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L`Ivrea invisibile – Liceo Gramsci

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L`Ivrea invisibile – Liceo Gramsci
LA PIATTA
PIAZZA
RONDOLINO
ALBERGO
DIURNO
SAN
BERNARDINO
TALPONIA
FABLAB
QUARTIERE
SAN
GIOVANNI
TALPONIA
Anno 2116. Soggetto 642 cammina lungo via Jervis. E' l'ora 16 del giorno. Ha
appena finito una giornata di lavoro e riflette sulla monotonia della sua vita.
Lavora nello stabilimento 3 del settore 12 come operaio specializzato di grado
5. Un buon lavoro. Ma lui non è soddisfatto, non è questo il futuro che
desiderava. Da piccolo lo immaginava diverso, pieno di meraviglie ed
innovazioni. Invece ora tutto sembra grigio e monotono. Anche il suo
appartamento: il 15 del terzo piano della palazzina E. Poi all'improvviso
accade qualcosa di... inaspettato. Un volantino gli finisce sul volto.
VENITE A VIVERE NELLA NUOVA UNITA' RESIDENZIALE OVEST!
La prima unità residenziale vivente della storia!
Grazie alle innovazioni dell'ingegneria genetica abbiamo creato qualcosa di Straordinario!
Partendo da geni di Talpus Domesticus Aediles e Pachidermas Muriforme abbiamo sviluppato la
prima talpa abitabile del mondo.
Nel suo comodo e capiente stomaco accuratamente deacidificato, possono trovare posto
appartamenti familiari o moderni e ampi loft.
L'intestino tenue è adibito a pista ciclabile con stazione di bike sharing nel colon traverso ed uscita
privilegiata nei campi auto-concimati. L'illuminazione degli interni è garantita dai lucernari posti
sugli occhi.
Per sua stessa natura l'animale si posizionerà sottoterra rendendo l'ambiente caldo d'inverno e
fresco d'estate; integrandosi perfettamente nel paesaggio naturale.
Appartamenti disponibili
Se interessati presentarsi in Via Miniere dell'ora 15 all'ora 18
Seguito dal logo della ditta: una talpa che tiene in mano un uomo.
Immediatamente gli viene un lampo. Sa come cambiare la sua vita. Devia dal
percorso abituale verso casa e si incammina verso la via scritta sull'annuncio.
Appena giunto in prossimità della sua meta viene pervaso dal profumo di
glicine, dal cinguettare degli uccellini e dal ronzare degli insetti che lo
accompagnano lungo il viale che porta all'ingresso. Lì trova ad attenderlo due
uomini distinti in giacca e cravatta. Si presentano come Roberto e Aimaro.
Niente numero di matricola. Strana irregolarità, nessuno usa più il proprio
nome.
Dopo le presentazioni i due individui accompagnano Soggetto 642 a fare un
giro del sito. Gli appartamenti non si vedono quasi , stanno camminando su di
un prato verde quando Aimaro spiega che si trovano proprio sotto la schiena
della talpa e l'ingresso è dall'altra parte, dove vede la foresta di pini.
Mentre camminano 642 sente che quel posto è davvero meraviglioso al
confronto con il caos della città. Qua l'uomo si integra davvero a pieno con la
natura fondendosi in essa.
Arrivando quasi all'ingresso 642 si sofferma a guardare nell'occhio-lucernario
della talpa. E' davvero ben congegnato, ma ha un che di triste.
Mentre pensa questo sente una scossa come un terremoto. Si gira verso
Roberto in cerca di spiegazioni ma vede solo la sua faccia stupita e
terrorizzata.
La talpa si sta alzando.
Mentre i due signori cadono 642 si sente stringere dalla zampa della talpa che
lo porta verso di sé emettendo un verso poderoso. Lui è terrorizzato, guarda
gli occhi vuoti della talpa gigante pensando oramai che lo voglia divorare,
quando, ad un tratto, gli viene un'idea e le rivolge la parola.
“Ciao, io sono Adriano, e tu? Come ti chiami” le dice ed a quelle parole
l'animale si ferma ed una gigantesca lacrima le scende dall'occhio sinistro.
“Non hai un nome? Sei arrabbiata per questo? Effettivamente UNITA'
RESIDENZIALE OVEST non può essere definito un vero nome... tu sei la prima
talpa-città al mondo, dovresti chiamarti... Talponia!”. La talpa con un verso di
felicità depone a terra Adriano e si rimette nella propria posizione.
Sono passati alcuni giorni, Adriano sta facendo trasloco per andare a vivere a
Talponia e la talpa non è mai stata così felice. Dopo questo episodio anche il
logo della ditta è cambiato: ora al posto della talpa con in mano un uomo
mostra Adriano che tiene la talpa sulla sua mano.
