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donne nei lager finale
1. Il lavoro nei Lager • • • • • • Donne inabili al lavoro Le punizioni Trattamento La giornata tipo di una donna a Ravensbruck Lavoro all’interno del campo Testimonianza Ruth Moser Borsos 2. Rapporto • • • • • • 5. Esperimenti madre-figlio Tatiana e Andra Bucci Il fumo di Birkenau Jona che visse nella Balena Se questo è un uomo “Primo Levi” Vento di Primavera Testimonianza Giacomo Belloni 3. Condizioni • • • • • • 4. Istruzione igieniche Condizioni nei dormitori Alimentazione Malattie Il parto Condizioni in treno Servizi igienici 6. Testimonianze • • • • • • Ines Figini Luciana Nissim Etty Hillesum Liliana Segre Rosa Cantoni Marta Ascoli “Il lavoro rende liberi", in tedesco "Arbeit macht frei". Era la frase scritta all'ingresso dei campi nazisti dove furono sterminati milioni di uomini, donne e bambini. Durante le deportazioni, le donne in stato di gravidanza e le madri di bambini piccoli venivano generalmente catalogate come "inabili al lavoro" e venivano perciò trasferite nei campi di sterminio, dove gli addetti alla selezione le inserivano quasi sempre nei gruppi di prigionieri destinati a morire subito alle camere a gas. Sia nei campi che nei ghetti, le donne erano particolarmente vulnerabili e soggette spesso sia a pestaggi che a stupri. Le donne ebree in gravidanza cercavano di nascondere il loro stato per non essere costrette ad abortire. La gravidanza fu l'ovvia conseguenza per molte donne polacche, sovietiche e iugoslave inviate ai lavori forzati e costrette a relazioni sessuali con i Tedeschi. Se i cosiddetti "esperti della razza" determinavano che il bambino non potesse essere "germanizzato", le donne venivano generalmente obbligate ad abortire, o mandate a partorire in ospedali improvvisati, dove le condizioni avrebbero garantito la morte dei nascituri. Altre volte, invece, venivano semplicemente rispedite nelle regioni d'origine, senza cibo né assistenza medica. La storia di una donna concepita nei lager nazisti Si chiama Eva Clarke ed è un miracolo. Al momento della sua nascita, la madre Anka aveva subito sei anni di dominio nazista ed era sopravvissuta a tre campi di concentramento. •“Vivevo una vita divertente fra società e fidanzati, non sapevo nemmeno che Hitler fosse al potere. Trascorrevo il mio tempo tra cinema, teatri, feste”. •E ‘stato ad Auschwitz che Anka ha visto il vero orrore nazista. “Abbiamo visto i camini fumare, il fuoco, sentivamo l’odore. E sembrava l’inferno”, dice oggi . •“Mio padre pensava che fosse abbastanza lontano dai nazisti” dice oggi Eva. “Non era vero, ma se non fosse partito non avrebbe mai incontrato mia madre”. Il 29 aprile 1945, Anka arriva al campo di sterminio di Mathausen. La sola vista di questo nome alla stazione è un profondo shock per lei, che ha già sentito parlare della sua fama terribile sin dalle prime fasi della guerra. “Mia madre era talmente spaventata da iniziare a partorirmi là, in mezzo al carbone”, sottolinea Eva. “ “Ci sono due motivi per cui siamo sopravvissute: il primo è che, il 28 aprile 1945, i nazisti avevano smantellato la camera a gas di Mauthausen. Il mio compleanno è il 29 aprile, quindi se fossi nata il 26 o il 27 sarei stato uccisa insieme a mia madre. “E la seconda ragione perché siamo sopravvissute pochi giorni dopo la mia nascita, è che l’esercito americano liberò il campo. Mia madre calcola che non avremmo potuto vivere molto più a lungo.” Marchini Chiara 4^L LE PUNIZIONI La punizione è giustizia per l’ingiusto BOTTE Dalla testimonianza di una giovane donna, Zina, abbiamo potuto apprendere che una delle più frequenti punizioni per motivi futili erano proprio le botte. Zina era una donna russa rimasta vedova in giovane età. Nel campo di concentramento in cui era stata portata aveva notato un uomo in difficoltà che le ricordava il marito defunto e non esitò ad aiutarlo nel lavoro. La conseguenza fu atroce: un’infinità di botte sul corpo nudo della giovane. PROSTITUZIONE Sempre tramite un’altra testimonianza sappiamo che il fenomeno della prostituzione era molto ricorrente soprattutto nei campi adibiti solo alle donne. Lise racconta di essersi trovata di fronte ad un bivio e, come lei, molte altre donne a cui veniva imposto di soddisfare i desideri di uomini meschini che si credevano non solo più forti di loro ma addirittura a cui tutto era dovuto; o loro o la morte Tradire il marito e sopravvivere Rimanere fedele al marito ma morire FRUSTATE Le frustate o manganellate erano una tipica punizione di chi non compieva adeguatamente il proprio lavoro. Per dare l’esempio le donne erano sottoposte a questa punizione durante l’appello, in modo tale che tutte le altre potessero comprendere a cosa andavano incontro in caso di un lavoro riuscito male. I colpi non dovevano superare i 25 di numero. RECLUSIONE IN UNA CELLA La cella era chiamata “Stehzelle” La punizione consisteva nel rimanere in piedi nella cella, al buio e con poca aria. La tortura poteva durare dei giorni oppure intere settimane Dolcetto Greta 4^L . TRATTAMENTO - Il viaggio: sul treno le persone erano tutte ammassate nei vagoni, non avevano buchi dove poteva passare l’aria, c’era solo una piccola finestrella in alto. Quando aprivano le porte dalle quali dovevano uscire, i comandanti gridavano e le picchiavano con i frustini. - Arrivo nei lager: gli uomini venivano separati dalle donne, i bambini strappati dalle braccia delle madri, gli anziani radunati come bestie, i malati e i disabili, poi, venivano trattati come spazzatura: venivano gettati da parte insieme a valigie rotte e scatole. (Testimonianza di Leo Schneiderman) - Procedura dopo l’arrivo: li mandavano in stanze separate, li facevano spogliare e li rasavano tutti, con un unico rasoio per circa cento persone. Le donne venivano umiliate davanti a tutte le altre. (testimonianza di Blanka Rothshild). Inoltre alle donne era imposta ogni tipo di violenza carnale, costrette a prestare il loro corpo per soddisfare SS, soldati o detenuti politici. Oltre alla libertà e alla vita, si trovavano private della dignità. Tutte vissero tragicamente la perdita dell'identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio, vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui. (testimonianze di più donne) - Esperimenti: La prima serie di esperimenti riguardò farmaci per la cura delle infezioni dei soldati al fronte. Le donne internate nei campi venivano ferite e infettate. Nelle ferite venivano spesso introdotti pezzi di legno o di vetro per arrivare alla cancrena. A questo punto venivano curate con i farmaci e in questo modo se ne testava l’efficacia. Altre donne subirono amputazioni per ricerche sulla possibilità di trapiantare ossa e nervi. Ad altre venivano spezzati gli arti. Le sterilizzazioni vennero effettuate per testare nuovi metodi basati sulla chirurgia e i raggi X. (Venivano fatti esperimenti anche sui gemelli monozigoti e cercavano una cura ormonale dell’omosessualità). (L’inferno delle donne – DonneViola) Iniezione per un esperimento - “Le prigioniere vengono rivestite con stracci, con una grossa croce dipinta davanti e di dietro. Questi stracci sono la divisa d’obbligo delle deportate in quarantena. Il cibo è una brodaglia insipida e dolciastra, molto liquida, che dovevamo mangiare senza cucchiaio. Il leccare la minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie molto più di altre cose.” “I morti vengono privati anche dell’ultimo misero avere, come laceri di vestiti, scarpe spaiate e biancheria lisa: ripuliti serviranno per altri infelici dopo di loro. I corpi vanno poi ad ingrossare il mucchio di cadaveri presso il crematorio, in attesa di essere bruciati come scarto inutile; l’ultima parte del ciclo per la distruzione scientifica del deportato tra poco sarà completata. Alcuni, nel grande mucchio di corpi scomposti agonizzavano ancora.” (Tratto dal libro “Le donne di Ravensbrück” di Lidia Beccara Rolfi) Montanari Erica 4^L La giornata di una donna a Ravensbrück La sveglia • Fischio della sirena alle 5:30 • 2 ore in posizione d’attenti all’aperto con qualsiasi tempo. Mezz’ora per vestirsi, lavarsi, rifare il letto secondo regolamento e farsi la coda alla latrina “All'appello è proibito muoversi, parlare con le compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi per riscaldarsi, avere il petto ricoperto di un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo. Dopo la prima mezz'ora diventa una tortura. Il cervello si svuota, le gambe si gonfiano, i piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutti