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UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL`ESISTENZA L

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UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL`ESISTENZA L
­­­­­­­Anno XXI (nuova serie) - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento postale 70% - DCB - Roma
Gennaio-Febbraio 2015
UN PICCIONE
SEDUTO SUL RAMO
RIFLETTE
SULL’ESISTENZA
133
L’ULTIMO LUPO
di Jean-Jacques Annaud
di Roy Andersson
BOYHOOH
di Richard Linklater
IL SALE
DELLA TERRA
di Wim Wenders,
Juliano Riberio Salgado
CENERENTOLA - di Kenneth Branagh
FAST AND FURIOUS
di James Wang
Euro 5,00
FAST AND FURIOUS - di James Wang
MERAVIGLIOSO BOCCACCIO - di Paolo e Emilio Taviani
SOMMARIO n. 133
Anno XXI (nuova serie)
n. 133 gennaio-febbraio 2015
Annie Parker ................................................................................................ 42
Bimestrale di cultura cinematografica
Biagio .......................................................................................................... 43
Edito
dal Centro Studi Cinematografici
Boyhood ...................................................................................................... 12
Buoni a nulla ................................................................................................ 40
00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6
tel. (06) 63.82.605
Sito Internet: www.cscinema.org
E-mail: [email protected]
Aut. Tribunale di Roma n. 271/93
Cattivissimo Me 2......................................................................................... 3
Cenerentola ................................................................................................ 4
Fast and Furious 7 ...................................................................................... 7
Abbonamento annuale:
euro 26,00 (estero $50)
Versamenti sul c.c.p. n. 26862003
intestato a Centro Studi Cinematografici
Fino a qui tutto bene .................................................................................... 26
Spedizione in abb. post.
(comma 20, lettera C,
Legge 23 dicembre 96, N. 662
Filiale di Roma)
Into the Woods ............................................................................................ 5
Si collabora solo dietro
invito della redazione
Maraviglioso Boccaccio ............................................................................... 10
Focus – Niente è come prima ..................................................................... 27
Frozen, il Regno di ghiaccio ........................................................................ 16
Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà ................................................ 17
Lettere di uno sconosciuto .......................................................................... 28
Metamorfosi del male (La) ........................................................................... 19
Direttore Responsabile: Flavio Vergerio
Direttore Editoriale: Baldo Vallero
Segreteria: Cesare Frioni
Redazione:
Alessandro Paesano
Carlo Tagliabue
Giancarlo Zappoli
Hanno collaborato a questo numero:
Giulia Angelucci
Veronica Barteri
Elena Bartoni
Davide Di Giorgio
Silvio Grasselli
Elena Mandolini
Fabrizio Moresco
Giorgio Federico Mosco
Flavio Vergerio
Mommy ........................................................................................................ 38
Mortdecai ..................................................................................................... 35
Nessuno si salva da solo ............................................................................. 34
Noi e la Giulia –............................................................................................ 13
Non sposate le mie figlie!............................................................................. 23
Oh Boy – Un caffè a Berlino ........................................................................ 11
Ouija ............................................................................................................ 22
Pasolini ........................................................................................................ 15
Piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (Un) ................................... 2
Postino Pat – Il film ...................................................................................... 30
Ricatto (Il) .................................................................................................... 9
Romeo & Juliet ............................................................................................ 24
Sale della terra (Il) ....................................................................................... 8
Storia della Principessa splendente (La) .............................................. 32
Stampa: Tipostampa s.r.l.
Via dei Tipografi, n. 6
Sangiustino (PG)
Suite francese ............................................................................................. 29
Timbuktu ...................................................................................................... 41
Ultimo lupo (L’) ............................................................................................ 39
Vergine giurata ............................................................................................ 21
Water Diviner (The) ..................................................................................... 31
Whiplash ...................................................................................................... 26
Nella seguente filmografia vengono
considerati tutti i film usciti a Roma e
Milano, ad eccezione delle riedizioni.
Le date tra parentesi si riferiscono alle
“prime” nelle città considerate.
Wild ............................................................................................................. 18
Tutto Festival – Torino 2014 ..................................................................... 45
Film Tutti i film della stagione
UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA
Svezia, Norvegia, Francia, Germania, 2014
Regia: Roy Andersson
Produzione: Roy Andersson Filmproduktion, in Co-Produzioen 4½ Fiksjon As, Essential Filmproduktion, Parisienne de
Production, Sveriges Television Ab, Arte France, Cinéma,
Zdf/Arte
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Roy Andersson
Direttore della fotografia: István Borbás, Gergely Pálos
Montaggio: Alexandra Strauss
S
am e Jonathan sono due venditori
ambulanti di articoli per le feste di
carnevale, sempre gli stessi : dei
denti da dracula, un’orrenda maschera in
lattice e un oggetto a ricarica che emette
una risata sinistra; non riescono a vendere
niente a nessuno e trascinano il loro fallimento tra l’alloggio dell’assistenza sociale
e altri luoghi dove incontrano personaggi
di ogni genere, soffocati dalla depressione
e dall’ inutilità del vivere. Quindi un alto
ufficiale sempre in confusione con gli orari
degli appuntamenti; dottori dediti agli
esperimenti sui cervelli delle scimmie; una
vogliosa, grassa e lubrica insegnante di
flamenco che tenta di sedurre un allievo e
poi piange il suo rifiuto in un bar; passanti
in attesa dell’autobus che dissertano sui
giorni della settimana senza accordarsi
sulla data dell’oggi etc.
Scenografia: Ulf Jonsson, Julia Tegström, Nicklas Nilsson,
Sandra Parment, Isabel Sjöstrand
Costumi: Julia Tegström
Interpreti: Holger Andersson (Jonathan), Nils Westblom
(Sam), Charlotta Larsson (Lotta Zoppa), Viktor Gyllenberg
(Carlo XII), Lotti Törnros (Insegnante di flamenco), Jonas
Gerholm (Colonnello solitario), Ola Stensson (Capitano/
Barbiere), Oscar Salomonsson (Ballerino), Roger Olsen
Likvern (Custode)
Durata: 100’
Gli ambienti sono i più svariati: centrale
e irresistibile il bar dove in un rimbalzo
spazio/tempo entra a cavallo Carlo XII di
Svezia mentre alla testa del suo esercito
(che si vede sfilare agguerrito e strombettante dalle vetrate) va alla battaglia contro i russi di Pietro il Grande; il re chiede
un bicchiere d’acqua e resta colpito dalla
grazia dell’efebico cameriere che convoca immediatamente con sé in prima linea.
Al ritorno, il re sconfitto e ferito rientra
nello stesso bar (senza il cameriere morto
sul campo) a prendere ancora un bicchiere d’acqua, mentre i resti del suo esercito
sfilano vinti e laceri visibili dalla stessa
vetrata.
A fare da leitmotiv conduttore di tutte
le scene sono gli impossibili tentativi di
vendita dei due scalcinati piazzisti e la
frase “mi fa piacere sapere che vi va tutto
2
bene”, detta come ritornello a un interlocutore sconosciuto al telefono da quasi
tutti i personaggi del film.
veva ragione Beckett nel dire che
niente è più comico dell’infelicità:
presumibilmente intendeva che
già il considerare possibile il dualismo tra
infelicità e felicità esprimesse una possente vis comica nella sua stessa impossibilità
di realizzazione.
Effettivamente nulla sembrerebbe
esistere se non come produzione del nostro cervello che si prepara l’aspettativa
di qualcosa, o qualcuno in cui investire il
significato della propria esistenza. Ecco
allora Beckett e il suo Godot, di cui forse
solo in epoca post moderna riusciamo a
cogliere in pieno la forza e la tragica constatazione di verità.
Questo film pare spiegare molto bene
questa fatica sterile e improduttiva dell’essere umano nel costruirsi una progettualità
continuamente vanificata o interrotta in
un ossessivo ricominciare che riporta al
punto di partenza: la costrizione in questo
perverso gioco dell’oca fa tabula rasa di
qualsiasi sentimento, soffoca sul nascere
ogni tentativo di dare corpo a dolori e gioie,
crudeltà e piaceri, rendendo possibile solo
un depresso e desolato annichilimento:
l’unica completezza si produce nelle frasi
ripetute e sospese, nella rincorsa distruttiva di appuntamenti, date, orari, giorni che
perdono completamente ogni significato.
Non verrà mai nessun Godot ad aiutarci, possiamo solo crearci una realtà parallela fatta di attesa, meccanicismi ipotetici
e intellettualistiche intenzioni espressi con
formule che sempre più assumono l’aspetto di balbettanti fonemi inariditi e sconfitti
in una spietata desolazione.
A mettere in immagini questa impossibilità esistenziale il regista Roy Andersson,
premiato a Venezia 2014, si avvale di
A
Film un’atmosfera surreale, grottesca, talvolta
spinta verso un riso irrefrenabile (come
si può restare impassibili di fronte alla
canzoncina compulsivamente riascoltata
da uno degli ambulanti giunto all’ultimo
gradino della propria sconfinata e indifesa
solitudine...?) o verso il non sense più
allucinato dei personaggi che si pongono
i loro interrogativi senza risposta, o verso
l’assurdo paradossale della rivisitazione
storica, emblematica della impossibilità di
vincere nel presente.
Straordinari tutti gli attori, a cominciare
Tutti i film della stagione
da Andersson e Westrom che conferiscono
ai due ambulanti la plastica fissità dei loro
corpaccioni strabordanti, delle loro facce
infarinate di pietre mobili tormentate e
tristissime che ricordano la costanza stralunata di Keaton e contemporaneamente
fanno intravedere una forza intima dolorosa
espressa in un grigiore angoscioso e lunare.
Abituati come siamo a dialoghi concatenati in ghirigori di astrusità, ai bagliori e
bombardamenti degli effetti speciali di ogni
tipo, abbiamo assitito a questo film come
al ritorno benefico e ossigenante dell’im-
magine pura: macchina fissa e davanti
attori che reinventano a ripetizione tutta
la nostra confusa impossibilità del vivere,
filtrato attraverso lo scoppio improvviso
di una comicità indistruttibile contro ogni
moda e ogni tempo.
Forse avevano ragione coloro che
sostenevano che il vero senso del cinema
e la sua profonda ragion d’essere erano
morti con l’avvento del sonoro più di ottant’anni fa’...
Fabrizio Moresco
CATTIVISSIMO ME 2
(Despicable Me 2)
Stati Uniti, 2013
Sceneggiatura: Ken Daurio, Cinco Paul
Montaggio: Gregory Perler
Musiche: Pharrell Williams, Heitor Pereira
Scenografia: Yarrow Cheney, Eric Guillon
Effetti: David Liebard
Durata: 98’
Regia: Chris Renaud, Pierre Coffin
Produzione: Illumination Entertainment
Distribuzione: Universal Pictures International
Prima: (Roma 10-10-2013; Milano 10-10-2013)
Soggetto: dai personaggi ideati da Sergio Pablos
G
ru è un ex cattivo. Continua a
collaborare con i suoi piccoli,
gialli e vivacissimi assistenti,
i Minion ma ha cambiato del tutto la sua
attività: ora nella sua cantina produce la
“Marmellosa”: una marmellata che contiene il gusto di tutti i frutti immaginabili
dal sapore schifoso. In questo nuovo lavoro di produzione si avvale del preziosissimo aiuto del prof. Nefario. Gru vive insieme a tre dolcissime bambine, le sue figlie
adottive, di nome Margo, Edith e la piccola Agnes. La Lega Anti Cattivi (L.A.C.,
nel film A.V.L.), un’organizzazione che si
occupa di crimini mondiali, sta lavorando
alla misteriosa scomparsa di un laboratorio Top Secret nel Circolo Polare Artico.
Qui si sperimentava il “PX41”, un potente
liquido viola capace di trasformare ogni
essere vivente in una inarrestabile bestia
viola. Un giorno, Gru riceve la visita di
Lucy Wilde, una agente della Lega Anti
Cattivi, inviata per poterlo ingaggiare. In
un primo momento Gru, arrivato al Quartier Generale, rifiuta l’offerta per via dei
suoi impegni familiari; una volta tornato
a casa però scopre che il prof. Nefario si
vuole licenziare per tornare a fare il cattivo. Così decide di accettare l’incarico e
insieme a Lucy di svolgere le loro indagini
all’interno di un centro commerciale fingendo di avere un negozio di muffin; Gru
comincia a sospettare di Eduardo, proprietario di un ristorante: egli infatti pensa che
questo somigli moltissimo al leggenda-
rio criminale di nome El Macho. La notte
stessa le due spie entrano furtivamente nel
negozio del sospettato ma non trovano alcuna traccia, escludendo così l’ipotesi di Gru
mentre iniziano a sparire misteriosamente i
suoi amici minion. Il capo della Lega Anti
Cattivi arresta il proprietario di un negozio
di parrucche, ritenendosi deluso dal lavoro
prestato da Gru e Lucy. Intanto tra loro nasce del tenero. Mentre Gru torna alla sua
attività, Lucy viene spedita in una filiale in
Australia. Un giorno, durante una passeggiata all’interno del centro commerciale,
Margo ha un colpo di fulmine con Antonio,
figlio del proprietario del ristorante messicano. Tutta la famiglia è invitata a una loro
festa durante la quale Gru scopre che i suoi
sospetti erano confermati. Egli trova il laboratorio di El Macho e incontra il Dr. Nefario al suo servizio. Era Eduardo il cattivo
dall’identità segreta che andavano cercando insieme a Lucy. Questa, intanto, tornata indietro dall’Australia, arriva al party e
viene rapita da Eduardo. I due protagonisti
riescono a sconfiggere il cattivo che voleva
trasformare tutti i mignon in terribili creature viola indistruttibili. Il prof Nefario, torna
a essere della vecchia squadra e fa usare
l’Antidoto PX41 sui minion contaminati.
Alla fine Gru e Lucy si sposano.
n cartone che non sfonda. Un
sequel che non raggiunge i livelli
del primo episodio. Cattivissimo
me 2, targato dagli stessi registi del primo,
U
3
Pierre Coffin e da Chris Renaud, pecca di
originalità. La trama ha pochi colpi di scena;
il cattivo Gru diventa troppo prevedibilmente
buono già dall’inizio del film. Il dissidio interiore del primo episodio, sulla sua natura
e che ci induceva a riflettere su quella di
ciascuno di noi, viene completamente a
mancare. Molto carino il personaggio della
spia Lucy Wilde. Il doppiaggio italiano è
ricco ed efficace con le voci di Arisa ma,
soprattutto, di Max Giusti e di Neri Marcorè.
Cattivissimo me 2, prodotto della Illumination Entertainment (Universal con
studi in Francia), cerca di differenziarsi dai
circuiti hollywoodiani. La struttura dello spy
movie resiste, si confonde con troppi altri
generi e per questo non convince del tutto.
Non mancano citazioni a James Bond e
Terrore dallo spazio profondo.
Elemento positivo è la rappresentazione molto originale di famiglia con un
uomo (ex cattivo) che adotta tre splendide
bambine. La colonna sonora è di Heitor
Peerira, infarcita di canzoni di Pharrel Williams. La sceneggiatura invece, scritta da
Cinco Paul e Ken Daurio, risulta sfilacciata
forse anche per un forzato tentativo di dare
spazio a questi simpaticissimi pupazzetti.
I minion infatti, come anche nel primo
episodio, continuano ad avere un ruolo
centrale nella storia; questo spiega il motivo dell’arrivo del nuovo film che vede solo
i piccoli pupazzetti gialli come protagonisti.
Giulia Angelucci
Film Tutti i film della stagione
CENERENTOLA
(Cinderella)
Stati Uniti, 2015
Regia: Kenneth Branagh
Produzione: Walt Disney Productions
Distribuzione: The Walt Disney Company
Prima: (Roma 12-3-2015; Milano 12-3-2015)
Soggetto: dalla omonima fiaba
Sceneggiatura: Chris Weitz
Direttore della fotografia: Haris Zambarloukos
Montaggio: Martin Walsh
Musiche: Patrick Doyle
Scenografia: Dante Ferretti
Costumi: Sandy Powell
Effetti: Clear Angle Studios, The Visual Effects Company,
The Moving Picture Company, Proof
Interpreti: Lily James (Ella / Cenerentola), Richard Madden
E
lla è una bambina splendida e
con i suoi genitori vive in una
bellissima casa in campagna.
Fin da piccola è molto gentile e buona
persino con gli animali della sua fattoria con i quali spesso dialoga. Nella sua
felice e serena famiglia viene educata al
rispetto e alla cura per l’altro.
La mamma le insegna infatti che,
come le fate madrine proteggono gli esseri umani, così a loro volta loro si prendono
cura degli animali. Sfortunatamente, un
giorno, la madre di Ella si ammala gravemente e, prima di morire, le ricorda che
nella vita la cosa più importante è l’essere gentile e l’avere coraggio. Il dolore da
superare è enorme anche per il papà innamoratissimo della moglie; ma insieme,
facendosi forza, padre e figlia trascorro-
(Principe), Cate Blanchett (Matrigna), Helena Bonham
Carter (Fata Madrina), Holliday Grainger (Anastasia),
Sophie McShera (Genoveffa), Hayley Atwell (Madre di Ella),
Ben Chaplin (Padre di Ella), Stellan Skarsgård (Granduca),
Nonso Anozie (Capitano), Derek Jacobi (Re), Leila Wong
(Principessa Mei Mei), Eloise Webb (Ella bambina), Laurie
Calvert (Cassius, capo delle guardie), Elina Alminas (Principessa Valentina), Ann Hoang (Principessa Hina), Gretel Elianova (Prudence), Finesse Fonseka (Principessa
Supriya dell’India), Monique Geraghty (Principessa Sasia
d’Arabia), Craig Mather (Principe Retinue), Drew SheridanWheeler (Nicolas Golding), Joshua Mcguire (Ufficiale di
Palazzo)
Durata: 105’
no gli anni successivi. Un giorno, l’uomo
confida a sua figlia di voler cambiar vita
e di volersi risposare con Lady Tremaine,
rimasta vedova di un ricco commerciante.
Con l’arrivo di Lady Tremaine e delle sue due figlie, la casa di Ella diviene
sede di mondanità, mentre il padre viaggia spesso per lavoro. Un giorno, l’uomo
è costretto per affari a lasciare la figlia
in compagnia della matrigna e delle sorellastre. Ma non c’è giorno che l’amato
genitore non le scriva.
La bontà e la pazienza di Ella fanno
sì che diventi una vera e propria vittima
delle altre tre donne: una volta trasformata nella loro serva e rintanata in soffitta,
Ella diventa per loro Cenerentola (nomignolo dispregiativo con il quale viene
ribattezzata) ma, nonostante questo, la
4
fanciulla non nutre verso loro alcun rancore. Un giorno però giunge la notizia
della morte del padre e la ragazza si sente
ormai sola a dover affrontare il male che
quotidianamente regna in casa sua.
Alla notizia della perdita del padre,
la matrigna e le sorellastre senza talento
sono preoccupate esclusivamente del loro
destino economico e cominciano a cacciare via l’intera servitù. Così tutto ciò
che vi è da fare in casa è esclusivamente
per Cenerentola. Durante una delle sue
passeggiate a cavallo nel bosco, Ella incontra un affascinante giovane. Questo si
presenta come Kit e dice di essere un apprendista alla corte reale. In realtà, altri
non è che il principe in persona che nasconde alla fanciulla la sua vera identità.
È amore a prima, vista ma Ella non fa in
tempo a presentarsi a Kit; deve fuggire a
casa. Intanto si avvicina per il principe il
momento di prendere in moglie una principessa secondo il volere del re suo padre,
ormai gravemente ammalato. Così, dopo
l’incontro con la ragazza dei sui sogni, il
principe suggerisce al padre di invitare
tutte le donne del regno, non solo nobili ma anche plebee. Naturalmente per la
matrigna e le sue figlie l’occasione che
si presenta è davvero succosa: chiedono
quindi a Cenerentola di far preparare alla
sarta per loro tre abiti per l’occasione.
Ma non per Cenerentola. Senza perdersi
d’animo Ella decide di fare da sé e con
l’aiuto dei suoi amici topolini Gas Gas e
Jacqueline si prepara anche lei ad andare
al ballo.
La matrigna, Anastasia e Genoveffa
splendono nei loro abiti ma non vogliono che anche la bellissima Ella partecipi.
Così le strappano il vestito e corrono al
Film ballo. Ella, in lacrime per il vestito della
madre ormai rotto e per l’ennesima cattiveria subita, è disperata perché non potrà
vedere il suo amico Kit. All’improvviso
appare una vecchiettina nel suo giardino
che le chiede qualcosa da mettere sotto i
denti. Ella con la sua gentilezza l’accontenta, ma non sa che di lì a poco quell’anziana signora si presenterà come sua fata
madrina.
Questa trasformando la zucca in carrozza e le lucertole, l’oca e i topini in umani per guidarla fa sì che Ella sia pronta
per andare al ballo. Dà una nuova forma
anche al suo vestito e alle sue scarpette,
rammentandole che l’incantesimo finirà
a mezzanotte. Cenerentola arriva al ballo
senza presentazioni, il principe la riconosce tra molte e anche lei si ricorda del suo
amico Kit. Così il principe la invita a ballare con lui e trascorrono tutta la serata
insieme in un giardino segreto. Ai primi
rintocchi della mezzanotte Ella fugge via
dal palazzo dimenticando una scarpetta
di cristallo lungo le scale. Giunta a casa
nasconde l’altra scarpetta in una botola
in soffitta che di lì a poco viene scovata
dalla matrigna che vuole sapere tutta la
verità dopo averle raccontato la sua storia di sofferenza passata; così la ricatta,
le dice di volere in cambio della scarpetta
il posto da regnante, ma Ella non accetta.
Così Lady Tremaine decide di chiuderla
in soffitta e va dal Granduca ricattando
anche lui: mentendo confida al duca che
la sua serva ha rubato la scarpa da qual-
Tutti i film della stagione
che principessa e in cambio di questa informazione chiede di diventare contessa
e di sistemare con dei conti entrambe le
sue figlie.
Morto il re, il principe fa sapere al suo
popolo che intende sposare la misteriosa
principessa della scarpetta di cristallo.
Così comincia la sua ricerca in tutto il
regno. Giunti alla casa di Ella, la matrigna fa fare inutilmente la prova scarpetta
alle sue due figlie tenendo nascosta Cenerentola. Il Granduca e il capitano stanno
per lasciare la casa quando quest’ultimo
ode una voce soave provenire dalla casa:
infatti i topolini avevano nel frattempo
aperto la finestra della soffitta per aiutare
la loro amica. Così Cenerentola svela la
sua vera identità al principe che la accetta per quel che è. La scarpetta le calza a
pennello e così i due si sposano e vivono
felici e contenti.
ilderoy Lockhart sarebbe stato
fiero di questa versione contemporanea di Cenerentola.
Kenneth Branagh, famoso per tanti ruoli
diversi impersonati in vari film (tra i quali
in Harry Potter appunto), si mette nuovamente dietro la macchina da presa (dopo
i tanti riadattamenti shakespeariani) per
rielaborare in veste cinematografica il
famoso capolavoro della Walt Disney del
1950. Cenerentola con la complicità dello
sceneggiatore Chris Weitz e la fotografia
di Haris Zambarloukos si rivela un live
action dagli interessanti risvolti psicologi-
G
ci. La bontà e la gentilezza di Ella sono
disarmanti (ogni cosa che accade non le
fa perdere mai la speranza e la gentilezza
d’animo); un altro aspetto interessante
è l’attaccamento di Ella al luogo in cui è
nata e cresciuta, che le danno la forza di
rimanere lì. Il rapporto tra il re e suo figlio
è molto realistico e matura durante il corso
del film; anche il personaggio di Lady Tremaine, genialmente interpretato da una
strepitosa Cate Blanchett, fa riscoprire
una crudeltà non fine a se stessa, ma cicatrice di un doloroso passato. Le stesse
parole di Ella lo sottolineano: “Anche la
matrigna aveva conosciuto la sofferenza,
ma la mostrava con grande eleganza”.
Sempre riguardo al suo personaggio,
magistrale la sequenza della soffitta dove
la matrigna si confida e parla della sua
storia alla figlia acquisita. Cenerentola,
prima di uscire fuori dalla sua casa per
mano al principe (interpretato da Richard
Madden della serie tv di culto Il trono di
spade) , si volta e dice alla matrigna, dopo
aver ricevuto tanto male, di perdonarla.
Anche questo elemento è da sottolineare rispetto a tanti altri film dove spesso
il personaggio buono è anche passivo.
Deliziosa la fata madrina interpretata
da Helena Bonham Carter. I costumi di
Sandy Powell e le scenografie di Dante
Ferretti impreziosiscono la pellicola e tutte
le trasformazioni precedenti la scena del
ballo sono realizzate magnificamente.
Giulia Angelucci
INTO THE WOODS
(Into the Woods)
Stati Uniti, 2014
Effetti: Matt Johnson
Interpreti: Meryl Streep (Strega), Emily Blunt (Moglie del
Fornaio), James Corden (Fornaio), Anna Kendrick (Cenerentola), Chris Pine (Principe di Cenerentola), Johnny Depp
(Il Lupo), Tracey Ullman (Madre di Jack), Christine Baranski
(Matrigna di Cenerentola), Lilla Crawford (Cappuccetto Rosso), Daniel Huttlestone (Jack), Mackenzie Mauzy (Rapunzel),
Billy Magnussen (Principe di Rapunzel), Tammy Blanchard
(Florinda), Lucy Punch (Lucinda), Frances de la Tour (Gigantessa), Simon Russell Beale (Padre del Fornaio), Richard Glover (Fattore), Joanna Riding (Madre di Cenerentola),
Annette Crosbie (Nonna)
Durata: 125’
Regia: Rob Marshall
Produzione: Rob Marshall, John Deluca, Marc Platt, Callum
McDougall per Lucamar Productions, Walt Disney Pictures
Distribuzione: The Walt Disney Company
Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015)
Soggetto: dal musical omonimo di James Lapine e Stephen
Sondheim
Sceneggiatura: James Lapine
Direttore della fotografia: Dion Beebe
Montaggio: Wyatt Smith
Musiche: Stephen Sondheim
Scenografia: Dennis Gassner
Costumi: Colleen Atwood
I
n un piccolo villaggio, un fornaio
e sua moglie vivono felici e per
esserlo ancora di più vorrebbero avere un bambino. Ma non sanno
che sulla loro casa è stato gettato un
terribile sortilegio da una strega a cui
il padre del fornaio aveva sottratto dei
fagioli magici. Questo gesto aveva por-
5
tato la strega a perdere la sua bellezza e
a costringerla a rapire la figlia del padre del fornaio (Raperonzolo). Fortunatamente però l’incantesimo può essere
Film sciolto: la strega chiede di avere entro
tre mezzanotti una mucca bianco latte,
un mantello rosso sangue, dei capelli
color granturco e una scarpetta dorata.
Solo così Baker e sua moglie potranno
avere un figlio. Intanto nella piena povertà il giovane Jack non riesce più a
mungere la sua mucca e viene mandato dalla madre al mercato a venderla a
non meno di cinque sterline; una bambina dal mantello rosso viene a chiedere
del pane al fornaio per sua nonna. Altri
non è che Cappuccetto Rosso. Questa,
durante il suo tragitto nel bosco, incontra il lupo che la divorerà al suo arrivo
a casa dopo aver mangiato la nonna.
La principessa dai capelli lunghissimi,
Raperonzolo, è rinchiusa in una torre e
un giorno si accorge della sua presenza
un principe che ogni notte la va a trovare. La strega, sua madre adottiva, per
paura di non proteggerla abbastanza le
taglia i capelli che le consentono di avere contatti con il mondo esterno e per
gelosia fa perdere la vista al principe.
Nel frattempo, Cenerentola, orfana di
madre, viene maltrattata dalla matrigna
e dalle sorellastre e sogna di andare al
ballo del principe. Per tre notti di fila,
riesce a partecipare al ballo concludendo sempre la serata con la fuga. Il
fornaio, insieme all’aiuto della moglie
e dopo tanta fatica, riesce ad avere i tre
oggetti e a consegnarli in tempo alla
strega che riacquista la sua vecchia
beltà. Tutto sembra andare per il verso giusto in occasione del matrimonio
di Cenerentola. Raperonzolo ha trovato
il suo amore, Jack e la madre si sono
arricchiti (il ragazzo dopo aver rubato
gli oggetti presi nel regno del gigante
raggiunto con il fagiolo magico, aveva
ucciso il gigante) e Cappuccetto Rosso è stata liberata insieme alla nonna
dalla pancia del lupo grazie al fornaio
quando il regno viene minacciato dalla
gigantessa, furiosa di aver perso il proprio marito e in cerca di Jack per avere
vendetta. Il villaggio viene distrutto e,
mano a mano, muoiono la mamma di
Jack, la nonna di Cappuccetto Rosso e
la moglie del fornaio. Cenerentola abbandona il proprio principe dopo aver
scoperto il suo tradimento con la moglie del fornaio. Così i superstiti Baker,
Cappuccetto Rosso, Jack e Cenerentola,
uniti insieme nel dolore, riescono a sconfiggere la gigantessa e costruire dal nulla una nuova famiglia e un nuovo futuro.
Tutti i film della stagione
olo attraversando i propri
boschi si può raggiungere il
cambiamento. Questo potrebbe riassumere un po’ l’idea alla base
del nuovo film musicato della Disney. La
pellicola, targata Rob Marshall, racchiude in sé cinque grandi favole classiche
(fiabe popolari di Perrault e dei Grimm)
riadattate in chiave moderna nei sontuosi
costumi di Colleen Atwood (premi vinti
con Nine, Chicago e Memorie di una
geisha, tutti firmati da Marshall). Il cast
stellare vanta nomi come Meryl Streep,
Johnny Depp, Emily Blunt, Chris Pine,
James Corden, Anna Kendrick e Frances
de la Tour (nella parte della gigantessa)
che ricordiamo in Harry Potter e il calice
di fuoco e in Harry Potter e i doni della
morte parte I. “I sogni son desideri di
felicità”, ma il monito di questa nuova
storia raccontata dal bardo disneyano
è che bisogna stare attenti a quello che
si desidera e a quanto lo si desidera.
L’idea alla base di Into the woods risale
però a James Lapine e Stephen Sondheim che nel 1987 scrissero e misero
in note questo musical che racchiude
quattro favole celebri (Cenerentola,
Cappuccetto Rosso, Raperonzolo, Jack
e la pianta di fagioli). Qua e là si trova
qualche rima baciata fuori posto e poco
utile e forse solo gli amanti del musical
potranno apprezzare a pieno quest’opera. Sicuramente si tratta di un film
molto cantato ma, soprattutto, viene da
chiedersi: è un film per grandi e piccini?
Anche se alcuni critici lo appuntano come
puro esercizio di stile è proprio questa
dimensione metacinematografica a fare
della pellicola un’opera dal contrappunto
originalissimo. Forse, sfortunata la scelta
di uscire quasi con contemporanea con la
Cenerentola brannaghiana; il pubblico si
troverà diviso tra le differenti modalità di
intendere la favola ai giorni nostri.
Into the woods è una commedia
musicale dai toni ironici, a partire dalla
principessa Cenerentola, figlia dell’indecisione e dell’insicurezza del nuovo
secolo, fino ad arrivare ai due principi che
per cantare come due galletti vanitosi
finiscono per far ridere di gusto il pubblico. Quegli stessi prìncipi che un tempo
facevano sognare fanciulle e madri sono
gli stessi che possono avere anche una
sbandata per un’umile fornaia. Anche
qui, come già detto per Maleficent e per
Frozen, si continua a ribadire il cambio di
rotta della Disney nel mostrare altri tipi di
S
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amore puro rispetto ai vecchi e tradizionali “…e vissero felici e contenti”. Anche
qui troviamo una madre adottiva (una
strega interpretata da una formidabile
Meryl Streep) che, per proteggere la sua
adorata figlia, la rinchiude in una torre
nascosta nel bosco. La figlia in questione
altri non è che Rapunzel; ed allora come
è possibile che non riaffiori alla nostra
mente quella strega malefica di Angelina
Jolie e il suo amore per Aurora? Sempre
di amore si parla a proposito del fornaio e
di sua moglie: solo affrontando il bosco e
le prove che la strega ha imposto loro, i
due intensificano la loro unione. Inoltre,
in tempi di crisi, è caduta, è il caso di dirlo
a fagiolo, la scelta di Giacomino e del
fagiolo magico che fa di tutto per togliere
da una condizione di povertà estrema la
madre. È passata ormai quell’era in cui
le favole narravano di personaggi idealizzati a cui tendere. Oramai le fiabe dei
nostri giorni rappresentano e incarnano
fino all’essenza del loro essere la natura
e gli umori dei nostri tempi. Ma il messaggio di Into the woods è molto profondo ed
è racchiuso proprio a conclusione della
storia: i desideri sono come i figli, implicano delle responsabilità. Quei vorrei
(wish) a inizio film fanno sì che un po’ tutti
i personaggi, come Cappuccetto Rosso,
cambino il loro percorso una volta all’interno del bosco. Il bosco e i suoi incontri
quali metafora della vita. Un bosco che
viene considerato più rifugio che minaccia. Questo solo in apparenza. Perché
quando si attraversa un bosco non si
esce mai come si è entrati. Il film sembra
infatti concludersi quando Cenerentola
sposa il suo principe. Ma tutti i desideri
esauditi sono stati pagati a caro prezzo
da tutti i personaggi e per questo, da lì in
poi, la storia prende tutta un’altra piega.
La prima parte più ottimista e positiva
del film si contrappone nettamente alla
seconda. Geniale la scena in cui ognuno
incolpa l’altro per l’arrivo della gigantessa distruttrice; l’apice si raggiunge con
la strega, che rappresenta tutti quegli
individui che si sentono in minoranza a
provare consapevolezza della propria
perfidia e della propria ipocrisia. La
sua sparizione è una aperta denuncia
al nostro mondo in cui tutti vivono tra
menzogne e agognati desideri mossi
dall’egoismo. Senza incantesimi e boschi
che tengano.
Giulia Angelucci
Film Tutti i film della stagione
FAST & FURIOUS 7
(Furious 7)
Stati Uniti, 2015
Interpreti: Vin Diesel (Dominic ‹Dom› Toretto), Paul
Walker (Brian O›Conner), Dwayne Johnson (Agente Luke
Hobbs), Michelle Rodriguez (Letty Ortiz), Tyrese Gibson
(Roman Pearce), Chris ‹Ludacris› Bridges (Tej Parker),
Jordana Brewster (Mia Toretto), Djimon Hounsou (Mosi
Jakande), Tony Jaa (Kiet), Ronda Rousey (Kara), Nathalie
Emmanuel (Ramsey), Kurt Russell (Sig. Nessuno), Jason
Statham (Deckard Shaw), Elsa Pataky (Elena Neves), Lucas Black (Sean Boswell), Sung Kang (Han), Luke Evans
(Owen Shaw), Romeo Santos (Mando), John Brotherton
(Sheppard)
Durata: 140’
Regia: James Wan
Produzione: Neal H. Moritz, Vin Diesel, Michael Fottrellper
Original Film, One Race Films
Distribuzione: Universal Pictures International
Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015)
Soggetto: dai personaggi ideati da Gary Scott Thompson
Sceneggiatura: Chris Morgan
Direttore della fotografia: Stephen F. Windon
Montaggio: Christian Wagner
Musiche: Brian Tyler
Scenografia: Bill Brzeski
Costumi: Sanja Milkovic Hays
D
ominic Toretto, Brian e gli
altri sembrano essere tornati a vivere nella normalità dopo aver sconfitto Owen Shaw. Un
giorno, tuttavia, il fratello del criminale,
Deckhard Shaw, ex membro dei servizi
segreti britannici, ferisce gravemente
l’agente Luke Hobbs e giura vendetta
contro il team di Toretto. Tempo dopo,
Dominic riceve un pacco postale da Tokyo, che esplode improvvisamente e che
mette a rischio la vita dell’intera famiglia. Dominic scopre che il mittente del
pacco è Deckhard Shaw e si mette sulle
sue tracce. A questo punto fa la conoscenza di Frank Petty, uomo oscuro che
lavora per i servizi segreti statunitensi,
che gli propone di collaborare per neutralizzare Deckhard. Petty e i suoi uomini hanno sviluppato un software chiamato “L’Occhio di Dio” con cui sono in
grado di sorvegliare il mondo intero e
risalire a qualunque criminale. Il software tuttavia è stato rubato da un hacker
chiamato Ramsey. Dom, Brian e gli altri
si recano sulle montagne del Caucaso
per scovare Ramsey e appropriarsi dell’“Occhio di Dio”. Dopo una folle corsa,
i ragazzi trovano Ramsey, che confessa
d’aver nascosto il software ad Abu Dabi.