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LA PIATTA
Puoi visualizzare il video della “piatta”
al seguente indirizzo:
https://youtu.be/kEMT_l8__o4
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FABLAB
DIARIO DI (UN) LABORATORIO
30 aprile 2014
Eccomi qua. Sono pronto, fra una settimana mi inaugurano. Non vedo l'ora! Certo che però
potevano costruirmi un po' più grande. Voglio dire, ci sono diversi tavoli da lavoro, una lavagna
multimediale, due computer, tre stampanti 3D... È tutto molto bello, tutto moderno, però non c'è
molto spazio; potevano impegnarsi un po' di più. Già non mi trovo in un bel posto: lontano dal
centro città, una lunga strada da percorrere per raggiungermi, senza nessun cartello che indichi la
mia presenza; e mi trovo addirittura dentro un altro edificio, l'Università di Ivrea. Ma è mai
possibile? Come potrò mai essere conosciuto dalla gente se sono rinchiuso qui?
1 maggio 2014
Ieri mi sono arrabbiato in modo eccessivo, ma adesso sono un po' più calmo. Oggi ho avuto
tempo per ragionare. Diciamocela tutta: mi hanno costruito a Ivrea, non in una grande città.
Molto probabilmente, anche se fossi ben visibile, attirerei comunque pochi interessati. È una
piccola città, che vive per il Carnevale, chi ha tempo da dedicare a me? Nutro profondi dubbi su
questa mia inaugurazione, inizio a pensare che sarà un fallimento.
6 maggio 2014
È la vigilia. Mi hanno dato una bella sistemata: ora sono pulito e riordinato. Metteranno in
funzione due stampanti per mostrarle ai visitatori; ho sentito che allestiranno anche un piccolo
rinfresco. Dai, fra meno di 24 ore sarò aperto al pubblico. Ammesso che ci sia un pubblico.
8 maggio 2014
L'inaugurazione è andata decisamente meglio del previsto. Una gran folla ha varcato la soglia:
c'erano studenti, professori, esperti nel settore, semplici appassionati. È stato divertente ascoltare
i loro discorsi e i loro commenti. E poi mi hanno riempito di complimenti, sembravano tutti
davvero entusiasti per la mia apertura. Hanno anche apprezzato il rinfresco: non è rimasto nulla!
Non mangiano a casa loro questi parassiti? Va beh, poco importa. La giornata di ieri ha avuto
successo; ora non mi resta che sperare che non si fermi tutto qui. Ho ancora qualche dubbio. E
comunque, avevo ragione io: dovevo essere più grande. Se fossi stato più spazioso, i visitatori
sarebbero stati più liberi di muoversi, e magari quel ragazzino sbadato non si sarebbe scontrato
con quel signore, evitando così di sporcare con la Coca Cola le mie nuovissime piastrelle. Uffa.
31 maggio 2014
Non scrivo più nulla da diverse settimane perché sono stato molto impegnato ultimamente. Dopo
l'inaugurazione, sono stati organizzati numerosi altri incontri, che hanno avuto ugualmente
successo. Hanno parlato di programmazione, di stampa 3D, di droni, di robot... Ma soprattutto,
tutto ciò è avvenuto da me, ero io il luogo di ritrovo: sono lusingato da tutta questa attenzione. Le
cose sembrano migliorare, il mio nome inizia a diffondersi, sto diventando popolare; forse mi
sbagliavo a essere così pessimista. Fra poco però inizia il periodo estivo: andranno tutti in vacanza
fino a settembre?
4 giugno 2014
L'estate sembra promettere bene: a quanto pare saranno organizzati incontri anche nei mesi di
giugno, luglio e agosto. È addirittura previsto uno stage di una settimana a luglio, dedicato ai
ragazzi. Speriamo che venga gestito bene, non voglio che troppi ragazzini incapaci vengano a fare
danni.
3 settembre 2014
Il periodo estivo è stato interessante e proficuo. Anche lo stage per i ragazzi si è svolto senza
problemi. Ora però si riparte: comincia un nuovo anno, e qui dentro sembrano tutti molto
motivati.
15 ottobre 2014
È passato più di un mese, e a quanto pare qui vogliono puntare sulle giovani menti: nelle
settimane passate, ogni mercoledì si sono ritrovati qui alcuni studenti da varie scuole, desiderosi
di conoscere il mondo dell'elettronica, della programmazione, della stampa 3D. Sono davvero
soddisfatto, finora sono stato un successo; non immaginavo una tale affluenza di “makers”. Sì,
così li chiamano adesso, quelli che si riuniscono qui da me. Li chiamano anche “artigiani digitali”.
Insomma, artigiani moderni, che si propongono di realizzare un progetto, imparando a lavorare in
gruppo; e, grazie a me, possono usufruire di tutte le tecnologie di ultima generazione, utilizzate
per la produzione di oggetti e la loro automazione. Eh beh, a usare questi paroloni mi sento
ancora più importante. Ormai non mi preoccupo neanche più di essere piccolo e nascosto in un
altro edificio fuori città: sono famoso, continuano a farmi pubblicità.