i muscoli” cit. Lidia Beccaria Rolfi I pasti COLAZIONE: tazza di surrogato di caffè PRANZO e CENA: una minestra di patate o cavoli con del pane. Le prigioniere per la fame si trovavano a mangiare le bucce di patate e di cavoli che trovavano per terra vicino alla cucina Il cibo non era sufficiente a tenere in vita le prigioniere e tanto meno a darle la forza per lavorare Il lavoro nel campo • 2 turni di lavoro: giorno e notte di 11 ore ciascuno. Le deportate vengono divise in due gruppi • Lavoro inutile: lavoro svolto in quarantena a scopo punitivo “Il lavoro consiste nel prendere una palata di sabbia nel mucchietto di sinistra e gettarla in quello di destra dove la compagna di fianco esegue la medesima operazione. La sabbia viaggia in tondo e ritorna al luogo di partenza dopo essere passata sulla pala di tutte le deportate addette al lavoro. Se il mucchio di sinistra cresce, l'SS se ne accorge e spesso picchia con le mani o con il frustino la deportata che non sa reggere al ritmo. Il lavoro della sabbia è un lavoro che massacra.” • Lavoro ‘disponibile’ “Sono i lavori più duri e massacranti: bonifica dei terreni paludosi lungo le rive del lago, rimboschimento di zone brulle, taglio di pini, carico e scarico di vagoni e di battelli…pulizia dei pozzi neri, disinfestazione…”(L. Beccaria). Fausta Finzi – la vita nel campo “Partimmo in direzione a noi sconosciuta, […] Arrivate a Ravensbruck, ci portarono in un grande locale per la doccia e dopo traumatiche visite mediche, completamente nude, ci diedero dei logori stracci da indossare e ci portarono in una baracca già piena di internate. Non ci avevano rasate ne tatuato il numero sul braccio, portavamo cucito nel vestito il numero e il triangolo di appartenenza e noi avevamo la Stella. Il mio numero di matricola era 49.538. La vita cominciava al mattino con ore di appello sempre ferme ed in piedi, poi veniva distribuito il “caffè” e subito dopo venivamo reclutate per il lavoro. Le mia prima esperienza fu che dovevamo trainare un rullo, attaccate due a due con una catena alla spalla, girando per tutte le strade del Campo. In seguito lavorai a riempire di sabbia piccoli carretti oppure spianare terreni. Poi un giorno, le SS cercavano donne che sapessero cucire a macchina […] ci portarono in una fabbrica adiacente al Campo (Campo nuovo). I turni di lavoro erano di 11 ore, giorno e notte al coperto e le baracche qui erano meno sporche e affollate. Avevo male ad un dito, era gonfio e pieno di pus, la kapò se ne accorse e mi mandò in infermeria dove me lo tagliarono. Rimasi in riposo per qualche giorno e avevo il terrore di rimanere in baracca sia per le selezioni che per altri lavori così i miei giorni di riposo li passai a caricare carbone sotto la neve. Poi rientrai in fabbrica. In fabbrica cucivamo guanti militari, cappotti, giacche in una catena di montaggio. Le botte per seguire il ritmo di lavoro piombavano frequentemente […]. I lavori poi erano vari: si stirava, si attaccavano bottoni e si eseguivano tutti i lavori di sartoria. Ho passato almeno tre selezioni per la Camera a gas, ho visto il fumo dei Crematori, le cataste di Capellaro laura 4^L LA DIVERSIFICAZIONE DEL LAVORO ALL’INTERNO DEL CAMPO I Nazisti obbligarono ai lavori forzati milioni di persone, per la maggior parte Ebrei, ma anche vittime appartenenti ad altri gruppi etnici e sociali; le condizioni nelle quali tali lavori venivano effettuati erano brutali e disumane. Le motivazioni I Tedeschi sfruttarono in modo crescente il lavoro forzato dei cosiddetti “nemici dello Stato”, sia a fini economici che per sopperire alla mancanza di forza lavoro. La maggior parte degli uomini Ebrei residenti in Germania era stata obbligata a fornire lavoro forzato per vari ministeri e agenzie governative. I Nazisti perseguirono una politica consapevole di “annientamento attraverso il lavoro”, nell’ambito della quale certe categorie di prigionieri venivano eliminate tramite attività disumane. Il lavoro •Industria bellica •Agricoltura •Artigianato Chizzoni Alessandra 4^L Testimonianza di una donna: Ruth Moser Borsos descrive i lavori forzati a Westerbork Karaj Alessia 4^L “Nel campo ci misero a lavorare, un lavoro proprio stupido. Dovevamo trasportare sabbia da un posto all'altro. Non aveva alcun senso, ma dovevamo farlo. Con il passare del tempo loro organizzarono anche diversi altri compiti che dovevamo eseguire. Beh, in realtà io venni assegnata a un posto dove cucivamo i vestiti, cucivamo per... non sono proprio sicura per chi fossero quei vestiti. Facevamo quello tutto il giorno. Ogni tanto noi ... ecco... io lavorai in una fattoria olandese, ma in realtà era una fattoria nazista olandese. Il padrone ci faceva pulire il porcile e ci faceva lavorare nella fattoria, a pulire diverse cose. Ci faceva anche lavorare nei campi di patate, o ovunque gli servisse, così che lui non dovesse [lavorare]; insomma, eravamo come degli schiavi per lui. Si approfittava del fatto che il campo di concentramento fosse così vicino e che lui fosse un Nazista e un collaboratore dei Tedeschi. E come ricompensa ci faceva sedere nel cortile con i polli e ci dava una minestra acquosa. Quello era il nostro pasto, per tutta la giornata.” RAPPORTO MADREFIGLIO Introduzione La sera del 28 marzo 1943, le sorelle Tatiana e Andra di 4 e 6 anni, furono arrestate con la mamma Mira, la nonna, la zia e il cuginetto Sergio .Come dice il passo che segue,tratto da un’intervista alle sorelle,i bambini venivano separati dalle madri: “Arrivati a Birkenau ci divisero in due file. La nonna e la zia vennero sistemate sull’altro lato, dei prigionieri destinati alla camera a gas. Ci portarono nella sauna, ci spogliarono, ci rivestirono con i loro abiti e ci marchiarono con un numero sull’avambraccio. Ci trasferirono nella baracca dei bambini (il “Kinderblok” di Birkenau) e lì cominciò la nostra nuova vita nel campo. Giocavamo con la neve e con i sassi, mentre i grandi andavano a lavorare. Quando poteva, di nascosto, la mamma veniva a trovarci ricordandoci sempre i nostri nomi.” Tipo di legame tra madre-figli: Il rapporto che i bambini avevano con le proprie madri non era più un rapporto basato su sentimenti forti,in quanto la dura soppravivenza del campo gli fece dimenticare cosa fosse il dolore: “Un giorno la mamma non venne più e pensammo che fosse morta, ma non provammo dolore, la vita del campo ci aveva sottratto un pezzo d’infanzia, ma ci aveva dato la forza per sopravvivere.” L’assenza della madre Le SS promettevano ai bambini di portarli dalle proprie madri e invece li sottoponevano a esperimenti sulla tubercolosi, condotti dal Dr. Heissmeyer alle dipendenze di Mengele.Ma,per fortuna,una donna avvisò le sorelle: “La donna che si occupava del nostro blocco con noi era gentile. Un giorno ci prese da parte e ci disse: “fra poco vi raduneranno e vi ordineranno: chi vuole rivedere sua mamma faccia un passo avanti … voi non vi muovete”. Spiegammo a nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa, ma lui non ci ascoltò. Da allora non lo rivedemmo mai più. L’ ultimo ricordo di nostro cugino è il suo sorriso mentre ci salutava dal camion che lo portava via insieme agli altri 19 bambini, desiderosi di rivedere la mamma. Nostro cugino Sergio fu portato, assieme agli altri 19 bambini, a Neuengamme vicino ad Amburgo,dove divenne una cavia per orribili esperimenti sulla tubercolosi” Il rapporto con la famiglia ritrovata Il 27 gennaio del 1945 l’Armata Rossa liberò il campo e i bambini vengono accolti da vari centri organizzati per l’occasione e, dopo varie peripezie, Andra e Tatiana raggiungono Londra.Per la prima volta trovano affetto, cibi caldi, spazi per giocare anche se non si fidano, pensano che sia un’altra beffa. “I nostri genitori, nel frattempo rientrati in Italia, riuscirono con l’aiuto della Croce rossa a ritrovarci. La fotografia della «buona notte» ci consentì di riconoscerli e per fortuna ricordavamo i nostri nomi e il nostro cognome” All’inizio i rapporti erano diffidenti anche perché non erano più abituati ad avere una famiglia,il campo le aveva cambiate.Ma dopo le prime settimane, l’atteggiamento di chiusura verso gli adulti cominciò a trasformarsi lentamente ed emerse il bisogno di amore. La speranza di una madre per il figlio Nonostante il mancato rapporto con il figlio, per anni la madre di Sergio è convinta che suo figlio tornerà, magari è andato in Russia da qualche famiglia o nell’esercito. In realtà, un giornalista tedesco dopo varie ricerche, scopre che Sergio è morto, ma nessuno lo dirà a Gisella che portò la