Il team si sposta quindi negli Emirati
Arabi, e dopo una missione non priva
di complicazioni, riescono finalmente a
ottenere il programma. Sul più bello tuttavia irrompe Deckhard Shaw, che, dopo
uno scontro all’ultimo sangue, fugge con
“L’Occhio di Dio”. Brian, Dom e il resto della squadra tornano a Los Angeles
attendendo l’arrivo del criminale pronto
a vendicarsi. Shaw, accompagnato dal
terrorista Jackande, non si fa attendere
e colpisce la squadra utilizzando il software e un drone armato di missili. Dom
e Shaw si ritrovano, una volta ancora, in
un tremendo testa a testa, mentre Brian
lotta disperatamente contro Jackande
e il resto della squadra tenta di manomettere il programma. Dopo numerosi
pugni, inseguimenti ed esplosioni, i ragazzi riescono ad avere la meglio, anche grazie all’inaspettato arrivo dell’agente Hobbs, tornato in forma dopo il
tempo trascorso in ospedale. Jackande
viene ucciso e Shaw arrestato. La famiglia può tornare a vivere in pace,
Brian si dedica finalmente alla moglie,
nuovamente incinta, e a suo figlio. Nel
commovente finale, Brian e Dominic si
mettono in macchina per un’ultima corsa insieme.
l settimo capitolo dell’ormai serie cult
Fast and Furious non poteva non
essere che il racconto struggente
e malinconico di un addio. L’improvvisa
morte del protagonista della serie, Paul
Walker, avvenuta il 30 novembre 2013, a
I
7
poco più di un mese dall’inizio delle riprese, ha infatti inevitabilmente influenzato in
maniera decisiva la produzione del film di
James Wan. Dopo l’incidente che causò la
morte dell’attore, la Universal, casa produttrice della pellicola, decise di interrompere
le riprese, che sarebbero poi ricominciate
soltanto nell’aprile del nuovo anno e con il
consenso di attori e regista, intenti a onorare l’impegno preso e a ricordare l’amico
scomparso. Il personaggio di Walker, che
aveva girato soltanto poche scene del
film, è stato montato in post-produzione
grazie alla decisione dei due fratelli, Cody
e Caleb, di prestare visi e corpi alla causa.
Nell’insieme dunque, aldilà del marketing,
è impossibile non percepire la pellicola
come un grande, lungo in memoriam, che
mette inevitabilmente in secondo piano
la già fragile trama. Rispetto al capitolo
precedente, e in generale all’apprezzabile
evoluzione dei Fast and Furious, passati
da film “sulle corse” a veri e propri action-
Film movies, questo capitolo sembra fare,
quasi appositamente, un passo indietro,
mescolando in maniera ostentata ed
esagerata, i caratteri dominanti dei primi
capitoli: macchine veloci, muscoli, belle
donne. Lo script si rivela scricchiolante, lo
schema della storia banale e prevedibile,
nonostante un cattivo – Jason Statham –
credibile tanto quanto i suoi antagonisti
(Vin Diesel su tutti). Nei voli da palazzo a
palazzo, nelle cadute libere, nei primi piani sulle curve delle ragazze prorompenti
– insomma, nelle sue esagerazioni- la
pellicola riesce anche ad avere un suo
umorismo, un’onesta coscienza di aver
Tutti i film della stagione
colto a piene mani dall’eterna cultura del
“big entertainment “ in salsa stelle e strisce, una volontà di intrattenere e divertire,
anche, o forse proprio per via dell’atteso
finale malinconico. È invero impossibile
per lo spettatore non cancellare da ogni
dialogo, da ogni duello, da ogni ripresa,
il pensiero dell’addio a Paul Walker. E
questo arriva. Arriva però in maniera inaspettata, mescolando, come non poteva
essere altrimenti, realtà e finzione, cinema
e vita, Paul e Brian e sopperendo in un
colpo solo a tutte le evidenti mancanze
della pellicola. Il commovente montaggio finale infatti si pone a suggello di un
percorso, non soltanto cinematografico,
ma esistenziale. Per gli amici di Walker,
per la famiglia, per i colleghi, per il pubblico. Come ripete la canzone durante i
frammenti degli episodi passati e come
ripete Dominic (o Vin Diesel stesso, amico di Walker anche nella vita vera) fuori
campo tuttavia, non si tratta di un addio,
ma soltanto di un arrivederci. Le strade
si dividono, il sole splende alto, le due
macchine continuano a correre, una nel
presente, una verso il cielo, ma sempre
un quarto di miglio alla volta.
Giorgio Federico Mosco
IL SALE DELLA TERRA
(Le sel de la terre)
Francia, Italia, Brasile, 2014
Regia: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado
Produzione: Amazonas Images, Decia Films, Solares Fondazione delle Arti
Distribuzione: Officine Ubu
Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Juliano Ribeiro Salgado, Wim
N
ato in Brasile, dopo una formazione universitaria come
economista, Sebastião Salgado decide, in seguito a una missione in
Africa, di diventare fotografo. Nel 1973
realizza un reportage sulla siccità del
Sahel, seguito da uno sulle condizioni di
vita dei lavoratori immigrati in Europa.
Le sue foto, inizialmente filtrate dall’eredità culturale sudamericana, attirano
l’attenzione su tematiche scottanti, come
i diritti dei lavoratori, la povertà e gli
effetti distruttivi dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo. Una tra
le sue raccolte più famose è ambientata
nella miniera d’oro della Serra Pelada, in
Brasile, e documenta un abuso dei diritti
umani senza precedenti. Migliaia di persone sono ritratte mentre si arrampicano fuori da un’enorme cava su primitive
scale a pioli, costretti a caricare sacchi
di fango che potrebbero contenere tracce
d’oro. Entra a far parte di varie agenzie,
documenta guerre, rivoluzioni e la guerra
coloniale in Angola e in Mozambico. Anni
dopo, insieme a Leila, sua moglie, dà vita
ad Amazonas Images, una struttura autonoma completamente dedicata al suo
lavoro. Salgado si occupa soprattutto di
reportage di impianto umanitario e sociale, consacrando mesi, se non addirittura
Wenders, David Rosier
Direttore della fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro
Salgado
Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Myers
Musiche: Laurent Petitgand
Durata: 110’
anni, a sviluppare e approfondire tematiche di ampio respiro. Inizia con l’America
Latina per documentarsi sulla vita delle
campagne e dei suoi abitanti, alla drammatica situazione della carestia in Africa.
Si spinge fino in Siberia, per ammirare la
natura, per poi tornare negli scenari della
ex Jugoslavia. Nel corso della sua quarantennale opera, viaggia in tutto il mondo,
testimoniando la miseria, la povertà e la
crudeltà dell’uomo in paesi come Somalia,
Ruanda, Etiopia e Jugoslavia. Dal 1993
al 1999 il fotografo lavora sul tema delle
migrazioni umane. I suoi reportage sono
pubblicati da molte riviste internazionali.
Ha due figli, Juliano, che vediamo nel documentario a fianco al padre e un bambino
affetto dalla sindrome di down. L’ultimo
suo lavoro, Genesi, ha come scopo quello di presentare gli habitat e le comunità
umane ancora intatte. Nel 2013 Salgado
ha dato il suo sostegno alla campagna di
Survival International per salvare gli Awá
del Brasile, una tra le tribù minacciate nel
mondo. Il documentario mostra anche lo
straordinario lavoro fatto dal brasiliano
e da sua moglie nel ripristinare una parte
della foresta atlantica del Brasile e nella
fondazione dell’“Instituto Terra”: un’organizzazione che ha come obiettivi la riforestazione, la conservazione e l’istruzione.
8
limentato dalla potenza lirica
della fotografia di Sebastião
Salgado, Il sale della terra è un
documentario monumentale, che traccia
l’itinerario artistico e umano del fotografo
brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e
Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell’artista,
il film, premiato nel Certain Regard a Cannes e proiettato al Festival Internazionale
del Film di Roma, è un’esperienza estetica
esemplare e potente, una testimonianza
sullo splendore del mondo e sulle responsabilità dell’essere umano. Alternando
la storia personale di Salgado con le
riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il
documentario ha un respiro intimo, simile
quasi ad una preghiera. Un momento di
riconciliazione con Dio. Quella di Salgado
è infatti un’epopea fotografica, un sogno
che si trasforma in realtà, il mondo intero
che si esprime attraverso un obiettivo fotografico. Viaggiatore irriducibile, l’uomo ha
esplorato ventisei paesi e concentrato le
sue esperienze e il suo vissuto in immagini
in bianco e nero di una semplicità sublime
e di una veridicità brutale. Sembra che da
un momento all’altro possano prendere
vita. Interrogato dallo sguardo fuori campo
di Wenders e accompagnato sul campo
dal figlio, l’artista si racconta attraverso
i suoi reportage che hanno esaltato la
A
Film bellezza del pianeta, ma anche gli orrori di
cui è colpevole la razza umana. Fotografo
umanista della miseria e della tribolazione
umana, Salgado racconta l’avidità di milioni di ricercatori d’oro brasiliani, sprofondati
nella più grande miniera a cielo aperto
del mondo, denuncia i genocidi dei Tutsi
in Ruanda, rimane affascinato dai pozzi
di petrolio incendiati in Medio Oriente e
dalle zanne dei leoni marini. Un viaggio
epico che testimonia l’uomo e la natura,
la sua maniera di creare e distruggere,
le storie di sopraffazione scritte dall’economia, l’effetto delle nostre azioni sulla
natura. Un lavoro scritto attraverso la
luce, le espressioni e gli sguardi dei soggetti. Wenders, straordinario “ritrattista”
converte in cinema le immagini fisse,
scorre le visioni in una scala di grigi e nei
chiaroscuri, impressionato da un uomo che
ha il coraggio di raccontare, attraverso la
sua macchina, il significato dell’esistenza
e i segreti più intimi e profondi del mondo
e della società. Spogliate da ogni tipo di
distrazione, compreso il colore, le sue
fotografie attestano la conoscenza precisa
dei luoghi e i rapporti che l’artista intrattiene
con qualsiasi cosa entri a far parte del suo
lavoro: uomini, animali, natura ripresi nella
loro naturalezza e non “in posa”. Foto che
emozionano, provocano e fanno riflettere,
arrivando dentro alle cose, perché nascono dall’osservazione, dalla testimonianza
umana. Il regista tedesco cerca di dare
una forma all’idea di cui gli scatti sono
portatori. Fotogrammi che penetrano nelle
foreste tropicali dell’Amazzonia, del Con-
Tutti i film della stagione
go, dell’Indonesia e della Nuova Guinea,
attraversano i ghiacciai dell’Antartide e i
deserti dell’Africa, scalano le montagne
dell’America, del Cile e della Siberia. Forse
è anche riduttivo chiamarle solo fotografie,
poiché sono in grado di raffigurare pensieri
e riflessioni, quasi fossero pagine di un
romanzo. Un modo diverso e poetico di
narrare. Grazie anche al supporto, fondamentale, della voce narrante del fotografo
stesso, ci si commuove ed emoziona fino
alle lacrime, si prova vergogna assistendo
a quello che i nostri simili sono stati capaci
di fare al mondo e agli esseri umani. E
ancora si resta a bocca aperta davanti alla
maestosità di certi paesaggi e si finisce con
il coraggio di nutrire ancora una speranza.
Come è successo a Sebastiano e sua
moglie, che sono stati capaci di ridare la
vita a un terreno arido e di farvi crescere
una foresta. Nel film, Wenders e Juliano
Salgado trasformano le immagini fisse in
lunghi e lenti piani sequenza, accompagnati da un sottofondo sonoro che dilata i
tempi cinematografici. La lunga intervista
riprende in primo piano il volto segnato
dall’età del fotografo, valorizzando l’umanità del suo sguardo. Come una sorta di
auto-rappresentazione, in cui il fotografo
è contemporaneamente dietro e davanti
all’obiettivo. Un’opera imponente che non
deve essere spiegata, ma solo ammirata;
un inno alla natura che ci permette di non
perdere la fede nella nostra specie.
Veronica Barteri
IL RICATTO
(Gran Piano)
Spagna, 2013
Scenografia: Javier Alvariño
Costumi: Patricia Monné
Effetti: Javier Jal, Álex Villagrasa
Interpreti: Elijah Wood (Tom Selznik), John Cusack
(Clem), Kerry Bishé (Emma Selznick), Tamsin Egerton
(Ashley), Allen Leech (Wayne), Don McManus (Reisinger),
Dee Wallace-Stone (Marjorie Green), Alex Winter (Assistente)
Durata: 90’
Regia: Eugenio Mira
Produzione: Nostromo Pictures, in associazione con Antenna
3 Films
Distribuzione: M2 Pictures
Prima: (Roma 20-3-2014; Milano 20-3-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Daniel Chazelle
Direttore della fotografia: Unax Mendia
Montaggio: José Luis Romeu
Musiche: Victor Reyes
T
om Selznik, pianista di fama mondiale, torna a calcare il palcoscenico dopo cinque anni di assenza.
Sua moglie, cantante nota anche lei a livello internazionale, lo convince ad esibirsi di nuovo. Il musicista infatti era rimasto scioccato e aveva interrotto la sua
carriera dopo gli errori commessi nell’esecuzione di La cinquette, un pezzo scritto
dal suo maestro Patrick. Una volta iniziata l’esecuzione, Tom, oltre alla rinnovata
ansia da prestazione davanti al pianoforte
dopo anni di assenza davanti al pubblico, dovrà fronteggiare un stress emotivo
9
ancora più grande: sullo spartito infatti
trova degli ordini e delle minacce segnate
in rosso. Un uomo si mette in collegamento con lui via auricolare; il suo minaccioso dictat è che il pianista sia impeccabile
nella sua esecuzione di La cinquette altrimenti verranno uccisi lui e la moglie.
Film Pur non avendo lo spartito, l’artista viene
quindi costretto a eseguire quello stesso
brano che lo aveva drammaticamente sottratto dalle scene. Quella che segue è una
escalation di pura tensione. Tom comunica con il suo ricattatore mentre suona, fa
avanti e indietro dal palco suscitando la
curiosità del pubblico. In platea tra i tanti
suoi sostenitori c’è un amico a cui il musicista disperato manda un sms di aiuto.
Durante l’esecuzione l’amico Wayne e la
sua compagna Ashley verranno uccisi da
uno scagnozzo del ricattatore. Per tutto il
film sembra che a ricattarlo sia un mitomane, o un fanatico della musica quando
invece si scopre che l’uomo misterioso altri non è che il costruttore del pianoforte
socio in affari con il maestro Patrick, il
quale alla sua morte aveva deciso di lasciare un conto in Svizzera. Peccato che
la chiave per il piccolo tesoretto sia conservata nel pianoforte e che per potersene appropriare si debbano eseguire alla
perfezione le ultime quattro battute di La
cinquette. Tom non intende fare il bis di
un pezzo che non era in scaletta; decide
quindi di far esibire la moglie in un fuori
programma e, mentre lei canta, lui riesce
a rintracciare il ricattatore. Dopo una
lunga lotta sul passaggio pedonale per le
americane i due cadono sul palco. Il ricattatore muore mentre Tom riesce a salvarsi
Tutti i film della stagione
insieme la moglie. Una volta arrivata la
polizia, svuotato il teatro e portato fuori il
pianoforte completamente distrutto, Tom
Selznik torna indietro e cerca di rifare,
stavolta correttamente, le quattro battute
finali. In questo modo riesce a scardinare il meccanismo e a impossessarsi della
chiave.
n puro esercizio di stile quello de
Il ricatto di Eugenio Mira.
Il regista fa continue citazioni
ad autori e film che hanno fatto la storia
del thriller internazionale, da Paura in
palcoscenico a L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock fino a In linea con
l’assassino di Joel Schumacher. La pellicola risulta ricchissima di spunti estetico
stilistici, dall’uso dei trasparenti nei piano
sequenza alle diverse scene doppie in
montaggio parallelo. Stupefacente e a
tenere letteralmente sulla corda la scena
del taglio della gola dell’amico di Selznik
che, attraverso il montaggio focus sull’archetto, passa sulle corde di una viola.
Un ottimo esercizio di stile quello di Mira
che si guasta sulla sceneggiatura. L’idea
di base è realmente buona e originale,
ma è lo svolgimento a lasciare un po’
perplessi. A cominciare dal dire che risulti
poco credibile che un musicista riesca a
colloquiare con un ricattatore durante un
U
concerto, suonando e parlando contemporaneamente. Per non aggiungere lo stato
emotivo attuale e pregresso. Altro dubbio:
possibile che il pubblico in tutto questo non
si accorga di nulla? Neanche quando un
pianista di fama internazionale sbaglia qualcosa nella sua esecuzione? Altro elemento
negativo, a mio parere, è il livello recitativo
di Elijah Wood che mantiene sempre la
stessa espressione durante tutto il film. Un
film in cui l’unico sentimento regnante è la
paura: sembra infatti che da una fobia si
passi a un rischio, dalla paura del pubblico
alla paura del cecchino. Alle prese con uno
psicopatico il musicista aggiunge ansie da
prestazione al timore per la sua vita e per le
persone a lui care. Una tensione fine a se
stessa, un thriller monotematico che viaggia
sempre sulla stessa nota. È proprio il caso
di dire che di sfumature la pellicola ne abbia
ben poche (ad eccezione delle peculiari
trovate registiche e di montaggio). A deludere completamente, un finale banale, un
happy ending poco plausibile che chiudono
la storia del pianista e di sua moglie. John
Cusack nel suo ruolo risulta convincente.
Forse mantenendo il titolo originale Grand
Piano si sarebbe mantenuto il gioco di parole (strumento e strategia) e forse sarebbe
stata, è il caso di dirlo, tutta un’altra musica!
Giulia Angelucci
MARAVIGLIOSO BOCCACCIO
Italia, Francia, 2014
Regia: Paolo e Emilio Taviani
Produzione: Donatella Palermo, Luigi Musini per Stemal Entertainment, Cinemaundici, Barbary Films con Rai Cinema
Distribuzione: Teodora Film
Prima: (Roma 26-2-2015; Milano 26-2-2015)
Soggetto: ispirato al “Decamerone” di Giovanni Boccaccio
Sceneggiatura: Paolo e Emilio Taviani
Direttore della fotografia: Simone Zampagni, Bruno Di
Virgilio (operatore)
Montaggio: Roberto Perpignani
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Scenografia: Emita Frigato
Costumi: Lina Nerli Taviani
Effetti: Paolo Galiano
N
ella Firenze del 1300 devastata dalla peste dieci giovani di
belle famiglie decidono di lasciare i miasmi e i roghi della loro città
ammalata e rifugiarsi in una villa in campagna in attesa che il contagio non sia più
pericoloso.
Per passare il tempo nella maggiore
Interpreti: Lello Arena (Duca Tancredi), Paola Cortellesi
(Badessa Usimbalda), Carolina Crescentini (Isabetta),
Flavio Parenti (Nicoluccio Cacciamanico), Vittoria Puccini
(Catalina), Michele Riondino (Guiscardo), Kim Rossi Stuart
(Calandrino), Riccardo Scamarcio (Gentile Carisendi),
Kasia Smutniak (Ghismunda), Jasmine Trinca (Giovanna), Josafat Vagni (Federico degli Alberighi), Melissa
Anna Bartolini (Elissa), Eugenia Costantini (Neifile), Moisè
Curia (Panfilo), Miriam Dalmazio (Fiammetta), Camilla
Diana (Lauretta), Nicolò Diana (Filostrato), Fabrizio Falco
(Dioneo), Ilaria Giachi (Emilia), Barbara Giordano (Pampinea), Rosabell Laurenti Sellers (Filomena), Beatrice Fedi
(Elisabetta)
Durata: 120’
piacevolezza possibile i giovani hanno l’idea di raccontare ogni giorno una novella
che parli d’amore, di sesso e di burle che
possano così scacciare la paura della malattia e della morte.
Cinque sono le storie che gli autori
hanno scelto a rappresentare l’opera del
Boccaccio: la burla organizzata dagli
10
amici a danno di Calandrino, convinto di
essere invisibile perché portatore di una
pietra dai poteri misteriosi, resi vani dalla
concreta semplicità della moglie; l’amore
di Gentile Carisendi per la bella Catalina, data per morta dalla sua famiglia e
frettolosamente messa nel sepolcro, ridata alla vita e così conquistata proprio da
Film Gentile; l’amore totalizzante e ossessivo
di Tancredi per la figlia Catalina, tenuta
quasi prigioniera e per la quale il padre
fa uccidere il giovane Guiscardo, innamorato di lei, ma non può impedire che la
stessa figlia si uccida; la badessa Usimbalda non riesce a portare a termine la
punizione di una delle sue suore scoperta
a letto con un uomo perché lei stessa è
nel peccato della carne; il disperato Federico degli Alberighi, ormai in povertà
per avere dissipato il suo patrimonio nel
corteggiamento di Giovanna di cui è innamorato, è costretto a servirle a cena il
suo amatissimo falcone arrosto anche se
il sacrificio non sarà vano, perché Giovanna, una volta diventata vedova, vorrà
solo lui come marito.
Le notizie che giungono nel frattempo
da Firenze sono positive; la peste si sta
allontanando e il temporale liberatorio fa
decidere i giovani di rientrare e riprendere la loro vita.
on sappiamo se sia vera (né
quanto) la scelta metaforica
dei Taviani di avere individuato
la fuga dalla Firenze appestata del 1300
come adattabile ai nostri tempi barbari,
contaminati da guerre, fame e squilibri
sociali di ogni genere che possono bene
reggere il paragone con quell’antica pestilenza.
Abbiamo contemporaneamente apprezzato l’intento, perfettamente riuscito, di
non connotare il film di nessun aspetto che
avrebbe potuto farlo appartenere al “boccaccesco”, cioè quel genere di licenziosità
pruriginosa che ben sappiamo quanto abbia afflitto il nostro cinema in passato: non
sarebbe stato questo possibile, essendo
ben nota l’onestà intellettuale, culturale
ed etica dei fratelli cineasti, la cui dirittura
autoriale però ha prodotto una serie di
opzioni e di conseguenze ben precise.
Intanto la scelta delle novelle, le più
asettiche, anche se per quattro di esse
l’argomento è l’amore, rese contenute e
frenate in un erotismo mai sviluppato, né
accattivante, né avvolgente. La stessa novella che racconta gli amori proibiti di una
badessa e della sua novizia è brevemente
e superficialmente sbrigata, senza che un
palpito di sensualità scuota la nitidezza
geometrica del racconto.
L’avere poi abbracciato in toto l’eleganza formale della storia sostenuta dalla
seducente collocazione toscana di luoghi
torri e castelli e dalla splendida scelta di
costumi, ambienti e ricostruzioni d’interni
fotografate come gioielli di classicità.
Tutta questa affascinante suggestione,
tutta questa grazia usata nella compo-
N
Tutti i film della stagione
sizione pittorica del lavoro ci consegna,
purtroppo, un vuoto impressionante, un
film ingessato e freddo, dove tutto rimane
in superficie, dove il grottesco, la sensualità, la cattiveria, la crudeltà, il sangue,
la disperazione e l’imbroglio sembrano
appena sussurrati, sospesi nel tempo,
come se gli autori avessero impedito che
toccassero terra per non assumere uno
spessore eccessivamente materialistico
e carnale.
Totalmente carnale invece è l’interpretazione di Lello Arena come padre padrone
traboccante d’amore malato, possessivo,
geloso, inquisitorio e quindi anche vendicativo e sanguinario: una parte tenuta
con grande e sincera verità espressiva
nel comporre una figura che si pone in
contrasto con tanta edulcorata umanità
fuori del tempo.
Fabrizio Moresco
OH BOY – UN CAFFÈ A BERLINO
(Oh Boy)
Germania, 2012
Regia: Jan Ole Gerster
Produzione: Schiwago Film, in coproduzione con Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk, in cooperazione con Arte
Distribuzione: Academy Two
Prima: (Roma 24-10-2013; Milano 24-10-2013)
Soggetto e Sceneggiatura: Jan Ole Gerster
Direttore della fotografia: Philipp Kirsamer
Montaggio: Anja Siemens
Musiche: The Major Minors, Cherilyn MacNeill
Scenografia: Juliane Friedrich
Costumi: Juliane Maier, Ildiko Okolicsanyi
Interpreti: Tom Schilling (Niko Fischer), Friederike Kempter (Julika Hoffmann),
Marc Hosemann (Matze), Katharina Schüttler (Elli), Justus von Dohnànyi (Karl
Speckenbach), Andreas Schröders (Psicologo), Arnd Klawitter (Phillip Rauch),
Martin Brambach (Jörg), Frederick Lau (Ronny), Ulrich Noethen (Walter Fischer),
Michael Gwisdek (Friedrich), Steffen C. Jürgens (Ralf),
Inga Birkenfeld (Hanna), Leander Modersohn (Jörg Schneider), Lis Böttner
(Sig.ra Baumann), Theo Trebs (Marcel), Ellen Schlootz (Stella), Jakob Bieber
(Kevin), Robert Hofmann (Pascale)
Durata: 88’
11
Film N
iko Fischer vive da solo a Berlino, studia diritto ed è dedito
all’alcol. Sta per essere lasciato dalla ragazza e ha bisogno di un caffè. Fin dalle prime riprese si intuisce che
il suo è uno stile di vita bohémien. Viene
sorpreso alla guida con tasso alcolemico
elevato e, dopo il colloquio con lo psicologo, non riesce a ottenere nuovamente la
patente. Non lavora, vaga per la città tutto il giorno. Ordina del caffè senza sapere
come poter pagare; lo sportello del bancomat non funziona. Nel suo palazzo, Niko
diventa oggetto di curiosità di un vicino
ormai stanco della moglie che lo prende
in simpatia e che, con un po’ di prepotenza e di invadenza, si intrufola in casa sua.
Il vicino si sfoga un po’ con il ragazzo e
gli offre delle polpette che ha preparato
la consorte. La vita di Niko Fisher è una
vita di incontri, come quello con il tassista
xenofobo. Il ragazzo ha un amico di nome
Matze e, durante una loro sortita, incontrano Julika, una ex compagna di scuola di
Niko, che li invita a uno spettacolo teatrale in cui reciterà come attrice. I due amici rimangono inizialmente interdetti ma
poi, sempre con aria smarrita, accettano
l’invito della ragazza. Matze in seguito lo
porta sul set di un film su Hitler, interpretato da un suo amico attore e rimangono
un po’ lì durante le riprese. Nel frattempo,
lo chiama il padre impegnato con il golf e
lo invita a fargli visita. Una volta arriva-
Tutti i film della stagione
to Niko viene invitato a giocare ma il vero
motivo della chiamata paterna è riportare
il figlio sulla giusta via: egli infatti si è accorto che Niko ha ormai da tempo abbandonato gli studi. Di nuovo insieme al suo
amico Matze, vanno prima a casa di Marcel, dove Nico fa amicizia con la nonna e
poi si recano allo spettacolo della sua ex
compagna Julika. Al termine dello spettacolo, Niko e Matze criticano lo spettacolo
e discutono con il regista che è lì presente.
Julika discute con dei ragazzi in strada e si
sente attratta da Niko. Così, poco dopo, si
ritrovano a baciarsi in bagno, ma Niko non
è interessato ad avere una storia con lei.
Dice di sentirsi strano e così ricomincia a
vagare per la città. Alla fine della giornata,
entra in un bar e conosce un uomo ubriaco
che lo prende in simpatia e gli racconta un
po’ del suo vissuto. L’uomo si sente male,
ha un malore, Niko lo porta in ospedale ma
l’uomo non ce la fa.
ilm rivelazione in Germania, campione di incassi e vincitore di sei
premi Lolas tra i quali miglior film,
miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista, Oh boy, un caffè a Berlino si presta
molto bene a rappresentare la vaghezza e
l’inerzia di un giovane berlinese. Un’atmosfera, quella bohémien, che pervade tutto
il film, che cerca di ricreare un clima alla
Nouvelle Vague francese. Tantissime le
citazioni cinematografiche adottate: Cléo
F
dalle 5 alle 7, Coffee & Cigarettes, Guy
and Madeline on a park bench e A bout
de souffle; come anche nel personaggio di
Antoine Doinel truffautiano alla ricerca del
lavoro o di Andrzej Leszczyc di Rysopis. Il
pretesto del caffè serve a far percorrere al
protagonista una giornata, un percorso e
una vita piena di incontri, tanti incontri ma
anche di scelte non fatte. Una vita, quella
di Niko, passata passivamente, in maniera
indefinita; l’uso del bianco e nero che fa il
regista Jan Ole Gerster, serve proprio a
questo, a sfumare una definizione temporale che non esiste. La trama è intessuta
di persone che Niko incontra ma che non
influiscono sulla sua vita; la sua storia
prima di quell’incontro e dopo rimane la
stessa. A parte l’ultimo che fa con l’uomo
nel bar: Niko sembra scegliere per la
prima volta nel film, ma quella scelta non
riuscirà purtroppo a cambiare il destino di
quell’uomo. In Oh boy, un caffè a Berlino
è potente la fotografia, come anche suggestiva è la colonna sonora. Tom Schilling
nel suo ruolo è perfetto. Carina la gag del
barbone che vede per due volte di fila la
stessa ragazza fare delle azioni piuttosto
strane, come, ad esempio, riprendere del
denaro dalla sacchetta del barbone. Il film
è troppo incerto nel suo assunto, così da
risultare poco convincente. L’interiezione
iniziale del titolo la dice lunga su questo.
Giulia Angelucci
BOYHOOD
(Boyhood)
Stati Uniti, 2013
Regia: Richard Linklater
Produzione: Richard Linklater, Cathleen Sutherland per Boyhood Inc., Detour Filmproduction
Distribuzione: Universal Pictures International
Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Richard Linklater
Direttore della fotografia: Shane F. Kelly, Lee Daniel
Montaggio: Sandra Adair
Scenografia: Rodney Becker
Costumi: Kari Perkins
Interpreti: Ellar Coltrane (Mason), Patricia Arquette (Olivia),
Ethan Hawke (Mason Sr.), Lorelei Linklater (Samantha), Tamara Jolaine (Tammy), Nick Krause (Charlie), Jordan Howard
(Tony), Evie Thompson (Jill), Tess Allen (Nancy), Sam Dil-
M
ason, sua sorella Samantha
e la madre Olivia si sono
appena trasferiti a Houston.
Olivia è separata dal padre dei ragazzi Mason Senior, un uomo disoccupato,
aspirante musicista e poco responsabile.
lon (Nick), Megan Devine (Chloe), Shane Graham (Stanley),
Zoe Graham (Sheena), Brad Hawkins (Jim), Derek Chase
(Steve), Cassidy Johnson (Abby), Richard Jones (Nonno Cliff),
Jessi Mechler (Nicole), Angela Rawna (Prof.ssa Douglas),
Richard Robichaux (Sig. Wood), Jenni Tooley (Annie), Libby
Villari (Nonna), Taylor Weaver (Barb), Cambell Westmoreland (Kenny), Maximillian McNamara (Dalton), Bill Wise (Zio
Steve), Jesse Tilton (April), Tom McTigue (Sig. Turlington),
Roland Ruiz (Enrique), Sinjin Venegas (Chase), Mika Odom
(Gabi), Jennifer Griffin (Sig.ra Darby), Barbara Chisolm (Carol),
Charlie Sexton (Jimmy), Ryan Power (Paul), Andrew Villarreal
(Randy), Jamie Howard (Mindy), Marco Perella (Prof. Bill Wellbrock), Steven Chester Prince (Ted), Elijah Smith (Tommy)
Durata: 163’
La vita dei ragazzi è affidata alla madre,
che, oltre a lavorare, studia al college.
Qui conosce un professore, con il quale
inizia una relazione , arrivando a sposarlo. Mason, Samantha e Olivia vanno a vivere con il professore e i suoi due figli. Nel
12
frattempo però, i ragazzi incontrano assiduamente il padre che tenta di mantenere
un rapporto solido con loro. Scopriamo
che il professore ha un problema di alcolismo e inizia a manifestare dell’aggressività verso la moglie e i figli. Raggiunto
Film l’apice, Olivia decide di separarsi dal secondo marito e portare con sè Mason e
Samantha. Il tempo passa e i ragazzi hanno raggiunto l’adolescenza. Il padre, con
il quale si incontrano spesso, riesce a stabilire un rapporto aperto e di fiducia con
loro. Parallelamente, la madre si è laureata e insegna in un college nella cittadina
di San Marcos, dove la famiglia si è trasferita da poco. Olivia inizia una nuova
relazione con Jim, un ex soldato tornato
da poco dall’Iraq. Anche il padre ha trovato una nuova compagna con la quale ha
avuto un figlio. Samantha ha oramai finito
il liceo e si appresta ad andare al college.
Mason è sempre più appassionato di fotografia, tanto da essersi iscritto a un istituto specializzato. Scopriamo però che anche Jim, il nuovo compagno della madre,
ha il vizio dell’alcol e così Olivia chiude
la relazione. I mesi passano e Mason si
è fidanzato con Sheena, mentre la sorella
frequenta con successo l’università. Arrivata l’estate, l’intera famiglia si riunisce per festeggiare il raggiungimento del
diploma di Mason, che ha ormai diciotto
anni. La madre, rimasta sola, vende la
casa e si trasferisce in un appartamento
più piccolo. Mason si è iscritto al college
e, arrivato al dormitorio, conosce il suo
nuovo compagno di stanza e una nuova
ragazza. Ha tutto il futuro davanti.
oyhood è un film speciale. Lo è
per vari motivi. Innanzitutto per
l’esperimento tecnico che rappresenta: nel 2002 il regista e sceneggiatore
Richard Linklater ha iniziato a girare il film
con lo stesso cast e la stessa troupe che
avrebbe convocato una volta all’anno per
i seguenti dodici anni. Tanto per capirci,
quando il protagonista della pellicola,
Ellar Coltrane (Mason Jr.), ha cominciato
a recitare nel film, era un bambino di otto
anni, alla conclusione un ragazzo di venti
e lo stesso vale per gli altri attori, il regista
e per tutti quelli che hanno lavorato alla
realizzazione della pellicola. In questo senso Boyhood rappresenta un unicum nella
storia cinematografica. L’eccezionalità
della produzione si riflette inevitabilmente
sulla storia stessa: la pellicola non racconta soltanto dodici anni di evoluzione di una
famiglia ( e quindi del piccolo Mason, di
Samantha, di una giovane madre costretta
a crescere i figli da sola, di un padre alla
ricerca della propria identità, che riesce
a farsi amare dai figli nonostante i propri
difetti), ma anche di una società, di una
nazione intera con tutti i suoi problemi e
le sue contraddizioni: l’avvento dei videogiochi, le difficoltà dei rapporti genitori-figli,
l’incomunicabilità del mondo moderno e
B
Tutti i film della stagione
ancora i social networks, Obama e molto
altro ancora. La cornice del film è quindi
nient’altro che il nostro mondo, quello in
cui siamo cresciuti anche noi, raccontato
alla maniera del documentario, come se
la macchina da presa fosse li per caso. E
quanto più vediamo crescere, difficoltà dopo
difficoltà, caduta dopo caduta, ma anche
successo dopo successo, i protagonisti
del film, in primis Mason Jr, tanto più ci
affezioniamo a questi personaggi come
se fossero veri, rivedendo in loro la nostra
stessa storia, le nostre stesse vite. È questo che rende speciale Boyhood ed è per
questo che andrebbe visto nonostante le
quasi tre ore di pellicola, che probabilmente
hanno spaventato il pubblico statunitense
prima e quello italiano poi, visto l’incasso del
film. Boyhood non vuole insegnarci come
si vive, perché non si insegna la vita con
la vita, ma i suoi personaggi ci mostrano,
come in uno specchio, quello che tentiamo
di fare noi tutti durante la nostra faticosa,
piacevole esistenza: essere visitati dagli
avvenimenti, accettare con serenità quello
che ci riserva il destino, scappare quando
necessario e ripartire quando si è pronti,
perché alla fine “non siamo noi a cogliere
l’attimo, ma è l’attimo che coglie noi, come
se fosse sempre ora.”