12 novembre 2014
È passato un altro mese, e qua si continua a lavorare. Sono contento, pian piano si stanno
formando gruppi di lavoro, e ogni tanto vedo qualche faccia nuova: bene, molto bene, divento
sempre più famoso.
14 gennaio 2015
È arrivato il nuovo anno: dopo una pausa per le vacanze di Natale, tutti i ragazzi sono tornati al
lavoro. I loro progetti iniziano a prendere forma. Ci sono anche alcuni ragazzi più giovani: non
portano avanti un progetto, ma sono qui per imparare le basi. Davvero interessante, non avrei
mai immaginato di poter ottenere una simile popolarità in meno di un anno.
11 febbraio 2015
Eccolo qua, è arrivato: è la vigilia del famoso Carnevale di Ivrea. Un periodo di grande festa,
sfilate, travestimenti e arance. Tante, tante arance. Ivrea fra poco si riempirà di colori e di gente.
Anche qui si parla di questo evento, molti dei ragazzi hanno intenzione di partecipare alla
“Battaglia delle arance”. Sono tutti eccitati, attendevano con ansia questo evento. Tuttavia, tutto
questo durerà poco. Poi Ivrea tornerà ad essere spenta e sperduta come prima.
25 febbraio 2015
Siamo di nuovo tutti qui, io e i miei “makers”. Il Carnevale è finito, la gente se n'è andata, niente
più feste, niente più sfilate, niente più arance; Ivrea è tornata ad essere la piccola città di prima. I
festeggiamenti l'hanno stancata: ora ha bisogno di un lungo periodo di riposo, fino al prossimo
Carnevale. Ma io sono ancora qui, piccolo, nascosto, ma attivo. I giovani studenti si riuniscono
ancora qui insieme a professori ed esperti, e continueranno a farlo. Perché Ivrea non è solo il
Carnevale. Eh no, ci sono anch'io, mica sono qua per caso.
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QUARTIERE SAN GIOVANNI
Puoi visualizzare il video di Quartiere
San Giovanni al seguente indirizzo:
http://youtu.be/o34aKPWEO3w
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PIAZZA RONDOLINO
IL DISCO STREGATO
A 19 anni ho conosciuto Elisa.
Era estate: il sole, il mare e il profumo di spensieratezza la rendevano ancora più bella.
Quando decisi di parlarle per la prima volta provai la stessa emozione di quando, a carnevale, il primo
giorno di tiro entra il primo carro da getto in piazza.
Le mani e le gambe ti tremano, ma sei troppo felice per ammetterlo. Sei consapevole che quando sarai
là sotto, con il carro a un soffio dal tuo viso e attorno il caos, tutto andrà bene. Ti senti libero, la piazza
intorno a te scompare e trovi tutto quel coraggio che non pensavi di avere.
Quando però il carro è immobile, all’ingresso della piazza, nell’attesa del segnale per partire e dare
inizio alla battaglia, ti senti mancare la terra sotto i piedi e allo stesso tempo tutti i sensi si potenziano, ti
sembra di poter affrontare un esercito.
Con lei andò così e anche con lei, come per quel primo carro, trovai la forza di buttarmi.
“Papà! La mamma dice che bisogna andare a dormire!! Mi racconti tu la storia della buona notte?”
Spensi il computer, diedi un bacio a Elisa che mi stava guardando con uno sguardo complice e
soddisfatto e andai da lui.
“Allora, di cosa vogliamo parlare questa sera?”
“Raccontami ancora del piazzale stregato!!”
Sorrisi, poi iniziai, cercando di volare con la mente indietro nel tempo.
“Il piazzale stregato, come lo chiami tu, è il piazzale del Rondolino, ed è vittima di un terribile
sortilegio. Condannato per 359 giorni all’anno a un triste, spento e anonimo silenzio.
Dipinto di grigio e monotonia, vede scorrere il tempo e con esso la gente. Vede passare i mesi e le
stagioni con un silente ma vivo desiderio di carnevale. Perché è il carnevale l’unica vera magia in grado
di spezzare il sortilegio. Solo per sei giorni, ma sei giorni di passione, allegria, euforia, entusiasmo:
giorni di vita.
Il carnevale, infatti, è quello strano e potente incantesimo che travolge tutto, è una pennellata di colori
e profumi che, come un tocco di bacchetta magica, rianima ogni cosa.
