UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL`ESISTENZA L
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UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL`ESISTENZA L
Anno XXI (nuova serie) - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento postale 70% - DCB - Roma Gennaio-Febbraio 2015 UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA 133 L’ULTIMO LUPO di Jean-Jacques Annaud di Roy Andersson BOYHOOH di Richard Linklater IL SALE DELLA TERRA di Wim Wenders, Juliano Riberio Salgado CENERENTOLA - di Kenneth Branagh FAST AND FURIOUS di James Wang Euro 5,00 FAST AND FURIOUS - di James Wang MERAVIGLIOSO BOCCACCIO - di Paolo e Emilio Taviani SOMMARIO n. 133 Anno XXI (nuova serie) n. 133 gennaio-febbraio 2015 Annie Parker ................................................................................................ 42 Bimestrale di cultura cinematografica Biagio .......................................................................................................... 43 Edito dal Centro Studi Cinematografici Boyhood ...................................................................................................... 12 Buoni a nulla ................................................................................................ 40 00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6 tel. (06) 63.82.605 Sito Internet: www.cscinema.org E-mail: [email protected] Aut. Tribunale di Roma n. 271/93 Cattivissimo Me 2......................................................................................... 3 Cenerentola ................................................................................................ 4 Fast and Furious 7 ...................................................................................... 7 Abbonamento annuale: euro 26,00 (estero $50) Versamenti sul c.c.p. n. 26862003 intestato a Centro Studi Cinematografici Fino a qui tutto bene .................................................................................... 26 Spedizione in abb. post. (comma 20, lettera C, Legge 23 dicembre 96, N. 662 Filiale di Roma) Into the Woods ............................................................................................ 5 Si collabora solo dietro invito della redazione Maraviglioso Boccaccio ............................................................................... 10 Focus – Niente è come prima ..................................................................... 27 Frozen, il Regno di ghiaccio ........................................................................ 16 Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà ................................................ 17 Lettere di uno sconosciuto .......................................................................... 28 Metamorfosi del male (La) ........................................................................... 19 Direttore Responsabile: Flavio Vergerio Direttore Editoriale: Baldo Vallero Segreteria: Cesare Frioni Redazione: Alessandro Paesano Carlo Tagliabue Giancarlo Zappoli Hanno collaborato a questo numero: Giulia Angelucci Veronica Barteri Elena Bartoni Davide Di Giorgio Silvio Grasselli Elena Mandolini Fabrizio Moresco Giorgio Federico Mosco Flavio Vergerio Mommy ........................................................................................................ 38 Mortdecai ..................................................................................................... 35 Nessuno si salva da solo ............................................................................. 34 Noi e la Giulia –............................................................................................ 13 Non sposate le mie figlie!............................................................................. 23 Oh Boy – Un caffè a Berlino ........................................................................ 11 Ouija ............................................................................................................ 22 Pasolini ........................................................................................................ 15 Piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (Un) ................................... 2 Postino Pat – Il film ...................................................................................... 30 Ricatto (Il) .................................................................................................... 9 Romeo & Juliet ............................................................................................ 24 Sale della terra (Il) ....................................................................................... 8 Storia della Principessa splendente (La) .............................................. 32 Stampa: Tipostampa s.r.l. Via dei Tipografi, n. 6 Sangiustino (PG) Suite francese ............................................................................................. 29 Timbuktu ...................................................................................................... 41 Ultimo lupo (L’) ............................................................................................ 39 Vergine giurata ............................................................................................ 21 Water Diviner (The) ..................................................................................... 31 Whiplash ...................................................................................................... 26 Nella seguente filmografia vengono considerati tutti i film usciti a Roma e Milano, ad eccezione delle riedizioni. Le date tra parentesi si riferiscono alle “prime” nelle città considerate. Wild ............................................................................................................. 18 Tutto Festival – Torino 2014 ..................................................................... 45 Film Tutti i film della stagione UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA Svezia, Norvegia, Francia, Germania, 2014 Regia: Roy Andersson Produzione: Roy Andersson Filmproduktion, in Co-Produzioen 4½ Fiksjon As, Essential Filmproduktion, Parisienne de Production, Sveriges Television Ab, Arte France, Cinéma, Zdf/Arte Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Roy Andersson Direttore della fotografia: István Borbás, Gergely Pálos Montaggio: Alexandra Strauss S am e Jonathan sono due venditori ambulanti di articoli per le feste di carnevale, sempre gli stessi : dei denti da dracula, un’orrenda maschera in lattice e un oggetto a ricarica che emette una risata sinistra; non riescono a vendere niente a nessuno e trascinano il loro fallimento tra l’alloggio dell’assistenza sociale e altri luoghi dove incontrano personaggi di ogni genere, soffocati dalla depressione e dall’ inutilità del vivere. Quindi un alto ufficiale sempre in confusione con gli orari degli appuntamenti; dottori dediti agli esperimenti sui cervelli delle scimmie; una vogliosa, grassa e lubrica insegnante di flamenco che tenta di sedurre un allievo e poi piange il suo rifiuto in un bar; passanti in attesa dell’autobus che dissertano sui giorni della settimana senza accordarsi sulla data dell’oggi etc. Scenografia: Ulf Jonsson, Julia Tegström, Nicklas Nilsson, Sandra Parment, Isabel Sjöstrand Costumi: Julia Tegström Interpreti: Holger Andersson (Jonathan), Nils Westblom (Sam), Charlotta Larsson (Lotta Zoppa), Viktor Gyllenberg (Carlo XII), Lotti Törnros (Insegnante di flamenco), Jonas Gerholm (Colonnello solitario), Ola Stensson (Capitano/ Barbiere), Oscar Salomonsson (Ballerino), Roger Olsen Likvern (Custode) Durata: 100’ Gli ambienti sono i più svariati: centrale e irresistibile il bar dove in un rimbalzo spazio/tempo entra a cavallo Carlo XII di Svezia mentre alla testa del suo esercito (che si vede sfilare agguerrito e strombettante dalle vetrate) va alla battaglia contro i russi di Pietro il Grande; il re chiede un bicchiere d’acqua e resta colpito dalla grazia dell’efebico cameriere che convoca immediatamente con sé in prima linea. Al ritorno, il re sconfitto e ferito rientra nello stesso bar (senza il cameriere morto sul campo) a prendere ancora un bicchiere d’acqua, mentre i resti del suo esercito sfilano vinti e laceri visibili dalla stessa vetrata. A fare da leitmotiv conduttore di tutte le scene sono gli impossibili tentativi di vendita dei due scalcinati piazzisti e la frase “mi fa piacere sapere che vi va tutto 2 bene”, detta come ritornello a un interlocutore sconosciuto al telefono da quasi tutti i personaggi del film. veva ragione Beckett nel dire che niente è più comico dell’infelicità: presumibilmente intendeva che già il considerare possibile il dualismo tra infelicità e felicità esprimesse una possente vis comica nella sua stessa impossibilità di realizzazione. Effettivamente nulla sembrerebbe esistere se non come produzione del nostro cervello che si prepara l’aspettativa di qualcosa, o qualcuno in cui investire il significato della propria esistenza. Ecco allora Beckett e il suo Godot, di cui forse solo in epoca post moderna riusciamo a cogliere in pieno la forza e la tragica constatazione di verità. Questo film pare spiegare molto bene questa fatica sterile e improduttiva dell’essere umano nel costruirsi una progettualità continuamente vanificata o interrotta in un ossessivo ricominciare che riporta al punto di partenza: la costrizione in questo perverso gioco dell’oca fa tabula rasa di qualsiasi sentimento, soffoca sul nascere ogni tentativo di dare corpo a dolori e gioie, crudeltà e piaceri, rendendo possibile solo un depresso e desolato annichilimento: l’unica completezza si produce nelle frasi ripetute e sospese, nella rincorsa distruttiva di appuntamenti, date, orari, giorni che perdono completamente ogni significato. Non verrà mai nessun Godot ad aiutarci, possiamo solo crearci una realtà parallela fatta di attesa, meccanicismi ipotetici e intellettualistiche intenzioni espressi con formule che sempre più assumono l’aspetto di balbettanti fonemi inariditi e sconfitti in una spietata desolazione. A mettere in immagini questa impossibilità esistenziale il regista Roy Andersson, premiato a Venezia 2014, si avvale di A Film un’atmosfera surreale, grottesca, talvolta spinta verso un riso irrefrenabile (come si può restare impassibili di fronte alla canzoncina compulsivamente riascoltata da uno degli ambulanti giunto all’ultimo gradino della propria sconfinata e indifesa solitudine...?) o verso il non sense più allucinato dei personaggi che si pongono i loro interrogativi senza risposta, o verso l’assurdo paradossale della rivisitazione storica, emblematica della impossibilità di vincere nel presente. Straordinari tutti gli attori, a cominciare Tutti i film della stagione da Andersson e Westrom che conferiscono ai due ambulanti la plastica fissità dei loro corpaccioni strabordanti, delle loro facce infarinate di pietre mobili tormentate e tristissime che ricordano la costanza stralunata di Keaton e contemporaneamente fanno intravedere una forza intima dolorosa espressa in un grigiore angoscioso e lunare. Abituati come siamo a dialoghi concatenati in ghirigori di astrusità, ai bagliori e bombardamenti degli effetti speciali di ogni tipo, abbiamo assitito a questo film come al ritorno benefico e ossigenante dell’im- magine pura: macchina fissa e davanti attori che reinventano a ripetizione tutta la nostra confusa impossibilità del vivere, filtrato attraverso lo scoppio improvviso di una comicità indistruttibile contro ogni moda e ogni tempo. Forse avevano ragione coloro che sostenevano che il vero senso del cinema e la sua profonda ragion d’essere erano morti con l’avvento del sonoro più di ottant’anni fa’... Fabrizio Moresco CATTIVISSIMO ME 2 (Despicable Me 2) Stati Uniti, 2013 Sceneggiatura: Ken Daurio, Cinco Paul Montaggio: Gregory Perler Musiche: Pharrell Williams, Heitor Pereira Scenografia: Yarrow Cheney, Eric Guillon Effetti: David Liebard Durata: 98’ Regia: Chris Renaud, Pierre Coffin Produzione: Illumination Entertainment Distribuzione: Universal Pictures International Prima: (Roma 10-10-2013; Milano 10-10-2013) Soggetto: dai personaggi ideati da Sergio Pablos G ru è un ex cattivo. Continua a collaborare con i suoi piccoli, gialli e vivacissimi assistenti, i Minion ma ha cambiato del tutto la sua attività: ora nella sua cantina produce la “Marmellosa”: una marmellata che contiene il gusto di tutti i frutti immaginabili dal sapore schifoso. In questo nuovo lavoro di produzione si avvale del preziosissimo aiuto del prof. Nefario. Gru vive insieme a tre dolcissime bambine, le sue figlie adottive, di nome Margo, Edith e la piccola Agnes. La Lega Anti Cattivi (L.A.C., nel film A.V.L.), un’organizzazione che si occupa di crimini mondiali, sta lavorando alla misteriosa scomparsa di un laboratorio Top Secret nel Circolo Polare Artico. Qui si sperimentava il “PX41”, un potente liquido viola capace di trasformare ogni essere vivente in una inarrestabile bestia viola. Un giorno, Gru riceve la visita di Lucy Wilde, una agente della Lega Anti Cattivi, inviata per poterlo ingaggiare. In un primo momento Gru, arrivato al Quartier Generale, rifiuta l’offerta per via dei suoi impegni familiari; una volta tornato a casa però scopre che il prof. Nefario si vuole licenziare per tornare a fare il cattivo. Così decide di accettare l’incarico e insieme a Lucy di svolgere le loro indagini all’interno di un centro commerciale fingendo di avere un negozio di muffin; Gru comincia a sospettare di Eduardo, proprietario di un ristorante: egli infatti pensa che questo somigli moltissimo al leggenda- rio criminale di nome El Macho. La notte stessa le due spie entrano furtivamente nel negozio del sospettato ma non trovano alcuna traccia, escludendo così l’ipotesi di Gru mentre iniziano a sparire misteriosamente i suoi amici minion. Il capo della Lega Anti Cattivi arresta il proprietario di un negozio di parrucche, ritenendosi deluso dal lavoro prestato da Gru e Lucy. Intanto tra loro nasce del tenero. Mentre Gru torna alla sua attività, Lucy viene spedita in una filiale in Australia. Un giorno, durante una passeggiata all’interno del centro commerciale, Margo ha un colpo di fulmine con Antonio, figlio del proprietario del ristorante messicano. Tutta la famiglia è invitata a una loro festa durante la quale Gru scopre che i suoi sospetti erano confermati. Egli trova il laboratorio di El Macho e incontra il Dr. Nefario al suo servizio. Era Eduardo il cattivo dall’identità segreta che andavano cercando insieme a Lucy. Questa, intanto, tornata indietro dall’Australia, arriva al party e viene rapita da Eduardo. I due protagonisti riescono a sconfiggere il cattivo che voleva trasformare tutti i mignon in terribili creature viola indistruttibili. Il prof Nefario, torna a essere della vecchia squadra e fa usare l’Antidoto PX41 sui minion contaminati. Alla fine Gru e Lucy si sposano. n cartone che non sfonda. Un sequel che non raggiunge i livelli del primo episodio. Cattivissimo me 2, targato dagli stessi registi del primo, U 3 Pierre Coffin e da Chris Renaud, pecca di originalità. La trama ha pochi colpi di scena; il cattivo Gru diventa troppo prevedibilmente buono già dall’inizio del film. Il dissidio interiore del primo episodio, sulla sua natura e che ci induceva a riflettere su quella di ciascuno di noi, viene completamente a mancare. Molto carino il personaggio della spia Lucy Wilde. Il doppiaggio italiano è ricco ed efficace con le voci di Arisa ma, soprattutto, di Max Giusti e di Neri Marcorè. Cattivissimo me 2, prodotto della Illumination Entertainment (Universal con studi in Francia), cerca di differenziarsi dai circuiti hollywoodiani. La struttura dello spy movie resiste, si confonde con troppi altri generi e per questo non convince del tutto. Non mancano citazioni a James Bond e Terrore dallo spazio profondo. Elemento positivo è la rappresentazione molto originale di famiglia con un uomo (ex cattivo) che adotta tre splendide bambine. La colonna sonora è di Heitor Peerira, infarcita di canzoni di Pharrel Williams. La sceneggiatura invece, scritta da Cinco Paul e Ken Daurio, risulta sfilacciata forse anche per un forzato tentativo di dare spazio a questi simpaticissimi pupazzetti. I minion infatti, come anche nel primo episodio, continuano ad avere un ruolo centrale nella storia; questo spiega il motivo dell’arrivo del nuovo film che vede solo i piccoli pupazzetti gialli come protagonisti. Giulia Angelucci Film Tutti i film della stagione CENERENTOLA (Cinderella) Stati Uniti, 2015 Regia: Kenneth Branagh Produzione: Walt Disney Productions Distribuzione: The Walt Disney Company Prima: (Roma 12-3-2015; Milano 12-3-2015) Soggetto: dalla omonima fiaba Sceneggiatura: Chris Weitz Direttore della fotografia: Haris Zambarloukos Montaggio: Martin Walsh Musiche: Patrick Doyle Scenografia: Dante Ferretti Costumi: Sandy Powell Effetti: Clear Angle Studios, The Visual Effects Company, The Moving Picture Company, Proof Interpreti: Lily James (Ella / Cenerentola), Richard Madden E lla è una bambina splendida e con i suoi genitori vive in una bellissima casa in campagna. Fin da piccola è molto gentile e buona persino con gli animali della sua fattoria con i quali spesso dialoga. Nella sua felice e serena famiglia viene educata al rispetto e alla cura per l’altro. La mamma le insegna infatti che, come le fate madrine proteggono gli esseri umani, così a loro volta loro si prendono cura degli animali. Sfortunatamente, un giorno, la madre di Ella si ammala gravemente e, prima di morire, le ricorda che nella vita la cosa più importante è l’essere gentile e l’avere coraggio. Il dolore da superare è enorme anche per il papà innamoratissimo della moglie; ma insieme, facendosi forza, padre e figlia trascorro- (Principe), Cate Blanchett (Matrigna), Helena Bonham Carter (Fata Madrina), Holliday Grainger (Anastasia), Sophie McShera (Genoveffa), Hayley Atwell (Madre di Ella), Ben Chaplin (Padre di Ella), Stellan Skarsgård (Granduca), Nonso Anozie (Capitano), Derek Jacobi (Re), Leila Wong (Principessa Mei Mei), Eloise Webb (Ella bambina), Laurie Calvert (Cassius, capo delle guardie), Elina Alminas (Principessa Valentina), Ann Hoang (Principessa Hina), Gretel Elianova (Prudence), Finesse Fonseka (Principessa Supriya dell’India), Monique Geraghty (Principessa Sasia d’Arabia), Craig Mather (Principe Retinue), Drew SheridanWheeler (Nicolas Golding), Joshua Mcguire (Ufficiale di Palazzo) Durata: 105’ no gli anni successivi. Un giorno, l’uomo confida a sua figlia di voler cambiar vita e di volersi risposare con Lady Tremaine, rimasta vedova di un ricco commerciante. Con l’arrivo di Lady Tremaine e delle sue due figlie, la casa di Ella diviene sede di mondanità, mentre il padre viaggia spesso per lavoro. Un giorno, l’uomo è costretto per affari a lasciare la figlia in compagnia della matrigna e delle sorellastre. Ma non c’è giorno che l’amato genitore non le scriva. La bontà e la pazienza di Ella fanno sì che diventi una vera e propria vittima delle altre tre donne: una volta trasformata nella loro serva e rintanata in soffitta, Ella diventa per loro Cenerentola (nomignolo dispregiativo con il quale viene ribattezzata) ma, nonostante questo, la 4 fanciulla non nutre verso loro alcun rancore. Un giorno però giunge la notizia della morte del padre e la ragazza si sente ormai sola a dover affrontare il male che quotidianamente regna in casa sua. Alla notizia della perdita del padre, la matrigna e le sorellastre senza talento sono preoccupate esclusivamente del loro destino economico e cominciano a cacciare via l’intera servitù. Così tutto ciò che vi è da fare in casa è esclusivamente per Cenerentola. Durante una delle sue passeggiate a cavallo nel bosco, Ella incontra un affascinante giovane. Questo si presenta come Kit e dice di essere un apprendista alla corte reale. In realtà, altri non è che il principe in persona che nasconde alla fanciulla la sua vera identità. È amore a prima, vista ma Ella non fa in tempo a presentarsi a Kit; deve fuggire a casa. Intanto si avvicina per il principe il momento di prendere in moglie una principessa secondo il volere del re suo padre, ormai gravemente ammalato. Così, dopo l’incontro con la ragazza dei sui sogni, il principe suggerisce al padre di invitare tutte le donne del regno, non solo nobili ma anche plebee. Naturalmente per la matrigna e le sue figlie l’occasione che si presenta è davvero succosa: chiedono quindi a Cenerentola di far preparare alla sarta per loro tre abiti per l’occasione. Ma non per Cenerentola. Senza perdersi d’animo Ella decide di fare da sé e con l’aiuto dei suoi amici topolini Gas Gas e Jacqueline si prepara anche lei ad andare al ballo. La matrigna, Anastasia e Genoveffa splendono nei loro abiti ma non vogliono che anche la bellissima Ella partecipi. Così le strappano il vestito e corrono al Film ballo. Ella, in lacrime per il vestito della madre ormai rotto e per l’ennesima cattiveria subita, è disperata perché non potrà vedere il suo amico Kit. All’improvviso appare una vecchiettina nel suo giardino che le chiede qualcosa da mettere sotto i denti. Ella con la sua gentilezza l’accontenta, ma non sa che di lì a poco quell’anziana signora si presenterà come sua fata madrina. Questa trasformando la zucca in carrozza e le lucertole, l’oca e i topini in umani per guidarla fa sì che Ella sia pronta per andare al ballo. Dà una nuova forma anche al suo vestito e alle sue scarpette, rammentandole che l’incantesimo finirà a mezzanotte. Cenerentola arriva al ballo senza presentazioni, il principe la riconosce tra molte e anche lei si ricorda del suo amico Kit. Così il principe la invita a ballare con lui e trascorrono tutta la serata insieme in un giardino segreto. Ai primi rintocchi della mezzanotte Ella fugge via dal palazzo dimenticando una scarpetta di cristallo lungo le scale. Giunta a casa nasconde l’altra scarpetta in una botola in soffitta che di lì a poco viene scovata dalla matrigna che vuole sapere tutta la verità dopo averle raccontato la sua storia di sofferenza passata; così la ricatta, le dice di volere in cambio della scarpetta il posto da regnante, ma Ella non accetta. Così Lady Tremaine decide di chiuderla in soffitta e va dal Granduca ricattando anche lui: mentendo confida al duca che la sua serva ha rubato la scarpa da qual- Tutti i film della stagione che principessa e in cambio di questa informazione chiede di diventare contessa e di sistemare con dei conti entrambe le sue figlie. Morto il re, il principe fa sapere al suo popolo che intende sposare la misteriosa principessa della scarpetta di cristallo. Così comincia la sua ricerca in tutto il regno. Giunti alla casa di Ella, la matrigna fa fare inutilmente la prova scarpetta alle sue due figlie tenendo nascosta Cenerentola. Il Granduca e il capitano stanno per lasciare la casa quando quest’ultimo ode una voce soave provenire dalla casa: infatti i topolini avevano nel frattempo aperto la finestra della soffitta per aiutare la loro amica. Così Cenerentola svela la sua vera identità al principe che la accetta per quel che è. La scarpetta le calza a pennello e così i due si sposano e vivono felici e contenti. ilderoy Lockhart sarebbe stato fiero di questa versione contemporanea di Cenerentola. Kenneth Branagh, famoso per tanti ruoli diversi impersonati in vari film (tra i quali in Harry Potter appunto), si mette nuovamente dietro la macchina da presa (dopo i tanti riadattamenti shakespeariani) per rielaborare in veste cinematografica il famoso capolavoro della Walt Disney del 1950. Cenerentola con la complicità dello sceneggiatore Chris Weitz e la fotografia di Haris Zambarloukos si rivela un live action dagli interessanti risvolti psicologi- G ci. La bontà e la gentilezza di Ella sono disarmanti (ogni cosa che accade non le fa perdere mai la speranza e la gentilezza d’animo); un altro aspetto interessante è l’attaccamento di Ella al luogo in cui è nata e cresciuta, che le danno la forza di rimanere lì. Il rapporto tra il re e suo figlio è molto realistico e matura durante il corso del film; anche il personaggio di Lady Tremaine, genialmente interpretato da una strepitosa Cate Blanchett, fa riscoprire una crudeltà non fine a se stessa, ma cicatrice di un doloroso passato. Le stesse parole di Ella lo sottolineano: “Anche la matrigna aveva conosciuto la sofferenza, ma la mostrava con grande eleganza”. Sempre riguardo al suo personaggio, magistrale la sequenza della soffitta dove la matrigna si confida e parla della sua storia alla figlia acquisita. Cenerentola, prima di uscire fuori dalla sua casa per mano al principe (interpretato da Richard Madden della serie tv di culto Il trono di spade) , si volta e dice alla matrigna, dopo aver ricevuto tanto male, di perdonarla. Anche questo elemento è da sottolineare rispetto a tanti altri film dove spesso il personaggio buono è anche passivo. Deliziosa la fata madrina interpretata da Helena Bonham Carter. I costumi di Sandy Powell e le scenografie di Dante Ferretti impreziosiscono la pellicola e tutte le trasformazioni precedenti la scena del ballo sono realizzate magnificamente. Giulia Angelucci INTO THE WOODS (Into the Woods) Stati Uniti, 2014 Effetti: Matt Johnson Interpreti: Meryl Streep (Strega), Emily Blunt (Moglie del Fornaio), James Corden (Fornaio), Anna Kendrick (Cenerentola), Chris Pine (Principe di Cenerentola), Johnny Depp (Il Lupo), Tracey Ullman (Madre di Jack), Christine Baranski (Matrigna di Cenerentola), Lilla Crawford (Cappuccetto Rosso), Daniel Huttlestone (Jack), Mackenzie Mauzy (Rapunzel), Billy Magnussen (Principe di Rapunzel), Tammy Blanchard (Florinda), Lucy Punch (Lucinda), Frances de la Tour (Gigantessa), Simon Russell Beale (Padre del Fornaio), Richard Glover (Fattore), Joanna Riding (Madre di Cenerentola), Annette Crosbie (Nonna) Durata: 125’ Regia: Rob Marshall Produzione: Rob Marshall, John Deluca, Marc Platt, Callum McDougall per Lucamar Productions, Walt Disney Pictures Distribuzione: The Walt Disney Company Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015) Soggetto: dal musical omonimo di James Lapine e Stephen Sondheim Sceneggiatura: James Lapine Direttore della fotografia: Dion Beebe Montaggio: Wyatt Smith Musiche: Stephen Sondheim Scenografia: Dennis Gassner Costumi: Colleen Atwood I n un piccolo villaggio, un fornaio e sua moglie vivono felici e per esserlo ancora di più vorrebbero avere un bambino. Ma non sanno che sulla loro casa è stato gettato un terribile sortilegio da una strega a cui il padre del fornaio aveva sottratto dei fagioli magici. Questo gesto aveva por- 5 tato la strega a perdere la sua bellezza e a costringerla a rapire la figlia del padre del fornaio (Raperonzolo). Fortunatamente però l’incantesimo può essere Film sciolto: la strega chiede di avere entro tre mezzanotti una mucca bianco latte, un mantello rosso sangue, dei capelli color granturco e una scarpetta dorata. Solo così Baker e sua moglie potranno avere un figlio. Intanto nella piena povertà il giovane Jack non riesce più a mungere la sua mucca e viene mandato dalla madre al mercato a venderla a non meno di cinque sterline; una bambina dal mantello rosso viene a chiedere del pane al fornaio per sua nonna. Altri non è che Cappuccetto Rosso. Questa, durante il suo tragitto nel bosco, incontra il lupo che la divorerà al suo arrivo a casa dopo aver mangiato la nonna. La principessa dai capelli lunghissimi, Raperonzolo, è rinchiusa in una torre e un giorno si accorge della sua presenza un principe che ogni notte la va a trovare. La strega, sua madre adottiva, per paura di non proteggerla abbastanza le taglia i capelli che le consentono di avere contatti con il mondo esterno e per gelosia fa perdere la vista al principe. Nel frattempo, Cenerentola, orfana di madre, viene maltrattata dalla matrigna e dalle sorellastre e sogna di andare al ballo del principe. Per tre notti di fila, riesce a partecipare al ballo concludendo sempre la serata con la fuga. Il fornaio, insieme all’aiuto della moglie e dopo tanta fatica, riesce ad avere i tre oggetti e a consegnarli in tempo alla strega che riacquista la sua vecchia beltà. Tutto sembra andare per il verso giusto in occasione del matrimonio di Cenerentola. Raperonzolo ha trovato il suo amore, Jack e la madre si sono arricchiti (il ragazzo dopo aver rubato gli oggetti presi nel regno del gigante raggiunto con il fagiolo magico, aveva ucciso il gigante) e Cappuccetto Rosso è stata liberata insieme alla nonna dalla pancia del lupo grazie al fornaio quando il regno viene minacciato dalla gigantessa, furiosa di aver perso il proprio marito e in cerca di Jack per avere vendetta. Il villaggio viene distrutto e, mano a mano, muoiono la mamma di Jack, la nonna di Cappuccetto Rosso e la moglie del fornaio. Cenerentola abbandona il proprio principe dopo aver scoperto il suo tradimento con la moglie del fornaio. Così i superstiti Baker, Cappuccetto Rosso, Jack e Cenerentola, uniti insieme nel dolore, riescono a sconfiggere la gigantessa e costruire dal nulla una nuova famiglia e un nuovo futuro. Tutti i film della stagione olo attraversando i propri boschi si può raggiungere il cambiamento. Questo potrebbe riassumere un po’ l’idea alla base del nuovo film musicato della Disney. La pellicola, targata Rob Marshall, racchiude in sé cinque grandi favole classiche (fiabe popolari di Perrault e dei Grimm) riadattate in chiave moderna nei sontuosi costumi di Colleen Atwood (premi vinti con Nine, Chicago e Memorie di una geisha, tutti firmati da Marshall). Il cast stellare vanta nomi come Meryl Streep, Johnny Depp, Emily Blunt, Chris Pine, James Corden, Anna Kendrick e Frances de la Tour (nella parte della gigantessa) che ricordiamo in Harry Potter e il calice di fuoco e in Harry Potter e i doni della morte parte I. “I sogni son desideri di felicità”, ma il monito di questa nuova storia raccontata dal bardo disneyano è che bisogna stare attenti a quello che si desidera e a quanto lo si desidera. L’idea alla base di Into the woods risale però a James Lapine e Stephen Sondheim che nel 1987 scrissero e misero in note questo musical che racchiude quattro favole celebri (Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Raperonzolo, Jack e la pianta di fagioli). Qua e là si trova qualche rima baciata fuori posto e poco utile e forse solo gli amanti del musical potranno apprezzare a pieno quest’opera. Sicuramente si tratta di un film molto cantato ma, soprattutto, viene da chiedersi: è un film per grandi e piccini? Anche se alcuni critici lo appuntano come puro esercizio di stile è proprio questa dimensione metacinematografica a fare della pellicola un’opera dal contrappunto originalissimo. Forse, sfortunata la scelta di uscire quasi con contemporanea con la Cenerentola brannaghiana; il pubblico si troverà diviso tra le differenti modalità di intendere la favola ai giorni nostri. Into the woods è una commedia musicale dai toni ironici, a partire dalla principessa Cenerentola, figlia dell’indecisione e dell’insicurezza del nuovo secolo, fino ad arrivare ai due principi che per cantare come due galletti vanitosi finiscono per far ridere di gusto il pubblico. Quegli stessi prìncipi che un tempo facevano sognare fanciulle e madri sono gli stessi che possono avere anche una sbandata per un’umile fornaia. Anche qui, come già detto per Maleficent e per Frozen, si continua a ribadire il cambio di rotta della Disney nel mostrare altri tipi di S 6 amore puro rispetto ai vecchi e tradizionali “…e vissero felici e contenti”. Anche qui troviamo una madre adottiva (una strega interpretata da una formidabile Meryl Streep) che, per proteggere la sua adorata figlia, la rinchiude in una torre nascosta nel bosco. La figlia in questione altri non è che Rapunzel; ed allora come è possibile che non riaffiori alla nostra mente quella strega malefica di Angelina Jolie e il suo amore per Aurora? Sempre di amore si parla a proposito del fornaio e di sua moglie: solo affrontando il bosco e le prove che la strega ha imposto loro, i due intensificano la loro unione. Inoltre, in tempi di crisi, è caduta, è il caso di dirlo a fagiolo, la scelta di Giacomino e del fagiolo magico che fa di tutto per togliere da una condizione di povertà estrema la madre. È passata ormai quell’era in cui le favole narravano di personaggi idealizzati a cui tendere. Oramai le fiabe dei nostri giorni rappresentano e incarnano fino all’essenza del loro essere la natura e gli umori dei nostri tempi. Ma il messaggio di Into the woods è molto profondo ed è racchiuso proprio a conclusione della storia: i desideri sono come i figli, implicano delle responsabilità. Quei vorrei (wish) a inizio film fanno sì che un po’ tutti i personaggi, come Cappuccetto Rosso, cambino il loro percorso una volta all’interno del bosco. Il bosco e i suoi incontri quali metafora della vita. Un bosco che viene considerato più rifugio che minaccia. Questo solo in apparenza. Perché quando si attraversa un bosco non si esce mai come si è entrati. Il film sembra infatti concludersi quando Cenerentola sposa il suo principe. Ma tutti i desideri esauditi sono stati pagati a caro prezzo da tutti i personaggi e per questo, da lì in poi, la storia prende tutta un’altra piega. La prima parte più ottimista e positiva del film si contrappone nettamente alla seconda. Geniale la scena in cui ognuno incolpa l’altro per l’arrivo della gigantessa distruttrice; l’apice si raggiunge con la strega, che rappresenta tutti quegli individui che si sentono in minoranza a provare consapevolezza della propria perfidia e della propria ipocrisia. La sua sparizione è una aperta denuncia al nostro mondo in cui tutti vivono tra menzogne e agognati desideri mossi dall’egoismo. Senza incantesimi e boschi che tengano. Giulia Angelucci Film Tutti i film della stagione FAST & FURIOUS 7 (Furious 7) Stati Uniti, 2015 Interpreti: Vin Diesel (Dominic ‹Dom› Toretto), Paul Walker (Brian O›Conner), Dwayne Johnson (Agente Luke Hobbs), Michelle Rodriguez (Letty Ortiz), Tyrese Gibson (Roman Pearce), Chris ‹Ludacris› Bridges (Tej Parker), Jordana Brewster (Mia Toretto), Djimon Hounsou (Mosi