Giorgio Federico Mosco
NOI E LA GIULIA
Italia, 2015
Regia: Edoardo Leo
Produzione: Fulvio e Federica Lucisano per IIF Italian International Film, Warner
Bros. Entertainment Italia
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015)
Soggetto: dal romanzo “Giulia 1300 ealtri miracoli” di Fabio Bartolomei
Sceneggiatura: Edoardo Leo, Marco Bonini
Direttore della fotografia: Alessandro Pesci
Montaggio: Patrizio Marone
Musiche: Gianluca Misiti
Scenografia: Paki Meduri
Costumi: Elena Minesso
Interpreti: Luca Argentero (Diego), Edoardo Leo (Fausto), Stefano Fresi (Claudio),
Claudio Amendola (Sergio), Anna Foglietta (Elisa), Carlo Buccirosso (Vito)
Durata: 115’
13
Film Tutti i film della stagione
Su internet arrivano le prime 35 prenotazioni. I clienti giungono sempre più
numerosi affascinati da quella musica che
parte all’improvviso dalle viscere della
terra. L’atmosfera è serena e festosa ma è
destinata a durare poco. I camorristi riescono a liberarsi e Vito minaccia i cinque.
Poi, proprio quando stanno per arrivare i pezzi da novanta a fare piazza pulita, Vito suggerisce ai cinque la fuga utilizzando la sua vecchia Giulia. Il sogno è
davvero finito? Stipati a bordo della Giulia, appena imboccata la via della fuga, i
cinque si fermano in mezzo alla strada:
davvero vogliono scappare e rinunciare
a un futuro diverso? La mano sul cambio
resta incerta se ingranare la prima o la
retromarcia.
I
protagonisti di questa storia sono
Diego, Fausto e Claudio, tre quarantenni insoddisfatti e in fuga
dalla città e dalle proprie vite.
Diego è un venditore di auto pignolo
ma perdente e costretto dal suo capo spesso a ‘costernarsi’, Fausto è un piazzista
televisivo pressato dai creditori, Claudio
è l’ex proprietario di uno storico negozio di gastronomia che ha appena chiuso
bottega. Da perfetti sconosciuti, i tre si
conoscono perché tutti interessati ad acquistare lo stesso casale per realizzarci un
agriturismo. Il casale è piuttosto malridotto, ma i tre decidono di diventare soci
e lanciarsi nell’impresa di risistemarlo.
A loro si unisce presto Sergio, un cinquantenne ex comunista invasato e fuori
tempo massimo, a cui Fausto deve una
cospicua somma di denaro. Ma, non appena iniziata l’opera di bonifica del casale, irrompe Vito, un camorrista venuto a
chiedere il pizzo alla guida di una vecchia
Giulia 1300.
Questa minaccia li costringe a ribellarsi al sopruso in maniera rocambolesca: Sergio, il più risoluto del gruppo,
stende il camorrista con un pugno. Sconvolti, i quattro agiscono d’impulso: legano Vito e lo rinchiudono in cantina. Secondo Sergio, loro dovranno continuare
comunque con la loro attività. Per cancellare ogni traccia del camorrista, i quattro
seppelliscono la Giulia nel terreno antistante il casale. Ma, fin dalla prima notte, si accorgono di una musica che parte
all’improvviso dal sottosuolo: si tratta del
mangianastri dell’auto che è difettoso e
si aziona nei momenti più impensati. Il
giorno dopo, al casale si presentano due
ragazzi a bordo di uno scooter a chiede-
re notizie di Vito. Ma anche i due giovani
vengono messi al tappeto e rinchiusi insieme a Vito. Lo scooter fa la stessa fine
della Giulia e viene sotterrato. La situazione diviene ancora più movimentata
con l’arrivo di Elisa, una giovane donna
incinta e un po’ fuori di testa chiamata da
Claudio per dare una mano con le pulizie e la cucina. La ragazza stupisce tutti
improvvisando, con i pochi ingredienti
in dispensa, una gustosa cena. Fausto e
Diego vorrebbero mandare via la ragazza
per paura che scopra i camorristi tenuti
in ostaggio. Ma, dopo aver implorato per
restare lì perché davvero disperata, Elisa
ottiene il permesso di restare ed entra così
a far parte della squadra. Un giorno, un
losco camorrista di nome Franco si presenta al casale a chiedere notizie dei suoi
uomini ma riceve rassicurazioni: da quelle parti non si è fatto vedere nessuno. Nei
giorni seguenti, il gruppo inizia a concedere alcune ore di libertà a Vito il quale si
dimostra un vero esperto di piante. Grazie ai preziosi consigli di Elisa, il gruppo
ristruttura il casale dando nuova vita a
tanti vecchi oggetti e mette on-line il sito
del casale. Una sera, inaspettatamente,
arrivano i primi quattro clienti che, dopo
aver apprezzato la cena genuina preparata da Elisa, decidono di restare a dormire.
Il mattino dopo, a colazione, la musica
dell’autoradio della Giulia sotterrata inizia a risuonare e Diego improvvisa una
fantasiosa spiegazione del fenomeno inventando una vecchia leggenda. Il gruppo
riparte affascinato da quel luogo. I soci
guadagnano i loro primi 400 euro e, con
il cuore pieno di speranza, cercano di posticipare la prima rata del pizzo. Vito si
prende i soldi come anticipo.
14
alliti, frustrati, infelici, in una
parola “sfigati”, eccoli di nuovo:
un gruppetto di quarantenni (e
un cinquantenne) alla deriva, tra lavori
insoddisfacenti, problemi economici (e
giudiziari), crisi sentimentali (o, per meglio
dire, abbandoni), frustrazioni politiche (si ci
sono anche quelle), depressioni croniche.
Cinque persone allo sbando, e non è
una novità, anzi quasi la norma nel nostro
Paese. Ma questa volta si decide di coltivare un sogno, di dare spazio al famoso
‘piano B’ (che nella vita è sempre meglio
avere), il forte desiderio di qualcosa di
diverso (“Quando allo schifo per il lavoro
si aggiunge quello per la città, cominci a
elaborare il tuo piano B. A 20 anni era
il chiringuito sulla spiaggia. A 40, quasi
sempre, si tratta di un agriturismo” dice
Diego, voce narrante del film).
Un sogno e una ribellione (ma forse
anche ‘il sogno di una ribellione’), cinque
pazzi (come si poteva chiamare il loro
agriturismo se non Casal de’ Pazzi?) che
si oppongono a ciò che appare dovuto,
anzi, soprattutto inevitabile. Almeno in
Italia, dove i soprusi, i ricatti, le estorsioni,
sono il pane quotidiano in tutti i campi,
dalla malavita alla politica, fino ai luoghi
di lavoro.
Qui però l’estorsione è tutta da ridere,
essendo opera di un bizzarro camorrista
che viene a reclamare il pizzo a bordo di
una vecchia Giulia Alfa Romeo verde dotata di un mangianastri difettoso che parte
all’impazzata quando meno te lo aspetti,
risuonando celebri brani di musica classica. Presi da impeto di ribellione e volontà
di non prestarsi ai ricatti della malavita, i
quattro soci nell’impresa lo prenderanno in
ostaggio. Ma il rapporto con il prigioniero si
trasformerà in qualcosa di anomalo, tanto
che la resistenza prenderà forme sempre
più bizzarre e rocambolesche.
F
Film Non arrendersi, non soccombere, non
rinunciare ai sogni, questa è la parola d’ordine della terza fatica registica di Edoardo
Leo che è rimasto folgorato dal romanzo
“Giulia 1300 e altri miracoli” di Fabio Bartolomei. Pur con esiti meno brillanti del
sorprendente Smetto quando voglio, Noi
e la Giulia mette in scena quelli che si potrebbero definire dei fratelli dei protagonisti
del film di Sydney Sibilla (oltre a Edoardo
Leo, altra presenza comune ai due film è
Stefano Fresi), anche loro dei quarantenni
che tentano di scrollarsi di dosso l’etichetta
del fallito facendo qualcosa di diverso.
Con alcuni omaggi all’illustre commedia all’italiana (Ettore Scola è il debito
evidente dichiarato dallo stesso regista), il
film scherza sugli eterni difetti dell’italiano
medio (pregiudizi e razzismo dettato dall’i-
Tutti i film della stagione
gnoranza in primis), e al contempo lancia
un bel messaggio, valido per tutti e a tutte
le età, perché non è mai troppo tardi per
ricostruire la propria vita.
A conti fatti, la commedia è piacevole,
ha meccanismi ben oliati (anche se quasi
due ore sono una durata un po’ eccessiva), vanta una bella colonna sonora (che
mescola noti brani di musica classica a
hit degli anni Ottanta come “Paradise”) e
una pregevole fotografia. Leo fa ulteriori
passi avanti nel suo mestiere di regista,
azzardando movimenti di macchina e
angolazioni di ripresa particolari, curando
personalmente i look dei personaggi (dalle
magliette comuniste di Amendola al codino
da tamarro 2.0 del suo venditore televisivo)
e giocando su un efficace finale aperto.
Gli attori sono in perfetta sintonia con
il clima del racconto, dall’occhialuto venditore di auto Luca Argentero (e per una
volta nessuna donna cade ai suoi piedi
dicendogli che è troppo bello), al corpulento e nevrotico Stefano Fresi, dalla toscana
giramondo incinta interpretata da Anna
Foglietta fino all’irriducibile ‘compagno’
nostalgico, fedelissimo di falce e martello
(oggetti utili a tanti usi), interpretato da un
barbuto Claudio Amendola. Ciliegina sulla
torta, la partecipazione di uno straordinario
Carlo Buccirosso nei panni del camorrista
amante della musica classica e delle
vecchie auto.
Per non vergognarsi mai dei propri
fallimenti. O meglio, uno sprone a ripartire
proprio da questi.
Elena Bartoni
PASOLINI
Italia, Francia, Belgio, 2014
Scenografia: Igor Gabriel
Costumi: Rossano Marchi
Interpreti: Willem Dafoe (Pier Paolo Pasolini), Ninetto Davoli
(Epifanio), Riccardo Scamarcio (Ninetto Davoli), Valerio
Mastandrea (Nico Naldini), Giada Colagrande (Graziella),
Adriana Asti (Susanna Pasolini), Maria de Medeiros (Laura Betti),
Roberto Zibetti (Carlo), Andrea Bosca (Andrea Fago), Damiano
Tamilia (Pino), Francesco Siciliano (Furio Colombo), Luca
Lionello (Narratore), Salvatore Ruocco (Politico in «Petrolio»)
Durata: 87’
Regia: Abel Ferrara
Produzione: Thierry Lounas, Conchita Airoldi, Joseph Rouschop per Capricci Films, Urania Pictures S.r.l., Tarantula,
Dublin Films, Arte France Cinema
Distribuzione: Europictures
Prima: (Roma 25-9-2014; Milano 25-9-2014)
Soggetto: Nicola Tranquillo, Abel Ferrara
Sceneggiatura: Maurizio Braucci
Direttore della fotografia: Stefano Falivene
Montaggio: Fabio Nunziata
È
l’ultimo giorno di Pier Paolo
Pasolini.
L’artista sta terminando la definitiva operazione di montaggio di Salò e
continua a dare corpo al terribile disagio
che gli sta procurando la situazione italiana divorata e perduta in uno stato di
corruzione e di inaridimento senza ritorno. A sottolineare il suo stato di profonda
partecipazione alla visione drammatica
del Paese è fondamentale l’intervista che
lui concede a Furio Colombo.
Tutto questo si alterna con le ore passate con le persone a lui più care e che
gli vogliono bene: la madre, Graziella,
Laura Betti, Ninetto Davoli, l’amatissimo
cugino Nico e pochi altri.
Grande spazio è dedicato all’ideazione
e al racconto di quelli che sarebbero stati
gli ultimi lavori: il film, quel “Porno-TeoKolossal” per il quale Pasolini avrebbe
voluto Eduardo e il libro, il romanzo (poi
postumo) “Petrolio” con il quale lo stesso
artista anticipa che avrebbe potuto e voluto presto fare rivelazioni devastanti.
È sera: dopo la cena con Ninetto e la
sua famiglia Pasolini si avvia alla ricerca
di un “ragazzo di vita” con cui passare le
ore della notte; lo pesca nei soliti luoghi
della deriva e lo porta nella zona degradata e solitaria dell’idroscalo di Ostia
dove trova il suo calvario e la morte.
un film scisso profondamente
in due.
Da un lato il lavoro cinematografico in senso stretto, con cui Abel Ferrara ha
proposto il suo racconto di un grande personaggio del nostro Novecento costituisce
l’aspetto più debole: la storia è appesantita
soprattutto dalle scivolate oniriche, a cui
Ferrara si affida per raccontare le ultime
due opere incompiute, il film mai fatto e
il romanzo che uscirà postumo, promosse a colonne portanti di tutta la poetica
dell’artista che risulterebbe, se fosse così,
molto impoverita e privata delle sue grandi
opere precedenti sia cinematografiche che
letterarie.
In questa partitura sono poi lunghe
È
15
le sequenze in cui Scamarcio fa Ninetto
Davoli e il vero Davoli fa Eduardo (così
avrebbe voluto Pasolini), una doppia
assurdità che non capiamo come possa
essere stata pensata, pur nel solco di una
scelta “visionaria” del racconto.
Il finale è tirato via, quasi girato per
obbligo, anche se Ferrara ha più volte
detto che non gli interessava da chi Pasolini fosse stato ucciso, né perché, né
i particolari di quella notte di mattanza;
accettiamo quindi che il regista americano si sia attenuto alla prima versione di
giudizio per cui l’omicidio è avvenuto per
opera di Pelosi con il concorso di ignoti.
Nulla è stato dedicato alle polemiche
successive, al ribaltamento delle versioni
e delle testimonianze, né alla possibilità
che l’artista sia stato davvero ucciso in
un agguato studiato per eliminare un
intellettuale scomodo che vedeva troppo
lontano e troppo, per quei tempi abbastanza oscuri, sapeva.
Per tutto questo, però, servirebbe un
altro intero film.
Film Quello che invece Ferrara riesce a
fare emergere pienamente è la lucidità
dell’artista, è la severità, la precisione,
l’attualità delle sue intenzioni che lo porta
su una strada di giudizio senza ritorno:
Pasolini ha perfettamente chiara la situazione sociale e politica del Paese, sempre
più avvitato su un sistema di corruzione
e violenza pronte a colpire ogni libertà e
ogni diritto; di fronte a questo l’intellettuale, l’artista deve, è costretto a rispondere
Tutti i film della stagione
con la provocatorietà delle sue opere per
destabilizzare il conformismo malmostoso
con cui la violenza di regime si difende,
anche fino al martirio che, forse consapevolmente, Pasolini immaginava prossimo
e nulla fece per evitarlo.
Dà concretezza a questa passione critica bruciante l’adesione umana e profonda,
spiritualmente mimetica di Willem Dafoe,
arricchita, scena dopo scena, di sguardi,
gestualità e movimenti che abbiamo visto
usare posticci e sterili da tanti attori in
altre occasioni e qui toccano le corde
dell’anima più nascoste. Ci si commuove
di fronte a questa interpretazione perché
Dafoe ci rende partecipi della consapevolezza tragica di Pasolini come uomo,
attore e personaggio, dell’impossibilità
per un intellettuale come lui di fermarsi
nella sua corsa cosciente verso un ignoto
gravido di nuvole nere incombenti e intimidatorie che sarebbero esplose negli
anni successivi.
Ci auguriamo che questo lavoro di
Abel Ferrara, pur stilisticamente diseguale e imperfetto nei tanti aspetti che
avremmo voluto più compiutamente
trattati faccia venire la voglia ai nostri
uomini di cinema e di cultura di mettere
mano, in modo organico e lontano dai
timidi tentativi pseudodocumentaristici
del passato, a un mondo così complesso
e stimolante come quello pasoliniano.
Soprattutto perché si interrompano, una
volta per tutte, le due strade finora percorse per parlare di Pasolini: la sbrigativa
“santificazione” in un’icona ben lontana,
sterilizzata e impossibilitata a procurare
altro fastidio, oppure insultarlo, ucciderlo
e calpestarlo ancora e ancora una volta
come in tanti hanno continuato a fare nel
corso degli anni.
Fabrizio Moresco
FROZEN – IL REGNO DI GHIACCIO
(Frozen)
Stati Uniti, 2013
Regia: Chris Buck, Jennifer Lee
Produzione: Peter Del Vecchio, John Lasseter per Walt Disney Animation Studios, Walt Disney Pictures
Distribuzione: The Walt Disney Company
Prima: (Roma 19-12-2013; Milano 19-12-2013)
A
nna ed Elsa sono due giovani principessine del regno di
Arendelle. Le due sorelle sono
molto legate, giocano insieme, ma un
giorno accade un brutto incidente; Elsa la
più grande delle due non riesce a controllare il suo potere magico di creare ghiaccio e neve e colpisce Anna. La bimba
guarisce grazie alle cure dei troll, esperti
in amore, i quali dicono ai genitori che è
stata fortunata a essere stata colpita alla
testa e non al cuore. I due genitori quindi
costringono Elsa a rimanere chiusa nella
sua stanza e Anna rimane per anni con la
Soggetto: dalla favola “La regina delle nevi” di Hans Christian
Andersen
Sceneggiatura: Jennifer Lee, Shane Morris
Musiche: Christophe Beck, Robert Lopez, Kristen Anderson-Lopez
Durata: 100’
convinzione che la sorella non la voglia
più vedere per una sua volontà: alla bimba guarita infatti i troll avevano tolto il
ricordo del potere magico della sorella.
I genitori muoiono durante un viaggio in
mare e le due sorelle crescono nello stesso
castello, ma separate; dopo anni arriva il
giorno dell’incoronazione. Anna è spensierata, solare e felicissima dell’evento
che le vedrà protagoniste, mentre la sorella Elsa è terrorizzata di poter perdere
il controllo, è distaccata e timorosa. L’unica cosa che le dà sicurezza sono i suoi
guanti. Tutto procede bene fino a quando
16
Anna, entusiasta per via dell’incontro con
il principe Hans, chiede il giorno stesso
la benedizione della sorella per potersi
sposare. La sorella rimane interdetta per
questa richiesta frettolosa, si oppone al
volere di Anna e non riesce a controllare
il suo potere. Tutti i presenti ai festeggiamenti scoprono quindi il suo segreto e lei
si ritrova costretta a fuggire. Anna lascia
il castello nelle mani del principe Hans e
si mette alla ricerca della sorella. Durante il suo viaggio, conosce Kristoff con la
sua renna Sven e Olaf, un simpaticissimo
pupazzo di neve che la accompagnano
Film nella ricerca della sorella. Elsa, nel frattempo, si è costruita un intero palazzo
di ghiaccio dove intende vivere da sola
per non far del male a nessuno. Intanto
ad Arendelle regna l’inverno perpetuo.
Quando Elsa finalmente ritrova la sorella,
questa le ribadisce il suo timore nel farle
del male e la caccia via insieme ai suoi
nuovi amici. Anna viene colpita al cuore
inavvertitamente e deve fare ritorno al
castello per farsi baciare dal vero amore
che potrà guarirla. Nel frattempo il principe Hans a cui lei aveva dato fiducia si
rivela un impostore. Fa imprigionare Elsa
con l’obiettivo poi di eliminarla. Quando
quindi Anna arriva da lui per farsi guarire, il principe rivela la sua vera natura.
Nel frattempo, Kristoff con l’aiuto di Sven
si rende conto di amare Anna e di dover
tornare indietro per salvarla. Ad Elsa imprigionata il principe dice che la sorella
è morta. Così Anna esce dal castello per
tentare di raggiungere Kristoff mentre il
principe sta per uccidere Elsa. Anna la
salva e guarisce anche lei perché è stato un atto di vero amore. Nel frattempo
Elsa è riuscita a conquistare il controllo
sul suo potere e Anna è felice con il suo
Kristoff.
rozen. Il regno di ghiaccio è
un film di Chris Buck. Il regista
precedentemente ha lavorato su
Tarzan, Surf’s Up - I re delle onde e come
F
Tutti i film della stagione
animatore supervisore per il film Mucche
alla riscossa.
Nel 2013 con la sua ultima creazione,
insieme a Jennifer Lee, si è conquistato il
Premio Oscar, il Golden Globe, il Premio
BAFTA e l’Annie Awards nella categoria
Miglior Film di Animazione.
La storia è quella di due sorelle separate durante la crescita per via di un potere
troppo grande da saper gestire. Elsa viene
rinchiusa dai genitori per paura nella sua
stanza e viene costretta a passare lì il resto
dei suoi giorni. Ma nonostante questo, il
legame tra le due sorelle è davvero molto
forte e intenso. Un rapporto bellissimo
che, dopo la morte dei genitori, è segnato
da incomprensioni provocate da uno dei
più grandi ostacoli per l’essere umano, la
paura. Anna è il personaggio più solare
che cerca di aiutare la sorella più grande ma che per paura di farle del male,
rifiuta continuamente il suo supporto. La
comunicazione tra le persone è molto importante e il film calca la mano proprio su
questo concetto attraverso varie metafore
(sull’immagine della porta ad esempio).
Un dialogo ricercato tra diversità che non
può essere negato per nessun motivo: un
messaggio molto profondo ai giorni d’oggi
per i più piccini ma anche per i più grandi.
Oltre questo, è interessante osservare
un’altra tendenza di rotta. Si nota infatti
con molta curiosità come il messaggio dei
cartoni animati stia fortemente cambiando.
Se i prodotti degli anni ’90 e fino a qualche
anno fa proponevano storie in cui la ricerca
dell’amore vero era rivolto a un individuo
dell’altro sesso, qui come anche nel recente prodotto disneyano Maleficient, si vuole
sottolineare come l’amore vero non sia
per forza quello del principe azzurro, ma
quello di una madre nel caso di Maleficient
o come qui, quello di due sorelle.
Un bel cartone animato, pensato
bene, ispirato alla favola di Hans Christian Andersen La regina delle nevi, la
cui sceneggiatura appartiene tra le altre
a una delle autrici di Ralph Spaccatutto.
L’unica nota negativa è che sia molto cantato. Per chi non ama il genere musical, il
film potrebbe risultare un po’ “eccessivo”.
A tratti ci sono delle imperfezioni nella
trama, piccole cose che non tornano ad
un spettatore attento, come quando Anna
dice di non sapere nulla dei poteri della
sorella, fatto che aveva vissuto personalmente. Gradevolissima la grafica e
gli effetti speciali veramente curati e ben
riusciti. A impreziosire il racconto diverse
trovate geniali, a partire dal dolcissimo
personaggio del pupazzo di neve Holaff
(molto originale l’idea della nuvoletta sulla
testa per poter mantenere il microclima
una volta terminato l’inverno provocato da
Elsa). Per non parlare del colpo di scena
finale. Semplicemente unico.
Giulia Angelucci
JIMMY’S HALL – UNA STORIA D’AMORE E LIBERTÀ
(Jimmy’s Hall)
Gran Bretagna, Francia, 2014
Musiche: George Fenton
Scenografia: Fergus Clegg
Costumi: Elmer Ni Mhaoldomhnaigh
Interpreti: Barry Ward (Jimmy Gralton), Simone Kirby
(Oonagh), Jim Norton (Padre Sheridan), Andrew Scott (Padre
Seamus), Francis Magee (Mossie), Mikel Murfi (Tommy),
Sorcha Fox (Molly), Martin Lucey (Dezzie), Shane O›Brien
(Finn), Aisling Franciosi (Marie), Aileen Henry (Alice), Seamus
Hughes (Ruairí), Karl Geary (Seán), Denise Gough (Tess),
Brían F. O’Byrne (O’Keefe), Donal O’Kelly (Cian), John
O’Dowd (Higgins)
Durata: 109’
Regia: Ken Loach
Produzione: Sixteen Jimmy Limited, Why Not Productions,
Wild Bunch, Element Pictures, Channel Four Television Corporation, France 2 Cinéma, The British Film Institute and
Bord Scannán Na Héireann/The Irish Film Board
Distribuzione: Bim
Prima: (Roma 18-12-2014; Milano 18-12-2014)
Soggetto: ispirato alla omonima pièce teatrale di Donald
O’Kelly
Sceneggiatura: Paul Laverty
Direttore della fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Jonathan Morris
1
932, Irlanda, Country Leitrim.
James Gralton ritorna a casa
dopo dieci anni di esilio negli Stati Uniti dove ha fatto i mestieri più disparati compreso il boxeur. È andato via al
culmine degli anni duri della guerra civile
e torna oggi a casa in un periodo che con
il nuovo governo De Valera sembra abbia
riconquistato la sua pace.
Jimmy ritrova la vecchia madre e i
suoi amici, nonché Oonagh, la sua ragazza di un tempo che nel profondo del cuore
non l’ha mai dimenticato anche se ha marito e due figli.
17
Dieci anni prima Jimmy era stato esiliato per aver partecipato ai disordini e
alle rivolte contro l’impero inglese e perché nella sua stessa zona si era distinto
come un ribelle comunista, fomentatore di
spinte libertarie non consone soprattutto
al potere della Chiesa Cattolica che oc-
Film cupava la vita delle persone nelle loro coscienze, nei pensieri più reconditi e nelle
loro azioni quotidiane.
Jimmy si ritrova anche di fronte allo
stesso problema di allora, la PearseConnoly Hall, un capannone di legno e
lamiera che, insieme alla gente del posto,
aveva adibito a spazio comune a fini culturali e sportivi: ci si incontrava, si discuteva, si leggevano libri, si dipingeva,
si ascoltava musica, si ballava, si tirava
di boxe. Dolcemente pressato e sostenuto
dai suoi amici, Jimmy ridà vita alla sala
riportandola agli antichi splendori e, naturalmente, suscitando vecchi rancori e
antiche repressioni: Padre Sheridan, il
parroco della chiesa locale vede in questo
luogo di allegria e di comunanza sociale
il fuoco delle idee progressiste in grado di
minare il potere religioso e la supremazia del sano vivere dei ricchi latifondisti
benpensanti.
Tutti i film della stagione
Il prete scatena quindi contro il gruppo di giovani desiderosi unicamente di
vivere in pace una campagna di odio senza quartiere: Jimmy è imprigionato, rilasciato e poi costretto alla fuga; la PearseConnoly Hall è data alle fiamme mentre
varie famiglie della zona sono perseguitate da soprusi e vigliaccherie di ogni genere a opera della polizia locale guidata
dal gruppo dei ricchi e potenti.
La resistenza di Jimmy è ormai alla
fine: la sua latitanza presso compagni e
famiglie amiche non può durare più oltre:
arrestato ancora è avviato verso un nuovo
esilio negli Stati Uniti da dove non farà
mai più ritorno.
un film di Ken Loach quindi non
manca nulla di ciò che conosciamo: il comunismo e la religione, la
repressione dell’autorità e il disprezzo dei
ricchi e un grande e insopprimibile deside-
È
rio di libertà che si scontra con l’ottusità
del potere costituito. Tutto nell’ambientazione struggente di mari e paesaggi
agresti, casali con camini fumanti, interni
di cucine con pentole sul fuoco; poi la
gente, facce irlandesi come non se ne
vedono più neanche nella realtà, facce
fordiane quindi, capelli a caschetto,
giacche e gilet, maglioni e cappelli, lane
e scarpe grosse e la boxe e il ballo con
le musiche gaeliche.
La scena è trattata con tenerezza e
partecipazione, esprime fascino e voglia
di vivere, entusiasmo, immedesimazione,
generosità e un grande e profondo rispetto
per l’importanza centrale dell’essere umano e per la nascosta amarezza e felicità
che ognuno si porta dentro.
L’uomo e la donna quindi ancora al
centro della poetica del regista inglese:
questi anche se ha sempre costruito i suoi
film su un telaio di forte realismo politico e
sulla storicizzazione di fatti e avvenimenti
da cui non può e non vuole prescindere,
pure ha posto al centro delle sue storie
l’universo umano la cui forza e sincerità
supera ogni equivoco, ogni stortura che la
gestione degli avvenimenti da parte del potere non riuscirà mai a soffocare del tutto.
Straordinari i personaggi che danno
vita a questo universo, ognuno perfettamente disegnato e sfaccettato in una unicità che comprende un ricchissimo quadro
emotivo, malinconico, vitale, di una onestà
cristallina e assoluta.
Perfetta la scelta degli attori e di una
moltitudine di facce e comportamenti che il
regista evidentemente ha amato molto in un
calore e in una contiguità, da cui è impossibile distinguere la realtà storica dall’affettuosa
gratitudine per genti e territori protagonisti
della sua umanissima visione politica.
Fabrizio Moresco
WILD
(A Walk in the Wilderness)
Stati Uniti, 2014
Regia: Jean-Marc Vallée
Produzione: Reese Witherspoon, Bruna Papandrea, Bill
Pohlad per Pacific Standar
Distribuzione: 20th Century Fox
Prima: (Roma 2-4-2015; Milano 2-4-2015)
Soggetto: dal libro di memorie “Wild: From Lost To Found Pacific Crest Trail” di Cheryl Strayed
Sceneggiatura: Nick Hornby
Direttore della fotografia: Yves Bélanger
Montaggio: John Mac McMurphy, Martin Pensa
Scenografia: John Paino
Costumi: Melissa Bruning
Effetti: Fake Digital Entertainment
Interpreti: Reese Witherspoon (Cheryl Strayed), Laura
Dern (Bobbi), Thomas Sadoski (Paul), Michiel Huisman
(Jonathan), Gaby Hoffmann (Aimee), Kevin Rankin (Greg),
W. Earl Brown (Frank), Maurice ‘Mo’ McRae (Jimmy
Carter), Keene McRae(Leif), Brian Van Holt (Ranger), Cliff
De Young (Ed), Will Cuddy (Josh), Leigh Parker (Rick),
Nick Eversman (Richie), Ray Mist (Joe), Randy Schulman
(Terapista), Cathryn de Prume (Stacey), Lorraine Bahr
(Lou), Jerry Carlton (Dave), Kevin-Michael Moore (Spider),
Charles Baker (T.J.), J.D. Evermore (Clint), Jan Hoag
(Annette), Anne Gee Byrd (Vera), Evan O’Toole (Kyle),
Jason Newell (Padre di Cheryl), Bobbi Strayed Lindstrom
(Cheryl Strayed bambina), William Nelson (Leif bambino),
Matt Pascua (Wayne)
Durata: 119’
18
Film C
heryl Strayed ha ormai toccato il fondo dell’inferno: dopo
un’infanzia difficile alle prese
con un padre violento e alcolizzato, ha
perso una madre dolcissima e innamorata
della vita, portata via da un cancro in pochi mesi; divorziata da un marito stravolto dai suoi continui tradimenti, ha vissuto
la devastazione della droga e del sesso
occasionale, compulsivo e distruttore.
Ora Cheryl è riuscita a ripescare
quelle poche, ultime briciole di dignità e
attaccamento alla vita che le sono rimaste
per intraprendere un impegno colossale:
l’esecuzione in solitaria del Pacific Crest
Rail, cioè un percorso a piedi di 1.600
chilometri che si snoda attraverso nevi,
deserti rocciosi e foreste tra il Messico e
il confine canadese.
Il cammino è, naturalmente, faticosissimo, schiacciato dallo zaino mostruosamente pesante; a questo si aggiungono
traversate in zone desertiche prive d’acqua, incontri con serpenti a sonagli e con
esseri umani spesso fuori di testa. A far
compagnia a Cheryl, a parte la stanchezza e i piedi sanguinanti, sono i suoi ricordi, per lo più dolorosi, miseri e crudeli,
uno su tutti la morte della madre amatissima per la quale non si dà pace.
Sarà proprio la fatica del percorso e lo
star sola con se stessa per così tanto tempo a riavvicinare Cheryl alla vita e a farle
desiderare di ricostruire una parvenza di
famiglia con il fratello che le è rimasto.
N
on c’è bisogno di scomodare
Kerouac, Orwell né, tantomeno,
il vecchio Omero, per identificare
Tutti i film della stagione
il significato di un viaggio con lo sforzo di
un individuo alle prese con la propria rinascita, con la ricerca di una strada catartica
dove trovare la rigenerazione della propria
esistenza, la storicizzazione definitiva dei
propri incubi passati per dare inizio a un
nuovo e rinnovato futuro.
Tutto questo è non solo uno dei
miti che hanno contribuito a fondare la
cultura americana ma ha rappresentato
in ogni civiltà la strada più autentica e
vera a disposizione di un essere umano
per definire la propria crescita generazionale e per formare il raggiungimento
della maturità, per se stesso e per i
propri simili.
Questo è stato il tema centrale a disposizione degli autori del film che ne hanno
ricavato un prodotto non privo di interesse
ma ugualmente contraddittorio.
La stessa firma di sceneggiatura ci
lascia perplessi, quella di Nick Hornby,
scrittore inglese di cui abbiamo sempre
apprezzato il modo intelligente e moderno con cui ci ha raccontato le ossessioni
maschili circa il calcio, i libri, la musica
e l’acutezza psicologica del rapporto
con le donne e l’attrazione misteriosa e
per lo più irraggiungibile, rappresentata
dall’amore.
È come se dicessimo: cosa centra
tutto questo con una ragazza che cerca di
porre fine al proprio inferno per ripescare
dentro se stessa la voglia e la forza per
ricominciare a vivere?
I luoghi che Reese Witherspoon attraversa durante la sua avventura avrebbero
meritato ben altra evidenza ma rocce e
deserti, foreste e cieli notturni di sovruma-
na bellezza, corsi d’acqua e scorci mozzafiato sono presenti sempre in secondo
piano, relegati in un angolo senza importanza a fare solo da occasionale e poco
accentuato accompagnamento ai rovelli
interni della protagonista, squadernati e
sezionati in un ossessivo e infinito flash
back: tanto valeva che il personaggio
rimanesse immobile su una poltrona a
pensare ai propri guai senza cimentarsi
nei 1.600 chilometri della Pacific Crest
Rail, sviliti e resi inutili in tanta maniacale
introspezione interiore.
Per essere chiari vengono in mente
pellicole del passato come Corvo Rosso
non avrai il mio scalpo di Pollack o Un
tranquillo week-end di paura di Boorman
dove il contrapporsi conflittuale uomo/
natura, pur nel mantenere intatte le
reciproche caratteristiche, confluivano
in un unico discorso armonico che comprendeva eroismo e umanità, durezza
e abnegazione, onestà e tradimento;
in una parola, il corso ineluttabile e
affascinante dell’esistenza umana. Qui
abbiamo solo, davanti e sempre la Witherspoon con le sue elucubrazioni e i
suoi guai.
Di ben altro spessore la splendida
interpretazione che Laura Dern compone
per il personaggio della madre, ancora
più calpestata e tormentata della figlia ma
inarrestabile nella sua voglia gioiosa di
rinvenire spunti positivi nei momenti più
incolori delle sue giornate e in perpetua,
esuberante ricerca di quella rivalsa che
non arriverà mai.
Fabrizio Moresco
LA METAMORFOSI DEL MALE
(Wer)
Stati Uniti, 2013
Musiche: Brett Detar
Scenografia: Tony DeMille
Costumi: Monica Florescu
Effetti: Almost Human Inc.
Interpreti: A.J. Cook (Kate Moore), Brian Scott O’Connor
(Talan Gwynek), Sebastian Roché (Klaus Pistor), Simon
Quarterman (Gavin Flemyng), Vik Sahay (Eric Sarin), Oaklee Pendergast (Peter Porter), Stephanie Lemelin (Claire
Porter), Brian Johnson (Henry Porter), Camelia Maxim (Mrs.
Gwynek), Corneliu Ulici (Ufficiale di polizia)
Durata: 89’
Regia: William Brent Bell
Produzione: Nicolas Meyer, Morris Paulson, Matthew Peterman, Marc Schaberg, Steven Schneider per Prototype,
Room 101, Filmdistrict, Incentive Filmed Entertainment,
Sierra/Affinity
Distribuzione: Moviemax
Prima: (Roma 4-12-2014; Milano 4-12-2014) V.M.: 14
Soggetto e Sceneggiatura: William Brent Bell, Matthew
Peterman
Direttore della fotografia: Alejandro Martínez
Montaggio: William Brent Bell, Robert Komatsu, Tim Mirkovich
U
na donna viene inquadrata
dalle telecamere per raccontare la sua storia: lei, insieme
a suo figlio e suo marito sono in vacanza in un campeggio. È notte e c’è la luna
piena. La quiete familiare è destinata a
19
essere distrutta da una misteriosa creatura che non si farà inquadrare dalle
telecamere, ma con la sua furia ucci-
Film derà marito e figlio e ferirà gravemente Claire. L’evento diventa di dominio
pubblico e, all’inizio, si crederà che sia
un animale ad aver aggredito le famiglia, ma dalle dichiarazioni dell’ultima
sopravvissuta, si scopre che in realtà
si tratta di un uomo. Le forze dell’ordine arrestano Talan, unico sospettato
perché corrisponde alla descrizione di
Claire e vive con la madre non distante
dal luogo della strage. L’avvocatessa
Kate Moore, da sempre impegnata nella
difesa dei diritti umani, assume la difesa di Talan. Nonostante lo scetticismo
dei giornalisti e dell’opinione pubblica,
la donna rivelerà di non credere affatto
nella colpevolezza dell’accusato. Accanto a lei a seguire le indagini il suo
amico Eric, investigatore privato e il
medico legale, nonché suo ex, Gavin.