speranza fino al giorno della sua morte. Guarnieri Miriam 4^L Il fumo di Birkenau Il fumo di Birkenau è il primo libro di Liana Millu, poco dopo il suo ritorno dalla prigionia nel campo di concentramento nazista di Auschwitz - Birkenau. Con questo libro l’autrice vuole proporci sei storie, sei storie di sei donne realmente esistite, sei donne che con lei hanno condiviso gli orrori, lo strazio e il martirio della deportazione nel lager. Sei donne, sei storie diverse che però hanno in comune qualcosa: testimoniano tutte gli abomini che milioni di donne hanno dovuto subire e che spesso, non sono riuscite a sopportare. Alta tensione Alta tensione è la terza storia narrata da Liana Millu nel suo libro. È la storia di Bruna che vede suo figlio Pinin, dal quale era stata separata, all’interno del lager. Sono soliti incontrarsi durante il tragitto di ritorno dal lavoro e dal momento del loro primo incontro, Bruna inizia a conservare parte della sua (già miserabile) razione di cibo per il suo Pinin. Liana riesce a convincere anche altre donne a fare lo stesso in vista del prossimo compleanno del piccolo Pinin. Ma è proprio il giorno del compleanno del figlio, quando Bruna scopre che Pinin era stato portato al Block di riposo dal quale non sarebbe uscito vivo. Bruna cade quindi nello sconforto. Il giorno seguente, passando davanti al Quarantänelager dove si trova Pinin, Bruna inizia a correre verso la rete che la separa dal figlio chiamandolo e invitandolo a fare lo stesso, a correre verso la madre, e verso l’alta tensione. «…sentii gridare e vidi Bruna correre verso la rete ad alta tensione. Dall’altra parte il figlio stava a guardarla. Vieni dalla tua mamma! - gridava Bruna con le braccia tese. - Vieni dalla tua mamma, Pinin! Corri! Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione. Ma la madre seguitò a chiamarlo, e allora si precipitò verso la rete invocando: "Mamma! Mamma!". Raggiunse i fili, e nell’istante in cui le piccole braccia si saldavano a quelle della madre, ci fu uno scoppiettio di fiamme violette, un ronzio si propagò sui fili violentemente urtati, infine si sparse intorno un acre odor di bruciato... Prima di allontanarmi mi voltai: Bruna e Pinin erano ancora là strettamente abbracciati e la testa della madre posava su quella del figlio come volesse proteggerne il sonno.» L’amore di una madre che si spinge fino alla morte pur di proteggere il figlio, ecco a cosa portava il lager. L’amore di una madre che si spinge a privarsi del cibo per il figlio, l’amore di una madre consapevole di non essere riuscita a salvare il figlio da un simile orrore. Favero Federica 4^L Jona Che Visse Nella Balena “Jona che visse nella Balena” è un film del regista italiano Roberto Faenza, del 1993. Racconta la storia di un bambino e della sua esperienza nei lager e del rapporto che ha con i suoi genitori al loro interno; è tratto dal romanzo autobiografico “Anni d’infanzia. Un bambino nei lager” di Jona Oberski. La locandina del film; Fonte: google immagini Jona Che Visse Nella Balena Trama Jona è un bambino che vive ad Amsterdam con sua mamma Hanna e suo papà Max. Sono ebrei e subiranno la deportazione nel campo di Bergen-Belsen. Qui riesce a rimanere con la madre, ma viene separato dal padre, che riuscirà a rivedere solo in punto di morte. Durante il viaggio di trasferimento in treno ad Auschwitz vengono liberati dai sovietici e ospitati in un vicino paese. La madre viene ricoverata in ospedale perché è ormai mentalmente instabile, infatti a prendersi cura di Jona è l’amica di famiglia Simona, ritrovata nel campo di concentramento. Dopo la morte della madre, di cui nessuno aveva informato Jona, Simona va via; Jona viene invece adottato da amici di famiglia, ma ha praticamente perso la voglia di vivere: non mangia più. I suoi nuovi genitori gli hanno regalato una bicicletta e dopo aver avuto dei flashback su suo padre lo si vede sorridere di nuovo. Cecconi Lara 4^L “Se questo è un uomo” (Primo Levi) In questo libro ricoprono un ruolo di primo piano le descrizioni dei rapporti sociali: Levi si concentra sulla psicologia e sulle dinamiche di gruppo dei detenuti indicando come diverse regole della civilizzazione umana vengono, per cause di forza maggiore, messe a tacere. Libro: “Una bambina e basta” (Lia Levi) Lia Levi narra i momenti della sua storia personale: il trasferimento al rifugio presso un convento cattolico insieme alla madre e alle sorelle per sfuggire alla deportazione dal punto di vista di una bambina. In particolare uno degli aspetti che definisce l’universo di Lia bambina: è il RAPPORTO AMBIVALENTE CON LA MADRE, una donna forte, forse più del marito e padre delle sue figlie che lotta per proteggerle dalla minaccia della deportazione. Condizione femminile nei lager Come presupposto madre e figli nei lager bisognerebbe tener conto della condizione femminile nei lager: essere prigioniere vuol dire esporre in pubblico corpi che a quei tempi erano abituati a un pudore rigoroso; Vedere altri corpi, subire violenze,vivere con bambini destinati a sparire,affannarsi e nutrire un figlio che verrà ucciso appena nato. Ma anche per le poche sopravvissute il danno psicologico è enorme che si protrarrà per lungo tempo. Rottura del legame tra madre e figlio Esperienza di separazione dalla madre Reazione di protesta ansiosa da parte del figlio Effettiva minaccia di separazione Riduzione del comportamento di esplorazione autonoma Danno psicologico (soprattutto a causa del lager) per l’assenza della figura materna come punto di riferimento Masrour Wiam 4^L . Vento di Primavera Francia, 16 luglio 1942 13 000 ebrei, dopo essere stati costretti ad indossare come simbolo della loro “ DIVERSITA’ ” una casacca con una stella gialla cucita sul petto. La mattina del 16 luglio vennero prelevati sulla collina di Montmatre e deportati nel Vélodrome d’Hiver. Lì assetati e in pessime condizioni igieniche, gli ebrei ebbero il sostegno di un benevolo medico (Attore: Jean Nero) e una Pia infermiera (Attrice: Melanie Laurent) che si oppose, rischiando la sua stessa vita, alla folle causa nazista. L’intento del film è quello di MOSTRARE e RICORDARE come la follia nazista abbia contaminato e fatto suoi complici tutti, nessun escluso, portando al paradosso francesi che deportano altri francesi, restando impassibili di fronte alla loro FAME, al loro DOLORE, alla strazio di veder STRAPPARE UN FIGLIO DALLE BRACCIA DELLA MADRE. In quel momento una famiglia viene separata … Il dolore presente negli occhi di una madre è lo stesso negli occhi dei figli ma sapevano che il loro destino sarebbe stato non rivedersi mai più … E’ impensabile che degli uomini possano essere così crudeli, privi di sentimenti e non avere un minimo di sensibilità specialmente verso i bambini e vedere lo strazio, il dolore, la paura e la sofferenza negli occhi di quella madre che vedeva il proprio figlio separato da lei … Rimanere sbalorditi nel vedere dei bambini che prima di salire sul treno dovevano identificarsi ma… … la cosa che rende triste le persone era vedere dei bambini rispondere alle domande sul Nome e Cognome dei loro genitori con un punto interrogativo dipinto sul volto. Questi bambini che sono sopravvissuti sono riusciti a superare qualcosa che all’inizio sembrava impossibile e che non avrebbero retto la separazione e la scomparsa dei genitori, ma in quel momento è stato molto importante avere un pizzico di speranza senza mai lasciarsi morire. Scarcella Federica 4^L Film Tratto da una storia vera . Testimonianza Giacomo Belloni Giacomo Belloni riusci a sopravvivere alla strage dell’ olocausto,fu ricoverato per circa una quindicina d'anni all’ opera pia Luigi Mazza di Pizzighettone,in provincia di Cremona e scrisse un diario narrando ciò che fu costretto a patire poiche’ non appartenente alla “razza pura”. “Cos'è la famiglia? Famiglia è amore,sicurezza,protezione,è tutto cio che chi non ha,desidererebbe. Ricordo come se fosse ieri,io e la mia famiglia,schierati davanti alle SS,che gridavano i nostri nomi e cognomi … Quella fu l ultima volta che vidi mia madre,poiché le donne e gli uomini avevano lager diversi. Tutto ciò che la mia mamma m aveva insegnato lo dovevo mettere in pratica da solo,senza di lei,io ero prigioniero in un lager di soli uomini con il mio migliore amico e mio fratello,che morirono dopo poco tempo. Ero solo,abbandonato a me stesso..nella mia mente vivevano solo ricordi. Non avevo più una famiglia,non avevo più nessuno, perchè tutto questo doveva essermi negato? La sola forza che mi permetteva di affrontare ogni singolo giorno