Jakande), Tony Jaa (Kiet), Ronda Rousey (Kara), Nathalie Emmanuel (Ramsey), Kurt Russell (Sig. Nessuno), Jason Statham (Deckard Shaw), Elsa Pataky (Elena Neves), Lucas Black (Sean Boswell), Sung Kang (Han), Luke Evans (Owen Shaw), Romeo Santos (Mando), John Brotherton (Sheppard) Durata: 140’ Regia: James Wan Produzione: Neal H. Moritz, Vin Diesel, Michael Fottrellper Original Film, One Race Films Distribuzione: Universal Pictures International Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015) Soggetto: dai personaggi ideati da Gary Scott Thompson Sceneggiatura: Chris Morgan Direttore della fotografia: Stephen F. Windon Montaggio: Christian Wagner Musiche: Brian Tyler Scenografia: Bill Brzeski Costumi: Sanja Milkovic Hays D ominic Toretto, Brian e gli altri sembrano essere tornati a vivere nella normalità dopo aver sconfitto Owen Shaw. Un giorno, tuttavia, il fratello del criminale, Deckhard Shaw, ex membro dei servizi segreti britannici, ferisce gravemente l’agente Luke Hobbs e giura vendetta contro il team di Toretto. Tempo dopo, Dominic riceve un pacco postale da Tokyo, che esplode improvvisamente e che mette a rischio la vita dell’intera famiglia. Dominic scopre che il mittente del pacco è Deckhard Shaw e si mette sulle sue tracce. A questo punto fa la conoscenza di Frank Petty, uomo oscuro che lavora per i servizi segreti statunitensi, che gli propone di collaborare per neutralizzare Deckhard. Petty e i suoi uomini hanno sviluppato un software chiamato “L’Occhio di Dio” con cui sono in grado di sorvegliare il mondo intero e risalire a qualunque criminale. Il software tuttavia è stato rubato da un hacker chiamato Ramsey. Dom, Brian e gli altri si recano sulle montagne del Caucaso per scovare Ramsey e appropriarsi dell’“Occhio di Dio”. Dopo una folle corsa, i ragazzi trovano Ramsey, che confessa d’aver nascosto il software ad Abu Dabi. Il team si sposta quindi negli Emirati Arabi, e dopo una missione non priva di complicazioni, riescono finalmente a ottenere il programma. Sul più bello tuttavia irrompe Deckhard Shaw, che, dopo uno scontro all’ultimo sangue, fugge con “L’Occhio di Dio”. Brian, Dom e il resto della squadra tornano a Los Angeles attendendo l’arrivo del criminale pronto a vendicarsi. Shaw, accompagnato dal terrorista Jackande, non si fa attendere e colpisce la squadra utilizzando il software e un drone armato di missili. Dom e Shaw si ritrovano, una volta ancora, in un tremendo testa a testa, mentre Brian lotta disperatamente contro Jackande e il resto della squadra tenta di manomettere il programma. Dopo numerosi pugni, inseguimenti ed esplosioni, i ragazzi riescono ad avere la meglio, anche grazie all’inaspettato arrivo dell’agente Hobbs, tornato in forma dopo il tempo trascorso in ospedale. Jackande viene ucciso e Shaw arrestato. La famiglia può tornare a vivere in pace, Brian si dedica finalmente alla moglie, nuovamente incinta, e a suo figlio. Nel commovente finale, Brian e Dominic si mettono in macchina per un’ultima corsa insieme. l settimo capitolo dell’ormai serie cult Fast and Furious non poteva non essere che il racconto struggente e malinconico di un addio. L’improvvisa morte del protagonista della serie, Paul Walker, avvenuta il 30 novembre 2013, a I 7 poco più di un mese dall’inizio delle riprese, ha infatti inevitabilmente influenzato in maniera decisiva la produzione del film di James Wan. Dopo l’incidente che causò la morte dell’attore, la Universal, casa produttrice della pellicola, decise di interrompere le riprese, che sarebbero poi ricominciate soltanto nell’aprile del nuovo anno e con il consenso di attori e regista, intenti a onorare l’impegno preso e a ricordare l’amico scomparso. Il personaggio di Walker, che aveva girato soltanto poche scene del film, è stato montato in post-produzione grazie alla decisione dei due fratelli, Cody e Caleb, di prestare visi e corpi alla causa. Nell’insieme dunque, aldilà del marketing, è impossibile non percepire la pellicola come un grande, lungo in memoriam, che mette inevitabilmente in secondo piano la già fragile trama. Rispetto al capitolo precedente, e in generale all’apprezzabile evoluzione dei Fast and Furious, passati da film “sulle corse” a veri e propri action- Film movies, questo capitolo sembra fare, quasi appositamente, un passo indietro, mescolando in maniera ostentata ed esagerata, i caratteri dominanti dei primi capitoli: macchine veloci, muscoli, belle donne. Lo script si rivela scricchiolante, lo schema della storia banale e prevedibile, nonostante un cattivo – Jason Statham – credibile tanto quanto i suoi antagonisti (Vin Diesel su tutti). Nei voli da palazzo a palazzo, nelle cadute libere, nei primi piani sulle curve delle ragazze prorompenti – insomma, nelle sue esagerazioni- la pellicola riesce anche ad avere un suo umorismo, un’onesta coscienza di aver Tutti i film della stagione colto a piene mani dall’eterna cultura del “big entertainment “ in salsa stelle e strisce, una volontà di intrattenere e divertire, anche, o forse proprio per via dell’atteso finale malinconico. È invero impossibile per lo spettatore non cancellare da ogni dialogo, da ogni duello, da ogni ripresa, il pensiero dell’addio a Paul Walker. E questo arriva. Arriva però in maniera inaspettata, mescolando, come non poteva essere altrimenti, realtà e finzione, cinema e vita, Paul e Brian e sopperendo in un colpo solo a tutte le evidenti mancanze della pellicola. Il commovente montaggio finale infatti si pone a suggello di un percorso, non soltanto cinematografico, ma esistenziale. Per gli amici di Walker, per la famiglia, per i colleghi, per il pubblico. Come ripete la canzone durante i frammenti degli episodi passati e come ripete Dominic (o Vin Diesel stesso, amico di Walker anche nella vita vera) fuori campo tuttavia, non si tratta di un addio, ma soltanto di un arrivederci. Le strade si dividono, il sole splende alto, le due macchine continuano a correre, una nel presente, una verso il cielo, ma sempre un quarto di miglio alla volta. Giorgio Federico Mosco IL SALE DELLA TERRA (Le sel de la terre) Francia, Italia, Brasile, 2014 Regia: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado Produzione: Amazonas Images, Decia Films, Solares Fondazione delle Arti Distribuzione: Officine Ubu Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Juliano Ribeiro Salgado, Wim N ato in Brasile, dopo una formazione universitaria come economista, Sebastião Salgado decide, in seguito a una missione in Africa, di diventare fotografo. Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Le sue foto, inizialmente filtrate dall’eredità culturale sudamericana, attirano l’attenzione su tematiche scottanti, come i diritti dei lavoratori, la povertà e gli effetti distruttivi dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo. Una tra le sue raccolte più famose è ambientata nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, e documenta un abuso dei diritti umani senza precedenti. Migliaia di persone sono ritratte mentre si arrampicano fuori da un’enorme cava su primitive scale a pioli, costretti a caricare sacchi di fango che potrebbero contenere tracce d’oro. Entra a far parte di varie agenzie, documenta guerre, rivoluzioni e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico. Anni dopo, insieme a Leila, sua moglie, dà vita ad Amazonas Images, una struttura autonoma completamente dedicata al suo lavoro. Salgado si occupa soprattutto di reportage di impianto umanitario e sociale, consacrando mesi, se non addirittura Wenders, David Rosier Direttore della fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Myers Musiche: Laurent Petitgand Durata: 110’ anni, a sviluppare e approfondire tematiche di ampio respiro. Inizia con l’America Latina per documentarsi sulla vita delle campagne e dei suoi abitanti, alla drammatica situazione della carestia in Africa. Si spinge fino in Siberia, per ammirare la natura, per poi tornare negli scenari della ex Jugoslavia. Nel corso della sua quarantennale opera, viaggia in tutto il mondo, testimoniando la miseria, la povertà e la crudeltà dell’uomo in paesi come Somalia, Ruanda, Etiopia e Jugoslavia. Dal 1993 al 1999 il fotografo lavora sul tema delle migrazioni umane. I suoi reportage sono pubblicati da molte riviste internazionali. Ha due figli, Juliano, che vediamo nel documentario a fianco al padre e un bambino affetto dalla sindrome di down. L’ultimo suo lavoro, Genesi, ha come scopo quello di presentare gli habitat e le comunità umane ancora intatte. Nel 2013 Salgado ha dato il suo sostegno alla campagna di Survival International per salvare gli Awá del Brasile, una tra le tribù minacciate nel mondo. Il documentario mostra anche lo straordinario lavoro fatto dal brasiliano e da sua moglie nel ripristinare una parte della foresta atlantica del Brasile e nella fondazione dell’“Instituto Terra”: un’organizzazione che ha come obiettivi la riforestazione, la conservazione e l’istruzione. 8 limentato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l’itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell’artista, il film, premiato nel Certain Regard a Cannes e proiettato al Festival Internazionale del Film di Roma, è un’esperienza estetica esemplare e potente, una testimonianza sullo splendore del mondo e sulle responsabilità dell’essere umano. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro intimo, simile quasi ad una preghiera. Un momento di riconciliazione con Dio. Quella di Salgado è infatti un’epopea fotografica, un sogno che si trasforma in realtà, il mondo intero che si esprime attraverso un obiettivo fotografico. Viaggiatore irriducibile, l’uomo ha esplorato ventisei paesi e concentrato le sue esperienze e il suo vissuto in immagini in bianco e nero di una semplicità sublime e di una veridicità brutale. Sembra che da un momento all’altro possano prendere vita. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l’artista si racconta attraverso i suoi reportage che hanno esaltato la A Film bellezza del pianeta, ma anche gli orrori di cui è colpevole la razza umana. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado racconta l’avidità di milioni di ricercatori d’oro brasiliani, sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, denuncia i genocidi dei Tutsi in Ruanda, rimane affascinato dai pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente e dalle zanne dei leoni marini. Un viaggio epico che testimonia l’uomo e la natura, la sua maniera di creare e distruggere, le storie di sopraffazione scritte dall’economia, l’effetto delle nostre azioni sulla natura. Un lavoro scritto attraverso la luce, le espressioni e gli sguardi dei soggetti. Wenders, straordinario “ritrattista” converte in cinema le immagini fisse, scorre le visioni in una scala di grigi e nei chiaroscuri, impressionato da un uomo che ha il coraggio di raccontare, attraverso la sua macchina, il significato dell’esistenza e i segreti più intimi e profondi del mondo e della società. Spogliate da ogni tipo di distrazione, compreso il colore, le sue fotografie attestano la conoscenza precisa dei luoghi e i rapporti che l’artista intrattiene con qualsiasi cosa entri a far parte del suo lavoro: uomini, animali, natura ripresi nella loro naturalezza e non “in posa”. Foto che emozionano, provocano e fanno riflettere, arrivando dentro alle cose, perché nascono dall’osservazione, dalla testimonianza umana. Il regista tedesco cerca di dare una forma all’idea di cui gli scatti sono portatori. Fotogrammi che penetrano nelle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Con- Tutti i film della stagione go, dell’Indonesia e della Nuova Guinea, attraversano i ghiacciai dell’Antartide e i deserti dell’Africa, scalano le montagne dell’America, del Cile e della Siberia. Forse è anche riduttivo chiamarle solo fotografie, poiché sono in grado di raffigurare pensieri e riflessioni, quasi fossero pagine di un romanzo. Un modo diverso e poetico di narrare. Grazie anche al supporto, fondamentale, della voce narrante del fotografo stesso, ci si commuove ed emoziona fino alle lacrime, si prova vergogna assistendo a quello che i nostri simili sono stati capaci di fare al mondo e agli esseri umani. E ancora si resta a bocca aperta davanti alla maestosità di certi paesaggi e si finisce con il coraggio di nutrire ancora una speranza. Come è successo a Sebastiano e sua moglie, che sono stati capaci di ridare la vita a un terreno arido e di farvi crescere una foresta. Nel film, Wenders e Juliano Salgado trasformano le immagini fisse in lunghi e lenti piani sequenza, accompagnati da un sottofondo sonoro che dilata i tempi cinematografici. La lunga intervista riprende in primo piano il volto segnato dall’età del fotografo, valorizzando l’umanità del suo sguardo. Come una sorta di auto-rappresentazione, in cui il fotografo è contemporaneamente dietro e davanti all’obiettivo. Un’opera imponente che non deve essere spiegata, ma solo ammirata; un inno alla natura che ci permette di non perdere la fede nella nostra specie. Veronica Barteri IL RICATTO (Gran Piano) Spagna, 2013 Scenografia: Javier Alvariño Costumi: Patricia Monné Effetti: Javier Jal, Álex Villagrasa Interpreti: Elijah Wood (Tom Selznik), John Cusack (Clem), Kerry Bishé (Emma Selznick), Tamsin Egerton (Ashley), Allen Leech (Wayne), Don McManus (Reisinger), Dee Wallace-Stone (Marjorie Green), Alex Winter (Assistente) Durata: 90’ Regia: Eugenio Mira Produzione: Nostromo Pictures, in associazione con Antenna 3 Films Distribuzione: M2 Pictures Prima: (Roma 20-3-2014; Milano 20-3-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Daniel Chazelle Direttore della fotografia: Unax Mendia Montaggio: José Luis Romeu Musiche: Victor Reyes T om Selznik, pianista di fama mondiale, torna a calcare il palcoscenico dopo cinque anni di assenza. Sua moglie, cantante nota anche lei a livello internazionale, lo convince ad esibirsi di nuovo. Il musicista infatti era rimasto scioccato e aveva interrotto la sua carriera dopo gli errori commessi nell’esecuzione di La cinquette, un pezzo scritto dal suo maestro Patrick. Una volta iniziata l’esecuzione, Tom, oltre alla rinnovata ansia da prestazione davanti al pianoforte dopo anni di assenza davanti al pubblico, dovrà fronteggiare un stress emotivo 9 ancora più grande: sullo spartito infatti trova degli ordini e delle minacce segnate in rosso. Un uomo si mette in collegamento con lui via auricolare; il suo minaccioso dictat è che il pianista sia impeccabile nella sua esecuzione di La cinquette altrimenti verranno uccisi lui e la moglie. Film Pur non avendo lo spartito, l’artista viene quindi costretto a eseguire quello stesso brano che lo aveva drammaticamente sottratto dalle scene. Quella che segue è una escalation di pura tensione. Tom comunica con il suo ricattatore mentre suona, fa avanti e indietro dal palco suscitando la curiosità del pubblico. In platea tra i tanti suoi sostenitori c’è un amico a cui il musicista disperato manda un sms di aiuto. Durante l’esecuzione l’amico Wayne e la sua compagna Ashley verranno uccisi da uno scagnozzo del ricattatore. Per tutto il film sembra che a ricattarlo sia un mitomane, o un fanatico della musica quando invece si scopre che l’uomo misterioso altri non è che il costruttore del pianoforte socio in affari con il maestro Patrick, il quale alla sua morte aveva deciso di lasciare un conto in Svizzera. Peccato che la chiave per il piccolo tesoretto sia conservata nel pianoforte e che per potersene appropriare si debbano eseguire alla perfezione le ultime quattro battute di La cinquette. Tom non intende fare il bis di un pezzo che non era in scaletta; decide quindi di far esibire la moglie in un fuori programma e, mentre lei canta, lui riesce a rintracciare il ricattatore. Dopo una lunga lotta sul passaggio pedonale per le americane i due cadono sul palco. Il ricattatore muore mentre Tom riesce a salvarsi Tutti i film della stagione insieme la moglie. Una volta arrivata la polizia, svuotato il teatro e portato fuori il pianoforte completamente distrutto, Tom Selznik torna indietro e cerca di rifare, stavolta correttamente, le quattro battute finali. In questo modo riesce a scardinare il meccanismo e a impossessarsi della chiave. n puro esercizio di stile quello de Il ricatto di Eugenio Mira. Il regista fa continue citazioni ad autori e film che hanno fatto la storia del thriller internazionale, da Paura in palcoscenico a L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock fino a In linea con l’assassino di Joel Schumacher. La pellicola risulta ricchissima di spunti estetico stilistici, dall’uso dei trasparenti nei piano sequenza alle diverse scene doppie in montaggio parallelo. Stupefacente e a tenere letteralmente sulla corda la scena del taglio della gola dell’amico di Selznik che, attraverso il montaggio focus sull’archetto, passa sulle corde di una viola. Un ottimo esercizio di stile quello di Mira che si guasta sulla sceneggiatura. L’idea di base è realmente buona e originale, ma è lo svolgimento a lasciare un po’ perplessi. A cominciare dal dire che risulti poco credibile che un musicista riesca a colloquiare con un ricattatore durante un U concerto, suonando e parlando contemporaneamente. Per non aggiungere lo stato emotivo attuale e pregresso. Altro dubbio: possibile che il pubblico in tutto questo non si accorga di nulla? Neanche quando un pianista di fama internazionale sbaglia qualcosa nella sua esecuzione? Altro elemento negativo, a mio parere, è il livello recitativo di Elijah Wood che mantiene sempre la stessa espressione durante tutto il film. Un film in cui l’unico sentimento regnante è la paura: sembra infatti che da una fobia si passi a un rischio, dalla paura del pubblico alla paura del cecchino. Alle prese con uno psicopatico il musicista aggiunge ansie da prestazione al timore per la sua vita e per le persone a lui care. Una tensione fine a se stessa, un thriller monotematico che viaggia sempre sulla stessa nota. È proprio il caso di dire che di sfumature la pellicola ne abbia ben poche (ad eccezione delle peculiari trovate registiche e di montaggio). A deludere completamente, un finale banale, un happy ending poco plausibile che chiudono la storia del pianista e di sua moglie. John Cusack nel suo ruolo risulta convincente. Forse mantenendo il titolo originale Grand Piano si sarebbe mantenuto il gioco di parole (strumento e strategia) e forse sarebbe stata, è il caso di dirlo, tutta un’altra musica! Giulia Angelucci MARAVIGLIOSO BOCCACCIO Italia, Francia, 2014 Regia: Paolo e Emilio Taviani Produzione: Donatella Palermo, Luigi Musini per Stemal Entertainment, Cinemaundici, Barbary Films con Rai Cinema Distribuzione: Teodora Film Prima: (Roma 26-2-2015; Milano 26-2-2015) Soggetto: ispirato al “Decamerone” di Giovanni Boccaccio Sceneggiatura: Paolo e Emilio Taviani Direttore della fotografia: Simone Zampagni, Bruno Di Virgilio (operatore) Montaggio: Roberto Perpignani Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia Scenografia: Emita Frigato Costumi: Lina Nerli Taviani Effetti: Paolo Galiano N ella Firenze del 1300 devastata dalla peste dieci giovani di belle famiglie decidono di lasciare i miasmi e i roghi della loro città ammalata e rifugiarsi in una villa in campagna in attesa che il contagio non sia più pericoloso. Per passare il tempo nella maggiore Interpreti: Lello Arena (Duca Tancredi), Paola Cortellesi (Badessa Usimbalda), Carolina Crescentini (Isabetta), Flavio Parenti (Nicoluccio Cacciamanico), Vittoria Puccini (Catalina), Michele Riondino (Guiscardo), Kim Rossi Stuart (Calandrino), Riccardo Scamarcio (Gentile Carisendi), Kasia Smutniak (Ghismunda), Jasmine Trinca (Giovanna), Josafat Vagni (Federico degli Alberighi), Melissa Anna Bartolini (Elissa), Eugenia Costantini (Neifile), Moisè Curia (Panfilo), Miriam Dalmazio (Fiammetta), Camilla Diana (Lauretta), Nicolò Diana (Filostrato), Fabrizio Falco (Dioneo), Ilaria Giachi (Emilia), Barbara Giordano (Pampinea), Rosabell Laurenti Sellers (Filomena), Beatrice Fedi (Elisabetta) Durata: 120’ piacevolezza possibile i giovani hanno l’idea di raccontare ogni giorno una novella che parli d’amore, di sesso e di burle che possano così scacciare la paura della malattia e della morte. Cinque sono le storie che gli autori hanno scelto a rappresentare l’opera del Boccaccio: la burla organizzata dagli 10 amici a danno di Calandrino, convinto di essere invisibile perché portatore di una pietra dai poteri misteriosi, resi vani dalla concreta semplicità della moglie; l’amore di Gentile Carisendi per la bella Catalina, data per morta dalla sua famiglia e frettolosamente messa nel sepolcro, ridata alla vita e così conquistata proprio da Film Gentile; l’amore totalizzante e ossessivo di Tancredi per la figlia Catalina, tenuta quasi prigioniera e per la quale il padre fa uccidere il giovane Guiscardo, innamorato di lei, ma non può impedire che la stessa figlia si uccida; la badessa Usimbalda non riesce a portare a termine la punizione di una delle sue suore scoperta a letto con un uomo perché lei stessa è nel peccato della carne; il disperato Federico degli Alberighi, ormai in povertà per avere dissipato il suo patrimonio nel corteggiamento di Giovanna di cui è innamorato, è costretto a servirle a cena il suo amatissimo falcone arrosto anche se il sacrificio non sarà vano, perché Giovanna, una volta diventata vedova, vorrà solo lui come marito. Le notizie che giungono nel frattempo da Firenze sono positive; la peste si sta allontanando e il temporale liberatorio fa decidere i giovani di rientrare e riprendere la loro vita. on sappiamo se sia vera (né quanto) la scelta metaforica dei Taviani di avere individuato la fuga dalla Firenze appestata del 1300 come adattabile ai nostri tempi barbari, contaminati da guerre, fame e squilibri sociali di ogni genere che possono bene reggere il paragone con quell’antica pestilenza. Abbiamo contemporaneamente apprezzato l’intento, perfettamente riuscito, di non connotare il film di nessun aspetto che avrebbe potuto farlo appartenere al “boccaccesco”, cioè quel genere di licenziosità pruriginosa che ben sappiamo quanto abbia afflitto il nostro cinema in passato: non sarebbe stato questo possibile, essendo ben nota l’onestà intellettuale, culturale ed etica dei fratelli cineasti, la cui dirittura autoriale però ha prodotto una serie di opzioni e di conseguenze ben precise. Intanto la scelta delle novelle, le più asettiche, anche se per quattro di esse l’argomento è l’amore, rese contenute e frenate in un erotismo mai sviluppato, né accattivante, né avvolgente. La stessa novella che racconta gli amori proibiti di una badessa e della sua novizia è brevemente e superficialmente sbrigata, senza che un palpito di sensualità scuota la nitidezza geometrica del racconto. L’avere poi abbracciato in toto l’eleganza formale della storia sostenuta dalla seducente collocazione toscana di luoghi torri e castelli e dalla splendida scelta di costumi, ambienti e ricostruzioni d’interni fotografate come gioielli di classicità. Tutta questa affascinante suggestione, tutta questa grazia usata nella compo- N Tutti i film della stagione sizione pittorica del lavoro ci consegna, purtroppo, un vuoto impressionante, un film ingessato e freddo, dove tutto rimane in superficie, dove il grottesco, la sensualità, la cattiveria, la crudeltà, il sangue, la disperazione e l’imbroglio sembrano appena sussurrati, sospesi nel tempo, come se gli autori avessero impedito che toccassero terra per non assumere uno spessore eccessivamente materialistico e carnale. Totalmente carnale invece è l’interpretazione di Lello Arena come padre padrone traboccante d’amore malato, possessivo, geloso, inquisitorio e quindi anche vendicativo e sanguinario: una parte tenuta con grande e sincera verità espressiva nel comporre una figura che si pone in contrasto con tanta edulcorata umanità fuori del tempo. Fabrizio Moresco OH BOY – UN CAFFÈ A BERLINO (Oh Boy) Germania, 2012 Regia: Jan Ole Gerster Produzione: Schiwago Film, in coproduzione con Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk, in cooperazione con Arte Distribuzione: Academy Two Prima: (Roma 24-10-2013; Milano 24-10-2013) Soggetto e Sceneggiatura: Jan Ole Gerster Direttore della fotografia: Philipp Kirsamer Montaggio: Anja Siemens Musiche: The Major Minors, Cherilyn MacNeill Scenografia: Juliane Friedrich Costumi: Juliane Maier, Ildiko Okolicsanyi Interpreti: Tom Schilling (Niko Fischer), Friederike Kempter (Julika Hoffmann), Marc Hosemann (Matze), Katharina Schüttler (Elli), Justus von Dohnànyi (Karl Speckenbach), Andreas Schröders (Psicologo), Arnd Klawitter (Phillip Rauch), Martin Brambach (Jörg), Frederick Lau (Ronny), Ulrich Noethen (Walter Fischer), Michael Gwisdek (Friedrich), Steffen C. Jürgens (Ralf), Inga Birkenfeld (Hanna), Leander Modersohn (Jörg Schneider), Lis Böttner (Sig.ra Baumann), Theo Trebs (Marcel), Ellen Schlootz (Stella), Jakob Bieber (Kevin), Robert Hofmann (Pascale) Durata: 88’ 11 Film N iko Fischer vive da solo a Berlino, studia diritto ed è dedito all’alcol. Sta per essere lasciato dalla ragazza e ha bisogno di un caffè. Fin dalle prime riprese si intuisce che il suo è uno stile di vita bohémien. Viene sorpreso alla guida con tasso alcolemico elevato e, dopo il colloquio con lo psicologo, non riesce a ottenere nuovamente la patente. Non lavora, vaga per la città tutto il giorno. Ordina del caffè senza sapere come poter pagare; lo sportello del bancomat non funziona. Nel suo palazzo, Niko diventa oggetto di curiosità di un vicino ormai stanco della moglie che lo prende in simpatia e che, con un po’ di prepotenza e di invadenza, si intrufola in casa sua. Il vicino si sfoga un po’ con il ragazzo e gli offre delle polpette che ha preparato la consorte. La vita di Niko Fisher è una vita di incontri, come quello con il tassista xenofobo. Il ragazzo ha un amico di nome Matze e, durante una loro sortita, incontrano Julika, una ex compagna di scuola di Niko, che li invita a uno spettacolo teatrale in cui reciterà come attrice. I due amici rimangono inizialmente interdetti ma poi, sempre con aria smarrita, accettano l’invito della ragazza. Matze in seguito lo porta sul set di un film su Hitler, interpretato da un suo amico attore e rimangono un po’ lì durante le riprese. Nel frattempo, lo chiama il padre impegnato con il golf e lo invita a fargli visita. Una volta arriva- Tutti i film della stagione to Niko viene invitato a giocare ma il vero motivo della chiamata paterna è riportare il figlio sulla giusta via: egli infatti si è accorto che Niko ha ormai da tempo abbandonato gli studi. Di nuovo insieme al suo amico Matze, vanno prima a casa di Marcel, dove Nico fa amicizia con la nonna e poi si recano allo spettacolo della sua ex compagna Julika. Al termine dello spettacolo, Niko e Matze criticano lo spettacolo e discutono con il regista che è lì presente. Julika discute con dei ragazzi in strada e si sente attratta da Niko. Così, poco dopo, si ritrovano a baciarsi in bagno, ma Niko non è interessato ad avere una storia con lei. Dice di sentirsi strano e così ricomincia a vagare per la città. Alla fine della giornata, entra in un bar e conosce un uomo ubriaco che lo prende in simpatia e gli racconta un po’ del suo vissuto. L’uomo si sente male, ha un malore, Niko lo porta in ospedale ma l’uomo non ce la fa. ilm rivelazione in Germania, campione di incassi e vincitore di sei premi Lolas tra i quali miglior film, miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista, Oh boy, un caffè a Berlino si presta molto bene a rappresentare la vaghezza e l’inerzia di un giovane berlinese. Un’atmosfera, quella bohémien, che pervade tutto il film, che cerca di ricreare un clima alla Nouvelle Vague francese. Tantissime le citazioni cinematografiche adottate: Cléo F dalle 5 alle 7, Coffee & Cigarettes, Guy and Madeline on a park bench e A bout de souffle; come anche nel personaggio di Antoine Doinel truffautiano alla ricerca del lavoro o di Andrzej Leszczyc di Rysopis. Il pretesto del caffè serve a far percorrere al protagonista una giornata, un percorso e una vita piena di incontri, tanti incontri ma anche di scelte non fatte. Una vita, quella di Niko, passata passivamente, in maniera indefinita; l’uso del bianco e nero che fa il regista Jan Ole Gerster, serve proprio a questo, a sfumare una definizione temporale che non esiste. La trama è intessuta di persone che Niko incontra ma che non influiscono sulla sua vita; la sua storia prima di quell’incontro e dopo rimane la stessa. A parte l’ultimo che fa con l’uomo nel bar: Niko sembra scegliere per la prima volta nel film, ma quella scelta non riuscirà purtroppo a cambiare il destino di quell’uomo. In Oh boy, un caffè a Berlino è potente la fotografia, come anche suggestiva è la colonna sonora. Tom Schilling nel suo ruolo è perfetto. Carina la gag del barbone che vede per due volte di fila la stessa ragazza fare delle azioni piuttosto strane, come, ad esempio, riprendere del denaro dalla sacchetta del barbone. Il film è troppo incerto nel suo assunto, così da risultare poco convincente. L’interiezione iniziale del titolo la dice lunga su questo. Giulia Angelucci BOYHOOD (Boyhood) Stati Uniti, 2013 Regia: Richard Linklater Produzione: Richard Linklater, Cathleen Sutherland per Boyhood Inc., Detour Filmproduction Distribuzione: Universal Pictures International Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Richard Linklater Direttore della fotografia: Shane F. Kelly, Lee Daniel Montaggio: Sandra Adair Scenografia: Rodney Becker Costumi: Kari Perkins Interpreti: Ellar Coltrane (Mason), Patricia Arquette (Olivia), Ethan Hawke (Mason Sr.), Lorelei Linklater (Samantha), Tamara Jolaine (Tammy), Nick Krause (Charlie), Jordan Howard (Tony), Evie Thompson (Jill), Tess Allen (Nancy), Sam Dil- M ason, sua sorella Samantha e la madre Olivia si sono appena trasferiti a Houston. Olivia è separata dal padre dei ragazzi Mason Senior, un uomo disoccupato, aspirante musicista e poco responsabile. lon (Nick), Megan Devine (Chloe), Shane Graham (Stanley), Zoe Graham (Sheena), Brad Hawkins (Jim), Derek Chase (Steve), Cassidy Johnson (Abby), Richard Jones (Nonno Cliff), Jessi Mechler (Nicole), Angela Rawna (Prof.ssa Douglas), Richard Robichaux (Sig. Wood), Jenni Tooley (Annie), Libby Villari (Nonna), Taylor Weaver (Barb), Cambell Westmoreland (Kenny), Maximillian McNamara (Dalton), Bill Wise (Zio Steve), Jesse Tilton (April), Tom McTigue (Sig. Turlington), Roland Ruiz (Enrique), Sinjin Venegas (Chase), Mika Odom (Gabi), Jennifer Griffin (Sig.ra Darby), Barbara Chisolm (Carol), Charlie Sexton (Jimmy), Ryan Power (Paul), Andrew Villarreal (Randy), Jamie Howard (Mindy), Marco Perella (Prof. Bill Wellbrock), Steven Chester Prince (Ted), Elijah Smith (Tommy) Durata: 163’ La vita dei ragazzi è affidata alla madre, che, oltre a lavorare, studia al college. Qui conosce un professore, con il quale inizia una relazione , arrivando a sposarlo. Mason, Samantha e Olivia vanno a vivere con il professore e i suoi due figli. Nel 12 frattempo però, i ragazzi incontrano assiduamente il padre che tenta di mantenere un rapporto solido con loro. Scopriamo che il professore ha un problema di alcolismo e inizia a manifestare dell’aggressività verso la moglie e i figli. Raggiunto Film l’apice, Olivia decide di separarsi dal secondo marito e portare con sè Mason e Samantha. Il tempo passa e i ragazzi hanno raggiunto l’adolescenza. Il padre, con il quale si incontrano spesso, riesce a stabilire un rapporto aperto e di fiducia con loro. Parallelamente, la madre si è laureata e insegna in un college nella cittadina di San Marcos, dove la famiglia si è trasferita da poco. Olivia inizia una nuova relazione con Jim, un ex soldato tornato da poco dall’Iraq. Anche il padre ha trovato una nuova compagna con la quale ha avuto un figlio. Samantha ha oramai finito il liceo e si appresta ad andare al college. Mason è sempre più appassionato di fotografia, tanto da essersi iscritto a un istituto specializzato. Scopriamo però che anche Jim, il nuovo compagno della madre, ha il vizio dell’alcol e così Olivia chiude la relazione. I mesi passano e Mason si è fidanzato con Sheena, mentre la sorella frequenta con successo l’università. Arrivata l’estate, l’intera famiglia si riunisce per festeggiare il raggiungimento del diploma di Mason, che ha ormai diciotto anni. La madre, rimasta sola, vende la casa e si trasferisce in un appartamento più piccolo. Mason si è iscritto al college e, arrivato al dormitorio, conosce il suo nuovo compagno di stanza e una nuova ragazza. Ha tutto il futuro davanti. oyhood è un film speciale. Lo è per vari motivi. Innanzitutto per l’esperimento tecnico che rappresenta: nel 2002 il regista e sceneggiatore Richard Linklater ha iniziato a girare il film con lo stesso cast e la stessa troupe che avrebbe convocato una volta all’anno per i seguenti dodici anni. Tanto per capirci, quando il protagonista della pellicola, Ellar Coltrane (Mason Jr.), ha cominciato a recitare nel film, era un bambino di otto anni, alla conclusione un ragazzo di venti e lo stesso vale per gli altri attori, il regista e per tutti quelli che hanno lavorato alla realizzazione della pellicola. In questo senso Boyhood rappresenta un unicum nella storia cinematografica. L’eccezionalità della produzione si riflette inevitabilmente sulla storia stessa: la pellicola non racconta soltanto dodici anni di evoluzione di una famiglia ( e quindi del piccolo Mason, di Samantha, di una giovane madre costretta a crescere i figli da sola, di un padre alla ricerca della propria identità, che riesce a farsi amare dai figli nonostante i propri difetti), ma anche di una società, di una nazione intera con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni: l’avvento dei videogiochi, le difficoltà dei rapporti genitori-figli, l’incomunicabilità del mondo moderno e B Tutti i film della stagione ancora i social networks, Obama e molto altro ancora. La cornice del film è quindi nient’altro che il nostro mondo, quello in cui siamo cresciuti anche noi, raccontato alla maniera del documentario, come se la macchina da presa fosse li per caso. E quanto più