Kate conosce personalmente Talan, che
si dimostra una persona gentile e timida. L’avvocatessa gli rivela che sono
in corso le analisi del Dna sulla scena
del delitto. L’uomo è molto taciturno e
le chiederà solamente di aiutarlo, scatenando una rissa in cui Gavin viene
graffiato al braccio. Kate intanto va
a parlare con la madre dell’indiziato.
Quest’ultima le rivela che in realtà l’arresto del figlio è stato voluto dallo stesso governo, visto che l’organizzazione
vuole impadronirsi delle terre della loro
famiglia per farle diventare una discarica nucleare. Kate viene anche a sapere
della morte del padre di Talan, in un incidente l’anno prima, e della dolorosa
malattia del suo cliente, la porfiria, che
gli allunga le ossa. Gavin indaga sulla
malattia di Talan, scoprendo che rende
l’infermo debolissimo. Basandosi su
questa scoperta e sull’apparizione di un
orso nella zona del delitto, dà la possibilità a Kate di far diminuire le prove
nei confronti dell’indiziato. Durante
un’operazione per dimostrare la sua innocenza, però l’uomo perde il controllo, uccide in maniera brutale e sadica
gli infermieri e scappa. Inizia così una
caccia all’uomo, con a capo il detective
Klaus, che accusa Kate di essere stata
una collaboratrice dell’assassino per
aver creduto nella sua innocenza. Intanto Gavin, contagiato per la ferita,
si trasforma in lupo mannaro. L’avvocatessa, affronta direttamente Talan,
causando la morte di Eric. Poi arriva a
difenderla Gavin, nei panni di creatura
Tutti i film della stagione
terribile, uccide Talan e mentre si avvicina a Kate, un proiettile della polizia
colpisce la donna. Gavin fugge. Tempo
dopo, la polizia sta ancora cercando Talan, in quanto una nuova ondata di omicidi ha colpito la Francia. I giornalisti
intervistano Gavin, unico, oltre a Kate,
a essere sopravvissuto al lupo mannaro.
Gavin, vero artefice degli omicidi, non
si fa scrupolo a inveire pubblicamente
contro Talan, accusandolo di essere un
lupo mannaro.
on immagini di notiziari e
montaggio frenetico, il plot
del film si apre all’insegna
del resoconto di una tragedia avvenuta: durante una vacanza nella Francia
rurale, una famiglia viene brutalmente
uccisa. Immediatamente, quindi, nella
testa dello spettatore non può fare a
meno di scattare la molla di una duplice
domanda di come sia stata uccisa e, soprattutto, chi sia il colpevole della strage.
Da qui, William Brent Bell, autore
dell’horror Stay alive e L’altra faccia del
diavolo, tende a costruire in La metamorfosi del male un’intensa indagine,
portata avanti da un’avvocatessa che si
batte anima e corpo per difendere i diritti
umani. Discreto prodotto a basso budget,
la pellicola passa dal mistery venato
di sovrannaturale al thriller legale, con
diramazioni affaristiche e con divagazioni medico-scientifiche, per poi tornare
all’horror, ricco di godibili dettagli splatter
e fornito di una suspense elementare e
funzionale. Un mistero su un uomo che
soffre fin da bambino di una particolare
malattia genetica ereditaria, che gli ha
reso la vita un incubo. Una malattia per
la quale nessuno è mai stato in grado di
trovare una cura e che, man mano che
i fotogrammi scorrono sullo schermo
risulta sempre più chiaro essere proprio
la licantropia. Una licantropia che, però,
il regista non rappresenta nella stessa
maniera altamente fantastica dei tanti
movie sui lupi mannari che hanno affollato lo schermo, ma ricorre a un taglio
decisamente più realistico. La figura del
lupo risulta inedita e originale. Il ritratto
di una creatura umana capace di tirare
fuori l’aggressività più sfrenata di cui egli
stesso è vittima. Quindi dimentichiamo
Un lupo mannaro americano a Londra
e le trasformazioni con tanto di musi
allungati; si predilige la naturalezza, che
C
20
viene accentuata tramite il ricorso a numerose riprese eseguite con camera a
mano. Viene definito infatti stile “found
footage”, data la presenza di vari filmati
da telecamere di ogni genere e camera
a mano, il cui coinvolgimento conferisce
un tono diverso dal classico documentario, attraverso inquadrature multiple,
che aggiungono crudezza alle immagini. Il variare spesso del punto di vista,
tuttavia, porta a una destabilizzazione
nella visione, che inizia con la scelta
della location in cui la storia si sviluppa, poi continua con la struttura di un
racconto che, dopo il prologo di sangue
necessario a creare incipit e atmosfera,
si trasforma in un thriller. Il realismo
viene ricercato anche attraverso l’uso di
luci naturali e una certa rozzezza visiva,
derivata dalla volontà di trasformare
la fiction in documento, in cui anche
le citazioni si sprecano (in primis Blair
Witch Project). Mentre teste sfondate e
mandibole strappate condiscono nella
giusta maniera un elaborato che, pur
senza eccellere, coinvolge a dovere, dimostrandosi capace di funzionare decisamente meglio rispetto alle precedenti
prove del regista. Se questo può essere
un punto a favore dell’opera di William
Brent Bell, peccato che non riesca però
a compensare gli aspetti a suo sfavore.
Ogni personaggio viene presentato con
un background preciso e di conseguenza vengono aperte molte strade, ma mai
percorse completamente. Si abbozzano
contenuti per poi abbandonarli in fretta,
generando quindi un sovraccarico di
informazioni, che disperde parzialmente
la dose di tensione che il film si propone
di offrire al pubblico. Il tema dell’uso delle fonti energetiche nucleari in Francia,
l’incontro e l’unione di culture diverse
(i conservatori francesi e i progressisti
americani) sembrano essere gettati lì e
sviluppati solo superficialmente. Anche
la conclusione del film è prevedibile.
Nel cast oltre la nota A.J. Cook nel ruolo
dell’avvocato, colpisce la performance
di Brian Scott O’Connor, esordiente
nella parte del licantropo, presenza
giustamente inquietante, perfetto per
il ruolo. La sua fisicità portentosa gli è
d’aiuto nel rendere credibile il suo personaggio, più vittima degli eventi che
efferato killer.
Veronica Barteri
Film Tutti i film della stagione
VERGINE GIURATA
Italia, Svizzera, Francia, Albania, 2015
Direttore della fotografia: Vladan Radovic
Montaggio: Carlotta Cristiani, Jacopo Quadri
Musiche: Nando Di Cosimo
Scenografia: Ilaria Sadun
Costumi: Grazia Colombini
Interpreti: Alba Rohrwacher (Hana/Mark), Flonja Kodheli
(Lila), Lars Eidinger (Bernhard), Luan Jaha (Stjefen), Bruno
Shllaku (Gjergj), Ilire Vinca Çelaj (Katrina), Drenica Selimaj
(Hana piccola), Dajana Selimaj (Lila piccola), Emily Ferratello
(Jonida)
Durata: 90’
Regia: Laura Bispuri
Produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Maurizio Totti,
Alessandro Usai, Dan Wechsler, Michel Weber, Viola Fügen,
Sabina Kodra, Robert Budina per Vivo Film, Colorado Film,
con Rai Cinema, Bord Cadre Films, Match Factory Productions, Era Film, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà
Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà
Prima: (Roma 19-3-2015; Milano 19-3-2015)
Soggetto: liberamente ispirato al romanzo omonimo di Elvira
Dones
Sceneggiatura: Francesca Manieri, Laura Bispuri
U
n ragazzo efebico, un pastore si
direbbe, gioca con una capra in
cima ai monti, sullo sfondo di
una valletta verde e desolata. Intorno, a
parte i pochi alberi, una baracca e la natura aspra delle montagne, qualche uomo
assiste e partecipa al gioco. Dopo una
notte di sonno il giovane prende le sue
cose, scende a valle e inizia un viaggio
verso l’Italia.
Da qui parte la lunga serie di flash
back che accompagna, fino alle ultime
battute, il racconto del viaggio di Mark
lontano dai monti albanesi, in Italia, e
della sua nuova vita quaggiù. Mark è in
realtà Hana, ma oggi non è più una donna, almeno, non ufficialmente. Da ragazza, vista la sua indole indipendente e la
sua volontà di non sottostare ai divieti
previsti per le donne nella comunità di pastori in cui vive, Hana ha deciso – con il
consenso dello zio, della zia e della cugina Lila, famiglia che l’ha accolta e scelta
come se fosse figlia e sorella – di diventare “vergine giurata”: donna cioè che secondo l’arcaica legge del kanun, giura la
verginità a vita, veste i panni dell’uomo,
può lavorare e imbracciare le armi.
Ad aspettare Mark in Italia c’è la sorella Lila, fuggita insieme a Stjefen molti anni prima evitando un matrimonio
combinato. I due la accolgono a casa e
le trovano un lavoro. Così iniziano i giorni sotterranei di Mark in Italia: di notte
guardiano notturno, di giorno timido, taciturno accompagnatore agli allenamenti
in piscina di Jonida, figlia di Lila e Stjefan. Proprio intorno alle vasche, dopo un
lungo dialogo di sguardi, Mark, ancora
donna in incognito, consuma la sua prima esperienza sessuale, rapidamente, con
grande foga ma in silenzio. Così, quando Mark si sistema finalmente per conto
suo, in un piccolo appartamento in affitto,
il suo corpo comincia a ridiventare quello di Hana. Fino a che, un giorno, Hana
mette da parte le bende che bruciano la
pelle delle spalle e del petto, i goffi pantaloni che le insaccano le gambe e i fianchi
e al loro posto indossa un reggiseno e una
maglietta. La sera Hana e Lila escono insieme, da donne. Hana racconta di quel
che Lila ha lasciato dietro di sé dopo la
fuga, la morte del padre, e poi anche della
madre. Insieme le due donne leggono la
sua ultima lettera e sorridono.
aura Bispuri, dopo i consensi e i
riconoscimenti ottenuti con i suoi
primi tre cortometraggi (in particolare Passino Time vincitore di un David
di Donatello come miglior Cortometraggio
nel 2010 e Biondina premiata come talento
emergente con il Nastro d’Argento nel
L
21
2011) arriva all’esordio nel lungometraggio
a soggetto con un adattamento letterario
sui generis, dall’omonimo romanzo dell’autrice albanese Elvira Dones.
La storia è ufficialmente quella di una
donna che riconquista – o meglio, riscopre
– la propria identità – femminile – anche
e soprattutto lungo una graduale e impercettibile riconquista del proprio corpo. Ma
il film sembra non riuscire a mantenere le
promesse della regista. Laura Bispuri è al
contempo troppo lontana e troppo vicina,
troppo legata e troppo distaccata dal personaggio che racconta e del quale sembra
che le interessi soprattutto spiegare la
necessità e la realizzazione di un’evoluzione. L’uso dei flash back in parte serve ad
afferrare qualcosa del mistero che avvolge
Hana/Mark, ma non basta: soprattutto
perché proprio dove la rivoluzione avviene,
Film proprio nel momento in cui forse Hana
inizia la sua vita libera, proprio lì sembra
raccogliersi un punto cieco, un’opacità
oltre la quale l’occhio della regista non sa
andare. E non serve l’ansia di realtà – o
per meglio dire di realismo -, non serve la
durezza della luce o l’asciuttezza di uno
script avaro di parole a condensare il senso
forte del viaggio della protagonista. Quasi
persa nell’ossessione di una forma, la regista sembra dimenticarsi di pensare al suo
racconto e più di tutto al racconto del suo
personaggio. In una strana e sbilenca al-
Tutti i film della stagione
ternanza tra la ricostruzione del passato e
l’osservazione del presente, il film sembra
muoversi e respirare solo nell’efficace e
suggestivo ricordo del passato in Albania,
per poi restare come bloccato, attonito,
impietrito nell’articolazione del momento
presente, qui, in Italia: non c’è analisi e
neppure descrizione, non c’è intuizione e
neppure esposizione, c’è, sola, la messa
in scena inerte di un corpo nascosto, ottuso, come incapace di stare nel mondo.
L’epilogo, meccanico come una trappola
a molla, giunge infine troppo roseo, troppo
prevedibile anche se forse proprio per questo imprevisto: apice verbale di una narrazione altrimenti e altrove taciturna, il finale
sentimentale e normalizzante arriva un po’
come se la carne che finalmente torna a
palpitare fuori dalle strette costrizioni e dai
pesanti mascheramenti si rivelasse niente
altro che un nuovo costume, svelamento
di materia posticcia ancor meno umana
e meno carnosa delle ampie vesti e delle
bende che prima la ricopirvano.
Silvio Grasselli
OUIJA
(Ouija)
Stati Uniti, 2014
Regia: Stiles White
Produzione: Michael Bay, Andrew Form, Brad Fuller, Jason
Blum, Bennet Schneir per Platinum Dunes, Blumhouse Productions, Hasbro
Distribuzione: Universal Pictures International
Prima: (Roma 8-1-2015; Milano 8-1-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Juliet Snowden, Stiles White
Direttore della fotografia: David Emmerichs
Montaggio: Ken Blackwell
Musiche: Anton Sanko
Scenografia: Barry Robinson
D
ebbie e Lane sono due bambine che cominciano a giocare
per divertimento con una tavola Ouija. Le regole del gioco sono tre:
non giocare mai da soli, non giocare in
un cimitero e salutare sempre lo spirito.
In oltre, Debbie confida all’amica che
se guardi attraverso l’occhio della planchette, puoi vedere lo spirito con cui stai
parlando. Passano gli anni e le due sono
ancora grandi amiche. Debbie, però, infrange la prima regola e muore impiccata. Lane, addolorata, si chiede se la morte
della migliore amica sia stata voluta da lei
o se sia stata uccisa. Cerca di contattarla
mediante la tavoletta insieme a sua sorella Sarah, al suo ragazzo Trevor, all’amica
Isabelle e a Pete, ragazzo della defunta
Debbie. I genitori di Debbie decidono di
lasciare per un po il paese e affidano a
Lane la cura della loro casa. I ragazzi ne
approfittano subito e vanno nella casa di
Debbie per compiere una seduta spiritica.
Quando la tavoletta comincia a muoversi
pensano che sia Debbie, ma qualcosa va
storto e cominciano a essere perseguitati
da uno strano spirito. Tornano una seconda volta, per parlare con lei, ma scoprono
che non è Debbie lo spirito con cui stanno
parlando, ma “DZ”, lo stesso spirito che
Costumi: Mary Jane Fort
Effetti: Legion Studios
Interpreti: Olivia Cooke (Laine Morris), Daren Kagasoff
(Trevor), Douglas Smith (Pete), Ana Coto (Sarah Morris),
Bianca Santos (Isabelle), Shelley Hennig (Debbie Galardi),
Matthew Settle (Sig. Morris), Sierra Heuermann (Doris
Zander), Lin Shaye (Paulina Zander), Claudia Katz (Madre),
Vivis Colombetti (Nona), Sunny May Allison (Doris a 10 anni),
Robyn Lively (Sig.ra Galardi), Afra Tully (Laine bambina), Claire Beale (Debbie bambina), Izzie Galanti (Sarah bambina)
Durata: 89’
ha parlato con Debbie prima che morisse. Lane si porta la planchette all’occhio
e vede una ragazza con la bocca cucita;
questo spirito li mette in guardia contro
“La madre” e, sempre tramite la planchette, Lane vede questo spirito in preda
all’ira. Tutti fuggono spaventati e giurano
che non faranno più sedute spiritiche. La
stessa sera, Isabelle muore nel suo bagno. Lane, assieme a Pete, torna a casa di
Debbie per indagare e gli indizzi la portano alla soffitta di Debbie, dove trova delle
foto che raffigurano una madre con le due
figlie e trova anche un quotidiano dove si
dice che una ragazzina di nome Doris è
scomparsa; cosi capisce chi è lo spirito
“DZ”. Va a trovare la sorella di Doris,
Paula, rinchiusa in un ospedale psichiatrico dopo che ha assassinato sua madre.
La donna le dice che per spezzare la maledizione bisogna tagliare i fili che legano
la bocca di Doris, perché la loro madre,
grande spiritista, usava sua sorella per
parlare con spiriti potenti; per intrappolare quelli più maligni, la madre le cucì la
bocca e poi la uccise e, per vendetta, lei
poi ha ucciso sua madre. I ragazzi, Lane
e Sarah si recano nella cantina e trovano
il corpo di Doris e Lane riesce a tagliare
i fili: lo spirito di Doris sconfigge quel22
lo della madre e tutto sembra finire bene.
Purtroppo, Pete muore e così Lane torna
all’istituto psichiatrico, dove scopre che
Paula le ha mentito: Doris era lo spirito
cattivo, la madre cercava solo di proteggerli. Lane e Sarah si confidano con la
Nonna, che gli dice che deve bruciare il
corpo di Doris e la tavoletta contemporaneamente. Lane, Sarah e Trevor tornano
un’ultima volta nella casa. Trevor muore
subito affogato nella piscina. Le due sorelle fanno quello che le ha detto la Nonna e vengono aiutate dallo spirito buono
di Debbie. Quando le due tornano a casa,
Lane si ritrova la planchette sul letto, se
la porta davanti agli occhi e ci guarda attraverso.
egli ultimi anni, sembra che il
cinema horror si stia incartando
su se stesso. Poche sono le
eccezioni: Insidious, The Congjuring, La
madre e Sinister. Come esempio di pessimo film, si può citare l’inconcludente 1303.
Per il resto, calma piatta. Ouija si colloca
nel giusto mezzo: non sorprende in quanto
a originalità, ma almeno conserva una
propria dignità. Il film è firmato da Stiles
White, esordiente alla regia, ma con un
forte background nell’ambito degli effetti
N
Film speciali (Intervista col vampiro; Instinct; Il
sesto senso). Non è un caso, infatti, che
siano proprio gli effetti speciali la parte
meglio riuscita dell’intero lungometraggio.
Fantasmi e possessioni sono realizzata con
dovizia di particolari e, bisogna ammettere,
che non sempre ci si accorge che dietro
c’è l’uso della computer graphic. Onore al
merito. Il problema è la banalità di molte
situazioni e gli stereotipi in cui si incappa,
ormai, negli horror. E per cui l’opera di White
si salva solo in parte. Molti accadimenti
e molte concatenazioni di eventi sono gli
stessi che ritroviamo in altri film di genere
e alcuni settaggi sono davvero scritti male;
non si spiega, infatti, come la nonna si
scopra esperta di spiritismo solo alla fine
del film e perché le due sorelle non si siano
rivolte prima a lei. Come si dice in gergo:
Tutti i film della stagione
molte sequenze “sono telefonate”, ovvero
si capisce cosa accadrà diversi minuti prima che avvenga. I personaggi sono piatti,
molto monodimensionali e tendenti allo
stereotipo. Davvero un brutto colpo, perché
diversi fan del cinema horror attendevano
Ouija con molte aspettative. Perché la “tavola degli spiriti” è uno dei fondamenti del
paranormale e del sottogenere omonimo a
cui molti lungometraggi fanno riferimento.
Basti pensare che in L’esorcista, la bambina viene posseduta proprio perché gioca
da sola con la ouija e richiama a sé un
essere maligno molto potente. Sicuramente, desta più curiosità la storia dell’entità
DZ che tormenta Lane e i suoi amici, che
qui viene poco analizzata e approfondita;
chissà che non realizzino un prequel, visto
che ora va molto di moda. Nonostante ciò,
bisogna ammettere che in molte scene
c’è una buona dose di suspense e che
riesce anche a spaventare in tre, quattro
momenti; sicuramente è poco per un film
che si autodefinisce horror, ma è comunque
sopra la media rispetto a pellicole davvero
mediocri. Interessante è la questione della
tavola degli spiriti intesa come “gioco” e
non come strumento medianico; tant’è che
i personaggi parlano sempre di “gioco” e
di “voler giocare” con la tavola. Infine, nei
titoli di coda campeggia la scritta “ispirato
al gioco omonimo della Hasbro”. Alla fine di
tutto, il film non aggiunge nulla di innovativo
alla cinematografia, ma sicuramente, visto il
successo al botteghino, ci sarà un seguito
o, addirittura, una trilogia.
Elena Mandolini
NON SPOSATE LE MIE FIGLIE!
(Qu’est-ce qu’on afait au Bon Dieu?)
Francia, 2014
Scenografia: François Emmanuelli
Costumi: Eve-Marie Arnault
Interpreti: Christian Clavier (Claude Verneuil), Chantal Lauby
(Marie Verneuil), Ary Abittan (David Benichou), Medi Sadoun
(Rachid Benassem), Frédéric Chau (Chao Ling), Noom Diawara (Charles Koffi), Frédérique Bel (Isabelle Verneuil), Julia Piaton (Odile Verneuil), Émilie Caen (Ségolène Verneuil),
Elodie Fontan (Laure Verneuil), Pascal Nzonzi (André Koffi),
Salimata Kamate (Madeleine Koffi), Tatiana Rojo (Viviane Koffi)
Durata: 97
Regia: Philippe de Chauveron
Produzione: Les Films du 24, Tf1 Droits Audiovisuels, Tf1
Films Production
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 5-2-2015; Milano 5-2-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Philippe de Chauveron, Guy
Laurent
Direttore della fotografia: Vincent Mathias
Montaggio: Sandro Lavezzi
Musiche: Marc Chouarain
laude e Marie Verneuil sono una
coppia della borghesia francese
di provincia con quattro figlie.
Sono cattolici e così, dopo che le prime tre
figlie (Isabelle, Odile, Ségolène) si sono
unite in matrimonio rispettivamente con un
ebreo, un mussulmano e un asiatico, sperano davvero in cuor loro che l’ultimo genero
sia del loro stesso credo. La loro vita di suoceri è infatti un inferno; si trovano a discutere continuamente con i loro generi come
anche questi ultimi tra di loro. La maggior
parte dei litigi avviene a tavola dove i contrasti culturali appaiono più forti. Per questo motivo, i due coniugi Verneuil nutrono
la speranza che, almeno per l’ultima figlia
Laure, le cose vadano diversamente. L’ultima figlia si innamora di Charles, un cattolico, ma di origini ivoriane. Anche il papà di
Charles risulta essere contrario alla scelta
del figlio di sposare una ragazza europea. I
due padri cercano in tutti i modi di ostacolare il matrimonio dei figli, ma alla fine è
l’amore a trionfare su tutto.
C
el 1967 in America usciva il film
di Stanley Kramer, Indovina chi
viene a cena? E, qualche anno,
più tardi, nel 2002, Il mio grosso grasso
matrimonio greco, dove la situazione era
completamente ribaltata rispetto al successo francese del 2015: il fratello e la sorella
di Toula erano sposati con altri greci. Lì
quindi il regista Joel Zwick, pur sottolinendo il “razzismo” del padre della protagonista verso i non greci, faceva sì che
la sua rigidità fosse concentrata sul piano
propriamente culturale. Il razzismo, anche
in Non sposate le mie figlie! è sempre presente, anche se non in maniera violenta,
ma comunque forte e costante. In questa
commedia francese di Philippe de Chauveron l’accento viene messo sull’aspetto
politico. Si intende fare riferimento, infatti, a
quella immigration choisie (l’immigrazione
selettiva e discriminatoria) che fu predicata
da Nicolas Sarkozy durante la campagna
presidenziale del 2012. I generi di Claude
Verneuil sono rispettivamente un avvoca-
N
23
to, un banchiere, un imprenditore e un attore, un tipo di immigrati “ricchi”, qualificati
e utili all’economia nazionale, e, quindi, nei
confronti dei quali ci si può permettere di
essere un po’ meno ostili. Le due rigidità
e l’intolleranza del sig. Verneuil e del sig.
Koffi (padre di Charles) si incontrano e
insieme riescono a superare l’ostacolo del
razzismo. Un altro elemento interessante
della pellicola è l’atteggiamento delle sorelle verso Laure: queste infatti le fanno
pesare la sua scelta verso un diverso e a
non farla sentire libera. In fondo ammettono di averla fatta anche loro una scelta
particolare, ma quell’ennesima unione con
uno “straniero” potrebbe essere letale per i
genitori cattolici e gollisti. Tra le scene più
comiche quella di fronte al presepe con il
padre di famiglia Claude e i nipotini e quella
dei tre generi che, con la mano sul petto,
intonano l’inno nazionale francese davanti
alla gongolante soddisfazione del suocero.
L’appellativo del nuovo arrivato Charles ai
suoceri suona bene non solo perché è un
Film nome comunemente usato in Occidente,
ma anche perché nel loro cuore gollista
Tutti i film della stagione
risuona il mito del presidente nazionalista
Charles De Gaulle. Il vero scontro nasce
in particolare contro l’ultimo genero, “lo
straniero degli stranieri” che a causa della
colonizzazione francese in Africa, non può
essere considerato così integrato e avente pari dignità come un asiatico, un arabo
o un ebreo. Christian Claver è fenomenale
nel suo ruolo del signor Verneuil. Dopo
L’Amour aux trousses (2005) e L’Élève
Ducobu (2011), il regista francese Philippe de Chauveron torna a lavorare su
una commedia. Il titolo originale Qu’est-ce
qu’on a fait au Bon Dieu? con una traduzione letterale avrebbe sortito un effetto
migliore anche il successo al botteghino
di dodici milioni di spettatori sembrerebbe
dire il contrario. Tra ironia, gag, battute,
il film è una satira alla leggera contro i
pregiudizi che in fondo tutti noi nutriamo
contro lo straniero. Una commedia senza
troppe pretese, dove la lotta al razzismo,
non solo in Francia, non è ancora così
scontata.
Giulia Angelucci
ROMEO & JULIET
Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, 2013
Costumi: Carlo Poggioli
Effetti: Ghost Sfx S.r.l., Leonardo Cruciano Workshop
Interpreti: Douglas Booth (Romeo), Hailee Steinfeld (Giulietta),
Ed Westwick (Tebaldo), Christian Cooke (Mercuzio), Paul
Giamatti (Frate Lorenzo), Kodi Smit-McPhee (Benvolio),
Lesley Manville (Nutrice), Tomas Arana (Montecchi), Laura
Morante (Donna Montecchi), Damian Lewis (Capuleti),
Natascha McElhone (Donna Capuleti), Tom Wisdom (Paride),
Stellan Skarsgård (Principe Della Scala), Leon Vitali (Speziale),
Nathalie Rapti Gomez (Rosalina), Anton Alexander (Abraham),
Clive Riche (Pietro), Stefano Patti (Jack)
Durata: 118’
Regia: Carlo Carlei
Produzione: Amber Entertainment Uk, Swarovsky Entertainment, Echo Lake Entertainment, Indiana Production Italia, in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: Good Films
Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015)
Soggetto: dalla tragedia omonima di William Shakespeare
Sceneggiatura: Julian Fellowes
Direttore della fotografia: David Tattersall
Montaggio: Peter Honess
Musiche: Abel Korzeniowski
Scenografia: Tonino Zera
Verona due nobili famiglie,
quella dei Montecchi e quella
dei Capuleti, sono contrapposte da un odio profondo che va avanti da decenni e che il Principe Escalo,
governatore della città, ormai fatica a
tenere a bada. Un giorno, dopo l’ennesimo scontro per le vie della città a
colpi di spade e insulti, il principe minaccia per entrambe le famiglie severe
pene qualora vengano sorpresi nuovamente a creare sommosse. Lord Capuleti, intimorito dalla situazione, decide
allora di dare una festa in maschera.
A
L’occasione è utile anche per cercare
di far avvicinare la figlia adolescente
Giulietta al giovane e rinomato Conte Paride, assieme al quale vorrebbe
maritarla. Nel frattempo, nella casa
rivale, il giovane Romeo soffre pene
d’amore per la bella Rosalina, una cugina dei Capuleti, che non ricambia il
suo affetto. Benvolio, suo cugino, percependo la sua sofferenza, gli consiglia
allora di concentrare la sua attenzione
su altre ragazze. Quella notte, insieme
all’amico Mercuzio, riescono a intrufolarsi alla festa. Durante la serata, Ro-
24
meo vede Giulietta, che lo folgora all’istante con la sua semplicità e bellezza.
Dal canto suo, anche la giovane rimane stupita dalla bellezza del ragazzo e i
due, dopo aver ballato assieme, riescono ad appartarsi per qualche istante e
si baciano. Nel frattempo, l’agguerrito
Tebaldo, cugino di Giulietta, nota che
Romeo è fra i partecipanti della festa e
viene a stento trattenuto dallo zio Lord
Capuleti. A festa conclusa, Romeo nascosto nel giardino dei Capuleti scambia con Giulietta un’eterna promessa
d’amore. Il ragazzo giunta l’alba si
Film reca dall’amico Frate Lorenzo, chiedendogli la sua disponibilità a sposarlo
con Giulietta. Il frate, dopo un momento d’esitazione, finisce per accettare,
ritenendo l’amore fra i due giovani
un’ottima occasione per riconciliare
le due famiglie. Romeo allora, dopo
aver parlato con la balia personale di
Giulietta, progetta il matrimonio per
il pomeriggio stesso. Ottenuto perciò,
con una scusa, il permesso di recarsi
in chiesa, Giulietta corre da Frate Lorenzo, che sposa i due giovani. Qualche
ora dopo il matrimonio, Tebaldo incontra Benvolio e Mercuzio per le strade
della città. Dopo essersi stuzzicati a
parole, Mercuzio, sguainata la spada,
inizia a battersi con il rivale. Tebaldo
però, più forte e bellicoso, lo uccide
proprio mentre Romeo si frappone tra
i due. Assistita alla morte dell’amico di
sempre, Romeo, assetato di vendetta,
inscena a sua volta un duello con Tebaldo e alla fine lo uccide. Il principe decide di esiliare Romeo a Mantova. Nel
frattempo, Lord Capuleti riceve presso
la sua dimora il Conte Paride, assieme
al quale fissa la data del matrimonio
con la figlia. Quella stessa sera, Romeo
trascorre con Giulietta l’ultima notte
di passione prima di darsi l’addio. Più
tardi, venuta a sapere delle intenzioni
del padre, Giulietta si ribella alla decisione del genitore, che minaccia di
ripudiarla come figlia qualora lei non
obbedisse al suo volere. La ragazza
allora, disperata, si reca da Frate Lorenzo, al quale confessa piani suicidi.
Per impedire ciò, il frate le suggerisce invece d’ingerire un liquido che le
provochi uno stato di morte apparente,
proprio nel giorno fissato per le nozze
con il Conte. Avrebbe poi mandato un
messaggio a Romeo che lo avvisasse
della situazione, in modo da farglielo
trovare nella tomba di famiglia dei Capuleti al suo risveglio, per poi fuggire a
Mantova con lui. Giulietta, felice della
proposta, torna a casa, chiede perdono al padre e la sera, ritiratasi a letto,
ingerisce il liquido. Il clima di festa si
trasforma l’indomani in lutto. Durante
il tragitto, Benvolio assiste alla scena
e, preso un cavallo, corre a Mantova
Tutti i film della stagione
per avvertire il cugino. Romeo, straziato dal dolore, si reca da uno speziale,
dove acquista un potente veleno, poi
parte alla volta di Verona per uccidersi
sulla tomba dell’amata. Nel frattempo,
il messaggero al quale Frate Lorenzo
aveva affidato il compito di avvertire il
giovane del suo piano, viene trattenuto
per caso e quando arriva a Mantova,
gli viene detto che Romeo è già partito. Giunto a Verona, Romeo si reca
nella cappella di famiglia dei Capuleti
e dopo aver baciato per l’ultima volta
la sua amata, ingerisce il veleno, ma
proprio in quel momento Giulietta si
risveglia, assistendo alla morte dello
sposo. Addolorata, si uccide anch’essa,
pugnalandosi al petto con il pugnale di
Romeo. Scoperta la situazione e venuti
a conoscenza della loro sofferta storia
d’amore, le due famiglie pongono fine
per sempre alla loro rivalità.
ealizzare un adattamento
cinematografico del Romeo
e Giulietta shakespeariano,
dopo che molti ci hanno già provato,
non è cosa semplice. Carlo Carlei con
Romeo&Juliet si accinge nell’impresa,
inducendo subito un confronto con l’ultimo Romeo+Juliet di Baz Luhrmann.
Ogni volta che ci si trova di fronte a
una nuova versione per il cinema di
un classico del genere è inevitabile
domandarsi da dove venga il desiderio
di riproporre una storia così tante volte
raccontata, cosa possa mai aggiungere
alla lettura di una delle più struggenti e
tristi storie d’amore, soprattutto avendo
come capostipite e modello il capolavoro di Franco Zeffirelli. Nella versione
di Carlei, scritta da Julian Fellowes,
non c’è una particolare rilettura, come
quella estrema invece di Baz Luhrmann.
Siamo piuttosto di fronte a una versione
classica, che alterna elementi gotici
e fantasy. Allora si può pensare alla
voglia di proporre un film che avvicini
gli adolescenti a questa storia, che
racconta come l’amore giovanile possa
essere vissuto in maniera totalizzante e
assolutista. Certo Romeo&Juliet attinge
anche a molto altro: da un’estetica che
richiama Twilight, in particolare nelle
R
25
scene di duello e nella scelta di alcuni
membri del cast, alla pittura italiana e
messinscena operistica, ambientata
all’interno di sontuose scenografie.
Nella sua impostazione classica, così
come nella scelta di utilizzare le esatte
parole di Shakespeare, Carlei compie
una operazione filologicamente corretta,
priva di eccessivi manierismi e di sfoggi
di bravura. Dunque la sua versione della
storia è teneramente rispettosa, sia del
testo che della ricchezza iconografica
del paese da cui il regista proviene. La
confezione del film è sicuramente affascinante, dalle location tutte realmente
italiane ai costumi, alle musiche e visivamente ricco anche per la licenza poetica
che ha fatto spostare l’ambientazione
dall’ultimo Medioevo al più ricco Rinascimento. La sceneggiatura affidata a
Julian Fellowes, che ha raccontato tante
volte le vicende della società britannica
di inizio ’900, ha provato a semplificare il
testo, tagliandone parti e semplificandoammodernando la storia tradizionale.
Tuttavia il risultato finale risulta povero
di energia. L’insistenza, poi, di alcuni
ralenti a sottolineare i momenti emotivamente più forti, oppure il soffermarsi
del montaggio sui primi piani degli attori
per acuirne i sentimenti, sono mezzi che
a livello narrativo non servono e si svelano invece come semplici artificiosità.
Lo stesso vale per le musiche belle a
tratti, ma per la maggior parte del tempo
ridondanti. Il cast, seppure formato da
alcuni nomi di rilievo, non viene sfruttato
al meglio. Le scelte risultano poco equilibrate: se da un lato Douglas Booth, nei
panni di Romeo, sembra più adatto a un
altro genere di film, Hailee Steinfeld, nel
ruolo di Giulietta, selezionata soprattutto
per il suo aspetto di adolescente, non
trasmette il giusto carisma. L’unico forse
a regalare al pubblico un’interpretazione
degna di nota è il caratterista Paul Giamatti, che interpreta Frate Lorenzo. Una
nota di merito va a Kodi Smit-Mcphee nel
ruolo di Benvolio: il giovanissimo attore,
nel film simbolo dell’innocenza contro
l’arroganza e l’egoismo altrui, rivela una
sensibilità e un talento notevoli.
Veronica Barteri
Film Tutti i film della stagione
FINO A QUI TUTTO BENE
Italia, 2014
Regia: Roan Johnson
Produzione: Roan Johnson in collaborazione con gli autori,
gli attori e la troupe del film
Distribuzione: Microcinema
Prima: (Roma 19-3-2015; Milano 19-3-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Ottavia Madeddu, Roan Johnson
Direttore della fotografia: Davide Manca
Montaggio: Paolo Landolfi, Davide Vizzini
V
incenzo, Paolo, Ilaria, Andrea e
Francesca sono cinque giovani
che devono lasciare l’appartamento che hanno condiviso a Pisa, durante gli studi. Paolo Cioni, l’elemento più
stralunato e naif del gruppo, che si avvia
a rientrare a casa dai genitori. Ilaria,
una sessualità disinibita che le porta una
gravidanza non voluta con un uomo sposato e un probabile ritorno a Frosinone
dalla famiglia. Andrea che c’ha provato
col teatro, ma tutto ciò che ha raccolto
è una ragazza che è scappata con un tizio più talentuoso ed è diventata famosa
sfondando nelle serie televisive. Vincenzo, laureato in vulcanologia, destinato
a raccogliere l’offerta di una cattedra
da professore associato in Islanda; la
sua fidanzata Francesca, che non condivide la scelta, ma continua a sperare in
una carriera teatrale nel gruppo “I poveri illusi”, insieme ad Andrea. Su tutto
aleggia la presenza discreta di Michele,
loro amico ed ex inquilino, morto in un
incidente stradale, che cela un suicidio
per loro ancora indecifrabile. Ognuno di
loro con i suoi problemi affronta l’imminente distacco con non poca sofferenza.
