo: potenzialmente capi nella società, ammettevano invece di essere soggiogati da donne. Odisseo, resistendo grazie al moli, alla sua spada e alla sua parola, ristabilisce un ordine che altrimenti, per la mentalità greca, sarebbe stato pericolosamente posto in discussione e addirittura sovvertito. Gli ascoltatori degli aedi, lo abbiamo detto, sono uomini cresciuti negli ideali della forza eroica. Odisseo doveva confermare quei principi, non smentirli e così secondo le direttrici della forza e dell’intelligenza, ricolloca ogni cosa al suo posto, secondo gli ideali tradizionali, senza spostare dal proprio ruolo chi aveva potere e collocando chi era sottoposto al suo ruolo di sottomissione. Le parole chiave Stolti e accorti: per due volte nell’episodio si dice che i compagni di Odisseo si sono comportati stoltamente (vv. 231, 257), facendosi ingannare dalle apparenze e, di conseguenza, finendo vittime delle stregonerie della maga. Essere stolti significa quindi non saper valutare gli eventi, fermarsi alla loro superficie e non calcolare i rischi connessi alle proprie azioni. Odisseo, al contrario, è accorto (v. 330) soprattutto perché riesce a prevedere gli inganni altrui e quindi a difendersene, e in questo senso può a ragione essere definito alunno di Zeus (v. 266), il dio che più di ogni altro è in grado di ingannare e smascherare le macchinazioni. I miti, infatti, sostengono che il padre degli dei, nel timore di essere ucciso da un figlio, avesse inghiottito la prima moglie Metis – incinta di Atena – riempiendo così tutto se stesso di accorta prudenza (metis), motivo per cui nell’universo non poteva essere tramata o pensata alcuna astuzia che prima non fosse stata elaborata nella sua mente. I personaggi Le scelte di Polite e Eurìloco: a differenza dell’eroe acheo, nessuno è immune dal rischio di comportarsi stoltamente, nemmeno Polite il quale, nonostante sia considerato il più accorto dei compagni di Odisseo (v. 225), si fa trascinare dalla curiosità mettendo a repentaglio la vita dei suoi uomini. Più prudente e accorto è il comportamento di Eurìloco che, temendo un inganno (v. 232), non entra nella casa stregata e quindi sfugge all’incantesimo e fa ritorno alla nave. La sua prudenza però non ha niente in comune con quella di Odisseo perché è dettata esclusivamente da paura e viltà, come dimostrano il suo muto terrore seguito da un pianto disperato (vv. 246-248), il rifiuto di tornare alla casa di Circe e la pressante richiesta affinché la nave abbandoni rapidamente l’isola (vv. 268-270). La prudenza e il coraggio: in Odisseo, invece, la prudenza si coniuga a coraggio, senso di responsabilità e, soprattutto, capacità di azione e il risolutivo intervento di Ermes si verifica solo dopo che l’eroe ha già preso la decisione di agire. In questa situazione Odisseo manifesta la propria metis controllando l’impulso che lo spingerebbe ad affrontare la situazione con la forza (vv. 261-263 e io allora la spada a borchie d’argento / sulla spalla gettai, grande e bronzea; e l’arco a tracolla; / e volevo forzarlo a guidarmi per la medesima via) e tenendo conto dei suggerimenti e dell’aiuto offerti dalla divinità. La sua scelta rivela l’adesione a un codice ideale piuttosto diverso da quello che caratterizzava l’Iliade poiché ora la forza e il coraggio fisico non hanno valore in sé ma vanno messi al servizio di un disegno razionalmente predisposto. La lingua e lo stile Il fiabesco: l’atmosfera dell’episodio è ricca di elementi fiabeschi tratti dall’antichissimo serbatoio della tradizione popolare come filtri incantati, pozioni, bacchette magiche, piante misteriose accessibili solo agli dei, formule magiche pronunciate da maghe potenti, aiuti inattesi e straordinari a sostegno dei protagonisti. Anche l’ambientazione contribuisce a creare un’atmosfera fatata e fuori dal tempo: la casa di Circe, isolata nel bosco (vv. 211-212), le belve feroci che si muovono festanti e amichevoli (vv. 214-215), il canto soave che giunge in lontananza (v. 221) irretiscono e attirano in trappola i malcapitati che incautamente si avvicinano. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 22 di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 Perché Euriloco decide di restare fuori della casa di Circe? 2 Di quale incantesimo sono vittime gli uomini di Odisseo? 3 Quale personaggio viene in aiuto di Odisseo sulla strada che lo porta alla dimora di Circe? 4 Perché la pozione magica di Circe non ha alcun effetto su Odisseo? di ffi co ltà 5 In che modo l’eroe si mette definitivamente al sicuro dagli inganni della maga? Analisi I temi Vedi a p. 14 6 Quali indizi segnalano che l’isola di Eèa è un luogo di sortilegi? 7 Individua nell’episodio i passaggi in cui Odisseo dimostra di essere accorto e prudente. 8 Nella parte conclusiva de brano, Odisseo si rifiuta di mangiare perché ………………....…… .................................................................................................................................................................................................................................... Secondo te la scelta dell’eroe è dettata da autentica preoccupazione o è frutto di un disegno? I personaggi Vedi a p. 8 9 La trappola di Circe si basa sulla sua capacità di sedurre coloro che sbarcano sull’isola: con quali stratagemmi suscita l’interesse e conquista la fiducia degli uomini di Odisseo? Motiva la tua risposta. Le parole chiave Vedi a p. 14 10 Individua e trascrivi termini ed espressioni appartenenti al campo semantico dell’incantesimo. La lingua e lo stile Vedi a p. 10 11 Lo stile formulare è caratterizzato dalla ripetizione pressoché identica di interi moduli narrativi: trovane un esempio all’interno dell’episodio. Produzione di ffi co ltà Laboratorio lʼintelligenza dellʼeroe tra metis e dolos on line 12 Fa’ una ricerca sul dio Ermes e spiega in 15 righe al massimo per quale motivo, secondo te, egli interviene a favore di Odisseo. 13 Riassumi il contenuto del brano assumendo il punto di vista di un narratore esterno. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 23 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Il teatro greco IL RAPPORTO TRA TEATRO E TRAGEDIA Il teatro è un’invenzione peculiare della cultura greca la cui origine è strettamente legata a quella della tragedia. È tuttora una questione aperta la definizione dell’origine e dell’evoluzione del teatro e della tragedia: non intendiamo entrare in temi così complessi, avendo a disposizione poche righe. Per avvicinarci, però, almeno in parte, a una definizione di teatro tragico, citiamo la voce più antica a proposito, quella del filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) che si riferisce alla tragedia come alla «rappresentazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, avente una determinata ampiezza, […] di persone agenti e non in forma narrativa; e che attraverso pietà e terrore consegue l’effetto di liberare da siffatte passioni», aggiungendo che l’elemento più importante della tragedia «è la combinazione di fatti, poiché essa è un’imitazione (mimesis) non di uomini ma di azione e di vita». Il sacrificio di Ifigenia, particolare di un affresco della Casa del Poeta Tragico a Pompei. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 il teatro greco 24 on line La tragedia è una rappresentazione Approfondiamo il contenuto della citazione di Aristotele, sviluppando tre temi in particolare. Il primo riguarda il fatto che la tragedia non è in forma narrativa, cioè non nasce come un testo scritto per essere letto, ma anzi per essere rappresentato da persone agenti, cioè da attori che si muovono, parlano, agiscono sulla scena, sviluppando un’azione dall’inizio alla fine (un’azione seria e compiuta in se stessa). La tragedia, cioè, è per i greci un “dramma” (parola che viene dal verbo greco drào, agire), indica una forma artistica che viene agita da persone che la compiono, imitando ciò che accade nella vita reale. Dei ed eroi, pur essendo personaggi non reali e mitici, sono voci viventi di un dramma che parla delle azioni e della vita di chi assiste alla rappresentazione. Pietà e terrore Il secondo aspetto di cui parla Aristotele è che la tragedia si serve di pietà e terrore, cioè di due sentimenti; l’aspetto emotivo, infatti, è molto importante nella rappresentazione tragica. La paura e la pietà non sono citate a caso, ma per un motivo, che risponde a una precisa funzione della tragedia. Nello spettacolo tragico, infatti, viene portato in scena sempre un “caso limite” di un certo problema (per esempio un figlio costretto a uccidere la madre per adempiere a una legge) in modo tale che gli spettatori, immedesimandosi nei personaggi, provino compassione (in questo senso va intesa la pietà aristotelica) ovvero “pa- APPROFONDIMENTO Origini della tragedia Il termine tragedia deriva dal greco tragoidía, il cui significato etimologico è “canto dei capri” (da trágos “capro” e oidè “canto”). Secondo alcuni studiosi questa espressione si riferirebbe alle maschere di coloro che partecipavano ad antichi rituali legati al culto di Dioniso, anche se il processo che ha portato da queste arcaiche manifestazioni di carattere magico-religioso alla nascita della tragedia come genere teatrale rimane piuttosto oscuro. Il legame tra teatro, tragedia e culto di Dioniso è testimoniato dal fatto che nel VI secolo a.C. Pisistrato, tiranno di Atene, istituì dei concorsi che si svolgevano nel corso delle Grandi Dionise o Dionise cittadine – celebrazioni in onore del dio Dioniso che si tenevano annualmente all’inizio della primavera – durante le quali i tragediografi si sfidavano presentando al pubblico un’opera (successivamente, una trilogia di opere) che non era destinata alla lettura ma esclusivamente a questa occasione. E fu lo stesso Pisistrato a definire un apposito spazio per queste rappresentazioni, all’interno del recinto sacro a Dioniso Eleutero, sulla pendice sudorientale dell’Acropoli dove sorgeva un antico tempio dedicato al dio. Nel secolo seguente ad Atene venne allestito un teatro secondario nell’agorà (la piazza-mercato della città bassa) e si inaugurò l’usanza di presentare un dramma satiresco1 a chiusura di ogni trilogia tragica estendendo il concorso drammatico anche alla commedia. Ogni spettacolo veniva preceduto da solenni manifestazioni e alla fine, mediante un complesso sistema di votazione e sorteggio, si formulava la graduatoria dei vincitori. 1. Il dramma satiresco: è una forma teatrale antichissima riconducibile al culto del dio Dioniso. In esso gli attori del coro sono travestiti da satiri e si muovono sulla scena recitando e danzando vivacemente. Le storie rappresentate nel dramma satiresco sono di genere comico o parodistico e, poste al termine della trilogia tragica, hanno la funzione di sollevare gli spettatori dalla tristezza provocata dagli episodi luttuosi delle tragedie. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 25 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA tiscano con” il protagonista il suo dramma e lo facciano proprio. Unita alla pietà/compassione, gli spettatori proveranno anche paura nel sentire fin dove l’odio, la vendetta, la guerra, la trasgressione della legge ecc. possono portare. I due sentimenti citati da Aristotele, quindi, permettono di comprendere meglio la qualità della tragedia, che è fatta per lo spettatore, perché entri in un certo problema e lo viva, attraverso l’immedesimazione, fino alle sue estreme conseguenze. Oltre il dramma Statuetta col viso coperto da una maschera tragica. Qual è il fine di questo processo? Lo dice ancora Aristotele nel suo testo: per conseguire l’effetto di liberare da siffatte passioni. La conseguenza ultima di una tragedia dunque non è più tra le mura del teatro, ma fuori da quel luogo, nella vita reale. Avere vissuto con partecipazione il dolore che provano i personaggi sulla scena fa comprendere agli spettatori fin dove portano gli atti, i pensieri, i problemi posti dal dramma, in modo da non ripeterli nella vita reale. Il caso estremo portato dalla tragedia veniva posto in tutta la sua radicalità e non risolto. Attraverso il dramma gli spettatori prendevano atto della questione posta dai personaggi e dalla storia stessa, in modo da elaborarlo nella realtà e risolverlo o almeno avviarlo a una risoluzione. Nell’Orestea di Eschilo, per esempio, si poneva il problema della legge da seguire, se quella antica o quella recente elaborata dalla polis; nell’Edipo re di Sofocle il tema del destino, se sia così costrittivo da non permettere libertà di scelta o se permetta un margine di autonomia nelle decisioni umane; nella Medea di Euripide la questione della pari dignità di diritti tra stranieri e greci. Andare a teatro era dunque prendere atto di quei problemi che, fuori da quel luogo aspettavano una risoluzione, al di là del mito e dentro la realtà. IL TEATRO, SIMBOLO DELLA POLIS In poco tempo gli spettacoli teatrali si diffusero in tutto il mondo greco e nei territori politicamente e culturalmente ellenizzati e l’edificio dove si svolgevano le rappresentazioni diventò – con il tempio e l’agorà – il nucleo simbolico di ogni polis. L’importanza del teatro era tale che spettava all’arconte eponimo, la massima magistratura cittadina, l’annuale scelta dei coreghi, coloro i quali dovevano sostenere la parte maggiore delle spese per l’allestimento degli spettacoli. Di norma si trattava dei cittadini più ricchi che difficilmente rifiutavano questa onerosa incombenza per non perdere prestigio agli occhi dei concittadini. Era una forma di redistribuzione della ricchezza al di là della tassazione. D’altro canto, anche i meno abbienti avevano la possibilità di partecipare alle rappresentazioni perché a chi non poteva pagare l’ingresso agli spettacoli lo stato attribuiva uno speciale sussidio. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 26 il teatro greco on line Gli attori Nelle rappresentazioni teatrali gli attori sono esclusivamente maschi e mai più di tre, anche se il numero dei personaggi del dramma può essere maggiore poiché ogni attore – che in relazione all’importanza del ruolo viene definito protagonista, deuteragonista, tritagonista – è in grado di interpretare più parti semplicemente cambiando costume e maschera. Nelle tragedie essi indossano costumi solenni ma anacronistici, poiché imitano quelli dei personaggi eminenti della loro epoca e non corrispondono affatto a quelli in uso nel periodo miceneo nel quale la tradizione colloca le vicende rappresentate. La maschera, elemento tipico di molte cerimonie religiose e funebri, nella rappresentazione drammatica assolve anche a una funzione pratica, in quanto permette agli attori di ricoprire ruoli diversi nello stesso dramma e consente al pubblico di identificare subito un personaggio in base ai suoi lineamenti caratteristici. Ricostruzione di un teatro greco del tardo IV secolo. Cavea Corridoio di ingresso/uscita degli attori Scena Orchestra V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 27 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Il coro Il coro è presente in tutte le forme del teatro greco ed è formato da coreuti maschi anche quando l’opera prevede la presenza di figure femminili, il cui numero varia da dodici a quindici nella tragedia e arriva a ventiquattro nella commedia. Esso è guidato dal corifeo che spesso dialoga con gli attori, fino a poter essere considerato un personaggio vero e proprio. Anche il corifeo e i coreuti indossano maschere e costumi adeguati al rango e alla natura dei personaggi interpretati. Disposto di fronte al pubblico secondo uno schema quadrangolare, il coro rimane talvolta in scena per tutta la durata del dramma. Una delle sue funzioni è quella di rappresentare simbolicamente la partecipazione e la condivisione della polis alle vicende narrate e di commentare attraverso la voce del corifeo le azioni e le scelte dei personaggi. Maschera teatrale di terracotta del IV secolo a.C. La scena La rappresentazione si svolge su una scena aperta su tre lati e delimitata da un fondale costituito inizialmente da una tenda dipinta e poi da una facciata in legno (e in età romana in muratura), sulla quale sono dipinti gli elementi di un edificio, normalmente una reggia. Mancando il sipario, l’azione si sviluppa sempre davanti al pubblico e al coro, situazione che impone l’utilizzo di alcuni accorgimenti, come quello di far raccontare da un nunzio gli avvenimenti che non è possibile e conveniente presentare sulla scena, per esempio la morte di uno dei personaggi. Nel corso delle rappresentazioni è frequente l’utilizzo di macchine di scena come l’ekkiklema, una piattaforma scorrevole su ruote la cui funzione è mostrare un interno dove sta avvenendo una parte dell’azione e la mechanè, una gru con un braccio girevole manovrata da un argano a mano utilizzata per portare sulla scena dall’alto la divinità, che talvolta nel finale dell’opera interviene a risolvere la vicenda. I poeti tragici Secondo la tradizione, il primo poeta tragico sarebbe stato il leggendario Tespi, vissuto nel VI secolo, ma i soli tragediografi dei quali ci sono pervenute opere complete sono gli attici Eschilo, Sofocle ed Euripide, l’attività dei quali copre quasi tutto il v secolo a. C. Ad Eschilo (525-459) vengono attribuite numerose innovazioni nel campo della poesia tragica, come l’introduzione del secondo attore grazie al quale il gioco drammatico risulta potenziato e arricchito. Nelle sue tragedie una funzione decisiva viene attribuita al coro, che partecipa all’azione esaminando i fatti nel corso del loro svolgimento, collegandoli reciprocamente e approfondendo le ragioni etiche e religiose del conflitto messo in scena. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 il teatro greco 28 on line Da Eschilo in avanti la tragedia assume una struttura stabile e definitiva: ogni rappresentazione inizia con un prologo, cui seguono l’ingresso del coro (parodo) e gli episodi recitati dagli attori intervallati da canti corali (stasimi), per concludersi con la scena finale (esodo). Ulteriori variazioni vengono realizzate da Sofocle (496-406) che introduce il terzo attore, aumenta il numero dei coreuti da dodici a quindici e spezza il legame tra i drammi della trilogia tragica, che da questo momento costituiranno unità isolate e in sé compiute. La principale novità del teatro sofocleo consiste però nel fatto che il dramma – più che nell’azione – si svolge nell’animo del protagonista il quale, posto al centro di un conflitto morale, acquista progressivamente consapevolezza delle ragioni del proprio destino, emergendo con forza sugli altri personaggi. Un’altra tappa decisiva nello sviluppo del teatro tragico è costituita dalla produzione di Euripide (485-406) che, mosso ancor più dei suoi predecessori da un continuo bisogno di sperimentazione, elimina definitivamente il legame tra i drammi della trilogia, attribuisce grande rilievo agli elementi scenografici e limita la funzione del coro a semplice intermezzo musicale. Anche l’architettura delle sue tragedie si presenta molto più varia, tanto che alcune sono imperniate su un unico personaggio, altre su una coppia, altre su tre, altre addirittura su un gruppo di individui. Euripide è molto attento a indagare le profondità dell’animo umano e costruisce personaggi psicologicamente complessi e spesso oscillanti tra stati d’animo contraddittori. Talvolta poi la stessa figura, inserita in contesti drammatici diversi, è tratteggiata dall’autore da punti di vista differenti. Il teatro di Epidauro, IV secolo a.C. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 29 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Euripide La contesa tra Ecuba ed Elena L’OPERA Nel prologo dell’opera Le troiane, Poseidone e Atena decidono di distruggere la flotta greca durante il ritorno verso la patria, il primo per vendicare Troia di cui è il fondatore, la seconda perché Aiace le ha mancato di rispetto strappando dal suo altare la supplice Cassandra. Sulla scena compare Ecuba, circondata dal coro delle troiane che rievocano la spedizione dei Greci e la distruzione della loro patria e delle loro famiglie. Poi sopraggiunge l’araldo Taltibio che comunica l’assegnazione delle prigioniere troiane ai vincitori e prende in consegna Cassandra la quale, invasata dal dio, profetizza la morte che attende lei ed Agamennone. Su un carro che trasporta le spoglie di Ettore arriva Andromaca – destinata come schiava a Neottolemo, il figlio di Achille – con il piccolo Astianatte e a questa vista il dolore di Ecuba si accende nuovamente. Taltibio ritorna in scena per informare le donne che i Greci hanno deciso di uccidere Astianatte, suscitando così una nuova ondata di disperazione. Subito dopo sopraggiunge Menelao, deciso a condurre Elena ad Argo per punirla con la morte del suo tradimento. Senza mostrare alcun segno di pentimento, Elena prova a giustificarsi ma Ecuba controbatte punto per punto alle sue parole accusandola di essere la sola responsabile di tanti lutti e rovine e supplicando Menelao di ucciderla senza farsi nuovamente sedurre dalla sua bellezza. All’arrivo del cadavere di Astianatte collocato sullo scudo di Ettore, Ecuba riprende a piangere e a lamentarsi, vittima di un nuovo dolore che si somma a quelli già sofferti. La scena conclusiva della tragedia vede le donne troiane condotte in schiavitù verso le navi greche mentre le fiamme avvolgono la loro città. genere tragedia tratto da Le troiane (vv. 860-1059 nel testo greco) anno V-IV secolo a.C. luogo Grecia LA SCENA Tra i diversi temi affrontati ne Le troiane, il brano proposto pone l’accento sul peso e sulle conseguenze delle scelte individuali quando esse coinvolgono e procurano danni ad altri. La scena si svolge nell’accampamento greco dove giunge l’acheo Menelao, intenzionato a punire con la morte la moglie Elena che lo ha abbandonato per seguire Paride, provocando con il suo comportamento la guerra tra Greci e Troiani. Bella e sensuale come sempre, la donna prova a discolparsi sostenendo di non poter essere considerata responsabile di eventi determinati dalla volontà divina, ma Ecuba, madre del troiano Ettore e ora destinata come schiava a Odisseo, respinge duramente le sue argomentazioni smontandole e ribaltandole punto per punto e invitando ripetutamente Menelao a fare giustizia della traditrice in modo esemplare. 1. contro l’uomo traditore dell’ospitalità: essendo stato accolto presso la reggia di Menelao, Paride era legato a lui dal sacro vincolo dell’ospitalità, che aveva spezzato portandogli via i tesori e rapendo la moglie Elena. 2. fio: colpa. 3. Spartana: Elena, originaria di Sparta. (entrando, con scorta di armati) O splendido fulgore di questo giorno, in cui porrò le mani su Elena, mia sposa! Sono Menelao e ho sofferto molto, io e l’esercito degli Achei. Venni a Troia non, come dicono, per via di una donna, ma contro l’uomo traditore dell’ospitalità,1 che mi rapì dalle case la moglie. Ora, con l’aiuto degli dei, ha pagato il fio,2 lui e la sua terra caduta sotto le lance elleniche. Son venuto qui per condurre via la Spartana:3 non mi è dolce, MENELAO V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 il teatro greco infatti, chiamare col nome di moglie colei che un giorno fu mia. Con altre Troiane ella è nel numero delle prigioniere sotto queste tende. Coloro che a fatica la ripresero con la lancia, me la diedero perché io la uccida, o, senza ucciderla a Troia, la riporti nella terra di Argo. E io ho deciso che Elena non abbia morte a Troia, ma sia ricondotta sulla nave ondivaga4 in terra ellenica, perché ivi le diano morte a vendetta quanti persero i loro cari ad Ilio. Orsù, compagni, entrate nella tenda, portatela via trascinandola per la chioma sozza di sangue! E quando i venti spireranno favorevoli, la ricondurremo nell’Ellade. ECUBA O Zeus, fulcro della terra, che sopra la terra hai sede, chiunque mai tu sia, arduo a conoscere, o legge di natura o intelletto dei mortali, ti prego: tu, procedendo per vie silenziose, reggi secondo giustizia tutte le vicende dei mortali! MENELAO E che? Tu invochi gli dei con preghiere insolite. ECUBA Ti approvo, o Menelao, se uccidi tua moglie. Ma evita di guardarla, che il desiderio di lei non ti prenda. Ella lusinga gli occhi degli uomini, abbatte le città, incendia le case, tanto è il suo fascino. Io ben la conosco, e anche tu e coloro che per lei hanno sofferto! ELENA (in sontuoso abbigliamento, trascinata fuori della tenda) Menelao, questo è un preambolo che incute paura. A viva forza sono tratta dalle mani dei tuoi servi davanti a questa tenda. E pur sapendo di essere odiata da te, voglio tuttavia chiederti: quali sono le decisioni tue e degli Elleni circa la mia vita? MENELAO Non sei venuta qui per un giudizio: tutto l’esercito ti diede a me, che tu offendesti, perché ti uccidessi. ELENA Posso rispondere a queste accuse che, se morrò, sarà ingiustizia? MENELAO Non sono venuto qui per discutere, ma per ucciderti. ECUBA Ascoltala, o Menelao; non ucciderla senza concederle questo favore e permettimi di confutare le sue parole: tu non sai nulla delle sciagure di Troia. Ma tutto il mio discorso varrà a ucciderla, così da non consentirle scampo. MENELAO Ti concedo questa tregua inutile: se vuol parlare, può. E sappia che faccio questo perché ascolti le tue ragioni, non per renderle un favore. ELENA Giacché mi consideri nemica, forse non mi risponderai, sia che io sembri parlare a ragione, sia a torto. Pure, mi difenderò, opponendomi alle accuse che, penso, mi rivolgerai. Innanzi tutto costei5 partorì insieme con Paride l’inizio delle sventure; poi ha distrutto me stessa e Troia il vecchio che non uccise Alessandro, funesto sogno di una fiaccola.6 Ascolta ora quel che ne seguì: Paride giudicò il gruppo di tre dèe. La promessa di Pallade per Alessandro fu la signoria sui Frigi7 e la distruzione dell’Ellade; Era gli garantì la signoria d’Asia e d’Europa, se Paride avesse scelto lei; Cipride,8 stupita per la mia avvenenza, mi promise in dono a lui, se avesse superato le altre dèe per bellezza. Considera adesso le conseguenze di ciò: Cipride vinse le altre dèe, e le mie nozze, almeno in questo, giovarono all’Ellade: infatti non siete stati soggiogati dai barbari,9 non veniste alle armi né sotto la loro tirannide. Ma quella che fu la fortuna dell’Ellade fu la mia rovina: venduta per la mia bellezza, sono accusata di cose per cui avrei dovuto meritare una corona. Dirai che non ho ancora parlato del fatto più grave, e cioè come fuggii dalla tua casa di nascosto. Il demone nato da costei, Paride o Alessandro, che ti piaccia chiamarlo, venne con l’aiuto di una dea potente. E tu, sciagurato, salpasti da Sparta verso Creta, 10 lasciandolo in casa tua! E sia pure: ma non te, bensì me stessa interrogherò per quanto 30 on line 4. ondivaga: che oscilla sulle onde. 5. costei: Ecuba. 6. il vecchio che non uccise Alessandro, funesto sogno di una fiaccola: Alessandro è l’altro nome di Paride. Elena si riferisce al fatto che quando era incinta Ecuba aveva sognato una fiaccola che incendiava la città e aveva compreso che il nascituro avrebbe provocato la rovina di Troia; per questo motivo appena nato Paride fu esposto sul monte Ida dove fu raccolto ed allevato da un pastore. 7. Frigi: popolo stanziato in Anatolia (attuale Turchia) e alleato di Troia; in questo caso sta per Troiani. 8. Cipride: appellativo della dea Venere che a Cipro era oggetto di un particolare culto. 9. barbari: i popoli dell’Asia che gli abitanti della Grecia consideravano barbari. 10. salpasti da Sparta verso Creta: il mito racconta che, una volta accolto Paride, Menelao dovette partire per Creta. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 31 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Poche sono le notizie certe sulla vita di Euripide. Nasce a Salamina tra il 485 e il 483, riceve una buona educazione letteraria, è adepto del culto di Apollo e nel 408 abbandona Atene per recarsi prima in Tessaglia, poi in Macedonia. Muore a Pella fra la fine del 407 e l’inizio del 406. Delle novanta tragedie attribuitegli ne sono pervenute diciassette, tutte scritte nel periodo della maturità, ma per alcune di esse la datazione e le circostanze della messa in scena sono solo ipotizzabili sulla base di elementi stilistici o riferimenti a fatti di attualità. Questa è la successione dei drammi secondo l’ipotesi più accreditata: Alcesti (438), Medea (431), Ippolito (428), Ecuba (420 circa), Andromaca (430?), Eraclidi (430?), Supplici (424), Eracle (tra il 421 e il 415), Le troiane (415), Elettra (413), Elena (412), Ifigenia in Tauride (414), Ione (412), Fenicie (dopo il 412), Oreste (408) e infine Ifigenia in Aulide e Baccanti, rappresentate postume. A Euripide viene anche attribuito Il Ciclope, l’unico dramma satiresco giunto fino a noi. 11. scolte: sentinelle. 12. Deifobo: fratello di Ettore e Paride che sposa Elena dopo la morte di quest’ultimo. 13. Ida: il monte dove si svolse la gara di bellezza tra le dèe a cui fece da arbitro Paride. 14. impetrò: ottenne con una supplica. 15. Amicle: città della Laconia a sud di Sparta. segue. Con quale animo abbandonai la dimora insieme a uno straniero, tradendo patria e casa? Punisci dunque la dea, e sii più potente di Zeus, signore di tutti gli altri dei, eppur suo schiavo! Dunque, ho delle attenuanti. Qui tu potresti farmi un discorso plausibile: giacché Alessandro, morendo, era andato sotterra, non esistendo più il mio vincolo coniugale voluto dagli dei, io, lasciata la casa, avrei dovuto recarmi alle navi degli Argivi. È proprio quello che tentai di fare, e possono attestarlo le scolte11 delle torri e le guardie delle mura, le quali spesso mi sorpresero mentre con una corda calavo furtivamente a terra questo mio corpo giù dagli spalti. Il mio nuovo marito, Deifobo,12 dopo avermi presa con la forza, mi ebbe in moglie contro la volontà dei Frigi. Come potrei dunque, o mio sposo, morire giustamente per mano tua, se Paride mi ha sposata con la forza e gli eventi della patria mi hanno condotta ad amara servitù, invece che a trofei di vittoria? E se pensi di ergerti ad arbitro tra gli dei, la tua pretesa è stolta! CORIFEA Regina, difendi i tuoi figli e la patria, smascherando le suadenti parole di costei, perché – pur avendo operato tanto male – ella parla bene: e questa è cosa terribile. ECUBA Anzitutto sarò alleata alle dèe e mostrerò che le parole di costei non sono giuste. Non credo che Era e la vergine Pallade siano giunte a tal punto di stoltezza, per cui una avrebbe venduto Argo ai barbari e Pallade avrebbe asservito Atene ai Frigi. Esse si recarono sull’Ida13 alla gara di bellezza per gioco e per civetteria. Perché mai Era, una dea, avrebbe avuto un tal desiderio di bellezza? Per ottenere forse un marito più potente di Zeus? E Atena, poi, cercava le nozze con qualche iddio, lei che, rifuggendo dalle nozze, impetrò 14 dal padre la verginità? Non fare le dèe così stolte, per abbellire la tua colpa! Non convincerai i saggi. Tu affermasti che Cipride – quale ridicolaggine! – venne con mio figlio alla reggia di Menelao. Ma non avrebbe forse potuto, restandosene tranquillamente in cielo, trasportarti con tutta Amicle 15 a Ilio? Mio figlio era di una bellezza straordinaria e, contemplandolo, il tuo desiderio diventò Cipride! Tutte le follie sono Afrodite, per gli uomini! E il nome della dea nell’idioma ellenico comincia giustamente come la parola «afrosyne», che significa «pazzia». T’innamorasti follemente di lui, vedendolo magnificamente vestito in foggia straniera e splendente d’oro. Ad Argo tu vivevi modestamente; e laV. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 il teatro greco sciata Sparta, sperasti di sommergere con i tuoi sperperi la città dei Frigi, dove l’oro correva a fiumi: la casa di Menelao non ti bastava per trasmodare16 nel tuo lusso. Sia pure: affermi che mio figlio ti condusse via con la forza. E chi mai se ne accorse fra gli Spartani? Qual grido di allarme lanciasti, benché fossero vivi il giovane Castore e suo fratello,17 non ancora assunti tra le costellazioni? Dopo che fosti giunta a Troia e con te gli Argivi sulle tue orme e fu lotta di mortifere lance, se qualcuno ti narrava le gesta di Menelao, lodavi costui, cosicché mio figlio si crucciava di avere un grande rivale in amore. Se invece i Troiani prevalevano, egli per te non era più nulla. E mirando alla fortuna, facevi in modo di trovarti sempre con essa senza curarti della virtù. Inoltre, affermi di esserti calata di nascosto dalle torri con una fune, come se restassi qui contro voglia. Ma quando mai fosti sorpresa a sospendere una corda o ad affilare un pugnale, come avrebbe fatto una donna onesta, rimpiangendo il primo marito? Eppure io più e più volte ti ammonivo: «Va’ dunque, figlia! Mio figlio contrarrà un altro matrimonio; io ti invierò nascostamente alle navi achee: metti fine alla guerra fra noi e i Greci!». Ma questo era per te qualcosa di amaro. Infatti nelle case di Alessandro tu insuperbivi e volevi essere riverita dai barbari: ciò per te contava molto. Dopodiché sei venuta qui curando la tua persona, e guardi lo stesso cielo che guarda tuo marito, o essere spregevole? Dovevi invece presentarti vestita di cenci, tremante di paura, col capo rasato e fidando più nella modestia che nella sfrontatezza, proprio per le tue colpe. (A Menelao) Menelao, perché tu sappia a che mirano le mie parole, corona di gloria l’Ellade uccidendo costei, e stabilisci questa legge anche per le altre donne: muoia chi tradisce il marito! CORIFEA Menelao, punisci tua moglie e sii degno dei tuoi avi e del casato: evita da parte dei Greci il biasimo di debolezza, tu che ti sei mostrato così valoroso di fronte al nemico. MENELAO Tu e io siamo venuti allo stesso discorso: costei di sua volontà passò dalla mia casa al letto di uno straniero. Nelle sue parole Cipride è un mero vanto. (A Elena) Va’ da coloro che ti lapideranno, sconta in un momento con la tua morte i lunghi affanni degli Achei, e impara a non disonorarmi! 18 ELENA (a Menelao) Per le tue ginocchia, non uccidermi addossandomi una follia voluta dagli dei; abbi pietà di me! ECUBA Non tradire i tuoi alleati, che costei condusse a morte! Ti scongiuro per loro e per i miei figli! MENELAO Basta, vecchia! Di costei non mi curo. Ordino ai miei uomini che la portino alla nave, su cui navigherà. (La scorta esegue) ECUBA Non salga mai sulla tua stessa nave! MENELAO E perché? Forse ora pesa più di prima? ECUBA Non v’è amante che non ami sempre. MENELAO Secondo l’animo della persona amata. Sarà come vuoi: non salirà sulla mia stessa nave, hai ragione. E giunta ad Argo, questa sciagurata morrà di mala morte, come si merita, e insegnerà a tutte le donne ad essere oneste. Non è semplice: ma la sua fine incuterà timore alla loro follia, anche se siano più malvage. (Esce) da Euripide, Le troiane, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori 1977 32 on line 16. trasmodare: esagerare. 17. il giovane Castore e suo fratello: Castore e Polluce, i Dioscuri, erano fratelli di Elena. 18. per le tue ginocchia: invocazione con valore di supplica corrispondente al nostro “Per pietà!”. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 33 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA STRUMENTI DI LETTURA I temi Nave mercantile in navigazione, riprodotta su un vaso attico del VI secolo a.C. La responsabilità delle scelte: nel contrasto verbale tra Ecuba ed Elena emerge il tema del rapporto esistente tra le scelte degli uomini e la volontà degli dei: sono state la vanità e l’avidità di Elena a provocare le innumerevoli morti e distruzioni che hanno accompagnato la guerra di Troia o la bellissima moglie di Menelao è vittima della volontà divina? Prima di Euripide gli scrittori tragici avevano in vario modo sostenuto che il destino umano fosse determinato dagli dei e che il principale compito degli uomini fosse quello di sopportare prove e avversità considerandole una conseguenza della loro natura limitata ed imperfetta. È su questa tesi che si basa la difesa di Elena la quale assolve se stessa affermando che la sua fuga da Argo e il conseguente abbandono di Menelao, causa scatenante della decennale guerra tra Achei e Troiani, sono state il frutto di capricci, vendette e rancori delle dee. È Ecuba a riportare la questione in un ambito prettamente umano e sociale su un piano che – con termine moderno – potremmo definire morale, permettendo a Euripide di dibattere in modo problematico e analitico il tema della responsabilità individuale delle scelte, senza tuttavia che si giunga ad una conclusione certa e definitiva. Sconfitta, prigioniera, segnata da lutti e sciagure, la regina troiana sostiene che Elena avrebbe potuto comportarsi diversamente, ma ha scelto di non farlo mossa da interesse, avidità e superbia e animata da impulsi e desideri irrazionali. Decidendo di seguire Paride e di non tornare da Menelao quando gliene è stata offerta l’occasione, la spartana ha pertanto oggettivamente ostacolato la ricomposizione del conflitto ed è a causa del suo atteggia- V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 il teatro greco mento volontariamente irresponsabile che Ecuba ne chiede la morte, unico e tardivo risarcimento alle sue sofferenze. I personaggi La vendetta di Ecuba: Euripide mostra nelle sue opere una spiccata predilezione per le figure femminili che, considerate più istintive e irrazionali degli uomini, gli consentono di indagare e scandagliare gli impulsi profondi e oscuri della natura umana. Ne Le troiane il personaggio di Ecuba, moglie del re Priamo e madre di diciannove figli – i maschi tutti morti nel corso della guerra, le femmine uccise o ridotte in schiavitù dai vincitori – diviene un simbolo di Troia. La drammatica rovina di quella città sembra anticipare profeticamente la fine della stessa Atene che, pochi anni dopo la composizione della tragedia, sarebbe stata sconfitta dagli Spartani e avrebbe conosciuto l’imposizione di un regime oligarchico e la repentina conclusione della sua esperienza democratica. Un tempo potente per il suo prestigioso matrimonio, la ricchezza della sua città, la forza e la bellezza dei suoi figli, Ecuba è ormai una donna anziana, vestita di stracci e bloccata da catene: non le rimane altro che piangere i propri morti e lamentare il destino di schiavitù che la attende. Tuttavia la vecchia regina ritrova dignità e grandezza proprio nel rancore e nell’odio che riversa nei confronti di Elena, che l’ha sprofondata in quella condizione, e mediante la sua reiterata e quasi ossessiva richiesta di vendetta, recupera il proprio ruolo di guida, dando voce al dolore di tutte le troiane vittime della stessa sorte. Il personaggio di Ecuba, così come quello di Andromaca e delle altre principesse troiane, sedute sulla spiaggia, in attesa di essere assegnate come schiave a chi ha ucciso i loro padri, mariti, figli è espressione della particolare ottica con cui Euripide guarda la guerra: non dalla parte trionfale dei vincitori, ma da quella triste e disarmata dei vinti, che rappresentano secondo l’autore il vero e ultimo risultato di ogni guerra. Le parole chiave Bellezza, passione, follia: è la bellezza straordinaria di Paride, secondo Ecuba, ad aver suscitato in Elena la passione amorosa, un 34 on line sentimento governato dalla dea Afrodite, il cui nome ha la stessa radice del termine afrosyne, che significa “pazzia”. Bellezza, passione, follia sono quindi concetti reciprocamente legati e il loro effetto è l’irruzione nella vita sociale di una devastante irrazionalità che spinge gli esseri umani a compiere azioni ingiuste, immorali e dannose. Considerate dai Greci maggiormente in preda agli istinti, le donne cadono vittime della passione con più facilità, tuttavia con la loro bellezza esse sono a loro volta capaci di scatenare questo sentimento distruttivo. Per questo Ecuba supplica Menelao di non fidarsi mai di Elena il cui fascino, inesorabile come una forza di natura, travolge le difese di chi la guarda provocando lutti e rovine. La lingua e lo stile Il procedimento dialettico: il dialogo tra Ecuba ed Elena si sviluppa seguendo modalità che Euripide mutua dai sofisti, i filosofi che nel v secolo a. C. mettono in crisi i principi fondanti del patrimonio culturale della tradizione negando l’esistenza di una verità unica e indiscutibile e affermando che in una società possono coesistere opinioni, concezioni e valori diversi, la cui prevalenza non dipende dalla loro intrinseca validità ma dalle capacità persuasive di chi li sostiene. Partendo da questo presupposto, assumono un ruolo centrale gli aspetti tecnici della comunicazione, e l’attività principale dei sofisti consisterà soprattutto nell’insegnamento della retorica e della dialettica, ossia la capacità di elaborare discorsi convincenti sul piano formale e sostenere qualunque tesi con adeguate argomentazioni. Euripide discute il problema della responsabilità di Elena nell’esplosione del conflitto tra greci e troiani applicando alla disputa la tecnica tipica dei sofisti, fondata sulla contrapposizione di tesi sostenute da argomenti convincenti e logici. L’uso accorto del linguaggio finisce con mettere sullo stesso piano ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è vero e ciò è falso, rischio segnalato dalla Corifea la quale, riferendosi all’abilità verbale di Elena, sollecita Ecuba a stare in guardia poiché “pur avendo operato tanto male – ella parla bene: e questa è cosa terribile”. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line 35 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 A chi Elena attribuisce l’origine prima delle proprie sventure? 2 Ecuba cerca di convincere Menelao ……………………………...........................................................………………………. 3 Quali elementi dell’aspetto di Elena, secondo Ecuba, denunciano la vera natura della donna? di ffi co ltà 4 Qual è la decisione finale di Menelao? Analisi I personaggi Vedi a p. 8 5 In che modo Menelao mostra il proprio disprezzo nei confronti di Elena? 6 Perché di Elena si dice che ha la chioma sozza di sangue? Quale figura retorica si cela in questa espressine? 7 Quale delle due contendenti sostiene la Corifea con i suoi interventi? Le parole chiave Vedi a p. 14 8 Nella parte conclusiva del brano Ecuba afferma che “non v’è amante che non ami sempre”: che cosa intende dire con queste parole? La lingua e lo stile Vedi a p. 10 9 Abbina a ciascuna delle tesi sostenute da Elena la corrispondente risposta di Ecuba. Elena sostiene che Il suo destino è stato dettato dalla follia delle divinità Paride l’ha portata via da Argo con la forza Ella ha sempre desiderato fuggire da Troia Produzione Ecuba sostiene che ................................................................................................................... ................................................................................................................... ................................................................................................................... di ffi co ltà Laboratorio volume B 10 Quale delle due posizioni ti pare maggiormente persuasiva? Sostieni la tesi che hai scelto con un’ulteriore argomentazione . V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica 36 on line L’eroe nella tragedia attica DAL MITO ALLA TRAGEDIA Le tragedie attiche hanno come argomento episodi tratti dalla mitologia e dall’epica, che i drammaturghi traducono in azione sulla scena, leggendo i fatti narrati in modo nuovo. Il mito, cioè, dà la struttura della storia, nota sia all’autore sia agli spettatori; la tragedia, attraverso personaggi e dialoghi, porta una riflessione su quel fatto mitico, con argomenti nuovi. Il poeta tragico peraltro non può intervenire sulla successione degli eventi che, riprendendo direttamente il mito, sono per definizione immodificabili. Per questo motivo l’azione creativa dell’autore è tesa soprattutto a spiegare il modo in cui la storia giungerà a una conclusione che è già nota al pubblico. A tale scopo i poeti tragici modificano in maniera a volte significativa particolari e dettagli dell’intreccio narrativo consegnato dalla tradizione. Conservano ben poco dei tratti originari degli eroi protagonisti e li fanno diventare personaggi originali in grado di esprimere la propria visione del mondo. Per esempio, dal mito di Oreste – che per vendicare l’assassinio del padre Agamennone uccide la madre Clitemnestra – derivano le Coefore di Eschilo (vedi a p. 198), l’Elettra di Sofocle e l’omonima tragedia di Euripide, tre testi che hanno protagonisti diversi e interpretano lo stesso mito da punti di vista molto differenti. LO SCONTRO TRA NECESSITÀ E VOLONTÀ All’origine dei fatti narrati nelle tragedie c’è sempre una macchia (in greco mìasma) che segna l’esistenza del protagonista. È una situazione involontaria, ignota o trasmessa come una maledizione familiare, causata da una successione inarrestabile di eventi o conseguente a una scelta obbligata tra due trasgressioni egualmente inique. Ciò che il personaggio si troverà a compiere dà al drammaturgo l’occasione di riflettere sulla condizione dell’uomo, stretto tra la coercizione degli dei – i cui piani imperscrutabili determinano l’agire umano – e la volontà di rivendicare la propria dignità mediante la libertà di scelta. L’eroe tragico, che non può risolvere il conflitto tra ciò che gli è imposto dal destino e la sua propria volontà, appare destinato alla sconfitta ed è costretto, alla fine, a riconoscere la propria impotenza di fronte alla Moira. Nell’indagare i sentimenti e le ragioni che spingono l’eroe all’azione, la tragedia greca è ancora oggi un potente strumento di analisi sui temi del male e del dolore che affliggono la condizione degli uomini. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 37 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Eschilo La vendetta di Oreste genere tragedia tratto da Coefore (vv. 123-509 nel testo greco) L’OPERA L’Orestea di Sofocle è l’unica trilogia tragica sviluppata intorno a un personaggio che ci sia pervenuta completa e assume un’importanza particolare poiché illustra le modalità attraverso cui l’autore indaga i nessi che intercorrono tra le vicende di una stirpe. Agamennone – È il primo dramma della trilogia e si svolge intorno alla reggia degli Atridi in Argo. Quando Agamennone ritorna da Troia portando come preda di guerra Cassandra, la moglie Clitemnestra lo accoglie con gioia ma, appena entrati nel palazzo, lo invita al bagno dovuto a chi rientra dopo una lunga assenza e con l’aiuto dell’amante Egidio lo uccide con un’accetta nella vasca di pietra. Cassandra, fuori dalla reggia, annunzia profeticamente la strage che l’adultera sta per compiere e la vendetta che seguirà. Subito dopo anche la troiana muore per mano di Clitemnestra che si giustifica al coro ricordando la lunga scia di sangue lasciata dagli Atridi, il cui ultimo atto è stato l’uccisione della figlia Ifigenia, sacrificata dal padre prima della spedizione militare contro Troia. Infine Clitemnestra si ritira nel palazzo con Egidio. Coefore – La vicenda narrata nel secondo dramma si svolge ancora ad Argo, dieci anni dopo. Ubbidendo all’ordine di Apollo, Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra, torna di nascosto in città con l’amico Pilade per vendicare l’uccisione del padre. Mentre depone offerte sulla tomba di Agamennone, sopraggiunge uno stuolo di fanciulle che portano libagioni (le coefore) guidate dalla sorella Elettra, a cui poco dopo Oreste si rivela spiegando le ragioni della sua presenza in Argo. Fingendosi un forestiero, l’eroe si presenta a palazzo per chiedere ospitalità. Qui viene accolto da Clitemnestra cui racconta che Oreste è morto e che a lui sono state affidate le ceneri da consegnare ai genitori. Alla notizia Clitemnestra chiama Egisto ed esce di scena. Appena varcata la soglia del palazzo, Egisto viene ucciso da Oreste. Al sopraggiungere della madre l’eroe brandisce di nuovo la spada, esitando però dinanzi al seno che lo ha nutrito. Pilade gli ricorda il comando di Apollo e Oreste, trascinata la donna nel palazzo, la uccide accanto all’amante, proclamando di aver compiuto giustizia per ordine di Apollo che nel tempio di Delfi lo purificherà del sangue versato. anno V-IV secolo a.C. luogo Grecia Oreste e Pilade, in un affresco della Casa del Centenario a Pompei. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica 38 on line Eschilo nasce a Eleusi intorno al 525. Partecipa alle guerre persiane combattendo nelle battaglie di Maratona (490), Salamina (480) e Platea (479). Le sue prime vittorie negli agoni drammatici risalgono al 485. Nel 471 si trasferisce presso la corte di Ierone di Siracusa e successivamente ritorna ad Atene, dove trionfa con una trilogia tragica legata al ciclo tebano. Ritornato in Sicilia, muore a Gela nel 459 e la sua tomba diviene ben presto meta di pellegrinaggi. Oltre a numerosi frammenti di opere inseriti in testi di altri autori, di Eschilo sono pervenute solo sette tragedie complete: Persiani (472), Sette contro Tebe (467), Supplici (di datazione incerta, probabilmente rappresentata nel 463), Prometeo incatenato (collocabile tra il 470 e il 460) e la trilogia dell’Orestea (458), costituita da Agamennone, Coefore ed Eumenidi, con cui il poeta vince per l’ultima volta un concorso drammatico. Eumenidi – L’azione inizia nel santuario di Apollo a Delfi dove Oreste viene difeso da Apollo dalla furia delle mostruose Erinni, le divinità che vendicano i delitti contro i familiari torturando il reo fino a farlo impazzire. Inviato dal dio ad Atene, Oreste viene assolto da un tribunale di cittadini ma lo spettro di Clitemnestra incita alla vendetta le Erinni, che inseguono l’eroe e lo raggiungono davanti al tempio di Pallade Atena. Appare la dea, che istituisce l’Areopago, un nuovo tribunale cittadino che si impegna a giudicare il caso di Oreste con equità. Durante il processo le Erinni accusano Oreste di aver violato i legami di sangue, ma Apollo replica che l’eroe ha agito per vendicarsi di colei che, assassinando il marito, ha infranto il legame altrettanto sacro del matrimonio. Alla fine del dibattito Oreste viene assolto grazie al voto favorevole di Atena che placa le Erinni assicurando loro culto e onori in Atene. Il dramma si conclude con il corteo del popolo che accompagna le nuove dee le quali, ormai placate e benevole, assumono il nome di Eumenidi. Esse saranno garanti della legge, attraverso la paura che ispireranno ai cittadini. LA SCENA Rientrato in incognito ad Argo con l’amico Pilade, Oreste si reca sulla tomba del padre dove depone alcuni riccioli dei suoi capelli in segno di devozione e gratitudine. Poco dopo sopraggiunge sua sorella Elettra insieme a un gruppo di fanciulle inviate da Clitemnestra per offrire sacrifici che plachino l’ira del defunto. Rivolgendosi a loro, che fungono da coro, la ragazza esprime il proprio dolore per l’uccisione del padre e l’indegno comportamento della madre; dice la sofferenza per le condizioni in cui è costretta a vivere, chiedendo agli dei che la aiutino in ogni modo a ottenere giustizia. (versando da una coppa le libagioni1 sulla tomba) Ascolta, Ermes infero,2 e proclama questo mio voto: gli dei di sotterra,3 che custodiscono lo sguardo di mio padre, e la terra stessa, che tutto genera e alleva e poi ne accoglie ancora il germe, ascoltino le mie preghiere! E io, queste acque lustrali4 versando in onore dei morti, invocando mio padre dico: «Abbi pietà di me e del diletto Oreste; come torneremo padroni di queste case? Poiché ora distrutti siamo e in qualche modo erranti per volontà della madre: ed essa come marito si è preso in cambio Egisto, che è complice della tua strage.5 E io son quasi una schiava, e Oreste è esule dai suoi averi, mentre quelli,6 insolentemente, molto insuperbiscono nel frutto delle tue fatiche. Venga qui Oreste con buona sorte, ti prego; e tu ascoltami, padre: a me concedi ch’io sia molto più casta di mia madre e più pia per la mano.7 Questi i voti per noi: e per i nemici io chiedo che apparisca, padre, il tuo vendicatore, e secondo giustizia ricambi con uccisione chi ha ucciso. Questo io pongo al centro della mia sinistra imprecazione, mentre contro di essi pronunzio questa sinistra imprecazione: a noi invece invia quassù buon esito, con l’aiuto degli dei e della terra e di Dike8 vittoriosa». Su questi voti queste libagioni io verso (esegue; al coro): a voi, come è costume, coronarle di gemiti intonando il peana9 in onore del morto. ELETTRA 1. libagioni: offerta alle divinità o ai morti di vino, latte o altri liquidi. 2. Ermes infero: una delle prerogative di Ermes consiste nell’accompagnare le anime dei defunti agli Inferi, da cui l’appellativo di “psicopompo”. 3. di sotterra: degli Inferi. 4. lustrali: offerte in sacrificio. 5. della tua strage: della tua morte. 6. quelli: la madre Clitemnestra e il suo amante Egidio. 7. più pia per la mano: e che la mia mano sia più pietosa. 8. Dike: figlia di Zeus e Temi, è la dea della giustizia che regola la convivenza umana, ma è anche la custode dell’ordine cosmico stabilito da Zeus ed interviene quando esso viene violato. 9. peana: canto corale commemorativo in onore di divinità e uomini illustri. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 39 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA [Elettra osserva turbata come capelli sulla tomba del padre siano simili ai suoi e, piena di speranza, non riesce tuttavia a dare a se stessa una spiegazione convincente. Frattanto Oreste esce dall’ombra e le si avvicina.] (avanzando verso Elettra, seguito da Pilade)10 Prega che le altre cose, pronunciando voti agli dei perché compiano,11 felicemente avvengano. ELETTRA Che cosa dunque mi tocca ora per volontà degli dei? ORESTE Sei giunta alla vista di chi da lungo tempo bramavi. ELETTRA E sai tu chi fra i mortali invocavo? ORESTE So che molto invocavi appassionatamente Oreste. 