vediamo crescere, difficoltà dopo difficoltà, caduta dopo caduta, ma anche successo dopo successo, i protagonisti del film, in primis Mason Jr, tanto più ci affezioniamo a questi personaggi come se fossero veri, rivedendo in loro la nostra stessa storia, le nostre stesse vite. È questo che rende speciale Boyhood ed è per questo che andrebbe visto nonostante le quasi tre ore di pellicola, che probabilmente hanno spaventato il pubblico statunitense prima e quello italiano poi, visto l’incasso del film. Boyhood non vuole insegnarci come si vive, perché non si insegna la vita con la vita, ma i suoi personaggi ci mostrano, come in uno specchio, quello che tentiamo di fare noi tutti durante la nostra faticosa, piacevole esistenza: essere visitati dagli avvenimenti, accettare con serenità quello che ci riserva il destino, scappare quando necessario e ripartire quando si è pronti, perché alla fine “non siamo noi a cogliere l’attimo, ma è l’attimo che coglie noi, come se fosse sempre ora.” Giorgio Federico Mosco NOI E LA GIULIA Italia, 2015 Regia: Edoardo Leo Produzione: Fulvio e Federica Lucisano per IIF Italian International Film, Warner Bros. Entertainment Italia Distribuzione: Warner Bros. Pictures Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015) Soggetto: dal romanzo “Giulia 1300 ealtri miracoli” di Fabio Bartolomei Sceneggiatura: Edoardo Leo, Marco Bonini Direttore della fotografia: Alessandro Pesci Montaggio: Patrizio Marone Musiche: Gianluca Misiti Scenografia: Paki Meduri Costumi: Elena Minesso Interpreti: Luca Argentero (Diego), Edoardo Leo (Fausto), Stefano Fresi (Claudio), Claudio Amendola (Sergio), Anna Foglietta (Elisa), Carlo Buccirosso (Vito) Durata: 115’ 13 Film Tutti i film della stagione Su internet arrivano le prime 35 prenotazioni. I clienti giungono sempre più numerosi affascinati da quella musica che parte all’improvviso dalle viscere della terra. L’atmosfera è serena e festosa ma è destinata a durare poco. I camorristi riescono a liberarsi e Vito minaccia i cinque. Poi, proprio quando stanno per arrivare i pezzi da novanta a fare piazza pulita, Vito suggerisce ai cinque la fuga utilizzando la sua vecchia Giulia. Il sogno è davvero finito? Stipati a bordo della Giulia, appena imboccata la via della fuga, i cinque si fermano in mezzo alla strada: davvero vogliono scappare e rinunciare a un futuro diverso? La mano sul cambio resta incerta se ingranare la prima o la retromarcia. I protagonisti di questa storia sono Diego, Fausto e Claudio, tre quarantenni insoddisfatti e in fuga dalla città e dalle proprie vite. Diego è un venditore di auto pignolo ma perdente e costretto dal suo capo spesso a ‘costernarsi’, Fausto è un piazzista televisivo pressato dai creditori, Claudio è l’ex proprietario di uno storico negozio di gastronomia che ha appena chiuso bottega. Da perfetti sconosciuti, i tre si conoscono perché tutti interessati ad acquistare lo stesso casale per realizzarci un agriturismo. Il casale è piuttosto malridotto, ma i tre decidono di diventare soci e lanciarsi nell’impresa di risistemarlo. A loro si unisce presto Sergio, un cinquantenne ex comunista invasato e fuori tempo massimo, a cui Fausto deve una cospicua somma di denaro. Ma, non appena iniziata l’opera di bonifica del casale, irrompe Vito, un camorrista venuto a chiedere il pizzo alla guida di una vecchia Giulia 1300. Questa minaccia li costringe a ribellarsi al sopruso in maniera rocambolesca: Sergio, il più risoluto del gruppo, stende il camorrista con un pugno. Sconvolti, i quattro agiscono d’impulso: legano Vito e lo rinchiudono in cantina. Secondo Sergio, loro dovranno continuare comunque con la loro attività. Per cancellare ogni traccia del camorrista, i quattro seppelliscono la Giulia nel terreno antistante il casale. Ma, fin dalla prima notte, si accorgono di una musica che parte all’improvviso dal sottosuolo: si tratta del mangianastri dell’auto che è difettoso e si aziona nei momenti più impensati. Il giorno dopo, al casale si presentano due ragazzi a bordo di uno scooter a chiede- re notizie di Vito. Ma anche i due giovani vengono messi al tappeto e rinchiusi insieme a Vito. Lo scooter fa la stessa fine della Giulia e viene sotterrato. La situazione diviene ancora più movimentata con l’arrivo di Elisa, una giovane donna incinta e un po’ fuori di testa chiamata da Claudio per dare una mano con le pulizie e la cucina. La ragazza stupisce tutti improvvisando, con i pochi ingredienti in dispensa, una gustosa cena. Fausto e Diego vorrebbero mandare via la ragazza per paura che scopra i camorristi tenuti in ostaggio. Ma, dopo aver implorato per restare lì perché davvero disperata, Elisa ottiene il permesso di restare ed entra così a far parte della squadra. Un giorno, un losco camorrista di nome Franco si presenta al casale a chiedere notizie dei suoi uomini ma riceve rassicurazioni: da quelle parti non si è fatto vedere nessuno. Nei giorni seguenti, il gruppo inizia a concedere alcune ore di libertà a Vito il quale si dimostra un vero esperto di piante. Grazie ai preziosi consigli di Elisa, il gruppo ristruttura il casale dando nuova vita a tanti vecchi oggetti e mette on-line il sito del casale. Una sera, inaspettatamente, arrivano i primi quattro clienti che, dopo aver apprezzato la cena genuina preparata da Elisa, decidono di restare a dormire. Il mattino dopo, a colazione, la musica dell’autoradio della Giulia sotterrata inizia a risuonare e Diego improvvisa una fantasiosa spiegazione del fenomeno inventando una vecchia leggenda. Il gruppo riparte affascinato da quel luogo. I soci guadagnano i loro primi 400 euro e, con il cuore pieno di speranza, cercano di posticipare la prima rata del pizzo. Vito si prende i soldi come anticipo. 14 alliti, frustrati, infelici, in una parola “sfigati”, eccoli di nuovo: un gruppetto di quarantenni (e un cinquantenne) alla deriva, tra lavori insoddisfacenti, problemi economici (e giudiziari), crisi sentimentali (o, per meglio dire, abbandoni), frustrazioni politiche (si ci sono anche quelle), depressioni croniche. Cinque persone allo sbando, e non è una novità, anzi quasi la norma nel nostro Paese. Ma questa volta si decide di coltivare un sogno, di dare spazio al famoso ‘piano B’ (che nella vita è sempre meglio avere), il forte desiderio di qualcosa di diverso (“Quando allo schifo per il lavoro si aggiunge quello per la città, cominci a elaborare il tuo piano B. A 20 anni era il chiringuito sulla spiaggia. A 40, quasi sempre, si tratta di un agriturismo” dice Diego, voce narrante del film). Un sogno e una ribellione (ma forse anche ‘il sogno di una ribellione’), cinque pazzi (come si poteva chiamare il loro agriturismo se non Casal de’ Pazzi?) che si oppongono a ciò che appare dovuto, anzi, soprattutto inevitabile. Almeno in Italia, dove i soprusi, i ricatti, le estorsioni, sono il pane quotidiano in tutti i campi, dalla malavita alla politica, fino ai luoghi di lavoro. Qui però l’estorsione è tutta da ridere, essendo opera di un bizzarro camorrista che viene a reclamare il pizzo a bordo di una vecchia Giulia Alfa Romeo verde dotata di un mangianastri difettoso che parte all’impazzata quando meno te lo aspetti, risuonando celebri brani di musica classica. Presi da impeto di ribellione e volontà di non prestarsi ai ricatti della malavita, i quattro soci nell’impresa lo prenderanno in ostaggio. Ma il rapporto con il prigioniero si trasformerà in qualcosa di anomalo, tanto che la resistenza prenderà forme sempre più bizzarre e rocambolesche. F Film Non arrendersi, non soccombere, non rinunciare ai sogni, questa è la parola d’ordine della terza fatica registica di Edoardo Leo che è rimasto folgorato dal romanzo “Giulia 1300 e altri miracoli” di Fabio Bartolomei. Pur con esiti meno brillanti del sorprendente Smetto quando voglio, Noi e la Giulia mette in scena quelli che si potrebbero definire dei fratelli dei protagonisti del film di Sydney Sibilla (oltre a Edoardo Leo, altra presenza comune ai due film è Stefano Fresi), anche loro dei quarantenni che tentano di scrollarsi di dosso l’etichetta del fallito facendo qualcosa di diverso. Con alcuni omaggi all’illustre commedia all’italiana (Ettore Scola è il debito evidente dichiarato dallo stesso regista), il film scherza sugli eterni difetti dell’italiano medio (pregiudizi e razzismo dettato dall’i- Tutti i film della stagione gnoranza in primis), e al contempo lancia un bel messaggio, valido per tutti e a tutte le età, perché non è mai troppo tardi per ricostruire la propria vita. A conti fatti, la commedia è piacevole, ha meccanismi ben oliati (anche se quasi due ore sono una durata un po’ eccessiva), vanta una bella colonna sonora (che mescola noti brani di musica classica a hit degli anni Ottanta come “Paradise”) e una pregevole fotografia. Leo fa ulteriori passi avanti nel suo mestiere di regista, azzardando movimenti di macchina e angolazioni di ripresa particolari, curando personalmente i look dei personaggi (dalle magliette comuniste di Amendola al codino da tamarro 2.0 del suo venditore televisivo) e giocando su un efficace finale aperto. Gli attori sono in perfetta sintonia con il clima del racconto, dall’occhialuto venditore di auto Luca Argentero (e per una volta nessuna donna cade ai suoi piedi dicendogli che è troppo bello), al corpulento e nevrotico Stefano Fresi, dalla toscana giramondo incinta interpretata da Anna Foglietta fino all’irriducibile ‘compagno’ nostalgico, fedelissimo di falce e martello (oggetti utili a tanti usi), interpretato da un barbuto Claudio Amendola. Ciliegina sulla torta, la partecipazione di uno straordinario Carlo Buccirosso nei panni del camorrista amante della musica classica e delle vecchie auto. Per non vergognarsi mai dei propri fallimenti. O meglio, uno sprone a ripartire proprio da questi. Elena Bartoni PASOLINI Italia, Francia, Belgio, 2014 Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Rossano Marchi Interpreti: Willem Dafoe (Pier Paolo Pasolini), Ninetto Davoli (Epifanio), Riccardo Scamarcio (Ninetto Davoli), Valerio Mastandrea (Nico Naldini), Giada Colagrande (Graziella), Adriana Asti (Susanna Pasolini), Maria de Medeiros (Laura Betti), Roberto Zibetti (Carlo), Andrea Bosca (Andrea Fago), Damiano Tamilia (Pino), Francesco Siciliano (Furio Colombo), Luca Lionello (Narratore), Salvatore Ruocco (Politico in «Petrolio») Durata: 87’ Regia: Abel Ferrara Produzione: Thierry Lounas, Conchita Airoldi, Joseph Rouschop per Capricci Films, Urania Pictures S.r.l., Tarantula, Dublin Films, Arte France Cinema Distribuzione: Europictures Prima: (Roma 25-9-2014; Milano 25-9-2014) Soggetto: Nicola Tranquillo, Abel Ferrara Sceneggiatura: Maurizio Braucci Direttore della fotografia: Stefano Falivene Montaggio: Fabio Nunziata È l’ultimo giorno di Pier Paolo Pasolini. L’artista sta terminando la definitiva operazione di montaggio di Salò e continua a dare corpo al terribile disagio che gli sta procurando la situazione italiana divorata e perduta in uno stato di corruzione e di inaridimento senza ritorno. A sottolineare il suo stato di profonda partecipazione alla visione drammatica del Paese è fondamentale l’intervista che lui concede a Furio Colombo. Tutto questo si alterna con le ore passate con le persone a lui più care e che gli vogliono bene: la madre, Graziella, Laura Betti, Ninetto Davoli, l’amatissimo cugino Nico e pochi altri. Grande spazio è dedicato all’ideazione e al racconto di quelli che sarebbero stati gli ultimi lavori: il film, quel “Porno-TeoKolossal” per il quale Pasolini avrebbe voluto Eduardo e il libro, il romanzo (poi postumo) “Petrolio” con il quale lo stesso artista anticipa che avrebbe potuto e voluto presto fare rivelazioni devastanti. È sera: dopo la cena con Ninetto e la sua famiglia Pasolini si avvia alla ricerca di un “ragazzo di vita” con cui passare le ore della notte; lo pesca nei soliti luoghi della deriva e lo porta nella zona degradata e solitaria dell’idroscalo di Ostia dove trova il suo calvario e la morte. un film scisso profondamente in due. Da un lato il lavoro cinematografico in senso stretto, con cui Abel Ferrara ha proposto il suo racconto di un grande personaggio del nostro Novecento costituisce l’aspetto più debole: la storia è appesantita soprattutto dalle scivolate oniriche, a cui Ferrara si affida per raccontare le ultime due opere incompiute, il film mai fatto e il romanzo che uscirà postumo, promosse a colonne portanti di tutta la poetica dell’artista che risulterebbe, se fosse così, molto impoverita e privata delle sue grandi opere precedenti sia cinematografiche che letterarie. In questa partitura sono poi lunghe È 15 le sequenze in cui Scamarcio fa Ninetto Davoli e il vero Davoli fa Eduardo (così avrebbe voluto Pasolini), una doppia assurdità che non capiamo come possa essere stata pensata, pur nel solco di una scelta “visionaria” del racconto. Il finale è tirato via, quasi girato per obbligo, anche se Ferrara ha più volte detto che non gli interessava da chi Pasolini fosse stato ucciso, né perché, né i particolari di quella notte di mattanza; accettiamo quindi che il regista americano si sia attenuto alla prima versione di giudizio per cui l’omicidio è avvenuto per opera di Pelosi con il concorso di ignoti. Nulla è stato dedicato alle polemiche successive, al ribaltamento delle versioni e delle testimonianze, né alla possibilità che l’artista sia stato davvero ucciso in un agguato studiato per eliminare un intellettuale scomodo che vedeva troppo lontano e troppo, per quei tempi abbastanza oscuri, sapeva. Per tutto questo, però, servirebbe un altro intero film. Film Quello che invece Ferrara riesce a fare emergere pienamente è la lucidità dell’artista, è la severità, la precisione, l’attualità delle sue intenzioni che lo porta su una strada di giudizio senza ritorno: Pasolini ha perfettamente chiara la situazione sociale e politica del Paese, sempre più avvitato su un sistema di corruzione e violenza pronte a colpire ogni libertà e ogni diritto; di fronte a questo l’intellettuale, l’artista deve, è costretto a rispondere Tutti i film della stagione con la provocatorietà delle sue opere per destabilizzare il conformismo malmostoso con cui la violenza di regime si difende, anche fino al martirio che, forse consapevolmente, Pasolini immaginava prossimo e nulla fece per evitarlo. Dà concretezza a questa passione critica bruciante l’adesione umana e profonda, spiritualmente mimetica di Willem Dafoe, arricchita, scena dopo scena, di sguardi, gestualità e movimenti che abbiamo visto usare posticci e sterili da tanti attori in altre occasioni e qui toccano le corde dell’anima più nascoste. Ci si commuove di fronte a questa interpretazione perché Dafoe ci rende partecipi della consapevolezza tragica di Pasolini come uomo, attore e personaggio, dell’impossibilità per un intellettuale come lui di fermarsi nella sua corsa cosciente verso un ignoto gravido di nuvole nere incombenti e intimidatorie che sarebbero esplose negli anni successivi. Ci auguriamo che questo lavoro di Abel Ferrara, pur stilisticamente diseguale e imperfetto nei tanti aspetti che avremmo voluto più compiutamente trattati faccia venire la voglia ai nostri uomini di cinema e di cultura di mettere mano, in modo organico e lontano dai timidi tentativi pseudodocumentaristici del passato, a un mondo così complesso e stimolante come quello pasoliniano. Soprattutto perché si interrompano, una volta per tutte, le due strade finora percorse per parlare di Pasolini: la sbrigativa “santificazione” in un’icona ben lontana, sterilizzata e impossibilitata a procurare altro fastidio, oppure insultarlo, ucciderlo e calpestarlo ancora e ancora una volta come in tanti hanno continuato a fare nel corso degli anni. Fabrizio Moresco FROZEN – IL REGNO DI GHIACCIO (Frozen) Stati Uniti, 2013 Regia: Chris Buck, Jennifer Lee Produzione: Peter Del Vecchio, John Lasseter per Walt Disney Animation Studios, Walt Disney Pictures Distribuzione: The Walt Disney Company Prima: (Roma 19-12-2013; Milano 19-12-2013) A nna ed Elsa sono due giovani principessine del regno di Arendelle. Le due sorelle sono molto legate, giocano insieme, ma un giorno accade un brutto incidente; Elsa la più grande delle due non riesce a controllare il suo potere magico di creare ghiaccio e neve e colpisce Anna. La bimba guarisce grazie alle cure dei troll, esperti in amore, i quali dicono ai genitori che è stata fortunata a essere stata colpita alla testa e non al cuore. I due genitori quindi costringono Elsa a rimanere chiusa nella sua stanza e Anna rimane per anni con la Soggetto: dalla favola “La regina delle nevi” di Hans Christian Andersen Sceneggiatura: Jennifer Lee, Shane Morris Musiche: Christophe Beck, Robert Lopez, Kristen Anderson-Lopez Durata: 100’ convinzione che la sorella non la voglia più vedere per una sua volontà: alla bimba guarita infatti i troll avevano tolto il ricordo del potere magico della sorella. I genitori muoiono durante un viaggio in mare e le due sorelle crescono nello stesso castello, ma separate; dopo anni arriva il giorno dell’incoronazione. Anna è spensierata, solare e felicissima dell’evento che le vedrà protagoniste, mentre la sorella Elsa è terrorizzata di poter perdere il controllo, è distaccata e timorosa. L’unica cosa che le dà sicurezza sono i suoi guanti. Tutto procede bene fino a quando 16 Anna, entusiasta per via dell’incontro con il principe Hans, chiede il giorno stesso la benedizione della sorella per potersi sposare. La sorella rimane interdetta per questa richiesta frettolosa, si oppone al volere di Anna e non riesce a controllare il suo potere. Tutti i presenti ai festeggiamenti scoprono quindi il suo segreto e lei si ritrova costretta a fuggire. Anna lascia il castello nelle mani del principe Hans e si mette alla ricerca della sorella. Durante il suo viaggio, conosce Kristoff con la sua renna Sven e Olaf, un simpaticissimo pupazzo di neve che la accompagnano Film nella ricerca della sorella. Elsa, nel frattempo, si è costruita un intero palazzo di ghiaccio dove intende vivere da sola per non far del male a nessuno. Intanto ad Arendelle regna l’inverno perpetuo. Quando Elsa finalmente ritrova la sorella, questa le ribadisce il suo timore nel farle del male e la caccia via insieme ai suoi nuovi amici. Anna viene colpita al cuore inavvertitamente e deve fare ritorno al castello per farsi baciare dal vero amore che potrà guarirla. Nel frattempo il principe Hans a cui lei aveva dato fiducia si rivela un impostore. Fa imprigionare Elsa con l’obiettivo poi di eliminarla. Quando quindi Anna arriva da lui per farsi guarire, il principe rivela la sua vera natura. Nel frattempo, Kristoff con l’aiuto di Sven si rende conto di amare Anna e di dover tornare indietro per salvarla. Ad Elsa imprigionata il principe dice che la sorella è morta. Così Anna esce dal castello per tentare di raggiungere Kristoff mentre il principe sta per uccidere Elsa. Anna la salva e guarisce anche lei perché è stato un atto di vero amore. Nel frattempo Elsa è riuscita a conquistare il controllo sul suo potere e Anna è felice con il suo Kristoff. rozen. Il regno di ghiaccio è un film di Chris Buck. Il regista precedentemente ha lavorato su Tarzan, Surf’s Up - I re delle onde e come F Tutti i film della stagione animatore supervisore per il film Mucche alla riscossa. Nel 2013 con la sua ultima creazione, insieme a Jennifer Lee, si è conquistato il Premio Oscar, il Golden Globe, il Premio BAFTA e l’Annie Awards nella categoria Miglior Film di Animazione. La storia è quella di due sorelle separate durante la crescita per via di un potere troppo grande da saper gestire. Elsa viene rinchiusa dai genitori per paura nella sua stanza e viene costretta a passare lì il resto dei suoi giorni. Ma nonostante questo, il legame tra le due sorelle è davvero molto forte e intenso. Un rapporto bellissimo che, dopo la morte dei genitori, è segnato da incomprensioni provocate da uno dei più grandi ostacoli per l’essere umano, la paura. Anna è il personaggio più solare che cerca di aiutare la sorella più grande ma che per paura di farle del male, rifiuta continuamente il suo supporto. La comunicazione tra le persone è molto importante e il film calca la mano proprio su questo concetto attraverso varie metafore (sull’immagine della porta ad esempio). Un dialogo ricercato tra diversità che non può essere negato per nessun motivo: un messaggio molto profondo ai giorni d’oggi per i più piccini ma anche per i più grandi. Oltre questo, è interessante osservare un’altra tendenza di rotta. Si nota infatti con molta curiosità come il messaggio dei cartoni animati stia fortemente cambiando. Se i prodotti degli anni ’90 e fino a qualche anno fa proponevano storie in cui la ricerca dell’amore vero era rivolto a un individuo dell’altro sesso, qui come anche nel recente prodotto disneyano Maleficient, si vuole sottolineare come l’amore vero non sia per forza quello del principe azzurro, ma quello di una madre nel caso di Maleficient o come qui, quello di due sorelle. Un bel cartone animato, pensato bene, ispirato alla favola di Hans Christian Andersen La regina delle nevi, la cui sceneggiatura appartiene tra le altre a una delle autrici di Ralph Spaccatutto. L’unica nota negativa è che sia molto cantato. Per chi non ama il genere musical, il film potrebbe risultare un po’ “eccessivo”. A tratti ci sono delle imperfezioni nella trama, piccole cose che non tornano ad un spettatore attento, come quando Anna dice di non sapere nulla dei poteri della sorella, fatto che aveva vissuto personalmente. Gradevolissima la grafica e gli effetti speciali veramente curati e ben riusciti. A impreziosire il racconto diverse trovate geniali, a partire dal dolcissimo personaggio del pupazzo di neve Holaff (molto originale l’idea della nuvoletta sulla testa per poter mantenere il microclima una volta terminato l’inverno provocato da Elsa). Per non parlare del colpo di scena finale. Semplicemente unico. Giulia Angelucci JIMMY’S HALL – UNA STORIA D’AMORE E LIBERTÀ (Jimmy’s Hall) Gran Bretagna, Francia, 2014 Musiche: George Fenton Scenografia: Fergus Clegg Costumi: Elmer Ni Mhaoldomhnaigh Interpreti: Barry Ward (Jimmy Gralton), Simone Kirby (Oonagh), Jim Norton (Padre Sheridan), Andrew Scott (Padre Seamus), Francis Magee (Mossie), Mikel Murfi (Tommy), Sorcha Fox (Molly), Martin Lucey (Dezzie), Shane O›Brien (Finn), Aisling Franciosi (Marie), Aileen Henry (Alice), Seamus Hughes (Ruairí), Karl Geary (Seán), Denise Gough (Tess), Brían F. O’Byrne (O’Keefe), Donal O’Kelly (Cian), John O’Dowd (Higgins) Durata: 109’ Regia: Ken Loach Produzione: Sixteen Jimmy Limited, Why Not Productions, Wild Bunch, Element Pictures, Channel Four Television Corporation, France 2 Cinéma, The British Film Institute and Bord Scannán Na Héireann/The Irish Film Board Distribuzione: Bim Prima: (Roma 18-12-2014; Milano 18-12-2014) Soggetto: ispirato alla omonima pièce teatrale di Donald O’Kelly Sceneggiatura: Paul Laverty Direttore della fotografia: Robbie Ryan Montaggio: Jonathan Morris 1 932, Irlanda, Country Leitrim. James Gralton ritorna a casa dopo dieci anni di esilio negli Stati Uniti dove ha fatto i mestieri più disparati compreso il boxeur. È andato via al culmine degli anni duri della guerra civile e torna oggi a casa in un periodo che con il nuovo governo De Valera sembra abbia riconquistato la sua pace. Jimmy ritrova la vecchia madre e i suoi amici, nonché Oonagh, la sua ragazza di un tempo che nel profondo del cuore non l’ha mai dimenticato anche se ha marito e due figli. 17 Dieci anni prima Jimmy era stato esiliato per aver partecipato ai disordini e alle rivolte contro l’impero inglese e perché nella sua stessa zona si era distinto come un ribelle comunista, fomentatore di spinte libertarie non consone soprattutto al potere della Chiesa Cattolica che oc- Film cupava la vita delle persone nelle loro coscienze, nei pensieri più reconditi e nelle loro azioni quotidiane. Jimmy si ritrova anche di fronte allo stesso problema di allora, la PearseConnoly Hall, un capannone di legno e lamiera che, insieme alla gente del posto, aveva adibito a spazio comune a fini culturali e sportivi: ci si incontrava, si discuteva, si leggevano libri, si dipingeva, si ascoltava musica, si ballava, si tirava di boxe. Dolcemente pressato e sostenuto dai suoi amici, Jimmy ridà vita alla sala riportandola agli antichi splendori e, naturalmente, suscitando vecchi rancori e antiche repressioni: Padre Sheridan, il parroco della chiesa locale vede in questo luogo di allegria e di comunanza sociale il fuoco delle idee progressiste in grado di minare il potere religioso e la supremazia del sano vivere dei ricchi latifondisti benpensanti. Tutti i film della stagione Il prete scatena quindi contro il gruppo di giovani desiderosi unicamente di vivere in pace una campagna di odio senza quartiere: Jimmy è imprigionato, rilasciato e poi costretto alla fuga; la PearseConnoly Hall è data alle fiamme mentre varie famiglie della zona sono perseguitate da soprusi e vigliaccherie di ogni genere a opera della polizia locale guidata dal gruppo dei ricchi e potenti. La resistenza di Jimmy è ormai alla fine: la sua latitanza presso compagni e famiglie amiche non può durare più oltre: arrestato ancora è avviato verso un nuovo esilio negli Stati Uniti da dove non farà mai più ritorno. un film di Ken Loach quindi non manca nulla di ciò che conosciamo: il comunismo e la religione, la repressione dell’autorità e il disprezzo dei ricchi e un grande e insopprimibile deside- È rio di libertà che si scontra con l’ottusità del potere costituito. Tutto nell’ambientazione struggente di mari e paesaggi agresti, casali con camini fumanti, interni di cucine con pentole sul fuoco; poi la gente, facce irlandesi come non se ne vedono più neanche nella realtà, facce fordiane quindi, capelli a caschetto, giacche e gilet, maglioni e cappelli, lane e scarpe grosse e la boxe e il ballo con le musiche gaeliche. La scena è trattata con tenerezza e partecipazione, esprime fascino e voglia di vivere, entusiasmo, immedesimazione, generosità e un grande e profondo rispetto per l’importanza centrale dell’essere umano e per la nascosta amarezza e felicità che ognuno si porta dentro. L’uomo e la donna quindi ancora al centro della poetica del regista inglese: questi anche se ha sempre costruito i suoi film su un telaio di forte realismo politico e sulla storicizzazione di fatti e avvenimenti da cui non può e non vuole prescindere, pure ha posto al centro delle sue storie l’universo umano la cui forza e sincerità supera ogni equivoco, ogni stortura che la gestione degli avvenimenti da parte del potere non riuscirà mai a soffocare del tutto. Straordinari i personaggi che danno vita a questo universo, ognuno perfettamente disegnato e sfaccettato in una unicità che comprende un ricchissimo quadro emotivo, malinconico, vitale, di una onestà cristallina e assoluta. Perfetta la scelta degli attori e di una moltitudine di facce e comportamenti che il regista evidentemente ha amato molto in un calore e in una contiguità, da cui è impossibile distinguere la realtà storica dall’affettuosa gratitudine per genti e territori protagonisti della sua umanissima visione politica. Fabrizio Moresco WILD (A Walk in the Wilderness) Stati Uniti, 2014 Regia: Jean-Marc Vallée Produzione: Reese Witherspoon, Bruna Papandrea, Bill Pohlad per Pacific Standar Distribuzione: 20th Century Fox Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015) Soggetto: dal libro di memorie “Wild: From Lost To Found Pacific Crest Trail” di Cheryl Strayed Sceneggiatura: Nick Hornby Direttore della fotografia: Yves Bélanger Montaggio: John Mac McMurphy, Martin Pensa Scenografia: John Paino Costumi: Melissa Bruning Effetti: Fake Digital Entertainment Interpreti: Reese Witherspoon (Cheryl Strayed), Laura Dern (Bobbi), Thomas Sadoski (Paul), Michiel Huisman (Jonathan), Gaby Hoffmann (Aimee), Kevin Rankin (Greg), W. Earl Brown (Frank), Maurice ‘Mo’ McRae (Jimmy Carter), Keene McRae(Leif), Brian Van Holt (Ranger), Cliff De Young (Ed), Will Cuddy (Josh), Leigh Parker (Rick), Nick Eversman (Richie), Ray Mist (Joe), Randy Schulman (Terapista), Cathryn de Prume (Stacey), Lorraine Bahr (Lou), Jerry Carlton (Dave), Kevin-Michael Moore (Spider), Charles Baker (T.J.), J.D. Evermore (Clint), Jan Hoag (Annette), Anne Gee Byrd (Vera), Evan O’Toole (Kyle), Jason Newell (Padre di Cheryl), Bobbi Strayed Lindstrom (Cheryl Strayed bambina), William Nelson (Leif bambino), Matt Pascua (Wayne) Durata: 119’ 18 Film C heryl Strayed ha ormai toccato il fondo dell’inferno: dopo un’infanzia difficile alle prese con un padre violento e alcolizzato, ha perso una madre dolcissima e innamorata della vita, portata via da un cancro in pochi mesi; divorziata da un marito stravolto dai suoi continui tradimenti, ha vissuto la devastazione della droga e del sesso occasionale, compulsivo e distruttore. Ora Cheryl è riuscita a ripescare quelle poche, ultime briciole di dignità e attaccamento alla vita che le sono rimaste per intraprendere un impegno colossale: l’esecuzione in solitaria del Pacific Crest Rail, cioè un percorso a piedi di 1.600 chilometri che si snoda attraverso nevi, deserti rocciosi e foreste tra il Messico e il confine canadese. Il cammino è, naturalmente, faticosissimo, schiacciato dallo zaino mostruosamente pesante; a questo si aggiungono traversate in zone desertiche prive d’acqua, incontri con serpenti a sonagli e con esseri umani spesso fuori di testa. A far compagnia a Cheryl, a parte la stanchezza e i piedi sanguinanti, sono i suoi ricordi, per lo più dolorosi, miseri e crudeli, uno su tutti la morte della madre amatissima per la quale non si dà pace. Sarà proprio la fatica del percorso e lo star sola con se stessa per così tanto tempo a riavvicinare Cheryl alla vita e a farle desiderare di ricostruire una parvenza di famiglia con il fratello che le è rimasto. N on c’è bisogno di scomodare Kerouac, Orwell né, tantomeno, il vecchio Omero, per identificare Tutti i film della stagione il significato di un viaggio con lo sforzo di un individuo alle prese con la propria rinascita, con la ricerca di una strada catartica dove trovare la rigenerazione della propria esistenza, la storicizzazione definitiva dei propri incubi passati per dare inizio a un nuovo e rinnovato futuro. Tutto questo è non solo uno dei miti che hanno contribuito a fondare la cultura americana ma ha rappresentato in ogni civiltà la strada più autentica e vera a disposizione di un essere umano per definire la propria crescita generazionale e per formare il raggiungimento della maturità, per se stesso e per i propri simili. Questo è stato il tema centrale a disposizione degli autori del film che ne hanno ricavato un prodotto non privo di interesse ma ugualmente contraddittorio. La stessa firma di sceneggiatura ci lascia perplessi, quella di Nick Hornby, scrittore inglese di cui abbiamo sempre apprezzato il modo intelligente e moderno con cui ci ha raccontato le ossessioni maschili circa il calcio, i libri, la musica e l’acutezza psicologica del rapporto con le donne e l’attrazione misteriosa e per lo più irraggiungibile, rappresentata dall’amore. È come se dicessimo: cosa centra tutto questo con una ragazza che cerca di porre fine al proprio inferno per ripescare dentro se stessa la voglia e la forza per ricominciare a vivere? I luoghi che Reese Witherspoon attraversa durante la sua avventura avrebbero meritato ben altra evidenza ma rocce e deserti, foreste e cieli notturni di sovruma- na bellezza, corsi d’acqua e scorci mozzafiato sono presenti sempre in secondo piano, relegati in un angolo senza importanza a fare solo da occasionale e poco accentuato accompagnamento ai rovelli interni della protagonista, squadernati e sezionati in un ossessivo e infinito flash back: tanto valeva che il personaggio rimanesse immobile su una poltrona a pensare ai propri guai senza cimentarsi nei 1.600 chilometri della Pacific Crest Rail, sviliti e resi inutili in tanta maniacale introspezione interiore. Per essere chiari vengono in mente pellicole del passato come Corvo Rosso non avrai il mio scalpo di Pollack o Un tranquillo week-end di paura di Boorman dove il contrapporsi conflittuale uomo/ natura, pur nel mantenere intatte le reciproche caratteristiche, confluivano in un unico discorso armonico che comprendeva eroismo e umanità, durezza e abnegazione, onestà e tradimento; in una parola, il corso ineluttabile e affascinante dell’esistenza umana. Qui abbiamo solo, davanti e sempre la Witherspoon con le sue elucubrazioni e i suoi guai. Di ben altro spessore la splendida interpretazione che Laura Dern compone per il personaggio della madre, ancora più calpestata e tormentata della figlia ma inarrestabile nella sua voglia gioiosa di rinvenire spunti positivi nei momenti più incolori delle sue giornate e in perpetua, esuberante ricerca di quella rivalsa che non arriverà mai. Fabrizio Moresco LA METAMORFOSI DEL MALE (Wer) Stati Uniti, 2013 Musiche: Brett Detar Scenografia: Tony DeMille Costumi: Monica Florescu Effetti: Almost Human Inc. Interpreti: A.J. Cook (Kate Moore), Brian Scott O’Connor (Talan Gwynek), Sebastian Roché (Klaus Pistor), Simon Quarterman (Gavin Flemyng), Vik Sahay (Eric Sarin), Oaklee Pendergast (Peter Porter), Stephanie Lemelin (Claire Porter), Brian Johnson (Henry Porter), Camelia Maxim (Mrs. Gwynek), Corneliu Ulici (Ufficiale di polizia) Durata: 89’ Regia: William Brent Bell Produzione: Nicolas Meyer, Morris Paulson, Matthew Peterman, Marc Schaberg, Steven Schneider per Prototype, Room 101, Filmdistrict, Incentive Filmed Entertainment, Sierra/Affinity Distribuzione: Moviemax Prima: (Roma 4-12-2014; Milano 4-12-2014) V.M.: 14 Soggetto e Sceneggiatura: William Brent Bell, Matthew Peterman Direttore della fotografia: Alejandro Martínez Montaggio: William Brent Bell, Robert Komatsu, Tim Mirkovich U na donna viene inquadrata dalle telecamere per raccontare la sua storia: lei, insieme a suo figlio e suo marito sono in vacanza in un campeggio. È notte e c’è la luna piena. La quiete familiare è destinata a 19 essere distrutta da una misteriosa creatura che non si farà inquadrare dalle telecamere, ma con la