Durante i giorni del carnevale, fin dall’antichità, tutto è possibile. Sono giorni speciali in cui anche le
persone più povere e più emarginate potevano dire la loro, potevano sbeffeggiare i severi tiranni che
per un intero anno li avevano torturati con la miseria e la fame. Chiunque poteva diventare qualsiasi
cosa o persona volesse. Si era liberi, e lo si è tutt’oggi. Devi sapere, che l’incantesimo sul Piazzale ruota
intorno a un piccolo, ma potentissimo disco orario stregato.
E’ lui infatti, che fa scorrere il tempo così lentamente durante l’anno e poi lo accelera all’improvviso
durante i festeggiamenti. È un circolo vizioso che non si può spezzare e che
fa vorticare tutto l’anno attorno ad un unico, attesissimo evento.
Ci si rende conto che si è vicini al carnevale quando, il 6 gennaio, si sente volteggiare per la città di
Ivrea il primo suono dei pifferi. Sono loro che, con la loro melodia acuta e allegra danno il via alle
danze. Da quel pungente mattino del 6 gennaio possono passare solo alcune settimane oppure più di
un mese prima dell’inizio vero e proprio della battaglia delle arance, ma incredibilmente quel tempo
vola. In un attimo ci si ritrova con la città completamente imbandierata, simile a una dama di corte,
sembra si voglia fare elegante per il ballo in maschera più importante dell’anno e con i suoi colori
affascinare l’intero reame. Non c’è uomo infatti, che non rimanga ammaliato dalla vivace bellezza di
questa città così speciale.
Sono passati secoli ormai dal primo carnevale, che si tenne nel così lontano e sbiadito 1808, ma non è
mai diminuita, anzi, se possibile aumenta di anno in anno, la passione dei suoi fedeli partecipanti. Una
caratteristica di questo incantesimo infatti, è il creare un invisibile ma potentissimo filo di colori e profumi
che lega ogni ragazzo, uomo o anziano alla città. Essi infatti, potrebbero trovarsi all’estremo opposto del
mondo ma, allo scattare della mezzanotte del “giovedì grasso”, saranno sempre risucchiati dal desiderio di
trovarsi nella magica città imbandierata. Il loro cuore è stato avvolto in quel filo come dentro un caldo
gomitolo di emozioni e districare quest’intreccio è praticamente impossibile.
Tutti i cuori poi, iniziano a battere all’unisono quando, il sabato sera, dal balcone del municipio nella
piazza principale di Ivrea, la voce squillante e decisa del Sostituto Gran Cancelliere annuncia il nome della
Vezzosa Mugnaia, eroina della festa che, in tempi oscuri di crudeltà e sofferenza, aveva fatto giustizia e
riportato la pace e la serenità uccidendo il perfido e avido tiranno.
La città esplode in un grido di gioia quando la vede affacciarsi, completamente vestita di bianco, da quel
balcone sempre troppo lontano. È il bianco della purezza e della fedeltà infatti, che sta al centro di questi
giorni così confusi. Per definizione d’altronde, è il bianco l’unione e la somma di ogni colore, così come il
carnevale unisce tutti i cuori che sono ormai stati pervasi dai colori delle rispettive squadre.
Già, le squadre.. forse sono il particolare più suggestivo e unico di questa manifestazione. Questi gruppi di
ragazzi a piedi indossano una divisa e rappresentano le forze del popolo contro il potere del tiranno,
raffigurato con i carri da getto, dai quali spaventosi uomini e donne mascherati e ingigantiti dalle loro
imbottiture sfidano ogni piazza, trainati da quattro cavalli. Quando arrivano poi le due di pomeriggio della
domenica e il corteo storico inizia il suo giro per le vie della città, la battaglia delle arance ha inizio. In ogni
piazza o piazzale, come nel nostro caso, che fino a poco prima era stato silente, immobile, sospeso sul filo
della tensione, si scatena la magia. Come tanti schizzi di colore la piazza prende vita e quel profumo di
arance che fino al mattino non era stato altro che un lieve velo sulla città, esplode vigorosamente
pervadendo l’aria prepotentemente. Le grida euforiche rimbalzano da un luogo all’altro della città e ogni
partecipante dà anima e corpo alla sua squadra. I carri percorrono circolarmente il perimetro di ogni
piazza e ad ogni carro svanisce un pezzetto di carnevale. La fine della battaglia è sempre più vicina e con
lei la fine della magia.
La sera del “martedì grasso”, ultimo giorno di tiro, si celebra il “funerale del carnevale”.
Lo stato maggiore percorre le vie centrali della città trascinando le tintinnanti spade a terra, pervadendo
l’aria di malinconia e immediata nostalgia.
Le bandiere non verranno rimosse nei giorni subito successivi al termine della manifestazione, come se ci
fosse un tacito desiderio di prolungare il più possibile quella così inebriante magia.
I giorni passano, le bandiere spariscono e la piazza torna a colorarsi di grigio e monotonia.
