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L`altro visto da vicino

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L`altro visto da vicino
SOCIETÀ
ciale, creando grandi problemi per
la vita associata e per la democrazia,
soprattutto oggi in cui la definizione dell’identità si è fatta molto più
complessa che nel passato perché si
sono indeboliti i legami culturali
tradizionali e perché le occasioni di
incontro con l’altro, con il “diverso”,
si moltiplicano ogni giorno in maniera sorprendente.
L’altro
visto da vicino
Accoglienza
e convivenza con l’altro
L’impatto con l’altro da noi, spesso portatore di tratti culturali agli antipodi rispetto a quelli della nostra società, è avvenuto e continuerà ad avvenire in un’ottica di scambio, di confronto (spesso obbligato) e di convivenza. Se non l’abbiamo ancora fatto, poniamoci questa domanda: chi è l’altro?
Romano Trabucchi
Io e l’altro
Romano Trabucchi,
pubblicista, è autore
di libri di management
e ha diretto alcune
collane presso l’editore Franco Angeli. Collabora a periodici e riviste ed è membro del
Comitato scientifico
del Cfmt.
L’individuo umano si costruisce
nell’interazione con gli altri. Ma chi
è l’altro? L’altro è il “diverso” da me.
Gli altri sono lo specchio in cui guardarsi e capire chi si è. L’io ha bisogno
del tu e del noi per costituirsi e per
costruirsi. L’uomo e la sua cultura si
formano a contatto con gli altri: l’incontro con l’altro, con il “diverso”, è
il motore creativo della cultura. Secondo Emmanuel Lévinas, un filosofo che ha molto riflettuto sui problemi dell’alterità, l’altro è una “persona” irripetibile che dobbiamo inserire nella nostra esperienza, assumendocene la responsabilità.
Nell’incontro con l’altro c’è il riconoscimento dell’umano che è in noi
e negli altri. La distruzione dell’altro è anche la distruzione della mia
umanità. Per questo l’apertura all’altro, la nostra disponibilità verso
l’altro, il rifiuto aprioristico di respingerlo diventano le condizioni
della stessa vita morale.
Secondo molti pensatori e studiosi,
la “morale della disponibilità” si pone come un decentramento di sé
verso l’altro, una prospettiva etica
dell’interdipendenza reciproca. Perciò ascolto, rispetto e dialogo sono
tre categorie di quella morale.
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L’ascolto e il dialogo servono per il
reciproco avvicinamento e la reciproca comprensione.
All’opposto c’è l’io centrato su se stesso, l’egocentrismo morale. Tutti presi dal nostro egoismo e dal frenetico
consumismo abbiamo poco tempo
per ascoltare e per dialogare. E allora
ci rifugiamo nel pregiudizio, il quale
crea le premesse per il rifiuto dell’altro e chiude il confronto con lui.
La diversità dell’altro può essere
vissuta come ostacolo, minaccia,
pericolo, disagio, oppure come opportunità, arricchimento e risorsa.
Qui si delineano due diverse strategie verso l’altro. La prima sostanzialmente teme l’altro, la seconda
ne fa occasione di potenziamento e
di arricchimento delle situazioni. Si
parla spesso di “fragilità” dell’identità e si mette in evidenza come il
confronto con l’altro sia molto spesso avvertito come minaccia, come
pericolo per la mia identità.
La nostra identità è fragile al punto
di non poter tollerare che altri abbiano dei modi diversi dai nostri di
concepire e organizzare la propria
vita. Per questo cerchiamo di starne
e tenercene lontani. E questo avviene non solo a livello individuale,
ma anche a livello collettivo e so-
L’accoglienza è il primo contatto
con l’altro. Le diffidenze, i pregiudizi, gli stereotipi radicati nel nostro modo di pensare e la nostra pigrizia rendono incerto e difficile il
nostro rapporto con l’altro.
Un tema che ricorre in molta letteratura: racconti, romanzi, opere di
teatro, film ci parlano di come le
persone vivono questi problemi.
Nel recente film Il vento fa il suo giro, il rapporto con l’altro, con il “diverso”, è il motivo ispiratore della
narrazione. Una piccola comunità
di montagna sulle alpi piemontesi,
ormai abitata solo da pochi vecchi,
sta morendo. Di fronte all’arrivo di
un nuovo pastore di capre (un ex
professore francese che ha deciso
di cambiare vita) con moglie e figli,
il paese, dopo molte perplessità,
decide di accoglierli, si rivitalizza e,
sperando in una ripresa della sua
vita sociale ed economica, si apre
con entusiasmo ai nuovi venuti (significativa la scena del loro arrivo
nel paese rischiarato dalle fiaccole
e vivacizzato dalla presenza festosa dei suoi abitanti).
