Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Attacco e assalto
by user
Comments
Transcript
Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Attacco e assalto
Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA [a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin] APPROFONDIMENTO A Attacco e assalto La guerra“bloccata” Nei primi due anni di guerra, sul fronte dell’Isonzo la prassi dell’attacco costituì la forma obbligata d’impiego tattico da parte italiana. Ciò valse tanto per le grandi unità (dalla divisione in su), quanto e soprattutto per i reparti minori, costretti ad uno stretto contatto di vicinanza con il nemico. La presenza preponderante delle armi da fuoco aveva già nel corso degli ultimi secoli messo in discussione i fondamenti del movimento e dell’urto, le due componenti essenziali dell’attacco. Da ciò la corsa affannosa, soprattutto dopo le guerre del tardo Ottocento, a sperimentare mezzi, formazioni ed approcci in grado di aver ragione del fuoco avversario. La grande guerra, caratterizzata dalla staticità dei fronti, dall’interramento delle truppe nelle trincee, dallo sviluppo delle difese passive e delle protezioni, dall’incremento a dismisura delle dotazioni di armi automatiche, moltiplicò nella battaglia il potenziale difensivo, indirizzando l’azione tattica dell'assalto verso uno svolgimento statico, ripetitivo, uniforme. Anche sulla linea dell’Isonzo la manovra di attacco si appesantì: dopo i primi precipitosi, impreparati e sanguinosissimi assalti del giugno e luglio 1915 si impose agli italiani la necessità di avanzare a sbalzi sotto la protezione del fuoco di appoggio, progressivamente spostato sulle linee nemiche per facilitare l’avanzata e per ridurre –dati anche gli effetti sul morale – i rischi e la perdite. Le azioni però divennero lente, prevedibili, fondate su presupposti di prevalenza del materiale (soprattutto d’artiglieria). L’efficacia del fattore fuoco, di cui si servirono largamente attaccanti e difensori, incatenò i due avversari ad una guerra di staticità e, per i soldati, di estenuante, tragica monotonia. Le contraddizioni della vigilia A ciò aveva contribuito non soltanto l’intrinseca minor dispendiosità della difesa rispetto all’offesa, la sua economicità nell’uso delle forze, che consente di utilizzare al meglio il terreno e i mezzi a disposizione. Pesava anche la paralisi e il reciproco effetto di neutralizzazione tra gli eserciti, dettati dalla loro sostanziale equivalenza in termini di numero, armamenti, organizzazione e dottrine, capace di annullare ogni occasionale prevalenza. Né avevano giovato le esperienze delle guerre recenti, i cui aspetti di novità erano stati riassorbiti dalle convinzioni più assodate. In realtà, le dottrine ufficiali ovunque sembravano aver tenuto conto degli insegnamenti scaturiti dai vicini conflitti, ultimo quello balcanico del 1912-13. All’affacciarsi della guerra non vi erano ipotesi discordanti sullo svolgimento dei conflitti futuri, ma la cognizione del problema era fuorviata da ragionamenti tortuosi o remore. Ogni persona che serbasse una seppur minima attenzione alle questioni militari sapeva che la guerra avrebbe impegnato tutte le energie della nazione e gli eserciti avrebbero inquadrato milioni di uomini, con tutto ciò che ne discendeva in termini di organizzazione e manovra su fronti estesi. Eppur si riteneva che le guerre sarebbero state brevi per necessità economiche, che la capacità di movimento e la superiorità offensiva sarebbero emersi nonostante la costipazione delle linee. Si erano studiati per anni, meticolosamente, i meccanismi del trasferimento, dell’organizzazione, del movimento delle masse di armati sul campo, eppure si trasaliva al solo pensiero che un accidente imprevisto mettesse in crisi il funzionamento di un tale complesso. Entrando nello