12 ELETTRA E in che cosa dunque conseguo i miei voti? ORESTE Sono io: non cercare altri, che ti ami più di me. 13 ELETTRA (guardinga) Forse, o straniero, qualche inganno ordisci intorno a me? ORESTE In tal caso, tramo insidie contro me stesso. ELETTRA (come sopra) Vuoi dunque ridere delle mie sventure? ORESTE E anche delle mie, allora, se proprio rido delle tue. ELETTRA (dubbiosa) Mi rivolgerò dunque a te, sicura che tu sei Oreste? ORESTE Ora che mi vedi in persona, stenti a riconoscermi: invece, quando vedesti questa ciocca recisa per l’offerta funebre, la speranza ti diede le ali e ti parve di vedermi, e così quando esaminavi le mie orme.14 Il ricciolo di tuo fratello, simile a quelli della tua testa, ponilo là donde fu reciso, e osserva; e guarda questo tessuto; opera della tua mano, e i colpi della spatola nel disegno della scena di caccia. Ritorna in te, non smarrir l’anima per la gioia: so bene che i nostri parenti più cari sono a noi due ostili. CORIFEA O desiderio carissimo della casa del padre, lacrimata speranza di seme di salvezza, nel tuo coraggio fidando riacquisterai la casa del padre! ELETTRA Occhio mio soave, tu per me adempi a quattro uffici: padre è necessario che io ti chiami; poi cade in te 1’amore per mia madre – che giustissimamente è odiata – e per la sorella spietatamente sacrificata;15 tu eri infine per me il fratello fedele, che solo mi restituisci alla dignità dovutami. Mi assista Kratos 16 e anche Dike e Zeus per terzo, che di tutti è il più grande! 17 ORESTE Zeus, Zeus, sii spettatore di questi fatti! Guarda la stirpe dell’aquila, 18 orba del padre ucciso fra le spire e le volute di terribile vipera. E gli orfani opprime digiuna fame: poiché non può portare al nido la cacciagione paterna. In questa condizione puoi vedere me e costei, dico Elettra, prole orba di padre, entrambi in esilio dalla loro stessa casa: e se tu distruggi questi piccoli di un padre che a te sacrificava e molto ti onorava, donde potrai avere offerte da mano parimente generosa? E se distruggi la stirpe dell’aquila, non potrai ancora mandare ai mortali segni suadenti,19 e questo tronco regale tutto, una volta inaridito, non darà aiuto presso gli altari nei giorni dei sacrifici. Proteggici: da umile stato tu puoi innalzare a grandezza la casa, che ora sembra del tutto caduta. CORIFEA O figli, o salvatori del focolare paterno, tacete, o figli, perché nessuno sappia né, per il piacere di parlare, riveli tutto ciò a quelli che comandano: possa io un giorno vederli morti in resinoso vapore di fiamma! 20 ORESTE Certo, non mi tradirà l’oracolo molto possente del Lossia, che mi ordina di attraversar questo rischio, alto gridando e pronunciando gelidi tormenti al caldo mio cuore, se non perseguo gli uccisori di mio padre, allo stesso modo ricambiandoli di morte, inferocito come un toro per il danno della mia eredità. E diceva che ORESTE 10. Pilade: cugino di Oreste e suo amico inseparabile. 11. perché compiano: affinché essi le realizzino. 12. E in che cosa dunque conseguo i miei voti?: e in che modo i miei desideri sono stati realizzati? 13. guardinga : sospettosa, diffidente. 14. così quando esaminavi le mie orme: poco prima osservando le impronte nei pressi della tomba, Elettra si era stupita che fossero uguali a quelle dei suoi piedi. Le orme dei piedi nel mondo greco arcaico erano considerati veri e propri calchi della persona assente. 15. sorella spietatamente sacrificata: Ifigenia, sorella di Elettra, viene sacrificata dal padre Agamennone per placare la collera di Artemide che blocca la flotta achea in Aulide; secondo il mito all’ultimo momento la dea ha pietà di lei e, messa al suo posto una cerbiatta, la porta in Tauride dove ne fa la sua sacerdotessa. 16. Kratos: personificazione della forza, che esegue la volontà di Zeus 17. la stirpe dell’aquila: i discendenti di Agamennone, Oreste ed Elettra. 18. orba: priva, mancante. 19. segni suadenti: oracoli convincenti. 20. Lossia: appellativo di Apollo che si riferisce alle capacità oracolari del dio (da loxias, l’oscuro). V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica con la vita avrei scontato la trasgressione, in molti ingrati tormenti.21 E il modo di placare le potenze ostili di sotterra rivelò ai mortali: ma predisse anche, per noi due, morbi che assalgono le carni con selvagge mascelle,22 lebbra divorante il corpo antico,23 onde il male fa sorgere bianchi lembi.24 E altri assalti delle Erini prediceva, compiuti dal sangue paterno, che avrei visto movendo nella tenebra il fulgido occhio: poiché il dardo tenebroso degl’inferi, scagliato dai consanguinei uccisi che chiedono vendetta, e il furore e il vano terrore delle notti turba e sconvolge. E disse che dalla città, oltraggiato corpo, sarei scacciato con bronzeo flagello.25 A siffatti esseri26 non è lecito avere parte nelle libagioni, non libarne offerte:27 dagli altari li respinge, non veduta, l’ira del padre; e nessuno li accoglie o li ospita. E da tutti inonorati e odiati morranno,28 col tempo, malamente disseccati da perniciosa tabe.29 A tali oracoli bisogna dunque credere? Ma anche se non credo, l’opera dev’esser compiuta. Poiché molti desideri in un sol punto coincidono: gli ordini del dio e il dolore grande per mio padre; e mi opprime inoltre povertà, perché cittadini gloriosissimi fra tutti, distruttori di Troia con glorioso animo, non siano, in tal modo, soggetti a due donne:30 cuor di femmina ha Egisto;31 e se non è vero, lo saprà presto. [Elettra e le Corifee iniziano il lamento per Agamennone, rievocando la vergognosa uccisione a tradimento che ha dovuto subire e supplicando le divinità degli Inferi ed Agamennone stesso affinché aiutino i figli a fare giustizia.] (inginocchiandosi sulla tomba e toccandone la terra con le mani) Padre, ucciso in modo indegno di un re, ti supplico: dammi il potere della tua casa! ELETTRA (c.s.) Anch’io, padre, questo attendo da te: salvami dopo aver inferto grande rovina ad Egisto! ORESTE Così, saranno approntati per te i conviti rituali degli uomini: altrimenti, in mezzo ai morti che godono di offerte, tu sarai senza onori, senza le vittime della terra consunte nel fuoco. ELETTRA Anch’io, della mia eredità, libagioni nuziali ti porterò dalle case paterne: prima di ogni cosa io onorerò questa tomba. ORESTE O Terra, rimandami il padre che sorvegli la lotta! 32 ELETTRA O Persefone, concedi ancora splendida vittoria! 33 ORESTE Ricordati del bagno, nel quale fosti ucciso, padre! 34 ELETTRA Ricordati, quale strana rete inventarono! 35 ORESTE In ceppi senza bronzo fosti serrato, padre! 36 ELETTRA E turpemente in veli premeditati! ORESTE Ti risveglierai dunque a queste infamie, padre? ELETTRA Non risollevi il capo tuo dilettissimo? ORESTE Giustizia dunque invia come alleata ai tuoi cari: ovvero concedi in cambio che noi usiamo gli stessi mezzi, se, vinto, vuoi vincere a tua volta. ELETTRA E questo estremo grido ascolta, padre: guarda questi piccoli presso la tua tomba, la femmina e la prole maschile insieme: abbi pietà! 37 ORESTE Non cancellare questa stirpe dei Pelopidi: in tal modo, pur morto, non sarai morto. ELETTRA Per un eroe morto i figli sono fama salvatrice: e come sugheri sostengono la rete salvando dal profondo i ritorti lini.38 ORESTE Ascolta, per te sono questi lamenti: e tu ti salvi onorando questa parola. ORESTE da Eschilo, Coefore, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori, Milano 1992 40 on line volume B 21. E diceva che con la vita avrei scontato la trasgressione, in molti ingrati tormenti: e l’oracolo di Apollo diceva che nel caso non avessi ubbidito ai suoi comandi, per tutta la vita sarei stato punito con atroci tormenti. 22. morbi che assalgono le carni con selvagge mascelle: malattie che dilaniano la carne. 23. lebbra divorante il corpo antico: piaghe che devastano l’aspetto originario del corpo. 24. onde il male fa sorgere bianchi lembi: sofferenze che rendono i capelli bianchi. 25. con bronzeo flagello: con le armi. 26. siffatti esseri: a coloro che non rispettano le divinità. 27. non è lecito avere parte nelle libagioni, non libarne offerte: non possono prendere parte a riti e sacrifici perché sono considerati impuri. 28. da tutti inonorati e odiati morranno: e morranno odiati e disprezzati da tutti. 29. malamente disseccati da perniciosa tabe: prosciugati da una malattia mortale. 30. due donne: Clitemnestra ed Egidio che viene definito donna per la sua viltà. 31. cuor di femmina ha Egisto: è vile come una donna. 32. Persefone: la regina degli Inferi, sposa di Ade. 33. Ricordati del bagno: Agamennone viene ucciso da Clitemnestra mentre fa il bagno. 34. quale strana rete inventarono: per evitare che le sfuggisse, Clitemnestra ha bloccato il marito in una rete. 35. In ceppi senza bronzo fosti serrato: ti fecero prigioniero senza usare catene. 36. in veli premeditati: con un inganno premeditato. 37. Pelopidi: discendenti di Pelope, il progenitore della dinastia. 38. come sugheri sostengono la rete salvando dal profondo i ritorti lini: come sugheri che sostengono la rete evitando che i fili scompaiano nelle profondità del mare. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 on line volume B 41 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA APPROFONDIMENTO Oreste nel mito Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra, ancora bambino viene portato di nascosto a Cirra, in Focide, dove il re Strofio, marito della sorella di Agamennone lo alleva insieme al figlio Pilade. Divenuto adulto, Apollo gli ordina di uccidere Egisto e Clitemnestra per vendicare la morte del padre, ma il suo gesto provoca la persecuzione delle Erinni che lo costringono a rifugiarsi nel tempio del dio a Delfi. Nel processo che viene istruito nei suoi confronti nell’Areopago di Atene interviene come difensore lo stesso Apollo, ma solo grazie al voto di Atena egli viene assolto. Un episodio del mito che lo riguarda si riferisce al matrimonio dell’eroe con Ermione, la figlia di Menelao e Elena, cui Oreste è stato promesso sin da bambino. Quando Menelao decide, invece di offrire Ermione in sposa a Neottolemo, Oreste rapisce la ragazza che successivamente gli darà un figlio, Tisameno. In seguito l’eroe diviene re di Argo e anche di Sparta, dove succede a Menelao. Secondo un’altra tradizione, la sua tomba si trovava a Tegea dove a Oreste venivano tributati onori divini. STRUMENTI DI LETTURA I personaggi Le Erinni: oltre ai personaggi fisicamente presenti sulla scena come Elettra e Oreste, il vero motore dell’Orestea sono le Erinni, geni alati con serpenti al posto dei capelli che vivono nell’Erebo, la parte più profonda degli Inferi. Il compito essenziale delle Erinni è vendicare i delitti – in particolar modo quelli commessi contro la famiglia – poiché essi costituiscono un’inaccettabile alterazione dell’ordine cosmico. Dopo il sacrificio di Ifigenia sono loro a scatenare una lunga scia di lutti, prima spingendo Clitemnestra a uccidere il marito per vendetta, poi punendola del suo atto per mano del figlio e infine perseguitando Oreste come matricida. La spaventosa furia delle Erinni traspare nelle profetiche parole che Apollo rivolge a Oreste: prima l’eroe sarà colpito da malattie atroci e dolorose (morbi che assalgono le carni con selvagge mascelle, lebbra divorante il corpo antico, onde il male fa sorgere bianchi lembi… malamente disseccati da perniciosa tabe), poi sarà bandito dalla città (oltraggiato corpo, sarei scacciato con bronzeo flagello) e infine sarà costretto a errare di luogo in luogo fino al momento in cui potrà purificarsi del suo crimine. I temi La macchia, il mìasma: le tragedie di Eschilo sono costruite su una dinamica cui nessuno dei protagonisti riesce a sfuggire. Secondo la concezione della vita umana riportata dalla tragedia eschilea, agli uomini viene assegnato un particolare limite entro il quale è lecito che essi agiscano. Quando qualcuno di loro lo oltrepassa, compie un atto di hybris cioè di “prevaricazione”, che deve essere punito dagli dei, sdegnati dal comportamento umano. Non è detto che la macchia generata dall’atto di hybris sia del tutto lavata da chi l’ha compiuta, talvolta ricade sui figli all’interno della famiglia e segna negativamente un’intera stirpe. Inoltre, per rimediare a un atto di hybris si può talvolta compierne un altro, inaugurando così una terribile catena senza sosta. Oreste è l’ultimo discendente dei Pelopodi, una stirpe segnata da un delitto originario la cui colpa ricade sulle generazioni seguenti: Pelope, figlio di Tantalo, da bambino viene ucciso e fatto a pezzi dal padre che ne offre le carni agli dei, i quali si accorgono del terribile banchetto loro offerto e riportano in vita il bambino, mentre Zeus maledice Tantalo e la sua discendenza. I delitti di sangue proseguono con i figli di Pelope, Atreo e Tieste, che uccidono il fratellastro Crisippo e per questo vengono a loro volta maledetti dal padre. Successivamente Atreo si vendica di Tieste, che gli ha sedotto la moglie, invitandolo a un banchetto dove, a sua insaputa, gli fa mangiare il corpo dei tre figli. Egisto, il figlio di Tieste, punisce con la morte il misfatto di Atreo i cui discendenti continuano a spargere il sangue dei familiari. Agamennone, re di Argo, sacrifica in Aulide la figlia Ifigenia per propiziarsi la benevolenza di Artemide ma al suo ritorno da Troia viene trucidato dalla moglie Clitemnestra che intende vendicare l’innocente creatura. Nem- V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica meno Oreste sfugge alla contaminazione del delitto e per fare giustizia della morte del padre, seguendo i dettami di Apollo, si macchia del più atroce tra i crimini di sangue, il matricidio (l’oracolo molto possente del Lossia, che mi ordina di attraversar questo rischio, alto gridando e pronunciando gelidi tormenti al caldo mio cuore, se non perseguo gli uccisori di mio padre). Libertà e necessità: quale margine di scelta, dunque, ha l’individuo rispetto a un destino che spesso appare condizionato da eventi molto lontani nel tempo? Questa domanda attraversa tutta la produzione teatrale di Eschilo, secondo il quale le divinità non intervengono nell’esistenza umana per capriccio o invidia – come si riteneva in epoca omerica – ma agiscono secondo giustizia, punendo l’atto di chi, con il suo comportamento, ha oltrepassato il limite posto agli uomini. Non c’è contraddizione, quindi, tra Fato e responsabilità individuale poiché l’uomo imbocca liberamente la propria strada ma deve sottostare alle inevitabili conseguenze delle sue azioni poiché il suo destino – e quello dei suoi discendenti – è soggetto a un ineludibile criterio di giustizia secondo cui chi è colpevole presto o tardi verrà punito. Il conflitto tra la necessità imposta dal Fato e la libertà di scelta rimanda al mistero del rapporto tra uomini e dei: in Oreste si risolve nel momento in cui l’eroe comprende la perfetta corrispondenza tra la sua volontà e ciò che gli dei gli impongono di fare (…anche se non credo, l’opera dev’esser compiuta. Poiché molti desideri in un sol punto coincidono: gli ordini del dio e il dolore grande per mio padre). Giustizia e vendetta: le Coefore si fondano su un’idea arcaica di giustizia, che si identifica con la vendetta, come dimostrano le parole di Elettra la quale, sulla tomba del padre, chiede l’apparizione di un vendicatore che “secondo giustizia ricambi con uccisione chi ha ucciso”. La tragedia pone un caso limite, in proposito: se poniamo che sia giusto vendicare morte con morte, quando questo avviene all’interno di una stessa famiglia, da parte di un figlio verso la madre, il sistema della vendetta può ancora essere ritenuto valido per ristabilire la giustizia? La risoluzione della domanda sembrerebbe essere proposta dall’ultima tragedia della trilogia, le Eumenidi, in cui alla pratica della vendetta viene sostituita quella del giudizio in tribunale. Le parole chiave L’esilio: si tratta di una condizione ricorrente nella storia degli eroi che spesso vengono allontanati dalla patria perché accusati 42 on line di una colpa effettivamente commessa o attribuita loro ingiustamente. Nel dialogo tra Elettra e Oreste nel termine esilio la valenza letterale si sovrappone a quella metaforica: entrambi sono stati esclusi da quanto spettava loro di diritto, Oreste perché è stato privato dei suoi beni (esule dai suoi averi), mentre a lei – che per rango dovrebbe essere la padrona della reggia – sono state tolte la libertà e la dignità (quasi una schiava). Successivamente le parole di Oreste ribadiscono il comune destino di esclusione (entrambi in esilio dalla loro stessa casa). Anche nella tremenda profezia di Apollo l’esilio appare come la somma punizione per l’eroe che si sottrarrà al suo compito. L’esilio è ritenuto una condizione terribile perché nella cultura della polis l’appartenenza alla propria città permetteva di essere identificati, riconosciuti e collocati all’interno di una famiglia e della comunità stessa. Essere esiliati significava l’esclusione dal consesso umano e civile (dalla città, oltraggiato corpo, sarei scacciato con bronzeo flagello), nel quale si vive e si è riconosciuti. Perciò l’esilio è una condizione che equivale alla morte. La lingua e lo stile Le figure retoriche: rivolgendosi a Zeus, Oreste rievoca il crudele assassinio di Agamennone da parte di Clitemnestra rappresentando i due rispettivamente come un’aquila e una vipera (Guarda la stirpe dell’aquila, orba del padre ucciso fra le spire e le volute di terribile vipera), con una metafora che può essere interpretata a più livelli. L’aquila, animale sacro a Zeus, simboleggia infatti la potenza e la regalità – doti che ben si addicono ad Agamennone, re di Argo e capo dell’esercito acheo – e nella cultura greca essa è tradizionalmente considerata nemica della vipera. Dunque che la vipera-Clitemnestra abbia ucciso l’aquila-Agamennone stritolandolo tra le sue spire potrebbe quindi significare che il re di Argo è stato assassinato con l’inganno e non in un leale scontro. Inoltre, nelle Storie di Erodoto, lo scrittore greco vissuto nel V secolo a.C., viene riportata la notizia che la femmina della vipera, dopo essersi accoppiata, uccide il maschio divorandolo. Questo atto suscita il desiderio di vendetta nei piccoli i quali, al momento della nascita, squarciano il ventre della madre e la uccidono. Questa immagine è stata spesso collegata alla mitica vicenda del matricida Oreste, anche perché, proprio nelle Coefore, prima del ritorno dell’eroe, in un sogno premonitore, Clitemnestra si vede partorire un serpente che le succhia il sangue dal seno. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line 43 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 Dove si svolge la scena? 2 All’inizio del brano a chi Elettra rivolge la propria preghiera? 3 Chi ha imposto a Oreste di tornare ad Argo? di ffi co ltà 4 Che cosa chiedono Elettra e Oreste allo spirito di Agamennone? Analisi I temi Vedi a p. 14 5 In quale punto del testo compare un riferimento alla colpa contro il proprio sangue commessa da Agamennone? 6 Con quale artificio Clitemnestra è riuscita a uccidere Agamennone? 7 Che cosa pensi dell’idea di giustizia che emerge in questo brano? Credi che essa sia stata effettivamente superata o in determinate situazioni il desiderio di vendetta affiora ancora oggi? I personaggi Vedi a p. 8 8 Quali prove convincono Elettra dell’identità del fratello? 9 Per quali ragioni il legame di Elettra nei confronti di Oreste è più forte dell’usuale? La lingua e lo stile Vedi a p. 13 10 Con quale metafora Oreste rappresenta se stesso e la sorella quando chiede a Zeus di proteggerli affinché possano portare a termine il loro piano? Produzione di ffi co ltà Laboratorio volume B 11 Riassumi il contenuto del brano in terza persona, sostituendo ai dialoghi il discorso indiretto. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica Sofocle La follia dell’eroe 44 on line genere tragedia tratto da Aiace (vv. 1-133; 430-480 nel testo greco) L’OPERA L’azione si svolge nell’accampamento acheo dove Aiace, umiliato dall’assegnazione delle armi di Achille a Odisseo e portato alla follia dalla dea Atena, durante la notte fa strage di pecore e buoi che scambia per i suoi compagni d’arme dei quali vuole vendicarsi. Il mattino dopo l’eroe torna in sé e comprende di aver compiuto un atto vergognoso che lo ha ulteriormente disonorato. Per questo motivo decide di suicidarsi e nonostante la concubina Tecmessa, madre del piccolo Eurisace, cerchi di dissuaderlo in ogni modo, si allontana dall’accampamento, raggiunge la riva del mare e si uccide gettandosi sulla spada donatagli da Ettore al termine di un duello. Alla scoperta del cadavere Teucro, fratello di Aiace, si scontra violentemente con gli Atridi Agamennone e Menelao i quali, avendo tenacemente odiato l’eroe quand’era in vita, vorrebbero ora punirne l’insubordinazione abbandonando il suo corpo agli uccelli e ai cani. Sostenuto da Odisseo, Teucro riesce però a ottenere la giusta sepoltura per il fratello e il dramma si conclude con la celebrazione del rito funebre al quale sono presenti solo Tecmessa, il figlio e lo stesso Teucro. anno V-IV secolo a.C. luogo Grecia LA SCENA La follia di Aiace L’azione inizia all’alba, dinanzi alla tenda di Aiace, con un dialogo tra la dea Atena e Odisseo mediante il quale il pubblico viene a conoscenza di quanto è appena accaduto: poiché non gli sono state assegnate le armi di Achille, Aiace si è furtivamente introdotto tra le tende dei guerrieri achei per farne strage ma, reso folle da Atena, ha massacrato il bestiame e i suoi guardiani, coprendosi di ridicolo e di vergogna. Per umiliarlo ulteriormente e portare a compimento la sua vendetta, Atena convince l’eroe a uscire dalla tenda in cui si è rinchiuso e gli fa narrare la sua impresa al cospetto di Odisseo, reso invisibile mediante un sortilegio. Aiace racconta orgogliosamente di aver fatto scempio di molti Achei e di averne catturati altri che ora tiene prigionieri nella sua tenda, tra i quali c’è Odisseo – in realtà un montone – che ha legato al centro della tenda e che sta torturando lentamente. Ti ho sempre visto, figlio di Laerte,1 in atteggiamento di chi caccia, pronto a cogliere un’opportunità contro i tuoi nemici; ed ora, davanti alla tenda di Aiace, sul mare, qui dove egli occupa la posizione estrema,2 ti scorgo intento già da tempo a seguire ed esaminare le sue orme recenti, per capire se si trova o no nella tenda. E ben ti guida il tuo passo dal fiuto sottile, come di cagna lacena:3 l’uomo,4 infatti, è da poco rientrato, col capo madido di sudore e le mani cruente.5 Non hai più alcun motivo di spiare dentro a questa porta. Dimmi piuttosto perché ti sei preso questa cura: io so, e da me potrai apprendere ogni cosa. 6 ODISSEO O voce di Atena, la dea a me più cara, come distinta, sebbene non ti possa scorgere,7 io intendo la tua voce, e l’accolgo nel mio cuore quale bronzeo squillo di tromba tirrena!8 Sì, anche questa volta hai colto nel segno: mi agATENA 1. figlio di Laerte: Odisseo. 2. dove egli occupa la posizione estrema: nell’Iliade le tende di Aiace e di Achille si trovano alle estremità opposte del campo acheo, mentre quella di Odisseo è situata al centro dell’accampamento. 3. cagna lacena: simile a quello delle cagne della Laconia, note per il loro olfatto. La Laconia è una regione meridionale della Grecia. 4. l’uomo: Aiace. 5. cruente: insanguinate. 6. la dea a me più cara: Atena è la protettrice di Odisseo. 7. sebbene non ti possa scorgere: Atena si trova in un punto della scena dal quale risulta invisibile ad Odisseo. 8. bronzeo squillo di tromba tirrena: la tromba degli Etruschi (o Tirreni) era nota per il suo suono penetrante. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 45 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Sofocle nasce ad Atene nel 496. Nel 468 sconfigge Eschilo in un concorso tragico, nel 440 viene eletto stratego con Pericle e nel 413 – dopo la disfatta ateniese in Sicilia – partecipa a una magistratura eccezionale istituita per fronteggiare il difficile momento. Assume anche diversi incarichi religiosi e dopo la sua morte, avvenuta nel 406 ad Atene, gli viene tributato il culto dovuto agli eroi. Delle centotrenta opere attribuitegli, sono giunte integre sino a noi sette tragedie, delle quali sono databili in modo certo solo l’Antigone (442) e il Filottete (409), mentre per le rimanenti viene ipotizzata la seguente successione: Aiace, Edipo re, Trachinie, Elettra, Edipo a Colono. Dell’autore ci sono pervenuti anche i primi quattrocento versi del dramma satiresco I cercatori di tracce e oltre 1100 frammenti di altri opere. 9. nemico: Aiace, che appartiene allo schieramento acheo, è un nemico per il modo in cui ha reagito all’attribuzione delle armi di Achille. 10. portatore di scudo: epiteto che nell’Iliade definisce Aiace. 11. due comandanti: i due Atridi, Agamennone, capo dell’esercito greco, e Menelao, signore di Sparta. giro in cerca di un nemico,9 di Aiace portatore di scudo;10 di lui, e di nessun altro, seguo da tempo le tracce. Un gesto inconcepibile egli ha compiuto contro di noi questa notte, se pure è stato lui l’autore del fatto: nulla infatti sappiamo di chiaro, ma vaghiamo nel dubbio; ed io, spontaneamente, mi sono sobbarcato la fatica di questa ricerca. Poco fa abbiamo trovato ucciso tutto il bestiame, trucidato da mano d’uomo insieme con i guardiani stessi. Tutti ne attribuiscono la colpa a lui. Anzi, un testimone lo vide percorrere da solo la pianura, a grandi balzi, con in pugno la spada intrisa di fresco sangue, mi ha riferito il fatto, precisandone i particolari. Subito mi lancio sulle sue tracce: alcune le identifico, ma per altre rimango perplesso, e non so comprendere a chi appartengano. Sei giunta a proposito: in tutto, nel passato come nel futuro, io mi lascio guidare dalla tua mano. ATENA Lo so, Odisseo, e da tempo mi sono messa sui tuoi passi, vigile custode della tua caccia. ODISSEO Dunque, amata signora, la mia fatica non è vana? ATENA Sì, perché questa è opera sua. ODISSEO E a che scopo egli spinse così la mano insana? ATENA Era gravato dall’ira per le armi di Achille. ODISSEO Ma perché è piombato con tale impeto contro il bestiame? ATENA Credendo di immergere la mano nel vostro sangue. ODISSEO Questo suo proposito era dunque rivolto agli Argivi? ATENA E l’avrebbe attuato, se io non avessi provveduto. ODISSEO Ma con quale ardire, con quale furia dell’animo? ATENA Di notte, solo, furtivo, si diresse contro di voi. ODISSEO E riuscì ad arrivarvi? Raggiunse la sua méta? 11 ATENA Già si trovava alle porte dei due comandanti. ODISSEO E come trattenne la mano, avida di sangue? ATENA Io l’ho fermato, gettandogli sugli occhi le ingannevoli immagini di una gioia funesta, e l’ho deviato sulle vostre mandrie, sul bottino sorvegliato dai pastori, ancora confuso e indiviso. Là egli, avventatosi sulle prede, fece massacro del bestiame dalle molte corna, roteando intorno la spada e trucidando, e credeva di uccidere di sua mano ora i due Atridi, avendoli in suo potere, ora l’uno o l’altro dei capi greci, piombando loro addosso. E mentre l’uomo infuriava nel morbo della follia, io lo incitavo, lo sospingevo in funesti lacci. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica 46 on line Quando poi fu sazio di tale strage, stretti in catene i buoi ancora vivi e tutte le pecore, li trascinò nella sua tenda, credendoli uomini e non preda dalle belle corna; e ora là dentro infierisce su di loro, così legati insieme. Mostrerò anche a te questo suo male in piena luce, perché, dopo aver visto, tu lo possa annunziare a tutti gli Argivi. Rimani lì senza paura, e non considerare quest’uomo un pericolo per te: io infatti stornerò la luce dei suoi occhi dalla vista di te12 (Rivolgendosi verso la tenda.) O tu che costringi nei ceppi le mani dei prigionieri, accorri al mio richiamo! Dico a te, Aiace: esci davanti alla tua dimora! […] (Aiace esce dalla tenda con in mano una sferza intrisa di sangue) Salve, Atena, salve, figlia di Zeus! Quanto prezioso è stato il tuo aiuto! In ringraziamento di questa caccia ti offrirò spoglie d’oro massiccio. ATENA Sagge parole. Ma dimmi: hai bene immerso la tua spada nel sangue dei soldati argivi? AIACE Sì, posso vantarmene, e non lo nego! ATENA Anche sugli Atridi hai vibrato la tua mano? AIACE In tal modo che mai più, lo so, oltraggeranno Aiace. ATENA Dunque sono morti, se ho ben inteso le tue parole. AIACE Morti: ed ora vengano a prendersi le mie armi! ATENA Bene. E il figlio di Laerte? Che sorte gli hai riservato? Ti è sfuggito? AIACE Mi hai chiesto dov’è quella scaltra volpe? ATENA Appunto. Parlo di Odisseo, del tuo rivale. AIACE Siede lì dentro in catene, o mia signora, prigioniero a me graditissimo. Ancora non voglio che muoia. ATENA Cosa intendi fargli prima? Che altro vuoi ricavare da lui? AIACE Prima, legato a una colonna del mio tetto… ATENA Qual pena darai a quell’infelice? AIACE …perisca sotto i colpi di sferza, col dorso insanguinato. ATENA Oh no, non torturarlo così, povero sventurato! AIACE Sono disposto ad appagarti in ogni altro desiderio, Atena, ma egli avrà la punizione che ho detto, e non diversa. ATENA Ebbene, poiché è tuo piacere farlo, battilo pure, non risparmiare nulla di quanto hai in mente. AIACE Vado a compiere l’opera. Questo soltanto ti chiedo: di assistermi alleata sempre, come ora. AIACE (Aiace rientra nella tenda) Vedi, Odisseo, quanto è grande la potenza degli dei? Quale uomo avresti potuto trovare più accorto di costui o più valente al momento di agire? ODISSEO Io non ne conosco nessuno. Ma nonostante mi sia nemico, ho pietà di quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova aggiogato:13 nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se non fantasmi o vana ombra. ATENA 12. stornerò la luce dei suoi occhi dalla vista di te: impedirò che lui ti veda. 13. a cui si trova aggiogato: a cui deve sottostare. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 47 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Quanto hai visto ti insegni dunque a non proferire mai contro gli dei alcuna parola arrogante e a non sollevarti ad orgoglio, se più di altri sei potente per braccio o per vastità di ricchezza: un giorno solo basta a piegare tutte le cose umane e ad innalzarle di nuovo. Gli dei amano gli uomini saggi e odiano i malvagi. ATENA da Sofocle, Aiace Elettra, traduzione di M. P. Pattoni, Rizzoli, Milano 2006 LA SCENA 14. il mio nome fosse così consonante alle mie sciagure: Sofocle interpreta il nome di Aiace facendolo derivare dall’interiezione (pronuncia: aiai) usata per esprimere dolore. 15. terra Idea: il territorio del monte Ida, nella regione della Troade. 16. dopo aver ottenuto il primo e più bel premio dell’esercito: secondo il mito, Telamone aveva partecipato ad una precedente spedizione contro Troia ed essendo stato il primo a penetrare nella città aveva ricevuto come ricompensa Esione, figlia di Laomedonte. 17. dallo sguardo di Gorgone: dallo sguardo intenso. Le Gorgoni erano tre mostri con la testa circondata di serpenti, zanne simili a quelle dei cinghiali, mani di bronzo, ali d’oro e uno sguardo così penetrante da mutare in pietra chi le fissava. 18. sono inviso agli dei: sono odiato dagli dei. 19. mi aborre: mi detesta. 20. di essere da lui nato non degenere nell’indole: di non essere diverso da lui per temperamento e coraggio. 21. Quale piacere ha in sé … il morire?: l’idea espressa in queste parole è che ogni giorno avvicina e contemporaneamente allontana la morte perché rende più vecchi ma al tempo stesso rinvia la fine ad un momento successivo. Aiace verso il suicidio Rinsavito dalla sua follia, Aiace scopre di aver compiuto un’azione ignobile e vergognosa che lo ha privato del suo onore di guerriero, esponendolo al pubblico disprezzo e all’esclusione dalla collettività. La sua colpa può essere cancellata solo da un gesto estremo e l’eroe, allontanatosi dalla tenda, si dirige verso un boschetto di cespugli nei pressi del mare e lì si uccide. Queste sono le ultime parole, dirette al coro e a Tecmessa che inutilmente cerca di dissuaderlo facendo leva sui suoi sentimenti, con cui Aiace sostiene l’ineluttabilità della sua scelta. Aiai! Chi mai avrebbe pensato che il mio nome fosse così consonante alle mie sciagure?14 Ora posso ben gridare due o tre volte «aiai»: tali sono i mali in cui mi trovo! Da questa terra Idea15 mio padre, dopo aver ottenuto il primo e più bel premio dell’esercito,16 tornò in patria riportando ogni gloria: ed io, suo figlio, giunto nella stessa regione della Troade con forza non minore, e compiute di mia mano non meno grandi imprese, così mi spengo, nel disprezzo degli Argivi. Eppure questo almeno credo di sapere: se Achille, vivo, come premio del valore avesse dovuto aggiudicare le sue armi a qualcuno, nessun altro le avrebbe prese al posto mio. Ora invece gli Atridi le hanno assegnate con l’intrigo a un uomo d’animo malvagio, capace di tutto, disprezzando il mio valore. Ma se questi occhi e la mente stravolta non mi avessero deviato dal mio intento, essi non avrebbero mai più emesso un simile giudizio a danno di altri. Ora invece la figlia di Zeus, l’indomita dea dallo sguardo di Gorgone,17 mentre su di loro levavo il mio braccio, mi trasse in inganno lanciandomi furioso morbo di follia, sì che le mani fra queste mandrie insanguinassi; ed essi, scampati contro la mia volontà, esultano: se un dio vuol far del male, anche il vile può sfuggire al più forte. Ed ora che devo fare? Manifestamente sono inviso agli dei;18 l’esercito dei Greci mi aborre19 e mi odiano tutta Troia e queste pianure. Dovrei forse far ritorno in patria, lasciare i quartieri delle navi, gli Atridi soli, e attraversare il mar Egeo? E quale volto mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendogli innanzi? Come potrà sopportare di vedermi apparire nudo senza i trofei, dei quali egli ebbe corona di gloria? No, non è sopportabile questo. Debbo allora andare alle mura dei Troiani, piombare io solo contro essi soli, e compiendo qualche atto di valore trovare infine la morte? Ma così farei contenti gli Atridi. Non può essere. Si deve cercare una prova per cui io possa mostrare al vecchio padre di essere da lui nato non degenere nell’indole.20 È turpe che desideri una lunga vita chi nei suoi mali non vede mutamento alcuno. Quale piacere ha in sé il giorno aggiunto a un altro giorno, che avvicini e allontani il morire?21 Non posso tenere in nessun conto un mortale che si riscalda di vuote speranze. Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire. Hai udito tutto. AIACE da Sofocle, Aiace Elettra, traduzione di M. P. Pattoni, Rizzoli, Milano 2006 V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica 48 on line APPROFONDIMENTO Aiace nel mito Aiace, figlio di Telamone e Peribea e re di Salamina, partecipa alla guerra di Troia dove si dimostra il più forte tra i guerrieri achei dopo Achille. A causa della sua statura gigantesca viene anche definito il grande Aiace per distinguerlo da Aiace Oileo, capo dei Locresi. Tra le varie versioni del mito relativo alla sua morte, la più nota è quella sviluppata da Sofocle secondo il quale Aiace, defraudato con l’inganno delle armi di Achille che Teti aveva destinato al più valoroso degli Achei, impazzisce e massacra buoi e pecore credendoli i suoi compagni d’arme; poi, rinsavito, si uccide per la vergogna e viene sepolto sul promontorio Reteo. Secondo una tradizione posteriore, è Agamennone che – su consiglio di Atena – assegna a Odisseo le armi di Achille, mentre un ulteriore mito racconta che, durante una tempesta, le armi di Achille vengono strappate dalla nave di Odisseo che se ne è impossessato con l’inganno e sospinte fino alla tomba di Aiace. Nell’antichità l’eroe Aiace godeva di grande popolarità ed esistevano diversi luoghi di culto a lui dedicati; a Salamina ogni anno gli venivano tributati onori divini. L’Aiace, la più antica tra le tragedie attribuite a Sofocle – composta probabilmente tra il 450 e il 435 – ha come argomento la follia e il suicidio dell’eroe. STRUMENTI DI LETTURA I temi La hybris punita: nel pensiero greco la parola hybris definisce il superamento e la violazione dei limiti che gli dei hanno posto a tutte le creature viventi. Coloro che tentano di competere con le divinità sul piano della forza, dell’intelligenza, della bellezza o dell’abilità in qualche arte si macchiano di hybris e per questo – siano essi uomini comuni o eroi – incorrono in feroci punizioni il cui scopo è ristabilire la gerarchia e l’ordine del mondo. Aiace è colpevole di hybris nei confronti di Atena perché, come spiega un personaggio in un passo della tragedia che non abbiamo riportato, a Telamone che prima della partenza lo ammonisce di “vincere con la sua lancia, ma di vincere sempre con l’aiuto di dio”, risponde superbamente che “con il favore degli dei anche chi è nulla può riportare vittoria”, mentre lui confida “di ottenere la gloria pur senza di essi”. La tracotanza dell’eroe, però, non si ferma qui e quando, nel corso della battaglia, Atena gli si accosta per sostenerlo contro i nemici, egli la allontana chiedendole di proteggere gli altri Achei, perché dove c’è lui “la linea di battaglia non s’infrangerà mai”. L’inevitabile reazione della dea scaturisce dalla volontà di punire in modo esemplare chi ha voluto considerasi pari a lei e, soprattutto, educare gli altri uomini. A Odisseo che – accorto come sempre – dichiara di confidare nel suo aiuto in ogni circostanza (in tutto, nel passato come nel futuro, io mi lascio guidare dalla tua mano), Atena ordina di riferire ai Greci che cosa può accadere a chi osa sfidare gli dei (Mostrerò anche a te questo suo male in piena luce, perché, dopo aver visto, tu lo possa annunziare a tutti gli Argivi) in modo che nessuno osi dubitare della loro potenza. La follia e il suicidio: Atena castiga Aiace rendendolo folle, cioè impedendogli di vedere la realtà com’è effettivamente e spingendolo a compiere gesti che successivamente si riveleranno assurdi e ignominiosi (E mentre l’uomo infuriava nel morbo della follia, io lo incitavo, lo sospingevo in funesti lacci). Ha cercato di avere le armi di Achille che testimoniassero, come bottino personale, il suo proprio eroismo, ma l’atto che ha compiuto lo allontana sempre più da quel valore che vorrebbe vedere confermato. Rinsavito, l’eroe è costretto a confrontarsi con le conseguenze delle proprie azioni e, in base al suo codice morale, sceglie la morte come unica possibile forma di espiazione della vergogna (Si deve cercare una prova per cui io possa mostrare al vecchio padre di essere da lui nato non degenere nell’indole). V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 49 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA A fargli scegliere il suicidio, per rimediare alla vergogna che prova, è dunque ancora una concezione dell’eroismo paragonabile a quella degli antichi eroi omerici, che vedono nel riconoscimento altrui la fonte certa del proprio valore (vedi p. 168), ma diverso è il percorso che porta alla conclusione della sua vicenda. Solo con la sua vergogna, Aiace si dà la morte attraversando la follia, l’angoscia, la sofferenza interna come solo un uomo dall’animo particolarmente grande può dimostrare di fare. Si inaugura così un nuovo tipo di eroismo, legato a una diversa e più profonda conoscenza della dimensione interna dell’animo umano. I personaggi La solitudine dell’eroe: il tratto distintivo di Aiace è l’orgogliosa solitudine nella quale conduce l’esistenza, che dapprima lo spinge ad affrontare i nemici senza l’aiuto di Atena, poi a portare a termine da solo quella che egli ritiene essere la sua vendetta e infine ad allontanarsi da una collettività che disprezza ma nella quale non potrebbe rientrare neanche volendo, visto che ne ha violato le regole di convivenza (l’esercito dei Greci mi aborre e mi odiano tutta Troia e queste pianure). Anche la sua morte avviene in perfetta solitudine, in un punto della costa lontano dal campo acheo, rendendo concretamente visibile agli spettatori del dramma la totale “diversità” dell’eroe e l’insanabile conflitto che lo oppone al mondo degli uomini. Le parole chiave Il disprezzo: l’ingiusta sottrazione delle armi di Achille, destinate da Teti al più valoroso degli Achei, costituisce per Aiace uno smacco insopportabile perché lo espone al disprezzo di quanti fino a quel momento lo hanno considerato degno d’onore e, soprattutto, del padre Telamone (nel disprezzo degli Argivi quale volto mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendogli innanzi? Come potrà sopportare di vedermi apparire nudo senza i trofei, dei quali egli ebbe corona di gloria?). Nella figura di Aiace rivive il sistema di valori centrato sull’aretè – il coraggio fisico e morale che si dimostra sul campo di battaglia (vedi Il duello tra Achille ed Ettore a p. 169) – tipico degli eroi omerici i quali ricercavano nello scontro con l’avversario la bella morte per evitare l’onta del disprezzo e del disonore. Inserito in un diverso contesto culturale, l’eroe di Sofocle spinge però alle estreme conseguenze gli ideali epici, cercando di riacquistare con la morte volontaria la gloria perduta (Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire). Le figure retoriche Per la circospetta attenzione con cui Odisseo avanza nell’accampamento, Atena lo paragona a una astuta cagna da caccia, abile a trovare le tracce della sua preda (in atteggiamento di chi caccia… ti guida il tuo passo dal fiuto sottile, come di cagna lacena) e poco più avanti lo stesso Aiace usa una metafora animale per definire colui che proditoriamente gli ha sottratto l’ambito trofeo (quella scaltra volpe). Anche Aiace si riferisce alla sua impresa utilizzando la metafora della caccia (In ringraziamento di questa caccia ti offrirò spoglie d’oro massiccio), tuttavia la reale natura della situazione che sta vivendo, più che a un cacciatore lo rende simile ad una preda, braccata dalla divinità. Fabula e intreccio L’intensità drammatica del dialogo tra Atena e Aiace si fonda sul contrasto tra la crudele consapevolezza della dea, artefice delle azioni dell’uomo, e la patetica incoscienza dell’eroe (Questo soltanto ti chiedo: di assistermi alleata sempre, come ora). Questi, incalzato dalle beffarde domande della divinità, giunge a gloriarsi della propria scellerata impresa di fronte all’invisibile Odisseo – e al pubblico, al corrente di quanto è effettivamente accaduto – il quale non può che immedesimarsi in quel povero infelice e commiserarne la sorte (ho pietà di quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova aggiogato). La follia è parte possibile di ogni animo, infatti vederla in un altro significa avere coscienza di quanto potrebbe accadere anche a sé. Aiace, statua bronzea del I secolo a.C. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 50 di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 Per quale ragione Aiace odia i suoi compagni di battaglia? 2 Con quale obiettivo l’eroe penetra nell’accampamento acheo nel corso della notte? 3 Perché la sua spedizione fallisce? 4 Per quale ragione l’eroe decide di togliersi la vita? di ffi co ltà 5 In quale luogo l’eroe si toglie la vita? Nella sua tenda Nell’accampamento acheo Nei pressi della costa troiana Analisi I temi Vedi a p. 14 6 Sottolinea i passaggi in cui Atena esplicita la propria volontà di punire Aiace ed educare gli altri mortali. 7 Quando rinsavisce, Aiace comprende o no che la sua follia è stata voluta dagli dei? Motiva la tua risposta facendo riferimento al brano. I personaggi Vedi a p. 8 8 L’odio tra Odisseo e Aiace è reciproco ma si manifesta in modo diverso: quale atteggiamento mostra Aiace verso Odisseo? In che modo, invece, quest’ultimo si comporta nei confronti dell’eroe impazzito? 9 L’origine della punizione di Aiace è la sua orgogliosa superbia: in quale occasione l’eroe dà prova di non aver cambiato atteggiamento? Produzione di ffi co ltà Laboratorio lʼeroe nella tragedia attica on line 10 Considerando la sorte di Aiace, Odisseo afferma: “... nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se non fantasmi o vana ombra.” Spiega che cosa intende dire l’eroe ed esponi le tue riflessioni sulle sue parole. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 51 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Euripide La vendetta di Medea genere tragedia tratto da Medea (vv. 1021-1250 nel testo greco) L’OPERA La tragedia si svolge a Corinto e si apre con le parole della nutrice che prima rievoca l’impegno di Medea nell’aiutare Giasone a conquistare il vello d’oro, poi racconta le attuali sofferenze della donna, abbandonata dall’amato che ha deciso di sposare la figlia del re Creonte. Entra in scena Medea che, infuriata, cerca un modo per rispondere all’offesa subita e poco dopo sopraggiunge il pedagogo dei figli che le rivela le decisioni di Creonte, intenzionato a scacciarla dalla città insieme ai due piccoli. La collera di Medea cresce ma quando Creonte giunge di persona a comunicarle le proprie disposizioni, ella riesce a dissimulare i sentimenti che la agitano e a ottenere che i figli rimangano un altro giorno a Corinto: poi, all’uscita di scena del re, spiega al coro che intende vendicarsi di Giasone, uccidendo la sposa e lo stesso Creonte. Poco dopo arriva Giasone, con cui la donna discute aspramente, e successivamente Egeo, il re di Atene che si è recato a Delfi, perché è afflitto da sterilità; a questi Medea promette un filtro che lo guarirà dal suo male in cambio di asilo ad Atene. Egeo giura solennemente di accogliere la donna che, ormai sicura di avere una via di scampo, finge con Giasone di accettare di buon grado l’allontanamento, dicendogli che intende donare alla giovane sposa una veste e una corona per convincerla a non bandire dalla città i suoi figli. Subito dopo invia alla reggia i due fanciulli con i doni, ma immediatamente un nunzio dà la notizia che la veste avvelenata donata da Medea ha straziato il corpo della sposa e che la corona ha preso fuoco, aggiungendo che il re, tentando di salvare la figlia, è rimasto a sua volta vittima del maleficio. A questo punto Medea compie l’ultimo e più atroce atto della sua vendetta e uccide i figli: quando Giasone arriva per punirla del doppio delitto, scopre i loro cadaveri e non può far altro che piangere la sua sorte e osservare Medea che si allontana nel cielo sul carro del Sole portando con sé i corpi dei fanciulli cui intende dare sepoltura lontano da Corinto. anno V-IV secolo a.C. luogo Grecia Euripide vedi a p. 192 LA SCENA Furiosa per l’abbandono di Giasone, che prima si è servito di lei e ora la allontana per contrarre un matrimonio d’interesse, Medea si accinge a inviare alla reggia di Creonte dei doni nuziali che, grazie a un incantesimo, provocheranno la morte della sposa e di suo padre. Tuttavia, il gesto che sta per compiere non appaga completamente la sua sete di vendetta e, ossessionata dalla prospettiva dell’esilio, la donna giunge alla decisione estrema – e per molti versi aberrante – di uccidere i figli per evitare che restino da soli in terra straniera, privi di protezione ed esposti a ogni genere di umiliazioni. Nel monologo che precede il suo ultimo delitto emerge con chiarezza il conflitto interiore che lacera l’animo di Medea, scissa tra l’amore materno e l’irrefrenabile desiderio di vendicare l’offesa subita cancellando ogni traccia del rapporto con l’uomo che l’ha tradita. […] O figli, figli miei, ecco che avete una città e una casa1 in cui, lasciando questa sventurata, abiterete per sempre, orbati2 di vostra madre. Io sto per andarmene in esilio, in un paese straniero, prima di aver gioito di voi e di avervi visti felici; prima di avervi dato una sposa e di aver preparato e levata in alto la fiaccola nuziale. Ahi, povera me, per la mia superbia! Invano, MEDEA 1. avete una città e una casa: poco prima Medea ha ottenuto da Giasone che i figli rimangano a Corinto. 2. orbati: privi. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica 52 on line dunque, o figli, vi ho allevato; invano ho sofferto e mi sono tormentata per voi, dopo avervi partoriti con crudeli doglie! Quante speranze, io infelice, avevo posto in voi: avreste sostentato la mia vecchiaia e, morta, mi avreste seppellito, piamente, con le vostre mani; sorte degna di invidia! Ora addio, dolci pensieri! Senza di voi, vivrò una vita triste e misera. E voi, con i vostri cari occhi, non vedrete più vostra madre, lontani, in una vita tutta diversa. Ahi, ahi, perché, figli miei, mi guardate con quegli occhi? Perché mai sorridete con il vostro ultimo sorriso? Ahi, che fare? Il cuore mi manca, o donne, quando vedo il volto sereno di questi fanciulli! No, non posso! Addio, miei propositi di prima! Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per far soffrire al padre le loro sventure, dovrei raddoppiare la mia? No, non posso: addio, miei propositi (Pausa.) Ma che mi accade? Dovrei giustamente essere derisa, lasciando impuniti i miei nemici? Bisogna osare! O mia viltà, accogliere nel mio cuore parole miti! (Ai figli) Entrate in casa, figli. (I figli eseguono.) Chi non può assistere a questo sacrificio, ci pensi! La mia mano non verrà meno. Ahi, mio cuore, no, non farlo! Lasciali vivere, sciagurata, risparmiali, i tuoi figli! Là, vivendo con me, ti daranno gioia. (Pausa.) Ma no, per i demoni inferi dell’Ade, non sarà mai che io abbandoni i miei figli all’oltraggio dei miei nemici! Comunque, devono morire: e poiché è necessario, io li ucciderò, io che li ho generati! Ormai è fatto, senza scampo. E già, cinta la corona e indossato il peplo, la sposa muore,3 lo so. E poiché io vado verso una via infelicissima e ad una ancor più infelice condurrò costoro, voglio salutare i miei figli. (I bambini tornano sulla scena). Datemi, o figli, datemi le mani, perché io le baci! O mano carissima, o volto carissimo, o nobili persone dei miei figli! Siate felici, ma laggiù! Le gioie della vita ve le ha tolte vostro padre. O dolci abbracci, o tenere carni, o soavissimo alito dei miei figli! (Congedandoli) Andate, andate: non posso più guardare i miei figli, la sventura mi vince (I bambini rientrano in casa). Comprendo il delitto che sto per osare: ma la passione, che è causa delle più grandi sventure per i mortali, è più forte dei miei proponimenti. [Terminato il monologo, giunge un nunzio a portare la notizia della morte di Creonte e di sua figlia.] (arrivando trafelato) Tu che hai compiuto empiamente una cosa così terribile, fuggi, fuggi, Medea, o su una nave o su un carro! MEDEA Che è mai successo, per cui dovrei fuggire? NUNZIO È morta or ora la figlia del re e suo padre Creonte per i tuoi filtri! MEDEA (esultante) Hai detto una cosa bellissima! D’ora innanzi sarai fra i miei amici e benefattori. NUNZIO Che dici? Ragioni o davvero sei impazzita, tu che hai distrutto la casa del re e gioisci a udire una cosa simile, senza tremare? MEDEA Anch’io avrei qualcosa da opporre alle tue parole: ma non aver fretta, amico, e raccontami come sono morti. Quanto più orribilmente sono morti, mi rallegrerai doppiamente. NUNZIO Quando i due tuoi figli entrarono col padre nelle stanze della sposa, noi servi, addolorati per le tue disgrazie, ci rallegrammo e subito ci dicemmo l’un l’altro che tu e tuo marito vi eravate del tutto riconciliati. Chi baciava la mano e chi NUNZIO 3. cinta la corona e indossato il peplo, la sposa muore: la corona e il peplo sono i doni stregati che Medea ha inviato alla sposa di Giasone tramite i due fanciulli. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 53 4. gineceo: parte della casa riservata alle donne. 5. detestando: non sopportando. 6. peplo: ampia e lunga veste di lana bianca indossata dalle donne greche. 7. il terrore di Pan: secondo il mito, il dio Pan era capace di spaventare chiunque grazie al suo aspetto orribile e alle sue urla terrificanti. 8. padre: il re Creonte. 9. novello sposo: Giasone. 10. serto: corona. 11. dalle fauci invisibili dei farmaci: dall’invisibile morso del veleno. 