sua furia ucci- Film derà marito e figlio e ferirà gravemente Claire. L’evento diventa di dominio pubblico e, all’inizio, si crederà che sia un animale ad aver aggredito le famiglia, ma dalle dichiarazioni dell’ultima sopravvissuta, si scopre che in realtà si tratta di un uomo. Le forze dell’ordine arrestano Talan, unico sospettato perché corrisponde alla descrizione di Claire e vive con la madre non distante dal luogo della strage. L’avvocatessa Kate Moore, da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani, assume la difesa di Talan. Nonostante lo scetticismo dei giornalisti e dell’opinione pubblica, la donna rivelerà di non credere affatto nella colpevolezza dell’accusato. Accanto a lei a seguire le indagini il suo amico Eric, investigatore privato e il medico legale, nonché suo ex, Gavin. Kate conosce personalmente Talan, che si dimostra una persona gentile e timida. L’avvocatessa gli rivela che sono in corso le analisi del Dna sulla scena del delitto. L’uomo è molto taciturno e le chiederà solamente di aiutarlo, scatenando una rissa in cui Gavin viene graffiato al braccio. Kate intanto va a parlare con la madre dell’indiziato. Quest’ultima le rivela che in realtà l’arresto del figlio è stato voluto dallo stesso governo, visto che l’organizzazione vuole impadronirsi delle terre della loro famiglia per farle diventare una discarica nucleare. Kate viene anche a sapere della morte del padre di Talan, in un incidente l’anno prima, e della dolorosa malattia del suo cliente, la porfiria, che gli allunga le ossa. Gavin indaga sulla malattia di Talan, scoprendo che rende l’infermo debolissimo. Basandosi su questa scoperta e sull’apparizione di un orso nella zona del delitto, dà la possibilità a Kate di far diminuire le prove nei confronti dell’indiziato. Durante un’operazione per dimostrare la sua innocenza, però l’uomo perde il controllo, uccide in maniera brutale e sadica gli infermieri e scappa. Inizia così una caccia all’uomo, con a capo il detective Klaus, che accusa Kate di essere stata una collaboratrice dell’assassino per aver creduto nella sua innocenza. Intanto Gavin, contagiato per la ferita, si trasforma in lupo mannaro. L’avvocatessa, affronta direttamente Talan, causando la morte di Eric. Poi arriva a difenderla Gavin, nei panni di creatura Tutti i film della stagione terribile, uccide Talan e mentre si avvicina a Kate, un proiettile della polizia colpisce la donna. Gavin fugge. Tempo dopo, la polizia sta ancora cercando Talan, in quanto una nuova ondata di omicidi ha colpito la Francia. I giornalisti intervistano Gavin, unico, oltre a Kate, a essere sopravvissuto al lupo mannaro. Gavin, vero artefice degli omicidi, non si fa scrupolo a inveire pubblicamente contro Talan, accusandolo di essere un lupo mannaro. on immagini di notiziari e montaggio frenetico, il plot del film si apre all’insegna del resoconto di una tragedia avvenuta: durante una vacanza nella Francia rurale, una famiglia viene brutalmente uccisa. Immediatamente, quindi, nella testa dello spettatore non può fare a meno di scattare la molla di una duplice domanda di come sia stata uccisa e, soprattutto, chi sia il colpevole della strage. Da qui, William Brent Bell, autore dell’horror Stay alive e L’altra faccia del diavolo, tende a costruire in La metamorfosi del male un’intensa indagine, portata avanti da un’avvocatessa che si batte anima e corpo per difendere i diritti umani. Discreto prodotto a basso budget, la pellicola passa dal mistery venato di sovrannaturale al thriller legale, con diramazioni affaristiche e con divagazioni medico-scientifiche, per poi tornare all’horror, ricco di godibili dettagli splatter e fornito di una suspense elementare e funzionale. Un mistero su un uomo che soffre fin da bambino di una particolare malattia genetica ereditaria, che gli ha reso la vita un incubo. Una malattia per la quale nessuno è mai stato in grado di trovare una cura e che, man mano che i fotogrammi scorrono sullo schermo risulta sempre più chiaro essere proprio la licantropia. Una licantropia che, però, il regista non rappresenta nella stessa maniera altamente fantastica dei tanti movie sui lupi mannari che hanno affollato lo schermo, ma ricorre a un taglio decisamente più realistico. La figura del lupo risulta inedita e originale. Il ritratto di una creatura umana capace di tirare fuori l’aggressività più sfrenata di cui egli stesso è vittima. Quindi dimentichiamo Un lupo mannaro americano a Londra e le trasformazioni con tanto di musi allungati; si predilige la naturalezza, che C 20 viene accentuata tramite il ricorso a numerose riprese eseguite con camera a mano. Viene definito infatti stile “found footage”, data la presenza di vari filmati da telecamere di ogni genere e camera a mano, il cui coinvolgimento conferisce un tono diverso dal classico documentario, attraverso inquadrature multiple, che aggiungono crudezza alle immagini. Il variare spesso del punto di vista, tuttavia, porta a una destabilizzazione nella visione, che inizia con la scelta della location in cui la storia si sviluppa, poi continua con la struttura di un racconto che, dopo il prologo di sangue necessario a creare incipit e atmosfera, si trasforma in un thriller. Il realismo viene ricercato anche attraverso l’uso di luci naturali e una certa rozzezza visiva, derivata dalla volontà di trasformare la fiction in documento, in cui anche le citazioni si sprecano (in primis Blair Witch Project). Mentre teste sfondate e mandibole strappate condiscono nella giusta maniera un elaborato che, pur senza eccellere, coinvolge a dovere, dimostrandosi capace di funzionare decisamente meglio rispetto alle precedenti prove del regista. Se questo può essere un punto a favore dell’opera di William Brent Bell, peccato che non riesca però a compensare gli aspetti a suo sfavore. Ogni personaggio viene presentato con un background preciso e di conseguenza vengono aperte molte strade, ma mai percorse completamente. Si abbozzano contenuti per poi abbandonarli in fretta, generando quindi un sovraccarico di informazioni, che disperde parzialmente la dose di tensione che il film si propone di offrire al pubblico. Il tema dell’uso delle fonti energetiche nucleari in Francia, l’incontro e l’unione di culture diverse (i conservatori francesi e i progressisti americani) sembrano essere gettati lì e sviluppati solo superficialmente. Anche la conclusione del film è prevedibile. Nel cast oltre la nota A.J. Cook nel ruolo dell’avvocato, colpisce la performance di Brian Scott O’Connor, esordiente nella parte del licantropo, presenza giustamente inquietante, perfetto per il ruolo. La sua fisicità portentosa gli è d’aiuto nel rendere credibile il suo personaggio, più vittima degli eventi che efferato killer. Veronica Barteri Film Tutti i film della stagione VERGINE GIURATA Italia, Svizzera, Francia, Albania, 2015 Direttore della fotografia: Vladan Radovic Montaggio: Carlotta Cristiani, Jacopo Quadri Musiche: Nando Di Cosimo Scenografia: Ilaria Sadun Costumi: Grazia Colombini Interpreti: Alba Rohrwacher (Hana/Mark), Flonja Kodheli (Lila), Lars Eidinger (Bernhard), Luan Jaha (Stjefen), Bruno Shllaku (Gjergj), Ilire Vinca Çelaj (Katrina), Drenica Selimaj (Hana piccola), Dajana Selimaj (Lila piccola), Emily Ferratello (Jonida) Durata: 90’ Regia: Laura Bispuri Produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Maurizio Totti, Alessandro Usai, Dan Wechsler, Michel Weber, Viola Fügen, Sabina Kodra, Robert Budina per Vivo Film, Colorado Film, con Rai Cinema, Bord Cadre Films, Match Factory Productions, Era Film, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà Prima: (Roma 19-3-2015; Milano 19-3-2015) Soggetto: liberamente ispirato al romanzo omonimo di Elvira Dones Sceneggiatura: Francesca Manieri, Laura Bispuri U n ragazzo efebico, un pastore si direbbe, gioca con una capra in cima ai monti, sullo sfondo di una valletta verde e desolata. Intorno, a parte i pochi alberi, una baracca e la natura aspra delle montagne, qualche uomo assiste e partecipa al gioco. Dopo una notte di sonno il giovane prende le sue cose, scende a valle e inizia un viaggio verso l’Italia. Da qui parte la lunga serie di flash back che accompagna, fino alle ultime battute, il racconto del viaggio di Mark lontano dai monti albanesi, in Italia, e della sua nuova vita quaggiù. Mark è in realtà Hana, ma oggi non è più una donna, almeno, non ufficialmente. Da ragazza, vista la sua indole indipendente e la sua volontà di non sottostare ai divieti previsti per le donne nella comunità di pastori in cui vive, Hana ha deciso – con il consenso dello zio, della zia e della cugina Lila, famiglia che l’ha accolta e scelta come se fosse figlia e sorella – di diventare “vergine giurata”: donna cioè che secondo l’arcaica legge del kanun, giura la verginità a vita, veste i panni dell’uomo, può lavorare e imbracciare le armi. Ad aspettare Mark in Italia c’è la sorella Lila, fuggita insieme a Stjefen molti anni prima evitando un matrimonio combinato. I due la accolgono a casa e le trovano un lavoro. Così iniziano i giorni sotterranei di Mark in Italia: di notte guardiano notturno, di giorno timido, taciturno accompagnatore agli allenamenti in piscina di Jonida, figlia di Lila e Stjefan. Proprio intorno alle vasche, dopo un lungo dialogo di sguardi, Mark, ancora donna in incognito, consuma la sua prima esperienza sessuale, rapidamente, con grande foga ma in silenzio. Così, quando Mark si sistema finalmente per conto suo, in un piccolo appartamento in affitto, il suo corpo comincia a ridiventare quello di Hana. Fino a che, un giorno, Hana mette da parte le bende che bruciano la pelle delle spalle e del petto, i goffi pantaloni che le insaccano le gambe e i fianchi e al loro posto indossa un reggiseno e una maglietta. La sera Hana e Lila escono insieme, da donne. Hana racconta di quel che Lila ha lasciato dietro di sé dopo la fuga, la morte del padre, e poi anche della madre. Insieme le due donne leggono la sua ultima lettera e sorridono. aura Bispuri, dopo i consensi e i riconoscimenti ottenuti con i suoi primi tre cortometraggi (in particolare Passino Time vincitore di un David di Donatello come miglior Cortometraggio nel 2010 e Biondina premiata come talento emergente con il Nastro d’Argento nel L 21 2011) arriva all’esordio nel lungometraggio a soggetto con un adattamento letterario sui generis, dall’omonimo romanzo dell’autrice albanese Elvira Dones. La storia è ufficialmente quella di una donna che riconquista – o meglio, riscopre – la propria identità – femminile – anche e soprattutto lungo una graduale e impercettibile riconquista del proprio corpo. Ma il film sembra non riuscire a mantenere le promesse della regista. Laura Bispuri è al contempo troppo lontana e troppo vicina, troppo legata e troppo distaccata dal personaggio che racconta e del quale sembra che le interessi soprattutto spiegare la necessità e la realizzazione di un’evoluzione. L’uso dei flash back in parte serve ad afferrare qualcosa del mistero che avvolge Hana/Mark, ma non basta: soprattutto perché proprio dove la rivoluzione avviene, Film proprio nel momento in cui forse Hana inizia la sua vita libera, proprio lì sembra raccogliersi un punto cieco, un’opacità oltre la quale l’occhio della regista non sa andare. E non serve l’ansia di realtà – o per meglio dire di realismo -, non serve la durezza della luce o l’asciuttezza di uno script avaro di parole a condensare il senso forte del viaggio della protagonista. Quasi persa nell’ossessione di una forma, la regista sembra dimenticarsi di pensare al suo racconto e più di tutto al racconto del suo personaggio. In una strana e sbilenca al- Tutti i film della stagione ternanza tra la ricostruzione del passato e l’osservazione del presente, il film sembra muoversi e respirare solo nell’efficace e suggestivo ricordo del passato in Albania, per poi restare come bloccato, attonito, impietrito nell’articolazione del momento presente, qui, in Italia: non c’è analisi e neppure descrizione, non c’è intuizione e neppure esposizione, c’è, sola, la messa in scena inerte di un corpo nascosto, ottuso, come incapace di stare nel mondo. L’epilogo, meccanico come una trappola a molla, giunge infine troppo roseo, troppo prevedibile anche se forse proprio per questo imprevisto: apice verbale di una narrazione altrimenti e altrove taciturna, il finale sentimentale e normalizzante arriva un po’ come se la carne che finalmente torna a palpitare fuori dalle strette costrizioni e dai pesanti mascheramenti si rivelasse niente altro che un nuovo costume, svelamento di materia posticcia ancor meno umana e meno carnosa delle ampie vesti e delle bende che prima la ricopirvano. Silvio Grasselli OUIJA (Ouija) Stati Uniti, 2014 Regia: Stiles White Produzione: Michael Bay, Andrew Form, Brad Fuller, Jason Blum, Bennet Schneir per Platinum Dunes, Blumhouse Productions, Hasbro Distribuzione: Universal Pictures International Prima: (Roma 8-1-2015; Milano 8-1-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Juliet Snowden, Stiles White Direttore della fotografia: David Emmerichs Montaggio: Ken Blackwell Musiche: Anton Sanko Scenografia: Barry Robinson D ebbie e Lane sono due bambine che cominciano a giocare per divertimento con una tavola Ouija. Le regole del gioco sono tre: non giocare mai da soli, non giocare in un cimitero e salutare sempre lo spirito. In oltre, Debbie confida all’amica che se guardi attraverso l’occhio della planchette, puoi vedere lo spirito con cui stai parlando. Passano gli anni e le due sono ancora grandi amiche. Debbie, però, infrange la prima regola e muore impiccata. Lane, addolorata, si chiede se la morte della migliore amica sia stata voluta da lei o se sia stata uccisa. Cerca di contattarla mediante la tavoletta insieme a sua sorella Sarah, al suo ragazzo Trevor, all’amica Isabelle e a Pete, ragazzo della defunta Debbie. I genitori di Debbie decidono di lasciare per un po il paese e affidano a Lane la cura della loro casa. I ragazzi ne approfittano subito e vanno nella casa di Debbie per compiere una seduta spiritica. Quando la tavoletta comincia a muoversi pensano che sia Debbie, ma qualcosa va storto e cominciano a essere perseguitati da uno strano spirito. Tornano una seconda volta, per parlare con lei, ma scoprono che non è Debbie lo spirito con cui stanno parlando, ma “DZ”, lo stesso spirito che Costumi: Mary Jane Fort Effetti: Legion Studios Interpreti: Olivia Cooke (Laine Morris), Daren Kagasoff (Trevor), Douglas Smith (Pete), Ana Coto (Sarah Morris), Bianca Santos (Isabelle), Shelley Hennig (Debbie Galardi), Matthew Settle (Sig. Morris), Sierra Heuermann (Doris Zander), Lin Shaye (Paulina Zander), Claudia Katz (Madre), Vivis Colombetti (Nona), Sunny May Allison (Doris a 10 anni), Robyn Lively (Sig.ra Galardi), Afra Tully (Laine bambina), Claire Beale (Debbie bambina), Izzie Galanti (Sarah bambina) Durata: 89’ ha parlato con Debbie prima che morisse. Lane si porta la planchette all’occhio e vede una ragazza con la bocca cucita; questo spirito li mette in guardia contro “La madre” e, sempre tramite la planchette, Lane vede questo spirito in preda all’ira. Tutti fuggono spaventati e giurano che non faranno più sedute spiritiche. La stessa sera, Isabelle muore nel suo bagno. Lane, assieme a Pete, torna a casa di Debbie per indagare e gli indizzi la portano alla soffitta di Debbie, dove trova delle foto che raffigurano una madre con le due figlie e trova anche un quotidiano dove si dice che una ragazzina di nome Doris è scomparsa; cosi capisce chi è lo spirito “DZ”. Va a trovare la sorella di Doris, Paula, rinchiusa in un ospedale psichiatrico dopo che ha assassinato sua madre. La donna le dice che per spezzare la maledizione bisogna tagliare i fili che legano la bocca di Doris, perché la loro madre, grande spiritista, usava sua sorella per parlare con spiriti potenti; per intrappolare quelli più maligni, la madre le cucì la bocca e poi la uccise e, per vendetta, lei poi ha ucciso sua madre. I ragazzi, Lane e Sarah si recano nella cantina e trovano il corpo di Doris e Lane riesce a tagliare i fili: lo spirito di Doris sconfigge quel22 lo della madre e tutto sembra finire bene. Purtroppo, Pete muore e così Lane torna all’istituto psichiatrico, dove scopre che Paula le ha mentito: Doris era lo spirito cattivo, la madre cercava solo di proteggerli. Lane e Sarah si confidano con la Nonna, che gli dice che deve bruciare il corpo di Doris e la tavoletta contemporaneamente. Lane, Sarah e Trevor tornano un’ultima volta nella casa. Trevor muore subito affogato nella piscina. Le due sorelle fanno quello che le ha detto la Nonna e vengono aiutate dallo spirito buono di Debbie. Quando le due tornano a casa, Lane si ritrova la planchette sul letto, se la porta davanti agli occhi e ci guarda attraverso. egli ultimi anni, sembra che il cinema horror si stia incartando su se stesso. Poche sono le eccezioni: Insidious, The Congjuring, La madre e Sinister. Come esempio di pessimo film, si può citare l’inconcludente 1303. Per il resto, calma piatta. Ouija si colloca nel giusto mezzo: non sorprende in quanto a originalità, ma almeno conserva una propria dignità. Il film è firmato da Stiles White, esordiente alla regia, ma con un forte background nell’ambito degli effetti N Film speciali (Intervista col vampiro; Instinct; Il sesto senso). Non è un caso, infatti, che siano proprio gli effetti speciali la parte meglio riuscita dell’intero lungometraggio. Fantasmi e possessioni sono realizzata con dovizia di particolari e, bisogna ammettere, che non sempre ci si accorge che dietro c’è l’uso della computer graphic. Onore al merito. Il problema è la banalità di molte situazioni e gli stereotipi in cui si incappa, ormai, negli horror. E per cui l’opera di White si salva solo in parte. Molti accadimenti e molte concatenazioni di eventi sono gli stessi che ritroviamo in altri film di genere e alcuni settaggi sono davvero scritti male; non si spiega, infatti, come la nonna si scopra esperta di spiritismo solo alla fine del film e perché le due sorelle non si siano rivolte prima a lei. Come si dice in gergo: Tutti i film della stagione molte sequenze “sono telefonate”, ovvero si capisce cosa accadrà diversi minuti prima che avvenga. I personaggi sono piatti, molto monodimensionali e tendenti allo stereotipo. Davvero un brutto colpo, perché diversi fan del cinema horror attendevano Ouija con molte aspettative. Perché la “tavola degli spiriti” è uno dei fondamenti del paranormale e del sottogenere omonimo a cui molti lungometraggi fanno riferimento. Basti pensare che in L’esorcista, la bambina viene posseduta proprio perché gioca da sola con la ouija e richiama a sé un essere maligno molto potente. Sicuramente, desta più curiosità la storia dell’entità DZ che tormenta Lane e i suoi amici, che qui viene poco analizzata e approfondita; chissà che non realizzino un prequel, visto che ora va molto di moda. Nonostante ciò, bisogna ammettere che in molte scene c’è una buona dose di suspense e che riesce anche a spaventare in tre, quattro momenti; sicuramente è poco per un film che si autodefinisce horror, ma è comunque sopra la media rispetto a pellicole davvero mediocri. Interessante è la questione della tavola degli spiriti intesa come “gioco” e non come strumento medianico; tant’è che i personaggi parlano sempre di “gioco” e di “voler giocare” con la tavola. Infine, nei titoli di coda campeggia la scritta “ispirato al gioco omonimo della Hasbro”. Alla fine di tutto, il film non aggiunge nulla di innovativo alla cinematografia, ma sicuramente, visto il successo al botteghino, ci sarà un seguito o, addirittura, una trilogia. Elena Mandolini NON SPOSATE LE MIE FIGLIE! (Qu’est-ce qu’on afait au Bon Dieu?) Francia, 2014 Scenografia: François Emmanuelli Costumi: Eve-Marie Arnault Interpreti: Christian Clavier (Claude Verneuil), Chantal Lauby (Marie Verneuil), Ary Abittan (David Benichou), Medi Sadoun (Rachid Benassem), Frédéric Chau (Chao Ling), Noom Diawara (Charles Koffi), Frédérique Bel (Isabelle Verneuil), Julia Piaton (Odile Verneuil), Émilie Caen (Ségolène Verneuil), Elodie Fontan (Laure Verneuil), Pascal Nzonzi (André Koffi), Salimata Kamate (Madeleine Koffi), Tatiana Rojo (Viviane Koffi) Durata: 97 Regia: Philippe de Chauveron Produzione: Les Films du 24, Tf1 Droits Audiovisuels, Tf1 Films Production Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 5-2-2015; Milano 5-2-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Philippe de Chauveron, Guy Laurent Direttore della fotografia: Vincent Mathias Montaggio: Sandro Lavezzi Musiche: Marc Chouarain laude e Marie Verneuil sono una coppia della borghesia francese di provincia con quattro figlie. Sono cattolici e così, dopo che le prime tre figlie (Isabelle, Odile, Ségolène) si sono unite in matrimonio rispettivamente con un ebreo, un mussulmano e un asiatico, sperano davvero in cuor loro che l’ultimo genero sia del loro stesso credo. La loro vita di suoceri è infatti un inferno; si trovano a discutere continuamente con i loro generi come anche questi ultimi tra di loro. La maggior parte dei litigi avviene a tavola dove i contrasti culturali appaiono più forti. Per questo motivo, i due coniugi Verneuil nutrono la speranza che, almeno per l’ultima figlia Laure, le cose vadano diversamente. L’ultima figlia si innamora di Charles, un cattolico, ma di origini ivoriane. Anche il papà di Charles risulta essere contrario alla scelta del figlio di sposare una ragazza europea. I due padri cercano in tutti i modi di ostacolare il matrimonio dei figli, ma alla fine è l’amore a trionfare su tutto. C el 1967 in America usciva il film di Stanley Kramer, Indovina chi viene a cena? E, qualche anno, più tardi, nel 2002, Il mio grosso grasso matrimonio greco, dove la situazione era completamente ribaltata rispetto al successo francese del 2015: il fratello e la sorella di Toula erano sposati con altri greci. Lì quindi il regista Joel Zwick, pur sottolinendo il “razzismo” del padre della protagonista verso i non greci, faceva sì che la sua rigidità fosse concentrata sul piano propriamente culturale. Il razzismo, anche in Non sposate le mie figlie! è sempre presente, anche se non in maniera violenta, ma comunque forte e costante. In questa commedia francese di Philippe de Chauveron l’accento viene messo sull’aspetto politico. Si intende fare riferimento, infatti, a quella immigration choisie (l’immigrazione selettiva e discriminatoria) che fu predicata da Nicolas Sarkozy durante la campagna presidenziale del 2012. I generi di Claude Verneuil sono rispettivamente un avvoca- N 23 to, un banchiere, un imprenditore e un attore, un tipo di immigrati “ricchi”, qualificati e utili all’economia nazionale, e, quindi, nei confronti dei quali ci si può permettere di essere un po’ meno ostili. Le due rigidità e l’intolleranza del sig. Verneuil e del sig. Koffi (padre di Charles) si incontrano e insieme riescono a superare l’ostacolo del razzismo. Un altro elemento interessante della pellicola è l’atteggiamento delle sorelle verso Laure: queste infatti le fanno pesare la sua scelta verso un diverso e a non farla sentire libera. In fondo ammettono di averla fatta anche loro una scelta particolare, ma quell’ennesima unione con uno “straniero” potrebbe essere letale per i genitori cattolici e gollisti. Tra le scene più comiche quella di fronte al presepe con il padre di famiglia Claude e i nipotini e quella dei tre generi che, con la mano sul petto, intonano l’inno nazionale francese davanti alla gongolante soddisfazione del suocero. L’appellativo del nuovo arrivato Charles ai suoceri suona bene non solo perché è un Film nome comunemente usato in Occidente, ma anche perché nel loro cuore gollista Tutti i film della stagione risuona il mito del presidente nazionalista Charles De Gaulle. Il vero scontro nasce in particolare contro l’ultimo genero, “lo straniero degli stranieri” che a causa della colonizzazione francese in Africa, non può essere considerato così integrato e avente pari dignità come un asiatico, un arabo o un ebreo. Christian Claver è fenomenale nel suo ruolo del signor Verneuil. Dopo L’Amour aux trousses (2005) e L’Élève Ducobu (2011), il regista francese Philippe de Chauveron torna a lavorare su una commedia. Il titolo originale Qu’est-ce qu’on a fait au Bon Dieu? con una traduzione letterale avrebbe sortito un effetto migliore anche il successo al botteghino di dodici milioni di spettatori sembrerebbe dire il contrario. Tra ironia, gag, battute, il film è una satira alla leggera contro i pregiudizi che in fondo tutti noi nutriamo contro lo straniero. Una commedia senza troppe pretese, dove la lotta al razzismo, non solo in Francia, non è ancora così scontata. Giulia Angelucci ROMEO & JULIET Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, 2013 Costumi: Carlo Poggioli Effetti: Ghost Sfx S.r.l., Leonardo Cruciano Workshop Interpreti: Douglas Booth (Romeo), Hailee Steinfeld (Giulietta), Ed Westwick (Tebaldo), Christian Cooke (Mercuzio), Paul Giamatti (Frate Lorenzo), Kodi Smit-McPhee (Benvolio), Lesley Manville (Nutrice), Tomas Arana (Montecchi), Laura Morante (Donna Montecchi), Damian Lewis (Capuleti), Natascha McElhone (Donna Capuleti), Tom Wisdom (Paride), Stellan Skarsgård (Principe Della Scala), Leon Vitali (Speziale), Nathalie Rapti Gomez (Rosalina), Anton Alexander (Abraham), Clive Riche (Pietro), Stefano Patti (Jack) Durata: 118’ Regia: Carlo Carlei Produzione: Amber Entertainment Uk, Swarovsky Entertainment, Echo Lake Entertainment, Indiana Production Italia, in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: Good Films Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015) Soggetto: dalla tragedia omonima di William Shakespeare Sceneggiatura: Julian Fellowes Direttore della fotografia: David Tattersall Montaggio: Peter Honess Musiche: Abel Korzeniowski Scenografia: Tonino Zera Verona due nobili famiglie, quella dei Montecchi e quella dei Capuleti, sono contrapposte da un odio profondo che va avanti da decenni e che il Principe Escalo, governatore della città, ormai fatica a tenere a bada. Un giorno, dopo l’ennesimo scontro per le vie della città a colpi di spade e insulti, il principe minaccia per entrambe le famiglie severe pene qualora vengano sorpresi nuovamente a creare sommosse. Lord Capuleti, intimorito dalla situazione, decide allora di dare una festa in maschera. A L’occasione è utile anche per cercare di far avvicinare la figlia adolescente Giulietta al giovane e rinomato Conte Paride, assieme al quale vorrebbe maritarla. Nel frattempo, nella casa rivale, il giovane Romeo soffre pene d’amore per la bella Rosalina, una cugina dei Capuleti, che non ricambia il suo affetto. Benvolio, suo cugino, percependo la sua sofferenza, gli consiglia allora di concentrare la sua attenzione su altre ragazze. Quella notte, insieme all’amico Mercuzio, riescono a intrufolarsi alla festa. Durante la serata, Ro- 24 meo vede Giulietta, che lo folgora all’istante con la sua semplicità e bellezza. Dal canto suo, anche la giovane rimane stupita dalla bellezza del ragazzo e i due, dopo aver ballato assieme, riescono ad appartarsi per qualche istante e si baciano. Nel frattempo, l’agguerrito Tebaldo, cugino di Giulietta, nota che Romeo è fra i partecipanti della festa e viene a stento trattenuto dallo zio Lord Capuleti. A festa conclusa, Romeo nascosto nel giardino dei Capuleti scambia con Giulietta un’eterna promessa d’amore. Il ragazzo giunta l’alba si Film reca dall’amico Frate Lorenzo, chiedendogli la sua disponibilità a sposarlo con Giulietta. Il frate, dopo un momento d’esitazione, finisce per accettare, ritenendo l’amore fra i due giovani un’ottima occasione per riconciliare le due famiglie. Romeo allora, dopo aver parlato con la balia personale di Giulietta, progetta il matrimonio per il pomeriggio stesso. Ottenuto perciò, con una scusa, il permesso di recarsi in chiesa, Giulietta corre da Frate Lorenzo, che sposa i due giovani. Qualche ora dopo il matrimonio, Tebaldo incontra Benvolio e Mercuzio per le strade della città. Dopo essersi stuzzicati a parole, Mercuzio, sguainata la spada, inizia a battersi con il rivale. Tebaldo però, più forte e bellicoso, lo uccide proprio mentre Romeo si frappone tra i due. Assistita alla morte dell’amico di sempre, Romeo, assetato di vendetta, inscena a sua volta un duello con Tebaldo e alla fine lo uccide. Il principe decide di esiliare Romeo a Mantova. Nel frattempo, Lord Capuleti riceve presso la sua dimora il Conte Paride, assieme al quale fissa la data del matrimonio con la figlia. Quella stessa sera, Romeo trascorre con Giulietta l’ultima notte di passione prima di darsi l’addio. Più tardi, venuta a sapere delle intenzioni del padre, Giulietta si ribella alla decisione del genitore, che minaccia di ripudiarla come figlia qualora lei non obbedisse al suo volere. La ragazza allora, disperata, si reca da Frate Lorenzo, al quale confessa piani suicidi. Per impedire ciò, il frate le suggerisce invece d’ingerire un liquido che le provochi uno stato di morte apparente, proprio nel giorno fissato per le nozze con il Conte. Avrebbe poi mandato un messaggio a Romeo che lo avvisasse della situazione, in modo da farglielo trovare nella tomba di famiglia dei Capuleti al suo risveglio, per poi fuggire a Mantova con lui. Giulietta, felice della proposta, torna a casa, chiede perdono al padre e la sera, ritiratasi a letto, ingerisce il liquido. Il clima di festa si trasforma l’indomani in lutto. Durante il tragitto, Benvolio assiste alla scena e, preso un cavallo, corre a Mantova Tutti i film della stagione per avvertire il cugino. Romeo, straziato dal dolore, si reca da uno speziale, dove acquista un potente veleno, poi parte alla volta di Verona per uccidersi sulla tomba dell’amata. Nel frattempo, il messaggero al quale Frate Lorenzo aveva affidato il compito di avvertire il giovane del suo piano, viene trattenuto per caso e quando arriva a Mantova, gli viene detto che Romeo è già partito. Giunto a Verona, Romeo si reca nella cappella di famiglia dei Capuleti e dopo aver baciato per l’ultima volta la sua amata, ingerisce il veleno, ma proprio in quel momento Giulietta si risveglia, assistendo alla morte dello sposo. Addolorata, si uccide anch’essa, pugnalandosi al petto con il pugnale di Romeo. Scoperta la situazione e venuti a conoscenza della loro sofferta storia d’amore, le due famiglie pongono fine per sempre alla loro rivalità. ealizzare un adattamento cinematografico del Romeo e Giulietta shakespeariano, dopo che molti ci hanno già provato, non è cosa semplice. Carlo Carlei con Romeo&Juliet si accinge nell’impresa, inducendo subito un confronto con l’ultimo Romeo+Juliet di Baz Luhrmann. Ogni volta che ci si trova di fronte a una nuova versione per il cinema di un classico del genere è inevitabile domandarsi da dove venga il desiderio di riproporre una storia così tante volte raccontata, cosa possa mai aggiungere alla lettura di una delle più struggenti e tristi storie d’amore, soprattutto avendo come capostipite e modello il capolavoro di Franco Zeffirelli. Nella versione di Carlei, scritta da Julian Fellowes, non c’è una particolare rilettura, come quella estrema invece di Baz Luhrmann. Siamo piuttosto di fronte a una versione classica, che alterna elementi gotici e fantasy. Allora si può pensare alla voglia di proporre un film che avvicini gli adolescenti a questa storia, che racconta come l’amore giovanile possa essere vissuto in maniera totalizzante e assolutista. Certo Romeo&Juliet attinge anche a molto altro: da un’estetica che richiama Twilight, in particolare nelle R 25 scene di duello e nella scelta di alcuni membri del cast, alla pittura italiana e messinscena operistica, ambientata all’interno di sontuose scenografie. Nella sua impostazione classica, così come nella scelta di utilizzare le esatte parole di Shakespeare, Carlei compie una operazione filologicamente corretta, priva di eccessivi manierismi e di sfoggi di bravura. Dunque la sua versione della storia è teneramente rispettosa, sia del testo che della ricchezza iconografica del paese da cui il regista proviene. La confezione del film è sicuramente affascinante, dalle location tutte realmente italiane ai costumi, alle musiche e visivamente ricco anche per la licenza poetica che ha fatto spostare l’ambientazione dall’ultimo Medioevo al più ricco Rinascimento. La sceneggiatura affidata a Julian Fellowes, che ha raccontato tante volte le vicende della società britannica di inizio ’900, ha provato a semplificare il testo, tagliandone parti e semplificandoammodernando la storia tradizionale. Tuttavia il risultato finale risulta povero di energia. L’insistenza, poi, di alcuni ralenti a sottolineare i momenti emotivamente più forti, oppure il soffermarsi del montaggio sui primi piani degli attori per acuirne i sentimenti, sono mezzi che a livello narrativo non servono e si svelano invece come semplici artificiosità. Lo stesso vale per le musiche belle a tratti, ma per la maggior parte del tempo ridondanti. Il cast, seppure formato da alcuni nomi di rilievo, non viene sfruttato al meglio. Le scelte risultano poco equilibrate: se da un lato Douglas Booth, nei panni di Romeo, sembra più adatto a un altro genere di film, Hailee Steinfeld, nel ruolo di Giulietta, selezionata soprattutto per il suo aspetto di adolescente, non trasmette il giusto carisma. L’unico forse a regalare al pubblico un’interpretazione degna di nota è il caratterista Paul Giamatti, che interpreta Frate Lorenzo. Una nota di merito va a Kodi Smit-Mcphee nel ruolo di Benvolio: il giovanissimo attore, nel film simbolo dell’innocenza contro l’arroganza e l’egoismo altrui, rivela una sensibilità e un talento notevoli. Veronica Barteri Film Tutti i film della stagione FINO A QUI TUTTO BENE Italia, 2014 Regia: Roan Johnson Produzione: Roan Johnson in collaborazione con gli autori, gli attori e la troupe del film Distribuzione: Microcinema Prima: (Roma 19-3-2015; Milano 19-3-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Ottavia Madeddu, Roan Johnson Direttore della fotografia: Davide Manca Montaggio: Paolo Landolfi, Davide Vizzini V incenzo, Paolo, Ilaria, Andrea