specifico della tattica, si era avvertito il potere delle nuove armi da fuoco (dal fucile a ripetizione, alle mitragliatrici, alle artiglierie di ogni calibro), ma se ne temevano la complessità d’uso, l’eccessiva usura, il consumo di munizioni, il significato inibente sullo spirito aggressivo del soldato. Venivano esaltati lo spirito offensivo del combattente, la sua motivazione, la capacità di affrontare il tributo imposto dalle moderne armi da fuoco, ma si nutrivano perplessità sulla resistenza psicologica in un combattimento moderno e si invocava il supporto dell’«educazione morale». Si prevedeva l’incremento dell’aviazione, ma, tranne che in qualche anima visionaria, non con un impiego autonomo in grandi masse. Era attribuito valore alla fortificazione, ma ancora quasi esclusivamente a quella permanente (le grandi piazzeforti), cui ancorare e con cui proteggere gli eserciti in fase difensiva o di preparazione all’offensiva. Si era convinti della vulnerabilità della cavalleria, al punto da prevederne l’appiedamento in azione, tuttavia, per un malinteso omaggio alla tradizione, le si riconoscevano compiti eccedenti alle sue possibilità, come l’esplorazione e la sorpresa, ormai più utilmente sostituibili da mezzi motorizzati. Questi ostacoli concettuali erano frutto degli schemi mentali dell’epoca e dell’incapacità propria di ogni contemporaneo di comprendere appieno l’evoluzione e i cambiamenti del proprio tempo. Si intrecciarono con le tendenze, acriticamente accolte, dell’offensiva ad oltranza e dell’«unità di dottrina», influendo sulla conduzione ripetitiva e monocorde dell’attacco, ma pure sulla difficoltà ad adeguarsi al nuovo e sulla stessa percezione del conflitto. Nella mischia. Il ricordo di chi combatté Nella prima fase del conflitto italo-austriaco, le attese per una rapida conclusione della guerra, risolta attraverso il movimento e la manovra e lo sfondamento sulla linea dell’Isonzo, non sono patrimonio esclusivo dei capi militari e dell’opinione pubblica, ma anche motivo popolare tra i soldati. Così a metà giugno 1915, Consorzio Culturale del Monfalconese subito dopo lo “sbalzo offensivo”, si pronunciava dalle trincee del Carso un volontario irredento triestino: “Ma tanto non ci resteremo sicuro come in Francia dei mesi e mesi: uno o due giorni e poi avanti! Chissà fino a dove? Ogni giorno che mi porto più vicino alla mia città e al mio mare mi sembra più lungo […] e poi avanti ancora! Su, su a Lubiana, che sarà italiana, a Marburg, a Graz, a Vienna, chissà dove!” (lettera alla famiglia di Fabio Carniel, in G.Tasso, Epopea di eroi, Trieste 1928). In realtà, proprio allora aveva inizio, con il primo tentativo italiano di superare le difese imperiali sull’altipiano carsico, la serie ininterrotta di assalti frontali che costituiranno il leit motiv dell’approccio tattico nella guerra italiana. “Si giunse fin sotto l’orlo del Carso, intagliato da trincee preparate da tempo, munite di ogni arma e frangiate di reticolati profondi, densi, solidi. Ma il terreno conquistato era stato coperto di morti” (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano 1930). Il ricordo delle fasi dell’attacco, sempre eguali nella loro scontata ripetitività di esecuzione, affiora con evidenza dalle testimonianze della memorialistica sulla grande guerra. Gli scrittori della guerra sul Carso, da Zappelli ad Albertazzi, da Faccini a Gasparotto, a Musini, ai mille altri narratori della vita di trincea, ripercorrono in una chiave diversa, comprensibilmente molto più sofferta rispetto a quella degli scrittori di tecnica o di storia militare, il microcosmo dell’esperienza di combattimento sul Carso e sull’Isonzo. La sequenza dell’attacco viene ricomposta in un mosaico di frammenti: l’attesa e i presagi di morte nei volti lividi e negli sguardi fissi dei combattenti pronti