Ciascuno la manifesta e la vive a proprio
modo. Vincenzo e Francesca sono a un
punto critico della loro relazione, quando
si rendono conto che le rispettive priorità
non convergono e allora la sola voglia di
stare insieme non è abbastanza. Vincenzo non vuole rinunciare alla possibilità di carriera universitaria. D’altronde
Francesca avrebbe difficoltà nel seguirlo in Islanda. Andrea, rivedendo la sua
ex Marta ha la tentazione di tornare sui
suoi passi. La ragazza gli vuole ancora
bene, ma la rabbia e il dolore che ancora
lo pervadono lo bloccano in un’armatura di orgoglio immobilizzante. Disprezza
quello che per lui assomiglia a un affetto
caritatevole da parte di lei, non ammette
Musiche: I Gatti Mézzi
Scenografia: Rincen Caravacci
Costumi: Rincen Caravacci
Interpreti: Alessio Vassallo (Vincenzo), Paolo Cioni (Paolo),
Silvia D’Amico (Ilaria), Guglielmo Favilla (Andrea), Melissa
Anna Bartolini (Francesca), Isabella Ragonese (Marta), Paolo
Giommarelli (Professore), Marco Testi (Bernardini), Milvia Marigliano (Madre di Ilaria), Mario Balsamo (Padre di Ilaria)
Durata: 80’
la sua invidia e, allo stesso tempo, sminuisce se stesso e ciò in cui ha sempre creduto. Ma in cuor suo sente di aver fallito.
Ilaria è incinta di un padre che non ne
vuole sapere di fare il padre, prova a vendicarsi, ma anche lei non è esattamente
una vittima, perché ha avuto una sessualità vivace. Confessa tramite Skype ai
suoi genitori la gravidanza, inventando
la morte del padre del bambino. Paolo,
che sembra il meno problematico, dà per
lo più l’idea di aver interiorizzato il suo
malessere, cercando sempre di accontentare tutti. Tuttavia, in lui c’è l’interesse
mai confessato per Ilaria, che viene allo
scoperto quando le propone di andare a
vivere con lui e la sua famiglia. Quando
è arrivato il momento dei saluti, il gruppo
decide di andare a fare l’ultimo bagno al
mare. Peccato che appena lo hanno raggiunto su un’improbabile barchetta a motore rimangono senza benzina.
ino a qui tutto bene è il secondo
lungometraggio di Roan Johnson,
dopo I primi della lista. Presentato
al Festival di Roma è stato ben accolto
dal pubblico e si è aggiudicato il Premio
del Pubblico e il Premio Signis. L’idea
nasce da un documentario girato con la
collaborazione dell’Università di Pisa, che
aveva come oggetto una serie di interviste
ad alcuni studenti fuorisede. L’incontro con
queste realtà si è rivelato così fecondo da
ispirare un vero e proprio film, la cui sceneggiatura infatti è in parte composta da
vicende realmente accadute. La pellicola
scritta e diretta dal regista è stata realizzata
con il meccanismo produttivo The CoProducers: un atto di coraggio partecipato,
in cui attori e tecnici non sono stati pagati,
ma parteciperanno percentualmente agli
incassi e alle altre entrate. Un film sull’amicizia realizzato grazie ad amici del regista,
(Guglielmo Favilla, Alessio Vassallo, Melis-
F
26
sa Bartolini, Silvia D’Amico e Paolo Cioni),
alcuni professionisti del settore (Isabella
Aragonese), altri alle prime armi. Gli attori
dormivano nella casa in cui viene girato il
film - spiega il regista- indossavano i loro
veri vestiti, le stanze erano le loro, così che
tutto sembrasse più naturale e spontaneo.
Fino a qui tutto bene non è uno di quei film
che sorprende, né lascia il segno. Si tratta
comunque di una commedia, sì piacevole,
ma semplice e dagli sviluppi già visti.
Ma a consentirle di elevarsi rispetto agli
standard delle altre pellicole italiane alla
Moccia, è il tono assolutamente fresco e
disincantato in cui il giovane regista avvolge il racconto. Le vicende degli ultimi
tre giorni di convivenza di cinque giovani
coinquilini in un appartamento di Pisa,
sono infatti rappresentate senza iperboli, esagerazioni, scelte narrative che
trascendano la dimensione del possibile.
Sebbene vengano utilizzati comunque
gli stereotipi, tuttavia sullo schermo sono
resi in maniera verosimile e si riflette sulle
incertezze dell’Italia di oggi. C’è una forte
adesione al reale quanto agli aspetti pratici
della convivenza studentesca: la “pasta
al nulla”, le muffe nel frigo, gli alcolici
al risparmio, la piscina per bambini sul
tetto della città e l’illusione di una festa
infinita, i calcoli di divisione delle bollette
telefoniche. Tutto vero e ben reso, grazie
anche al carattere anarchico e modesto
del copione e alle origini del progetto. Si
parla delle incertezze e sensazioni contrastanti che si provano una volta messi di
fronte a delle scelte. Prendere decisioni è
difficile, ma non prenderne è decisamente
peggio, vittime di una perenne sindrome
di Peter Pan, mentre ci si crogiola in quel
limbo tra fine studio e inizio lavoro, che da
sempre è momento critico della vita. C’è
un disorientamento felice e anche un po’
incosciente, come se una sorta di liquido
amniotico avesse protetto i cinque ragazzi
Film fino ad allora da tutto, ma manca la profondità drammatica: nella riflessione sulla
morte dell’amico, nella condivisione della
gravidanza di Ilaria, nella fine della storia
tra Vincenzo e Francesca. Invece viene
data molta più importanza a gag leggere
e superficiali, come quella del furto dell’ar-
Tutti i film della stagione
genteria, la scommessa dell’anguria, la
doccia tutti insieme o le corse tra i girasoli
al tramonto. La regia ha prediletto le situazioni più accattivanti e cameratesche, dai
colori accesi e dalle musiche alternative.
Dunque un film che dall’inizio alla fine non
mostra di avere pretese, né dà l’impres-
sione di sapere come finire. Così come
non lo sanno i suoi protagonisti, che nel
finale, nonostante la situazione paradossale, nell’incertezza decidono comunque
di continuare a remare.
Veronica Barteri
FOCUS – NIENTE È COME PRIMA
(Focus)
Stati Uniti, 2015
Effetti: Method Studios
Interpreti: Will Smith (Nicky), Margot Robbie (Jess), Rodrigo Santoro (Garriga), Gerald McRaney (Owens), BD
Wong (Liyuan), Adrian Martinez (Farhad), Robert Taylor
(McEwen), Stephanie Honoré (Janice), Griff Furst (Gareth), Dominic Fumusa (Jared), Brennan Brown (Horst),
Dotan Bonen (Gordon), Antonella Macchi (Apollonia), Cacilie Hughes (Jenny), Juan Minujín (Marcelo), Apollo Robbins (Apollo)
Durata: 105’
Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Produzione: Di Novi Pictures, Zaftig Films
Distribuzione: Warner Bros.
Prima: (Roma 5-3-2015; Milano 5-3-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Glenn Ficarra, John Requa
Direttore della fotografia: Xavier Pérez Grobet
Montaggio: Jan Kovac
Musiche: Nick Urata
Scenografia: Beth Mickle
Costumi: Dayna Pink
N
icky Spurgeon è un esperto
nell’arte della truffa e del riciclaggio del denaro proveniente da furti e carte di credito clonate.
Una sera, mentre si trova a cenare in
un elegante ristorante newyorchese, fa
la conoscenza casuale di una bellissima
criminale alle prime armi, Jess Barrett.
Nicky smaschera facilmente la ragazza,
che tenta di truffarlo in modo maldestro
con l’aiuto di un complice. Jess incontra
di nuovo Nicky poche sere dopo e lo convince a diventare il suo mentore.
Nick porta Jess a New Orleans dove
cerca di insegnarle i trucchi del mestiere. Dopo aver dimostrato il suo valore in
occasione di alcuni piccoli furti, la ragazza viene presentata ai collaboratori
di Nick. Il rapporto tra i due diventa ben
presto molto intimo. Durante una partita
del campionato di football, Nicky e Jess
coinvolgono in un gioco di scommesse
dalle poste sempre più alte Liyuan Tse, un
giocatore compulsivo. Grazie a una sottile opera di persuasione, i due riescono a
vincere una grossa somma inducendo Tse
a scegliere il numero di maglia di un giocatore che Jess riesce a indovinare. Dopo
aver dato la sua parte di soldi a Jess, Nick
la abbandona lasciandola con il cuore in
frantumi.
Tre anni dopo, i due si ritrovano a
Buenos Aires grazie al miliardario Garriga proprietario di un team internazionale
di auto da corsa. Nicky viene assunto da
Garriga per aiutarlo a battere un team
rivale, capitanato da McEwen, un uomo
d’affari australiano. Nicky dovrà fingere
di essere un tecnico insoddisfatto della
scuderia di Garriga che dovrà vendere
un componente contraffatto al team di
McEwen per far rallentare la sua auto
durante la gara. Durante un party prima della corsa, Nicky incontra Jess e
con sua grande sorpresa scopre che è la
fidanzata di Garriga. Nicky ha un duro
confronto con Garriga in pubblico (una
lite pianificata tra i due precedentemente): subito dopo viene avvicinato da Mc
Ewan e assunto con il compito di fornirgli
il componente in possesso della scuderia
di Garriga.
Nick comincia a seguire Jess per la
città nel tentativo di riallacciare la loro
relazione. Ma il capo della sicurezza del
team di Garriga, Owens, sospettoso, pedina i due. Nicky consegna il componente
a McEwen per tre milioni di euro, ma allo
stesso tempo vende lo stesso strumento
anche ad altre scuderie per elevate somme. Mentre aspetta Jess nella sua camera
d’albergo, Nicky riceve un messaggio che
gli dice che ora è in grave pericolo di vita
e che deve partire al più presto.
Nicky e Jess cercano di partire insieme per gli Stati Uniti ma trovano sulla
loro strada Garriga e i suoi uomini che li
catturano e li conducono a un magazzino
abbandonato dove Nicky li supplica di risparmiare la ragazza. Nicky viene colpito
da Garriga ed è seriamente ferito. Poco
dopo, Jess confessa a Nicky che sedurre
27
Garriga era il suo piano per cercare di
rubargli il suo prezioso orologio. Owens
colpisce Nicky al torace convincendolo a
partire. Subito dopo Owens rivela a Nicky
di essere suo padre, Bucky, e rassicura
Jess che ha evitato di colpire le sue arterie vitali. Bucky porta Nicky e Jess davanti a un ospedale per far si che la ferita
di Nicky venga curata e si allontana col
denaro del figlio, ricordandogli il prezzo
da pagare se si perde la concentrazione.
Rimasto solo con Jess, Nicky la sorprende rivelandole di aver rubato l’orologio
di Garriga prima che l’uomo lasciasse il
magazzino abbandonato. Nicky e Jess si
avviano insieme verso l’ospedale.
n professionista dell’imbroglio di
grande fascino e una bellissima
aspirante criminale, una coppia
di grande appeal è al centro di Focus –
Niente è come sembra, patinato gambler
movie con una spolverata di romanticismo.
Il focus del film è il cervello umano
e le sue imprevedibili dinamiche. Forse
non tutti sanno che, dal momento che il
cervello di un uomo non può concentrarsi
realmente su più di una cosa alla volta,
esso crea delle scorciatoie che talvolta
sono solo una forma di automazione di
un processo decisionale. Sfruttare questa
vulnerabilità è il pane quotidiano dei maghi
della truffa, come Nicky, lo scaltro protagonista del film. “Si tratta di distrazione. Si
tratta di concentrazione. Il cervello è lento
e non può reagire velocemente. Colpisci in
U
Film quel momento, prendi in quel momento”.
Questa è la sua filosofia.
Fiducia e vulnerabilità, distrazione e
concentrazione, induzione subliminale e
presunta ingannevolezza: le premesse
per uno svolgimento interessante c’erano
tutte. Ma la tentazione romantica ha finito
per prendere la mano del duo di registisceneggiatori Glen Ficarra e John Requa
che si erano già esercitati sullo stesso
argomento nel 2009 con Colpo di fulmine
– Il mago della truffa, pellicola impreziosita
dalla presenza del carismatico duo Jim
Carrey-Ewan McGregor.
Ma, questa volta, l’esito è un po’ diverso
perché Focus (sottotitolo italiano Niente è
come sembra) finisce per essere, più che
una nuova storia alla Ocean’s Eleven,
un puro prodotto commerciale basato sul
fascino dei due protagonisti: un Will Smith,
sempre più in forma ma poco incisivo e
Tutti i film della stagione
sempre uguale a se stesso, e la bionda
rivelazione sexy Margot Robbie (che si è
fatta notare accanto a Di Caprio in The Wolf
of Wall Street). Locations di grande appeal
(da una New York innevata, a una solare
New Orleans, fino a una Buenos Aires
sospesa tra antico e moderno), fotografia
patinata, automobili e abiti da urlo (tutte le
entrate in scena della protagonista sono
delle vere sfilate di moda), nulla manca a
una confezione fatta apposta per attrarre il
grande pubblico e catturare anche le platee
femminili (dando più spazio alla love story
che ad adrenaliniche sequenze action).
Il punto debole è la sceneggiatura
che non regge oltre la prima mezz’ora,
smarrendo il suo focus proprio nella seconda parte, dove, tra i box delle corse
automobilistiche e i pittoreschi quartieri di
Buenos Aires, la tensione e il ritmo calano
vertiginosamente. E mentre l’arte del furto
si fa sempre più glamour, il gioco delle
false apparenze trascina lo spettatore in
un finale dove gli inganni di truffatori e
manipolatori vengono finalmente a galla.
Peccato però che, quello che dovrebbe
essere il colpo di scena decisivo, non sia
un vero e fulmineo twist.
Di un film non particolarmente memorabile, resta però una grande scena: il
ripetuto gioco di scommesse tra il nostro
Nick e un ricchissimo signore asiatico (e
ti pareva!) durante una partita del Super
Bowl a New Orleans all’interno di una
skybox VIP, ovvero un’ala elegante e
accessoriata dello stadio. Questa si che è
una gara all’ultimo colpo dove depistaggi
e condizionamenti mentali la fanno da
padrone e dove realmente… niente è
come sembra.
Elena Bartoni
LETTERE DI UNO SCONOSCIUTO
(Gui lai)
Cina, 2014
Regia: Zhang Yimou
Produzione: Le Vision Pictures, in associazione con Wanda
Media Co. Ltd., Edko Beijing FilmsLimited, Helichenguan International, Culture Media (Beijing) Co. Ltd., Zhejiang Huace
Film&Tv Co. Ltd.
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 26-3-2015; Milano 26-3-2015)
Soggetto: dal romanzo di Yan Geling
Sceneggiatura: Zou Jingzhi
C
ina, anni 60/70 del secolo scorso.
Mentre la Rivoluzione Culturale è ormai agli sgoccioli, Lu e Feng, marito e moglie, entrambi insegnanti, sono separati dai lunghi anni di prigionia di Lu,
spedito ai campi di lavoro per non avere
abbracciato completamente l’ortodossia
maoista. Hanno una figlia adolescente,
Dan Dan, perfettamente inserita invece,
nelle idee e nei dettami del Partito, ben
sapendo che solo così può puntare alla
parte di protagonista nello spettacolo che
sta preparando nella scuola di danza del
regime.
Accade che Lu scappi dal campo di
prigionia e tenti di rivedere la moglie pur
essendo in fuga e ricercato dalle guardie rosse; riesce, però, a lasciarle dei
messaggi sotto la porta di casa per un
appuntamento nei pressi della stazione
ferroviaria.
La figlia scopre il progetto e denuncia
i genitori alle autorità del partito: all’ap-
Direttore della fotografia: Zhao Xiaoding
Montaggio: Meng Peicong, Mo Chaoxiang
Musiche: Chen Qigang
Scenografia: Lin Chaoxiang, Liu Jiang
Interpreti: Gong Li (Feng Wanyu), Chen Daoming (Lu Yanshi),
Zhang Huiwen (Dan Dan), Tao Guo (Direttore della squadra della propaganda), Liu Peiqi (Compagno Liu), Zu Feng
(Istruttore Deng), Yan Ni (Direttrice Li)
Durata: 111’
puntamento Lu è arrestato dalla milizia,
mentre la moglie fa ritorno a casa sconvolta per sempre. Dan Dan non è in grado
di godersi il frutto del suo tradimento perché la parte tanto ambita viene assegnata
a un’altra danzatrice.
Il periodo maoista è ormai finito, i
prigionieri politici sono liberati e così Lu
può tornare a casa anche se è una sorpesa
amara ciò che trova: l’amatissima Feng
non ricorda niente di lui, anzi lo scambia
per un funzionario del partito che l’ha seviziata e quasi sicuramente violentata durante l’assenza del marito e lo caccia via.
Anche la figlia non può nulla perché
la madre non la vuole neanche vedere
dopo il suo tradimento; Lu può solo informarsi meglio presso i neurologi più illuminati per cercare di capire la situazione
e inventarsi tanti modi per stare vicino
alla moglie senza che lei provi ulteriori
turbamenti: può, ad esempio, rileggerle
tutte le lettere che lui stesso le scriveva
dalla prigione sui pezzi di carta più im28
provvisati; su uno di questi c’è una data,
il 5 di un mese non identificato rappresentante il suo ritorno. Così la povera Feng
ogni 5 del mese va alla stazione in attesa
di qualcuno che non arriva e non riconosce il marito neanche quando lui il 5 di
un certo mese fa il giro della stazione al
contrario per farsi passare come un viaggiatore in arrivo.
Ogni stimolo, ogni tentativo di Lu risulta inutile per fare ritornare la memoria
alla moglie; neppure la melodia del pianoforte da lui ripreso a suonare e che a lei
piaceva molto serve a qualcosa.
Questa strana coppia (ma lui vive da
solo in un magazzino della casa) non può
fare altro che recarsi ogni 5 del mese alla
stazione e aspettare nel freddo e nella
neve qualcuno che non arriverà mai.
l regista Zhang Yimou che negli scorsi
anni ‘80 e ‘90 ha affermato il nuovo
cinema cinese nel mondo portandolo fuori dagli stereotipi fumettistici in cui
I
Film era relegato, si affida ora a quel potente
motore di storie letterarie e di immagini
filmiche che è la memoria e le devastanti
conseguenze della sua scomparsa.
Proprio da poco abbiamo visto Still
Alice che ci ha condotto per mano, gradino
dopo gradino negli oscuri e dolorosi labirinti dell’Alzheimer; qui ci troviamo di fronte a
un impatto ancora più violento che si dilata
a occupare un disagio oltre il personale
appartenente a un’intera comunità, a una
nazione e conduce la direzione di Zhang
Yimou lungo due aspetti, quello della
poesia di una struggente storia d’amore e
quello sociale.
Al primo appartiene l’amnesia in cui
la protagonista (ancora una splendida
Gong Li, bellissima e profonda, a cui gli
anni continuano a regalare un fascino e
una sensibilità sempre più luminosi) si
chiude, si costringe a chiudersi per mettere la parola fine al proprio dolore, alle
sofferenze del passato nel considerare
oltre ogni limite quello che ha sofferto,
l’amore negato con il marito, la prigionia
di lui, lo stupido tradimento politico della
figlia: è bene chiudere definitivamente
la porta, non pensare, non agire, non
ricordare perché ricordare può significare
unicamente soffrire.
È vicino a questa scelta la compagnia
amara e dolente, mesta e dolcissima del
marito (ottima l’interpretazione di questo
attore, Chen Daoming, noto, sembrerebbe, soprattutto per le serie televisive) che,
pur di non scomparire, si ritaglia un ruolo
di angelo custode, sperando che questa
Tutti i film della stagione
sua assidua e testarda vicinanza possa un
giorno far esplodere il miracolo del ricordo
e della conoscenza.
Non è tempo di miracoli questo e
non sarebbero bastevoli per ciò che è
accaduto in Cina: l’amnesia va oltre la
difesa del proprio io e del proprio dolore
per divenire l’autodifesa e l’abbraccio
generazionale di un popolo intero che
dimentica antiche ferite e traumi nascosti
per costruire una nuova socialità, una
speranza che appartenga esclusivamente
e definitivamente all’oggi.
Siamo convinti che non sia questa la
strada giusta e che il passato non possa
essere rimosso e che anzi sia capace, se
non elaborato, di ritornare di colpo con
fattezze mostruose.
L’eliminazione del ricordo, rifugiarsi nel
buio della mente nell’illusione che questo
sbarri il passo al soffrire è un’illusione amarissima: per questo Zhang Yimou non ci dà
un lieto fine ma la rappresentazione crudele
e dolorosa di un’attesa senza soluzione.
Quando, pare dire il regista, gli uomini
e le donne di Cina saranno in grado di fare
i conti con il passato lacerante di un intero
periodo storico e accogliere, finalmente e
sul serio, una vera riconsiderazione politica
e sociale del dolore?
Fabrizio Moresco
SUITE FRANCESE
(Suite Française)
Francia, Gran Bretagna, Belgio, 2014
Regia: Saul Dibb
Produzione: Qwerty Films, Eone, TF1 Films Production, Alliance Films, Momentum Pictures, Scope Pictures
Distribuzione: Videa
Prima: (Roma 12-3-2015; Milano 12-3-2015)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Irène Némirovsky
Sceneggiatura: Saul Dibb, Matt Charman
Direttore della fotografia: Eduard Grau
Montaggio: Chris Dickens
Musiche: Rael Jones
Scenografia: Michael Carlin
Costumi: Michael O’Connor
Effetti: Benuts
Interpreti: Michelle Williams (Lucile Angellier), Kristin Scott
D
urante la seconda guerra
mondiale con l’occupazione
tedesca della Francia, nella
Thomas (Madame Angellier), Matthias Schoenaerts (Bruno von Falk), Sam Riley (Benoît Labarie), Ruth Wilson
(Madeleine Labarie), Heino Ferch (Comandante), Tom Schilling (Kurt Bonnet), Harriet Walter (Viscontessa di Montmort),
Alexandra Maria Lara (Leah), Clare Holman (Marthe), Margot Robbie (Céline Joseph), Lambert Wilson (Visconte di
Montmort), Eileen Atkins (Denise Epstein), Deborah Findlay
(Madame Joseph), Eric Godon (Monsieur Joseph), Simon
Dutton (Maurice Michaud), Diana Kent (Madame Michaud),
Juliet Howland (Madame Pericands), Nicolas Chagrin (Padre
Bracelet), Niclas Rohrwacher (Jerome), Martin Swabey
(Gustav), Luan Gummich (Florian), Tara Casey
(Madame Goulot), Dominik Engel (Willy),
Durata: 107’
cittadina di Bussy, Lucile Angellier attende in forzata compagnia della suocera,
fredda e dispotica, le notizie del marito
29
prigioniero. Intanto la cittadina viene invasa dai soldati tedeschi, che prendono
alloggio nelle le case degli abitanti. Nella
Film villa di Madame Angellier, viene dislocato
l’ufficiale Bruno Von Falk. L’uomo è un
nazista atipico perché è gentile e sensibile, oltre che un talentuoso musicista. Tra
il giovane ufficiale e Lucile, nonostante i
primi momenti di diffidenza, si instaura
un rapporto di confidenze e comprensione, supportato dall’amore per la musica.
I due non osano però incontrarsi e parlarsi, anche perché la suocera tiranneggia Lucile e la costringe a non dare confidenza. La donna scopre da alcune lettere
dei concittadini indirizzate all’ufficiale
che il marito da anni la tradiva con un’altra donna e lo scandalo era sulla bocca
di tutti. Lucile disperata cede così alla
tentazione, baciando Bruno. Un ufficiale tedesco intanto approfitta della situazione e cerca di importunare Madeleine,
una ragazza semplice sposata con Benoit.
Sfuggito alla cattura quando era soldato
al nord, Benoit si è fatto riformare e ora
esercita il bracconaggio nel parco del visconte di Montmort, sindaco del paese.
L’uomo lo deruba per interesse, ma anche
perché gli rimprovera l’atteggiamento di
collaborazionismo verso i tedeschi e la
ricchezza spropositata che offende la miseria dei contadini e dei borghesi. La moglie del visconte scopre Benoit a rubare
le galline e riferisce al marito di essere
stata minacciata. Così parte un mandato di cattura e Benoit, in fuga, approfitta
della colluttazione con i soldati per uccidere l’ufficiale tedesco che corteggia
la moglie. Ora l’uomo è un ricercato su
cui pende la pena di morte, per lui e per
chi lo protegge. Si rifugia allora a casa
Angellier, dove le due donne si ritrovano
unite nel difenderlo dai tedeschi. Questo
però rende più difficile la relazione tra
Lucile e Bruno, che infatti non si spiega
l’improvvisa freddezza di lei. Poiché Benoit non viene trovato, viene ucciso il visconte dallo stesso Bruno. Per celebrare
la presa di Parigi il reggimento organizza
una grande festa nel parco dei Montmort.
Bruno tenta un ultimo corteggiamento più
deciso, ma viene respinto. Lucile invece
chiede all’uomo un permesso per recarsi a Parigi e portare segretamente Benoit
al sicuro. Alla frontiera Benoit viene scoperto e vengono uccisi due soldati. Bruno
copre la donna, assumendosi la responsabilità dell’accaduto e lasciandoli andare.
uite Francese non commuove
ed emoziona solo per la trama,
ma soprattutto per il retroscena
di questa pellicola, basata sull’omonimo
romanzo di Irène Némirovsky, affermata
scrittrice che morì nel 1942 ad Auschwitz.
Irène, prima di essere catturata, consegnò il prezioso manoscritto alle figlie che
l’hanno ignorato per sessant’anni, fino
S
Tutti i film della stagione
a quando una di queste non cominciò a
leggerlo e a trascriverlo. Fu così che decise di consegnare al mondo il romanzo
incompiuto della madre che aveva redatto
solo le prime due parti. Nonostante le
sofferenze subite, la scrittrice ebraica
confidò che ci potesse essere un briciolo
di bontà nel cuore di ghiaccio dei nazisti
e umanizzò il personaggio maschile,
dandoci una preziosa lezione di vita
che ritroviamo fedelmente nel film. La
pellicola, non da meno, abbatte tutti gli
stereotipi e ci consegna un’altra faccia
della storia, quella poco divulgata, ma non
per questo meno credibile. Il regista Saul
Dibb e i suoi produttori hanno deciso però
di girare in inglese, con interpreti inglesi,
una storia pensata e scritta in francese da
una scrittrice nata a Kiev, che aveva fatto
della Francia la sua patria. Ed è proprio dei
francesi che parla il romanzo, di ciò che la
guerra ha fatto loro, descritto con minuzia,
come in una commedia umana. Un film di
indubbia forza narrativa in cui il dramma
è addolcito da una colonna sonora che è
quasi un personaggio, in quanto la musica
costituisce lo squarcio attraverso cui i due
protagonisti riescono a raggiungersi per
la prima volta. Fuori prosegue la tragedia collettiva del conflitto bellico ma, in
quell’abitazione, le note sono il loro rifugio
e linguaggio, attraverso cui si riescono a
toccare due anime in conflitto e lontane tra
loro. Non c’è disonore più grande di quello
di accompagnarsi al nemico, eppure il film
ci mostra il punto di vista di alcune giovani
donne che, rimaste sole, hanno bisogno
di sentirsi ancora belle e amate. Lucile è
quello che gli altri francesi non sono più:
non è una delatrice, non è un’avida, né
un’ingrata. È una donna che resta umana
e anzi si prende, forse per la prima volta
nella vita, ciò che desidera veramente. Le
uniche persone con cui la protagonista e
il suo tenente hanno qualcosa in comune,
sono l’una per l’altro. Attorno la guerra ha
rotto e corrotto. Il regista non stravolge
il materiale di partenza e dunque non c’è
troppo romanticismo in Suite Francese
: l’amore non è felicità, ma solo l’ultimo
rifugio della bellezza, in un mondo fatto di
orrore e perdita della dignità. A sua volta, la
bellezza della storia è nella serietà e nella
solitudine di una donna, nella complicità di
una musica che avvolge e rapisce. Un film
che coinvolge ed emoziona, costruito dentro una cornice raffinata ed elegante, che
non può lasciare indifferenti. Fino all’ultimo
la macchina da presa, seguendo con ritmo
cadenzato le vicende dei protagonisti, ci fa
sperare nell’amore, visto come sentimento
che può nobilitare anche un nazista. L’odio
di una guerra che scompare in un uomo e
una donna che si amano, all’interno di una
piccola comunità dove tutto si amplifica. Gli
abitanti dell’immaginaria Bussy, sono contraddittori nelle loro ipocrisie. I perbenisti
fanno quasi più paura dei soldati, come la
glaciale suocera di Lucile. Il personaggio,
interpretato con maestria da Kristin Scott
Thomas, incarna l’affarismo senza pietà
della classe agiata, che approfitta dei disagi portati dall’occupazione tedesca. Anche
i cittadini più poveri colgono l’occasione per
dar fondo alla propria meschinità e cercano,
attraverso i nazisti, di pareggiare vecchi
conti in sospeso, avvalendosi di denunce
anonime, o di difendere i propri diritti fino
alla morte. A ogni modo, il bene e il male
non abitano in un unico luogo e vengono
tratteggiati in maniera diversa, in persone
di entrambi gli schieramenti. Michelle Williams e Matthias Schoenaerts, interpreti di
grande spessore e sensibilità, sono molto
intensi e credibili nel ruolo di due amanti,
che per destino hanno ruoli e principi morali inconciliabili. Un amore impossibile,
che fa riflettere, incanta e scalda il cuore.
Veronica Barteri
POSTINO PAT – IL FILM
(Postman Pat: The Movie)
Gran Bretagna, 2014
Regia: Mike Disa
Produzione: Classic Media, Rubicon Group Holding, Rgh Entertainment
Distribuzione: Moviemax
Prima: (Roma 1-1-2015; Milano 1-1-2015)
Soggetto: dalla serie Tv “Il postino Pat” di Jon Cunliffe e Ivor Wood, Annika Bluhm,
Kim Fuller
Sceneggiatura: Nicole Dubuc
Montaggio: Robert David Sanders
Musiche: Rubert Gregson-Williams
Scenografia: Richard Smitheman
Durata: 88’
30
Film P
at Clifton, conosciuto come il
Postino Pat, è un postino amichevole che è stato assegnato al villaggio di Greendale, nel nord
dell’Inghilterra per anni. Vuole portare
sua moglie Sara in luna di miele, seppur
in ritardo, in Italia. Vorrebbe farlo grazie a un bonus del suo datore di lavoro, il
servizio speciale di consegna (SDS), ma
il nuovo capo, Edwin Carbunkle, ha cancellato tutti i bonus. Si prevede di rendere
più efficiente il SDS, pensando un clima
troppo disteso al lavoro sia solo una perdita di tempo. Quando Pat arriva a casa e
cerca di raccontare a Sara l’accaduto, il
figlio Julian mostra a Pat un talent show
presentato da Simon Campanaccio, le cui
prossime audizioni avverranno proprio a
Greendale. Campanaccio conferma anche che la persona che vince il concorso
otterrà una vacanza in Italia e un contratto discografico. Pat decide di prendere
parte al concorso e, grazie alla sua voce,
vince inaspettatamente il concorso. Pat
arriva in finale, in una gara testa a testa
con il vincitore di un’altra gara: Josh. Il
suo manager, Wilf, tuttavia, è molto desideroso di assicurarsi che sia il suo cliente
che vince a tutti i costi. L’Amministratore
Delegato della SDS, Mr. Brown e Edwin
Carbunkle, guardando la tv, pensano che
vorrebbero utilizzare Pat in una campagna pubblicitaria. Carbunkle pensa inoltre che, poiché Pat sarà lontano per partecipare al concorso, si dovrà realizzare
un robot identico a lui chiamato “Patbot
3000” e che farà le consegne al suo posto; il tutto di nascosto. Il Patbot comincia a lavorare, ma si comporta in modo
strano e il popolo di Greendale inizia a
lamentarsi. Sara e Julian stanno iniziando a preoccuparsi. Nel frattempo, l’amico
Ben Taylor, il manager del SDS è licenziato da Carbunkle ed è convinto che Pat non
lo vuole più, non rendendosi conto che
Pat è un robot. Nel frattempo, anche Wilf
cerca di fermare Pat, non rendendosi conto che Pat è un robot. Il vero Pat, intanto,
si sente in colpa perché è lontano da casa.
Alla fine, la gente di Greendale si rende
conto che Edwin Carbunkle ha realizzato
questi robot per cercare di conquistare il
mondo. Nel corso della finale, Pat si sente
sempre più preoccupato e colpevole e non
ha voglia di cantare. Prima che possa salire sul palco, viene rapito e rinchiuso per
ordine di Carbunkle. Nel frattempo, Jess,
cerca di aiutare Pat a fuggire ma vengono
inseguiti dai Patbots. Nel frattempo, sul
palcoscenico, è salito un Patbot che canta
al posto di Pat, all’insaputa del pubblico.
Il vero Pat interviene e ferma i piani malvagi del signor Carbunkle, rivelando che
Tutti i film della stagione
la partecipazione al concorso è stata un
grosso errore. Appena Carbunkle viene
arrestato, tutto torna alla normalità. Pat
canta un’ultima volta sul palco prima di
tornare al suo lavoro di postino. Vince la
vacanza in Italia, ma declina il contratto
discografico: la sua vita è fare il postino.
datto ai più piccoli. Postino Pat
si rifà alla serie d’animazione
omonima degli anni Ottanta, di
stampo inglese. Realizzata in stop motion
da John Cunliffe e Ivor Woodche, racconta
in 13 episodi la storia di Pat, efficientissimo e affidabile postino della squadra di
portalettere della SDS, Servizio Consegne
Speciali. Gli episodi, ambientati nell’immaginaria località di seguivano le vicende di
questo amichevole postino di campagna,
sempre accompagnato nelle sue ‘missioni’
dal suo fedele amico felino di nome Jess.
Adesso, per la regia di Mike Disa, Postino
Pat diventa lungometraggio, grazie all’uso
della computer grafica. L’obiettivo è di far
tornare in auge certi valori, quali la dedizione al lavoro, la genuinità degli affetti
familiari e l’amicizia. La storia racconta
infatti di Pat, questa volta alla prese con un
concorso televisivo, un talent che ricorda X
Factor, che il postino vuole vincere a tutti
i costi; il motivo, però, non è da ricercarsi
nella fama o nei soldi, ma bensì nel deside-
A
rio di regalare alla moglie la tanto agognata
e rimandata, luna di miele in Italia. Nel
tentativo di raggiungere il suo obiettivo, Pat
perderà di vista la presenza dei propri cari,
moglie figlio e perfino il suo inseparabile
gatto Jess, mentre, nel frattempo, i robot
costruiti a sua immagine e somiglianza
rischieranno di trasformare il rito cordiale e
caloroso della consegna della posta in una
fredda meccanica di crescente perdita del
contatto umano. Il piccolo eroe messaggero
riesce a far trionfare ancora una volta i valori
del bene e della solidarietà e di un’idea di
lavoro basata sulla passione e sulla voglia
di partecipare al bene collettivo. Questa è
la base del film, ma i più piccoli, davvero
piccoli, apprezzeranno semplicemente il
vedere il loro eroe su grande schermo, senza capirne in pieno le motivazioni. Magari
i genitori potranno apprezzare lo sforzo e
trovare simpatia in questo piccolo eroe. Pat,
infatti, è l’eroe per antonomasia, che ricorda, molto alla lontana, il Capitan America
dei cine comics; nessun’ombra lo pervade,
il suo amico è un animale ed è dedito solo
alla famiglia. Viene infine da chiedersi se
dopo gli ultimi capolavori Pixar, i più piccoli
possano davvero rimanere affascinati da
semplice computer grafica e sentimenti a
buon mercato.