e Francesca sono cinque giovani che devono lasciare l’appartamento che hanno condiviso a Pisa, durante gli studi. Paolo Cioni, l’elemento più stralunato e naif del gruppo, che si avvia a rientrare a casa dai genitori. Ilaria, una sessualità disinibita che le porta una gravidanza non voluta con un uomo sposato e un probabile ritorno a Frosinone dalla famiglia. Andrea che c’ha provato col teatro, ma tutto ciò che ha raccolto è una ragazza che è scappata con un tizio più talentuoso ed è diventata famosa sfondando nelle serie televisive. Vincenzo, laureato in vulcanologia, destinato a raccogliere l’offerta di una cattedra da professore associato in Islanda; la sua fidanzata Francesca, che non condivide la scelta, ma continua a sperare in una carriera teatrale nel gruppo “I poveri illusi”, insieme ad Andrea. Su tutto aleggia la presenza discreta di Michele, loro amico ed ex inquilino, morto in un incidente stradale, che cela un suicidio per loro ancora indecifrabile. Ognuno di loro con i suoi problemi affronta l’imminente distacco con non poca sofferenza. Ciascuno la manifesta e la vive a proprio modo. Vincenzo e Francesca sono a un punto critico della loro relazione, quando si rendono conto che le rispettive priorità non convergono e allora la sola voglia di stare insieme non è abbastanza. Vincenzo non vuole rinunciare alla possibilità di carriera universitaria. D’altronde Francesca avrebbe difficoltà nel seguirlo in Islanda. Andrea, rivedendo la sua ex Marta ha la tentazione di tornare sui suoi passi. La ragazza gli vuole ancora bene, ma la rabbia e il dolore che ancora lo pervadono lo bloccano in un’armatura di orgoglio immobilizzante. Disprezza quello che per lui assomiglia a un affetto caritatevole da parte di lei, non ammette Musiche: I Gatti Mézzi Scenografia: Rincen Caravacci Costumi: Rincen Caravacci Interpreti: Alessio Vassallo (Vincenzo), Paolo Cioni (Paolo), Silvia D’Amico (Ilaria), Guglielmo Favilla (Andrea), Melissa Anna Bartolini (Francesca), Isabella Ragonese (Marta), Paolo Giommarelli (Professore), Marco Testi (Bernardini), Milvia Marigliano (Madre di Ilaria), Mario Balsamo (Padre di Ilaria) Durata: 80’ la sua invidia e, allo stesso tempo, sminuisce se stesso e ciò in cui ha sempre creduto. Ma in cuor suo sente di aver fallito. Ilaria è incinta di un padre che non ne vuole sapere di fare il padre, prova a vendicarsi, ma anche lei non è esattamente una vittima, perché ha avuto una sessualità vivace. Confessa tramite Skype ai suoi genitori la gravidanza, inventando la morte del padre del bambino. Paolo, che sembra il meno problematico, dà per lo più l’idea di aver interiorizzato il suo malessere, cercando sempre di accontentare tutti. Tuttavia, in lui c’è l’interesse mai confessato per Ilaria, che viene allo scoperto quando le propone di andare a vivere con lui e la sua famiglia. Quando è arrivato il momento dei saluti, il gruppo decide di andare a fare l’ultimo bagno al mare. Peccato che appena lo hanno raggiunto su un’improbabile barchetta a motore rimangono senza benzina. ino a qui tutto bene è il secondo lungometraggio di Roan Johnson, dopo I primi della lista. Presentato al Festival di Roma è stato ben accolto dal pubblico e si è aggiudicato il Premio del Pubblico e il Premio Signis. L’idea nasce da un documentario girato con la collaborazione dell’Università di Pisa, che aveva come oggetto una serie di interviste ad alcuni studenti fuorisede. L’incontro con queste realtà si è rivelato così fecondo da ispirare un vero e proprio film, la cui sceneggiatura infatti è in parte composta da vicende realmente accadute. La pellicola scritta e diretta dal regista è stata realizzata con il meccanismo produttivo The CoProducers: un atto di coraggio partecipato, in cui attori e tecnici non sono stati pagati, ma parteciperanno percentualmente agli incassi e alle altre entrate. Un film sull’amicizia realizzato grazie ad amici del regista, (Guglielmo Favilla, Alessio Vassallo, Melis- F 26 sa Bartolini, Silvia D’Amico e Paolo Cioni), alcuni professionisti del settore (Isabella Aragonese), altri alle prime armi. Gli attori dormivano nella casa in cui viene girato il film - spiega il regista- indossavano i loro veri vestiti, le stanze erano le loro, così che tutto sembrasse più naturale e spontaneo. Fino a qui tutto bene non è uno di quei film che sorprende, né lascia il segno. Si tratta comunque di una commedia, sì piacevole, ma semplice e dagli sviluppi già visti. Ma a consentirle di elevarsi rispetto agli standard delle altre pellicole italiane alla Moccia, è il tono assolutamente fresco e disincantato in cui il giovane regista avvolge il racconto. Le vicende degli ultimi tre giorni di convivenza di cinque giovani coinquilini in un appartamento di Pisa, sono infatti rappresentate senza iperboli, esagerazioni, scelte narrative che trascendano la dimensione del possibile. Sebbene vengano utilizzati comunque gli stereotipi, tuttavia sullo schermo sono resi in maniera verosimile e si riflette sulle incertezze dell’Italia di oggi. C’è una forte adesione al reale quanto agli aspetti pratici della convivenza studentesca: la “pasta al nulla”, le muffe nel frigo, gli alcolici al risparmio, la piscina per bambini sul tetto della città e l’illusione di una festa infinita, i calcoli di divisione delle bollette telefoniche. Tutto vero e ben reso, grazie anche al carattere anarchico e modesto del copione e alle origini del progetto. Si parla delle incertezze e sensazioni contrastanti che si provano una volta messi di fronte a delle scelte. Prendere decisioni è difficile, ma non prenderne è decisamente peggio, vittime di una perenne sindrome di Peter Pan, mentre ci si crogiola in quel limbo tra fine studio e inizio lavoro, che da sempre è momento critico della vita. C’è un disorientamento felice e anche un po’ incosciente, come se una sorta di liquido amniotico avesse protetto i cinque ragazzi Film fino ad allora da tutto, ma manca la profondità drammatica: nella riflessione sulla morte dell’amico, nella condivisione della gravidanza di Ilaria, nella fine della storia tra Vincenzo e Francesca. Invece viene data molta più importanza a gag leggere e superficiali, come quella del furto dell’ar- Tutti i film della stagione genteria, la scommessa dell’anguria, la doccia tutti insieme o le corse tra i girasoli al tramonto. La regia ha prediletto le situazioni più accattivanti e cameratesche, dai colori accesi e dalle musiche alternative. Dunque un film che dall’inizio alla fine non mostra di avere pretese, né dà l’impres- sione di sapere come finire. Così come non lo sanno i suoi protagonisti, che nel finale, nonostante la situazione paradossale, nell’incertezza decidono comunque di continuare a remare. Veronica Barteri FOCUS – NIENTE È COME PRIMA (Focus) Stati Uniti, 2015 Effetti: Method Studios Interpreti: Will Smith (Nicky), Margot Robbie (Jess), Rodrigo Santoro (Garriga), Gerald McRaney (Owens), BD Wong (Liyuan), Adrian Martinez (Farhad), Robert Taylor (McEwen), Stephanie Honoré (Janice), Griff Furst (Gareth), Dominic Fumusa (Jared), Brennan Brown (Horst), Dotan Bonen (Gordon), Antonella Macchi (Apollonia), Cacilie Hughes (Jenny), Juan Minujín (Marcelo), Apollo Robbins (Apollo) Durata: 105’ Regia: Glenn Ficarra, John Requa Produzione: Di Novi Pictures, Zaftig Films Distribuzione: Warner Bros. Prima: (Roma 5-3-2015; Milano 5-3-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Glenn Ficarra, John Requa Direttore della fotografia: Xavier Pérez Grobet Montaggio: Jan Kovac Musiche: Nick Urata Scenografia: Beth Mickle Costumi: Dayna Pink N icky Spurgeon è un esperto nell’arte della truffa e del riciclaggio del denaro proveniente da furti e carte di credito clonate. Una sera, mentre si trova a cenare in un elegante ristorante newyorchese, fa la conoscenza casuale di una bellissima criminale alle prime armi, Jess Barrett. Nicky smaschera facilmente la ragazza, che tenta di truffarlo in modo maldestro con l’aiuto di un complice. Jess incontra di nuovo Nicky poche sere dopo e lo convince a diventare il suo mentore. Nick porta Jess a New Orleans dove cerca di insegnarle i trucchi del mestiere. Dopo aver dimostrato il suo valore in occasione di alcuni piccoli furti, la ragazza viene presentata ai collaboratori di Nick. Il rapporto tra i due diventa ben presto molto intimo. Durante una partita del campionato di football, Nicky e Jess coinvolgono in un gioco di scommesse dalle poste sempre più alte Liyuan Tse, un giocatore compulsivo. Grazie a una sottile opera di persuasione, i due riescono a vincere una grossa somma inducendo Tse a scegliere il numero di maglia di un giocatore che Jess riesce a indovinare. Dopo aver dato la sua parte di soldi a Jess, Nick la abbandona lasciandola con il cuore in frantumi. Tre anni dopo, i due si ritrovano a Buenos Aires grazie al miliardario Garriga proprietario di un team internazionale di auto da corsa. Nicky viene assunto da Garriga per aiutarlo a battere un team rivale, capitanato da McEwen, un uomo d’affari australiano. Nicky dovrà fingere di essere un tecnico insoddisfatto della scuderia di Garriga che dovrà vendere un componente contraffatto al team di McEwen per far rallentare la sua auto durante la gara. Durante un party prima della corsa, Nicky incontra Jess e con sua grande sorpresa scopre che è la fidanzata di Garriga. Nicky ha un duro confronto con Garriga in pubblico (una lite pianificata tra i due precedentemente): subito dopo viene avvicinato da Mc Ewan e assunto con il compito di fornirgli il componente in possesso della scuderia di Garriga. Nick comincia a seguire Jess per la città nel tentativo di riallacciare la loro relazione. Ma il capo della sicurezza del team di Garriga, Owens, sospettoso, pedina i due. Nicky consegna il componente a McEwen per tre milioni di euro, ma allo stesso tempo vende lo stesso strumento anche ad altre scuderie per elevate somme. Mentre aspetta Jess nella sua camera d’albergo, Nicky riceve un messaggio che gli dice che ora è in grave pericolo di vita e che deve partire al più presto. Nicky e Jess cercano di partire insieme per gli Stati Uniti ma trovano sulla loro strada Garriga e i suoi uomini che li catturano e li conducono a un magazzino abbandonato dove Nicky li supplica di risparmiare la ragazza. Nicky viene colpito da Garriga ed è seriamente ferito. Poco dopo, Jess confessa a Nicky che sedurre 27 Garriga era il suo piano per cercare di rubargli il suo prezioso orologio. Owens colpisce Nicky al torace convincendolo a partire. Subito dopo Owens rivela a Nicky di essere suo padre, Bucky, e rassicura Jess che ha evitato di colpire le sue arterie vitali. Bucky porta Nicky e Jess davanti a un ospedale per far si che la ferita di Nicky venga curata e si allontana col denaro del figlio, ricordandogli il prezzo da pagare se si perde la concentrazione. Rimasto solo con Jess, Nicky la sorprende rivelandole di aver rubato l’orologio di Garriga prima che l’uomo lasciasse il magazzino abbandonato. Nicky e Jess si avviano insieme verso l’ospedale. n professionista dell’imbroglio di grande fascino e una bellissima aspirante criminale, una coppia di grande appeal è al centro di Focus – Niente è come sembra, patinato gambler movie con una spolverata di romanticismo. Il focus del film è il cervello umano e le sue imprevedibili dinamiche. Forse non tutti sanno che, dal momento che il cervello di un uomo non può concentrarsi realmente su più di una cosa alla volta, esso crea delle scorciatoie che talvolta sono solo una forma di automazione di un processo decisionale. Sfruttare questa vulnerabilità è il pane quotidiano dei maghi della truffa, come Nicky, lo scaltro protagonista del film. “Si tratta di distrazione. Si tratta di concentrazione. Il cervello è lento e non può reagire velocemente. Colpisci in U Film quel momento, prendi in quel momento”. Questa è la sua filosofia. Fiducia e vulnerabilità, distrazione e concentrazione, induzione subliminale e presunta ingannevolezza: le premesse per uno svolgimento interessante c’erano tutte. Ma la tentazione romantica ha finito per prendere la mano del duo di registisceneggiatori Glen Ficarra e John Requa che si erano già esercitati sullo stesso argomento nel 2009 con Colpo di fulmine – Il mago della truffa, pellicola impreziosita dalla presenza del carismatico duo Jim Carrey-Ewan McGregor. Ma, questa volta, l’esito è un po’ diverso perché Focus (sottotitolo italiano Niente è come sembra) finisce per essere, più che una nuova storia alla Ocean’s Eleven, un puro prodotto commerciale basato sul fascino dei due protagonisti: un Will Smith, sempre più in forma ma poco incisivo e Tutti i film della stagione sempre uguale a se stesso, e la bionda rivelazione sexy Margot Robbie (che si è fatta notare accanto a Di Caprio in The Wolf of Wall Street). Locations di grande appeal (da una New York innevata, a una solare New Orleans, fino a una Buenos Aires sospesa tra antico e moderno), fotografia patinata, automobili e abiti da urlo (tutte le entrate in scena della protagonista sono delle vere sfilate di moda), nulla manca a una confezione fatta apposta per attrarre il grande pubblico e catturare anche le platee femminili (dando più spazio alla love story che ad adrenaliniche sequenze action). Il punto debole è la sceneggiatura che non regge oltre la prima mezz’ora, smarrendo il suo focus proprio nella seconda parte, dove, tra i box delle corse automobilistiche e i pittoreschi quartieri di Buenos Aires, la tensione e il ritmo calano vertiginosamente. E mentre l’arte del furto si fa sempre più glamour, il gioco delle false apparenze trascina lo spettatore in un finale dove gli inganni di truffatori e manipolatori vengono finalmente a galla. Peccato però che, quello che dovrebbe essere il colpo di scena decisivo, non sia un vero e fulmineo twist. Di un film non particolarmente memorabile, resta però una grande scena: il ripetuto gioco di scommesse tra il nostro Nick e un ricchissimo signore asiatico (e ti pareva!) durante una partita del Super Bowl a New Orleans all’interno di una skybox VIP, ovvero un’ala elegante e accessoriata dello stadio. Questa si che è una gara all’ultimo colpo dove depistaggi e condizionamenti mentali la fanno da padrone e dove realmente… niente è come sembra. Elena Bartoni LETTERE DI UNO SCONOSCIUTO (Gui lai) Cina, 2014 Regia: Zhang Yimou Produzione: Le Vision Pictures, in associazione con Wanda Media Co. Ltd., Edko Beijing FilmsLimited, Helichenguan International, Culture Media (Beijing) Co. Ltd., Zhejiang Huace Film&Tv Co. Ltd. Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 26-3-2015; Milano 26-3-2015) Soggetto: dal romanzo di Yan Geling Sceneggiatura: Zou Jingzhi C ina, anni 60/70 del secolo scorso. Mentre la Rivoluzione Culturale è ormai agli sgoccioli, Lu e Feng, marito e moglie, entrambi insegnanti, sono separati dai lunghi anni di prigionia di Lu, spedito ai campi di lavoro per non avere abbracciato completamente l’ortodossia maoista. Hanno una figlia adolescente, Dan Dan, perfettamente inserita invece, nelle idee e nei dettami del Partito, ben sapendo che solo così può puntare alla parte di protagonista nello spettacolo che sta preparando nella scuola di danza del regime. Accade che Lu scappi dal campo di prigionia e tenti di rivedere la moglie pur essendo in fuga e ricercato dalle guardie rosse; riesce, però, a lasciarle dei messaggi sotto la porta di casa per un appuntamento nei pressi della stazione ferroviaria. La figlia scopre il progetto e denuncia i genitori alle autorità del partito: all’ap- Direttore della fotografia: Zhao Xiaoding Montaggio: Meng Peicong, Mo Chaoxiang Musiche: Chen Qigang Scenografia: Lin Chaoxiang, Liu Jiang Interpreti: Gong Li (Feng Wanyu), Chen Daoming (Lu Yanshi), Zhang Huiwen (Dan Dan), Tao Guo (Direttore della squadra della propaganda), Liu Peiqi (Compagno Liu), Zu Feng (Istruttore Deng), Yan Ni (Direttrice Li) Durata: 111’ puntamento Lu è arrestato dalla milizia, mentre la moglie fa ritorno a casa sconvolta per sempre. Dan Dan non è in grado di godersi il frutto del suo tradimento perché la parte tanto ambita viene assegnata a un’altra danzatrice. Il periodo maoista è ormai finito, i prigionieri politici sono liberati e così Lu può tornare a casa anche se è una sorpesa amara ciò che trova: l’amatissima Feng non ricorda niente di lui, anzi lo scambia per un funzionario del partito che l’ha seviziata e quasi sicuramente violentata durante l’assenza del marito e lo caccia via. Anche la figlia non può nulla perché la madre non la vuole neanche vedere dopo il suo tradimento; Lu può solo informarsi meglio presso i neurologi più illuminati per cercare di capire la situazione e inventarsi tanti modi per stare vicino alla moglie senza che lei provi ulteriori turbamenti: può, ad esempio, rileggerle tutte le lettere che lui stesso le scriveva dalla prigione sui pezzi di carta più im28 provvisati; su uno di questi c’è una data, il 5 di un mese non identificato rappresentante il suo ritorno. Così la povera Feng ogni 5 del mese va alla stazione in attesa di qualcuno che non arriva e non riconosce il marito neanche quando lui il 5 di un certo mese fa il giro della stazione al contrario per farsi passare come un viaggiatore in arrivo. Ogni stimolo, ogni tentativo di Lu risulta inutile per fare ritornare la memoria alla moglie; neppure la melodia del pianoforte da lui ripreso a suonare e che a lei piaceva molto serve a qualcosa. Questa strana coppia (ma lui vive da solo in un magazzino della casa) non può fare altro che recarsi ogni 5 del mese alla stazione e aspettare nel freddo e nella neve qualcuno che non arriverà mai. l regista Zhang Yimou che negli scorsi anni ‘80 e ‘90 ha affermato il nuovo cinema cinese nel mondo portandolo fuori dagli stereotipi fumettistici in cui I Film era relegato, si affida ora a quel potente motore di storie letterarie e di immagini filmiche che è la memoria e le devastanti conseguenze della sua scomparsa. Proprio da poco abbiamo visto Still Alice che ci ha condotto per mano, gradino dopo gradino negli oscuri e dolorosi labirinti dell’Alzheimer; qui ci troviamo di fronte a un impatto ancora più violento che si dilata a occupare un disagio oltre il personale appartenente a un’intera comunità, a una nazione e conduce la direzione di Zhang Yimou lungo due aspetti, quello della poesia di una struggente storia d’amore e quello sociale. Al primo appartiene l’amnesia in cui la protagonista (ancora una splendida Gong Li, bellissima e profonda, a cui gli anni continuano a regalare un fascino e una sensibilità sempre più luminosi) si chiude, si costringe a chiudersi per mettere la parola fine al proprio dolore, alle sofferenze del passato nel considerare oltre ogni limite quello che ha sofferto, l’amore negato con il marito, la prigionia di lui, lo stupido tradimento politico della figlia: è bene chiudere definitivamente la porta, non pensare, non agire, non ricordare perché ricordare può significare unicamente soffrire. È vicino a questa scelta la compagnia amara e dolente, mesta e dolcissima del marito (ottima l’interpretazione di questo attore, Chen Daoming, noto, sembrerebbe, soprattutto per le serie televisive) che, pur di non scomparire, si ritaglia un ruolo di angelo custode, sperando che questa Tutti i film della stagione sua assidua e testarda vicinanza possa un giorno far esplodere il miracolo del ricordo e della conoscenza. Non è tempo di miracoli questo e non sarebbero bastevoli per ciò che è accaduto in Cina: l’amnesia va oltre la difesa del proprio io e del proprio dolore per divenire l’autodifesa e l’abbraccio generazionale di un popolo intero che dimentica antiche ferite e traumi nascosti per costruire una nuova socialità, una speranza che appartenga esclusivamente e definitivamente all’oggi. Siamo convinti che non sia questa la strada giusta e che il passato non possa essere rimosso e che anzi sia capace, se non elaborato, di ritornare di colpo con fattezze mostruose. L’eliminazione del ricordo, rifugiarsi nel buio della mente nell’illusione che questo sbarri il passo al soffrire è un’illusione amarissima: per questo Zhang Yimou non ci dà un lieto fine ma la rappresentazione crudele e dolorosa di un’attesa senza soluzione. Quando, pare dire il regista, gli uomini e le donne di Cina saranno in grado di fare i conti con il passato lacerante di un intero periodo storico e accogliere, finalmente e sul serio, una vera riconsiderazione politica e sociale del dolore? Fabrizio Moresco SUITE FRANCESE (Suite Française) Francia, Gran Bretagna, Belgio, 2014 Regia: Saul Dibb Produzione: Qwerty Films, Eone, TF1 Films Production, Alliance Films, Momentum Pictures, Scope Pictures Distribuzione: Videa Prima: (Roma 12-3-2015; Milano 12-3-2015) Soggetto: dal romanzo omonimo di Irène Némirovsky Sceneggiatura: Saul Dibb, Matt Charman Direttore della fotografia: Eduard Grau Montaggio: Chris Dickens Musiche: Rael Jones Scenografia: Michael Carlin Costumi: Michael O’Connor Effetti: Benuts Interpreti: Michelle Williams (Lucile Angellier), Kristin Scott D urante la seconda guerra mondiale con l’occupazione tedesca della Francia, nella Thomas (Madame Angellier), Matthias Schoenaerts (Bruno von Falk), Sam Riley (Benoît Labarie), Ruth Wilson (Madeleine Labarie), Heino Ferch (Comandante), Tom Schilling (Kurt Bonnet), Harriet Walter (Viscontessa di Montmort), Alexandra Maria Lara (Leah), Clare Holman (Marthe), Margot Robbie (Céline Joseph), Lambert Wilson (Visconte di Montmort), Eileen Atkins (Denise Epstein), Deborah Findlay (Madame Joseph), Eric Godon (Monsieur Joseph), Simon Dutton (Maurice Michaud), Diana Kent (Madame Michaud), Juliet Howland (Madame Pericands), Nicolas Chagrin (Padre Bracelet), Niclas Rohrwacher (Jerome), Martin Swabey (Gustav), Luan Gummich (Florian), Tara Casey (Madame Goulot), Dominik Engel (Willy), Durata: 107’ cittadina di Bussy, Lucile Angellier attende in forzata compagnia della suocera, fredda e dispotica, le notizie del marito 29 prigioniero. Intanto la cittadina viene invasa dai soldati tedeschi, che prendono alloggio nelle le case degli abitanti. Nella Film villa di Madame Angellier, viene dislocato l’ufficiale Bruno Von Falk. L’uomo è un nazista atipico perché è gentile e sensibile, oltre che un talentuoso musicista. Tra il giovane ufficiale e Lucile, nonostante i primi momenti di diffidenza, si instaura un rapporto di confidenze e comprensione, supportato dall’amore per la musica. I due non osano però incontrarsi e parlarsi, anche perché la suocera tiranneggia Lucile e la costringe a non dare confidenza. La donna scopre da alcune lettere dei concittadini indirizzate all’ufficiale che il marito da anni la tradiva con un’altra donna e lo scandalo era sulla bocca di tutti. Lucile disperata cede così alla tentazione, baciando Bruno. Un ufficiale tedesco intanto approfitta della situazione e cerca di importunare Madeleine, una ragazza semplice sposata con Benoit. Sfuggito alla cattura quando era soldato al nord, Benoit si è fatto riformare e ora esercita il bracconaggio nel parco del visconte di Montmort, sindaco del paese. L’uomo lo deruba per interesse, ma anche perché gli rimprovera l’atteggiamento di collaborazionismo verso i tedeschi e la ricchezza spropositata che offende la miseria dei contadini e dei borghesi. La moglie del visconte scopre Benoit a rubare le galline e riferisce al marito di essere stata minacciata. Così parte un mandato di cattura e Benoit, in fuga, approfitta della colluttazione con i soldati per uccidere l’ufficiale tedesco che corteggia la moglie. Ora l’uomo è un ricercato su cui pende la pena di morte, per lui e per chi lo protegge. Si rifugia allora a casa Angellier, dove le due donne si ritrovano unite nel difenderlo dai tedeschi. Questo però rende più difficile la relazione tra Lucile e Bruno, che infatti non si spiega l’improvvisa freddezza di lei. Poiché Benoit non viene trovato, viene ucciso il visconte dallo stesso Bruno. Per celebrare la presa di Parigi il reggimento organizza una grande festa nel parco dei Montmort. Bruno tenta un ultimo corteggiamento più deciso, ma viene respinto. Lucile invece chiede all’uomo un permesso per recarsi a Parigi e portare segretamente Benoit al sicuro. Alla frontiera Benoit viene scoperto e vengono uccisi due soldati. Bruno copre la donna, assumendosi la responsabilità dell’accaduto e lasciandoli andare. uite Francese non commuove ed emoziona solo per la trama, ma soprattutto per il retroscena di questa pellicola, basata sull’omonimo romanzo di Irène Némirovsky, affermata scrittrice che morì nel 1942 ad Auschwitz. Irène, prima di essere catturata, consegnò il prezioso manoscritto alle figlie che l’hanno ignorato per sessant’anni, fino S Tutti i film della stagione a quando una di queste non cominciò a leggerlo e a trascriverlo. Fu così che decise di consegnare al mondo il romanzo incompiuto della madre che aveva redatto solo le prime due parti. Nonostante le sofferenze subite, la scrittrice ebraica confidò che ci potesse essere un briciolo di bontà nel cuore di ghiaccio dei nazisti e umanizzò il personaggio maschile, dandoci una preziosa lezione di vita che ritroviamo fedelmente nel film. La pellicola, non da meno, abbatte tutti gli stereotipi e ci consegna un’altra faccia della storia, quella poco divulgata, ma non per questo meno credibile. Il regista Saul Dibb e i suoi produttori hanno deciso però di girare in inglese, con interpreti inglesi, una storia pensata e scritta in francese da una scrittrice nata a Kiev, che aveva fatto della Francia la sua patria. Ed è proprio dei francesi che parla il romanzo, di ciò che la guerra ha fatto loro, descritto con minuzia, come in una commedia umana. Un film di indubbia forza narrativa in cui il dramma è addolcito da una colonna sonora che è quasi un personaggio, in quanto la musica costituisce lo squarcio attraverso cui i due protagonisti riescono a raggiungersi per la prima volta. Fuori prosegue la tragedia collettiva del conflitto bellico ma, in quell’abitazione, le note sono il loro rifugio e linguaggio, attraverso cui si riescono a toccare due anime in conflitto e lontane tra loro. Non c’è disonore più grande di quello di accompagnarsi al nemico, eppure il film ci mostra il punto di vista di alcune giovani donne che, rimaste sole, hanno bisogno di sentirsi ancora belle e amate. Lucile è quello che gli altri francesi non sono più: non è una delatrice, non è un’avida, né un’ingrata. È una donna che resta umana e anzi si prende, forse per la prima volta nella vita, ciò che desidera veramente. Le uniche persone con cui la protagonista e il suo tenente hanno qualcosa in comune, sono l’una per l’altro. Attorno la guerra ha rotto e corrotto. Il regista non stravolge il materiale di partenza e dunque non c’è troppo romanticismo in Suite Francese : l’amore non è felicità, ma solo l’ultimo rifugio della bellezza, in un mondo fatto di orrore e perdita della dignità. A sua volta, la bellezza della storia è nella serietà e nella solitudine di una donna, nella complicità di una musica che avvolge e rapisce. Un film che coinvolge ed emoziona, costruito dentro una cornice raffinata ed elegante, che non può lasciare indifferenti. Fino all’ultimo la macchina da presa, seguendo con ritmo cadenzato le vicende dei protagonisti, ci fa sperare nell’amore, visto come sentimento che può nobilitare anche un nazista. L’odio di una guerra che scompare in un uomo e una donna che si amano, all’interno di una piccola comunità dove tutto si amplifica. Gli abitanti dell’immaginaria Bussy, sono contraddittori nelle loro ipocrisie. I perbenisti fanno quasi più paura dei soldati, come la glaciale suocera di Lucile. Il personaggio, interpretato con maestria da Kristin Scott Thomas, incarna l’affarismo senza pietà della classe agiata, che approfitta dei disagi portati dall’occupazione tedesca. Anche i cittadini più poveri colgono l’occasione per dar fondo alla propria meschinità e cercano, attraverso i nazisti, di pareggiare vecchi conti in sospeso, avvalendosi di denunce anonime, o di difendere i propri diritti fino alla morte. A ogni modo, il bene e il male non abitano in un unico luogo e vengono tratteggiati in maniera diversa, in persone di entrambi gli schieramenti. Michelle Williams e Matthias Schoenaerts, interpreti di grande spessore e sensibilità, sono molto intensi e credibili nel ruolo di due amanti, che per destino hanno ruoli e principi morali inconciliabili. Un amore impossibile, che fa riflettere, incanta e scalda il cuore. Veronica Barteri POSTINO PAT – IL FILM (Postman Pat: The Movie) Gran Bretagna, 2014 Regia: Mike Disa Produzione: Classic Media, Rubicon Group Holding, Rgh Entertainment Distribuzione: Moviemax Prima: (Roma 1-1-2015; Milano 1-1-2015) Soggetto: dalla serie Tv “Il postino Pat” di Jon Cunliffe e Ivor Wood, Annika Bluhm, Kim Fuller Sceneggiatura: Nicole Dubuc Montaggio: Robert David Sanders Musiche: Rubert Gregson-Williams Scenografia: Richard Smitheman Durata: 88’ 30 Film P at Clifton, conosciuto come il Postino Pat, è un postino amichevole che è stato assegnato al villaggio di Greendale, nel nord dell’Inghilterra per anni. Vuole portare sua moglie Sara in luna di miele, seppur in ritardo, in Italia. Vorrebbe farlo grazie a un bonus del suo datore di lavoro, il servizio speciale di consegna (SDS), ma il nuovo capo, Edwin Carbunkle, ha cancellato tutti i bonus. Si prevede di rendere più efficiente il SDS, pensando un clima troppo disteso al lavoro sia solo una perdita di tempo. Quando Pat arriva a casa e cerca di raccontare a Sara l’accaduto, il figlio Julian mostra a Pat un talent show presentato da Simon Campanaccio, le cui prossime audizioni avverranno proprio a Greendale. Campanaccio conferma anche che la persona che vince il concorso otterrà una vacanza in Italia e un contratto discografico. Pat decide di prendere parte al concorso e, grazie alla sua voce, vince inaspettatamente il concorso. Pat arriva in finale, in una gara testa a testa con il vincitore di un’altra gara: Josh. Il suo manager, Wilf, tuttavia, è molto desideroso di assicurarsi che sia il suo cliente che vince a tutti i costi. L’Amministratore Delegato della SDS, Mr. Brown e Edwin Carbunkle, guardando la tv, pensano che vorrebbero utilizzare Pat in una campagna pubblicitaria. Carbunkle pensa inoltre che, poiché Pat sarà lontano per partecipare al concorso, si dovrà realizzare un robot identico a lui chiamato “Patbot 3000” e che farà le consegne al suo posto; il tutto di nascosto. Il Patbot comincia a lavorare, ma si comporta in modo strano e il popolo di Greendale inizia a lamentarsi. Sara e Julian stanno iniziando a preoccuparsi. Nel frattempo, l’amico Ben Taylor, il manager del SDS è licenziato da Carbunkle ed è convinto che Pat non lo vuole più, non rendendosi conto che Pat è un robot. Nel frattempo, anche Wilf cerca di fermare Pat, non rendendosi conto che Pat è un robot. Il vero Pat, intanto, si sente in colpa perché è lontano da casa. Alla fine, la gente di Greendale si rende conto che Edwin Carbunkle ha realizzato questi robot per cercare di conquistare il mondo. Nel corso della finale, Pat si sente sempre più preoccupato e colpevole e non ha voglia di cantare. Prima che possa salire sul palco, viene rapito e rinchiuso per ordine di Carbunkle. Nel frattempo, Jess, cerca di aiutare Pat a fuggire ma vengono inseguiti dai Patbots. Nel frattempo, sul palcoscenico, è salito un Patbot che canta al posto di Pat, all’insaputa del pubblico. Il vero Pat interviene e ferma i piani malvagi del signor Carbunkle, rivelando che Tutti i film della stagione la partecipazione al concorso è stata un grosso errore. Appena Carbunkle viene arrestato, tutto torna alla normalità. Pat canta un’ultima volta sul palco prima di tornare al suo lavoro di postino. Vince la vacanza in Italia, ma declina il contratto discografico: la sua vita è fare il postino. datto ai più piccoli. Postino Pat si rifà alla serie d’animazione omonima degli anni Ottanta, di stampo inglese. Realizzata in stop motion da John Cunliffe e Ivor Woodche, racconta in 13 episodi la storia di Pat, efficientissimo e affidabile postino della squadra di portalettere della SDS, Servizio Consegne Speciali. Gli episodi, ambientati nell’immaginaria località di seguivano le vicende di questo amichevole postino di campagna, sempre accompagnato nelle sue ‘missioni’ dal suo fedele amico felino di nome Jess. Adesso, per la regia di Mike Disa, Postino Pat diventa lungometraggio, grazie all’uso della computer grafica. L’obiettivo è di far tornare in auge certi valori, quali la dedizione al lavoro, la genuinità degli affetti familiari e l’amicizia. La storia racconta infatti di Pat, questa volta alla prese con un concorso televisivo, un talent che ricorda X Factor, che il postino vuole vincere a tutti i costi; il motivo, però, non è da ricercarsi nella fama o nei soldi, ma bensì nel deside- A rio di regalare alla moglie la tanto agognata e rimandata, luna di miele in Italia. Nel tentativo di raggiungere il suo obiettivo, Pat perderà di vista la presenza dei propri cari, moglie figlio e perfino il suo inseparabile gatto Jess, mentre, nel frattempo, i robot costruiti a sua immagine e somiglianza rischieranno di trasformare il rito cordiale e caloroso della consegna della posta in una fredda meccanica di crescente perdita del contatto umano. Il piccolo eroe messaggero riesce a far trionfare ancora una volta i valori del bene e della solidarietà e di un’idea di lavoro basata sulla passione e sulla voglia di partecipare al bene collettivo. Questa è la base del film, ma i più piccoli, davvero piccoli, apprezzeranno semplicemente il vedere il loro eroe su grande schermo, senza capirne in pieno le motivazioni. Magari i genitori potranno apprezzare lo sforzo e trovare simpatia in questo piccolo eroe. Pat, infatti, è l’eroe per antonomasia, che ricorda, molto alla lontana, il Capitan America dei cine comics; nessun’ombra lo pervade, il suo amico è un animale ed è dedito solo alla famiglia. Viene infine da chiedersi se dopo gli ultimi capolavori Pixar, i più piccoli possano davvero rimanere affascinati da semplice computer grafica e sentimenti a buon mercato. Elena Mandolini THE WATER DIVINER (The Water Diviner) Stati Uniti, Australia, 2014 Regia: Russell