a saltare oltre il parapetto della propria trincea; il fuoco di preparazione dell’artiglieria, con i tiri che sembrano sempre maledettamente corti; la reazione dei cannoni avversari che battono le trincee con le pallette degli Shrapnels che provocano le prime perdite; il fischio stridulo del fischietto degli ufficiali che dà inizio all’assalto, mentre la tensione si scioglie ad un tratto lasciando il posto alla fretta di correre e ad un’eccitazione compulsiva; la corsa a sbalzi sul brullo e roccioso terreno del Carso, alla ricerca di anfratti e ripari momentanei; le grida dei feriti e il rantolo dei morenti, il crepitio delle mitragliatrici nemiche che spazzano lo spazio antistante la trincea. E poi, in prossimità alle difese, oltre il reticolato, l’austriaco, l’ungherese o il dalmatino dallo sguardo stupito non meno di quello dell’attaccante, paralizzato sul da farsi o preso da un attivismo pieno di impacci… “Ho fatto quattro attacchi contro Cima Tre e uno a San Martino, ma non me la sento –scrive Salsa – A San Martino quel giorno!... Siamo andati che pareva un diluvio […] granate da tutte le parti, mitragliatrici, bombe a mano […] Adesso sento che non avrei più i nervi a posto, che mi mancherebbe il fegato, che non potrei più” (ivi). Il San Michele gli appare una beccheria. L’aspetto emozionale rivive prepotente nello sforzo del narratore di rendere l’insieme dell’esperienza, di bruciare i minuti nell’istante. Certo, si tratta perlopiù di scritti di ex ufficiali, che portano con sé le sedimentazioni della mentalità e dei www.grandeguerra.ccm.it valori borghesi, che scrivono in anni di conformismo patriottico (gli anni Venti e Trenta). Di questo bisogna tener conto. A queste memorie, nondimeno, dobbiamo la gran parte del ricordo dell’esperienza bellica e dell’atteggiamento del soldato. I registri psicologici e linguistici fatti propri dagli autori sono i più diversi. Il mito eroico, nei più sensibili, è impregnato di tormenti, disincanto e senso di incompiutezza; in altri è venato talora in maniera stridente da qualche polemica del tempo (“trincerismo”, sentimenti anticadorniani), passata attraverso il filtro dell’unanimismo fascista; in altri ancora si confonde con la logica semplicistica e ferina della sopravvivenza: “hai un fucile, devi trafiggere il nemico” (L. Passeri, Monte San Michele! Ed altre cronache di guerra, Milano 1933). Sangue e fango Da parte austriaca, le testimonianze di Kornel, Seifert, Stolfa, Weber rammentano a distanza di tempo come i combattimenti, gli assalti sul Carso e sull’Isonzo siano stati dolorosi per il difensore, non meno dell’attaccante. Le loro cronache rendono onore allo spirito di resistenza, mostrato tanto nella difensiva quanto nei contrattacchi, dell’austriaco, del magiaro, del ceco, del bosniaco. Giunti da patrie lontane, hanno difeso i confini meridionali dell’impero, oltre ogni richiesta fatta loro, senza nulla chiedere e con ammirevole determinazione. Trincee austroungariche di prima linea (Centro Storico per le Ricerche Archeologiche e Storiche nel Goriziano – Catalogo della mostra Uomini e Territori 1915-1918, p. 48) Nelle narrazioni, le ragioni estrinseche della giustezza della propria causa (il “tradimento “ dell’ex alleato, la fedeltà all’Imperatore, la forza del “diritto”…) lasciano il posto all’ammirazione per un senso del dovere nei soldati che apparentemente non ha molte spiegazioni ed è fatto di sacro rispetto della consegna, emulazione tra i reparti, volontà atavica di non cedere terreno a qualsiasi costo, quasi fosse il proprio campo o la propria casa, e anche rassegnazione al destino. Accenti più umani e veritieri nella memoria della diaristica, di fronte all’attacco italiano: “17 luglio. Tremendo bombardamento, sovrumano. Un miracolo esser ancora vivi! Grandina, ma ogni chicco è una granata che cerca