e istante della mia vita era la speranza di poter riabbracciare la mia mamma.. Non desideravo altro. Casati Giada 4^L CONDIZIONI IGIENICHE NEI LAGER Cause principali delle epidemie e delle malattie infettive imperversanti ad Auschwitz servizi igienici inadeguati perenne mancanza di proibitive condizioni abitative mancanza servizi acqua sanitari diverse a seconda del periodo e differenti in ogni parte del complesso diviso in tre parti concetrazionario ristrette dimensioni dei fabbricati (m.43,38 x 17,75) centinaia di prigionieri 1940 20 edifici dell’ex caserma furono destinati a locali abitativi per i prigionieri lavori di ingrandimento fino al 1943 trasferimento dei prigionieri in altri blocchi i vermi imperversavano e i ratti attaccavano morti e vivi ulteriore peggioramento delle condizioni abitative in tutto il campo Ma come dormivano i prigionieri? Nei primi quindici mesi circa, dormivano gli uni accanto agli altri su pagliericci che al mattino, dopo la sveglia, andavano raccolti e sistemati in un angolo della camerata. operazione che avveniva ogni giorno di notte era vietato aprire le porte per far si sbriciolava rapidamente la paglia e provocava vere e proprie entrare l’aria nubi di polvere i detenuti giacevano su erano larghe cinque umidità, acqua tre file di pagliericci, metri sgocciolante dai tetti, costretti a dormire su pagliericci imbrattati di di un fianco e pigiati feci all’inverosimile per far posto a quanti non ne avevano I primi letti di legno a tre piani furono forniti alla fine del febbraio del 1941 e vennero gradualmente installati nei blocchi nei mesi successivi ogni letto era provvisto di tre giacigli, era pertanto destinato ad accogliere tre prigionieri, ma su ogni giaciglio dormivano due o più persone sui letti di legno vi erano giacigli di carta imbottiti di trucioli a causa del sovraffollamento furono poi installate (in modo temporaneo) delle baracche di legno, simili a delle stalle, e vennero utilizzate anche le soffitte e le cantine I blocchi in muratura gradualmente muniti di: i locali dormitorio • stufe a carbone avevano una • una quindicina di cubatura di 2900 armadi metri quadrati, diviso per 1200 • alcuni tavoli di legno persone e vi erano • alcune decine di 2,5 metri quadrati rudimentali sgabelli circa di aria per ogni blocco a un piano del campo base era detenuto diviso in due parti primo pian terreno piano locali sanitari comuni diviso in camerate più due grandi piccole Elena Manzoni 4^L sale ALIMENTAZIONE NEI LAGER “La fame nei Lager era onnipresente. La fame era l’incubo degli incubi” • La fame nel lager era onnipresente. "Da mangiare, spiega Vanzini - un ex deportato -ci davano una sbobba simile ad un pastone per galline. Alla sera una fettina di pane nero, trasparente. Se sono sopravvissuto lo devo al fatto che ero giovane e in buona salute". "Nel fine settimana prosegue - andavamo a raccattare qualcosa dietro le baracche delle cucine per gli ufficiali. Si rovistava nei bidoni, sperando in qualche avanzo, un pezzo di osso...". E bastava a sfamarsi? "Oh, un osso risponde - basta tenerlo per bene in bocca, e qualcosa si riesce a sentire...". La razione giornaliera • Il prigioniero riceveva da mangiare tre volte al giorno • Per la colazione del mattino riceveva circa mezzo litro di surrogato di caffé e di infuso di erbe, con 5 grammi di zucchero • Per pranzo veniva preparata una zuppa calda che consisteva in patate, rape o cavoli, con un minimo di carne o grasso. • La cena consisteva in un mezzo litro di surrogato di caffé o di infuso di erbe, in 300-350 grammi di pane e in diversi supplementi: 20 grammi di salame, 30 grammi di margarina, un cucchiaio da minestra di marmellata o 30 grammi di giuncata. I supplementi variavano ogni giorno. Qualche volta di venerdì davano 56 patate di media grandezza, cotte con la buccia. • Il contenuto di calorie nel nutrimento giornaliero era di 1300-1700 kcal, dunque inferiore a quello che occorre normalmente per un organismo umano a riposo. Canevari Giulia 4^L I SERVIZI IGIENICI NEI LAGER INTRODUZIONE Le condizioni igienico-sanitarie nei campi di concentramento e soprattutto in quello di Auschwitz erano pessime. I prigionieri vivevano tutti ammassati nella sporcizia, fatto che portava spesso a malattie infettive Appena arrivati Appena arrivati i prigionieri erano sottoposti a un periodo di quarantena per cercare di prevenire lo sviluppo di malattie infettive all'interno dei lager. I luoghi di quarantena erano baracche o tende. I nuovi arrivati dovevano anche passare per un edificio chiamato “sauna” nel quale erano installate delle camere a vapore dove i vestiti dei prigionieri venivano “disinfettati” per poi essere rivenduti La pulizia personale I luoghi adibiti alla pulizia personale non erano mai puliti al quale va aggiunto che l'acqua per lavarsi non era quasi mai presente. In quei rari casi nei quali ai prigionieri era permesso lavarsi, essi erano controllati dalle guardie e l'utilizzo dell'acqua era limitato. I gabinetti I gabinetti erano posizionati in fila all'interno di grosse stanze dove spesso si stava ammassati. L'utilizzo era anch'esso strettamente controllato da degli addetti. I detenuti potevano utilizzare i gabinetti sono in determinate ore del giorno e per un periodo limitato. Malattie infettive e parassitarie più diffuse • Dissenteria: causata dai parassiti intestinali, dai batteri coliformi dovuti alla scarsa igiene e dalla promiscuità • Tifo addominale: causato dai batteri che si insediavano nell’acqua densa e sporca dei lavatoi che ovviamente non era potabile • Tifo petecchiale: causato dai pidocchi che si insediavano nei vestiti dei detenuti perché privati di qualsiasi pelo corporeo • La scabbia, la difterite e la scarlattina erano anch’esse molto pericolose: di solito non venivano assunte medicine ed era difficile per i tedeschi “sprecarle” per dei prigionieri che consideravano sub-umani Malnutrizione (denutrizione) • Di malnutrizione si moriva: la razione giornaliera era di circa 800 calorie; un corpo a riposo invece ne necessita almeno 2000 al giorno. Di conseguenza un detenuto con un fisico deabilitato e denutrito faceva molta fatica ed era maggiormente esposto a malattie, alcune delle quali sfortunatamente portavano alla morte Dicke fusse (piedi gonfi) • Le piaghe dei piedi: ciò era causato dal fatto che i detenuti camminavano con scarpe di legno e cuoio. Le scarpe si potevano cambiare solamente una volta e dopo averle estratte dal mucchio di quelle usate c’era da sperare che andassero bene. In caso contrario si formavano delle piaghe che si infettavano subito e guarivano molto difficilmente Grossi Gabriele 4^L IL PARTO AD AUSCHWITZ CONDIZIONI Neonati Pessimo stato di salute Scarsa nutrizione (nel caso le mamme non avessero l'opportunità di allattarli davano loro una miscela di latte e semola) Scarsa speranza di vita (la maggioranza moriva prima di aver raggiunto i 3 mesi) Uccisi per annegamento o strangolamento Mamme Soggette a infezioni o malattie Rischi dovuti all'aborto e morte per parto Dolori laceranti LUOGHI “Sale parto”: baracche prive di qualsiasi mezzo sanitario utile per il parto della donna Struttura: vi era un camino posto al centro della stanza attorno al quale vi erano numerose brande dove le donne dovevano partorire ASSISTENZA Ostetriche deportate avevano il compito di “assistere” le donne durante il parto, che a loro volta, erano costrette dai nazisti a sopprimere i neonati, facendoli annegare o strangolandoli SITUAZIONI PARTO Le donne incinte erano costrette ad abortire senza l'uso di anestesie In caso riuscissero a tenere nascosta la gravidanza: Parto in condizioni disumane Rischio di incontrare infezioni I neonati raramente sopravvivevano dopo la nascita Piubelli Lucrezia 4^L LE CONDIZIONI IN TRENO I PASSEGGERI Molte persone di entrambi i sessi erano ammassati anche neonati il più piccolo era un lattante di 3 mesi gruppi numerosi di invalidi, bambini e anziani ammalati la maggior parte morì sul treno LA STRUTTURA DEL TRENO : composto da soli carri bestiame con pavimenti sempre bagnati in ciascuno vi erano più di 50 persone chiusi dall’esterno poco spazio poiché portavano con se le loro valigie a causa dei discorsi fatti dai marescialli IL VIAGGIO o molto lungo durava alcuni giorni o penoso a causa del freddo al mattino le tubature metalliche erano coperte di ghiaccio o tormento della sete si placava grazie alla neve raccolta durante l’unica fermata quotidiana sorveglianza dei soldati sempre pronti al fuoco in caso di fuga Durante esse si procedeva Alla distribuzione dei