Durante una normale giornata di fine autunno, gli alberi che costeggiano il piazzale del Rondolino si
affacciano sul torbido e spento naviglio, assumendo una sfumatura di colore che riporta la mente
all’arancione intenso e profumato delle arance. Il centro della piazza è come sotto una pesante coperta
scura che appiattisce ogni cosa e la rende triste. Le macchine, qua e là, sono le uniche chiazze di colore
che caratterizzano la piazza, anche questo però, si perde nella monotonia del vuoto. Fin dalle prime ore
del mattino gruppetti di ragazzi lo percorrono per dirigersi nelle scuole circostanti, ma nell’attraversarlo
sembrano indifferenti a tutta quella desolazione, forse troppo impegnati a pensare alla giornata che li
attende, forse troppo stanchi o forse perché, ai loro occhi, non è altro che un parcheggio.
Sembra che l’incantesimo che lo ha colpito consista anche in questo: cancellare i ricordi e le immagini di
festa che ogni persona che ha vissuto almeno una volta il carnevale di Ivrea dovrebbe avere in se.”
Trasalii e mi resi conto che Davide ormai stava dormendo. Sul suo volto si era disegnato un delicato
sorriso e mi immaginavo la sua mente correre veloce ai giorni di follia di cui gli avevo parlato, me lo
immaginavo in piazza, con la sua divisa e la sua voglia di farsi sentire, di dare il suo contributo a quella
piccola e pazza rivoluzione.
Rivoluzione, cambiamento... forse queste idee abitano anche nella mente di tutti quei ragazzi che, ogni
giorno, sono costretti, come in una prigione di asfalto, a trascorrere le loro giornate in quel piazzale
apparentemente così triste. Sono ragazzi immigrati e quel crudele disco orario, insieme con la sua
maledizione, ha risucchiato anche loro. Giunti da terre lontane, inconsapevoli di ciò che li avrebbe attesi,
ricchi di sogni e aspettative, ora si ritrovano qui, schiavi del tempo e della solitudine a trascorrere le loro
giornate nell’umiliazione e nella rassegnazione dell’elemosina.
Ma il sortilegio non fa sconti, non guarda razza, colore della pelle, lingua, progetti; tutto deve essere
anonimo e spento. Eppure la traccia di quei sei giorni è lì, nelle crepe dei mattoni rossi della ciminiera
spenta e storta, nei tronchi degli alberi lungo il naviglio, nelle bifore della torre di Santo Stefano che si
affaccia sul piazzale. Sarebbe bello se a Davide una delle prossime sere potessi raccontare la seconda
parte della favola, quella che narra di un gruppo di giovani folli che riuscirono a spezzare la maledizione
colorando della gioia del carnevale anche i giorni e i mesi successivi. Ognuno dei sei giorni magici
divenne una latta di colore e da lì loro attinsero enormi pennelli per colorare tutta la piazza. Poi vennero i
poster, le foto degli aranceri e dei carri da getto e infine una colonna sonora permanente che fischiettava
come brezza nelle orecchie di chiunque passasse di lì.
Ecco, sì, penso che a Davide la racconterò proprio così: la follia dei fischietti colorati trasformò quel triste
parcheggio nella più bella piazza di Ivrea. Mentre già mi assaporavo la meraviglia stampata nel suo
sguardo, mi accorsi che stavo fischiettando la canzone del carnevale… si, il sortilegio era stato spezzato
per sempre.
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SAN BERNARDINO
La voce perduta
Un'oasi di pace: il fruscio delle foglie, il vento tra i cespugli, gli uccelli, le cicale, uno scoiattolo che corre
veloce da un ramo all'altro.
E poi, appena girato l'angolo, si ripiomba nella cupa atmosfera cittadina.
Si sentono le macchine che sfrecciano, i treni in arrivo alla stazione; ad un orecchio attento arriverebbe
anche il suono dei tasti di una macchina per scrivere. Di un ricordo. Di un passato. Forse troppo lontano.
In pochi fanno caso a me, le mie linee sono quelle semplici dello stile rinascimentale e spesso passo
inosservato.
A chi ha voglia di dedicarmi qualche minuto, vorrei raccontare una storia; quella di una città, che dopo
aver avuto una brillante carriera si addormenta e si perde nel Canavese; la storia di umili persone, che
sono costrette a rinunciare al sogno di una vita; la storia di un'antica chiesetta rinascimentale, privata
della sua allegria e della sua vitalità.
Il 13 Agosto 1868 è nato, ad Ivrea, un bambino destinato a scrivere pagine memorabili nella storia di
questa piccola cittadella situata nel bel mezzo del Canavese. A questo bambino è stato dato il nome di
Camillo.