la sua vittima. La morte urla con voce di cannone Il numero dei feriti è enorme. Non ci Consorzio Culturale del Monfalconese sono più porta feriti sufficienti. Gli uomini sono istupiditi dal terrore. Nessuno capisce più niente ed anch’io mi sento perduto. Si trema dallo sgomento e dal terrore, e non mi vergogno di scriverlo Penso a mia madre ch’è a casa e vorrei che non si fosse dichiarata guerra alla Serbia. Eppure sono un vile. Ma non si resiste più. Resistere è una bella parola, ma agire in conformità è umanamente impossibile. Ci ritiriamo dalla dolina” (dal taccuino di un ufficiale austriaco, deceduto nel settore di Doberdò, nel luglio 1915, in Dal diario di guerra di un ufficiale austriaco (fra le testimonianze della Guerra 15/18), a cura di P.B. Romanelli, Bari 1968). Agli italiani, ufficiali e soldati, si riconosce un’abnegazione senza paragoni nel condurre l’assalto. A fronte dell’ottusità dei loro comandi, nei resoconti, i fanti d’Italia vanno a morte sicura, ad ondate successive, con una testardaggine incoercibile, una pazienza epica, una noncuranza del pericolo encomiabile. Scrive Fritz Weber, di un assalto italiano sul monte Hermada durante l’undicesima battaglia, nel 1917: “Gl’italiani vengono. Sono già vicinissimi e in molti. Corrono, nonostante il pendio sia assai erto. Alla prima ondata, altre ne seguono. Un tremendo fuoco di fucileria gli accoglie. Una mitragliatrice entra in azione, una seconda, una terza. Essi hanno già delle perdite, lasciando dietro una fila di punti neri, inanimati, avanzano sempre” (F. Weber, Tappe della disfatta. La fine di un esercito, Milano 1965). Naturalmente, anche tra i memorialisti austriaci le costruzioni mentali, la cultura di provenienza e dell’epoca, la prospettiva ristretta e unilaterale sui fatti propria di chi ha partecipato in prima persona all’evento impediscono di cogliere, fuori dagli schemi eroici, le dinamiche profonde dell’esistenza del combattente. Il tempo in alcuno sembra tuttavia aver reso più pensosa la considerazione della guerra. La sconfitta in Austria ha significato il crollo epocale di un sistema, di una civiltà. Il “mondo di ieri” si riverbera in qualche trasalimento o rimpianto. L’inimicizia di un tempo sfiorisce in un cameratismo che fa di tutti i soldati, italiani e imperiali, fratelli nella medesima sventura. www.grandeguerra.ccm.it logoramento e rivela i segni di cedimento nelle compagini degli apparati militari. Ora la ribellione assume il volto di un’azione non limitata ai casi personali, ma lambisce gruppi di soldati o interi reparti. Altre proteste collettive non sfociate in rivolta sono note nel caso italiano. Ciò è indice di uno stato collettivo di disagio, che coinvolge le motivazioni della guerra, la sua continuazione, richiami a forme di palingenesi sociale. Negli eserciti europei Nell’inverno fra il 1916 e il 1917 in Russia molti reparti si disgregano, non rispondono ai loro comandanti, abbandonano le linee: è il prologo della rivoluzione. Nella primavera successiva in Francia, dopo il fallimento dell’offensiva di Nivelle, gli episodi di ammutinamento e di diserzione non si contano più; i centri d’informazione riferiscono preoccupati al governo che tra Parigi e il fronte la maggior parte dei reparti è disposta ad una guerra di difesa, ma non più ad attaccare. Segni di inquietudine e protesta si manifestano nei Kader, i depositi reggimentali dell’esercito asburgico, e addirittura nei disciplinati e più motivati reparti tedeschi e inglesi. Gli alti comandi denunciano la debolezza del fronte interno; i governi liberali, non meno di quelli autoritari, accusano le mene del socialismo “antipatriottico”. Il pacifismo socialista è in verità in una fase di ripresa – ora, con gli avvenimenti di Russia, si ammanta di venature di antimilitarismo rivoluzionario – ma, seppure una vena