Elena Mandolini
THE WATER DIVINER
(The Water Diviner)
Stati Uniti, Australia, 2014
Regia: Russell Crowe
Produzione: Fear of God Films, Hopscotch Features, Ratpac Entertainment, Seven
Group Holdings, Seven West Media
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma 8-1-2015; Milano 8-1-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Andrew Knight, Andrew Anastasios
Direttore della fotografia: Andrew Lesnie
Montaggio: Matt Villa
Musiche: David Hirschfelder
Scenografia: Chris Kennedy
Costumi: Tess Schofield
Interpreti: Russell Crowe (Joshua Connor), Olga Kurylenko (Ayshe), Yilmaz Erdogan (Maggiore Hasan), Cem Yilmaz (Sergente Jemal), Jai Courtney (Colonnello
Cyril Hughes), Ryan Corr (Arthur Connor), Ben O’Toole (Henry Connor), James
Fraser (Edward), Steve Bastoni (Omer), Dylan Georgiades (Orhan), Isabel Lucas
(Natalia), Jacqueline McKenzie (Eliza), Damon Herriman (Padre McIntyre), Megan
Gale (Fatma), Michael Dorman (Greeves), Dan Wyllie (Capitano Charles Brindley),
Salih Kalyon (Dott. Ibrahim), Christopher Sommers (Sergente Tucker), Benedict
Hardie (Dawson)
Durata: 111’
31
Film J
oshua Connor è un agricoltore
australiano che gestisce la sua
fattoria con moglie e figli superando le avversità del deserto con le sue
capacità di rabdomante, che gli consentono di trovare l’acqua nei luoghi più impensati.
Purtroppo siamo nel 1915, il primo
anno della grande guerra che vede l’avvio
delle operazioni sulla costa turca del Mediterraneo: gli alleati decidono uno sbarco
massiccio nei pressi dei Dardanelli, a Gallipoli, per spezzare da quel lato il fronte
degli imperi centrali e potere ripristinare
le comunicazioni con l’impero russo attraverso il mar Nero. A questa campagna
aderiscono con l’entusiasmo e l’ardore
della giovinezza i tre figli di Joshua, mentre Gallipoli si rivela presto un disastro: lo
sbarco mal gestito e mal coordinato tra i
comandi trasforma le spiagge turche in un
mattatoio per le truppe alleate, soprattutto
per gli australiani che gettano nel massacro numerosi loro reparti. A questi appartengono i tre ragazzi di Joshua, di cui non
si hanno più notizie fin dallo sbarco, se non
che siano, molto probabilmente, morti.
La moglie di Joshua, sopraffatta dal
dolore, dopo qualche tempo si uccide; lui
decide di andare a Gallipoli (siamo nel
1919) per riportare i tre figli, in qualche
modo, a casa.
Il tentativo si rivela presto impossibile: nella zona sta operando un comando
alleato che con la collaborazione degli ex
nemici turchi cerca di dare un nome e una
tomba alle migliaia di morti che giacciono sotto quelle terre insanguinate e quindi
impedisce a chiunque di avvicinarsi.
La profonda umanità di Joshua e il
suo compito pietoso gli permette di trovare aiuto in due persone: la bella Ayshe che
gestisce a Istanbul un piccolo albergo dove
l’australiano inizialmente si ferma e che gli
indica i modi per raggiungere Gallipoli e
un ufficiale turco, Hasan, che, pur inizialmente senza speranza alcuna di successo,
aiuta Joshua nelle sue ricerche. Le capacità sensitive dell’australiano invece gli permettono di individuare i resti di due dei suoi
ragazzi mentre del terzo non c’è traccia.
Hasan racconta che i sopravvissuti
del massacro furono avviati dopo quei
giorni terribili verso una zona dell’Anatolia dove lui stesso deve dirigersi per
partecipare alla nuova guerra contro i
greci: il movimento nazionalista sta organizzando sotto la guida del generale
Mustafà Kemal (poi Ataturk, Padre della
Patria, primo presidente repubblicano)
un nuovo esercito che possa liberare
definitivamente il Paese dagli invasori
Tutti i film della stagione
e dare inizio alla modernizzazione del
nuovo corso politico.
In un paese dell’Anatolia, già assediato
dalle prime forze dell’esercito greco, Joshua ritrova il figlio più grande, Arthur, ai
limiti della follia e del dolore per non avere
saputo proteggere i fratelli, autoconfinatosi
in una chiesa diroccata a restaurare icone.
Passati i primi momenti di gioia per il
padre e il figlio che si ritrovano, è tempo
per loro di fuggire in quanto i greci stanno radendo al suolo la zona e si stanno
avvicinando.
Joshua e Arthur si gettano in un torrente che li scaraventa in un corso d’acqua più regolare e da lì raggiungono
fortunosamente Istanbul e l’albergo conosciuto all’inizio.
È lecito ipotizzare per i due un futuro
in Turchia, vedendo l’interesse di Ayshe
per Joshua e quello di una giovane amica
per Arthur.
ussel Crowe non poteva non dedicare il suo esordio nella regia a
un’impresa epica che resta nella
storia dell’Australia (suo Paese d’origine)
per il valore dimostrato a caro prezzo su
di un campo di battaglia e come espressione della forza dei sentimenti di una pur
giovane nazione.
Crowe pesca a piene mani nella grandezza etica di una disfatta che si trasfigura
nella vittoria morale di un intero esercito e
quindi di un intero Paese per realizzare una
composizione di grande spessore, ricca
(probabilmente troppo) dei tanti elementi
che hanno sempre composto il cinema a cui
ha partecipato come attore: la romanticità
della trama, la cornice rurale, possente nel
raccontare il braccio di ferro tra l’uomo e la
natura, la forte coesione data dagli affetti
familiari, la rigenerazione del dolore di fronte
al campo di battaglia e poi gli scontri militari,
R
il rapporto con la nobiltà del nemico e lo
scontro di culture e, per finire, l’attrazione e
l’amore che si intravedono, reali, a sfidare le
guerre e gli odi, beneauguranti per il futuro.
A questa base, già robusta di suo,
Crowe aggiunge un forte sentimento di
pietas che abbraccia il reciproco amore del
padre verso i figli, il ricordo della moglie e
il rispetto per la popolazione una volta nemica e per qualsiasi espressione sociale,
storica, culturale che non gli appartenga e
anzi possa sembrargli avversa.
La materia è quindi tanta, evidentemente trattata da un regista ai suoi esordi
che pure cerca di mettere a frutto quanto
appreso dai grandi che lo hanno diretto
a cominciare da Ridley Scott senza però
avvicinarglisi troppo.
Se una delle doti più peculiari del suo
grande maestro è di trasformare il peso
di un argomento in una personalissima e
visionaria gestione della scena che conferisce al racconto un ampio respiro spettacolare che affascina e avvince, al discepolo
Crowe tutto ciò è ancora mancante: solo
diligente è la trattazione degli avvenimenti
a cui tenta di dare agilità intervallando brani
intimistici a scene di guerra semplicisticamente e ancora diligentemente filmate.
Un romanzone quindi, ben inserito nelle panoramiche suggestive di un bellissimo
Paese come la Turchia che forse sottolineano addirittura, anziché sostenerla, la
debolezza di tutto il telaio narrativo.
Probabilmente non si poteva chiedere
di più a questo esordio; molto meglio Crowe attore che ancora una volta ci dà tutta
la sua generosità di interprete nel costruire
un gran personaggio emozionante, forte,
virile, non privo di tenerezze e sfaccettature per una figura di eroica umanità che
pare studiata proprio per lui.
Fabrizio Moresco
LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE
(Kaguyahime no monogatari)
Giappone, 2013
Regia: Isao Takahata
Produzione: Studio Ghibli
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 3-11-2014; Milano 3-11-2014)
Soggetto: dal racconto popolare giapponese “Storia di un tagliabambù”
Sceneggiatura: Isao Takahata, Riko Sakaguchi
Musiche: Joe Hisaishi
Durata: 137’
32
Film ntica fiaba giapponese. Un
giorno, in una foresta, il tagliatore di bambù vede piombare giù dal cielo una luce incandescente. Nel punto in cui la luce colpisce il
terreno, immediatamente cresce una
pianta di bambù: il suo lucente germoglio, schiudendosi, partorisce una minuscola bambina vestita di tutto punto che
subito cade in un sonno profondo senza
proferire parola. Il vecchio la prende
con sé e la porta a casa, dalla moglie.
I due, che non hanno figli, decidono di
tenerla e crescerla come se fosse loro.
La piccola Principessa cresce a vista
d’occhio: diventa neonato che gattona
e poi subito bambina che muove i primi
passi. Tanto che in pochi giorni inizia a
giocare con la banda di mocciosi delle vicine campagne. Il tagliabambù poi
fa un altro formidabile ritrovamento:
dentro una canna che emana luce trova una riserva d’oro. Servirà a crescere
degnamente la piccola venuta dal cielo.
Principessa intanto – mentre seguita a
crescere in modo prodigioso – stringe
amicizia con i compagni di giochi e di
scorribande nei campi e in particolare
con Sutemaru, più grande e più coraggioso di tutti.
Quando il tagliabambù, dentro
un’altra canna nella foresta, trova abiti
regali crede di comprendere che il cielo
gli chiede di crescere la bambina come
si conviene a una giovane di nobile stirpe. Così parte verso la capitale dove
inizia a prepararle un palazzo e una
corte che ne dovranno accogliere l’acconcio futuro. Presto arriva il giorno
del trasferimento in città: Principessa,
già adolescente, accetta a malincuore
di lasciare casa sua e i suoi amici. Una
volta a palazzo, inizia l’apprendistato
da nobildonna sotto la guida della severissima Sagami. Nel piccolo giardino
dietro al palazzo, la giovane inizia a costruire un modellino delle colline sulle
quali ha passato l’infanzia. Il padre invita il vecchio Akita che lo aiuti, trovando un nome adatto alla figlia e introducendone la fama presso i nobiluomini,
a garantire l’accettazione di Principessa presso la cerchia della nobiltà. Un
banchetto lungo tre giorni e tre notti è
organizzato per celebrare il suo nuovo
nome “Principessa Splendente”: e proprio ascoltando i malevoli commenti e i
volgari schiamazzi dei convitati che la
A
Tutti i film della stagione
insultano e la dileggiano, la ragazza,
esasperata, fugge come una furia verso
le sue colline, verso la foresta, in cerca
di Sutemaru, ma scopre che sono tutti
partiti durante l’inverno.
Al ritorno da quello che forse è stato
solo un sogno, la giovane accetta di seguire fino in fondo la via che le si para
davanti fino ad accogliere la schiera dei
pretendenti che nel frattempo le abili parole di Akita le hanno ottenuto. A
ognuno di loro Principessa, ormai donna, chiede di guadagnarle il tesoro leggendario al quale l’hanno vanagloriosamente comparata nei loro cerimoniosi
complimenti. Il loro misero fallimento
tuttavia non basta a garantirle un po’ di
pace: stavolta è l’Imperatore in persona
a chiederne la compagnia presso la sua
corte. Tanta è la sofferenza e la disperazione per il dover sottostare alle regole
di questa vita in cattività che Principessa scoppia nell’impeto di una preghiera
invocando il ritorno al cielo che l’ha
mandata sulla Terra. Inulte ogni ripensamento, inutile ogni contromisura materiale con le quali i due vecchi genitori
tentano di opporsi al destino: la notte
del 15 di agosto, dopo un breve e struggente incontro con il suo Sutemaru, ormai adulto e padre di un figlio, su una
nuvola volante, la corte celeste che proviene direttamente dalla Luna scende a
prendere Principessa, costringendole
sulle spalle la veste dell’oblio. Tutto allora, in un momento rapido e improvviso, è già dimenticato.
sce in Italia secondo la nuova
formula dell’evento – appena
un pugno di proiezioni nel giro
d pochi giorni a prezzo maggiorato – il
nuovo e forse ultimo lungometraggio
dell’ottantente Isao Takahata. Cofondatore insieme a Hayao Miyazaki
dell’ormai universalmente noto Studio
Ghibli, Takahata ha finito la lavorazione
del film a quattordici anni di distanza
dall’uscita del precedente My Neighbours
the Yamadas, dopo otto anni di lavorazione e molti lustri passati ad accarezzare
l’idea di portare sul grande schermo
uno dei classici della tradizione popolare giapponese, il racconto Taketori
monogatari (Storia di un tagliabambù) o
Kaguya-hime no monogatari (Storia della
principessa Kaguya), in un film che forse
chiuderà la sua carriera dopo l’addio
E
33
alle armi dell’amico e collega Miyazaki e
dopo l’inizio della crisi apparentemente
irreversibile dello Studio Ghibli. Il film è
un esemplare commistione tra la miglior
tradizione grafica giapponese e alcune
delle più nobili esperienze tra quelle
degli animatori contemporanei occidentali. Declinando con maestria alcuni
dei fondamenti della cultura e dell’arte
giapponesi, Takahata nasconde dietro
una apparenza essenziale e asciutta
una raffinatezza e una ricchezza sublimi.
Celebrando le vastissime possibilità del
cinema d’animazione analogico, il film
tesse la tela del racconto come un unico
corpo scorrevole e organico al cui interno
tuttavia ogni frammento – ogni scena,
ogni singola inquadratura – ha la forza
espressiva e l’autonomia semantica di
un’immagine a sé stante, di un disegno
sufficiente a se stesso. Se si interrompe
lo scorrere del film in un momento qualsiasi – e in qualsiasi momento – quel che
si scopre è la brillante bellezza finita di
un singolo fotogramma che nulla sembra
avere della parte, del frammento, della
particella rotta e staccata da una tutto del
quale ha bisogno per ritrovare il proprio
significato. Takahata riesce a riprodurre
sullo schermo l’universalità e la profondità dell’originale articolandone nel tempo
e nello spazio dell’immagine in movimento tutta la nitida poesia proprio lavorando
per sovrapposizione ed elisione: il bianco
fa da base a un racconto visivo che di
volta in volta si costruisce sull’accumulo
nervoso del nero, sull’increspatura della
piattezza per mezzo della giustapposizione di macchie ponderate di colore,
o sulla creazione di spazi impalpabili e
infiniti che si condensano intorno a una
pioggia di tratti leggeri e veloci. Come
accade solo con i grandi classici, non c’è
un pubblico designato per godere e assaporare questo gioiello: in una fiaba che
allude e in più punti mima il teatro, in cui
tragedie e commedia coesistono felicemente, in cui al realismo e al naturalismo
è fluidamente accostato l’astrattismo e la
stilizzazione marcata, in questo racconto
in cui si alternano meraviglia e orrore e
tutto si riconcilia infine in una profonda e
invincibile malinconia, nella storia della
principessa splendente c’è tutto e vi si
trova costruito con la grazia e l’accortezza che solo un maestro sa usare.
Silvio Grasselli
Film Tutti i film della stagione
NESSUNO SI SALVA DA SOLO
Italia, 2014
Regia: Sergio Castellitto
Produzione: Benedetto Habib, Fabrizio Donvito, Marco
Cohen, Mario Gianani, Lorenzo Mieli per Indiana Production,
Wildside, Rai Cinema
Distribuzione: Universal Pictures International
Prima: (Roma 5-3-2015; Milano 5-3-2015)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Margaret Mazzantini
Sceneggiatura: Margaret Mazzantini
Direttore della fotografia: Gian Filippo Corticelli
D
elia e Gaetano sono stati sposati e hanno due figli, Cosmo
e Nico. Da poco tempo vivono
separati, lei ha tenuto la casa con i bambini, lui vive in un residence. Delia, che
in passato ha sofferto di anoressia, è una
nutrizionista e legge autori russi e giapponesi. Gaetano è un ragazzo di periferia che frequenta palestre di boxe, figlio
di una coppia di Ostia semplice e ridente,
con l’ambizione di diventare scrittore. Si
sono conosciuti nello studio di Delia, dove
Gaetano si è presentato per gonfiori allo
stomaco. Dopo essere separati da tempo,
si incontrano per una cena in un ristorante, durante la quale dovrebbero discutere
di come far trascorrere l’estate ai bambini. Invece durante la serata ripercorrono
la loro storia, dall’entusiasmo dei primi
anni di vita in comune, ai primi problemi, fino alla separazione. Entrambi sono
segnati dai difficili rapporti avuti con i
genitori. Delia ha molto sofferto quando
la madre, donna fortemente volitiva e narcisista, ha abbandonato lei e il padre e ha
cominciato ad avere problemi con il cibo.
Gaetano si è sempre sentito incompreso
dal padre, sindacalista sessantottino, che
non è riuscito a infondergli la giusta autostima. Il rapporto sembra felice fino alla
nascita dei due figli, poi iniziano le prime
incomprensioni. Gaetano è insoddisfatto
del proprio lavoro di sceneggiatore televisivo, Delia soffre l’assenza del marito
e la stanchezza nel gestire da sola i figli.
I frequenti litigi hanno un influsso negativo anche sui bambini, in particolare su
Cosmo, che diventa molto sensibile e insicuro. Tra le altre cose, Gaetano conosce Matilde, una donna piena di vita che
presto si innamora sinceramente di lui.
Gaetano si era ripromesso di non tradire
mai Delia, ma i buoni propositi crollano
immediatamente anche se l’uomo vive la
relazione solo da un punto di vista fisico. Delia, i cui denti erano stati rovinati
Montaggio: Chiara Vullo
Musiche: Arturo Annecchino
Scenografia: Luca Merlini
Costumi: Patrizia Chericoni
Interpreti: Riccardo Scamarcio (Gaetano), Jasmine Trinca
(Delia), Anna Galiena (Viola), Marina Rocco (Matilde), Massimo
Bonetti (Luigi), Massimo Ciavarro (Fulvio), Renato Marchetti
(Giancarlo), Valentina Cenni (Micol), Eliana Miglio (Serena)
Durata: 100’
dall’anoressia, si decide finalmente a rifarli, nonostante il dissenso di Gaetano.
La donna però inaspettatamente rimane
incinta del terzo figlio e per via delle numerose radiografie, per evitare pericoli
di malformazioni, è costretta ad abortire.
Quando Delia e Gaetano, esasperati dalle continue liti, decidono di separarsi, la
vita continua a essere difficile per entrambi. Delia rischia di ricadere nell’anoressia ed è così nervosa che arriva a sfogare
la sua ira contro Cosmo. Durante la cena,
Gaetano cerca inutilmente di convincere
Delia a dargli il permesso di frequentare la loro casa per rivedere i figli, ma lei
teme che i bambini possano soffrire ancora, vedendo il padre allontanarsi nuovamente. I due cominciano a sfogare tutta
la loro rabbia repressa, accusandosi e
insultandosi a vicenda. Al termine della
cena, la coppia viene avvicinata da due
anziani che si trovavano a un tavolo vicino. L’uomo confida di essere malato di
cancro e chiede ai due di pregare per lui.
Gaetano accompagna a casa Delia e saluta i bambini che dormono. Lei lo segue
con lo sguardo mentre si allontana, con
un sorriso complice e carico di promesse.
ome ogni opera siglata dalla
coppia Castellitto-Mazzantini
Nessuno si salva da solo non
delude rispetto al romanzo. Che sia perché
a lavorarci ci sia la stessa autrice, moglie
del regista, o perché Castellitto sia più che
esperto nel costruire psicodrammi umani,
quello che resta all’uscita dalla sala è un
retrogusto dolce-amaro in bocca. Raccontare una relazione che finisce può risultare
retorico e banale, ma anche estremamente
complesso. Soprattutto se quello in questione è un amore che non vuole terminare, che non sia arrende, nonostante le
accuse, i tradimenti e le parole forti. Come
si può dunque tradurre in immagini una
vita vissuta insieme, con i suoi drammi e
C
34
momenti felici? O si lavora di sottrazione e
si lasciano molte cose nell’ombra, usando
con sapienza allusioni e omissioni, luci
e ombre, ma lasciando tutto alla lettura
implicita e all’interpretazione soggettiva, o
si sceglie di essere spietati e di fare della
realtà la propria cifra stilistica.
Regista e sceneggiatrice naturalmente
scelgono di percorrere la seconda strada.
Come se solo in questo modo i personaggi e forse gli spettatori, possano capire,
magari espiare, o comunque affrontare
il passato e l’eventuale futuro che quel
passato contiene. È una scelta precisa,
etica ed estetica, che, oltre a risultare
scomoda, porta alla realizzazione di un
cinema volutamente sgradevole, urlato,
eccessivo. Un film in cui non esiste il non
detto, tutto è messo in scena e contemporaneamente rivissuto. Nulla è lasciato
all’interpretazione, ogni cosa è esplicita ed
estremamente vera, come anche le scene
di sesso. Inevitabilmente non è difficile
sottrarsi alla catarsi. L’identificazione in
questa coppia asimmetrica, come tante
coppie in cui l’uno è l’opposto dell’altro
e lo completa. Un uomo e una donna
diversi, che nel loro rapporto coniugale
rivivono i nodi e i conflitti della propria
storia familiare, più o meno edipica. Lei
oppressa da una madre presa solo da se
stessa e dai suoi desideri, lui castrato da
un padre insensibile ai suoi sogni. Quindi
si fissa un appuntamento a cena per discutere dell’estate dei bambini. E in una
sera si rivive la storia intera, grazie a un
montaggio serrato, composto da lunghi
flashback. Non è un cerchio perfetto quello
che si traccia, ma un rapporto amoroso
come tanti, fatto di mari calmi e tempeste.
Aggravato dal segno dei tempi, quella
sfiducia sociale ed economica che le generazioni di quarantenni oggi portano come
fardello in dote. Un botta e risposta che fa
emergere la difficoltà di una conquista che
non è mai scontata: l’armonia di coppia e
Film la condivisione. Catapultato nella vicenda,
lo spettatore viene trascinato dai dialoghi
incessanti dei personaggi, prendendo a
volte le parti dell’uno a volte dell’altro. In
fondo, non c’è nulla di eclatante e di nuovo, ma proprio per questo, forse, il tutto
ha un sapore così familiare. Una regia
scattante e dinamica, che accompagna
un buon montaggio e un’accurata scelta
delle musiche. Ma punto forte del film sono
Tutti i film della stagione
soprattutto le interpretazioni. Entrambi più
che bravi Riccardo Scamarcio e Jasmine
Trinca risultano assai al di sopra delle
aspettative. Castellitto indaga i loro volti,
li scruta e gli sta addosso con la macchina
da presa. Il suo occhio è attirato dai corpi,
dalle loro imperfezioni e dalla bellezza
complessa, non classica, mai uguale a
se stessa, ma che cambia, a seconda
delle luci e dei punti di vista. La bravura
degli attori e l’architettura dei personaggi
permettono al film di far riflettere sui legami affettivi e su quanto, nel bene o nel
male, non ci rendano mai completamente
padroni del nostro destino. Come la frase
pronunciata da un gran Roberto Vecchioni,
nel suo significativo cammeo, a mo’ di grillo
parlante: “Nessuno si salva da solo”.
Veronica Barteri
MORTDECAI
(Mortdecai)
Stati Uniti, 2015
Costumi: Ruth Myers
Effetti: Prime Focus World, Mechanism Digital, Spin VFX,
Zoic Studios, Encore
Interpreti: Johnny Depp (Charlie Mortdecai), Gwyneth
Paltrow (Johanna Mortdecai), Ewan McGregor (Alistair
Martland), Olivia Munn (Georgina Krampf), Paul Bettany (Jock
Strapp), Jeff Goldblum (Milton Krampf), Jonny Pasvolsky
(Emil Strago), Michael Culkin (Sir Graham), Ulrich Thomsen
(Romanov), Alec Utgoff (Dmitri), Rob de Groot (Vladimir),
Guy Burnet (Maurice), Paul Whitehouse (Spinoza), Norma
Atallah (Bronwen), Michael Byrne (Il Duca), Ricky Champ
(Sergei), Colette O›Neil (La Duchessa)
Durata: 107’
Regia: David Koepp
Produzione: Christi Dembrowski, Johnny Depp, Andrew Lazar, Patrick McCormick, Gigi Pritzker per Infinitum Nihil, Mad
Chance Productions, Oddlot Entertainmen
Distribuzione: Adler Entertainment
Prima: (Roma 19-2-2015; Milano 19-2-2015)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Kyril Bonfiglioli
Sceneggiatura: David Koepp, Eric Aroson
Direttore della fotografia: Florian Hoffmeister
Montaggio: Jill Savitt, Derek Ambrosi
Musiche: Geoff Zanelli, Mark Ronson
Scenografia: James Merifield
M
ercante d’arte e bon vivant,
Mortdecai vive con la splendida moglie Johanna in una
fastosa tenuta immersa nella campagna
inglese. L’uomo, che non sempre adotta
metodi limpidi e onesti nei confronti dei
suoi clienti, ha un problema con la Regina, cui deve qualche milione di sterline di
tasse. In più, da quando si è fatto cresce
dei baffi importanti di cui va enormemente orgoglioso, la moglie lo disprezza.
Il giorno in cui il servizio segreto inglese, nella persona del suo amico e rivale
Alistar Martland, gli chiede aiuto per
recuperare un Goya andato trafugato,
Mortdecai accetta d’imbarcarsi nell’impresa nella speranza di estinguere il debito. Fra gli scagnozzi del boss criminale
Emil Strago e quelli del signor Fang, c’è
anche un cliente di Hong Kong rimasto
“insoddisfatto” dall’ultimo affare concluso. Mortdecai dunque non sembra avere
grandi vie d’uscita.
Come se non bastasse, il goffo ispettore Martland, agente dell’MI5 da secoli
innamorato di Johanna, è deciso ad arrestarlo per avere finalmente campo libero.
Più di una volta, in realtà, Charlie
sta per soccombere al nemico, cosa che
puntualmente viene scongiurata dall’intervento di Jock, la sua fedele guardia del
corpo, disposto a sacrificare la vita per
lui. Mortdecai scopre che il quadro in realtà contiene il codice per accedere a un
conto bancario in cui era stato depositato
l’oro dei nazisti. Johanna diventa parte
attiva dell’indagine e con il suo fascino
corrompe facilmente sia l’ispettore che un
anziano informatore che le dice dove si
trova la preziosa tela. Dopo essere riusciti
a impadronirsene, con non pochi inconvenienti, marito e moglie la metteranno
all’asta facendo credere che sia sotto un
altro quadro della famiglia Mortdecai di
poco valore. La vendita riesce e con il ricavato in parte l’uomo salda i suoi debiti.
Ma cosa più importante riesce a riconquistare anche con i baffi l’amore e l’ammirazione della sua Johanna.
a pellicola Mortdecai è basata sulla
serie di quattro romanzi di Kyril
Bonfiglioli, pubblicati nel Regno
Unito tra il 1972 ed il 1985, con protagonista Charlie Mortdecai. L’autore ha ottenuto
molta fortuna nei paesi anglosassoni e, in
occasione dell’uscita del film in Italia, è
stato pubblicato il primo romanzo. David
Koepp, prolifico sceneggiatore e regista
porta in scena questa trasposizione fondendo commedia, spy story e umorismo
brillante, ma non sempre ci riesce. Il film
L
35
è un’alternanza di gag fisiche e siparietti
comici, dove spiccano alcune battute più o
meno riuscite e dialoghi dal ritmo serrato.
Se Depp avesse abbandonato i panni del
personaggio “alla Tim Burton” e si fosse
calato in quelli di un gentiluomo inglese,
il risultato sarebbe stato meno vistoso ma
di maggiore efficacia. La regia si mette
al servizio dell’azione rinunciando sin da
subito a ogni sorta di virtuosismo, anche
se in un paio di scene si possono notare
delle sbavature.
La storia si regge fondamentalmente
sulle spalle del personaggio di Depp nonostante si rincoreranno numerosi momenti
corali. Esempio di una sceneggiatura non
particolarmente brillante, salvata, o quanto
meno valorizzata, dalla prova di un gruppo
di notevoli attori.
È sicuramente un film leggero che regala tanti sorrisi e qualche risata, indicato
soprattutto per coloro che apprezzano lo
stile british. La musica si lega bene alla
pellicola senza però poter essere considerata un valore aggiunto a differenza dei
baffi del personaggio di Johnny Depp (il
suo truccatore ha confidato “I baffi sono
un personaggio del film”).
Mortdecai è una (vera) commedia,
piuttosto divertente e volontariamente
old-fashioned, lontana dal baratro cinema-
Film tografico in cui si era spinto The Tourist,
appunto, ma altrettanto distante dalle
parodie del genere Austin Power, a cui
la campagna di promozione del film lo ha
accostato.
Il personaggio del protagonista sembra
fatto apposta per la galleria di buffoni con
stile che Depp ha inanellato negli ultimi
anni, ma anziché lasciargli carta bianca e
la possibilità di tornare ancora una volta
al surrealismo di personaggi come Jack
Sparrow, gli impone piacevolmente di
aderire a un tipo di humour più codificato,
inglese, forbito, iperbolico e non poco imbecille, che si è fatto sempre più raro nelle
sue apparizioni cinematografiche.
Eppure è chiaro che il divertimento,
per chi sa e vuole trovarcelo, non nasce
dal plot, che potrebbe essere quello di
un episodio di un qualsiasi telefilm spycrime della fine degli anni Sessanta, ma
dalla mascherata degli attori e, più in
generale, dal loro divertito contributo alla
Tutti i film della stagione
farsa. Anche nella trasferta americana,
infatti, che costituisce la parte in assoluto più debole del film, la presenza di
Olivia Munn e Jeff Goldblum, calati nei
personaggi meno finemente stereotipati,
colma le lacune di sceneggiatura o, se
non altro, offre un diversivo sufficiente a
distrarci da esse.
Siamo in presenza dell’intrattenimento
puramente fine a se stesso. Johnny Depp
fare ricorso a quel repertorio di smorfie,
movenze e gesti già noti al grande pubblico, un repertorio del quale sembra fare
un uso davvero esagerato e non sempre
necessario. Più che humor inglese ed ironia, a prevalere è lo stile plateale di Depp,
che in ogni sequenza cerca di riempire
la scena con parole e sguardi fin troppo
collaudati. Il personaggio di Jock, interpretato da Paul Bettany, riesce a smorzare i
frequenti deliri di onnipotenza di Depp. Pur
essendo anche questo un cliché di lunga
data, il dualismo comico fra protagonista
e spalla è forse uno degli aspetti maggiormente godibili del film. Taciturno nella
vita di tutti i giorni ma in compenso molto
attivo nella vita sessuale, Jock ha un self
control davvero invidiabile: è infatti l’unica
persona in grado di rispondere alle assurde pretese di Charlie con la gentilezza e
l’aplomb di un vero maggiordomo inglese.
Notevole e particolarmente azzeccata è
anche Gwyneth Paltrow, perfetta nel ruolo
di una serafica e manipolatrice moglie di
potere. Ewan McGregor, attore esperto, è
credibile nel rendere l’ispettore di polizia
burbero col mondo eppure tenero amante
raggirato dalla glaciale moglie di Mortdecai, anche se la sua entrata in scena stona
con il ruolo che il suo personaggio assume
nel proseguo della storia. Breve, intenso
e assolutamente spassoso il breve ruolo
che si ritaglia Jeff Goldblum sempre ironico
ed elegante.
Veronica Barteri
WHIPLASH
(Whiplash)
Stai Uniti, 2014
Regia: Damien Chazelle
Produzione: Bold Films, in coproduzione con Blumhouse Productions, Right of Way Films
Distribuzione: Warner Bros.
Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Damien Chazelle
Direttore della fotografia: Sharone Meir
Montaggio: Tom Cross
Musiche: Justin Hurwitz
Scenografia: Melanie Paizis-Jones
U
n giovanissimo musicista, il
diciannovenne Andrew, coltiva
il sogno di diventare uno dei
migliori batteristi jazz della sua generazione. Studia al Conservatorio Shaffer di
Manhattan, dove la concorrenza è spietata. Il ragazzo ha come obiettivo quello di
entrare in una delle orchestre del Conservatorio diretta dall’inflessibile e severissimo professor Terence Fletcher. Quando
viene a sorpresa scelto da Fletcher per
la propria band come batterista di riserva, Andrew continua a esercitarsi senza sosta fino a procurarsi calli e lesioni
sanguinanti alle mani. Nel frattempo
Andrew conosce Nicole, una ragazza che
vende popcorn nel cinema che frequenta
abitualmente insieme al padre. Ma le lezioni con Fletcher mettono a dura prova
Andrew che, per concentrarsi meglio sui
Costumi: Lisa Norcia
Effetti: Ingenuity Engine
Interpreti: Miles Teller (Andrew Neiman), J.K. Simmons
(Terence Fletcher), Melissa Benoist (Nicole), Paul Reiser (Jim,
padre di Andrew), Austin Stowell (Ryan), Nate Lang (Carl), Chris
Mulkey (Zio Frank), Damon Gupton (Sig. Kramer), Suanne Spoke (Zia Emma), Charlie Ian (Dustin), Jayson Blair (Travis), C.J.
Vana (Metz), April Grace (Rachel Bornholdt), Henry G. Sanders
(Red Henderson), Sam Campisi (Andrew a 8 anni)
Durata: 105’
suoi studi, allontana Nicole dicendole di
non volersi impegnare in una relazione
seria con lei.
La band di Fletcher si presenta a un
concorso, Andrew è il batterista di riserva. Durante l’intervallo tra primo e secondo tempo, Andrew perde gli spartiti
che il primo batterista, Tanner, gli aveva
affidato. Il ragazzo va su tutte le furie perché non si ricorda la parte a memoria,
quindi è costretto a farsi sostituire da Andrew che conosce a memoria la composizione che stanno suonando, “Whiplash”.
L’esibizione è perfetta e la band ottiene il
primo posto nella competizione.
Andrew è ora il primo batterista ufficiale, ma Fletcher continua a rendergli la vita difficile chiamando un nuovo
batterista, Connelly. Ora la concorrenza
è spietata dal momento che c’è un solo
36
posto per tre. Alla fine di un estenuante
provino, Andrew viene confermato come
primo batterista per un concorso che si
terrà fuori città. Per una serie di sfortunati contrattempi, Andrew si presenta
all’ultimo momento, prima di salire sul
palco. Avendo notato il ritardo del ragazzo che nella fretta si è dimenticato
le bacchette in auto, Fletcher decide di
far suonare Connelly. Andrew non ci sta,
corre a recuperare le bacchette ma rimane chiuso fuori dall’auto e deve andare a
cercare aiuto per farsi aprire. Durante il
tragitto di ritorno, Andrew corre troppo
e ha un brutto incidente in cui si ferisce
a una mano. Nonostante il sangue e il
dolore, il ragazzo si precipita sul palco
e suona lo stesso. La performance non
è delle migliori e Fletcher è costretto a
chiedere scusa a nome del Conservato-
Film rio Shaffer. Andrew lo aggredisce e lo
insulta.
Immediatamente Andrew si vede costretto a interrompere la sua carriera,
la batteria viene chiusa in un armadio e
lui sente di non avere più uno scopo. Il
padre denuncia Fletcher per le molestie
psicologiche inflitte a suo figlio, molestie
che forse avevano causato il suicidio di
un altro studente.
Qualche tempo dopo, girando per
New York, Andrew capita in un locale
dove suona Fletcher. Parlando con lui, il
ragazzo scopre che Fletcher è stato cacciato dallo Schaffer a causa di una lettera
anonima. Fletcher gli rivela che comunque non si pente dei suoi metodi perché
l’obiettivo è di tirare fuori il massimo dai
suoi studenti; questo è quello che ha cercato di fare con lui. Poi lo invita a suonare a un Festival la settimana successiva:
nella sua band manca un batterista e lui
conosce bene il repertorio (tra cui i due
cavalli di battaglia “Whiplash” e “Caravan”). Andrew decide di richiamare Nicole e la invita al Festival, ma la ragazza
dice di essersi fidanzata con un altro. Il
giorno dell’esibizione, Fletcher mette ancora alla prova Andrew. Prima di salire
sul palco gli si avvicina e gli dice che sa
benissimo che quella lettera che gli causò
l’espulsione dallo Shaffer fu scritta da lui.
Poi, sul palco annuncia un brano che Andrew non conosce per niente e che ovviamente il ragazzo suona malissimo. Dietro
le quinte il padre cerca di consolarlo. Ma
Andrew cerca la sua riscossa, sale sul
palco mentre Fletcher sta per presentare un nuovo brano, inizia a suonare e la
band lo segue: “Caravan” viene eseguito perfettamente. Alla fine Andrew continua a suonare anche quando il brano è
finito esibendosi in un magistrale assolo.