“Sono solo idee utopiche”, “Nulla di tutto questo verrà mai realizzato”, “E' solo una perdita di tempo”:
queste sono le critiche fatte riguardo al progetto di Olivetti. Quest'ultimo, figlio di un commerciante di
tessuti, socialista, si era riproposto di creare una fabbrica in cui l'aspetto più importante era quello
sociale. Voleva dirigere un'attività gestita come una grande famiglia in cui i dipendenti non venissero
considerati unicamente come lavoratori, ma come persone.
L'apice di questo progetto è stato raggiunto dal figlio di Camillo (l'Ingegnere), Adriano. Costui ha creato i
primi nidi e le prime colonie, permettendo così ai dipendenti di dedicarsi più serenamente al lavoro in
fabbrica per poi occuparsi di quello familiare e casalingo e di quello nei campi.
L'Ingegnere è stato il primo a curarsi di me. Trovandosi la sua fabbrica nelle mie vicinanze, ha deciso, nel
1910, di acquistare l'intero complesso per poi trasformarlo nella sua abitazione.
Anche se non vorrei fare preferenze, il mio idolo è sempre stato Adriano. E' stato lui, infatti, a farmi
tornare in vita. Egli ha compreso il giovamento che avrebbe potuto trarre da me e dal mio vicinato: così
ha deciso di avviare un progetto di riqualificazione dell'area.
Da quel momento, ai miei piedi, ogni giorno, si sono affollate migliaia di persone; con il ricordo del
suono della mia campana, di cui sono stato privato secoli or sono, richiamavo i lavoratori. Questo, per
loro, era una dolce melodia che li accompagnava al termine della giornata lavorativa e li svincolava da
ogni preoccupazione. Al termine di giornate in fabbrica tutta la mia famiglia, i dipendenti, mi
raggiungeva per condividere con me le sfuriate dei capi, le informazioni sulla nuova e sensazionale
macchina per scrivere, le risate e le battute fatte con i colleghi. Arrivavano per mangiare alla mensa
costruita qui di fianco, per sedersi al bar e fare una partita a carte, molti decidevano di fermarsi in
biblioteca, per fare ricerche per il lavoro dell'indomani, alcuni decidevano di dedicarsi al laboratorio di
fotografia, altri ancora, i più attivi, decidevano di fare una partita a bocce oppure di andare a fare una
passeggiata su per Montenavale.
In questo scenario di piena attività io mi sentivo vivo.
E adesso, da quando il mio idolo non c’è più, mi sembra di essere sprofondato nel dimenticatoio. Da
quando ho perso la mia voce, le persone non si ricordano più di me e di tutto quello che mi circonda.
Quello che prima era un luogo pieno di vita ed emozioni è diventato un posto vuoto e triste. Un luogo in
cui solo gli uccelli sugli alberi, o le formiche tra i fili d’erba, sembrano essere assidui visitatori. Ed è
proprio con il loro solleticare lungo le mie mura che mi rendo conto di non essere completamente solo.
Le piante che mi sono cresciute intorno, i fiori che sono sbocciati sembrano quelli che gli scrittori sono
soliti descrivere nei loro romanzi. Quelle storie che raccontano di luoghi selvaggi, inesplorati dove regna
ancora in tutta la sua bellezza la natura. Ed è così che io mi sento. Mi sembra non più di essere in una
città del ventesimo secolo, in una città cresciuta e sviluppata, ma anzi ho l’impressione di essermi perso
tra un albero e l’altro in qualche foresta lontana. E in fondo questo aspetto, questo angolo di verde, non
mi dispiace così tanto, perché poi alla fine tutti vanno in pensione.
So cosa state pensando: io sono solo un modesto campanile. Però posso garantirvi che, con uno sguardo
dall'alto, sono stato testimone di grandi idee e, a modo mio, ho partecipato attivamente ad esse.
A chi ha voglia di dedicarmi qualche minuto, posso raccontare innumerevoli storie ambientate in epoche
molto diverse: le preghiere francescane, i sospiri di sfinimento, i primi amori.
Sono stato privato della mia voce, della mia campana, ma non ho ancora perduto la memoria o la voglia
di raccontare la mia storia.
Comunque piacere, mi chiamo Campanile, e chi mi protegge è Bernardino, San Bernardino.
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ALBERGO DIURNO
Non salta esattamente all'occhio.
Come tutte le cose abbandonate, e forse, in parte, dimenticate, resta in quella
dimensione che non è invisibile, ma ordinaria, a cui l'occhio umano non presta
attenzione, se non spinto da qualcosa o qualcuno che glielo indichi.
Uno sguardo esterno, distratto, lo descriverebbe come un edificio nascosto,
abbandonato sotto il peso dei suoi anni. (Quanti anni? Verrebbe da chiedersi. Ma il
suo aspetto spesso non invoglia a farsi domande.)