di ideologia socialista traspaia nelle esperienze più coscienti di opposizione al confitto, le ragioni di questi atti rimandano maggiormente ai caratteri usuranti della guerra di trincea. Sul fronte italiano Sulla linea dell’Isonzo, con il logoramento dei reparti e i modesti esiti delle spallate della tarda estate e dell’autunno 1916 (settima, ottava e nona battaglia) e le gravi perdite subite nella decima offensiva della primavera del 1917, si rafforzano gli indizi dello scollamento dei reparti – alto numero di prigionieri consegnatisi agli austriaci –mentre vi è una [Angelo Visintin] recrudescenza dei casi di rifiuto delle consegne, diserzione, mancato ritorno alle unità, autolesionismo. L’apparato di controllo e repressione aumenta gli APPROFONDIMENTO B sforzi, mentre anche dall’interno del paese giungono L’ammutinamento della Brigata Catanzaro segnali di aperto malcontento, che nell’agosto del 1917 troverà espressione di piazza a Torino. La rivolta dei fanti della brigata Catanzaro La sedizione dei reparti della brigata Catanzaro può nell’acquartieramento di Santa Maria la Longa, a metà essere inserita nella trama fattuale e psicologica di luglio del 1917, è probabilmente l’episodio più noto e queste circostanze. significativo di rifiuto collettivo della guerra verificatosi nell’esercito italiano durante il conflitto L’antefatto mondiale. Dai primi di luglio, i due reggimenti (141° e 142°) che Il contesto di stanchezza e malcontento che fa da costituivano la brigata si trovavano acquartierati per sfondo all’ammutinamento riconduce da una parte alla un breve periodo di riposo nel paese di Santa Maria la peculiare situazione dell’esercito italiano nell’estate Longa, situato nella Bassa Friulana poco a nord di 1917, dall’altra a problematiche di disagio e ribellione Palmanova. La tenuta disciplinare dei reparti era presenti negli eserciti in lotta al terzo anno della apparsa subito allentata; evidente la situazione di guerra europea. Il 1917, non a caso, porta alle estreme disagio e di scontento tra i soldati. Secondo Del Bianco conseguenze lo sfibrante stallo della guerra di (La guerra e il Friuli. Sull’Isonzo e in Carnia. Gorizia. Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it Disfattismo, Udine 1939), il parroco del paese, don Fiorenzo Venturini, ebbe subito indizio che si stesse preparando una forte manifestazione di rifiuto della guerra, il cui scopo era addirittura, nelle intenzioni dei più velleitari, una sollevazione dell’esercito in quel settore del fronte per “fare la pace subito”. Di ciò – continua Del Bianco – il religioso informò il comando della brigata. Sembra che l’autorità militare si limitasse a far affluire un distaccamento di carabinieri e a mettere sull’avviso gli ufficiali, che giravano armati e in gruppo. Il racconto della partecipazione ai fatti e il vanto dell’uccisione di un carabiniere, riportati ingenuamente da un indiziato alla moglie, in una lettera intercettata dalla censura militare, vengono considerati come confessione e prova dirimente per la comminazione della condanna a morte. Eppure lo stesso tribunale esprime dubbi sulla dinamica del fatto narrato, in quanto contrastante con il resoconto di un capitano dei carabinieri. Tuttavia si conclude: “Ma se è da porsi in dubbio che egli abbia ucciso il carabiniere, è certo invece per il tenore della lettera e per la malvagità di cui ha dato prova anche semplicemente I fatti vantandosi di un sì nefando delitto non suo, che egli In un clima di tensione crescente, il 15 luglio 1917, prese parte cosciente e attiva della rivolta, di cui attorno alle 22.30, i soldati dei due reggimenti si l’uccisione del carabiniere fu un episodio”. ammutinarono ai loro ufficiali e alle forze di polizia militare, che cercarono inutilmente di riportare l’ordine. Da detonatore aveva fatto, con