12. un vecchio che è già una tomba: un vecchio che è vicino alla morte. LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA il biondo capo dei tuoi figli: e io stesso, per la gioia, li accompagnai nel gineceo.4 La padrona, che noi adesso onoriamo al tuo posto, prima di aver visto la coppia dei tuoi figli, rivolse uno sguardo amoroso a Giasone. Ma poi si coprì gli occhi e volse altrove il bianco volto, detestando5 l’arrivo dei bambini. E tuo marito cercava di placare la collera e lo sdegno della giovane donna, dicendo: «Non essere ostile verso chi ti è amico. Non vorrai deporre lo sdegno, volgendo il capo e considerando cari a te quelli che lo sono per tuo marito? Accetta questi doni e induci tuo padre per amor mio, a revocare il bando di esilio per questi bambini». Ella, quando vide i doni, non si oppose più, acconsentì in tutto al marito e, prima che i tuoi figli col padre si fossero allontanati, prese il peplo6 ricamato e lo indossò. Poi, messa sui riccioli la corona d’oro, si acconciò le chiome dinanzi a un lucido specchio, sorridendo alla muta immagine della sua persona. Quindi, alzatasi dal trono, attraversò le stanze posando con grazia il candido piede, tutta felice per i doni ricevuti, spesso a lungo guardandosi, sulla punta dei piedi. Ed ecco, allora, una vista terribile! Mutando colore, ella arretra di sghembo, tutta tremante, e fa appena in tempo ad abbandonarsi sul trono per non cadere a terra. Allora una vecchia serva, pensando che l’avesse colta il terrore di Pan7 o di qualche altro dio, levò alte grida; e poi vide una bava biancastra venirle sulla bocca, le pupille stravolte e il sangue fuggirle dal corpo. La serva allora emise grandi gemiti di dolore. Subito una corre alle stanze del padre,8 un’altra va in cerca del novello sposo9 per informarlo della disgrazia; e tutta la casa risuonava di passi precipitosi. E nel tempo in cui un rapido corridore avrebbe percorso fino all’estremità duecento metri di stadio, la sventurata, ritrovando la voce e la vista, si riebbe con un terribile gemito. Infatti due mali l’assillavano: dal serto10 d’oro che aveva sul capo sgorgava un fiotto incredibile di fuoco distruttore, mentre il tenue peplo, dono dei tuoi figli, divorava il candido corpo dell’infelice. In preda alle fiamme, ella si alza dal trono e fugge, scuotendo qua e là il capo e le chiome come per gettar via la corona; ma il monile d’oro stava saldamente attaccato e il fuoco divampava il doppio, quanto più scuoteva le chiome. Infine, vinta dallo spasimo, cade al suolo, a stento riconoscibile, tranne che al padre: non si distinguevano più né la forma degli occhi, né il bel volto; sangue e fuoco commisti stillavano dalla sommità del capo, e le carni, dilaniate dalle fauci invisibili dei farmaci,11 cadevano dalle ossa come lacrime di pino, spettacolo orrendo! E tutti, ammaestrati da quel caso, temevano di toccare il cadavere. Intanto, ignaro di quella sciagura, il misero padre, entrando improvvisamente nella stanza, si precipita sul cadavere: e piangendo e stringendola fra le braccia, la baciava gridando: «Figlia sventurata, quale dio ti ha distrutta così malamente? Chi ha orbato di te un vecchio che è già una tomba?12 Ahimè, che io muoia insieme con te, figlia!». Quando ebbe finito di gemere e di lamentarsi, mentre cercava di rialzare le vecchie membra, restò avvinto al tenue peplo, come edera ai rami del lauro. E fu una lotta terribile: se cercava di sollevare un ginocchio, ella lo avvinghiava ancor più; e se tentava di tirarsi via con la forza, dilaniava dalle ossa le vecchie membra. Alla fine rinunziò, il disgraziato, e abbandonò la vita, incapace di vincere lo strazio. Ora giacciono morti insieme, il vecchio padre e la figlia, sventura degna di lacrime. Di quanto ti riguarda, non dico nulla: imparerai da te stessa come si ritorce il castigo. Non ora per la prima V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica volta ritengo che le cose umane sono un’ombra; e senza tema13 affermo che quelli che credono di avere intelletto saggio e acuto, meritano la punizione più grave. Fra i mortali non esiste uomo felice: per copia di prosperità14 uno potrà essere più fortunato di un altro, ma felice non mai. (Esce di scena) CORIFEA Sembra che in questo giorno un dio ha giustamente accumulato molte sventure su Giasone. O misera, come compiangiamo i tuoi casi, o figlia di Creonte, che movesti alle porte d’Ade per15 le nozze con Giasone! MEDEA Mie care, ho deciso di agire: uccidere i miei figli e allontanarmi al più presto da questa terra, senza indugi, perché non li uccida una mano ancor più nemica. Comunque, devono morire; e poiché è necessario, li ucciderò io, che li generai. Armati, dunque, mio cuore! Perché indugiamo16 a compiere un’azione crudele e pur necessaria? Su, mano mia sventurata, prendi la spada, prendila, muovi a questa via di dolore. Non essere vile, non ricordarti dei figli, come ti sono cari, come li partoristi! Dimentica che ti sono figli, per questo breve giorno: e poi piangi! Anche se li ucciderai, ti furono cari tuttavia, o donna sventurata! (Entra nel palazzo) da Euripide, Medea, in Tragici greci, traduzione di R. Cantarella, Mondadori, Milano 1977 54 on line 13. senza tema: senza timore. 14. per copia di prosperità: per abbondanza di ricchezza. 15. per: a causa. 16. indugiamo: esitiamo. APPROFONDIMENTO Medea nel mito Diverse tradizioni mitiche definiscono Medea, figlia del re Eeta e nipote del Sole e di Circe, come una maga dotata di grandi poteri. Quando gli Argonauti sbarcano nella Colchide per conquistare il vello d’oro, Medea tradisce il padre proteggendo Giasone, capo della spedizione, con un unguento magico. Una volta portata a termine l’impresa, Medea fugge per mare con Giasone, prendendo in ostaggio il fratello Absirto. Accortasi di essere inseguita, Medea uccide il fratello, lo fa a pezzi e li getta in mare per rallentare l’inseguimento di Eeta. Dopo essersi uniti nella terra dei Feaci, Medea e Giasone sbarcano a Iolco dove la donna si vendica di Pelia – che aveva tentato di far morire Giasone imponendogli la ricerca del vello d’oro – promettendo alle figlie di ringiovanirlo con una pozione magica e convincendole a farlo a pezzi e a gettarlo in un calderone. Il consiglio, naturalmente, si rivela fasullo nelle mani delle due giovani inesperte. Scacciati da Iolco per questo delitto, i due giungono a Corinto dove vivono insieme fino a quando Giasone decide di sposare la figlia del re Creonte. Abbandonata dall’uomo amato, Medea mette in atto un’atroce vendetta, uccidendo la nuova sposa di Giasone, Creonte e i suoi stessi figli (vedi la trama di Medea a p. 212). Dopo essere fuggita ad Atene, dove il re Egeo le ha garantito ospitalità e asilo, tenta di ucciderne il figlio Teseo e per questo viene bandita dalla città. Successivamente ritorna in Colchide e qui riporta sul trono Eeta dopo aver fatto uccidere Perse che lo aveva spodestato. Un ulteriore racconto mitico sostiene che alla fine della vita Medea viene trasportata nei Campi Elisi dove si unisce ad Achille. La Medea di Euripide fa parte di una tetralogia tragica comprendente due opere ormai perdute, Filottete e Ditti, e il dramma satiresco I mietitori. Il testo viene messo in scena per la prima volta durante le Grandi Dionisie del 431 a.C., ma Euripide si classifica terzo perché la Medea – come altri drammi dell’autore – non è apprezzata dai contemporanei per la sua distanza dalla tradizione tragica. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 55 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA STRUMENTI DI LETTURA I temi Gli eroi pezzenti: la produzione tragica di Euripide è profondamente influenzata dalla crisi morale, civile e politica seguita alla lunga guerra tra Atene e Sparta (431-404), che determina il progressivo sgretolamento delle certezze tradizionali e per la prima volta mette in discussione l’idea stessa dell’esistenza di un ordine soprannaturale perfetto. Così la riflessione sul rapporto tra uomini e dei che aveva caratterizzato l’opera di Eschilo e Sofocle, in Euripide cede il passo a un’analisi quasi esclusiva del piano umano degli eventi, che sembrano svolgersi sotto gli occhi indifferenti degli dei, dettati dall’arbitrio del Fato. Per questa ragione i drammi di Euripide vengono poco apprezzati dai contemporanei, sconcertati dalle caratteristiche troppo “umane” dei protagonisti – definiti eroi pezzenti dal commediografo Aristofane, contemporaneo di Euripide – e delle situazioni rappresentate. Anche se provenienti dalla tradizione mitica greca, i personaggi euripidei appaiono desacralizzati, ossia spogliati della loro natura eroica, simili in tutto a uomini comuni che agiscono in una realtà analoga a quella dell’autore, alle prese con la propria irrazionalità, non conservando altro che il nome dei modelli originali. La forza dell’irrazionale: smarrita la possibilità di spiegare il senso complessivo dell’agire umano, l’attenzione di Euripide si concentra soprattutto sull’analisi dell’interiorità dei personaggi. L’aspetto più moderno della sua opera consiste infatti nella capacità di scavare nei contraddittori labirinti delle emozioni e delle angosce di figure psicologicamente sfaccettate, oscillanti tra sentimenti contraddittori, dominate da impulsi profondi e incontrollabili, incapaci di dominare razionalmente la realtà. Tra i personaggi più emblematici di questa condizione si pone Medea, che risponde all’offesa subita da Giasone, vivendo una condizione in bilico tra irrazionalità e ragione. Un animo scisso: se nel colpire Creonte e la sposa di Giasone, Medea non conosce esitazioni anzi si compiace in modo esplicito dell’esito delle sue macchinazioni (Quanto più orribilmente sono morti, mi rallegrerai doppiamente), inevitabilmente più complessa e conflittuale è la decisione di uccidere i figli. Nel monologo che precede quest’ultimo delitto pare quasi che si fronteggino due donne diverse che sostengono posizioni opposte: Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per far soffrire al padre le loro sventure, dovrei raddoppiare la mia?; Comunque, devono morire: e poiché è necessario, io li ucciderò, io che li ho generati. La vera tragedia non si svolge quindi nella città di Corinto o nella casa di Medea, ma all’interno della mente ottenebrata e ferita della donna, che è in ogni caso destinata alla sconfitta, perché qualunque sia la sua decisione sarà costretta a rinunciare a una parte di se stessa. I personaggi Medea, donna e barbara: nell’intensa figura di Medea, Euripide concentra alcune delle tematiche più originali della sua opera. Medea simboleggia la subalternità delle donne nella cultura greca, costrette dalle convenzioni sociali ad accettare norme imposte da altri, che consentono all’uomo di rompere un patto di fedeltà per un legame matrimoniale più vantaggioso. Allo stesso tempo rappresenta anche la forza femminile che si ribella con violenza a questa condizione iniqua. La sua selvaggia irrazionalità – che viene spiegata da coloro che la circondano come una conseguenza del suo essere maga e per di più barbara, cioè estranea al sistema di valori condiviso dai greci – già prima di giungere a Corinto l’ha spinta a compiere delitti atroci per amore di Giasone, anteponendo la passione a ogni altra necessità. Tuttavia nel caso che oppone Medea a Giasone si rispecchia una questione propria del diritto greco, che giustifica la reazione della donna, anche se non la sua violenza. Giasone è principe della città e pensa al fatto che i figli avuti da Medea non possono essere considerati suoi legittimi eredi, per via del fatto che sono figli di un greco e di una barbara, di una straniera. Come reggitore della città, Giasone deve preoccuparsi della sua successione, per questo ripudia Medea e cerca una sposa greca, che gli dia figli legittimi. La preoccupazione di Medea circa i suoi bambini è anche in relazione al loro futuro, che non sarà di legittima cittadinanza in alcuna altra città. Quale domani può attenderli? Dietro alla reazione di Medea sta la critica di Euripide al modello tradizionale di famiglia: secondo il cittadino medio ateniese, Medea non può chiedere nient’altro ri- V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nella tragedia attica spetto a quanto ha già ottenuto, cioè di essere stata allontanata dal suo mondo di barbarie. La prospettiva di Giasone è quella della “legalità”, che non tiene conto della figura umana di Medea, mentre Medea non vede alcun rispetto di sé nel comportamento di Giasone e si ribella al fatto di poter rivestire secondo la mentalità greca solo il ruolo di concubina. Un’eroina forte dell’irrazionalità: Medea – come già abbiamo detto – nella sua terribile vicenda personale si comporta in un modo profondamente segnato dall’irrazionalità (Ragioni o davvero sei impazzita, tu che hai distrutto la casa del re e gioisci a udire una cosa simile, senza tremare). Proprio questo è il dato che costituisce una svolta dall’affettuosa presenza dei fanciulli (Là, vivendo con me, ti daranno gioia), ma subito dopo l’orgoglio ferito prende il sopravvento sull’istinto materno spingendola a un’azione atroce che ancora di più confermerà il suo destino di donna sventurata (mano mia sventurata, prendi la spada, prendila, muovi a questa via di dolore; Dimentica che ti sono figli … e poi piangi … o donna sventurata) e non le darà altra soddisfazione se non quella di rendere a sua volta infelice Giasone, cui attribuisce la totale responsabilità della morte dei due fanciulli (Le gioie della vita ve le ha tolte vostro padre). nuova al tema dell’eroismo in Euripide, il fatto che non si intenda più essere eroi solo nella sopportazione del proprio destino o nella sofferta accettazione di esso, ma nella difficile relazione tra forze che compongono la propria interiorità Nel brano proposto è possibile osservare due modalità espressive tipiche del teatro greco, il monologo del protagonista e l’intervento del nunzio che informa i presenti di ciò che avviene fuori dalla scena. Se attraverso il monologo Euripide svela le contraddittorie oscillazioni della mente di Medea permettendo allo spettatore di esplorare i lati oscuri della psiche umana, al nunzio l’autore affida il compito di riportare il dramma sul piano concreto dell’azione. Con tocchi rapidi questo personaggio rende vivide le figure che fino a quel momento hanno fatto da sfondo, mostrando il tenero amore della giovane sposa per Giasone (rivolse uno sguardo amoroso a Giasone), la sua insofferenza nei confronti dei figli dell’uomo (detestando l’arrivo dei bambini) e la giovanile vanità che la induce a indossare i doni malefici (Poi, messa sui riccioli la corona d’oro, si acconciò le chiome dinanzi a un lucido specchio, sorridendo alla muta immagine della sua persona). Poi, con una repentina accelerazione del ritmo, il nunzio racconta l’improvviso spezzarsi dell’atmosfera gioiosa, il pallore e le grida della vittima innocente (Mutando colore, ella arretra di sghembo, tutta tremante … una bava biancastra venirle sulla bocca, le pupille stravolte e il sangue fuggirle dal corpo) e infine la morte della giovane e del padre avvinti in un ultimo abbraccio (Ora giacciono morti insieme, il vecchio padre e la figlia). Il ruolo del nunzio non si esaurisce qui, poiché a lui spetta anche la riflessione finale sull’accaduto nella quale – accomunando Medea alle sue vittime – sostiene che nessun essere umano, colpevole o innocente che sia, può sperare di raggiungere la felicità (Fra i mortali non esiste uomo felice: per copia di prosperità uno potrà essere più fortunato di un altro, ma felice non mai). (Comprendo il delitto che sto per osare: ma la passione, che è causa delle più grandi sventure per i mortali, è più forte dei miei proponimenti). Medea dice il mio thumòs, (il mio animo irrazionale) è più forte della mia razionalità. Tesi a trovare un qualche precario equilibrio tra l’irrazionale che sta dentro di sé e l’irrazionale che sta fuori da sé, nel movimento imperscrutabile del Fato, gli eroi euripidei, e Medea in modo particolare, rendono evidente la condizione umana, che avvicina l’eroe o l’eroina a qualunque uomo o donna, che divide con lei la lotta profonda e terribile per governare l’ingovernabile. Le parole chiave Sventurata e infelice: alla prospettiva dell’esilio Medea si definisce infelice e sventurata, immaginando per sé – separata a forza dai figli – una vita futura triste e misera. Nella prima parte del monologo la felicità della donna sembra dipendere dalla sorte delle sue creature e il suo amore di madre appare ancora vivo e presente quando contrappone alle sofferenze patite per mettere al mondo e allevare i figli (invano ho sofferto e mi sono tormentata per voi, dopo avervi partoriti con crudeli doglie), la prospettiva ormai infranta di una futura serenità (Sto per andarmene in esilio … prima di aver gioito di voi e di avervi visti felici). In forza di questo sentimento a un certo punto Medea viene anche sfiorata dall’idea che l’esilio potrebbe essere reso meno duro 56 on line Fabula e intreccio V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line 57 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 Qual è l’offesa che scatena la collera di Medea? 2 A quali momenti futuri Medea dovrà rinunciare a causa dell’esilio? 3 In quale modo Medea provoca la morte della sposa di Giasone? di ffi co ltà 4 Perché muore anche Creonte? Analisi I temi Vedi a p. 14 5 Secondo te, Medea è consapevole o no del fatto che le sue azioni sono ingiustificabili sul piano umano? Come spiega la sua scelta? Rispondi facendo riferimento al testo. 6 Perché nel suo monologo Medea si dice convinta che i figli «comunque, devono morire?» 7 Quali scelte contraddittorie si affacciano alla mente della protagonista nel corso del suo monologo? Qual è la sua decisione finale? I personaggi Vedi a p. 8 8 Quali gesti e atteggiamenti sottolineano l’innocente inconsapevolezza dei figli di Medea? Le parole chiave Vedi a p. 14 9 Quale altra figura presente nel brano viene definita misera e sventurata? Per quale motivo? La lingua e lo stile Vedi a p. 13 10 Individua, trascrivi e illustra il significato delle due similitudini usate dal nunzio per descrivere la morte di Creonte e di sua figlia. Perché, secondo te, il personaggio sceglie immagini tanto delicate? Produzione di ffi co ltà Laboratorio volume B 11 Esponi il contenuto degli eventi presentati nel brano disponendoli secondo l’ordine cronologico in cui si svolgono e sostituendo ai dialoghi il discorso indiretto. 12 L’autore non esprime alcun giudizio sulla protagonista della tragedia, limitandosi a spiegare le ragioni psicologiche delle sue azioni: che cosa pensi tu di questo personaggio? Ti sembra che i suoi gesti possano essere compresi alla luce della situazione in cui si trova o ritieni che essi non possano essere giustificati in alcun modo? Esponi la tua opinione in un breve testo. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nellʼepica latina 58 on line L’eroe nell’epica latina LA FUNZIONE POLITICA DELL’EPICA LATINA Mentre i poemi omerici si basavano su un patrimonio tradizionale già noto al pubblico attraverso la secolare trasmissione orale di aedi e rapsodi, l’epica latina nasce in un contesto esplicitamente letterario e assolve soprattutto al compito politico di celebrare ed esaltare le personalità e gli eventi storici grazie ai quali Roma è divenuta una potenza di prima grandezza. Questa nuova funzione diviene evidente nel I secolo a.C. quando, dopo aver vittoriosamente portato a termine numerose campagne militari e aver posto fine a circa cinquant’anni di guerre civili, Ottaviano, erede di Giulio Cesare, assume l’appellativo di Augusto e – interrompendo di fatto la tradizione repubblicana – dichiara di voler restaurare quei valori del passato che hanno reso potente Roma. A tale scopo viene istituito il circolo culturale di Gaio Mecenate, dove i più valenti intellettuali dell’epoca contribuiscono con la loro opera a legittimare l’ambizioso progetto culturale di Ottaviano. È questo il contesto in cui il poeta Virgilio compone l’Eneide, un poema epico che ha come protagonista Enea, un leggendario guerriero troiano sopravvissuto alla distruzione della sua città. LA PIETAS DI ENEA Dei mitici eroi greci la figura di Enea conserva alcuni tratti peculiari, come l’origine divina, il coraggio, la determinazione, la forza fisica, ma Virgilio non attribuisce al suo personaggio la facoltà sovrumana di affrontare vittoriosamente imprese eccezionali, poiché in lui vede soprattutto l’uomo nel quale si incarnano le virtù tradizionali che hanno fatto di Roma la maggiore potenza del mondo antico. L’epiteto che con maggiore frequenza definisce Enea è infatti pius, che vuol dire dotato di pietas, un valore che comprende il senso del dovere, la devozione verso gli dei, il rispetto della famiglia e delle leggi che regolano i rapporti umani. Le scelte dell’eroe non nascono quindi né dal desiderio di gloria o di bottino, né dalla volontà di affermare la propria superiorità individuale, ma dalla capacità di portare a termine la missione attribuitagli dal Fato, subordinando i propri interessi personali al bene collettivo. In Enea la soggezione al Fato, che egli condivide con gli altri eroi del mito, coincide con la necessità di adempiere ai suoi doveri anche quando ciò comporta dolori e lutti, e di aderire al compito di fondare la nuova stirpe da cui avrà origine la gens Iulia. La reinterpretazione virgiliana dell’eroe troiano attribuisce un valore mitico anche alla figura di Ottaviano Augusto che viene presentato come l’ultimo e più grande discendente di una dinastia divina destinata a realizzare un progetto grandioso: il principe appare come l’uomo destinato a dare compimento allo stesso disegno del Fato, cui secoli prima aveva ubbidito Enea. Lo straordinario potere che egli concentra nelle proprie mani viene in questo modo giustificato e legittimato. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 59 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Virgilio L’incontro con i discendenti IL BRANO genere poema epico tratto da Eneide (libro VI, vv. 752-853) anno I secolo a.C. luogo Roma Dopo aver abbandonato Didone, Enea approda finalmente sulle coste italiche e, seguendo le indicazioni del padre apparsogli in sogno, si reca dalla Sibilla cumana che lo accompagna nell’oltretomba affinché gli venga svelato come proseguire il suo viaggio. Agli Inferi l’eroe incontra lo spirito di Anchise che dalla sommità di un’altura gli mostra la processione dei suoi discendenti, illustrandogli l’altissima missione cui essi saranno chiamati. veva detto Anchise; e il figlio, e con lui la Sibilla, conduce in mezzo a quei gruppi,1 tra la folla e il brusío, e sale un’altura, da cui tutto il lungo corteo può osservare di fronte, vedere ogni viso che viene. «E ora la gloria che aspetta la prole di Dardano, quali nipoti attendiamo dall’Itala gente, 1’anime ricche di gloria, che al nostro nome verranno, io ti dirò, voglio che tu conosca il tuo fato. Colui, che vedi, quel giovane2 che all’asta pura s’appoggia, è il più vicino alla luce per sorte, e prima nell’aria celeste nasce, misto d’italico sangue,3 Silvio, nome albano, il figlio tuo postumo, che tardi a te vecchio la sposa Lavinia alleva tra i boschi, re e padre di re: per lui4 su Alba la Longa5 la nostra stirpe avrà regno. A lui vicino ecco Proca, gloria del sangue troiano, e Capi e Numitore, e chi rinnova il tuo nome, Silvio Enea,6 per pietà parimenti e per l’armi glorioso, se mai abbia sorte di regnare su Alba.7 Che giovani! Guarda quanta forza dimostrano! e come le tempie hanno ornate di quercia civile!8 Questi Nomento e Gabii e la città di Fidene, A 755 760 765 770 1. in mezzo a quei gruppi: tra la folla di anime che attendono di incarnarsi in un corpo mortale. 2. quel giovane: Silvio, il figlio di Enea e Lavinia che, secondo la leggenda, sarebbe nato dopo la morte dell’eroe troiano 3. misto d’italico sangue: nato da sangue troiano e italico. 4. per lui: grazie a lui. 5. Alba la Longa: la città di Albalonga. 6. Proca … Capi … Numitore … Silvio Enea: sono i nomi di alcuni re albani tramandati dallo storico Livio. 7. se mai abbia sorte di regnare su Alba: quando potrà finalmente regnare su Alba. Il testo allude al fatto che Silvio Enea fu spodestato da un usurpatore e tornò a regnare dopo molto tempo. 8. quercia civile: chi si distingueva per le virtù civili veniva incoronato con un serto di foglie di quercia. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nellʼepica latina 775 780 785 790 795 60 on line quest’altri sui monti le rocche t’alzeranno di Collazia, Pomezia, e d’Inuo il Castello, e Bola e Cora.9 Questi nomi saranno, terre ora son senza nome. Ed ecco, all’avo compagno va il figlio di Marte, Romolo, che Ilia madre dà in luce, del sangue d’Assàraco:10 vedi tu come s’erge sull’elmo duplice cresta,11 e il padre stesso dei superi lo segna già del suo onore?12 Sì, figlio, fondata da lui la nobile Roma pari alle terre l’impero, all’Olimpo avrà l’animo,13 e sette rocche, unica, cingerà del suo muro,14 feconda d’eroi:15 così avanza turrita la madre Berecinzia sul carro, fra i borghi di Frigia, feconda di dei,16 e abbraccia cento nipoti, celesti tutti,17 tutti abitanti le vette del cielo. E ora piega i tuoi occhi, vedi qui questa gente, i tuoi Romani. Cesare è qui, e tutta la stirpe di Iulo,18 destinata a venire sotto la volta del cielo. Ecco l’uomo, ecco è questo che spesso ti senti promettere, l’Augusto Cesare, il figlio del Dio,19 che aprirà di nuovo pel Lazio il secolo d’oro, nei campi regnati da Saturno una volta;20 e sui Garamanti e sugli Indi21 allargherà il regno: fuor dello Zodiaco è la terra,22 fuor dalle strade del sole e dell’anno,23 ove Atlante celifero24 regge sull’omero l’asse prezioso di stelle splendenti. [Anchise continua, indicando ad Enea dapprima le anime dei re che faranno grande Roma, poi quelle dei protagonisti della vita militare, politica e civile del periodo repubblicano, ed infine illustrandogli le ragioni storiche per cui i Romani verranno considerati il più grande popolo del mondo.] Forgeran con più arte spiranti bronzi25 altri popoli, lo credo, e vivi dal marmo sapran trarre i volti, diranno meglio le cause,26 le strade del cielo 9. Questi Nomento … Gabii … Fidene … rocche di Collazia … Pomezia … d’Inuo il Castello … Bola … Cora: sono i nomi di antichi insediamenti nel Lazio la cui fondazione viene attribuita ai discendenti di Enea. 10. all’avo compagno va il figlio di Marte, Romolo, che Ilia madre dà in luce, del sangue d’Assàraco: accanto al nonno (avo), il re Numitore, arriva Romolo, il figlio nato da Marte e Rea Silvia, una donna di sangue troiano (Ilia madre) perché discendente di Assàraco, antenato di Enea. 11. vedi tu come s’erge sull’elmo duplice cresta: guarda come sul suo elmo spicca una doppia cresta. L’elmo con due cimieri è una caratteristica di Marte e del figlio Romolo. 12. e il padre stesso dei superi lo segna già del suo onore?: e lo stesso Giove, padre degli dei (superi), lo onora come una divinità? 13. all’Olimpo avrà l’animo: sarà simile agli dei per spirito. 14. e sette rocche, unica, cingerà del suo muro: e sarà l’unica città ad inglobare nelle sue mura sette colline. 15. feconda di eroi: madre di eroi. 16. così avanza turrita la madre Berecinzia sul carro, fra i borghi di Frigia, feconda di dei: allo stesso modo in cui Cibele, la dea madre di molte divinità venerata a Berecinto (madre Berecinzia) avanza sul carro nelle città della Frigia con il capo cinto da torri. Durante le processioni, la dea Cibele veniva rappresentata con la testa coronata di torri, accompagnata da leoni o su un carro trainato da questi animali. 17. celesti tutti: tutti di origine divina. 18. Cesare è qui, e tutta la stirpe di Iulo: tra loro si trova anche Giulio Cesare e la discendenza di Iulo (gens Iulia). 19. l’Augusto Cesare, il figlio del Dio: Ottaviano Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare (figlio del Dio). 20. che aprirà di nuovo pel Lazio il secolo d’oro, nei campi regnati da Saturno una volta: che nel Lazio darà origine ad una nuova età dell’oro, analoga a quella di Saturno. 21. sui Garamanti e sugli Indi: sui popoli dell’Africa e dell’Asia. 22. fuor dello Zodiaco è la terra: il suo impero si estenderà sotto costellazioni sconosciute. 23. fuor dalle strade del sole e dell’anno: al di là dei punti raggiunti dal sole nel suo corso annuale: Anchise intende dire che l’impero di Augusto non avrà limiti. 24. celifero: che sorregge il cielo. 25. spiranti bronzi: statue di bronzo tanto fedeli da sembrare che respirino (spiranti). 26. diranno meglio le cause: saranno più abili a pronunciare orazioni. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 61 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA Enea in fuga da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio, rilievo in terracotta. 27 misureranno a sestante, il sorger degli astri sapranno: sapranno realizzare calcoli astronomici estremamente precisi. 850 misureranno a sestante, il sorger degli astri sapranno:27 tu ricorda, o Romano, di governare le genti: questa sarà l’arte tua, e dar costumanze di pace, usar clemenza a chi cede, ma sgominare i superbi». da Virgilio, Eneide, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989 APPROFONDIMENTO Enea nel mito Come tutti gli eroi del mito, Enea è figlio di un uomo, Anchise, e di una divinità, la dea Afrodite. Discendente per parte di padre dalla mitica stirpe di Dardano (e quindi dallo stesso Zeus), inizialmente viene allevato su una montagna, poi a cinque anni è affidato allo zio Alcatoo che provvede alla sua educazione. Sin da giovanissimo mostra di essere uno dei più valorosi guerrieri troiani e nel corso del decennale conflitto contro gli Achei è protagonista di numerosi combattimenti. Sul punto di essere ucciso per due volte, viene salvato dagli dei perché il Fato gli ha affidato il compito di dare continuità alla stirpe troiana in un’altra terra. Dopo la caduta di Troia, seguendo le indicazioni di Afrodite, fugge e porta con sé il padre Anchise, il figlio Ascanio, la moglie Creusa e i più importanti simboli religiosi della sua città, i Penati e il Palladio. Secondo le tradizioni raccolte da Virgilio, Ascanio (chiamato anche Iulo) è il fondatore di Albalonga da cui avrà origine la città di Roma. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 lʼeroe nellʼepica latina 62 on line STRUMENTI DI LETTURA Le parole chiave L’eroe e il Fato: nel mondo romano il termine Fato definisce la necessità immodificabile che regola ogni aspetto del reale, seguendo principi che non possono essere conosciuti o indagati per via razionale. La parola Fato deriva dal verbo fateor, “dire” e significa “ciò che è stato detto”. L’origine di quella “parola detta” è perciò il divino, quindi quanto “è stato detto” non può essere in alcun modo modificato, ma solo individuato e seguito. L’intera vicenda di Enea è fortemente condizionata dal Fato, di fronte al quale nessuna istanza personale ha peso: è il Fato che gli ha permesso di scampare alla morte durante la guerra contro gli Achei e, allo stesso tempo, che gli ha imposto prove difficili, costringendolo prima ad abbandonare la sua patria e successivamente a lasciare Didone (vedi a p. 109) per raggiungere una nuova terra. Fabula e intreccio La finalità del poema: pienamente consapevole dei propri doveri di uomo, Enea si adegua ai disegni del Fato anche se quasi sempre ciò comporta perdite, dolori e rinunce. C’è un momento però in cui la rigorosa ubbidienza dell’eroe al proprio destino diviene fonte di fierezza e orgoglio ed è quando, nell’oltretomba, Anchise gli spiega che il suo fato (v. 759) lo vuole progenitore dei futuri governanti di Roma, la città da cui nascerà il più grande impero del mondo. Si tratta di un importantissimo snodo narrativo perché, esattamente a metà del poema, Enea scopre finalmente il senso di quanto gli è accaduto fino a quel momento e viene messo in condizione di affrontare consapevolmente ciò che ancora deve verificarsi. In questo episodio diviene esplicita la finalità del poema poiché Virgilio, celebrando la missione di Roma nella storia, attribuisce a un personaggio mitico, Enea, il rango di eroe nazionale e a una figura reale, Ottaviano Augusto, il merito di aver portato a termine e realizzato un progetto le cui radici affondano in un tempo remoto e leggendario. Per Virgilio, perciò, l’epica e l’eroe epico sono funzionali al fine che si propone. Scegliendo un genere letterario che fin dal suo esordio ha il compito di tramandare storie con una funzione “modellizzante”, cioè capaci di tra- smettere un modello di comportamento, di pensiero, di aggregazione, Virgilio pro- pone al suo pubblico un termine di confronto. Enea è il Romano per eccellenza, la sua pietas è diretta a rispettare principi di valore e di culto tipicamente romani e indica così nella forma più tradizionalmente consona alla trasmissione di modelli, una precisa immagine di riferimento. I temi Enea, simbolo dei valori romani: l’eroe Enea rappresenta il modello ideale di cittadino romano poiché in lui si concentrano tutte le qualità dei mores maiorum, i costumi e le tradizioni degli antenati da cui trassero origine il primo nucleo del diritto civile e le stesse Dodici Tavole, le prime leggi scritte dei Romani. I valori di cui Enea è emblema sono il coraggio e la prestanza fisica ma anche il rispetto degli obblighi familiari e la consapevolezza dei propri doveri nei confronti della collettività. Egli, infatti, pur soffrendo per le scelte cui il Fato lo costringe, persegue tenacemente la missione cui è stato destinato perché, come ognuno dei discendenti incontrati nell’oltretomba, sente di appartenere a un ingranaggio più ampio inserito in un piano che trascende i suoi desideri di individuo. La discesa agli Inferi: il tema dell’eroe che, da vivo, visita l’altro mondo non è un’invenzione virgiliana ma ricorre in molti miti dell’antichità; già il protagonista dell’Odissea aveva incontrato nell’Ade le anime dei defunti presentatesi a lui per essere interrogate. Nel poema di Virgilio però questa situazione viene sviluppata in modo molto più ampio ed Enea, accompagnato dal padre Anchise, si imbatte nella lunga processione dei suoi discendenti, che vengono rappresentati in movimento perché per i Romani, il futuro esiste solo come prosecuzione di quanto è avvenuto in passato e già prima di nascere ciascuno è avviato ineluttabilmente ad assolvere allo specifico compito cui è stato destinato. I personaggi La processione delle anime: la scena della sfilata degli illustri discendenti di Enea – che si apre con Silvio, figlio postumo dell’eroe troiano, e si chiude con Marcello, l’amato nipote dell’imperatore Ottaviano Augusto – è strutturata allo stesso modo dei cortei che si organizzavano in occasione dei funerali dei nobili romani. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B on line volume B 63 LʼEROE DAL MITO ALLA TRAGEDIA ATTICA A Roma, infatti, le famiglie gentilizie acquisivano il diritto di conservare le riproduzioni in cera dei volti dei loro antenati (realizzate prima della sepoltura) e quando un membro della famiglia moriva, le immagini e le maschere degli antenati (imagines maiorum) venivano indossate da uomini che avevano le stesse caratteristiche fisiche dei defunti, erano abbigliati in modo da ricordare le cariche pubbliche da essi ricoperte in vita e avanzavano su carri preceduti dalle insegne distintive delle diverse magistrature. La successione delle immagini avveniva secondo precisi criteri genealogici, per cui gli antenati più antichi venivano collocati in testa al corteo mentre il feretro era situato alla fine della processione. La grandiosa rappresentazione della gloria e del prestigio passati aveva un’importante funzione educativa sulle nuove generazioni perché raffor- zava lo spirito di appartenenza familiare e induceva a emulare i comportamenti virtuosi dei predecessori. Le figure retoriche Un’articolata similitudine paragona la straordinaria potenza della città di Roma, non ancora nata ma già viva nei disegni del Fato, a quella di Cibele (vv. 783-787), la dea della fecondità di origine anatolica il cui culto era stato ufficialmente introdotto nel mondo latino agli inizi del III secolo a.C. L’elemento che accomuna i due termini di paragone è la fecondità, e in particolare la capacità di generare esseri eccezionali, poiché la dea è madre di numerosissime divinità (v. 786 feconda di dei), mentre a Roma è assegnato il glorioso compito di dare i natali a moltissimi eroi (v. 784 feconda d’eroi). Ferdinand Bol (16101680), Enea alla corte dei latini (1661-1663 ca.). V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 64 di ffi co ltà LABORATORIO Comprensione 1 A quale scopo Anchise mostra a Enea le anime dei suoi successori? 2 Quali personaggi compaiono nel lungo corteo? 3 Quale tra queste figure appare più prestigiosa? di ffi co ltà 4 Quali luoghi saranno fondati dai discendenti di Enea? Analisi Le parole chiave Vedi a p. 14 5 Con quale espressione Anchise sottolinea che le vicende di Enea sono state determinate dal Fato? Qual è, invece, la missione che il Fato ha attribuito alla civiltà romana? I temi Vedi a p. 14 6 Il discorso di Anchise sottolinea il legame che la gens Iula ha con l’antica città di Troia e con alcune divinità: individua nel testo i relativi riferimenti e trascrivili sul quaderno. Legame tra gens Iula e la città di Troia: ........................................................................................................................................ Legame tra gens Iula e gli dei: ....................................................................................................................................................................... 7 In quali ambiti, altri popoli si dimostreranno superiori ai Romani ? Imprese militari Creazioni artistiche Capacità di parlare in pubb lico Scoperte geografiche Conoscenze astronomiche Abilità nel coltivare la terra Le figure retoriche Vedi a p. 13 8 Nella parte conclusiva del brano, Anchise afferma che le conquiste territoriali di Ottaviano Augusto arriveranno “fuor dello Zodiaco … fuor dalle strade del sole e dell’anno, ove Atlante celifero regge s ull’omero l’asse prezioso di stelle splendenti”. Quale figura retorica si cela in questi versi? Produzione di ffi co ltà Laboratorio lʼeroe nellʼepica latina on line 9 Fa’ la parafrasi del brano. 10 Esponi in un testo di 15 righe al massimo le ragioni per cui quest’episodio assume una funzione esplicitamente celebrativa all’interno del poema. V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, A. NOVAJRA, F.R. SAURO, Trame e temi © SEI 2011 volume B