Fletcher si avvicina e lo accompagna con
le mani. I due si fissano negli occhi.
Tutti i film della stagione
seconda di Damien Chazelle, regista
appena trentenne che nel 2009 ha diretto
Guy and Madeline on a Park Bench, raffinato esercizio di stile in bianco e nero
costruito come una jazz session che
aveva per protagonista un atro giovane
musicista, un trombettista emergente, un
film pieno di ricordi del cinema che fu. E
anche in Whiplash c’è un bell’omaggio al
cinema del passato in una scena in cui il
protagonista Andrew va con suo padre in
un cinema di New York dove proiettano
Rififi, indimenticabile noir di Jules Dassin.
Il clima si fa bello, le strade di New York
sono mostrate al suono della musica jazz
conferendo al film quella fascinosa atmosfera un po’ retrò, quasi ci si trovasse in
un tempo sospeso tra passato e presente.
La descrizione di un certo ambiente e
di alcuni caratteri è perfetta, agevolata dal
fatto che il regista ha un padre di origine
francese e per di più vanta un passato da
studente di batteria jazz.
Ma qui i diversi richiami autobiografici
(Chazelle ha definito il film “un diario della
mia esperienza” e ha raccontato di avere
avuto un insegnante da incubo come
Fletcher) si fermano, per superare se
stessi in una parabola su temi come la solitudine dell’artista, le sue responsabilità, la
dura legge della competitività. L’omaggio
al mito di Charlie Parker è evidente in una
delle scene più forti del film che riprende
un famoso e vecchio aneddoto quando
un sedicenne Parker provò a suonare con
l’orchestra di Count Basie e, sbagliato un
passaggio, si vide scaraventare addosso
un piatto lanciato dal batterista Jo Jones.
E in Whiplash il paradosso del jazz viene magistralmente espresso in un via vai di
sessioni, prove, giochi al massacro. Come
hiplash ovvero ‘colpo di frusta’,
letteralmente. Ed è questa la
prima impressione suscitata
dalla visione del film, un colpo di frusta
schioccato davanti allo spettatore.
Il percorso di studi musicali del protagonista, scelto come allievo da un
‘cattivo maestro’, si trasforma ben presto
in un inferno di prove, umiliazioni, esercizi
durissimi e interminabili. Agli standard
elevatissimi, al limite della perfezione
assoluta, richiesti dal professore, l’allievo
risponde con sudore, lacrime, sangue.
Tanto sangue, tra le mani, sui piatti della
sua batteria, nell’anima.
Nato come corto e poi trasformato
in lungometraggio, Whiplash è l’opera
W
37
ha giustamente sottolineato Chazelle “Il
jazz è sempre stato visto come una forma
d’arte libera, totalmente improvvisata. Ma
questo contrasta con le storie di direttori
d’orchestra totalmente tiranni o di musicisti
che si facevano le scarpe a vicenda”, un
paradosso affascinante, stimolante, dall’alto valore simbolico.
Il rapporto tra un allievo e un maestro,
che da più parti si è accostato al Sergente
Hartman di Full Metal Jacket di kubrickiana
memoria, è fatto di un crescendo drammatico che ha il suo apice nelle dure violenze
psicologiche e fisiche cui l’insegnante
sottopone i suoi allievi: ma se questi modi
poco ortodossi portano all’eccellenza, si
può soprassedere dalla condanna?
È qui la chiave di un perfetto equilibrio, man mano che il film procede, non si
può fare a meno di distaccarsi anche dal
protagonista: si capirà che non c’è nulla
di eroico nel suo egocentrismo e nel suo
progressivo alienarsi dai rapporti umani.
No, le sue dita spaccate e sanguinanti e
il suo sacrificio degli affetti, non portano
lontano. E l’ammirazione fine a se stessa del virtuosismo portato all’eccesso è
autocelebrazione pura, pagata col prezzo
dell’isolamento.
I due protagonisti rendono ancor più
grande il lavoro di Chazelle. A svettare
è l’interpretazione di J.K. Simmons nei
panni del professor Fletcher: il suo cranio
lucido, il suo fisico muscoloso, i suoi abiti
neri, il suo sguardo gelido, le sue urla, tutto
concorre a rendere sua prova perfetta.
Ma anche il giovane Miles Teller non è da
meno e la sequenza finale, dove il suo batterista si esibisce in un virtuosistico assolo,
è da antologia. Anche (e soprattutto) per
chi non conosce bene il jazz.
Film Un film orgogliosamente indipendente,
girato al ritmo travolgente di una partitura
(Whiplash è il titolo un pezzo suonato
dalla band nel film, copia sofisticata dello
stile del batterista jazz Buddy Rich degli
anni ’50, in realtà scritto da Justin Hurwitz
curatore delle musiche di tutta la pellicola),
raffinato outsider nella corsa agli Oscar
Tutti i film della stagione
e meritevole del massimo dei voti, già
vincitore al Sundance Film Festival del
Gran Premio della Giura e del Premio del
Pubblico come Miglior Film Drammatico,
oltre che del Golden Globe per il miglior
attore non protagonista a J.K. Simmons.
Whiplash ha poi ottenuto cinque
nomination all’Oscar 2015 vincendo
tre statuette tra cui quella per il miglior
attore non protagonista al magnifico
Simmons.
Un film imperdibile. Un ‘colpo di frusta’ davanti a cui non si può rimanere
indifferenti.
Elena Bartoni
MOMMY
(Mommy)
Francia, 2014
Regia: Xavier Dolan
Produzione: Xavier Dolan, Nancy Grant per Metafilms
Distribuzione: Good Films
Prima: (Roma 4-12-2014; Milano 4-12-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Xavier Dolan
Direttore della fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musiche: Noia
Q
uebec, lo Stato ha approvato
una controversa legge S-14,
che consente ai parenti di minori difficili, in caso di emergenza, di effettuare un ricovero coatto presso un istituto
psichiatrico, saltando la procedura legale. Diane è una madre vedova, una donna
dal look aggressivo, ancora attraente, ma
poco capace di gestire la propria vita. Ha
infatti scarse capacità di autocontrollo e
ne subisce le conseguenze. Suo figlio Steve è affetto da una forte iperattività e aggressività, peggiorata dopo la morte del
padre, che lo rende spesso ingestibile in
particolare se sotto stress, vittima di impennate di violenza incontrollabili, che
lo fanno entrare e uscire da istituti. Cacciato dall’ultimo riformatorio, per aver
appiccato un incendio durante il quale un
ragazzo ha riportato dei danni, torna a
vivere con la madre, che decide di dargli
un’istruzione e farlo vivere con lei. Il loro
ritrovarsi comporta la perdita del lavoro
per Diane, che disperatamente per mantenere lei e il figlio inizia a cercare un’occupazione. Il suo rapporto con la madre
è possessivo e marcatamente sessuale: i
baci, i balli, le provocazioni verbali sono
stimoli cui Diane si sottrae, ma non senza
un certo compiacimento. In questo gioco,
al limite del dramma, si inserisce la vicina
Kyla, un’insegnante di scuola secondaria,
che ha preso un anno sabbatico per curare una balbuzie invalidante, provocata
da un grave ma ignoto episodio, accaduto
due anni prima, probabilmente la morte
Scenografia: Colombe Raby
Costumi: Xavier Dolan, François Barbeau
Interpreti: Antoine-Olivier Pilon (Steve O›Connor Després),
Anne Dorval (Diane «Die» Després), Suzanne Clément
(Kyla), Patrick Huard (Paul Béliveau), Alexandre Goyette
(Patrick), Michele Lituac (Preside), Viviane Pacal
(Marthe), Nathalie Hamel-Roy (Natacha)
Durata: 139’
di un figlio. I tre tentano di stabilizzare la
situazione: Kyla cerca di interessare Steve alle materie d’esame e lo intrattiene,
mentre Diane va a lavorare come donna
delle pulizie. La vita scorre e anche Steve sembra più calmo. Ma a complicare la
situazione giunge una richiesta di risarcimento per i danni subiti dal ragazzo sfigurato da Steve: 250 mila dollari di cui nessuno dispone. Serve un avvocato e Diane
lo trova: un corteggiatore che è ben felice
di cogliere questo pretesto per invitarla
a cena. La situazione non viene accettata da Steve, ma anzi suscita una violenta
gelosia, che fa allontanare bruscamente
anche il pretendente. Fino ad arrivare
all’ennesimo atto estremo: Steve si taglia
le vene con un taglierino tra gli scaffali
di un supermercato. Sullo schermo intero scorrono le immagini del ragazzo che
si diploma, trova la compagna ideale, la
sposa, diventa padre e rende Diane felice. Ma è un sogno. In realtà la madre
ha deciso di avvalersi dell’articolo S-14
procedendo, con grandissima pena, al ricovero coatto di Steve. La donna rimane
sola, abbandonata anche da Kyla che si
trasferisce con la famiglia.
25 anni Xavier Dolan firma il suo
quinto film, Mommy, dedicato
ancora una volta alla figura della
madre, che presenta a Cannes, dove il
giovane regista è stato premiato ex aequo con il maestro Godard. Intrappolati
in un formato inusuale e claustrofobico,
A
38
che prevede lo spazio per un’unica figura
nel fotogramma, come in una gabbia,
Dolan racconta di un figlio e una madre,
cercando di cogliere l’intima complessità
e delicatezza del rapporto. Dopo tre film
che mettevano in contrasto madri disamorate con figli bisognosi di comprensione,
ora avviene il contrario. Steve è un figlio
assai poco gestibile, malato e bisognoso
d’affetto, capace di distruggere tutto quel
che gli è intorno e sua madre forse è il
soggetto meno indicato per curarlo, perché
è una donna incapace di gestire anche se
stessa. Nella violenza che caratterizza il
loro rapporto lentamente emerge una delle
forme d’amore più genuino che si possa
immaginare, comunicato senza nessuna
sottigliezza, solo urlando e passando per
furiose scenate. Mentre il mondo intorno
a loro pensa che madre e figlio si odino,
lo spettatore lentamente comprende che
non è così, ma che anzi amarsi è ciò che
sanno fare meglio, come dice la stessa
Diane. Lei lo ama alla follia, lui ricambia.
Edipici all’ennesima potenza, si insultano
e si abbracciano, si stuzzicano e si giurano
amore eterno, si picchiano e si perdonano.
Il giovane regista immagina storie intense,
che cercano il coinvolgimento, senza
ricorrere al consueto, ma anzi stimolando
curiosità nuove, completando l’opera con
immagini che non hanno bisogno di spiegazioni. Steve che zittisce la madre mettendole una mano sulla bocca e poi bacia
il dorso della mano messa tra le loro labbra
è un’immagine di grande impatto emotivo,
Film che senza particolari giri di parole spiega
il loro rapporto, fatto di soprusi e violenza
che rendono difficile comunicare amore.
In un’epoca in cui i matricidi riempiono
senza pietà le nostre cronache, viene rappresentata la figura di una madre che non
è madre coraggio, né mamma chioccia. È
una donna moderna che prova a prendersi
le proprie responsabilità e vive un dilemma
orribile, ma che alla fine si rende conto di
non farcela. Si cercano sensazioni forti, ma
senza indurre al pietismo per la disperata
ricerca di felicità che anima le speranze
dei personaggi. Ai tre protagonisti, chiusi
ognuno a suo modo nel proprio guscio, non
rimane che sognare la libertà e serenità di
un proprio spazio vitale, metaforicamente
di 16:9. Quegli eccessi, che all’inizio sembravano divertire, lentamente cambiano e
si passa ad una sensazione di tristezza e
compassione. La speranza di una catarsi
finale è solo apparente, come il formato
1:1, tipico del ritratto fotografico, che rispecchia gli orizzonti confinati e ristretti dei
suoi protagonisti, pronto a cambiare quando l’illusione di un avvenire migliore si fa
avanti. Ambientando la storia in un futuro a
breve termine, il regista introduce elementi
di fantasia, come una legge inesistente,
Tutti i film della stagione
che gli consente di piegare gli eventi in
maniere altrimenti impossibili. Interessante
è l’aggiunta di un personaggio, posizionato
tra madre e figlio, che si rivela altrettanto
importante: la vicina di casa con problemi
psicosomatici di balbuzie e una vita che
forse non l’aiuta, per i fantasmi che si
porta dietro. Remissiva, specie se confrontata con gli altri due personaggi, dopo
poco supera lo status di personaggio osservatore, per diventare un terzo polo di
curiosità e attrazione sentimentale. Dalla
realtà monotona e in bianco e nero Kyla
viene immersa nel mondo colorato, confusionale e assordante di Diane e Steve.
Basterebbero i loro bisticci continui, le
risate sonore, le voci urlate, i balli sfrenati
a riempire tutto il film. Ma poi dentro il quadrato, che ha l’obiettivo di far concentrare
lo spettatore sui volti, sui ritratti, sugli esseri umani, affinché si evitino distrazioni,
viene inserito un sonoro onnipresente
e una presenza musicale schiacciante.
Autoradio in sottofondo e volumi che si
alzano e si abbassano, stereo alto che
si sovrappone ad altre fonti musicali e ad
una colonna sonora che comprende brani
commerciali. La camera rimane attaccata
ai corpi, riprendendo spesso al rallenty,
con una fotografia calda e luminosa che
esalta i colori. Dolan ha coraggio e non
segue regole formali, ma solo ciò che
può restituirgli un’emozione. Come nella
sequenza in cui Steve in skate e le due
donne in bici escono per il quartiere; la
camera li segue e deforma lo schermo.
Steve allarga le braccia e per un istante
il formato quadrato dell’immagine si apre
ed inquadra tutto, come un abbraccio
che ci avvolge e ci scalda. Poi l’illusione che tutto si risolva per il meglio, le
fiduciose speranze di una madre per il
futuro del figlio. Invece la realtà è più
dura dell’immaginazione. Diane rimane
sola, mentre Steve è ingabbiato in una
camicia di forza e Kyla segue inerte il suo
triste destino. La saturazione e l’eccesso
si trasformano in un senso di solitudine
infinita e agghiacciante: una casa deserta
senza un suono, con una luce neutra.
Il cast risulta davvero magistrale: Anne
Dorval intensa e commovente nei panni
di Diane, Antoine-Olivier Pilon esplosivo
ed empatico nel difficile ruolo di Steve ed
infine una credibile Suzanne Clément, in
un’interpretazione delicata e dimessa.
Veronica Barteri
L’ULTIMO LUPO
(Wolf Totem)
Cina, 2014
Scenografia: Quan Rongzhe
Effetti: Christian Rajaud, Guo Jianquan
Interpreti: Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang
Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao
Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu), Feng
Shao Feng (Chen Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam
Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen
Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu) Feng Shao Feng (Chen
Zhen), Shawn Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma),
Yin Zhusheng (Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling),
Baoyinhexige (Batu), Feng Shao Feng (Chen Zhen), Shawn
Dou (Yang Ke), Ankhnyam Ragchaa (Gasma), Yin Zhusheng
(Bao Shunghi), Ba Sen Zha Bu (Biling), Baoyinhexige (Batu)
Durata: 118’
Regia: Jean-Jacques Annaud
Produzione: La Peikang, Xavier Castano, Jean-Jacques Annaud per China Film Co. Ltd., Repérage Beijing Foridden
City Co. Ltd., Mars Film, Wild Bunch, China Movie Channell,
Beijing Phoenix Entertaiment Co. Ltd., China Vision Media
Group Limited, Groupe Herodiade, Loull Produziont
Distribuzione: Notorius Pictures
Prima: (Roma 26-3-2015; Milano 26-3-2015)
Soggetto: dal romanzo “Il totem del lupo” di Jiang Rong
Sceneggiatura: Alain Godard, Jean-Jacques Annaud, Lu
Wei, John Collee
Direttore della fotografia: Jean-Marie Dreujou
Montaggio: Reynald Bertrand
Musiche: James Horner
C
ina, 1967. Durante la rivoluzione culturale maoista, il partito
decide di inviare due giovani
intellettuali nella steppa mongola con
il compito di educare le tribù contadine
della zona. Chen Zen e Yang Ke sono
quindi costretti ad adattarsi agli usi e ai
costumi rurali del posto. La piccola comunità è guidata dall’anziano Bilig, il
quale instaura un rapporto speciale con
il giovane Chen Zen. La steppa tuttavia è
piena di pericoli e insidie: animali feroci, freddo glaciale, scarsità di risorse. Un
giorno, durante il turno di guardia alle
pecore, Chen Zen viene attaccato da un
branco di lupi. Nonostante lo spavento,
il ragazzo si fa trovare pronto e riesce a
costringere i lupi alla fuga. Dopo qualche
settimana, lo stesso branco di lupi attacca
un gruppo di gazzelle facendone razzia.
39
Secondo il saggio Bilig questo è un bene,
poiché ora i lupi, finalmente sazi, si ritireranno per l’inverno. Saputa la notizia,
dei mercanti in cerca di affari raggiungo
la steppa e ripuliscono la zona di tutte le
gazzelle togliendo così le riserve di cibo
dei lupi. Successivamente il branco attacca il villaggio uccidendo vari cavalli
e portando alla morte di alcuni contadini. Gli uomini del partito raggiungono la
Film steppa e ordinano a Bilig di uccidere tutti
i cuccioli di lupo. Nonostante le remore,
i contadini eseguono l’ordine, Chen Zen
riesce tuttavia a salvare uno dei cuccioli
e decide di allevarlo personalmente nascondendolo nel suo rifugio. Frattanto
dalla città continuano ad arrivare uomini
del governo che si stabilizzano vicino al
lago costruendo nuovi villaggi e distruggendo alberi e fauna varia. Un giorno,
uno dei rappresentanti del partito scopre
il cucciolo di lupo custodito da Chen Zen,
ma il ragazzo spiega che si tratta di uno
studio scientifico e l’uomo, credendoci,
non elimina il cucciolo. Parallelamente
prosegue l’uccisione mirata dei lupi, anche grazie all’uso di materiale esplosivo. Bilig rimane ferito proprio per colpa
dell’esplosione di una granata e muore
poco dopo. Chen Zen viene coinvolto
dall’uomo del partito nell’uccisione del
branco in quanto “esperto di lupi” . Dopo
le spietate uccisioni, resta soltanto il capo
branco, che non domo, fugge per oltre
quaranta chilometri. Una volta raggiunto, gli uomini vogliono ucciderlo a colpi
di fucile, ma Chen Zen si oppone e così
il lupo muore per cause naturali. Tornato
al villaggio scopre che la gabbia del cucciolo è aperta: l’ultimo lupo è ora libero.
opo L’Orso (1988) e Due fratelli
(2004) Jean – Jacques Annaud
torna a raccontare, una volta
ancora, il mondo animale. Stavolta però
lo fa basandosi su di un romanzo, il libro
più letto della Cina dopo il Libretto rosso di
Mao, ovvero Il totem del lupo di Jiang Rong,
testo autobiografico che narra le vicende
accadute al protagonista nel 1967 quando
venne inviato dal partito in Mongolia con il
compito di educare i burberi contadini della
D
Tutti i film della stagione
steppa. Rong tuttavia, così come Chen Zen,
il protagonista della pellicola, da insegnante
si troverà ad essere allievo, costretto a
dover imparare, a doversi adattare, a dover comprendere e quindi a riscoprirsi. La
steppa non è la città. Qui gli uomini devono
convivere con la natura indifferente e crudele
e, soprattutto, con gli animali forti e affamati.
La convivenza però si muove su di un fragile
equilibrio e questo Chen Zen lo apprenderà
prima di tutto dal saggio Bilig, capo del
villaggio, ma non autoritario, più padre che
maestro, capace di conoscere la natura e gli
animali, serenamente sottomesso al destino
delle cose e del mondo. Ed è proprio su questa dialettica che si muove la bella pellicola
di Annaud: da un lato Bilig, un Giusto che
accetta il ciclo naturale delle cose, dall’altro
gli uomini del partito, incapaci a rispettare
l’ordine della steppa, troppo impegnati nel
superbo bisogno del dover costruire, ingrandire, allargare. Costruire significa distruggere
però. Distruggere l’habitat, distruggere gli
animali, distruggere i laghi. I trattori contro i
cavalli, i fucili contro i bastoni, gli ordini contro
la coscienza, il progresso contro la natura.
Come nella grande letteratura dei London
di Zanna Bianca, dei Melville di Moby Dick
o dei Kerouac de I vagabondi del Dharma
, sono gli animali, è la natura a insegnarci
qualcosa, a mostrarci, come in uno specchio,
quanto possa essere degenerato l’uomo. Ed
è esattamente ciò che fanno i lupi di Annaud,
crudeli per necessità e non per scelta, dignitosi anche nel morire, collaborativi gli uni
con gli altri, disposti al sacrificio e alla lotta
per difendersi. E questo non soltanto simbolicamente, ma anche cinematograficamente:
sono loro i veri protagonisti del film, è nei loro
primi piani (oltre agli splendidi paesaggi) che
il regista francese dà il meglio, commuove,
emoziona, sopperendo alle evidenti mancanze degli attori “umani”. Nonostante il
palese intervento degli effetti speciali (il film è
disponibile anche in 3D), è nei movimenti del
muso, nei profondi occhi – a volte feroci, altre
docili- , nella lucida preparazione all’assalto
delle prede che si riconosce la grandezza
del regista nel cogliere il vero animo dei suoi
protagonisti. Come la grande letteratura ha
saputo fare, Annaud ci lascia una lezione
cercata e voluta, senza però risultare fastidiosamente moralistico: rispettare ciò che
ci circonda, sottometterci alle leggi della
natura, mettere da parte la cretina volontà di
potere e gli inutili peccati di Hýbris. “Nessun
rumore, nessuna voce d’uomo rompeva quel
silenzio, e la natura, sempre uguale da che
è nato il mondo, dominava incontrastata”.
Giorgio Federico Mosco
BUONI A NULLA
Italia, 2014
Regia: Gianni Di Gregorio
Produzione: Angelo Barbagallo per Bibi Film Tv con Rai Cinema
Distribuzione: Bim
Prima: (Roma 23-10-2014; Milano 23-10-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Gianni De Gregorio, Pietro Albino Di Pasquale
Direttore della fotografia: Gian Enrico Bianchi
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Enrico Melozzi
Scenografia: Susanna Cascella
Costumi: Silvia Polidori
Interpreti: Gianni Di Gregorio (Gianni), Marco Marzocca (Marco), Valentina
Lodovini (Cinzia), Daniela Giordano (Marta), Gianfelice Imparato (Christian), Marco
Messeri (Raffaele), Camilla Filippi (Camilla), Anna Bonaiuto
Durata: 87’
40
Film hi sono i Buoni a nulla del film?
Il primo della lista è il protagonista Gianni, un mite signore
romano prossimo alla pensione che ogni
giorno subisce ingiustizie su ingiustizie.
Dall’anziana vicina di casa rompiscatole
e brontolona, alle pretese dell’ex moglie,
ai colleghi d’ufficio.
Le cose non vanno meglio quando a
Gianni, dipendente di un ufficio pubblico
a cui mancano sei mesi per andare in pensione, viene comunicato che, per effetto
della nuova legge, deve aspettare altri tre
anni per il pensionamento. Ma non finisce qui, l’uomo viene trasferito con effetto
immediato da un ufficio del centro a una
nuova sede fuori dal raccordo anulare.
Mite come al solito, Gianni si rimbocca le
maniche si presenta nel nuovo ufficio dove
viene subito messo in riga dall’inflessibile
direttrice. Ma c’è chi sta messo peggio di
lui. È il suo nuovo collega di stanza Marco, un ragazzo capace, preparato e mai
ricompensato, un impiegato sempre disposto ad aiutare tutti: dal nuovo arrivato
Gianni, fino a Christian (leccapiedi della
direttrice) e Cinzia la collega sexy cui non
riesce a dire mai di no.
Ma arriva il giorno in cui Gianni decide di cambiare il suo stato, spinto anche
dai consigli di Raffaele, nuovo compagno
della ex moglie, dentista, ma all’occorrenza medico di famiglia pronto a controllare
pressione e ansia del povero Gianni (e a
trasformarsi in una sorta di improvvisato
psicoterapeuta). Ed ecco che il protagonista inizia la sua piccola rivolta che culmina in una serie di dispettucci (il primo dei
quali è lasciare senz’acqua la piantina sul
tavolo del suo salone), escamotage per arruffianarsi il prossimo e piccole angherie
verso chi è più debole di lui. Finché anche
Marco, sempre più vessato da tutti (e perfino da Gianni), decide di ribellarsi. Ed è
così che il giovane comincia a farsi rispettare, iniziando dai colleghi di lavoro.
C
Tutti i film della stagione
Intanto Gianni si è fatto furbo e,
grazie a una serie di attenzioni mostrate verso la direttrice (la colazione sulla
sua scrivania la mattina, il cane portato
a spasso), fa carriera. Gianni ottiene una
stanza tutta per lui e gode del privilegio
di combinare poco o nulla durante le sue
giornate lavorative. L’uomo poi alza la
testa di fronte al tentativo della figlia e
dell’ex moglie di convincerlo a cambiare
casa e a trasferirsi in un anonimo appartamento nell’estrema periferia.
Nel frattempo, Marco fa progressi con
Cinzia che non lo schiavizza più, anzi dimostra sincere attenzioni nei suoi confronti.
Insomma Gianni e Marco ora si godono la vita anche se la loro vera natura
viene fuori durante una serata danzante
in un locale. Saranno in grado di farsi
rispettare davvero? La loro alleanza tra
buoni che giocano a fare i cattivi durerà?
resentato alla nona edizione
Festival di Roma nella sezione
Gala, ecco Buoni a nulla di Gianni
Di Gregorio (ex regista rivelazione del
2008 con Pranzo di Ferragosto).
I buoni a nulla secondo Di Gregorio
sono semplicemente gli “uomini buoni”,
quelli che accettano quotidianamente e in
silenzio piccoli e grandi soprusi
Buoni a nulla è un po’ lo specchio del
suo autore-regista-attore, e non facciamo
fatica a crederlo. Lo spunto nasce infatti
da un semplice esame del proprio stare
al mondo. Da sempre tendente a essere
un uomo che, per “quieto vivere”, tende a
subire le decisioni altrui, a non riuscire a
dire di no, Di Gregorio ha ammesso di aver
pensato al suo film come a una specie di
test per capire davvero se, impegnandosi, si possa cambiare questa natura. La
ricerca “sul campo” ha dato vita a risultati
decisamente comici.
Garbato, è l’aggettivo, forse un po’ fuori
moda, che calza alla perfezione al sessan-
P
tacinquenne attore-regista e al suo cinema.
Si, perché con questo suo terzo film Di Gregorio conferma la sua cifra stilistica unica
che lo colloca in una posizione speciale nel
panorama cinematografico italiano. Buoni
a nulla è un’opera leggera nella migliore
accezione del termine, delicata anche nelle
sequenze in cui il protagonista sfodera la
necessaria grinta, per diventare, non uno
dei tanti prevaricatori del mondo d’oggi,
ma semplicemente uno “che sa dire di no”.
L’autore-regista ha questa volta il particolare merito di rivalutare la figura del ‘buono a nulla’ elevandolo da taciturna ‘spugna’
capace di assorbire le prepotenze altrui a
persona che sa il fatto suo, riconquistando
la dignità con qualche colpo furbetto (le
‘attenzioni’ con cui il protagonista inizia a
ricoprire la propria capufficio guadagnando un’immediata promozione) e qualche
salutare sfogo.
Gli attori che affiancano Di Gregorio
sono tutti perfetti, a partire da Marco Marzocca, impiegato vessato da tutti e perfetto
esempio di ‘buono a nulla’, a Valentina
Lodovini bomba sexy capace di sfruttare
con furbizia le sue generose forme, fino a
Marco Messeri esilarante dentista con la
vocazione dell’analista.
Un umorismo elegante, quasi sussurrato, per una commedia che porta la firma
ormai riconoscibilissima di un artista dal
tocco lieve e dal sorriso luminoso, un comico ‘involontario’ che può a tratti ricordare
il grande Jacques Tati.
Colorito, delicato ma a tratti esilarante,
il film di Di Gregorio ridipinge con i vividi
colori di un acquarello, la realtà spesso
alienante e disarmante della Roma di oggi,
tra grosse auto incastrate al millimetro nei
vicoli del centro storico, prepotenti pizzaioli, bocciofili volgaroni.
Un film capace di coniugare leggerezza e intelligenza, sempre con un sorriso.
Elena Bartoni
TIMBUKTU
(Timbuktu)
Francia, Mauritania, 2014
Musiche: Amine Bouhafa
Scenografia: Sébastien Birchler
Costumi: Ami Sow
Interpreti: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima),
Abel Jafri (Abdelkrim), Fatoumata Diawara (Fatou), Hichem
Yacoubi (Jihadista), Kettly Noël (Zabou), Mehdi AG Mohamed
(Issan), Layla Walet Mohamed (Toya), Adel Mahmoud Cherif
(Imam), Salem Dendou (Capo jihadista)
Durata: 97’
Regia: Abderrahmane Sissako
Produzione: Les Films Du Worso, Dune Vision, in coproduzione con Arches Films, Arte France Cinéma, Orange Studio
Distribuzione: Academy Two
Prima: (Roma 12-2-2015; Milano 12-2-2015)
Soggetto e Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall
Direttore della fotografia: Sofiane El Fani
Montaggio: Nadia Ben Rachid
41
Film N
el villaggio africano del Mali arrivano i primi adepti della Jihad
islamica: i guerriglieri determinati all’applicazione violenta e distorta
delle norme coraniche impongono obblighi
e comportamenti in un regime di assoluto terrore. È proibito fumare, fare musica,
giocare al calcio; le donne, coperte, velate e
costrette a usare i guanti sono sottomesse in
una vita pari a quelle delle ombre.
Fuori dal centro abitato, a mezza via tra
la sabbia del deserto e il fiume, vive pacificamente Kidane con la moglie Satima, la
figlia Toya e un pastorello, un ragazzino di
dodici anni, Issar che custodisce le mucche.
La bestia più cara alla famiglia, la
mucca GPS, un giorno sconfina e imbroglia le reti che il pescatore Amadou aveva
steso nel mezzo del fiume e da questi è uccisa con un colpo di lancia.
Kidane, recatosi dal pescatore per
chiedere ragione dell’accaduto, scade
in una rissa con lui e lo fredda con un
colpo di pistola sparato accidentalmente
dall’arma che porta in tasca.
Kidane subisce un processo farsa,
senza garanzie né testimoni: condannato
a morte è abbattuto a colpi di mitra men-
Tutti i film della stagione
tre corre incontro alla moglie che era venuta ad abbracciarlo per l’ultima volta.
È solo l’ennesima azione, in ordine di
tempo, del regime di terrore imposto nel
villaggio dai nuovi legionari della violenza islamica.
vecchia la convinzione (e la speranza), spesso citata, che una
risata possa seppellire ogni forma
di violenza e oppressione ma quanto attuale e intelligentemente utilizzata in questo
film addolorato, struggente e poetico come
il grande continente da cui proviene, il
regista Sissako!
Sissako fa ciò che Asghar Farhadi,
regista iraniano (About Ely, Una Separazione) fa con il cinema nei confronti del suo
Paese: non si oppone alla violenza con la
forza, ma mette in evidenza il ridicolo, non
combatte la follia di una banda di assassini
ma ne risalta l’ignoranza, la goffaggine,
l’improvvisazione, l’impacciata balordaggine delle azioni, purtroppo sostenute con
il crepitare delle mitragliatrici.
D’altra parte, può un inerme abitante delle dune sul Niger, dopo secoli di tranquillità,
svegliarsi ribelle, astuto e violento dalla sera
È
alla mattina? No, non può; può sotttolineare
il grottesco, circoscrivere l’insensato, sperare
che l’uragano passi presto, affossato nella
sua stessa parodia e intanto sorridere nel
guardare estasiato lo stesso panorama che
regna da millenni: la morbidezza delle dune a
cui risponde la dolcezza del vivere familiare,
i colori che luccicano sul fiume al tramonto,
la mansuetudine del bestiame che si nutre
della stessa mitezza dell’ambiente.
Ecco quindi che i Jihadisti invasori
perdono presto i loro tratti diabolici per
presentarsi ridicoli in un linguaggio fatto di
arabo, inglese e francese che neanche loro
capiscono, telefonini che perdono la linea,
tribunali improvvisati e improbabili che però
giudicano nel sangue, macchine e moto che
non si sanno guidare e (magnifico!) uno
di loro, addirittura che fuma di nascosto...
Si può esorcizzare tutto ciò con la bellezza stupendamente e intensamente fotografata, con l’ironia più feroce, stralunata
e disarmante (la partita di pallone giocata
senza pallone è davvero sublime) oppure
con la fuga, come fa la gazzella ansimante
all’inizio e alla fine del film.
Fabrizio Moresco
ANNIE PARKER
(Decoding Annie Parker)
Stati Uniti, 2013
Regia: Steven Bernstein
Produzione: Steven Bernstein, Clark Peterson, Keith Kjarval
per Unified Pictures, in associazione con Fawkes Partners,
Rix Pix, Media House Capital, Nolan McDonald Films
Distribuzione: Koch Media
Prima: (Roma 30-10-2014; Milano 30-10-2014)
Soggetto e Sceneggiatura: Adam Bernstein, Steven Bernstein, Michael Moss
Direttore della fotografia: Ted Hayash
Montaggio: Douglas Crise
Musiche: Steven Bramson
Scenografia: Alex Hajdu
Costumi: Karyn Wagner
Effetti: Clark Graff
S
iamo a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta. Annie è
una giovane donna che ha perso
la mamma, la nonna e la zia per colpa di
un cancro al seno. Vive un’esistenza felice insieme all’amata sorella Marley e al
marito, aspirante rockstar, Paul, con il
quale concepisce il piccolo William. Un
giorno tuttavia la sorella di Annie scopre
un nodulo al seno e muore in poco tempo.
Parallelamente la dottoressa Mary-Claire King, genetista, e il suo team avviano
Interpreti: Helen Hunt (Dott.ssa Mary-Claire King), Samantha Morton (Anne Parker), Aaron Paul (Paul), Alice
Eve (Louise), Maggie Grace (Sarah), Rashida Jones
(Kim), Richard Schiff (Allen), Marley Shelton (Joan
Parker), Corey Stoll (Sean), Bradley Whitford (Marshall
Parker), Kate Micucci (Rachel), Ben McKenzie (Tom),
Bob Gunton (Dott. Benton), James Tupper (Steven),
Mageina Tovah (Ellen), Benjamin Stockham (William
bambino), Spencer Garrett (David), Olivia Rose Keegan
(Joan adolescente), Joanne Baron (Florence), Ryan Wynott (William Parker a 12 anni), Brie Bernstein (Miriam),
Jade Duncan (Annie Parker bambina), Joseph White
(William a 17 anni)
Durata: 91’
una ricerca sulle possibili correlazioni
genetiche e quindi sulla predisposizione
di alcune donne a questo male. Anna comincia a essere ossessionata dalla paura
di contrarre la malattia. Una mattina,
palpandosi, la donna trova qualcosa:
le viene diagnosticato un carcinoma al
seno. Annie viene operata e comincia la
chemioterapia. Durante la cura, la donna
incontra casualmente il giovane dottore
Sean, che le espone le prime teorie sulle
varianti che possono causare il cancro
42
come l’ambiente, il cibo e la predisposizione genetica. Anna approfondisce
l’argomento attraverso libri, ricerche e
modellini, onde riuscire a trovare una risposta sulle morti delle donne della sua
famiglia. È in questo periodo che scopre
della ricerca della dottoressa King, alla
quale scrive numerose lettere. Frattanto
il rapporto con Paul va peggiorando: i
due litigano continuamente e non fanno
più sesso. Annie scopre che il marito va
a letto con la sua migliore amica Louise e
Film così i due divorziano. Qualche mese dopo,
la donna incontra Marshall con il quale
comincia una nuova relazione. Purtroppo
però il suo ex marito Paul si è ammalato e
muore in poco tempo, dopo che Annie gli
è stata a fianco gli ultimi giorni. Anche la
protagonista non viene risparmiata dalla malattia, che la colpisce nuovamente.
Dopo l’ennesima operazione, la donna è
costretta a affrontare una volta ancora
la chemioterapia. Arrivati ai primi anni
Novanta, il team della dottoressa King ha
finalmente dimostrato il legame genetico
tra donne della stessa famiglia predisposte al tumore al seno. Annie si reca a Cincinnati per conoscere la dottoressa King,
che si ricorda di lei per via delle lettere.
La dottoressa si complimenta con la donna per il suo straordinario coraggio e la
sua forza di volontà. Annie ha vinto la sua
battaglia.