tutta probabilità, la notizia della partenza per la linea del fronte, dove si stava preparando l’ultima offensiva italiana sull’Isonzo. Seguì una fitta sparatoria, anche con l’uso delle mitragliatrici, che si allargò dagli accantonamenti al paese, alla stazione, ai margini del campo d’aviazione. Presi di mira, in particolare, furono palazzo Bearzi, dov’era insediato il comando di brigata, e la villa dei Colloredo, in cui risiedeva occasionalmente Gabriele D’Annunzio. L’arrivo di rinforzi da Udine e dai presidi vicini consentì di circoscrivere e sedare la ribellione entro le quattro del mattino del giorno dopo. Si contarono alfine due ufficiali e nove soldati uccisi, oltre a 27 feriti. 123 militari vennero arrestati. Sul far del giorno, alle 5.30, 16 fanti, arrestati con i fucili ancora caldi o pronti all’uso, furono immediatamente fucilati lungo il perimetro del cimitero. La 6ª compagnia del 142° reggimento, che si era ammutinata in massa, fu sottoposta a decimazione: furono ulteriormente passati per le armi altri 12 soldati.. Nella giornata, la brigata partì per il fronte, accompagnata da un imponente apparato di D'Annunzio nel 1910 - collezione G. Sgobaro (V. Martinelli, La guerra sorveglianza armata. di D'Annunzio, Gaspari Editore, Udine 2001, p. 14) I processi Decine di soldati vennero denunciati al tribunale di guerra. Forcella e Monticone (Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari 1972) riportano il breve resoconto di un’udienza-stralcio per il reato di rivolta, nei confronti di alcuni militari chiamati al dibattimento senza il completamento dell’istruttoria, in ragione dei gravi elementi di accusa ascritti nei loro confronti. Il giudizio si conclude con 4 sentenze di morte, eseguite, per i “capi” della rivolta, alcune condanne a 15 anni e 10 mesi, ed altre minori. Gli atti del tribunale militare evidenziano la propensione del collegio giudicante per la tesi di una ribellione fomentata e ordita in precedenza e per l’aspetto “sovversivo” della ribellione. L’elasticità delle norme di giustizia militare consente, data la gravità del reato, il cui pericolo per la compagine dell’esercito era stata più volte denunciata da Cadorna nei suoi comunicati, di decretare la massima pena, nonostante la genericità delle accuse. Il carattere di prova attribuita alle lettere vale anche per altri accusati (uno fucilato, gli altri condannati a penne detentive) che in alcuni scritti avevano espresso intenti genericamente rivoluzionari – “si è fatta la rivoluzione…” – e dichiarato propositi di diserzione. Per un indiziato, la prova del reato di rivolta consiste nell’aver ingiuriato con un’invettiva (“Vigliacchi, ci avete traditi!”) i conducenti delle autoblindate che il giorno dopo la sedizione sorvegliavano il reparto in trasferimento al fronte: fucilato. L’intento di emettere una sentenza esemplare è dunque evidente, come esemplari erano state le esecuzioni sommarie effettuate immediatamente dopo il fatto, davanti ai reparti presenti. D’altro canto, l’eco dei fatti di Santa Maria la Longa e di altri avvenimenti succedutisi nell’estate non furono estranei all’inasprimento delle norme sul reato di diserzione. Un bando del Comando Supremo in data 14 agosto 1917 stabilì infatti la comminazione della pena di morte anche ai militari che avevano disertato “da unità o Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it riparti diretti alla prima linea, ovvero che siano in scarniti nella lana delle fasce consunte; divinavo i procinto di partire per la linea stessa”(ivi). cranii sfragellati di sotto a certe frasche più vili che l’insegna dei tavernai. Mi volsi intorno. Non c’era un Il pensiero di Cadorna fiore nel cimitero. Tutto era squallido e ignudo. Scorsi Dell’uso di sistemi straordinari di giustizia militare qualche ortica lungo il muro. Scorsi quivi una pianta