viveri o MAI acqua non c’era possibilità di dormire o riposarsi poiché vi era poco spazio ALLA FINE DEL VIAGGIO I deportati dovevano lasciare gli effetti personali e le valigie a bordo venivano successivamente divisi ma spesso e volentieri anziani e invalidi venivano subito portati alle cosidette camere gas LA TESTIMONIANZA Quella che è riportata qui sotto è la seconda deposizione, resa da Primo Levi il 3 maggio 1971, davanti al pubblico ministero tedesco al processo contro Friedrich Bosshammer, l’ex delle SS a capo dell’Ufficio antiebraico della Gestapo in Italia, accusato di deportazione e strage: ‘ […]Il mattino del 21 febbraio alcuni di noi chiesero ai soldati delle SS se avremmo dovuto o potuto portare con noi le nostre cose. Ci risposero che saremmo stati trattati bene, ma che il paese di destinazione era freddo; perciò ci consigliarono di portare via tutto quanto possedevamo, denaro, oro, gioielli, valute e particolarmente pellicce, coperte ecc. Chiedemmo ai soldati delle SS qual era la nostra destinazione e che cosa sarebbe avvenuto di noi, ma ci risposero che non lo sapevano. […] Dopo l’appello venimmo caricati su alcuni pullman, insieme con i nostri bagagli, e portati dal campo alla stazione ferroviaria di Carpi. Quando giunsi alla stazione di Carpi, mi pare di ricordare che il treno era ancora quasi vuoto. Secondo l’intenzione dei tedeschi, i vagoni avrebbero dovuto essere occupati per ordine alfabetico, a partire dal primo; riuscimmo però in certa misura a evitare questo ordinamento, in modo da non separarci da alcuni amici. Molti prigionieri che volevano ricongiungersi in altri vagoni con amici o parenti furono percossi rudemente. Quest’ordine dei tedeschi, di occupare il treno per ordine alfabetico, venne fatto rispettare con grande durezza anche quando in questo modo si venivano a separare gruppi familiari in diversi vagoni. Io venni percosso con calci e col calcio di un fucile. Un mio collega, che tentava di cambiare vagone, venne sbattuto contro il montante del vagone, e ferito alla fronte, tanto che giunse ad Auschwitz ferito, con la ferita ancora aperta. Il treno era composto da dodici vagoni merci, ciascuno dei quali era occupato da 45 fino a 60 persone. Il mio vagone era il più piccolo ed era occupato da 45 persone. Un occupante il mio vagone potè leggere un cartello appeso all’esterno del vagone stesso che portava la scritta «Auschwitz», ma nessuno di noi sapeva il significato di questa parola, nè dove la località si trovasse. La nostra scorta viaggiava in un vagone particolare, non ricordo se in testa o in coda al convoglio, e non ricordo se era un vagone merci o viaggiatori; questo vagone conteneva anche le scorte per il viaggio. La nostra scorta era composta di uomini delle SS, almeno in parte: infatti le nostre condizioni psicologiche durante il viaggio non erano tali da permetterci di fare distinzioni. I vagoni contenevano soltanto un po’ di paglia sul pavimento e nessun tipo di gabinetto e nessun secchio. Nel nostro vagone c’erano alcuni bambini, e perciò era disponibile qualche vaso da notte, per mezzo del quale potevamo liberarci degli escrementi attraverso la finestrella del vagone. Era possibile uscire dal vagone solo una volta al giorno, qualche volta in stazioni, qualche volta in aperta campagna. In entrambi i casi, i prigionieri dovevano adempiere ai loro bisogni personali pubblicamente, sotto i vagoni o nelle vicinanze immediate, e promiscuamente, uomini e donne. La scorta era sempre presente. Alla notte c’era appena lo spazio per dormire coricati per terra, su un fianco, e compressi l’uno contro l’altro. I vagoni erano privi di riscaldamento, e la brina si condensava all’interno. Alla notte faceva molto freddo, di giorno si soffriva un po’ meno perchè ci si poteva muovere. Per quanto riguarda l’alimentazione, ci era stato concesso di provvedere ad alcune scorte di pane, marmellata e formaggio, e acqua; il pane e la marmellata erano in misura sufficiente per non soffrire la fame, ma l’acqua era molto scarsa, perchè a Fossoli non possedevamo recipienti, perciò tutti soffrivano gravemente la sete. La scorta ci proibiva di chiedere acqua all’esterno e di riceverne attraverso il finestrino. Durante tutto il viaggio non ricevemmo alcun alimento caldo; solo durante la discesa quotidiana dal vagone, due o tre uomini per vagone venivano condotti dalla scorta al vagone delle provviste, per prelevarvi il pane e la marmellata per il loro vagone. Soltanto una volta, a Vienna, ci fu concesso di rinnovare la scorta d’acqua. Nel nostro vagone c’era un bambino ancora lattante e una bambina di tre anni. Anche per loro non vi fu nulla da mangiare se non la razione di pane e marmellata. Mi è stato detto che almeno un caso di morte ebbe luogo durante il viaggio; non ricordo se si trattasse di un uomo o di una donna. Questo dettaglio mi è stato raccontato da un mio amico medico, che faceva parte del trasporto. Il nostro convoglio terminò il viaggio la sera del 26 febbraio, il treno si fermò alla stazione civile della città di Auschwitz. Appena fummo discesi dai vagoni, ebbe luogo una rapidissima selezione: furono formati tre gruppi. […]’ L’ISTRUZIONE NEL PERIODO NAZISTA Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare -Primo Levi- Secondo Hitler per la dittatura è indispensabile mantenere il popolo quanto più possibile nell’ottusità e nell’ignoranza. Soltanto se il popolo è ignaro, la dittatura può far trionfare le sue menzogne. Il “contenuto positivo” che secondo il dittatore doveva rimpiazzare il 95% dei contenuti scolastici ritenuti superflui sono: la fede (nel Führer, sulla cui persona il popolo non deve sapere la verità), l’amore (per il Führer), l’ostilità (per i “nemici della Germania), il fanatismo che alimenta le masse e l’isterismo che la spinge innanzi. Ciò venne messo in pratica attraverso meno ore di scuola e più attività ginnico-sportiva, meno sapere e più azione militare, totale e assoluta fedeltà al Führer e obbedienza ai capi, la propaganda sostitusce la cultura Il “vecchio” libro di testo diventa una zavorra e viene sostituito dal “sussidiarietto”, dall’opuscolo, dal pamphlet” propagandistico. “E sai anche chi sono queste persone cattive?” incalza la madre. Franz si dà delle arie. “Certo, mamma! Lo so. Sono gli ebrei. Il nostro maestro ce lo dice spesso a scuola”. Il Sistema Scolastico nello Stato Nazista L'istruzione nel Terzo Reich serviva a indottrinare gli studenti e a trasmettere loro la visione del mondo del Nazional Socialismo. Gli studiosi nazisti e gli insegnanti glorificavano le razze nordiche, in particolare quella "ariana", denigrando allo stesso tempo gli Ebrei e altri popoli ritenuti inferiori, definendoli "razze bastarde e parassite", incapaci di creare una vera cultura o un'autentica civiltà. Dopo il 1933, il regime nazista eliminò dalle scuole pubbliche tutti gli insegnanti Ebrei o quelli che venivano ritenuti "politicamente inaffidabili". La maggior parte degli educatori, tuttavia, rimase al proprio posto, scegliendo di entrare nella Lega degli Insegnanti Nazional Socialisti. Entro il 1936, il 97% degli insegnanti delle scuole pubbliche era entrato nella Lega e, in effetti, quella fu la categoria professionale che registrò il più alto numero di adesioni al Partito Nazista. Sia a scuola che nella Gioventù Hitleriana, l'istruzione mirava a produrre cittadini tedeschi consapevoli delle differenze razziali e allo stesso tempo obbedienti, pronti al sacrificio, e disposti a morire per il "Führer e per la Madrepatria". La devozione a Adolf Hitler era infatti una componente essenziale dell'addestramento impartito dalla Gioventù Hitleriana. I giovani Tedeschi ad esempio celebravano il suo compleanno (il 20 aprile) - che era anche festa nazionale - come cerimonia di ammissione nell'organizzazione. Inoltre, gli adolescenti tedeschi giuravano fedeltà a Hitler e giuravano di difendere la nazione e il suo capo una volta che fossero entrati nell'esercito. Le scuole giocarono quindi un ruolo importante nel disseminare le idee naziste tra la gioventù tedesca: mentre i censori toglievano certe letture dalle classi, gli educatori tedeschi introducevano nuovi testi che insegnavano agli studenti l'amore per Hitler, l'obbedienza allo Stato, il militarismo, il razzismo e l'antisemitismo. Fin dai primi giorni di scuola, i bambini tedeschi venivano imbevuti del culto di Adolf Hitler e il suo ritratto era un oggetto comune nelle aule tedesche. I libri di testo, inoltre, spesso contenevano storie che descrivevano l'emozione provata da un bambino la prima