Ma, col passare del tempo, l’atteggiamento dei nuovi arrivati e i problemi
della vita quotidiana rendono la loro
diversità poco sopportabile e così negli abitanti della comunità riaffiorano le vecchie paure e le diffidenze nei
loro confronti. Iniziano a moltiplicarsi i contrattempi, le occasioni di
malumore e di crisi si fanno più numerose, scattano la volontà di difesa,
le ripicche e il risentimento, fino al
verificarsi di vere e proprie forme di
ostilità e di “rigetto”.
D’altronde, anche da parte dei nuovi arrivati manca flessibilità e capacità di adattamento alle nuove situazioni e ai valori della nuova comunità. Anche loro non si integrano
lui che viene “da fuori” della comunità) tornano a prevalere. Il pastore
e la sua famiglia se ne tornano via.
L’incontro con l’altro è fallito. Sia
per colpa degli abitanti che per colpa dei nuovi arrivati. Il paese, che
non è stato capace di integrarli, torna alla chiusura e all’isolamento. Il
conformismo e la pigrizia hanno
vinto sull’innovazione sociale.
La morale del racconto è che il conflitto distrugge non solo i rapporti
fra le persone, ma anche (e soprattutto) la capacità degli uomini di
evolversi nell’accettazione e valorizzazione di identità diverse. Ed è
questo l’aspetto umano più rilevante, perché lo sviluppo dell’uomo, soprattutto oggi, non può prescindere dallo scambio di valori con gli altri e dall’accettazione del diverso.
Il sogno di una comunità diversa,
forse presente negli abitanti al mo-
e mantengono rigidamente le loro
convinzioni e i loro comportamenti.
Sono due spiriti liberi che vogliono
vivere seguendo i tempi della natura e dei loro desideri: ma la loro è una
“libertà” che gli abitanti del paese
non capiscono e non apprezzano.
La comunità, perciò, regredisce da
quella iniziale, promettente apertura e le porte dell’accoglienza tornano a chiudersi. La sfida della convivenza con l’altro è stata persa. Le
vecchie abitudini e gli antichi stereotipi sull’altro (lo “straniero”, co-
mento della gioiosa accoglienza dei
nuovi arrivati (la “festa” è un segno
di speranza e di visione di un futuro
diverso), si traduce nell’amara conclusione espressa da uno dei personaggi: “Le cose sono come il vento,
prima o poi ritornano”. Una conclusione e un messaggio pessimistici!
L’identità dell’altro
Il problema dell’identità dell’altro è
una faccenda complessa. L’identità
di una persona è il risultato di vincoli e di opzioni: di ciò che è dato
all’inizio e di ciò che è scelto di volta in volta in relazione alle proprie
esperienze di vita. L’identità di ciascuno è determinata dalla rete delle proprie appartenenze.
Noi siamo il prodotto delle appartenenze della più varia specie (etnica, politica, religiosa, culturale, sindacale, professionale, familiare e
via dicendo). La nostra identità ha
aspetti molteplici. È di fronte a queste diverse dimensioni che stanno
oggi la complessità, la dinamicità e
la ricchezza dell’identità della persona umana.
Le identità sono plurali. Bisogna
perciò fare attenzione a non ridurre l’identità di una persona a una
sola dimensione, come può essere
quella etnica o religiosa o politica.
In un bel saggio recente, dal titolo
Identità e violenza 1, Amartya K.
Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, analizza le conseguenze
teoriche e pratiche di questa riduzione. Per capirne il significato, seguiamo il suo discorso: “Il mio primo contatto con l’omicidio avvenne all’età di undici anni. Era il
1944, nel corso degli scontri tra induisti e musulmani che hanno preceduto l’indipendenza indiana”.
Sen vide uccidere un uomo il cui
nome era Kader Mia. Questi “era
un musulmano, e per gli spietati
criminali indù che lo avevano aggredito quella era l’unica identità
importante” 2. La conclusione che
ne trae è che la violenza settaria oggi non è meno rozza.
È una grossolana brutalità che poggia su una grande confusione concettuale riguardo alle identità degli
individui, capace di trasformare esseri umani multidimensionali in
creature a un’unica dimensione. In
altre parole, quello che “legittima”
l’aggressione, l’assassinio, il terrorismo è considerare l’essere umano un
simbolo e non una persona: una
bandiera, uno stendardo da abbattere. L’altro conta solo in quanto appartiene a una religione, a un’etnia o
a una nazione diversa dalla mia. E
per questo merita di essere odiato,
perseguitato e di morire!
E non diversamente avviene
䊳
1
2
A. Sen, Identità e violenza, Editori Laterza, Bari, 2006.
Ibidem, p. 173.
DIRIGENTE 11|2007 䡵 25
SOCIETÀ
3
4
5
6
S. Amato, “Identità
umana e processi di
identificazione politica”, in Multiculturalismo e identità, a cura di C. Vigna e S. Zamagni, p. 295, Vita e
Pensiero, 2002.