Q
uesta pellicola non è soltanto il
racconto veritiero di una donna,
Anna Parker, che è costretta
Tutti i film della stagione
ad affrontare un male terribile più volte
durante la sua esistenza. Il film racconta
la paura, il timore, l’angoscia della malattia,
ma anche il coraggio, la forza di volontà, la
sana testardaggine. Anna, fin da piccola,
intravede lo spettro della morte aggirarsi
tra le pareti della casa di famiglia, nella
quale vengono a mancare prima la nonna, poi la mamma e infine la sorella, tutte
portate via dallo stesso male. Annie sa che
prima o poi toccherà a lei, nonostante le
rassicurazioni di medici reazionari e sordi
alle novità, legati a un mondo ortodosso,
fermi nelle convinzioni di un secolo passato e intimoriti dalle nuove scoperte e dalle
tecnologie. Ma quando tocca a lei, Annie
resta li, a lottare, mossa dalla voglia, dalla
necessità di scoprire il perché, proprio la
stessa forza che muove la dottoressa King.
Annie Parker è quindi un film riuscito sulla
malattia, sull’abbandono, sulla solitudine,
sulla ricerca della verità e questo basterebbe per ritenerlo un buon film, ma non è
solo questo, non si ferma qui. La pellicola
di Steven Bernstein, con una bravissima
Samantha Morton nel ruolo della protagonista, riesce anche a far sorridere, ad
alleggerire, a prendersi gioco della morte
con la vita stessa, rendendo ancora più
forte ed efficace il messaggio che vuole
mandare. Esilaranti, in questo senso, le
scene dei vari funerali cui Anna è costretta
a partecipare per via degli eventi infausti
o ancora la scena nella quale rigetta nello
zainetto del figlio perché il bagno di casa
è occupato. Se il film non può non essere
categorizzato come drammatico (tale
impronta si fa inevitabilmente più marcata
nella parte centrale e finale della pellicola),
Bernstein non ci risparmia un sano e azzeccato black humor, che dà alla pellicola
qualcosa in più. Passato in sordina nelle
sale e tra il pubblico italiano (tanto da non
meritare neanche una pagina Wikipedia in
lingua nostrana), Annie Parker è uno di quei
film che ha la banale, ma rara dote di far
ridere e piangere allo stesso tempo e anche
solo per questo merita di essere visto.
Giorgio Federico Mosco
BIAGIO
Italia, 2014
Scenografia: Fabio Bondì
Costumi: Antonella Zito
Interpreti: Marcello Mazzarella (Fra Biagio), Vincenzo
Albanese (Pastore Rosario), Renato Lenzi (Giovanni), Omar
Noto (Salvatore), Doriana La Fauci (Madre di Biagio), Silvia Francese (Valeria), Salvatore Schembari (Michele),
Michelangelo Balistreri (Nicola), Santo D’Aleo (Fra Paolo),
Attilio Ferrara (Uomo Casolare)
Durata: 90’
Regia: Pasquale Scimeca
Produzione: Pasquale Scimeca, Linda Di Dio per Arbash, in
coproduzione con Alì Natura
Distribuzione: Arbash
Prima: (Roma 2-2-2015; Milano 2-2-2015)
Soggetto: Marcello Mazzarella
Sceneggiatura: Pasquale Scimeca
Direttore della fotografia: Duccio Cimatti
Montaggio: Francesca Bracci
Musiche: Marco Biscarini
L
a pellicola narra la storia di
Biagio Conte, il famoso missionario laico di Palermo, del suo
percorso di vita, delle sue scelte radicali e
rivoluzionarie che ne hanno fatto uno dei
pochi uomini giusti che ancora abitano su
questa terra.
Appartenente a una famiglia benestante palermitana, nato nel 1963, fino a
25 anni Biagio non si rendeva conto del
materialismo e consumismo di questa
società. Poi, però, guardandosi attorno,
viene profondamente colpito dai tanti
volti pieni di sofferenza che popolano la
sua città. Per questo, all’inizio degli anni
Novanta, Biagio lascia gli agi della sua
giovinezza e se ne va sulle montagne dove
vive da eremita nutrendosi di erbe e bacche. Lì fa la conoscenza di pastore Rosa-
rio e di suo figlio Salvatore che lo aiutano
quando si sente male per aver mangiato
bacche non commestibili, lo nutrono e gli
danno degli abiti per coprirsi dai rigori
dell’inverno. Biagio aiuta Salvatore nel
pascolo delle pecore. Ma quando Rosario
lo vuole pagare per il lavoro svolto, Biagio rifiuta dicendo di aver scelto di non
toccare più denaro in vita sua.
Rimasto solo tra i monti, inizia a sentire quel bisogno di spiritualità che la civiltà del consumismo ha espulso dal cuore
degli uomini e a cercare Dio. Lo trova attraverso la mediazione di San Francesco
e leggendo i suoi scritti.
Dopo un viaggio a piedi fino ad Assisi
(dove, sdraiato sul pavimento della Basilica, trova la vera pace interiore), torna a
Palermo e si ferma alla stazione dove per
43
anni vive e assiste i barboni. Si carica sulle spalle “il dolore del mondo offeso”, dà
loro dignità e speranza, li chiama “fratelli”. E i fratelli diventano sempre più
numerosi, la stazione non basta più ad accoglierli tutti. Così Biagio occupa l’ex disinfettatoio di via Archirafi, in abbandono
da anni, e fonda la Missione di Speranza e
Carità. Attorno a lui cresce la solidarietà,
la Missione diviene sempre più grande e
le persone che vi vivono sempre più numerose, tra poveri, immigrati e donne in
difficoltà. E lì che Giovanni, un regista, lo
va a trovare per intervistarlo, trovandolo
indebolito, malato e affaticato dagli anni
vissuti tra sacrifici e privazioni. Giovanni
riflette su tanti perché ma in primo luogo
sul motivo che spinge un regista a fare un
film.
Film resentato in concorso nella
sezione Cinema d’Oggi del Festival di Roma 2014, Biagio ha
rappresentato una vera e propria sfida
per il regista Pasquale Scimeca (che lo ha
realizzato con soli 600.000 euro ottenuti in
parte dalla Sicilia Film Commission e dalla
Banca del Nisseno).
Biagio Conte non voleva che fosse
girata una pellicola su di lui, la paura era
commettere “peccato d’orgoglio”. Alla fine,
però, il missionario si è convinto dicendo
“Se Dio vuole te lo farà fare questo film!”.
E così è stato.
Biagio è un’opera importante, una
sorta di favola morale piena di valori fondamentali che forse la maggior parte di
noi hanno dimenticato. Un’opera dallo stile
asciutto, essenziale, quasi minimalista,
come la storia che racconta.
Fra Biagio è mostrato in tutta la sua
condizione di uomo, nella sua semplicità,
nel suo coraggio di rinunciare a tutti beni
materiali e affrontare il freddo, la fame,
la fatica, il dolore fisico. Solo nei boschi,
mangia bacche e si sente male, viene
aiutato da due pastori, poi è di nuovo
P
Tutti i film della stagione
solo, sotto la neve. Infine il cammino
dalla Sicilia fino ad Assisi, l’incontro
emozionante con San Francesco (una
vera “onda” che lo travolge) e la scelta
di aiutare gli ‘ultimi’.
Quello che rende ancora più interessante il film è la prospettiva da laico con
cui il regista si avvicina alla figura di Biagio,
che viene mostrato in tutto il suo essere
uomo e non santo. La chiave di volta della
pellicola è proprio il valore che viene dato
alla spiritualità intesa come dimensione
essenziale per gli uomini, non solo come
fede religiosa.
Il regista ha dichiarato di sentire il film
particolarmente suo, non a caso all’inizio
della pellicola una voce fuori campo afferma quello che può essere considerato
il credo del cinema di Scimeca: “Un film
non è mai neutro, dentro c’è la vita delle
persone che lo hanno realizzato”. A ulteriore prova di ciò, il regista ha inserito nel
film una specie di alter-ego, Giovanni, di
professione regista, che funge un po’ da
testimone del percorso di Biagio e che va
ad incontrarlo nella sede della sua Missione di Speranza e Carità scegliendo di
entrare nel suo mondo. E la scena finale in
cui Giovanni lascia un hotel di lusso addentrandosi nel microcosmo della Missione
di Fra Biagio è eloquente e fortemente
simbolica.
L’ottima prova recitativa di Marcello
Mazzarella ormai attore-feticcio di Scimeca
(lo ricordiamo come interprete di Placido
Rizzotto nel 2000), unita alla fotografia di
Duccio Cimatta che restituisce efficacemente l’aspro paesaggio delle montagne
siciliane, fanno di Biagio un’opera importante che parla di una delle figure più
rappresentative del nostro tempo, anche
se probabilmente di non facile fruizione per
il grande pubblico.
Profondo e umile, intriso di valori veri,
il film di Scimeca racconta una storia che
sembra lontanissima da questi nostri anni
in cui si vive sempre più devoti al dio
denaro e nell’accumulo di beni materiali.
Una parabola autentica, sincera, intensa,
commovente, che sa di bello, che mostra
il lato migliore che ci può essere in un
uomo.
Elena Bartoni
VALUTAZIONI PASTORALI
Annie Parker – n.c.
Biagio – consigliabile-problematico
/ dibattiti
Boyhood – consigliabile-problematico / dibattiti
Buoni a nulla – consigliabile / semplice
Cattivissimo Me 2 – consigliabile /
brillante
Cenerentola – consigliabile / poetico
Fast and Furious 7 – consigliabile
/ semplice
Fino a qui tutto bene – consigliabilerealistico / dibattiti
Focus – Niente è come prima – consigliabile / brillante
Frozen, il Regno di ghiaccio – consigliabile / poetico
Into the Woods – n.c.
Jimmy’s Hall – Una storia d’amore
e libertà – consigliabile-problematico / dibattiti
Lettere di uno sconosciuto – consigliabile-problematico / dibattiti
Maraviglioso Boccaccio – consigliabile / poetico
Metamorfosi del male (La) – n.c.
Mommy – n.c.
Mortdecai – n.c.
Nessuno si salva da solo – complesso-scabrosità / dibattiti
Noi e la Giulia – consigliabile-problematico / dibattiti
Non sposate le mie figlie! – consigliabile / brillante
Oh Boy – Un caffè a Berlino –
consigliabile-problematico / dibattiti
Ouija – n.c.
Pasolini – complesso-scabrosità /
dibattiti
Piccione seduto sul ramo riflette
sull’esistenza (Un) – complessoproblematico / dibattiti
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Postino Pat – Il film – n.c.
Ricatto (Il) – n.c.
Romeo & Juliet – consigliabile /
poetico
Sale della terra (Il) – consigliabileproblematico / dibattiti
Storia della Principessa splendente (La) – consigliabile / poetico
Suite francese – consigliabile /
poetico
Timbuktu – raccomandabile-problematico / dibattiti
Ultimo lupo (L’) – n.c.
Vergine giurata – consigliabileproblematico / dibattiti
Water Diviner (The) – n.c.
Whiplash – n.c.
Wild – complesso-problematico /
dibattiti
Film Tutti i film della stagione
Torino film festival 2014
A cura di Flavio Vergerio e Davide Di Giorgio
UNA RASSEGNA PROBLEMATICA
Tentare un giudizio sintetico sulla rassegna-monstre del 32°TFF (circa 200 film
spalmati su una quindicina di sezioni e di
percorsi) è un’impresa vana e improduttiva, tale e tanta la varietà e la ricchezza delle proposte del programma. Il TFF è stato
segnato dall’intelligente rinuncia di Paolo
Virzì a condividere la direzione artistica
con Emanuela Martini, consacrata ormai
come una delle maggiori professioniste del
settore, ritagliandosi uno spazio come “direttore in visita” come selezionatore per la
nuova piccola sezione, “Diritti e rovesci”,
costituita da cinque documentari su realtà
sociali emarginate dal grande schermo. I
film, diretti da quattro affermate outsiders
del cinema italiano quali Antonietta De
Lillo, Susanna Nichiarelli, Wilma Labate
e Costanza Quatriglio e dai giovani Erika
Rossi e Giuseppe Tedeschi, raccontano cinque storie di diversa umanità, ritratti spiazzanti di operaie, mogli, puttane, matti, esodati che “mescolati l’uno all’altro tracciano
un affresco di persone, dei loro diritti, difficili da maneggiare, dei loro rovesci, umani
e civili; del loro cadere e rialzarsi, dei loro
commoventi sogni di riscossa”, come afferma lo stesso Virzì.
Il passo indietro di Virzì chiude positivamente la ricerca da parte dei politici di
una linea più “popolare” per il TFF, giudicato troppo elitario una diecina di anni fa e la
cui direzione era stata affidata prima alle capacità comunicativa di Nanni Moretti e poi
alla passione cinefilica di Gianni Amelio. Il
“passo indietro” di Paolo Virzì non ha fatto
altro che riconoscere la competenza, il rigore e la grande capacità di lavoro di Emanuela Martini, vera anima del TFF negli ultimi
otto anni.
Se questa è la buona notizia, quella
cattiva è il taglio, comunicato tardi per le
esigenze organizzative del festival, di ben
200.000 euro di contributi regionali. Le
conseguenze sono state la forzate riduzione delle sale di proiezioni (con conseguenti
assembramenti di pubblico) e la rinuncia
alla stampa del catalogo. Per chi, come me,
non fa uso del tablet ed è nostalgico irridemibile del cartaceo è stato un grave limite,
ma ci abitueremo…
La Martini individua nella “curiosità”
la matrice comune che avrebbe sovrinteso a scelte tanto diverse in un programma
molto complesso che metteva insieme i
film ormai classici della “New Hollywood”, i documentari “sociali”, i film horror
di “After Hours”, il cinema sperimentale
di “Onde” ). E insieme a essa la voglia di
scoprire “stili o abbozzi di stile, invenzioni, ritorni al passato, commistioni con altre
forme espressive, sperimentazioni eccentriche”. Io aggiungerei anche altre motivazioni. Credo che il TFF sia, oltre che un
formidabile strumento di conoscenza delle
nuove tendenze di ricerca del cinema mondiale, anche un’occasione di risistemazione
storico-critica dei grandi autori del cinema
moderno (Kubrick, Altman, Huston, Losey
per citare i più recenti). Quest’anno la seconda puntata dedicata alla retrospettiva
“New Hollywood”, oltre che a un denso
volumetto di saggi, ha permesso di rivedere
o recuperare ( ad esempio due amarissimi
film “minori”, a torto dimenticati, di John
Flynn) film fondamentali della nostra cultura, non solo e non tanto cinefilia.
Una delle sezioni più “utili” mi è sembrata l’hemingwayana Festa mobile, che
ha selezionato una trentina delle opere più
interessanti passate a Cannes, Berlino e
altrove, solo in parte destinate a uscire sui
nostri schermi. Straordinario ad esempio
P’tit Quinquin del francese Bruno Dumont,
che, nel descrivere l’orrore della condizione umana nel suo consueto panorama solitario del Pas de Calais, sceglie stavolta il
registro del grottesco e del surreale. Fra i
film che sono riuscito a vedere mi sono apparsi notevoli: ’71 del franco-inglese Yann
45
Demange (un amaro episodio della guerra
civile in Irlanda del Nord, con il retroscena di collaborazionismi, lotte fratricide, e
una recluta sperduta fra le linee nemiche),
il sottile La chambre bleu del francese
Mathieu Amalric, tratto da un romanzo di
Simenon (una rappresentazione fondata
sull’ambiguità sensuale dell’attrazione fatale fra due maturi amanti, destinata a finire
in tragedia), il dittico The Disappearance
of Eleanor Rigby dell’americano Ned Benson (il fallimento di una storia d’amore fra
una psicologa e un ristoratore narrata con
attenta introspezione dei due punti di vista
dei due protagonisti), Inupiluk del francese Sébastien Betheder (cronaca umoristica
e umanissima del difficile incontro di due
groenlandesi con gli stereotipi della cultura francese, ove si dimostra che l’incontro
fra esseri umani è sempre possibile, al di
là delle differenze antropologiche e linguistiche).
Zigzagando nei meandri del programma
alla ricerca di possibili sorprese, mi preme
segnalare almeno tre opere diversamente
esemplari, proposti da Davide Oberto nella sezione Doc. Il maestro filippino Lav
Diaz, recentemente consacrato a Locarno
con From What is Before, nel suo lungo
réportage Storm Children, book 1 indirizza
il suo sguardo ipnotico sulle devastazioni
provocate nel suo paese dal tifone Yolanda.
La sua (e le nostra) attenzione si incentra
progressivamente sulla condizione di vita
e di sopravvivenza dei bambini che, mai
domi, reinventano con inesausta creatività
il paesaggio desolato in cui sono costretti a
vivere. Il puntuto filmaker tedesco Romuald
Karmakar nel suo essenziale Democracy under attack – an Intervention raccoglie dieci
testimonianze di intellettuali tedeschi che in
una conferenza del 2011 a Berlino denunciavano la sottrazione di diritti fondamentali
dei cittadini provocata dalle crudeli leggi del
capitalismo finanziario, a torto giudicate immutabili e necessarie.
Film Life May Be dell’irlandese Mark Cousins e dell’esule iraniana Mania Akbari é
il sorprendente scambio di video-lettere fra
due registi di formazione diversa (un occidentale liberale e una mussulmana laica)
che si confrontano sulla rispettiva visione
del mondo, interrogando le proprie culture e
le proprie estetiche. Alla falsa “trasparenza”
occidentale di Cousins la regista iraniana
(protagonista di Ten di Kiarostami) contrappone il senso del simbolico e del mistero
della cultura mussulmana.
IL CONCORSO
Malgrado la concorrenza dei festival
più importanti (in primis Venezia), i 15 film
inediti del concorso hanno rivelato in alcuni
casi una sorprendente vitalità e uno sguardo
originale sul mondo.
(Quasi) tutti d’accordo sul primo premio assegnato a Mange tes morts del francese Jean-Charles Hue, intrigante ritratto di
una famiglia jenisch (detti “zingari bianchi”, di origine ebaico-germanica, da non
confondersi con altre etnie nomadi) che
vive di espedienti alla periferia parigina.
La vicenda si dipana attorno alla festa in
occasione del diciottesimo compleanno
del protagonista, Jason, che viene “educato” ai riti e alle leggi del gruppo familiare
dal fratello maggiore Fred, appena tornato
dalla prigione ove ha scontato una lunga
pena per omicidio. Coinvolto, suo malgrado, in una terribile scorribanda notturna su
una potente BMW sportiva, Jason si trova
drammaticamente diviso fra la cultura del
clan con il suo potente senso d’appartenenza e una propria legge morale di ascendenza religiosa. Il film assume le forme del
racconto western, al tempo stesso colmo di
follia e dissipazione, ma anche di vitalismo
esistenziale.
Il secondo (anch’esso meritato) premio è andato a For some inexplicable reason dell’ungherese Gabor Reisz, tragicomico e rivelatore ritratto di un trentenne
che vive alla giornata, in crisi sentimentale e affogato dalle attenzioni materne.
Il protagonista parte inopinatamente per
Lisbona dietro al fantasma di un volto,
ma ritornerà in patria senza concludere la
propria ricercae forse solo con una nuova
consapevolezza di sè.
Non mi trova invece d’accordo la menzione attribuita all’italiano N-Capace dell’esordiente teatrante Eleonora Danco, itinerario sgangherato fra Terracina e Roma alla
ricerca dei propri ricordi adolescenziali e
familiari di una ragazza in lutto per la morte della madre. L’itinerario si risolve in una
serie di incontri falsamente documentaristici
Tutti i film della stagione
con personaggi inconsapevoli ed emarginati, che recitano (compiaciuti) la parte di se
stessi.
Film rigorosamente di genere, ma di
forti risonanze simboliche, The Duke Of
Burgundy del talentuoso inglese Peter Strickland mette in scena un vorticoso gioco della parti fra una aristocratica collezionista di
farfalle e la sua cameriera, coinvolta in un
letale scambio erotico. Il rapporto fra dominio e sudditanza viene più volte capovolto e
rimesso in discussione, rivelandone l’ambivalenza e la relatività.
Da segnalare altri film interessanti per la
scelta dell’argomento o per l’insolito sviluppo narrativo.
Anuncian Sismos degli argentini Rocío
Caliri e Melina Marcow è una sofferta indagine psico-comportamentale su una comunità di recupero familiare che cerca di
indagare le ragioni di una serie di suicidi
adolescenziali. As You Were di Liao Jeikai
(Singapore) è una meditazione sull’impossibilità di ricostruire una storia d’amore fra
due ragazzi problematici ospitati in un centro di rieducazione in un’isola posta di fronte alla tumultuosa crescita di Singapore. The
Babadook dell’australiana Jennifer Kent
utilizza in modo creativo le convenzioni del
cinema di paura per raccontare l’elaborazione di un lutto (una donna, alle prese con un
figlio iperattivo, si libera faticosamente del
fantasma del marito morto). Big Significant
Things dell’americano Bryan Reisberg racconta il risibile viaggio verso il Sud di un
giovane eccentrico alla vigilia delle nozze
alla ricerca delle “cose più grosse al mondo”, fra le quali una sedia a dondolo più alta
di una casa.
Felix & Meira del canadese Maxime Giroux mette in scena il sorprendente incontro
d’amore fra una donna ebrea sposata con un
uomo ottusamente tradizionalista e un eccentrico squattrinato. Il film esplora il confine sottile fra critica sociale e la commedia
sentimentale. Infine mi è apparso notevole
per la forte dose di amara denuncia sociale
Mercuriales del francese Virgil Vernier, storia “bloccata”di tre giovani immigrate (una
sorvegliante e due “hostess”) impiegate
presso due torri commerciali alla periferia di
Parigi, luoghi destinati a produrre alienazione, rancore e violenza.
ONDE
Anche quest’anno i film di Onde hanno esplorato una narratività sperimentale e
radicale, gli spazi segreti del racconto, l’approccio innovativo a un’umanità di cui gli
schemi sociologici non riescono a penetrare
il segreto. I film scelti, opere compatte e ri-
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uscite o meno che fossero , hanno risposto a
un’intima esigenza morale ed estetica, a una
visione forte e originale del mondo, capace
di dar conto delle ragioni intime dell’esistenza dei personaggi e dei paesaggi messi
in scena. In questo senso il film-manifesto
di questa edizione può essere considerato
La sapienza di Eugene Green che assume
la forma stilistica della circonferenza borrominiana, atta a trasferire il suo movimento
di ascesi al racconto di una scoperta di sé,
in una messa in scena antinaturalistica e
astratta desunta dal teatro barocco. Dei venti
film presentati, oltre alla breve retrospettiva
dedicata alla giovane americana Josephine
Decker, indagatrice di personaggi femminili
divisi fra desiderio erotico e culture, più che
storie e singoli personaggi rimangono nella
nostra memoria visiva immagini e intuizioni
destinati a modificare la nostra percezione
del mondo.
La condizione esistenziale di un uomo
allo sbando viene rappresentata per astrazione simbolica in una nebbia che sembra
avvolgerlo per costituirsi come suo ultimo
rifugio in La huela en la niebla (The Trace
in the Fog) dell’argentino Emiliano Greco.
L’anonimo personaggio, accusato di omicidio, torna sulla sua isola sul delta dell’immenso Paranà, ma intorno a lui c’è il vuoto e
il rifiuto della famiglia e degli amici. Trova
lavoro come pescatore e vaga a lungo sul
fiume da solo sulla sua barca, incerto fra le
due sponde. La “traccia” del titolo, ovvero la
vita dell’uomo, è destinata a venir cancellata
dalla nebbia.
Altro bel risultato estetico è costituito
da Sans titre (Untitled) del francese Clément
Cogitore, misteriosa ricerca archeologica di
un gruppo di scienziati dotati di strumenti
tecnologici sofisticati nei sotterranei di una
chiesa barocca abbandonata fra i boschi
dell’alto Lazio e di vicine catacombe affrescate. In una grotta trovano delle capre che
studiano e poi portano via. Ma una di esse
rimane segretamente legata al suo habitat.
Forse apologo sull’impossibilità di penetrare l’arcaico e il sacro, il film comunica
una profonda sensazione di mistero, alla
sorprendente scoperta di una religiosità occultata eppur presente in tempi e spazi apparentemente inaccessibili.
Anche Tȏi quȇn rȏi! (I Forgot!) dell’argentino Eduardo Williams si impone per la
persistenza inquietante di una sola immagine e di azioni ripetitive e solo apparentemente senza senso. Bande anonime di ragazzini vietnamiti si divertono a saltare da un
palazzo vuoto all’altro in un quartiere della
deserta periferia di Hanoi, ancora in costruzione e già abbandonato. I ragazzi sfidano
il pericolo e la morte certa che sarebbe provocata dalla caduta nel vuoto, ma sopra di
Film loro c’è il cielo, che viene misurato nella sua
dimensione di infinito dalla sequenza finale
costruita in verticale su un panorama sempre
più vasto e incerto.
Dai paesaggi naturali si passa al “paesaggio” umano di un volto che suggerisce
inquietudine e solitudine attraverso l’anonimato e l’inespressività in Priklyuchenie
(Adventure) del kazako Nariman Turebayev, rilettura pessimista e materialista de
Le notti bianche di Dostoevskij, che era
già stato occasione di una rivisitazione in
chiave esistenzialista da parte di Visconti
e di una meditazione religiosa sulla fedeltà
e l’amore da parte di Bresson. Qui il protagonista è un solitario e afasico poliziotto, guardia giurata notturna, che trascorre
nella noia e nell’inanità le lunghe notti di
sorveglianza nella sua stazione di polizia.
La donna in attesa di un uomo misterioso
di fronte alla sua guardiola gli fa sperare un
impossibile amore. Ma il sogno d’amore è
destinato a infrangersi per la sua pochezza
e la volubilità della donna. Tempi lunghi,
immagini fisse, dialoghi che rivelano la miseria umana dei due, ironia, ineluttabilità
del tempo che passa, queste le componenti
espressive di un’opera compatta.
Il tema della mappa e del viaggio attraverso territori più immaginati che reali viene affrontato con esiti sorprendenti. La serba
Tamara Drakulic filma un pensoso diario di
bordo su un cargo che attraversa l’Oceano
verso le Hawaii per disperdervi le ceneri di
un amico. Viaggio della memoria alla ricerca del significato ultimo della morte, la regista filma in modo poetico l’immensità del
mare nel flusso sempre eguale e sempre diverso delle onde, a partire dallo spazio coatto della nave. Interessante anche la riflessione dei rapporti fra politica, evoluzione della
scienza e conoscenza del territorio di The
Measures delle franco-americane Jacqueline
Goss e Jenny Perlin, che ripercorre la misurazione dello spazio fra il Mediterraneo e la
Manica compiuta da Méchain e Delambre,
inventori del sistema metrico decimale, sistema voluto dalla Convenzione per evitare
le manipolazioni dei diversi metodi di calcolo e misura.
Flavio Vergerio
NEW HOLLYWOOD
La seconda parte della retrospettiva
sulla New Hollywood non ha rappresentato soltanto una prosecuzione di quanto già
visto nel programma dell’edizione 2013:
il bilancio finale, dopo due anni di intense visioni, ci presenta infatti un cammino
costruito con cura, all’interno di una selezione capace di essere al contempo chia-
Tutti i film della stagione
rificatrice delle istanze portate avanti del
filone, ma anche attenta ad aprirsi alle sue
derive meno celebrate e purtuttavia non
meno significative. Classici consolidati e
nuove (ri)scoperte, insomma, che iniziano
con il recupero di alcuni titoli fondamentali omessi dall’edizione 2013 - su tutti Il
laureato di Mike Nichols, regista purtroppo scomparso proprio quando il festival
andava a iniziare; dall’altra parte, però,
i selezionatori hanno cercato di entrare
più in profondità in un movimento troppo spesso considerato semplicemente di
rottura rispetto alla tradizione del cinema
americano classico e che, invece, appare
ora aver proceduto anche nell’ottica di
una rispettosa rimodulazione della stessa.
Se infatti titoli come Taking Off di Milos
Forman segnano in maniera decisamente
marcata l’apertura di Hollywood a tematiche perfettamente addentro alla turbolenta
temperie del pericolo (il confronto genitori/figli, la cultura hippy, il disagio umano
e transgenerazionale), è anche vero come
molti dei titoli che hanno fatto grande
questo momento della storia del cinema
riflettono con piglio quasi metalinguistico
il senso di appartenenza a una società che
è anche e soprattutto di confronto con il
cinema dei “padri”.
In questo senso è interessante l’idea
di non limitarsi al cinema schiettamente
autoriale, ma di allungare il passo anche
verso quei prototipi di cinema di genere
che mostrano gli innesti del nuovo cinema all’interno della macchina produttiva
hollywoodiana. Ecco dunque titoli di prima grandezza come Lo squalo di Steven
Spielberg, o dimenticati b-movie come
Rolling Thunder di John Flynn, che illustrano le cooordinate emotive e spettacolari di un modo di fare cinema che
non contrappone necessariamente arte e
industria. Le possibilità che questo dialogo apre sono a dir poco esaltanti, laddove lasciano intravedere spiragli di sperimentazione all’interno delle strutture più
rigide imposte dai generi e così, persino
i filoni che convenzionalmente associamo
proprio alle derive più commerciali della
Hollywood d’epoca (come il catastrofico
che furoreggiava nei Settanta) si aprono
a possibilità autoriali spiccate. Lo squalo
è infatti tanto un prodotto figlio della nascente cultura del blockbuster, quanto un
tributo più ampio alle atmosfere dei western fordiani o dei classici della letteratura alla “Moby Dick”. A questo va aggiunto
il Phase IV di Saul Bass, che reinventa il
filone apocalittico degli animali assassini
in un’ottica lisergica e straniante.
Appare in tal senso congruo il percorso
compiuto con questa retrospettiva bienna-
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le, soprattutto se si contestualizza la stessa
nel più ampio lavoro compiuto dal festival
nel corso degli anni passati, oscillato fra gli
omaggi ai registi che il nuovo movimento ha
posto all’attenzione del pubblico (John Carpenter, George Romero, Walter Hill) e quelli
agli autori “di confine”, che hanno cioè lavorato tanto nella stagione dello Studio System che in quella del cinema qui sotto la
lente (John Huston, Robert Aldrich, Joseph
Losey). Alla luce di simili considerazioni, la
scelta di un simile percorso appare intelligente e necessaria.
AFTER HOURS
Da un paio d’anni la sezione After Hours
ha intrapreso un percorso che è prosecuzione del vecchio Rapporto Confidenziale –
con l’omaggio ai generi più forti della scena
contemporanea – puntando al contempo a
quella centralità di culto che hanno spazi
come Midnight Madness al Festival di Toronto, ma senza necessariamente inseguire
la collocazione in notturna. Uno spazio di
tendenza, insomma, privilegiato per generi
come l’horror o il noir, in cui far confluire
anche piccole personali di autori meno allineati, del cinema di ieri e di oggi. In tal
senso, possiamo ripartire il programma
di quest’anno in tre parti: la prima con gli
inediti e le nuove scoperte, e le altre due,
con l’omaggio all’americano Jim Mickle
e all’italiano Giulio Questi (scomparso subito dopo la fine della manifestazione, per
il quale dunque la retrospettiva assume il
malinconico valore di un commiato e di un
testamento artistico).
Le coordinate tracciate dal percorso
risultano quindi molteplici, spaziano dal
ricordo dei maestri al consolidamento del
rapporto che il festival intrattiene con alcuni autori privilegiati (il Sion Sono di Tokyo Tribe, scatenato gangster movie in sala
hip hop), senza dimenticare i nomi che già
serpeggiano nella schiera degli appassionati dei generi. La sensazione è quella di un
bizzarro e interessante percorso fra culture
e tempi differenti, dove persino il programmatico piglio da B-movie di un The Guest
(di Adam Wingard) o l’estemporaneo esperimento di noir metropolitano italiano di In
guerra (di Davide Sibaldi) assumono una
loro ragione d’essere. Titoli come Cold in
July di Jim Mickle (dall’omonimo e bellissimo romanzo di Joe Lansdale), non a caso,
insistono proprio sul tema del conflitto
generazionale mentre intrecciano ironia al
noir più disperato, radiografando una tendenza alla sovrapposizione di toni e temi
che ben si confà alle strategie predilette
dalla sezione.
Film La vera sorpresa è comunque rappresentata dall’horror di David Robert Mitchell,
It Follows, storia di una maledizione che
perseguita alcuni adolescenti nella forma di
una misteriosa creatura che può essere scacciata solo “passandola” ad altri attraverso
un rapporto sessuale. Interessante metafora
del conflittuale rapporto fra le vitalistiche
pulsioni adolescenziali e una più sotterranea paura di vivere tipica dei nostri tempi
dal futuro incerto, il film si presenta con una
struttura da teen drama indipendente, porosa quanto basta per funzionare anche su un
livello più schiettamente epidermico, regalandoci un’opera stratificata e che rinnova,
finalmente, le finalità più importanti di un
genere altrove molto appiattito sulle dinamiche dell’autoreferenzialità.
FESTA MOBILE
L’esuberante varietà di titoli proposti
nella consueta sezione allargata di Festa
Mobile marca ancora una volta il desiderio di libertà di una manifestazione che
non si preoccupa di far tracimare le coordinate tematiche da uno spazio all’altro. Sorta di riproposizione “in grande”
dello spirito che già anima After Hours,
Festa Mobile rappresenta infatti la parte
Tutti i film della stagione
libera e inafferrabile del festival, animata
proprio dalla mancanza di una direttrice
unica, perché interessata soprattutto alla
varietà e al rimescolamento delle aspettative. Ecco dunque gli omaggi a titoli del
passato ripresentati in smaglianti versioni
restaurate (Via col vento, Profondo rosso,
Allegro non troppo, Il gabinetto del dottor Caligari), che si accompagnano alle
nuove scoperte e ai titoli di più grosso
appeal commerciale, sia che provengano
dai più consolidati maestri (il Woody Allen di Magic in the Moonlight), che dai
futuri talenti di domani. Applauditissimo
in tal senso, e già destinato a furoreggiare
ai prossimi premi Oscar, è stato Whiplash,
di Damien Chazelle, storia del difficile
rapporto tra un aspirante batterista e un
inflessibile insegnante modellato sui classici canoni del sergente di ferro alla Full
Metal Jacket, e interpretato dal grandissimo caratterista J.K. Simmons. Un canovaccio essenziale e non particolarmente
originale, che funziona in virtù della sua
trascinante forza emotiva e della perfetta collaborazione tra montaggio, fisicità
interpretativa e brani musicali, quasi una
specie di Saranno famosi ricalibrato su
due singoli antagonisti.
Fra le nuove scoperte segnaliamo invece
l’inglese ‘71, di Yann Demange, tesissimo
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racconto metropolitano su un soldato inglese rimasto indietro nei quartieri di Belfast
dopo un tentativo fallito di sedare una rivolta dell’IRA: la macrostoria si accompagna
al racconto di sopravvivenza che denota la
capacità di realizzare un cinema di grande
intrattenimento, ma con un occhio saldo alla
realtà dei conflitti umani e dello scontro di
idee.
Sempre in odore di Oscar è Wild, di JeanMarc Vallé (veterano dei premi, essendosi
rivelato con il celebre Dallas Buyers Club),
prodotto e interpretato da Reese Whiterspoon, che ricostruisce la traversata del deserto
americano compiuta a piedi da Cheryl Strayed nei primi anni Novanta, come prova di
sopravvivenza e rinascita interiore. Ancora
il racconto di un personaggio al limite (con
più di un tratto in comune con la protagonista di Tracks, di John Curran), per il resoconto di un’odissea che ben si collega ai
temi esplorati nella retrospettiva della New
Hollywood, quasi a chiudere idealmente un
cerchio: non sorprende pertanto che la pellicola abbia avuto il compito di chiudere la
manifestazione torinese, come a voler marcare proprio la sua natura di epigono rispetto
a un percorso tematico e a una tendenza a
riflettere sulle coordinate del cinema americano di ieri e di oggi.
Davide Di Giorgio
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Gennaio-Febbraio 2015
UN PICCIONE
SEDUTO SUL RAMO
RIFLETTE
SULL’ESISTENZA
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L’ULTIMO LUPO
di Jean-Jacques Annaud
di Roy Andersson
BOYHOOH
di Richard Linklater
IL SALE
DELLA TERRA
di Wim Wenders,
Juliano Riberio Salgado
CENERENTOLA - di Kenneth Branagh
FAST AND FURIOUS
Euro 5,00
di James Wang
Fly UP