volta che aveva visto il leader tedesco. Giochi da tavolo e altri giocattoli per l'infanzia vennero anche usati come strumenti per diffondere la propaganda politica e razziale tra i giovani tedeschi, nonché per inculcare nei bambini la cultura militarista. I BAMBINI DEL TREZO REICH Il progetto Lebensborn e la politica dell’ eugenetica Lucchini Riccardo « Lo stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione » Adolf Hitler, Mein Kampf Il progetto Lebensborn Nonostante la rassicurante affermazione di Hitler, il Nazismo mise in pratica brutali forme di sfruttamento e soppressione dell’ infanzia. Un’ organizzazione creata con questo scopo è il Lebensborn (sorgente della vita), ideata da Heinrich Himmler per creare una super razza, risolvendo il problema del decremento demografico, dell’ aumento del numero di aborti e di figli illegittimi. I Lebensborn sono una serie di cliniche di maternità-pollai dorati concepiti per assistere la nascità e la crescita, in modo da permettere parti anonimi a donne tedesche non sposate. . Nel ’35, dopo l’ entrata in vigore delle leggi di Norimberga,Himmler incoraggia le SS ad avere bambini con donne ariane, di cui lo stato nazista si sarebbe occupato fornendo loro una casa ed un sussidio economico Nel 1939 il programma non ha prodotto i risultati auspicati, pertanto l’ attivita’ del Lebensborn viene intensificata attraverso il rapimento di bambini nei territori occupati e trasferendo una parte di quelli internati ad Auschwitz. L’ obiettivo è deportare in Germania elementi validi dal punto di vista razziale, individuando il “buon sangue” in tutto il territorio polacco. Si tratta di una vera e propria caccia ai futuri piccoli tedeschi condotta in tutte le direzioni: orfanotrofi, asili, scuole, ragazze madri, famiglie adottive. I bambini, selezionati inizialmente in base all’ aspetto nordico, sono in seguito sottoposti ad un accurato esame razziale e ad una approfondita visita medica e quelli che non risultano idonei vengono lasciati morire. L’ identità di gran parte dei bambini del Lebensborn non sarà mai appurata perché le SS in fuga distruggono gli archivi del centro prima dell’ arrivo degli alleati. La sorte peggiore tocca ai piccoli nati in Norvegia: le donne che avevano avuto rapporti sessuali con i nazisti e i figli che hanno concepito diventano oggetto del disprezzo di parenti, amici, compagni di scuola. Molti di questi bambini sono dichiarati ritardati e chiusi in istituti psichiatrici Sempre nel 1939 il programma della politica eugenetica, demografica e razziale è pronto per un salto di qualità : eliminare chi rallenta la marcia, sopprimere vite indegne di essere vissute, applicare l’eutanasia di stato. Ha inizio uno sterminio di massa conosciuto come Aktion T4( T4 sta per Tiergartenstrasse numero 4, un indirizzo di Berlino). Si comincia dai più piccoli perché è più facile, non ci sono ancora legami, ci saranno meno opposizioni. Il 18 agosto 1939 Leonardo Conti, ticinese, direttore sanitario del Reich, emana il provvedimento segreto IV B/3088/391079. E’ indirizzato a reparti maternità e pediatrie, ai medici e alle ostetriche, a cui viene fatto obbligo di registrare e segnalare tutti i soggetti nati con malformazioni o malattie gravi. C’ è l’obbligo di riservatezza e l’ elenco delle patologie da segnalare. In base alla testimonianza di Karl Brandt, medico personale di Hitler, la prima vittima fu un bambino nato cieco e apparentemente idiota. Il padre, un contadino della Sassonia di nome Knauer, si rivolge alla clinica infantile di Lipsia chiedendo di sopprimere il bambino, ma il medico risponde che la legge non lo permette. Il signor Knauer indirizza una supplica a Hitler, il quale invia il dottor Karl Brandt con l’ incarico di verificare le condizioni del bambino ed eventualmente praticare l’ eutanasia, garantendo personalmente la non punibilità del medico. Ad Auschwitz i gemelli o i bambini con deformazioni furono utilizzati da Josef Mengele per “esperimenti medici”, che il dottore, fanatico sostenitore di teorie di antropologia razziale, iniziò non appena arrivò nel Lagher nel maggio 1943. Nel campo degli zingari furono realizzati esperimenti sul noma, una lesione ulcerante che colpisce le popolazioni più povere, alcune bambine rom furono sottoposte a un bombardamento di raggi X che provocò ustioni e atroci sofferenze. Quasi il 90% di tutti i bambini ebrei deportati dall’ Italia, precisamente 776, giunse ad Auschwitz. Altri undici furono internati a Ravensbruck, dove vissero e morirono molte centinaia di bambini provenienti da tutta Europa. All’ interno dei campi i bambini erano sottoposti alle stesse regole che valevano per gli adulti: partecipavano all’ appello alle cinque del mattino ed erano costretti a stare in piedi, spesso per ore, al freddo e sotto la pioggia; avevano le stesse razioni e dopo i dodici anni svolgevano gli stessi turni degli adulti; subivano inoltre le stesse angherie dalle guardie. Durante la giornata, i più piccoli non potevano uscire dalle baracche e non avevano alcun tipo di gioco. Nel campo di Ravensbruck le norme che regolavano la sorte dei neonati e dei bambini cambiavano continuamente. Fin quando nel lagher vi furono solo donne tedesche, i neonati venivano sottratti alle madri per essere formati ed educati nello spirito nazista all’ interno del progetto Lebensborn. Dal 1942 le prigioniere furono costrette ad abortire, poi nel 1943 il dottor Percival Treite -ginecologo e direttore sanitario del campo- decise che I bambini ebrei italiani deportati a la gravidanza doveva essere portata a termine ma ordinò che i neonati Ravensbruck provenivano da Fossoli e venissero immediatamente soppressi, da Bolzano. Cinque di loro facendoli strangolare o annegare in un sopravvissero e, negli ultimi mesi di secchio d’ acqua davanti alla madre. guerra, furono trasferiti a Bergen Sempre nel 1943 fu stabilito che i neonati Belsen, creato nel 1942 come “campo di fossero lasciati in vita, ma che alla madre non venisse fornito alcun aiuto in vestiti attesa”, nel quale detenere ebrei da scambiare con cittadini tedeschi o cibo. prigionieri degli alleati oppure con merci e valuta pregiata. Bruno Maida nel libro “La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’ infanzia ebraica in Italia 1938-1945”) racconta la storia di un bambino ebreo italiano, Sergio De Simone . Sergio era un bambino di sette anni, uno dei trecento bambini detenuti senza cure ad Auschwitz nella baracca 11. Un giorno di novembre del 1944 entra nella baracca un medico, secondo alcuni Menghele, chiedendo chi voleva riabbracciare la mamma. Molti fanno un passo avanti, ma vengono scelti dieci maschi e dieci femmine. Sergio è tra questi. E’ fiducioso perché riconosce quel medico che lo ha già visitato alla gola il 14 maggio 1944, come testimonia il referto compilato a Birkenau e firmato da Menghele, referto nel quale viene giudicato idoneo per gli esperimenti. I venti bambini si sentono fortunati. Vengono fatti salire su un treno, accompagnati dalla dottoressa Paulina Trocki e da tre infermiere. Due giorni dopo arrivano nel campo di Neuengamme. Il loro destino è legato alla volontà del dottor Kurt Heissmeyer, che giunge a Neuengamme il 7 gennaio 1945 dopo aver svolto sui prigionieri russi e serbi esperimenti sulla tubercolosi. La gran parte di loro era morta, ma Heissmeyer considerava necessario continuare l’ esperimento sui bambini per valutarne gli effetti. A tutti e venti viene inoculato il germe della tubercolosi, che si diffonde rapidamente, causando febbri alte e un profondo malessere. Dopo qualche tempo gli viene asportata una ghiandola sotto l’ ascella e messa in formalina per osservare l’ eventuale sviluppo degli anticorpi. Venti fotografie raccontano quel momento: una sequenza terribile di bambini rasati a zero, a torso nudo e macilenti, sofferenti, con il braccio destro tenuto alzato a mostrare l’ incisione dell’ ascella. Il tentativo fallisce completamente. La sera del 20 aprile 1945, mentre Hitler festeggia il suo cinquantaseiesimo e ultimo compleanno nel bunker della cancelleria, arriva da Berlino un ordine al comandante del campo di Neuengamme, Max Pauly, nel quale si sottolinea la necessità di eliminare subito i bambini con il gas o con il veleno perché gli americani si stanno avvicinando e bisogna eliminare tutte le prove dei crimini. I bambini vengono fatti vestire e gli viene detto che sarebbero stati condotti a Terezine, dove avrebbero potuto incontrare la mamma, come gli era stato promesso. La direzione del camion sul quale vengono fatti salire è