Crowe Produzione: Fear of God Films, Hopscotch Features, Ratpac Entertainment, Seven Group Holdings, Seven West Media Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma 8-1-2015; Milano 8-1-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Andrew Knight, Andrew Anastasios Direttore della fotografia: Andrew Lesnie Montaggio: Matt Villa Musiche: David Hirschfelder Scenografia: Chris Kennedy Costumi: Tess Schofield Interpreti: Russell Crowe (Joshua Connor), Olga Kurylenko (Ayshe), Yilmaz Erdogan (Maggiore Hasan), Cem Yilmaz (Sergente Jemal), Jai Courtney (Colonnello Cyril Hughes), Ryan Corr (Arthur Connor), Ben O’Toole (Henry Connor), James Fraser (Edward), Steve Bastoni (Omer), Dylan Georgiades (Orhan), Isabel Lucas (Natalia), Jacqueline McKenzie (Eliza), Damon Herriman (Padre McIntyre), Megan Gale (Fatma), Michael Dorman (Greeves), Dan Wyllie (Capitano Charles Brindley), Salih Kalyon (Dott. Ibrahim), Christopher Sommers (Sergente Tucker), Benedict Hardie (Dawson) Durata: 111’ 31 Film J oshua Connor è un agricoltore australiano che gestisce la sua fattoria con moglie e figli superando le avversità del deserto con le sue capacità di rabdomante, che gli consentono di trovare l’acqua nei luoghi più impensati. Purtroppo siamo nel 1915, il primo anno della grande guerra che vede l’avvio delle operazioni sulla costa turca del Mediterraneo: gli alleati decidono uno sbarco massiccio nei pressi dei Dardanelli, a Gallipoli, per spezzare da quel lato il fronte degli imperi centrali e potere ripristinare le comunicazioni con l’impero russo attraverso il mar Nero. A questa campagna aderiscono con l’entusiasmo e l’ardore della giovinezza i tre figli di Joshua, mentre Gallipoli si rivela presto un disastro: lo sbarco mal gestito e mal coordinato tra i comandi trasforma le spiagge turche in un mattatoio per le truppe alleate, soprattutto per gli australiani che gettano nel massacro numerosi loro reparti. A questi appartengono i tre ragazzi di Joshua, di cui non si hanno più notizie fin dallo sbarco, se non che siano, molto probabilmente, morti. La moglie di Joshua, sopraffatta dal dolore, dopo qualche tempo si uccide; lui decide di andare a Gallipoli (siamo nel 1919) per riportare i tre figli, in qualche modo, a casa. Il tentativo si rivela presto impossibile: nella zona sta operando un comando alleato che con la collaborazione degli ex nemici turchi cerca di dare un nome e una tomba alle migliaia di morti che giacciono sotto quelle terre insanguinate e quindi impedisce a chiunque di avvicinarsi. La profonda umanità di Joshua e il suo compito pietoso gli permette di trovare aiuto in due persone: la bella Ayshe che gestisce a Istanbul un piccolo albergo dove l’australiano inizialmente si ferma e che gli indica i modi per raggiungere Gallipoli e un ufficiale turco, Hasan, che, pur inizialmente senza speranza alcuna di successo, aiuta Joshua nelle sue ricerche. Le capacità sensitive dell’australiano invece gli permettono di individuare i resti di due dei suoi ragazzi mentre del terzo non c’è traccia. Hasan racconta che i sopravvissuti del massacro furono avviati dopo quei giorni terribili verso una zona dell’Anatolia dove lui stesso deve dirigersi per partecipare alla nuova guerra contro i greci: il movimento nazionalista sta organizzando sotto la guida del generale Mustafà Kemal (poi Ataturk, Padre della Patria, primo presidente repubblicano) un nuovo esercito che possa liberare definitivamente il Paese dagli invasori Tutti i film della stagione e dare inizio alla modernizzazione del nuovo corso politico. In un paese dell’Anatolia, già assediato dalle prime forze dell’esercito greco, Joshua ritrova il figlio più grande, Arthur, ai limiti della follia e del dolore per non avere saputo proteggere i fratelli, autoconfinatosi in una chiesa diroccata a restaurare icone. Passati i primi momenti di gioia per il padre e il figlio che si ritrovano, è tempo per loro di fuggire in quanto i greci stanno radendo al suolo la zona e si stanno avvicinando. Joshua e Arthur si gettano in un torrente che li scaraventa in un corso d’acqua più regolare e da lì raggiungono fortunosamente Istanbul e l’albergo conosciuto all’inizio. È lecito ipotizzare per i due un futuro in Turchia, vedendo l’interesse di Ayshe per Joshua e quello di una giovane amica per Arthur. ussel Crowe non poteva non dedicare il suo esordio nella regia a un’impresa epica che resta nella storia dell’Australia (suo Paese d’origine) per il valore dimostrato a caro prezzo su di un campo di battaglia e come espressione della forza dei sentimenti di una pur giovane nazione. Crowe pesca a piene mani nella grandezza etica di una disfatta che si trasfigura nella vittoria morale di un intero esercito e quindi di un intero Paese per realizzare una composizione di grande spessore, ricca (probabilmente troppo) dei tanti elementi che hanno sempre composto il cinema a cui ha partecipato come attore: la romanticità della trama, la cornice rurale, possente nel raccontare il braccio di ferro tra l’uomo e la natura, la forte coesione data dagli affetti familiari, la rigenerazione del dolore di fronte al campo di battaglia e poi gli scontri militari, R il rapporto con la nobiltà del nemico e lo scontro di culture e, per finire, l’attrazione e l’amore che si intravedono, reali, a sfidare le guerre e gli odi, beneauguranti per il futuro. A questa base, già robusta di suo, Crowe aggiunge un forte sentimento di pietas che abbraccia il reciproco amore del padre verso i figli, il ricordo della moglie e il rispetto per la popolazione una volta nemica e per qualsiasi espressione sociale, storica, culturale che non gli appartenga e anzi possa sembrargli avversa. La materia è quindi tanta, evidentemente trattata da un regista ai suoi esordi che pure cerca di mettere a frutto quanto appreso dai grandi che lo hanno diretto a cominciare da Ridley Scott senza però avvicinarglisi troppo. Se una delle doti più peculiari del suo grande maestro è di trasformare il peso di un argomento in una personalissima e visionaria gestione della scena che conferisce al racconto un ampio respiro spettacolare che affascina e avvince, al discepolo Crowe tutto ciò è ancora mancante: solo diligente è la trattazione degli avvenimenti a cui tenta di dare agilità intervallando brani intimistici a scene di guerra semplicisticamente e ancora diligentemente filmate. Un romanzone quindi, ben inserito nelle panoramiche suggestive di un bellissimo Paese come la Turchia che forse sottolineano addirittura, anziché sostenerla, la debolezza di tutto il telaio narrativo. Probabilmente non si poteva chiedere di più a questo esordio; molto meglio Crowe attore che ancora una volta ci dà tutta la sua generosità di interprete nel costruire un gran personaggio emozionante, forte, virile, non privo di tenerezze e sfaccettature per una figura di eroica umanità che pare studiata proprio per lui. Fabrizio Moresco LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE (Kaguyahime no monogatari) Giappone, 2013 Regia: Isao Takahata Produzione: Studio Ghibli Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 3-11-2014; Milano 3-11-2014) Soggetto: dal racconto popolare giapponese “Storia di un tagliabambù” Sceneggiatura: Isao Takahata, Riko Sakaguchi Musiche: Joe Hisaishi Durata: 137’ 32 Film ntica fiaba giapponese. Un giorno, in una foresta, il tagliatore di bambù vede piombare giù dal cielo una luce incandescente. Nel punto in cui la luce colpisce il terreno, immediatamente cresce una pianta di bambù: il suo lucente germoglio, schiudendosi, partorisce una minuscola bambina vestita di tutto punto che subito cade in un sonno profondo senza proferire parola. Il vecchio la prende con sé e la porta a casa, dalla moglie. I due, che non hanno figli, decidono di tenerla e crescerla come se fosse loro. La piccola Principessa cresce a vista d’occhio: diventa neonato che gattona e poi subito bambina che muove i primi passi. Tanto che in pochi giorni inizia a giocare con la banda di mocciosi delle vicine campagne. Il tagliabambù poi fa un altro formidabile ritrovamento: dentro una canna che emana luce trova una riserva d’oro. Servirà a crescere degnamente la piccola venuta dal cielo. Principessa intanto – mentre seguita a crescere in modo prodigioso – stringe amicizia con i compagni di giochi e di scorribande nei campi e in particolare con Sutemaru, più grande e più coraggioso di tutti. Quando il tagliabambù, dentro un’altra canna nella foresta, trova abiti regali crede di comprendere che il cielo gli chiede di crescere la bambina come si conviene a una giovane di nobile stirpe. Così parte verso la capitale dove inizia a prepararle un palazzo e una corte che ne dovranno accogliere l’acconcio futuro. Presto arriva il giorno del trasferimento in città: Principessa, già adolescente, accetta a malincuore di lasciare casa sua e i suoi amici. Una volta a palazzo, inizia l’apprendistato da nobildonna sotto la guida della severissima Sagami. Nel piccolo giardino dietro al palazzo, la giovane inizia a costruire un modellino delle colline sulle quali ha passato l’infanzia. Il padre invita il vecchio Akita che lo aiuti, trovando un nome adatto alla figlia e introducendone la fama presso i nobiluomini, a garantire l’accettazione di Principessa presso la cerchia della nobiltà. Un banchetto lungo tre giorni e tre notti è organizzato per celebrare il suo nuovo nome “Principessa Splendente”: e proprio ascoltando i malevoli commenti e i volgari schiamazzi dei convitati che la A Tutti i film della stagione insultano e la dileggiano, la ragazza, esasperata, fugge come una furia verso le sue colline, verso la foresta, in cerca di Sutemaru, ma scopre che sono tutti partiti durante l’inverno. Al ritorno da quello che forse è stato solo un sogno, la giovane accetta di seguire fino in fondo la via che le si para davanti fino ad accogliere la schiera dei pretendenti che nel frattempo le abili parole di Akita le hanno ottenuto. A ognuno di loro Principessa, ormai donna, chiede di guadagnarle il tesoro leggendario al quale l’hanno vanagloriosamente comparata nei loro cerimoniosi complimenti. Il loro misero fallimento tuttavia non basta a garantirle un po’ di pace: stavolta è l’Imperatore in persona a chiederne la compagnia presso la sua corte. Tanta è la sofferenza e la disperazione per il dover sottostare alle regole di questa vita in cattività che Principessa scoppia nell’impeto di una preghiera invocando il ritorno al cielo che l’ha mandata sulla Terra. Inulte ogni ripensamento, inutile ogni contromisura materiale con le quali i due vecchi genitori tentano di opporsi al destino: la notte del 15 di agosto, dopo un breve e struggente incontro con il suo Sutemaru, ormai adulto e padre di un figlio, su una nuvola volante, la corte celeste che proviene direttamente dalla Luna scende a prendere Principessa, costringendole sulle spalle la veste dell’oblio. Tutto allora, in un momento rapido e improvviso, è già dimenticato. sce in Italia secondo la nuova formula dell’evento – appena un pugno di proiezioni nel giro d pochi giorni a prezzo maggiorato – il nuovo e forse ultimo lungometraggio dell’ottantente Isao Takahata. Cofondatore insieme a Hayao Miyazaki dell’ormai universalmente noto Studio Ghibli, Takahata ha finito la lavorazione del film a quattordici anni di distanza dall’uscita del precedente My Neighbours the Yamadas, dopo otto anni di lavorazione e molti lustri passati ad accarezzare l’idea di portare sul grande schermo uno dei classici della tradizione popolare giapponese, il racconto Taketori monogatari (Storia di un tagliabambù) o Kaguya-hime no monogatari (Storia della principessa Kaguya), in un film che forse chiuderà la sua carriera dopo l’addio E 33 alle armi dell’amico e collega Miyazaki e dopo l’inizio della crisi apparentemente irreversibile dello Studio Ghibli. Il film è un esemplare commistione tra la miglior tradizione grafica giapponese e alcune delle più nobili esperienze tra quelle degli animatori contemporanei occidentali. Declinando con maestria alcuni dei fondamenti della cultura e dell’arte giapponesi, Takahata nasconde dietro una apparenza essenziale e asciutta una raffinatezza e una ricchezza sublimi. Celebrando le vastissime possibilità del cinema d’animazione analogico, il film tesse la tela del racconto come un unico corpo scorrevole e organico al cui interno tuttavia ogni frammento – ogni scena, ogni singola inquadratura – ha la forza espressiva e l’autonomia semantica di un’immagine a sé stante, di un disegno sufficiente a se stesso. Se si interrompe lo scorrere del film in un momento qualsiasi – e in qualsiasi momento – quel che si scopre è la brillante bellezza finita di un singolo fotogramma che nulla sembra avere della parte, del frammento, della particella rotta e staccata da una tutto del quale ha bisogno per ritrovare il proprio significato. Takahata riesce a riprodurre sullo schermo l’universalità e la profondità dell’originale articolandone nel tempo e nello spazio dell’immagine in movimento tutta la nitida poesia proprio lavorando per sovrapposizione ed elisione: il bianco fa da base a un racconto visivo che di volta in volta si costruisce sull’accumulo nervoso del nero, sull’increspatura della piattezza per mezzo della giustapposizione di macchie ponderate di colore, o sulla creazione di spazi impalpabili e infiniti che si condensano intorno a una pioggia di tratti leggeri e veloci. Come accade solo con i grandi classici, non c’è un pubblico designato per godere e assaporare questo gioiello: in una fiaba che allude e in più punti mima il teatro, in cui tragedie e commedia coesistono felicemente, in cui al realismo e al naturalismo è fluidamente accostato l’astrattismo e la stilizzazione marcata, in questo racconto in cui si alternano meraviglia e orrore e tutto si riconcilia infine in una profonda e invincibile malinconia, nella storia della principessa splendente c’è tutto e vi si trova costruito con la grazia e l’accortezza che solo un maestro sa usare. Silvio Grasselli Film Tutti i film della stagione NESSUNO SI SALVA DA SOLO Italia, 2014 Regia: Sergio Castellitto Produzione: Benedetto Habib, Fabrizio Donvito, Marco Cohen, Mario Gianani, Lorenzo Mieli per Indiana Production, Wildside, Rai Cinema Distribuzione: Universal Pictures International Prima: (Roma 5-3-2015; Milano 5-3-2015) Soggetto: dal romanzo omonimo di Margaret Mazzantini Sceneggiatura: Margaret Mazzantini Direttore della fotografia: Gian Filippo Corticelli D elia e Gaetano sono stati sposati e hanno due figli, Cosmo e Nico. Da poco tempo vivono separati, lei ha tenuto la casa con i bambini, lui vive in un residence. Delia, che in passato ha sofferto di anoressia, è una nutrizionista e legge autori russi e giapponesi. Gaetano è un ragazzo di periferia che frequenta palestre di boxe, figlio di una coppia di Ostia semplice e ridente, con l’ambizione di diventare scrittore. Si sono conosciuti nello studio di Delia, dove Gaetano si è presentato per gonfiori allo stomaco. Dopo essere separati da tempo, si incontrano per una cena in un ristorante, durante la quale dovrebbero discutere di come far trascorrere l’estate ai bambini. Invece durante la serata ripercorrono la loro storia, dall’entusiasmo dei primi anni di vita in comune, ai primi problemi, fino alla separazione. Entrambi sono segnati dai difficili rapporti avuti con i genitori. Delia ha molto sofferto quando la madre, donna fortemente volitiva e narcisista, ha abbandonato lei e il padre e ha cominciato ad avere problemi con il cibo. Gaetano si è sempre sentito incompreso dal padre, sindacalista sessantottino, che non è riuscito a infondergli la giusta autostima. Il rapporto sembra felice fino alla nascita dei due figli, poi iniziano le prime incomprensioni. Gaetano è insoddisfatto del proprio lavoro di sceneggiatore televisivo, Delia soffre l’assenza del marito e la stanchezza nel gestire da sola i figli. I frequenti litigi hanno un influsso negativo anche sui bambini, in particolare su Cosmo, che diventa molto sensibile e insicuro. Tra le altre cose, Gaetano conosce Matilde, una donna piena di vita che presto si innamora sinceramente di lui. Gaetano si era ripromesso di non tradire mai Delia, ma i buoni propositi crollano immediatamente anche se l’uomo vive la relazione solo da un punto di vista fisico. Delia, i cui denti erano stati rovinati Montaggio: Chiara Vullo Musiche: Arturo Annecchino Scenografia: Luca Merlini Costumi: Patrizia Chericoni Interpreti: Riccardo Scamarcio (Gaetano), Jasmine Trinca (Delia), Anna Galiena (Viola), Marina Rocco (Matilde), Massimo Bonetti (Luigi), Massimo Ciavarro (Fulvio), Renato Marchetti (Giancarlo), Valentina Cenni (Micol), Eliana Miglio (Serena) Durata: 100’ dall’anoressia, si decide finalmente a rifarli, nonostante il dissenso di Gaetano. La donna però inaspettatamente rimane incinta del terzo figlio e per via delle numerose radiografie, per evitare pericoli di malformazioni, è costretta ad abortire. Quando Delia e Gaetano, esasperati dalle continue liti, decidono di separarsi, la vita continua a essere difficile per entrambi. Delia rischia di ricadere nell’anoressia ed è così nervosa che arriva a sfogare la sua ira contro Cosmo. Durante la cena, Gaetano cerca inutilmente di convincere Delia a dargli il permesso di frequentare la loro casa per rivedere i figli, ma lei teme che i bambini possano soffrire ancora, vedendo il padre allontanarsi nuovamente. I due cominciano a sfogare tutta la loro rabbia repressa, accusandosi e insultandosi a vicenda. Al termine della cena, la coppia viene avvicinata da due anziani che si trovavano a un tavolo vicino. L’uomo confida di essere malato di cancro e chiede ai due di pregare per lui. Gaetano accompagna a casa Delia e saluta i bambini che dormono. Lei lo segue con lo sguardo mentre si allontana, con un sorriso complice e carico di promesse. ome ogni opera siglata dalla coppia Castellitto-Mazzantini Nessuno si salva da solo non delude rispetto al romanzo. Che sia perché a lavorarci ci sia la stessa autrice, moglie del regista, o perché Castellitto sia più che esperto nel costruire psicodrammi umani, quello che resta all’uscita dalla sala è un retrogusto dolce-amaro in bocca. Raccontare una relazione che finisce può risultare retorico e banale, ma anche estremamente complesso. Soprattutto se quello in questione è un amore che non vuole terminare, che non sia arrende, nonostante le accuse, i tradimenti e le parole forti. Come si può dunque tradurre in immagini una vita vissuta insieme, con i suoi drammi e C 34 momenti felici? O si lavora di sottrazione e si lasciano molte cose nell’ombra, usando con sapienza allusioni e omissioni, luci e ombre, ma lasciando tutto alla lettura implicita e all’interpretazione soggettiva, o si sceglie di essere spietati e di fare della realtà la propria cifra stilistica. Regista e sceneggiatrice naturalmente scelgono di percorrere la seconda strada. Come se solo in questo modo i personaggi e forse gli spettatori, possano capire, magari espiare, o comunque affrontare il passato e l’eventuale futuro che quel passato contiene. È una scelta precisa, etica ed estetica, che, oltre a risultare scomoda, porta alla realizzazione di un cinema volutamente sgradevole, urlato, eccessivo. Un film in cui non esiste il non detto, tutto è messo in scena e contemporaneamente rivissuto. Nulla è lasciato all’interpretazione, ogni cosa è esplicita ed estremamente vera, come anche le scene di sesso. Inevitabilmente non è difficile sottrarsi alla catarsi. L’identificazione in questa coppia asimmetrica, come tante coppie in cui l’uno è l’opposto dell’altro e lo completa. Un uomo e una donna diversi, che nel loro rapporto coniugale rivivono i nodi e i conflitti della propria storia familiare, più o meno edipica. Lei oppressa da una madre presa solo da se stessa e dai suoi desideri, lui castrato da un padre insensibile ai suoi sogni. Quindi si fissa un appuntamento a cena per discutere dell’estate dei bambini. E in una sera si rivive la storia intera, grazie a un montaggio serrato, composto da lunghi flashback. Non è un cerchio perfetto quello che si traccia, ma un rapporto amoroso come tanti, fatto di mari calmi e tempeste. Aggravato dal segno dei tempi, quella sfiducia sociale ed economica che le generazioni di quarantenni oggi portano come fardello in dote. Un botta e risposta che fa emergere la difficoltà di una conquista che non è mai scontata: l’armonia di coppia e Film la condivisione. Catapultato nella vicenda, lo spettatore viene trascinato dai dialoghi incessanti dei personaggi, prendendo a volte le parti dell’uno a volte dell’altro. In fondo, non c’è nulla di eclatante e di nuovo, ma proprio per questo, forse, il tutto ha un sapore così familiare. Una regia scattante e dinamica, che accompagna un buon montaggio e un’accurata scelta delle musiche. Ma punto forte del film sono Tutti i film della stagione soprattutto le interpretazioni. Entrambi più che bravi Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca risultano assai al di sopra delle aspettative. Castellitto indaga i loro volti, li scruta e gli sta addosso con la macchina da presa. Il suo occhio è attirato dai corpi, dalle loro imperfezioni e dalla bellezza complessa, non classica, mai uguale a se stessa, ma che cambia, a seconda delle luci e dei punti di vista. La bravura degli attori e l’architettura dei personaggi permettono al film di far riflettere sui legami affettivi e su quanto, nel bene o nel male, non ci rendano mai completamente padroni del nostro destino. Come la frase pronunciata da un gran Roberto Vecchioni, nel suo significativo cammeo, a mo’ di grillo parlante: “Nessuno si salva da solo”. Veronica Barteri MORTDECAI (Mortdecai) Stati Uniti, 2015 Costumi: Ruth Myers Effetti: Prime Focus World, Mechanism Digital, Spin VFX, Zoic Studios, Encore Interpreti: Johnny Depp (Charlie Mortdecai), Gwyneth Paltrow (Johanna Mortdecai), Ewan McGregor (Alistair Martland), Olivia Munn (Georgina Krampf), Paul Bettany (Jock Strapp), Jeff Goldblum (Milton Krampf), Jonny Pasvolsky (Emil Strago), Michael Culkin (Sir Graham), Ulrich Thomsen (Romanov), Alec Utgoff (Dmitri), Rob de Groot (Vladimir), Guy Burnet (Maurice), Paul Whitehouse (Spinoza), Norma Atallah (Bronwen), Michael Byrne (Il Duca), Ricky Champ (Sergei), Colette O›Neil (La Duchessa) Durata: 107’ Regia: David Koepp Produzione: Christi Dembrowski, Johnny Depp, Andrew Lazar, Patrick McCormick, Gigi Pritzker per Infinitum Nihil, Mad Chance Productions, Oddlot Entertainmen Distribuzione: Adler Entertainment Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015) Soggetto: dal romanzo omonimo di Kyril Bonfiglioli Sceneggiatura: David Koepp, Eric Aroson Direttore della fotografia: Florian Hoffmeister Montaggio: Jill Savitt, Derek Ambrosi Musiche: Geoff Zanelli, Mark Ronson Scenografia: James Merifield M ercante d’arte e bon vivant, Mortdecai vive con la splendida moglie Johanna in una fastosa tenuta immersa nella campagna inglese. L’uomo, che non sempre adotta metodi limpidi e onesti nei confronti dei suoi clienti, ha un problema con la Regina, cui deve qualche milione di sterline di tasse. In più, da quando si è fatto cresce dei baffi importanti di cui va enormemente orgoglioso, la moglie lo disprezza. Il giorno in cui il servizio segreto inglese, nella persona del suo amico e rivale Alistar Martland, gli chiede aiuto per recuperare un Goya andato trafugato, Mortdecai accetta d’imbarcarsi nell’impresa nella speranza di estinguere il debito. Fra gli scagnozzi del boss criminale Emil Strago e quelli del signor Fang, c’è anche un cliente di Hong Kong rimasto “insoddisfatto” dall’ultimo affare concluso. Mortdecai dunque non sembra avere grandi vie d’uscita. Come se non bastasse, il goffo ispettore Martland, agente dell’MI5 da secoli innamorato di Johanna, è deciso ad arrestarlo per avere finalmente campo libero. Più di una volta, in realtà, Charlie sta per soccombere al nemico, cosa che puntualmente viene scongiurata dall’intervento di Jock, la sua fedele guardia del corpo, disposto a sacrificare la vita per lui. Mortdecai scopre che il quadro in realtà contiene il codice per accedere a un conto bancario in cui era stato depositato l’oro dei nazisti. Johanna diventa parte attiva dell’indagine e con il suo fascino corrompe facilmente sia l’ispettore che un anziano informatore che le dice dove si trova la preziosa tela. Dopo essere riusciti a impadronirsene, con non pochi inconvenienti, marito e moglie la metteranno all’asta facendo credere che sia sotto un altro quadro della famiglia Mortdecai di poco valore. La vendita riesce e con il ricavato in parte l’uomo salda i suoi debiti. Ma cosa più importante riesce a riconquistare anche con i baffi l’amore e l’ammirazione della sua Johanna. a pellicola Mortdecai è basata sulla serie di quattro romanzi di Kyril Bonfiglioli, pubblicati nel Regno Unito tra il 1972 ed il 1985, con protagonista Charlie Mortdecai. L’autore ha ottenuto molta fortuna nei paesi anglosassoni e, in occasione dell’uscita del film in Italia, è stato pubblicato il primo romanzo. David Koepp, prolifico sceneggiatore e regista porta in scena questa trasposizione fondendo commedia, spy story e umorismo brillante, ma non sempre ci riesce. Il film L 35 è un’alternanza di gag fisiche e siparietti comici, dove spiccano alcune battute più o meno riuscite e dialoghi dal ritmo serrato. Se Depp avesse abbandonato i panni del personaggio “alla Tim Burton” e si fosse calato in quelli di un gentiluomo inglese, il risultato sarebbe stato meno vistoso ma di maggiore efficacia. La regia si mette al servizio dell’azione rinunciando sin da subito a ogni sorta di virtuosismo, anche se in un paio di scene si possono notare delle sbavature. La storia si regge fondamentalmente sulle spalle del personaggio di Depp nonostante si rincoreranno numerosi momenti corali. Esempio di una sceneggiatura non particolarmente brillante, salvata, o quanto meno valorizzata, dalla prova di un gruppo di notevoli attori. È sicuramente un film leggero che regala tanti sorrisi e qualche risata, indicato soprattutto per coloro che apprezzano lo stile british. La musica si lega bene alla pellicola senza però poter essere considerata un valore aggiunto a differenza dei baffi del personaggio di Johnny Depp (il suo truccatore ha confidato “I baffi sono un personaggio del film”). Mortdecai è una (vera) commedia, piuttosto divertente e volontariamente old-fashioned, lontana dal baratro cinema- Film tografico in cui si era spinto The Tourist, appunto, ma altrettanto distante dalle parodie del genere Austin Power, a cui la campagna di promozione del film lo ha accostato. Il personaggio del protagonista sembra fatto apposta per la galleria di buffoni con stile che Depp ha inanellato negli ultimi anni, ma anziché lasciargli carta bianca e la possibilità di tornare ancora una volta al surrealismo di personaggi come Jack Sparrow, gli impone piacevolmente di aderire a un tipo di humour più codificato, inglese, forbito, iperbolico e non poco imbecille, che si è fatto sempre più raro nelle sue apparizioni cinematografiche. Eppure è chiaro che il divertimento, per chi sa e vuole trovarcelo, non nasce dal plot, che potrebbe essere quello di un episodio di un qualsiasi telefilm spycrime della fine degli anni Sessanta, ma dalla mascherata degli attori e, più in generale, dal loro divertito contributo alla Tutti i film della stagione farsa. Anche nella trasferta americana, infatti, che costituisce la parte in assoluto più debole del film, la presenza di Olivia Munn e Jeff Goldblum, calati nei personaggi meno finemente stereotipati, colma le lacune di sceneggiatura o, se non altro, offre un diversivo sufficiente a distrarci da esse. Siamo in presenza dell’intrattenimento puramente fine a se stesso. Johnny Depp fare ricorso a quel repertorio di smorfie, movenze e gesti già noti al grande pubblico, un repertorio del quale sembra fare un uso davvero esagerato e non sempre necessario. Più che humor inglese ed ironia, a prevalere è lo stile plateale di Depp, che in ogni sequenza cerca di riempire la scena con parole e sguardi fin troppo collaudati. Il personaggio di Jock, interpretato da Paul Bettany, riesce a smorzare i frequenti deliri di onnipotenza di Depp. Pur essendo anche questo un cliché di lunga data, il dualismo comico fra protagonista e spalla è forse uno degli aspetti maggiormente godibili del film. Taciturno nella vita di tutti i giorni ma in compenso molto attivo nella vita sessuale, Jock ha un self control davvero invidiabile: è infatti l’unica persona in grado di rispondere alle assurde pretese di Charlie con la gentilezza e l’aplomb di un vero maggiordomo inglese. Notevole e particolarmente azzeccata è anche Gwyneth Paltrow, perfetta nel ruolo di una serafica e manipolatrice moglie di potere. Ewan McGregor, attore esperto, è credibile nel rendere l’ispettore di polizia burbero col mondo eppure tenero amante raggirato dalla glaciale moglie di Mortdecai, anche se la sua entrata in scena stona con il ruolo che il suo personaggio assume nel proseguo della storia. Breve, intenso e assolutamente spassoso il breve ruolo che si ritaglia Jeff Goldblum sempre ironico ed elegante. Veronica Barteri WHIPLASH (Whiplash) Stai Uniti, 2014 Regia: Damien Chazelle Produzione: Bold Films, in coproduzione con Blumhouse Productions, Right of Way Films Distribuzione: Warner Bros. Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Damien Chazelle Direttore della fotografia: Sharone Meir Montaggio: Tom Cross Musiche: Justin Hurwitz Scenografia: Melanie Paizis-Jones U n giovanissimo musicista, il diciannovenne Andrew, coltiva il sogno di diventare uno dei migliori batteristi jazz della sua generazione. Studia al Conservatorio Shaffer di Manhattan, dove la concorrenza è spietata. Il ragazzo ha come obiettivo quello di entrare in una delle orchestre del Conservatorio diretta dall’inflessibile e severissimo professor Terence Fletcher. Quando viene a sorpresa scelto da Fletcher per la propria band come batterista di riserva, Andrew continua a esercitarsi senza sosta fino a procurarsi calli e lesioni sanguinanti alle mani. Nel frattempo Andrew conosce Nicole, una ragazza che vende popcorn nel cinema che frequenta abitualmente insieme al padre. Ma le lezioni con Fletcher mettono a dura prova Andrew che, per concentrarsi meglio sui Costumi: Lisa Norcia Effetti: Ingenuity Engine Interpreti: Miles Teller (Andrew Neiman), J.K. Simmons (Terence Fletcher), Melissa Benoist (Nicole), Paul Reiser (Jim, padre di Andrew), Austin Stowell (Ryan), Nate Lang (Carl), Chris Mulkey (Zio Frank), Damon Gupton (Sig. Kramer), Suanne Spoke (Zia Emma), Charlie Ian (Dustin), Jayson Blair (Travis), C.J. Vana (Metz), April Grace (Rachel Bornholdt), Henry G. Sanders (Red Henderson), Sam Campisi (Andrew a 8 anni) Durata: 105’ suoi studi, allontana Nicole dicendole di non volersi impegnare in una relazione seria con lei. La band di Fletcher si presenta a un concorso, Andrew è il batterista di riserva. Durante l’intervallo tra primo e secondo tempo, Andrew perde gli spartiti che il primo batterista, Tanner, gli aveva affidato. Il ragazzo va su tutte le furie perché non si ricorda la parte a memoria, quindi è costretto a farsi sostituire da Andrew che conosce a memoria la composizione che stanno suonando, “Whiplash”. L’esibizione è perfetta e la band ottiene il primo posto nella competizione. Andrew è ora il primo batterista ufficiale, ma Fletcher continua a rendergli la vita difficile chiamando un nuovo batterista, Connelly. Ora la concorrenza è spietata dal momento che c’è un solo 36 posto per tre. Alla fine di un estenuante provino, Andrew viene confermato come primo batterista per un concorso che si terrà fuori città. Per una serie di sfortunati contrattempi, Andrew si presenta all’ultimo momento, prima di salire sul palco. Avendo notato il ritardo del ragazzo che nella fretta si è dimenticato le bacchette in auto, Fletcher decide di far suonare Connelly. Andrew non ci sta, corre a recuperare le bacchette ma rimane chiuso fuori dall’auto e deve andare a cercare aiuto per farsi aprire. Durante il tragitto di ritorno, Andrew corre troppo e ha un brutto incidente in cui si ferisce a una mano. Nonostante il sangue e il dolore, il ragazzo si precipita sul palco e suona lo stesso. La performance non è delle migliori e Fletcher è costretto a chiedere scusa a nome del Conservato- Film rio Shaffer. Andrew lo aggredisce e lo insulta. Immediatamente Andrew si vede costretto a interrompere la sua carriera, la batteria viene chiusa in un armadio e lui sente di non avere più uno scopo. Il padre denuncia Fletcher per le molestie psicologiche inflitte a suo figlio, molestie che forse avevano causato il suicidio di un altro studente. Qualche tempo dopo, girando per New York, Andrew capita in un locale dove suona Fletcher. Parlando con lui, il ragazzo scopre che Fletcher è stato cacciato dallo Schaffer a causa di una lettera anonima. Fletcher gli rivela che comunque non si pente dei suoi metodi perché l’obiettivo è di tirare fuori il massimo dai suoi studenti; questo è quello che ha cercato di fare con lui. Poi lo invita a suonare a un Festival la settimana successiva: nella sua band manca un batterista e lui conosce bene il repertorio (tra cui i due cavalli di battaglia “Whiplash” e “Caravan”). Andrew decide di richiamare Nicole e la invita al Festival, ma la ragazza dice di essersi fidanzata con un altro. Il giorno dell’esibizione, Fletcher mette ancora alla prova Andrew. Prima di salire sul palco gli si avvicina e gli dice che sa benissimo che quella lettera che gli causò l’espulsione dallo Shaffer fu scritta da lui. Poi, sul palco annuncia un brano che Andrew non conosce per niente e che ovviamente il ragazzo suona malissimo. Dietro le quinte il padre cerca di consolarlo. Ma Andrew cerca la sua riscossa, sale sul palco mentre Fletcher sta per presentare un nuovo brano, inizia a suonare e la band lo segue: “Caravan” viene eseguito perfettamente. Alla fine Andrew continua a suonare anche quando il brano è finito esibendosi in un magistrale assolo. Fletcher si avvicina e lo accompagna con le mani. I due si fissano negli occhi. Tutti i film della stagione seconda di Damien Chazelle, regista appena trentenne che nel 2009 ha diretto Guy and Madeline on a Park Bench, raffinato esercizio di stile in bianco e nero costruito come una jazz session che aveva per protagonista un atro giovane musicista, un trombettista emergente, un film pieno di ricordi del cinema che fu. E anche in Whiplash c’è un bell’omaggio al cinema del passato in una scena in cui il protagonista Andrew va con suo padre in un cinema di New York dove proiettano Rififi, indimenticabile noir di Jules Dassin. Il clima si fa bello, le strade di New York sono mostrate al suono della musica jazz conferendo al film quella fascinosa atmosfera un po’ retrò, quasi ci si trovasse in un tempo sospeso tra passato e presente. La descrizione di un certo ambiente e di alcuni caratteri è perfetta, agevolata dal fatto che il regista ha un padre di origine francese e per di più vanta un passato da studente di batteria jazz. Ma qui i diversi richiami autobiografici (Chazelle ha definito il film “un diario della mia esperienza” e ha raccontato di avere avuto un insegnante da incubo come Fletcher) si fermano, per superare se stessi in una parabola su temi come la solitudine dell’artista, le sue responsabilità, la dura legge della competitività. L’omaggio al mito di Charlie Parker è evidente in una delle scene più forti del film che riprende un famoso e vecchio aneddoto quando un sedicenne Parker provò a suonare con l’orchestra di Count Basie e, sbagliato un passaggio, si vide scaraventare addosso un piatto lanciato dal batterista Jo Jones. E in Whiplash il paradosso del jazz viene magistralmente espresso in un via vai di sessioni, prove, giochi al massacro. Come hiplash ovvero ‘colpo di frusta’, letteralmente. Ed è questa la prima impressione suscitata dalla visione del film, un colpo di frusta schioccato davanti allo spettatore. Il percorso di studi musicali del protagonista, scelto come allievo da un ‘cattivo maestro’, si trasforma ben presto in un inferno di prove, umiliazioni, esercizi durissimi e interminabili. Agli standard elevatissimi, al limite della perfezione assoluta, richiesti dal professore, l’allievo risponde con sudore, lacrime, sangue. Tanto sangue, tra le mani, sui piatti della sua batteria, nell’anima. Nato come corto e poi trasformato in lungometraggio, Whiplash è l’opera W 37 ha giustamente sottolineato Chazelle “Il jazz è sempre stato visto come una forma d’arte libera, totalmente improvvisata. Ma questo contrasta con le storie di direttori d’orchestra totalmente tiranni o di musicisti che si facevano le scarpe a vicenda”, un paradosso affascinante, stimolante, dall’alto valore simbolico. Il rapporto tra un allievo e un maestro, che da più parti si è accostato al Sergente Hartman di Full Metal Jacket di kubrickiana memoria, è fatto di un crescendo drammatico che ha il suo apice nelle dure violenze psicologiche e fisiche cui l’insegnante sottopone i suoi allievi: ma se questi modi poco ortodossi portano all’eccellenza, si può soprassedere dalla condanna? È qui la chiave di un perfetto equilibrio, man mano che il film procede, non si può fare a meno di distaccarsi anche dal protagonista: si capirà che non c’è nulla di eroico nel suo egocentrismo e nel suo progressivo alienarsi dai rapporti umani. No, le sue dita spaccate e sanguinanti e il suo sacrificio degli affetti, non portano lontano. E l’ammirazione fine a se stessa del virtuosismo portato all’eccesso è autocelebrazione pura, pagata col prezzo dell’isolamento. I due protagonisti rendono ancor più grande il lavoro di Chazelle. A svettare è l’interpretazione di J.K. Simmons nei panni del professor Fletcher: il suo cranio lucido, il suo fisico muscoloso, i suoi abiti neri, il suo sguardo gelido, le sue urla, tutto concorre a rendere sua prova perfetta. Ma anche il giovane Miles Teller non è da meno e la sequenza finale, dove il suo batterista si esibisce in un virtuosistico assolo, è da antologia. Anche (e soprattutto) per chi non conosce bene il jazz. Film Un film orgogliosamente indipendente, girato al ritmo travolgente di una partitura (Whiplash è il titolo un pezzo suonato dalla band nel film, copia sofisticata dello stile del batterista jazz Buddy Rich degli anni ’50, in realtà scritto da Justin Hurwitz curatore delle musiche di tutta la pellicola), raffinato outsider nella corsa agli Oscar Tutti i film della stagione e meritevole del massimo dei voti, già vincitore al Sundance Film Festival del Gran Premio della Giura e del Premio del Pubblico come Miglior Film Drammatico, oltre che del Golden Globe per il miglior attore non protagonista a J.K. Simmons. Whiplash ha poi ottenuto cinque nomination all’Oscar 2015 vincendo tre statuette tra cui quella per il miglior attore non protagonista al magnifico Simmons. Un film imperdibile. Un ‘colpo di frusta’ davanti a cui non si può rimanere indifferenti. Elena Bartoni MOMMY (Mommy) Francia, 2014 Regia: Xavier Dolan Produzione: Xavier Dolan, Nancy Grant per Metafilms Distribuzione: Good Films Prima: (Roma 4-12-2014; Milano 4-12-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Xavier Dolan Direttore della fotografia: André Turpin Montaggio: Xavier Dolan Musiche: Noia Q uebec, lo Stato ha approvato una controversa legge S-14, che consente ai parenti di minori difficili, in caso di emergenza, di effettuare un ricovero coatto presso un istituto psichiatrico, saltando la procedura legale. Diane è una madre vedova, una donna dal look aggressivo, ancora attraente, ma poco capace di gestire la propria vita. Ha infatti scarse capacità di autocontrollo e ne subisce le conseguenze. Suo figlio Steve è affetto da una forte iperattività e aggressività, peggiorata dopo la morte del padre, che lo rende spesso ingestibile in particolare se sotto stress, vittima di impennate di violenza incontrollabili, che lo fanno entrare e uscire da istituti. Cacciato dall’ultimo riformatorio, per aver appiccato un incendio durante il quale un ragazzo ha riportato dei danni, torna a vivere con la madre, che decide di dargli un’istruzione e farlo vivere con lei. Il loro ritrovarsi comporta la perdita del lavoro per Diane, che disperatamente per mantenere lei e il figlio inizia a cercare un’occupazione. Il suo rapporto con la madre è possessivo e marcatamente sessuale: i baci, i balli, le provocazioni verbali sono stimoli cui Diane si sottrae, ma non senza un certo compiacimento. In questo gioco, al limite del dramma, si inserisce la vicina Kyla, un’insegnante di scuola secondaria, che ha preso un anno sabbatico per curare una balbuzie invalidante, provocata da un grave ma ignoto episodio, accaduto due anni prima, probabilmente la morte Scenografia: Colombe Raby Costumi: Xavier Dolan, François Barbeau Interpreti: Antoine-Olivier Pilon (Steve O›Connor Després), Anne Dorval (Diane «Die» Després), Suzanne Clément (Kyla), Patrick Huard (Paul Béliveau), Alexandre Goyette (Patrick), Michele Lituac (Preside), Viviane Pacal (Marthe), Nathalie Hamel-Roy (Natacha) Durata: 139’ di un figlio. I tre tentano di stabilizzare la situazione: Kyla cerca di interessare Steve alle materie d’esame e lo intrattiene, mentre Diane va a lavorare come donna delle pulizie. La vita scorre e anche Steve sembra più calmo. Ma a complicare la situazione giunge una richiesta di risarcimento per i danni subiti dal ragazzo sfigurato da Steve: 250 mila dollari di cui nessuno dispone. Serve un avvocato e Diane lo trova: un corteggiatore che è ben felice di cogliere questo pretesto per invitarla a cena. La situazione non viene accettata da Steve, ma anzi suscita una violenta gelosia, che fa allontanare bruscamente anche il pretendente. Fino ad arrivare all’ennesimo atto estremo: Steve si taglia le vene con un taglierino tra gli scaffali di un supermercato. Sullo schermo intero scorrono le immagini del ragazzo che si diploma, trova la compagna ideale, la sposa, diventa padre e rende Diane felice. Ma è un sogno. In realtà la madre ha deciso di avvalersi dell’articolo S-14 procedendo, con grandissima pena, al ricovero coatto di Steve. La donna rimane sola, abbandonata anche da Kyla che si trasferisce con la famiglia. 25 anni Xavier Dolan firma il suo quinto film, Mommy, dedicato ancora una volta alla figura della madre, che presenta a Cannes, dove il giovane regista è stato premiato ex aequo con il maestro Godard. Intrappolati in un formato inusuale e claustrofobico, A 38 che prevede lo spazio per un’unica figura nel fotogramma, come in una gabbia, Dolan racconta di un figlio e una madre, cercando di cogliere l’intima complessità e delicatezza del rapporto. Dopo tre film che mettevano in contrasto madri disamorate con figli bisognosi di comprensione, ora avviene il contrario. Steve è un figlio assai poco gestibile, malato e bisognoso d’affetto, capace di distruggere tutto quel che gli è intorno e sua madre forse è il soggetto meno indicato per curarlo, perché è una donna incapace di gestire anche se stessa. Nella violenza che caratterizza il loro rapporto lentamente emerge una delle forme d’amore più genuino che si possa immaginare, comunicato senza nessuna sottigliezza, solo urlando e passando per furiose scenate. Mentre il mondo intorno a loro pensa che madre e figlio si odino, lo spettatore lentamente comprende che non è così, ma che anzi amarsi è ciò che sanno fare meglio, come dice la stessa Diane. Lei lo ama alla follia, lui ricambia. Edipici all’ennesima potenza, si insultano e si abbracciano, si stuzzicano e si giurano amore eterno, si picchiano e si perdonano. Il giovane regista immagina storie intense, che cercano il coinvolgimento, senza ricorrere al consueto, ma anzi stimolando curiosità nuove, completando l’opera con immagini che non hanno bisogno di spiegazioni. Steve che zittisce la madre mettendole una mano sulla bocca e poi bacia il dorso della mano messa tra le loro labbra è un’immagine di grande impatto emotivo, Film che senza particolari giri di parole spiega il loro rapporto, fatto di soprusi e violenza che rendono difficile comunicare amore. In un’epoca in cui i matricidi riempiono senza pietà le nostre cronache, viene rappresentata la figura di una madre che non è madre coraggio, né mamma chioccia. È una donna moderna che prova a prendersi le proprie responsabilità e vive un dilemma orribile, ma che alla fine si rende conto di non farcela. Si cercano sensazioni forti, ma senza indurre al pietismo per la disperata ricerca di felicità che anima le speranze dei personaggi. Ai tre protagonisti, chiusi ognuno a suo modo nel proprio guscio, non rimane che sognare la libertà e serenità di un proprio spazio vitale, metaforicamente di 16:9. Quegli eccessi, che all’inizio sembravano divertire, lentamente cambiano e si passa ad una sensazione di tristezza e compassione. La speranza di una catarsi finale è solo apparente, come il formato 1:1, tipico del ritratto fotografico, che rispecchia gli orizzonti confinati e ristretti dei suoi protagonisti, pronto a cambiare quando l’illusione di un avvenire migliore si fa avanti. Ambientando la storia in un futuro a breve termine, il regista introduce elementi di fantasia, come una legge inesistente, Tutti i film della stagione che gli consente di piegare gli eventi in maniere altrimenti impossibili. Interessante è l’aggiunta di un personaggio, posizionato tra madre e figlio, che si rivela altrettanto importante: la vicina di casa con problemi psicosomatici di balbuzie e una vita che forse non l’aiuta, per i fantasmi che si porta dietro. Remissiva, specie se confrontata con gli altri due personaggi, dopo poco supera lo status di personaggio osservatore, per diventare un terzo polo di curiosità e attrazione sentimentale. Dalla realtà monotona e in bianco e nero Kyla viene immersa nel mondo colorato, confusionale e assordante di Diane e Steve. Basterebbero i loro bisticci continui, le risate sonore, le voci urlate, i balli sfrenati a riempire tutto il film. Ma poi dentro il quadrato, che ha l’obiettivo di far concentrare lo spettatore sui volti, sui ritratti, sugli esseri umani, affinché si evitino distrazioni, viene inserito un sonoro onnipresente e una presenza musicale schiacciante. Autoradio in sottofondo e volumi che si alzano e si abbassano, stereo alto che si sovrappone ad altre fonti musicali e ad una colonna sonora che comprende brani commerciali. La camera rimane attaccata ai corpi, riprendendo spesso al rallenty, con una fotografia calda e luminosa che esalta i colori. Dolan ha coraggio e non segue regole formali, ma solo ciò che può restituirgli un’emozione. Come nella sequenza in cui Steve in skate e le due donne in bici escono per il quartiere; la camera li segue e deforma lo schermo. Steve allarga le braccia e per un istante il formato quadrato dell’immagine si apre ed inquadra tutto, come un abbraccio che ci avvolge e ci scalda. Poi l’illusione che tutto si risolva per il meglio, le fiduciose speranze di una madre per il futuro del figlio. Invece la realtà è più dura dell’immaginazione. Diane rimane sola, mentre Steve è ingabbiato in una camicia di forza e Kyla segue inerte il suo triste destino. La saturazione e l’eccesso si trasformano in un senso di solitudine infinita e agghiacciante: una casa deserta senza un suono, con una luce neutra. Il cast risulta davvero magistrale: Anne Dorval intensa e commovente nei panni di Diane, Antoine-Olivier Pilon esplosivo ed empatico nel difficile ruolo di Steve ed infine una credibile Suzanne Clément, in un’interpretazione delicata e dimessa. Veronica Barteri L’ULTIMO LUPO (Wolf Totem) Cina, 2014 Scenografia: Quan Rongzhe Effetti: Christian Rajaud, Guo Jianquan Interpreti: Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu), Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu) Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu), Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu) Durata: 118’ Regia: Jean-Jacques Annaud Produzione: La Peikang, Xavier Castano, Jean-Jacques Annaud per China Film Co. Ltd., Repérage Beijing Foridden City Co. Ltd., Mars Film, Wild Bunch, China Movie Channell, Beijing Phoenix Entertaiment Co. Ltd., China Vision Media Group Limited, Groupe Herodiade, Loull Produziont Distribuzione: Notorius Pictures Prima: (Roma 26-3-2015; Milano 26-3-2015) Soggetto: dal romanzo “Il totem del lupo” di Jiang Rong Sceneggiatura: Alain Godard, Jean-Jacques Annaud, Lu Wei, John Collee Direttore della fotografia: Jean-Marie Dreujou Montaggio: Reynald Bertrand Musiche: James Horner C ina, 1967. Durante la rivoluzione culturale maoista, il partito decide di inviare due giovani intellettuali nella steppa mongola con il compito di educare le tribù contadine della zona. Chen Zen e Yang Ke sono quindi costretti ad adattarsi agli usi e ai costumi rurali del posto. La piccola comunità è guidata dall’anziano Bilig, il quale instaura un rapporto speciale con il giovane Chen Zen. La steppa tuttavia è piena di pericoli e insidie: animali feroci, freddo glaciale, scarsità di risorse. Un giorno, durante il turno di guardia alle pecore, Chen Zen viene attaccato da un branco di lupi. Nonostante lo spavento, il ragazzo si fa trovare pronto e riesce a costringere i lupi alla fuga. Dopo qualche settimana, lo stesso branco di lupi attacca un gruppo di gazzelle facendone razzia. 39 Secondo il saggio Bilig questo è un bene, poiché ora i lupi, finalmente sazi, si ritireranno per l’inverno. Saputa la notizia, dei mercanti in cerca di affari raggiungo la steppa e ripuliscono la zona di tutte le gazzelle togliendo così le riserve di cibo dei lupi. Successivamente il branco attacca il villaggio uccidendo vari cavalli e portando alla morte di alcuni contadini. Gli uomini del partito raggiungono la Film steppa e ordinano a Bilig di uccidere tutti i cuccioli di lupo. Nonostante le remore, i contadini eseguono l’ordine, Chen Zen riesce tuttavia a salvare uno dei cuccioli e decide di allevarlo personalmente nascondendolo nel suo rifugio. Frattanto dalla città continuano ad arrivare uomini del governo che si stabilizzano vicino al lago costruendo nuovi villaggi e distruggendo alberi e fauna varia. Un giorno, uno dei rappresentanti del partito scopre il cucciolo di lupo custodito da Chen Zen, ma il ragazzo spiega che si tratta di uno studio scientifico e l’uomo, credendoci, non elimina il cucciolo. Parallelamente prosegue l’uccisione mirata dei lupi, anche grazie all’uso di materiale esplosivo. Bilig rimane ferito proprio per colpa dell’esplosione di una granata e muore poco dopo. Chen Zen viene coinvolto dall’uomo del partito nell’uccisione del branco in quanto “esperto di lupi” . Dopo le spietate uccisioni, resta soltanto il capo branco, che non domo, fugge per oltre quaranta chilometri. Una volta raggiunto, gli uomini vogliono ucciderlo a colpi di fucile, ma Chen Zen si oppone e così il lupo muore per cause naturali. Tornato al villaggio scopre che la gabbia del cucciolo è aperta: l’ultimo lupo è ora libero. opo L’Orso (1988) e Due fratelli (2004) Jean – Jacques Annaud torna a raccontare, una volta ancora, il mondo animale. Stavolta però lo fa basandosi su di un romanzo, il libro più letto della Cina dopo il Libretto rosso di Mao, ovvero Il totem del lupo di Jiang Rong, testo autobiografico che narra le vicende accadute al protagonista nel 1967 quando venne inviato dal partito in Mongolia con il compito di educare i burberi contadini della D Tutti i film della stagione steppa. Rong tuttavia, così come Chen Zen, il protagonista della pellicola, da insegnante si troverà ad essere allievo, costretto a dover imparare, a doversi adattare, a dover comprendere e quindi a riscoprirsi. La steppa non è la città. Qui gli uomini devono convivere con la natura indifferente e crudele e, soprattutto, con gli animali forti e affamati. La convivenza però si muove su di un fragile equilibrio e questo Chen Zen lo apprenderà prima di tutto dal saggio Bilig, capo del villaggio, ma non autoritario, più padre che maestro, capace di conoscere la natura e gli animali, serenamente sottomesso al destino delle cose e del mondo. Ed è proprio su questa dialettica che si muove la bella pellicola di Annaud: da un lato Bilig, un Giusto che accetta il ciclo naturale delle cose, dall’altro gli uomini del partito, incapaci a rispettare l’ordine della steppa, troppo impegnati nel superbo bisogno del dover costruire, ingrandire, allargare. Costruire significa distruggere però. Distruggere l’habitat, distruggere gli animali, distruggere i laghi. I trattori contro i cavalli, i fucili contro i bastoni, gli ordini contro la coscienza, il progresso contro la natura. Come nella grande letteratura dei London di Zanna Bianca, dei Melville di Moby Dick o dei Kerouac de I vagabondi del Dharma , sono gli animali, è la natura a insegnarci qualcosa, a mostrarci, come in uno specchio, quanto possa essere degenerato l’uomo. Ed è esattamente ciò che fanno i lupi di Annaud, crudeli per necessità e non per scelta, dignitosi anche nel morire, collaborativi gli uni con gli altri, disposti al sacrificio e alla lotta per difendersi. E questo non soltanto simbolicamente, ma anche cinematograficamente: sono loro i veri protagonisti del film, è nei loro primi piani (oltre agli splendidi paesaggi) che il regista francese dà il meglio, commuove, emoziona, sopperendo alle evidenti mancanze degli attori “umani”. Nonostante il palese intervento degli effetti speciali (il film è disponibile anche in 3D), è nei movimenti del muso, nei profondi occhi – a volte feroci, altre docili- , nella lucida preparazione all’assalto delle prede che si riconosce la grandezza del regista nel cogliere il vero animo dei suoi protagonisti. Come la grande letteratura ha saputo fare, Annaud ci lascia una lezione cercata e voluta, senza però risultare fastidiosamente moralistico: rispettare ciò che ci circonda, sottometterci alle leggi della natura, mettere da parte la cretina volontà di potere e gli inutili peccati di Hýbris. “Nessun rumore, nessuna voce d’uomo rompeva quel silenzio, e la natura, sempre uguale da che è nato il mondo, dominava incontrastata”. Giorgio Federico Mosco BUONI A NULLA Italia, 2014 Regia: Gianni Di Gregorio Produzione: Angelo Barbagallo per Bibi Film Tv con Rai Cinema Distribuzione: Bim Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Gianni De Gregorio, Pietro Albino Di Pasquale Direttore della fotografia: Gian Enrico Bianchi Montaggio: Marco Spoletini Musiche: Enrico Melozzi Scenografia: Susanna Cascella Costumi: Silvia Polidori Interpreti: Gianni Di Gregorio (Gianni), Marco Marzocca (Marco), Valentina Lodovini (Cinzia), Daniela Giordano (Marta), Gianfelice Imparato (Christian), Marco Messeri (Raffaele), Camilla Filippi (Camilla), Anna Bonaiuto Durata: 87’ 40 Film hi sono i Buoni a nulla del film? Il primo della lista è il protagonista Gianni, un mite signore romano prossimo alla pensione che ogni giorno subisce ingiustizie su ingiustizie. Dall’anziana vicina di casa rompiscatole e brontolona, alle pretese dell’ex moglie, ai colleghi d’ufficio. Le cose non vanno meglio quando a Gianni, dipendente di un ufficio pubblico a cui mancano sei mesi per andare in pensione, viene comunicato che, per effetto della nuova legge, deve aspettare altri tre anni per il pensionamento. Ma non finisce qui, l’uomo viene trasferito con effetto immediato da un ufficio del centro a una nuova sede fuori dal raccordo anulare. Mite come al solito, Gianni si rimbocca le maniche si presenta nel nuovo ufficio dove viene subito messo in riga dall’inflessibile direttrice. Ma c’è chi sta messo peggio di lui. È il suo nuovo collega di stanza Marco, un ragazzo capace, preparato e mai ricompensato, un impiegato sempre disposto ad aiutare tutti: dal nuovo arrivato Gianni, fino a Christian (leccapiedi della direttrice) e Cinzia la collega sexy cui non riesce a dire mai di no. Ma arriva il giorno in cui Gianni decide di cambiare il suo stato, spinto anche dai consigli di Raffaele, nuovo compagno della ex moglie, dentista, ma all’occorrenza medico di famiglia pronto a controllare pressione e ansia del povero Gianni (e a trasformarsi in una sorta di improvvisato psicoterapeuta). Ed ecco che il protagonista inizia la sua piccola rivolta che culmina in una serie di dispettucci (il primo dei quali è lasciare senz’acqua la piantina sul tavolo del suo salone), escamotage per arruffianarsi il prossimo e piccole angherie verso chi è più debole di lui. Finché anche Marco, sempre più vessato da tutti (e perfino da Gianni), decide di ribellarsi. Ed è così che il giovane comincia a farsi rispettare, iniziando dai colleghi di lavoro. C Tutti i film della stagione Intanto Gianni si è fatto furbo e, grazie a una serie di attenzioni mostrate verso la direttrice (la colazione sulla sua scrivania la mattina, il cane portato a spasso), fa carriera. Gianni ottiene una stanza tutta per lui e gode del privilegio di combinare poco o nulla durante le sue giornate lavorative. L’uomo poi alza la testa di fronte al tentativo della figlia e dell’ex moglie di convincerlo a cambiare casa e a trasferirsi in un anonimo appartamento nell’estrema periferia. Nel frattempo, Marco fa progressi con Cinzia che non lo schiavizza più, anzi dimostra sincere attenzioni nei suoi confronti. Insomma Gianni e Marco ora si godono la vita anche se la loro vera natura viene fuori durante una serata danzante in un locale. Saranno in grado di farsi rispettare davvero? La loro alleanza tra buoni che giocano a fare i cattivi durerà? resentato alla nona edizione Festival di Roma nella sezione Gala, ecco Buoni a nulla di Gianni Di Gregorio (ex regista rivelazione del 2008 con Pranzo di Ferragosto). I buoni a nulla secondo Di Gregorio sono semplicemente gli “uomini buoni”, quelli che accettano quotidianamente e in silenzio piccoli e grandi soprusi Buoni a nulla è un po’ lo specchio del suo autore-regista-attore, e non facciamo fatica a crederlo. Lo spunto nasce infatti da un semplice esame del proprio stare al mondo. Da sempre tendente a essere un uomo che, per “quieto vivere”, tende a subire le decisioni altrui, a non riuscire a dire di no, Di Gregorio ha ammesso di aver pensato al suo film come a una specie di test per capire davvero se, impegnandosi, si possa cambiare questa natura. La ricerca “sul campo” ha dato vita a risultati decisamente comici. Garbato, è l’aggettivo, forse un po’ fuori moda, che calza alla perfezione al sessan- P tacinquenne attore-regista e al suo cinema. Si, perché con questo suo terzo film Di Gregorio conferma la sua cifra stilistica unica che lo colloca in una posizione speciale nel panorama cinematografico italiano. Buoni a nulla è un’opera leggera nella migliore accezione del termine, delicata anche nelle sequenze in cui il protagonista sfodera la necessaria grinta, per diventare, non uno dei tanti prevaricatori del mondo d’oggi, ma semplicemente uno “che sa dire di no”. L’autore-regista ha questa volta il particolare merito di rivalutare la figura del ‘buono a nulla’ elevandolo da taciturna ‘spugna’ capace di assorbire le prepotenze altrui a persona che sa il fatto suo, riconquistando la dignità con qualche colpo furbetto (le ‘attenzioni’ con cui il protagonista inizia a ricoprire la propria capufficio guadagnando un’immediata promozione) e qualche salutare sfogo. Gli attori che affiancano Di Gregorio sono tutti perfetti, a partire da Marco Marzocca, impiegato vessato da tutti e perfetto esempio di ‘buono a nulla’, a Valentina Lodovini bomba sexy capace di sfruttare con furbizia le sue generose forme, fino a Marco Messeri esilarante dentista con la vocazione dell’analista. Un umorismo elegante, quasi sussurrato, per una commedia che porta la firma ormai riconoscibilissima di un artista dal tocco lieve e dal sorriso luminoso, un comico ‘involontario’ che può a tratti ricordare il grande Jacques Tati. Colorito, delicato ma a tratti esilarante, il film di Di Gregorio ridipinge con i vividi colori di un acquarello, la realtà spesso alienante e disarmante della Roma di oggi, tra grosse auto incastrate al millimetro nei vicoli del centro storico, prepotenti pizzaioli, bocciofili volgaroni. Un film capace di coniugare leggerezza e intelligenza, sempre con un sorriso. Elena Bartoni TIMBUKTU (Timbuktu) Francia, Mauritania, 2014 Musiche: Amine Bouhafa Scenografia: Sébastien Birchler Costumi: Ami Sow Interpreti: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima), Abel Jafri (Abdelkrim), Fatoumata Diawara (Fatou), Hichem Yacoubi (Jihadista), Kettly Noël (Zabou), Mehdi AG Mohamed (Issan), Layla Walet Mohamed (Toya), Adel Mahmoud Cherif (Imam), Salem Dendou (Capo jihadista) Durata: 97’ Regia: Abderrahmane Sissako Produzione: Les Films Du Worso, Dune Vision, in coproduzione con Arches Films, Arte France Cinéma, Orange Studio Distribuzione: Academy Two Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015) Soggetto e Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall Direttore della fotografia: Sofiane El Fani Montaggio: Nadia Ben Rachid 41 Film N el villaggio africano del Mali arrivano i primi adepti della Jihad islamica: i guerriglieri determinati all’applicazione violenta e distorta delle norme coraniche impongono obblighi e comportamenti in un regime di assoluto terrore. È proibito fumare, fare musica, giocare al calcio; le donne, coperte, velate e costrette a usare i guanti sono sottomesse in una vita pari a quelle delle ombre. Fuori dal centro abitato, a mezza via tra la sabbia del deserto e il fiume, vive pacificamente Kidane con la moglie Satima, la figlia Toya e un pastorello, un ragazzino di dodici anni, Issar che custodisce le mucche. La bestia più cara alla famiglia, la mucca GPS, un giorno sconfina e imbroglia le reti che il pescatore Amadou aveva steso nel mezzo del fiume e da questi è uccisa con un colpo di lancia. Kidane, recatosi dal pescatore per chiedere ragione dell’accaduto, scade in una rissa con lui e lo fredda con un colpo di pistola sparato accidentalmente dall’arma che porta in tasca. Kidane subisce un processo farsa, senza garanzie né testimoni: condannato a morte è abbattuto a colpi di mitra men- Tutti i film della stagione tre corre incontro alla moglie che era venuta ad abbracciarlo per l’ultima volta. È solo l’ennesima azione, in ordine di tempo, del regime di terrore imposto nel villaggio dai nuovi legionari della violenza islamica. vecchia la convinzione (e la speranza), spesso citata, che una risata possa seppellire ogni forma di violenza e oppressione ma quanto attuale e intelligentemente utilizzata in questo film addolorato, struggente e poetico come il grande continente da cui proviene, il regista Sissako! Sissako fa ciò che Asghar Farhadi, regista iraniano (About Ely, Una Separazione) fa con il cinema nei confronti del suo Paese: non si oppone alla violenza con la forza, ma mette in evidenza il ridicolo, non combatte la follia di una banda di assassini ma ne risalta l’ignoranza, la goffaggine, l’improvvisazione, l’impacciata balordaggine delle azioni, purtroppo sostenute con il crepitare delle mitragliatrici. D’altra parte, può un inerme abitante delle dune sul Niger, dopo secoli di tranquillità, svegliarsi ribelle, astuto e violento dalla sera È alla mattina? No, non può; può sotttolineare il grottesco, circoscrivere l’insensato, sperare che l’uragano passi presto, affossato nella sua stessa parodia e intanto sorridere nel guardare estasiato lo stesso panorama che regna da millenni: la morbidezza delle dune a cui risponde la dolcezza del vivere familiare, i colori che luccicano sul fiume al tramonto, la mansuetudine del bestiame che si nutre della stessa mitezza dell’ambiente. Ecco quindi che i Jihadisti invasori perdono presto i loro tratti diabolici per presentarsi ridicoli in un linguaggio fatto di arabo, inglese e francese che neanche loro capiscono, telefonini che perdono la linea, tribunali improvvisati e improbabili che però giudicano nel sangue, macchine e moto che non si sanno guidare e (magnifico!) uno di loro, addirittura che fuma di nascosto... Si può esorcizzare tutto ciò con la bellezza stupendamente e intensamente fotografata, con l’ironia più feroce, stralunata e disarmante (la partita di pallone giocata senza pallone è davvero sublime) oppure con la fuga, come fa la gazzella ansimante all’inizio e alla fine del film. Fabrizio Moresco ANNIE PARKER (Decoding Annie Parker) Stati Uniti, 2013 Regia: Steven Bernstein Produzione: Steven Bernstein, Clark Peterson, Keith Kjarval per Unified Pictures, in associazione con Fawkes Partners, Rix Pix, Media House Capital, Nolan McDonald Films Distribuzione: Koch Media Prima: (Roma 30-10-2014; Milano 30-10-2014) Soggetto e Sceneggiatura: Adam Bernstein, Steven Bernstein, Michael Moss Direttore della fotografia: Ted Hayash Montaggio: Douglas Crise Musiche: Steven Bramson Scenografia: Alex Hajdu Costumi: Karyn Wagner Effetti: Clark Graff S iamo a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta. Annie è una giovane donna che ha perso la mamma, la nonna e la zia per colpa di un cancro al seno. Vive un’esistenza felice insieme all’amata sorella Marley e al marito, aspirante rockstar, Paul, con il quale concepisce il piccolo William. Un giorno tuttavia la sorella di Annie scopre un nodulo al seno e muore in poco tempo. Parallelamente la dottoressa Mary-Claire King, genetista, e il suo team avviano Interpreti: Helen Hunt (Dott.ssa Mary-Claire King), Samantha Morton (Anne Parker), Aaron Paul (Paul), Alice Eve (Louise), Maggie Grace (Sarah), Rashida Jones (Kim), Richard Schiff (Allen), Marley Shelton (Joan Parker), Corey Stoll (Sean), Bradley Whitford (Marshall Parker), Kate Micucci (Rachel), Ben McKenzie (Tom), Bob Gunton (Dott. Benton), James Tupper (Steven), Mageina Tovah (Ellen), Benjamin Stockham (William bambino), Spencer Garrett (David), Olivia Rose Keegan (Joan adolescente), Joanne Baron (Florence), Ryan Wynott (William Parker a 12 anni), Brie Bernstein (Miriam), Jade Duncan (Annie Parker bambina), Joseph White (William a 17 anni) Durata: 91’ una ricerca sulle possibili correlazioni genetiche e quindi sulla predisposizione di alcune donne a questo male. Anna comincia a essere ossessionata dalla paura di contrarre la malattia. Una mattina, palpandosi, la donna trova qualcosa: le viene diagnosticato un carcinoma al seno. Annie viene operata e comincia la chemioterapia. Durante la cura, la donna incontra casualmente il giovane dottore Sean, che le espone le prime teorie sulle varianti che possono causare il cancro 42 come l’ambiente, il cibo e la predisposizione genetica. Anna approfondisce l’argomento attraverso libri, ricerche e modellini, onde riuscire a trovare una risposta sulle morti delle donne della sua famiglia. È in questo periodo che scopre della ricerca della dottoressa King, alla quale scrive numerose lettere. Frattanto il rapporto con Paul va peggiorando: i due litigano continuamente e non fanno più sesso. Annie scopre che il marito va a letto con la sua migliore amica Louise e Film così i due divorziano. Qualche mese dopo, la donna incontra Marshall con il quale comincia una nuova relazione. Purtroppo però il suo ex marito Paul si è ammalato e muore in poco tempo, dopo che Annie gli è stata a fianco gli ultimi giorni. Anche la protagonista non viene risparmiata dalla malattia, che la colpisce nuovamente. Dopo l’ennesima operazione, la donna è costretta a affrontare una volta ancora la chemioterapia. Arrivati ai primi anni Novanta, il team della dottoressa King ha finalmente dimostrato il legame genetico tra donne della stessa famiglia predisposte al tumore al seno. Annie si reca a Cincinnati per conoscere la dottoressa King, che si ricorda di lei per via delle lettere. La dottoressa si complimenta con la donna per il suo straordinario coraggio e la sua forza di volontà. Annie ha vinto la sua battaglia. Q uesta pellicola non è soltanto il racconto veritiero di una donna, Anna Parker, che è costretta Tutti i film della stagione ad affrontare un male terribile più volte durante la sua esistenza. Il film racconta la paura, il timore, l’angoscia della malattia, ma anche il coraggio, la forza di volontà, la sana testardaggine. Anna, fin da piccola, intravede lo spettro della morte aggirarsi tra le pareti della casa di famiglia, nella quale vengono a mancare prima la nonna, poi la mamma e infine la sorella, tutte portate