Cadorna aveva già fatto cenno in una lettera al d’un verde più carico e più lucido. M’appressai. Presidente del Consiglio, Boselli, nel giugno 1917 (in: Attonito riconobbi le foglie dell’acanto… Recisi i gambi L’esercito italiano nella grande guerra (1915-1918), a col mio pugnale. Raccolsi il fascio. Tornai verso gli cura dell’USSME, Roma 1967; vol. IV, Le operazioni del uomini morti che con le bocche prone affidavano al 1917, tomo III). Nella missiva, che è anche inequivocabile atto dimostrativo di affermazione del potere militare nei confronti di quello civile, il comandante in capo ricordava l’uso di “energiche misure di repressione” per reprimere manifestazioni di indisciplina e diserzione: “Si è perciò dovuto ricorrere a fucilazioni immediate, su larga scala, e rinunciare alle forme del procedimento penale, perché occorre troncare il male nelle sue radici e finché si può sperare di arrivare in tempo”. Cadorna minacciava di reintrodurre la decimazione, “un supremo atto di repressione, che incoscientemente si volle togliere dal codice penale militare, ma che è arma necessaria, oggi più che mai, in mano al Comando, data l’«improvvisazione», su larga scala, delle truppe e il veleno che esse attingono dai contatti col Paese”. Il capo supremo dell’esercito, con un argomento comune agli alti comandi dell’epoca, individuava così l’origine dell’atteggiamento disfattista nel fronte interno, nella società civile, nei “nemici interni” che diffondevano il “veleno” nel sano corpo dell’esercito. Cadorna trascurava peraltro di ricordare che la fucilazione di soldati scelti a sorteggio (“decimazione”) era stata già da lui introdotta con una circolare del novembre 1916. Non è un caso, comunque, che gli intenti del capo di stato maggiore, ribaditi ossessivamente nella corrispondenza gerarchica, abbiano trovato esecuzione nella decimazione della 6ª compagnia e, in generale, nell’intero impianto “esemplare” della repressione e delle condanne per i fatti di Santa Maria la Longa. D’Annunzio e i fanti della “Catanzaro” Di questi avvenimenti fu testimone Gabriele D’Annunzio, pure (forse inconsapevole) obiettivo della furia dei rivoltosi. Il vate, che nelle tre armi ricopriva il ruolo di militare tuttofare e di propagandista itinerante, fu ospite del paese in qualità di ufficiale dell’aviazione, prima di Villa Bearzi, poi di quella dei Colloredo. Nei suoi ricordi e nella corrispondenza confidenziale si battezzò poi in friulano, con vezzo di studiata indulgenza, Puàr Gabriel, di Sante Marie la Longe (Povero Gabriele, di Santa Maria la Longa). Il capitano D’Annunzio operava nel comando del 1° Gruppo Aeroplani e assistette alla repressione e alle esecuzioni. Scrisse della sedizione che fu “doma con le bocche delle armi corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio lacerava il cuore del Friuli carico di presagi”. Si riferiva alle autoblindate accorse a circoscrivere la ribellione. Scrisse ancora dei fucilati al cimitero, con una prosa in cui pugnano elegia ed abilità stilistica, trasalimento e retorica: “vedevo la mota e la polvere tra i chiodi delle scarpe logore; divinavo gli stinchi D'Annunzio nella sua villa Colloredo-Mels di Santa Maria la Longa (V. Martinelli, La guerra di D'Annunzio, Gaspari Editore, Udine 2001, p.171) della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto” (G. D’Annunzio, Per l’Italia degli Italiani, riportato in “La Panarie”). Pochi mesi dopo vi fu Caporetto. Non si trattò, come vide qualcuno, di uno “sciopero militare”. Ma lo sbandamento di interi reparti e le fucilazioni, a decine, eseguite sulla strada della ritirata nei confronti di fuggitivi e disertori rivelarono quanto profondo fosse lo stato di disagio collettivo dell’esercito italiano. La sollevazione di Santa Maria la Longa ne era stato un inascoltato annuncio. [Angelo Visintin]