In realtà, l'Albergo Diurno è sospeso. Sospeso sulla dora, di cui le finestre malandate
respirano l'odore e gli schizzi. Sospeso accanto a delle rotaie e a un treno che
sembrano essere gli unici dettagli che lo collegano alla realtà. Sospeso tra i passanti di
sopra, i canottieri di sotto, e i pendolari che sembrano conoscere per una frazione di
secondo -una galleria- quella via di mezzo in ci l'albergo vive.
E' la via di mezzo in cui inevitabilmente si trova qualcosa con un passato da raccontare
e un futuro da temere. Sembra non averlo un presente. E' ciò che resta di una vita
passata, che cade nella pazienza del tempo, e non resta che uno scheletro del passato,
a testimoniare una storia che nessuno ricorda più.
Come succede davanti a tutte le porte chiuse, però, guardandone l'ingresso, viene da
chiedersi se porta ad un 'dentro' o a un 'fuori'.
Non era né sopra né sotto, né in alto né in basso, né in cielo né in terra, o per meglio dire in acqua … ma nel
mezzo. Stava quasi sospeso, tra i continui passi degli eporediesi e l’ininterrotto scorrere della Dora. Ormai pochi
ci facevano caso, all’Albergo Diurno, quasi facesse ormai parte di un passato grandioso ma dimenticato e da
dimenticare. Eppure lui stava lì incastonato nella viva roccia morenica a fianco ad un piccolo ponte verde, largo
abbastanza da permettere il passaggio di un lento treno. Lui stava lì … e guardava “sotto” Ivrea come fa un
vecchio che ormai stanco per i lunghi anni di fatiche non si alza dalla sedia ma si limita a guardare. Certo adesso
si presentava ben diversamente da come doveva essere un tempo ma gli eporediesi, soprattutto quelli giovani,
non erano eccessivamente interessati a scoprirne la storia. Tra questi vi era Federico, per gli amici Fede. A dir la
verità non è che ne avesse tanti ma, come lui stesso diceva, “meglio pochi ma buoni”. Comunque Fede, in
un’uggiosa giornata di novembre, aveva accettato una scommessa fattagli proprio da uno dei suoi “pochi ma
buoni” amici, Edo. Questa consisteva nell’entrare furtivamente, essendo vietato, in un hotel abbandonato ad
Ivrea … l’Albergo Diurno. Fede aveva acconsentito a fare ciò non tanto perché fosse un ragazzo coraggioso ed
intrepido ma perché essendo il primo quadrimestre aveva ben poco da fare e molto probabilmente avrebbe
finito per perdere o sprecare tutto il pomeriggio. Per questo motivo, suonata l’ultima campanella e sorbita
l’ultima “tediante” ora di filosofia Kantiana, si avviò a passo svelto all’ingresso di questo “benedetto” hotel.
Attraversata la passerella, inaugurata pochi anni prima, costeggiò tutto il “lungo-Dora”, con un cenno salutò
Edo, non aveva tempo per lui adesso, ed arrivo a lunghi passi in via Garibaldi dove si trovava l’ingresso. Anche
questo, come d'altronde tutto l’hotel, era particolare … infatti vista così sembrava una semplice terrazzino ma
in realtà da questo si dipartiva, nascosta alla vista dei distratti osservatori eporediesi, una scala in marmo,
ormai annerito e consumato dalle intemperie e dalla mancata cura. La maggior preoccupazione di Fede era
quella di non riuscire a passare inosservato nel momento in cui, con uno scatto, avesse dovuto attraversare un
basso e quasi imbarazzante cancelletto arrugginito, anche perché a pochi metri di distanza vi era una fermata
degli autobus che spesso era stracolma di ragazzi impazienti di prendere il pullman e di concludere la giornata
scolastica. Fortunatamente quel giorno, che non ci è dato sapere con precisione, non c’era nessuno alla fermata
… e nemmeno in strada. Questo fatto avrebbe dovuto stupire Fede ma egli era troppo concentrato sulla sua
missione e dopo aver gettato una rapida occhiata balzò sul terrazzino e solo allora si rese conto delle scale e di
quanto fossero ripide.