via dallo stesso male. Annie sa che prima o poi toccherà a lei, nonostante le rassicurazioni di medici reazionari e sordi alle novità, legati a un mondo ortodosso, fermi nelle convinzioni di un secolo passato e intimoriti dalle nuove scoperte e dalle tecnologie. Ma quando tocca a lei, Annie resta li, a lottare, mossa dalla voglia, dalla necessità di scoprire il perché, proprio la stessa forza che muove la dottoressa King. Annie Parker è quindi un film riuscito sulla malattia, sull’abbandono, sulla solitudine, sulla ricerca della verità e questo basterebbe per ritenerlo un buon film, ma non è solo questo, non si ferma qui. La pellicola di Steven Bernstein, con una bravissima Samantha Morton nel ruolo della protagonista, riesce anche a far sorridere, ad alleggerire, a prendersi gioco della morte con la vita stessa, rendendo ancora più forte ed efficace il messaggio che vuole mandare. Esilaranti, in questo senso, le scene dei vari funerali cui Anna è costretta a partecipare per via degli eventi infausti o ancora la scena nella quale rigetta nello zainetto del figlio perché il bagno di casa è occupato. Se il film non può non essere categorizzato come drammatico (tale impronta si fa inevitabilmente più marcata nella parte centrale e finale della pellicola), Bernstein non ci risparmia un sano e azzeccato black humor, che dà alla pellicola qualcosa in più. Passato in sordina nelle sale e tra il pubblico italiano (tanto da non meritare neanche una pagina Wikipedia in lingua nostrana), Annie Parker è uno di quei film che ha la banale, ma rara dote di far ridere e piangere allo stesso tempo e anche solo per questo merita di essere visto. Giorgio Federico Mosco BIAGIO Italia, 2014 Scenografia: Fabio Bondì Costumi: Antonella Zito Interpreti: Marcello Mazzarella (Fra Biagio), Vincenzo Albanese (Pastore Rosario), Renato Lenzi (Giovanni), Omar Noto (Salvatore), Doriana La Fauci (Madre di Biagio), Silvia Francese (Valeria), Salvatore Schembari (Michele), Michelangelo Balistreri (Nicola), Santo D’Aleo (Fra Paolo), Attilio Ferrara (Uomo Casolare) Durata: 90’ Regia: Pasquale Scimeca Produzione: Pasquale Scimeca, Linda Di Dio per Arbash, in coproduzione con Alì Natura Distribuzione: Arbash Prima: (Roma 2-2-2015; Milano 2-2-2015) Soggetto: Marcello Mazzarella Sceneggiatura: Pasquale Scimeca Direttore della fotografia: Duccio Cimatti Montaggio: Francesca Bracci Musiche: Marco Biscarini L a pellicola narra la storia di Biagio Conte, il famoso missionario laico di Palermo, del suo percorso di vita, delle sue scelte radicali e rivoluzionarie che ne hanno fatto uno dei pochi uomini giusti che ancora abitano su questa terra. Appartenente a una famiglia benestante palermitana, nato nel 1963, fino a 25 anni Biagio non si rendeva conto del materialismo e consumismo di questa società. Poi, però, guardandosi attorno, viene profondamente colpito dai tanti volti pieni di sofferenza che popolano la sua città. Per questo, all’inizio degli anni Novanta, Biagio lascia gli agi della sua giovinezza e se ne va sulle montagne dove vive da eremita nutrendosi di erbe e bacche. Lì fa la conoscenza di pastore Rosa- rio e di suo figlio Salvatore che lo aiutano quando si sente male per aver mangiato bacche non commestibili, lo nutrono e gli danno degli abiti per coprirsi dai rigori dell’inverno. Biagio aiuta Salvatore nel pascolo delle pecore. Ma quando Rosario lo vuole pagare per il lavoro svolto, Biagio rifiuta dicendo di aver scelto di non toccare più denaro in vita sua. Rimasto solo tra i monti, inizia a sentire quel bisogno di spiritualità che la civiltà del consumismo ha espulso dal cuore degli uomini e a cercare Dio. Lo trova attraverso la mediazione di San Francesco e leggendo i suoi scritti. Dopo un viaggio a piedi fino ad Assisi (dove, sdraiato sul pavimento della Basilica, trova la vera pace interiore), torna a Palermo e si ferma alla stazione dove per 43 anni vive e assiste i barboni. Si carica sulle spalle “il dolore del mondo offeso”, dà loro dignità e speranza, li chiama “fratelli”. E i fratelli diventano sempre più numerosi, la stazione non basta più ad accoglierli tutti. Così Biagio occupa l’ex disinfettatoio di via Archirafi, in abbandono da anni, e fonda la Missione di Speranza e Carità. Attorno a lui cresce la solidarietà, la Missione diviene sempre più grande e le persone che vi vivono sempre più numerose, tra poveri, immigrati e donne in difficoltà. E lì che Giovanni, un regista, lo va a trovare per intervistarlo, trovandolo indebolito, malato e affaticato dagli anni vissuti tra sacrifici e privazioni. Giovanni riflette su tanti perché ma in primo luogo sul motivo che spinge un regista a fare un film. Film resentato in concorso nella sezione Cinema d’Oggi del Festival di Roma 2014, Biagio ha rappresentato una vera e propria sfida per il regista Pasquale Scimeca (che lo ha realizzato con soli 600.000 euro ottenuti in parte dalla Sicilia Film Commission e dalla Banca del Nisseno). Biagio Conte non voleva che fosse girata una pellicola su di lui, la paura era commettere “peccato d’orgoglio”. Alla fine, però, il missionario si è convinto dicendo “Se Dio vuole te lo farà fare questo film!”. E così è stato. Biagio è un’opera importante, una sorta di favola morale piena di valori fondamentali che forse la maggior parte di noi hanno dimenticato. Un’opera dallo stile asciutto, essenziale, quasi minimalista, come la storia che racconta. Fra Biagio è mostrato in tutta la sua condizione di uomo, nella sua semplicità, nel suo coraggio di rinunciare a tutti beni materiali e affrontare il freddo, la fame, la fatica, il dolore fisico. Solo nei boschi, mangia bacche e si sente male, viene aiutato da due pastori, poi è di nuovo P Tutti i film della stagione solo, sotto la neve. Infine il cammino dalla Sicilia fino ad Assisi, l’incontro emozionante con San Francesco (una vera “onda” che lo travolge) e la scelta di aiutare gli ‘ultimi’. Quello che rende ancora più interessante il film è la prospettiva da laico con cui il regista si avvicina alla figura di Biagio, che viene mostrato in tutto il suo essere uomo e non santo. La chiave di volta della pellicola è proprio il valore che viene dato alla spiritualità intesa come dimensione essenziale per gli uomini, non solo come fede religiosa. Il regista ha dichiarato di sentire il film particolarmente suo, non a caso all’inizio della pellicola una voce fuori campo afferma quello che può essere considerato il credo del cinema di Scimeca: “Un film non è mai neutro, dentro c’è la vita delle persone che lo hanno realizzato”. A ulteriore prova di ciò, il regista ha inserito nel film una specie di alter-ego, Giovanni, di professione regista, che funge un po’ da testimone del percorso di Biagio e che va ad incontrarlo nella sede della sua Missione di Speranza e Carità scegliendo di entrare nel suo mondo. E la scena finale in cui Giovanni lascia un hotel di lusso addentrandosi nel microcosmo della Missione di Fra Biagio è eloquente e fortemente simbolica. L’ottima prova recitativa di Marcello Mazzarella ormai attore-feticcio di Scimeca (lo ricordiamo come interprete di Placido Rizzotto nel 2000), unita alla fotografia di Duccio Cimatta che restituisce efficacemente l’aspro paesaggio delle montagne siciliane, fanno di Biagio un’opera importante che parla di una delle figure più rappresentative del nostro tempo, anche se probabilmente di non facile fruizione per il grande pubblico. Profondo e umile, intriso di valori veri, il film di Scimeca racconta una storia che sembra lontanissima da questi nostri anni in cui si vive sempre più devoti al dio denaro e nell’accumulo di beni materiali. Una parabola autentica, sincera, intensa, commovente, che sa di bello, che mostra il lato migliore che ci può essere in un uomo. Elena Bartoni VALUTAZIONI PASTORALI Annie Parker – n.c. Biagio – consigliabile-problematico / dibattiti Boyhood – consigliabile-problematico / dibattiti Buoni a nulla – consigliabile / semplice Cattivissimo Me 2 – consigliabile / brillante Cenerentola – consigliabile / poetico Fast and Furious 7 – consigliabile / semplice Fino a qui tutto bene – consigliabilerealistico / dibattiti Focus – Niente è come prima – consigliabile / brillante Frozen, il Regno di ghiaccio – consigliabile / poetico Into the Woods – n.c. Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà – consigliabile-problematico / dibattiti Lettere di uno sconosciuto – consigliabile-problematico / dibattiti Maraviglioso Boccaccio – consigliabile / poetico Metamorfosi del male (La) – n.c. Mommy – n.c. Mortdecai – n.c. Nessuno si salva da solo – complesso-scabrosità / dibattiti Noi e la Giulia – consigliabile-problematico / dibattiti Non sposate le mie figlie! – consigliabile / brillante Oh Boy – Un caffè a Berlino – consigliabile-problematico / dibattiti Ouija – n.c. Pasolini – complesso-scabrosità / dibattiti Piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (Un) – complessoproblematico / dibattiti 44 Postino Pat – Il film – n.c. Ricatto (Il) – n.c. Romeo & Juliet – consigliabile / poetico Sale della terra (Il) – consigliabileproblematico / dibattiti Storia della Principessa splendente (La) – consigliabile / poetico Suite francese – consigliabile / poetico Timbuktu – raccomandabile-problematico / dibattiti Ultimo lupo (L’) – n.c. Vergine giurata – consigliabileproblematico / dibattiti Water Diviner (The) – n.c. Whiplash – n.c. Wild – complesso-problematico / dibattiti Film Tutti i film della stagione Torino film festival 2014 A cura di Flavio Vergerio e Davide Di Giorgio UNA RASSEGNA PROBLEMATICA Tentare un giudizio sintetico sulla rassegna-monstre del 32°TFF (circa 200 film spalmati su una quindicina di sezioni e di percorsi) è un’impresa vana e improduttiva, tale e tanta la varietà e la ricchezza delle proposte del programma. Il TFF è stato segnato dall’intelligente rinuncia di Paolo Virzì a condividere la direzione artistica con Emanuela Martini, consacrata ormai come una delle maggiori professioniste del settore, ritagliandosi uno spazio come “direttore in visita” come selezionatore per la nuova piccola sezione, “Diritti e rovesci”, costituita da cinque documentari su realtà sociali emarginate dal grande schermo. I film, diretti da quattro affermate outsiders del cinema italiano quali Antonietta De Lillo, Susanna Nichiarelli, Wilma Labate e Costanza Quatriglio e dai giovani Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, raccontano cinque storie di diversa umanità, ritratti spiazzanti di operaie, mogli, puttane, matti, esodati che “mescolati l’uno all’altro tracciano un affresco di persone, dei loro diritti, difficili da maneggiare, dei loro rovesci, umani e civili; del loro cadere e rialzarsi, dei loro commoventi sogni di riscossa”, come afferma lo stesso Virzì. Il passo indietro di Virzì chiude positivamente la ricerca da parte dei politici di una linea più “popolare” per il TFF, giudicato troppo elitario una diecina di anni fa e la cui direzione era stata affidata prima alle capacità comunicativa di Nanni Moretti e poi alla passione cinefilica di Gianni Amelio. Il “passo indietro” di Paolo Virzì non ha fatto altro che riconoscere la competenza, il rigore e la grande capacità di lavoro di Emanuela Martini, vera anima del TFF negli ultimi otto anni. Se questa è la buona notizia, quella cattiva è il taglio, comunicato tardi per le esigenze organizzative del festival, di ben 200.000 euro di contributi regionali. Le conseguenze sono state la forzate riduzione delle sale di proiezioni (con conseguenti assembramenti di pubblico) e la rinuncia alla stampa del catalogo. Per chi, come me, non fa uso del tablet ed è nostalgico irridemibile del cartaceo è stato un grave limite, ma ci abitueremo… La Martini individua nella “curiosità” la matrice comune che avrebbe sovrinteso a scelte tanto diverse in un programma molto complesso che metteva insieme i film ormai classici della “New Hollywood”, i documentari “sociali”, i film horror di “After Hours”, il cinema sperimentale di “Onde” ). E insieme a essa la voglia di scoprire “stili o abbozzi di stile, invenzioni, ritorni al passato, commistioni con altre forme espressive, sperimentazioni eccentriche”. Io aggiungerei anche altre motivazioni. Credo che il TFF sia, oltre che un formidabile strumento di conoscenza delle nuove tendenze di ricerca del cinema mondiale, anche un’occasione di risistemazione storico-critica dei grandi autori del cinema moderno (Kubrick, Altman, Huston, Losey per citare i più recenti). Quest’anno la seconda puntata dedicata alla retrospettiva “New Hollywood”, oltre che a un denso volumetto di saggi, ha permesso di rivedere o recuperare ( ad esempio due amarissimi film “minori”, a torto dimenticati, di John Flynn) film fondamentali della nostra cultura, non solo e non tanto cinefilia. Una delle sezioni più “utili” mi è sembrata l’hemingwayana Festa mobile, che ha selezionato una trentina delle opere più interessanti passate a Cannes, Berlino e altrove, solo in parte destinate a uscire sui nostri schermi. Straordinario ad esempio P’tit Quinquin del francese Bruno Dumont, che, nel descrivere l’orrore della condizione umana nel suo consueto panorama solitario del Pas de Calais, sceglie stavolta il registro del grottesco e del surreale. Fra i film che sono riuscito a vedere mi sono apparsi notevoli: ’71 del franco-inglese Yann 45 Demange (un amaro episodio della guerra civile in Irlanda del Nord, con il retroscena di collaborazionismi, lotte fratricide, e una recluta sperduta fra le linee nemiche), il sottile La chambre bleu del francese Mathieu Amalric, tratto da un romanzo di Simenon (una rappresentazione fondata sull’ambiguità sensuale dell’attrazione fatale fra due maturi amanti, destinata a finire in tragedia), il dittico The Disappearance of Eleanor Rigby dell’americano Ned Benson (il fallimento di una storia d’amore fra una psicologa e un ristoratore narrata con attenta introspezione dei due punti di vista dei due protagonisti), Inupiluk del francese Sébastien Betheder (cronaca umoristica e umanissima del difficile incontro di due groenlandesi con gli stereotipi della cultura francese, ove si dimostra che l’incontro fra esseri umani è sempre possibile, al di là delle differenze antropologiche e linguistiche). Zigzagando nei meandri del programma alla ricerca di possibili sorprese, mi preme segnalare almeno tre opere diversamente esemplari, proposti da Davide Oberto nella sezione Doc. Il maestro filippino Lav Diaz, recentemente consacrato a Locarno con From What is Before, nel suo lungo réportage Storm Children, book 1 indirizza il suo sguardo ipnotico sulle devastazioni provocate nel suo paese dal tifone Yolanda. La sua (e le nostra) attenzione si incentra progressivamente sulla condizione di vita e di sopravvivenza dei bambini che, mai domi, reinventano con inesausta creatività il paesaggio desolato in cui sono costretti a vivere. Il puntuto filmaker tedesco Romuald Karmakar nel suo essenziale Democracy under attack – an Intervention raccoglie dieci testimonianze di intellettuali tedeschi che in una conferenza del 2011 a Berlino denunciavano la sottrazione di diritti fondamentali dei cittadini provocata dalle crudeli leggi del capitalismo finanziario, a torto giudicate immutabili e necessarie. Film Life May Be dell’irlandese Mark Cousins e dell’esule iraniana Mania Akbari é il sorprendente scambio di video-lettere fra due registi di formazione diversa (un occidentale liberale e una mussulmana laica) che si confrontano sulla rispettiva visione del mondo, interrogando le proprie culture e le proprie estetiche. Alla falsa “trasparenza” occidentale di Cousins la regista iraniana (protagonista di Ten di Kiarostami) contrappone il senso del simbolico e del mistero della cultura mussulmana. IL CONCORSO Malgrado la concorrenza dei festival più importanti (in primis Venezia), i 15 film inediti del concorso hanno rivelato in alcuni casi una sorprendente vitalità e uno sguardo originale sul mondo. (Quasi) tutti d’accordo sul primo premio assegnato a Mange tes morts del francese Jean-Charles Hue, intrigante ritratto di una famiglia jenisch (detti “zingari bianchi”, di origine ebaico-germanica, da non confondersi con altre etnie nomadi) che vive di espedienti alla periferia parigina. La vicenda si dipana attorno alla festa in occasione del diciottesimo compleanno del protagonista, Jason, che viene “educato” ai riti e alle leggi del gruppo familiare dal fratello maggiore Fred, appena tornato dalla prigione ove ha scontato una lunga pena per omicidio. Coinvolto, suo malgrado, in una terribile scorribanda notturna su una potente BMW sportiva, Jason si trova drammaticamente diviso fra la cultura del clan con il suo potente senso d’appartenenza e una propria legge morale di ascendenza religiosa. Il film assume le forme del racconto western, al tempo stesso colmo di follia e dissipazione, ma anche di vitalismo esistenziale. Il secondo (anch’esso meritato) premio è andato a For some inexplicable reason dell’ungherese Gabor Reisz, tragicomico e rivelatore ritratto di un trentenne che vive alla giornata, in crisi sentimentale e affogato dalle attenzioni materne. Il protagonista parte inopinatamente per Lisbona dietro al fantasma di un volto, ma ritornerà in patria senza concludere la propria ricercae forse solo con una nuova consapevolezza di sè. Non mi trova invece d’accordo la menzione attribuita all’italiano N-Capace dell’esordiente teatrante Eleonora Danco, itinerario sgangherato fra Terracina e Roma alla ricerca dei propri ricordi adolescenziali e familiari di una ragazza in lutto per la morte della madre. L’itinerario si risolve in una serie di incontri falsamente documentaristici Tutti i film della stagione con personaggi inconsapevoli ed emarginati, che recitano (compiaciuti) la parte di se stessi. Film rigorosamente di genere, ma di forti risonanze simboliche, The Duke Of Burgundy del talentuoso inglese Peter Strickland mette in scena un vorticoso gioco della parti fra una aristocratica collezionista di farfalle e la sua cameriera, coinvolta in un letale scambio erotico. Il rapporto fra dominio e sudditanza viene più volte capovolto e rimesso in discussione, rivelandone l’ambivalenza e la relatività. Da segnalare altri film interessanti per la scelta dell’argomento o per l’insolito sviluppo narrativo. Anuncian Sismos degli argentini Rocío Caliri e Melina Marcow è una sofferta indagine psico-comportamentale su una comunità di recupero familiare che cerca di indagare le ragioni di una serie di suicidi adolescenziali. As You Were di Liao Jeikai (Singapore) è una meditazione sull’impossibilità di ricostruire una storia d’amore fra due ragazzi problematici ospitati in un centro di rieducazione in un’isola posta di fronte alla tumultuosa crescita di Singapore. The Babadook dell’australiana Jennifer Kent utilizza in modo creativo le convenzioni del cinema di paura per raccontare l’elaborazione di un lutto (una donna, alle prese con un figlio iperattivo, si libera faticosamente del fantasma del marito morto). Big Significant Things dell’americano Bryan Reisberg racconta il risibile viaggio verso il Sud di un giovane eccentrico alla vigilia delle nozze alla ricerca delle “cose più grosse al mondo”, fra le quali una sedia a dondolo più alta di una casa. Felix & Meira del canadese Maxime Giroux mette in scena il sorprendente incontro d’amore fra una donna ebrea sposata con un uomo ottusamente tradizionalista e un eccentrico squattrinato. Il film esplora il confine sottile fra critica sociale e la commedia sentimentale. Infine mi è apparso notevole per la forte dose di amara denuncia sociale Mercuriales del francese Virgil Vernier, storia “bloccata”di tre giovani immigrate (una sorvegliante e due “hostess”) impiegate presso due torri commerciali alla periferia di Parigi, luoghi destinati a produrre alienazione, rancore e violenza. ONDE Anche quest’anno i film di Onde hanno esplorato una narratività sperimentale e radicale, gli spazi segreti del racconto, l’approccio innovativo a un’umanità di cui gli schemi sociologici non riescono a penetrare il segreto. I film scelti, opere compatte e ri- 46 uscite o meno che fossero , hanno risposto a un’intima esigenza morale ed estetica, a una visione forte e originale del mondo, capace di dar conto delle ragioni intime dell’esistenza dei personaggi e dei paesaggi messi in scena. In questo senso il film-manifesto di questa edizione può essere considerato La sapienza di Eugene Green che assume la forma stilistica della circonferenza borrominiana, atta a trasferire il suo movimento di ascesi al racconto di una scoperta di sé, in una messa in scena antinaturalistica e astratta desunta dal teatro barocco. Dei venti film presentati, oltre alla breve retrospettiva dedicata alla giovane americana Josephine Decker, indagatrice di personaggi femminili divisi fra desiderio erotico e culture, più che storie e singoli personaggi rimangono nella nostra memoria visiva immagini e intuizioni destinati a modificare la nostra percezione del mondo. La condizione esistenziale di un uomo allo sbando viene rappresentata per astrazione simbolica in una nebbia che sembra avvolgerlo per costituirsi come suo ultimo rifugio in La huela en la niebla (The Trace in the Fog) dell’argentino Emiliano Greco. L’anonimo personaggio, accusato di omicidio, torna sulla sua isola sul delta dell’immenso Paranà, ma intorno a lui c’è il vuoto e il rifiuto della famiglia e degli amici. Trova lavoro come pescatore e vaga a lungo sul fiume da solo sulla sua barca, incerto fra le due sponde. La “traccia” del titolo, ovvero la vita dell’uomo, è destinata a venir cancellata dalla nebbia. Altro bel risultato estetico è costituito da Sans titre (Untitled) del francese Clément Cogitore, misteriosa ricerca archeologica di un gruppo di scienziati dotati di strumenti tecnologici sofisticati nei sotterranei di una chiesa barocca abbandonata fra i boschi dell’alto Lazio e di vicine catacombe affrescate. In una grotta trovano delle capre che studiano e poi portano via. Ma una di esse rimane segretamente legata al suo habitat. Forse apologo sull’impossibilità di penetrare l’arcaico e il sacro, il film comunica una profonda sensazione di mistero, alla sorprendente scoperta di una religiosità occultata eppur presente in tempi e spazi apparentemente inaccessibili. Anche Tȏi quȇn rȏi! (I Forgot!) dell’argentino Eduardo Williams si impone per la persistenza inquietante di una sola immagine e di azioni ripetitive e solo apparentemente senza senso. Bande anonime di ragazzini vietnamiti si divertono a saltare da un palazzo vuoto all’altro in un quartiere della deserta periferia di Hanoi, ancora in costruzione e già abbandonato. I ragazzi sfidano il pericolo e la morte certa che sarebbe provocata dalla caduta nel vuoto, ma sopra di Film loro c’è il cielo, che viene misurato nella sua dimensione di infinito dalla sequenza finale costruita in verticale su un panorama sempre più vasto e incerto. Dai paesaggi naturali si passa al “paesaggio” umano di un volto che suggerisce inquietudine e solitudine attraverso l’anonimato e l’inespressività in Priklyuchenie (Adventure) del kazako Nariman Turebayev, rilettura pessimista e materialista de Le notti bianche di Dostoevskij, che era già stato occasione di una rivisitazione in chiave esistenzialista da parte di Visconti e di una meditazione religiosa sulla fedeltà e l’amore da parte di Bresson. Qui il protagonista è un solitario e afasico poliziotto, guardia giurata notturna, che trascorre nella noia e nell’inanità le lunghe notti di sorveglianza nella sua stazione di polizia. La donna in attesa di un uomo misterioso di fronte alla sua guardiola gli fa sperare un impossibile amore. Ma il sogno d’amore è destinato a infrangersi per la sua pochezza e la volubilità della donna. Tempi lunghi, immagini fisse, dialoghi che rivelano la miseria umana dei due, ironia, ineluttabilità del tempo che passa, queste le componenti espressive di un’opera compatta. Il tema della mappa e del viaggio attraverso territori più immaginati che reali viene affrontato con esiti sorprendenti. La serba Tamara Drakulic filma un pensoso diario di bordo su un cargo che attraversa l’Oceano verso le Hawaii per disperdervi le ceneri di un amico. Viaggio della memoria alla ricerca del significato ultimo della morte, la regista filma in modo poetico l’immensità del mare nel flusso sempre eguale e sempre diverso delle onde, a partire dallo spazio coatto della nave. Interessante anche la riflessione dei rapporti fra politica, evoluzione della scienza e conoscenza del territorio di The Measures delle franco-americane Jacqueline Goss e Jenny Perlin, che ripercorre la misurazione dello spazio fra il Mediterraneo e la Manica compiuta da Méchain e Delambre, inventori del sistema metrico decimale, sistema voluto dalla Convenzione per evitare le manipolazioni dei diversi metodi di calcolo e misura. Flavio Vergerio NEW HOLLYWOOD La seconda parte della retrospettiva sulla New Hollywood non ha rappresentato soltanto una prosecuzione di quanto già visto nel programma dell’edizione 2013: il bilancio finale, dopo due anni di intense visioni, ci presenta infatti un cammino costruito con cura, all’interno di una selezione capace di essere al contempo chia- Tutti i film della stagione rificatrice delle istanze portate avanti del filone, ma anche attenta ad aprirsi alle sue derive meno celebrate e purtuttavia non meno significative. Classici consolidati e nuove (ri)scoperte, insomma, che iniziano con il recupero di alcuni titoli fondamentali omessi dall’edizione 2013 - su tutti Il laureato di Mike Nichols, regista purtroppo scomparso proprio quando il festival andava a iniziare; dall’altra parte, però, i selezionatori hanno cercato di entrare più in profondità in un movimento troppo spesso considerato semplicemente di rottura rispetto alla tradizione del cinema americano classico e che, invece, appare ora aver proceduto anche nell’ottica di una rispettosa rimodulazione della stessa. Se infatti titoli come Taking Off di Milos Forman segnano in maniera decisamente marcata l’apertura di Hollywood a tematiche perfettamente addentro alla turbolenta temperie del pericolo (il confronto genitori/figli, la cultura hippy, il disagio umano e transgenerazionale), è anche vero come molti dei titoli che hanno fatto grande questo momento della storia del cinema riflettono con piglio quasi metalinguistico il senso di appartenenza a una società che è anche e soprattutto di confronto con il cinema dei “padri”. In questo senso è interessante l’idea di non limitarsi al cinema schiettamente autoriale, ma di allungare il passo anche verso quei prototipi di cinema di genere che mostrano gli innesti del nuovo cinema all’interno della macchina produttiva hollywoodiana. Ecco dunque titoli di prima grandezza come Lo squalo di Steven Spielberg, o dimenticati b-movie come Rolling Thunder di John Flynn, che illustrano le cooordinate emotive e spettacolari di un modo di fare cinema che non contrappone necessariamente arte e industria. Le possibilità che questo dialogo apre sono a dir poco esaltanti, laddove lasciano intravedere spiragli di sperimentazione all’interno delle strutture più rigide imposte dai generi e così, persino i filoni che convenzionalmente associamo proprio alle derive più commerciali della Hollywood d’epoca (come il catastrofico che furoreggiava nei Settanta) si aprono a possibilità autoriali spiccate. Lo squalo è infatti tanto un prodotto figlio della nascente cultura del blockbuster, quanto un tributo più ampio alle atmosfere dei western fordiani o dei classici della letteratura alla “Moby Dick”. A questo va aggiunto il Phase IV di Saul Bass, che reinventa il filone apocalittico degli animali assassini in un’ottica lisergica e straniante. Appare in tal senso congruo il percorso compiuto con questa retrospettiva bienna- 47 le, soprattutto se si contestualizza la stessa nel più ampio lavoro compiuto dal festival nel corso degli anni passati, oscillato fra gli omaggi ai registi che il nuovo movimento ha posto all’attenzione del pubblico (John Carpenter, George Romero, Walter Hill) e quelli agli autori “di confine”, che hanno cioè lavorato tanto nella stagione dello Studio System che in quella del cinema qui sotto la lente (John Huston, Robert Aldrich, Joseph Losey). Alla luce di simili considerazioni, la scelta di un simile percorso appare intelligente e necessaria. AFTER HOURS Da un paio d’anni la sezione After Hours ha intrapreso un percorso che è prosecuzione del vecchio Rapporto Confidenziale – con l’omaggio ai generi più forti della scena contemporanea – puntando al contempo a quella centralità di culto che hanno spazi come Midnight Madness al Festival di Toronto, ma senza necessariamente inseguire la collocazione in notturna. Uno spazio di tendenza, insomma, privilegiato per generi come l’horror o il noir, in cui far confluire anche piccole personali di autori meno allineati, del cinema di ieri e di oggi. In tal senso, possiamo ripartire il programma di quest’anno in tre parti: la prima con gli inediti e le nuove scoperte, e le altre due, con l’omaggio all’americano Jim Mickle e all’italiano Giulio Questi (scomparso subito dopo la fine della manifestazione, per il quale dunque la retrospettiva assume il malinconico valore di un commiato e di un testamento artistico). Le coordinate tracciate dal percorso risultano quindi molteplici, spaziano dal ricordo dei maestri al consolidamento del rapporto che il festival intrattiene con alcuni autori privilegiati (il Sion Sono di Tokyo Tribe, scatenato gangster movie in sala hip hop), senza dimenticare i nomi che già serpeggiano nella schiera degli appassionati dei generi. La sensazione è quella di un bizzarro e interessante percorso fra culture e tempi differenti, dove persino il programmatico piglio da B-movie di un The Guest (di Adam Wingard) o l’estemporaneo esperimento di noir metropolitano italiano di In guerra (di Davide Sibaldi) assumono una loro ragione d’essere. Titoli come Cold in July di Jim Mickle (dall’omonimo e bellissimo romanzo di Joe Lansdale), non a caso, insistono proprio sul tema del conflitto generazionale mentre intrecciano ironia al noir più disperato, radiografando una tendenza alla sovrapposizione di toni e temi che ben si confà alle strategie predilette dalla sezione. Film La vera sorpresa è comunque rappresentata dall’horror di David Robert Mitchell, It Follows, storia di una maledizione che perseguita alcuni adolescenti nella forma di una misteriosa creatura che può essere scacciata solo “passandola” ad altri attraverso un rapporto sessuale. Interessante metafora del conflittuale rapporto fra le vitalistiche pulsioni adolescenziali e una più sotterranea paura di vivere tipica dei nostri tempi dal futuro incerto, il film si presenta con una struttura da teen drama indipendente, porosa quanto basta per funzionare anche su un livello più schiettamente epidermico, regalandoci un’opera stratificata e che rinnova, finalmente, le finalità più importanti di un genere altrove molto appiattito sulle dinamiche dell’autoreferenzialità. FESTA MOBILE L’esuberante varietà di titoli proposti nella consueta sezione allargata di Festa Mobile marca ancora una volta il desiderio di libertà di una manifestazione che non si preoccupa di far tracimare le coordinate tematiche da uno spazio all’altro. Sorta di riproposizione “in grande” dello spirito che già anima After Hours, Festa Mobile rappresenta infatti la parte Tutti i film della stagione libera e inafferrabile del festival, animata proprio dalla mancanza di una direttrice unica, perché interessata soprattutto alla varietà e al rimescolamento delle aspettative. Ecco dunque gli omaggi a titoli del passato ripresentati in smaglianti versioni restaurate (Via col vento, Profondo rosso, Allegro non troppo, Il gabinetto del dottor Caligari), che si accompagnano alle nuove scoperte e ai titoli di più grosso appeal commerciale, sia che provengano dai più consolidati maestri (il Woody Allen di Magic in the Moonlight), che dai futuri talenti di domani. Applauditissimo in tal senso, e già destinato a furoreggiare ai prossimi premi Oscar, è stato Whiplash, di Damien Chazelle, storia del difficile rapporto tra un aspirante batterista e un inflessibile insegnante modellato sui classici canoni del sergente di ferro alla Full Metal Jacket, e interpretato dal grandissimo caratterista J.K. Simmons. Un canovaccio essenziale e non particolarmente originale, che funziona in virtù della sua trascinante forza emotiva e della perfetta collaborazione tra montaggio, fisicità interpretativa e brani musicali, quasi una specie di Saranno famosi ricalibrato su due singoli antagonisti. Fra le nuove scoperte segnaliamo invece l’inglese ‘71, di Yann Demange, tesissimo 48 racconto metropolitano su un soldato inglese rimasto indietro nei quartieri di Belfast dopo un tentativo fallito di sedare una rivolta dell’IRA: la macrostoria si accompagna al racconto di sopravvivenza che denota la capacità di realizzare un cinema di grande intrattenimento, ma con un occhio saldo alla realtà dei conflitti umani e dello scontro di idee. Sempre in odore di Oscar è Wild, di JeanMarc Vallé (veterano dei premi, essendosi rivelato con il celebre Dallas Buyers Club), prodotto e interpretato da Reese Whiterspoon, che ricostruisce la traversata del deserto americano compiuta a piedi da Cheryl Strayed nei primi anni Novanta, come prova di sopravvivenza e rinascita interiore. Ancora il racconto di un personaggio al limite (con più di un tratto in comune con la protagonista di Tracks, di John Curran), per il resoconto di un’odissea che ben si collega ai temi esplorati nella retrospettiva della New Hollywood, quasi a chiudere idealmente un cerchio: non sorprende pertanto che la pellicola abbia avuto il compito di chiudere la manifestazione torinese, come a voler marcare proprio la sua natura di epigono rispetto a un percorso tematico e a una tendenza a riflettere sulle coordinate del cinema americano di ieri e di oggi. Davide Di Giorgio FAST AND FURIOUS - di James Wang MERAVIGLIOSO BOCCACCIO - di Paolo e Emilio Taviani Anno XXI (nuova serie) - Poste Italiane S.p.A. 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