invece Amburgo. Nel centro della città sorge un edificio che per sessant’ anni è stato una scuola elementare, la Bullenhuser Damm: nei suoi sotterranei, dalle 23 inizia il massacro. Ai bambini viene fatta una puntura di morfina per farli addormentare, poi vengono impiccati con le corde che pendevano dai ganci alle pareti. I loro corpi furono riportati a Neuengamme e bruciati. La madre che Sergio avrebbe dovuto riabbracciare, saprà della sorte di suo figlio soltanto quarant’anni dopo. TESTIMONIANZE DI DONNE NEI LAGER «Ho perdonato tutto quello che ho passato. E forse parlo anche con una certa serenità proprio per questa ragione. Perché perdonando io ho la pace dentro di me. Non ho odio! Non ho vendetta. Ormai il tempo è passato. Anche se odio a cosa può portare l’odio. Sto male io e nient’altro». - Ines Figini Rossi Laura INES FIGINI L’odissea di Ines ebbe inizio il 6 marzo del 1944 quando, in occasione di uno sciopero proclamato nella ditta in cui lavorava, assunse la difesa della maestranza, mossa da un atto impulsivo caratteristico della giovane età. Nel corso della notte, intorno alle ore 24.00, fu prelevata da casa da un gruppo di fascisti armati che la portarono in questura. IL VIAGGIO DI INES Saliti sul vagone assegnato, il convoglio fece una sosta a Vienna per proseguire poi per Mauthausen, dove Ines rimase per circa una settimana in cella con sette donne. Nessuno conosceva la destinazione di quel viaggio. Se ne resero conto con il successivo spostamento quando arrivarono ad Auschwitz Birkenau. IL PERCORSO DI INES A Ines impressero sul braccio il numero di matricola 76.150: difficilissimo da pronunciare in tedesco. Poi l’inizio dei lavori nelle paludi, i terreni venivano concimati con la cenere prodotta bruciando gli Ebrei. Tutto si svolgeva sotto l’occhio vigile del sorvegliante. Era concessa una doccia al mese, un distributore per quattro persone. IL RITORNO A CASA DI INES Il desiderio di tornare casa, il lungo periodo che trattenne Ines in terra straniera ancora da giugno a ottobre del 1945, le peripezie del viaggio e l’arrivo a Bolzano. Qui Ines scese dal treno e si rese conto di essere in Italia. (ottobe 1945) LUCIANA NISSIM Prima di 3 sorelle, nasce il 20 ottobre 1919 a Biella, dove trascorrerà la sua infanzia. Il padre è commerciante, e nonostante la crisi di quegli anni, la famiglia riesce a mantenere Luciana negli studi. Consegue la maturità classica e poi si iscrive alla facoltà di medicina, spinta anche dai genitori. Nel 1938 viene varato un divieto che vietava agli ebrei di frequentare le università. Luciana nonostante questo, essendosi già iscritta, riesce a laurearsi. A Torino, dove vive durante gli studi, si lega ai “ragazzi della biblioteca ebraica”, un gruppo di giovani antifascisti che discutono di ebraismo, di filosofia, di politica e di resistenza al fascismo. Tra questi ragazzi Luciana conosce Primo Levi, Franco Momigliano e Vanda Maestro. La storia si complica nella notte tra il 12 e il 13 dicembre del 1943 quando i tedeschi riescono ad arrestare le milizie partigiane alle quali Luciana aveva aderito. Un mese nel carcere di Aosta, per poi passare al campo di Fossoli ed infine proprio ad Auschwitz, dal 26 febbraio 1944. Con lei in questo viaggio ci sono Primo Levi e Vanda Maestro, che purtroppo non sopravviverà. Grazie alla sua laurea in medicina, Luciana viene destinata al Revier, l’ospedale femminile del lager di Birkenau, per passare alla fine dell’agosto 1944 all’infermeria di Hessisch Lichthenau. Di qui, mentre gli americani avanzano, nell’aprile del 1945 riesce a fuggire. Rientrerà in Italia solo nel luglio del 1945 all’annuncio del governo Parri. L’amica Vanda è morta, nell’ottobre del 1944, in una delle ultime selezioni effettuate a Birkenau. LE PAROLE DI LUCIANA “Finita la cerimonia del tatuaggio la prima delle mie compagne viene fatta sedere su uno sgabello; una pettinatrice è accanto a lei, e le taglia i capelli. Quella povera figlia è così terribilmente sorpresa, che non può neanche piangere, ma noi vediamo con immensa pena cadere i suoi riccioli uno ad uno, finché non resta che il suo povero cranio pelato, tragicamente ridicolo nella sua nudità. Poi ella viene completamente depilata, poi riceve una spruzzata di un qualche disinfettante - e finalmente tocca alla successiva. Per tutte è la stessa storia; io passo per ultima e, in omaggio alla mia qualità di medico, i miei capelli vengono solo accorciati, non rasati. Il soldato va e viene, ma non vede in noi delle donne: ormai siamo delle Häftlinge. Noi siamo disperate, quasi tutte piangono: siamo nude e fa freddo” TESTIMONIANZA DI ETTY HILLESUM Biografia • Nasce a Middelburg (Olanda) nel 1914 da una famiglia ebraica della borghesia intellettuale •Si interessa alla letteratura e alla filosofia; nel ‘32 va ad Amsterdam, dove inizia a studiare giurisprudenza, lingue slave e psicologia • Diventa paziente di Julius Spier, padre della psicochirologia, che la incoraggia a scrivere il diario e con il quale ha una relazione amorosa • Spier influenza il carattere di Etty, spingendola a all’introspezione, alla ricerca di se stessa e della fede in Dio • Nel’42 trova lavoro come dattilografa presso il Consiglio Ebraico, ma capisce subito di trovarsi in una posizione ambigua, tant’è vero che, nonappena il Consiglio decide di affidare parte del personale al campo di transito di Westerbork, Etty, non volendosi sottrarre alla triste condizione vissuta dal suo popolo, chiede ed ottiene di esservi trasferita, in qualità di assistente verso gli altri detenuti • Il 10 settembre del ’43, dopo che il Consiglio perde ogni privilegio, Etty, che ormai si trova in una condizione di detenuta comune, viene deportata insieme alla sua famiglia ad Auschwitz, dove muore il 30 novembre successivo • L’anno dopo vicino ai binari viene ritrovata una cartolina con un messaggio di Etty: “Abbiamo lasciato il campo cantando”. Crescita spirituale e etica dell’amore • Etty fa un viaggio all’interno di se stessa chela porta a scoprire una dimensione spirituale personale, al di là di ogni credo formale: “Dentro di me c’è una sorgente. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”. • Col tempo per Etty Dio diventa anche una specie di scintilla immanente nel mondo stesso; si sente spinta a cercare Dio dappertutto e ad avere fiducia nell’altro e nell’umanità • Il Dio di Etty non ha alcuna responsabilità nei confronti degli uomini, ma sono gli uomini che semmai sono responsabili nei confronti di Dio quando si allontanano da lui commettendo tali atrocità • Questa forte spiritualità la porta ad agire sempre con l’etica dell’amore (la sua forma di resistenza interiore), e mai con l’odio: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma non è grave: dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà da sé. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso - se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. È quel pezzettino d'eternità che ci portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo questa vita, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”. Considerazioni su guerra e olocausto • Vivendo in tempo di guerra, Etty vede il male come qualcosa che è sempre possibile, ma non bisogna rassegnarsi ad esso; anzi, è necessario l’impegno individuale per evitare che questo tipo di istinto prenda il sopravvento sulla propria parte “umana” e opporsi sempre al male con lo sdegno morale e mai con l’odio •Soprattutto, si schiera contro l’odio “indifferenziato”, vale a dire generalizzato verso un intero popolo: è un sentimento sbagliato, perché include in esso anche chi non c’entra niente (e bisogna tenere conto che Etty dice questo quando già i nazisti avevano già cominciato le persecuzioni, ovvero in un momento in cui l’odio indifferenziato verso gli ebrei e, viceversa, quello verso i tedeschi, erano diffusissimi): “Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quell’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari”. • Etty mostra inoltre una grande sensibilità verso il mondo: è consapevole di tutto ciò che il suo popolo sta vivendo e lo sente direttamente nella propria anima: “Secondo la radio inglese dall’aprile scorso sono morti 700mila ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre”. “Un barlume di eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza, malattia, tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato, se la si sente come un’unita indivisibile”. Liliana Segre A tredici anni nel campo di sterminio Primi anni di discriminazione “Avevo otto anni al momento delle leggi