Dico “solo allora” perché neanche Fede era sicuro che quello fosse veramente l’ingresso dal momento che tutto
ciò che egli sapeva sugli accessi all’hotel era quello che Edo gli aveva rivelato e che a sua volta lui, Edo, aveva
saputo da fonti a noi ignote. Dopo aver percorso con molta attenzione le scale si ritrovò di fronte ad un portone
semi aperto che con una leggere spinta si aprì e permise a Fede di entrare. Da questo momento in poi tutto ciò
che vide e fece non poteva essere scorto da nessun’altro. Aperto il portone si ritrovò in un ampio atrio privo
però di qualsiasi cosa che potesse suggerire l’antica funzione di questo posto. Tutto in questo luogo sembrava
immobile quasi come quando in una partita di scacchi si è in stallo. L’aria era umida e stranamente pesante,
forse a causa della Dora che immancabilmente rombava sotto i suoi piedi e, scrosciando, si infrangeva contro le
fondamenta di pietra dell’Hotel. Il profumo di un autunno che stava per terminare inondava l’ampio atrio
passando attraverso i finestroni scardinati della facciata orientale, l’unica che dava sul Fiume. L’Hotel si
sviluppava longitudinalmente lungo la parete rocciosa e sembrava aggrapparsi ad essa nel disperato tentativo
di non scivolare verso il basso quasi impaurito dall’acqua e dalle rapide del Fiume che nell’estate tanto
divertivano i molti appassionati di canoa. Dopo un primo momento di sbigottimento Fede si riprese e continuò
la sua perlustrazione. Camminò in lungo e in largo senza però scoprire o scorgere niente di che. Tutte le porte
che fino a quel momento aveva attraversato erano spalancate o comunque leggermente aperte e quindi non
avevano interrotto la sua esplorazione. Continuò in tal modo per tutta la lunghezza del Hotel fino ad arrivare ad
uno stanzino che a Fede sembrava tanto uno sgabuzzino un tempo usato probabilmente come dispensa o
stanza di servizio per il personale. Queste però erano sempre supposizioni nella testa del Ragazzo. In effetti,
pensò Fede, se non fosse stata per la scritta, se pur poco leggibile, “ALBERGO DIURNO” sulla facciata orientale
nulla avrebbe suggerito “l’antica natura” del posto. All’interno di questa stanzetta non vi era nient’altro che una
scrivania di legno, consumata dalle termiti, e un armadio di ferro. Fede, che a dir la verità stava iniziando ad
annoiarsi, ritrovò la curiosità ed iniziò ad ispezionare con rinnovato interesse. Sulla scrivania vi era una matita e
dei fogli gialli a causa del lungo tempo trascorso e dell’umidità, di quelli usati per il fax con i buchi di lato.
L’armadio di ferro invece era chiuso e si presentava imponente, alto quasi quanto il soffitto. Fede si avvicinò con
prudenza ad esso e cercò con cautela di aprire le due ante. Quando vide che l’approccio “morbido” non
avrebbe portato a nessun risultato usò più forza. Lottò contro questo per qualche minuto e dopo un po’ riuscì
ad averla vinta.
Con un forte stridio le due ante si aprirono rendendo manifesto ciò che nascondevano … una porta. Era una
porta, ma diversa da tutte le altre e Fede di questo se ne rese subito conto. Non tanto per la fisionomia (era pur
sempre una porta) quanto per l’energia che essa emanava quasi una sorta di soggezione che colpì il cuore di
Fede. Il Ragazzo smise addirittura di respirare per qualche istante, colto di sorpresa. Infine quasi
involontariamente si accostò ad essa e senza pensarci avvicinò l’occhio alla toppa della serratura. Non provò
nemmeno ad appoggiare la mano alla maniglia … era sicuro che l’avrebbe trovata chiusa. Ci volle qualche
istante perché l’occhio si adattasse all’innaturale oscurità del luogo retrostante alla porta. Passati questi attimi,
che potevano essere secondi, minuti, anni, l’occhio di Fede iniziò a vagare per quel luogo misterioso alla ricerca
di un qualsiasi appiglio alla realtà. D’un tratto questo scorse in lontananza una lieve luce che, man mano che
veniva osservata, si ingrandiva e permetteva di scorgere pezzo per pezzo il luogo circostante. Questo luogo però
variava di volta in volta e non permetteva a Fede di concentrarsi e visualizzarlo con precisione. Una volta gli
sembrava di aver scorto uno sconfinato prato verde mosso da una leggera brezza. Un’altra volta i lunghi pendii
di un monte innevato e intoccato sorvegliati dall’alto da un’aquila reale. Un’altra volta ancora di aver visto
l’immenso Universo, colorato dalle infinite nebulose e galassie. Rimase a contemplare dalla toppa della
serratura finché non venne destato da un rumore strano, o meglio dalla mancanza di un rumore … dello
scrosciare della Dora. Quando si tirò su (essendosi dovuto inchinare per poter vedere dalla toppa) la schiena gli
doleva e una lunga barba bianca gli pendeva dal mento … ma a questo Fede non fece caso. A passi lenti si
affacciò alla finestra che si trovava nel medesimo stanzino e guardò verso il basso … niente, non vi era più
acqua ma solo il triste e secco letto del fiume. A quel punto Fede non alzò lo sguardo verso il cielo, altrimenti
avrebbe sicuramente notato le nuovissime auto-volanti messe da poco in commercio o le bici-razzo, ma si
limitò a guardare di fronte a sé, ovvero nel MEZZO e decise di sedersi alla scrivania e scrivere la sua storia, ciò
che aveva visto e quanto fosse magnifico l’Albergo Diurno.
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