razziali … … era il 1938… … e mi ricordo come una netta cesura nella mia vita quando mio papà cercò di spiegarmi che, poiché ero una bambina ebrea, non avrei più potuto continuare ad andare a scuola … Viaggio e arrivo nel Lager ... Arrivammo ad Auschwitz in pieno inverno … … era stato un viaggio inumano, ma inumano fu l’arrivo … … scaricati a calci e pugni, fummo separati, uomini e donne … … io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna lingua straniera, senza capire dove mi trovavo e che cosa mi stava succedendo, io, senza saperlo, lasciai per sempre la mano del mio papà. Noi sceglievamo la vita … noi sceglievamo la vita, anche se ci volevano uccidere ogni minuto per la colpa di essere nate … … eravamo schiavi senza alcun diritto che lavoravano fino all’esaurimento delle forze … … il mondo non si dava pensiero di quello che ci stava succedendo … … ma io volevo vivere. Io avevo 13 anni, e poi 14, e volevo vivere. La “marcia della morte” Una gamba davanti all’altra! Devi andare avanti, devi andare avanti! … le nostre sentinelle implacabili finivano con un colpo di pistola quelle che cadevano … … io non mi voltavo, non volevo sapere, io volevo vivere e mi sdoppiavo in un’altra personalità … … ci buttavamo come pazze sugli immondezzai e raccoglievamo bucce di patate, torsoli di cavolo marcio, un osso già rosicchiato dal cane di casa, e ci disputavamo questi orrori io e le mie compagne, le bocche sporche, scheletri orribili. Alzavo la testa e vederle, le mie compagne, e vedevo me stessa, la mia faccia scheletrita, ferina, bestiale … Non morite! La guerra sta per finire. I nostri aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una parte e gli americani dall’altra. … Non eravamo preparate a una gioia grande come quella! Quando vidi il comandante mettersi in borghese, buttare via la sua divisa, e alla fine buttare via la sua pistola ai miei piedi pensai “adesso io mi chino, piglio la pistola e gli sparo”. Mi sembrava assolutamente un finale perfetto per quella tragedia che avevo vissuto di uccidere quest’uomo crudele … … ma fu un attimo, io avevo sempre scelto la vita e chi sceglie la vita non può mai toglierla a nessuno per nessun motivo … … da quel momento ho capito che io ero diversa dal mio assassino … … sono stata più fortunata ad essere vittima che carnefice. Ritorno alla normalità … ho passato degli anni molto tristi e molto bui … … io ero diversa, non sapevo rimettermi in una società che mi aveva respinta prima, ma anche dopo … … a scuola ero più vecchia io, anche se avevo 16 anni, persino delle mie insegnanti … … dopo tanto orrore, tanta tristezza, tanta solitudine, ho trovato Amore … … ha vinto la vita! Galazzi Sofia 4^L VITA PRIMA DELLA RESISTENZA • Rosa Cantoni nasce il 25 luglio 1913 in una famiglia antifascista di Udine • Lavora come operaia in una fabbrica tessile i cui proprietari sono ebrei • Nel ’38, dopo le leggi razziali, la fabbrica viene chiusa e Rosa è licenziata poiché agli ebrei non era consentito gestire aziende XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni LA RESISTENZA Le donne, a differenza degli uomini, non venivano quasi mai perquisite per strada e passavano i posti di blocco senza alcun controllo. • Porta vestiti, pane, carta e talvolta anche armi ai partigiani • Presta aiuto ai feriti • Si fa chiamare Julia per non essere rintracciata XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni LA SCOPERTA E LA DEPORTAZIONE • All’appuntamento per lo scambio di viveri e armi con i partigiani è attesa da 4 soldati • E’ imprigionata nel carcere di Udine, da dove parte con altre 20 donne per Ravensbrück • Il primo giorno vengono vestite con gli stracci e gli zoccoli di altre donne ormai morte e gli vengono tagliati i capelli • La fame era tremenda; pidocchi, scabbia, dissenteria e avitaminosi normali XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni LA TENDA NERA “..e adesso vorrei dire cos'era questa tenda nera, perché me lo sono tanto fissato in testa che la vedo ancora sempre. Lì vediamo un mucchio di donne tutte vestite di scuro, probabilmente erano ebree prese in qualche paese che non so, arrivate lì in condizioni disperate. […] In questa tenda nera c'erano queste donne, pallidissime, facevano impressione perché erano ormai morte, probabilmente c'era un senso istintivo di stare assieme, ma erano ammucchiate una sopra l'altra, e quelle sopra erano abbastanza vive, ma non avevano nessuna espressione. Lì erano senza nutrimento chissà da quanti giorni o settimane, senza bere, senza mangiare, un freddo tremendo, abbandonate giorno e notte in una tenda nera.” XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni Una voce della Shoah: Marta Ascoli • La testimonianza di Marta Ascoli è raccolta nel suo libro autobiografico “Auschwitz è di tutti”. • Marta Ascoli viveva a Trieste quando nel marzo 1944 è stata deportata ad Auschwitz. • Era di famiglia cattolica ma avendo un cognome di città era di origini ebraiche. La vita di Marta ad Auschwitz • La selezione delle camere a gas: “La cosa più assurda era che non sempre si era scelte perché ritenute inabili al lavoro, sistema crudele ma che aveva per i nostri aguzzini una sua logica. Talvolta usavano il sistema di contarci ogni tre, ogni quattro, a caso, e ridendo segnavano il nostro numero sul taccuino, decidendo la nostra fine.” • La punizione chiamata “sport”: “Nel poco tempo che ci era concesso per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, donne incluse, per ragioni insignificanti e spesso anche senza motivo alcuno sceglievano parecchie persone, obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a terra, e ciò succedeva spesso, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che questo si possa definire con una sola parla: sadismo.” Il trasferimento a Bergen-Belsen • Marta viene trasferita a Bergen-Belsen, in quegl’anni desiderava solo la morte: “Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il prolungarsi di atroci sofferenze. Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi al mio fianco aveva finito di soffrire. Mi alzai dal mio giaciglio e scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella baracca;[…] Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio. […] Un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e si allontanò nella direzione opposta. […] Il mio gesto sta a dimostrare a che punto fosse giunta la mia disperazione, sapendo che mi attendeva una fine atroce assieme agli altri.” Il ritorno a casa • Il 6 luglio 1945 Marta venne liberata e tornò dalla madre a Trieste, nonostante l’aiuto della famiglia ,per Marta fu difficile riprendersi sia fisicamente e sia psicologicamente: “Dopo le esperienze passate, per molti anni sono stata ossessionata da incubi: il fischio dei treni, il fumo delle ciminiere, il sentir gridare in tedesco ancor oggi mi fa sussultare e tuttora, anche se saltuariamente, faccio sogni attinenti a quel lager infernale. L’esperienza che ho attraversato ha cambiato molto il mio carattere, minando la mia volontà, una volta ferrea, e riuscendo a farmi perdere il mio ottimismo e la fiducia nel prossimo.” BIBLIOGRAFIA • “Inferno delle donne” – “ Donne Viola” • “Donne di Ravensbruck” di Lidia Beccaria Rolfi • “Fumo di Birkenau” • “Jona che visse nella balena” • “Se questo è uomo” di Primo Levi • “ Una bambina e basta” di Lia Levi • “Ausmerzen” • “La Shoa dei bambini” • “Tanto tu torni sempre” di Giovanna Caldera e Marco Colombo • Autobiografia “Auschwitz è di tutti” di Marta Ascoli • Biografia “Lettere” e “Diario” •“Il mio viaggio” Sitografia • Testimonianza Bambina nata nel Campo della Morte • Raccolta testimonianze • WIKIPEDIA • Testimonianza Blanka Rothshild • Testimonianze di più donne • Enciclopedia dell’Olocausto • www.deportati.it • Sitografia: Blocco 6- Vita del Prigioniero • Yahoo Answer • Testomonianza di Stanislava • www.presentepassato.it (A 13 anni nel campo) • XI Congresso ANED-Convegno Donne-Intervento Rosa Cantoni Filmografia • “Jona che visse nella balena” regia di Roberto Faenza • “Vento di Primavera” regia di Roselyne Bosch • Youtube: Liliana Segre – “Racconto di un sopravvissuto ai campi di concentramento” Canevari Giulia Capellaro Laura Manzoni Elena Marchini Chiara Masrour Wiam Casati Giada Cecconi Lara Montanari Erica Piubelli Lucrezia Rossi Laura Chizzoni Alessandra Dolcetto Greta Fasoli Lorenzo Rossi Maximilian Sangermani Chiara Scarcella Federica Toscani Serena Favero Federica Fiorani Barbara Galazzi Sofia Grossi Gabriele Guarnieri Miriam Karaj Alessia Zanoni Martina Peri Stefano Lucchini Riccardo