A. Sen, cit. p. 19, c.vo
nostro.
R. Kapuściński, L’altro, Feltrinelli, 2007.
Ibidem, p. 10.
per l’identità politica. Assolutizzando, la nazione, lo Stato, la lingua, il
popolo, i processi di identificazione
degli individui impongono discriminazioni altrettanto assolute. E così “la
fede viene confusa con i fedeli, Dio
con la religione, l’uomo con la razza,
la società con lo Stato, il popolo con
l’etnia… Si crea una spinta al fondamentalismo, ad assumere per essenziale e definitivo quello che è solo un
aspetto dell’identità umana”3.
In realtà, questa contrapposizione
assoluta segna il destino degli individui e delle comunità perché cementa il loro rapporto con gli altri
in modo esclusivo. L’edizione originale del libro di Sen ha un sottotitolo molto significativo che manca
nell’edizione italiana: The illusion
of destiny. Il cui significato è che
quanto più si enfatizza l’esistenza di
identità esclusive e onnicomprensive, tanto più si ipotizza un destino
prefissato per gli individui e si rinuncia a considerare quella varietà
di legami che hanno storicamente
reso possibili interazioni feconde e
libere fra paesi e individui in campi
come le arti, la letteratura, le scienze e la stessa politica.
Ma è soprattutto nel presente che
questa impostazione costituisce un
approccio pericoloso ai problemi
umani, quando si parla di “scontro
delle civiltà”, secondo la celebre tesi
di Samuel P. Huntington. Come osserva Sen, la suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito dalla civiltà o dalla religione: “mondo occidentale”, “mondo
islamico”, “mondo induista”, “mondo buddista”). “L’insistenza, anche
solo implicita, sulla natura univoca,
senza possibilità di scelta, dell’identità umana, non è soltanto riduttiva
per noi tutti, ma ha anche effetti incendiari nel mondo…
La principale speranza di armonia
nel nostro tormentato mondo risiede semmai nella pluralità delle nostre identità, che si intrecciano
l’una con l’altra e sono refrattarie a
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divisioni drastiche lungo linee di
confine invalicabili a cui non si può
opporre resistenza… L’illusione del
destino esige un prezzo straordinariamente pesante” 4.
Perciò quanto più si opera questo “riduzionismo” delle identità, tanto più
si rischia di accrescere l’intolleranza
e la violenza nella società e nel mondo. La presunta identità unica degli
individui, basata sulla religione e la
cultura di appartenenza, diventa la
componente fondamentale di quella
militarizzazione delle menti e dei
cuori che scatena molti dei conflitti e
delle atrocità nel mondo attuale.
Diventa un’identità “assassina”, capace di radicare negli uomini un atteggiamento parziale, settario, intollerante, talvolta suicida, e di trasformarli assai spesso in assassini o
in sostenitori di assassini.
È dunque dal modo di considerare le
nostre identità e la diversità degli altri che può nascere la possibilità di
trovare una possibile via di uscita ai
tanti conflitti settari che insanguinano il mondo. In realtà le identità
di una persona, come le sue appartenenze, sono plurime e vanno considerate nella loro molteplicità. L’uomo vive al plurale. È infinita la varietà di motivazioni che spingono gli
esseri umani nella società, le loro affiliazioni, i loro impegni, le loro attività e creazioni (anche i culti degli
uomini sono innumerevoli: ci ricorda Salman Rushdie, saggista e autore di opere di narrativa, che solo in
India le divinità immaginate e venerate sono almeno 330 milioni). E,
perciò, infinite sono le identità che
qualificano gli uomini e le donne e le
loro interpretazioni.
Ci sono tante categorie diverse alle
quali apparteniamo contemporaneamente e l’importanza dell’una
non cancella l’importanza delle altre. Le identità possono essere anche in concorrenza e in competizione o in contrasto fra di loro, e una
loro gerarchizzazione varia a seconda del momento o del contesto specifico. E varia in maniera flessibile
e relativa. Non dobbiamo, dunque,
chiudere gli individui nella gabbia
di identità semplificate e univoche,
ma piuttosto valorizzare le loro relazioni, i loro contatti e la contaminazione delle loro idee.
La conclusione di Amarthya Sen è
dunque che il mondo è costituito da
esseri umani che hanno varie differenze, di cui quelle religiose e culturali costituiscono solo un elemento che si pone accanto alle altre
differenze di lingua, nazione, politica, genere, collocazione geografica e
via dicendo.
La complessa interpretazione
della cultura dell’altro
Sull’argomento dell’identità e sulla
complessa problematica che oggi lo
caratterizza vale anche la pena di
segnalare un’altro piccolo libro recente, intitolato L’altro 5, in cui il
grande giornalista polacco Ryszard
Kapuściński riporta i suoi pensieri
e le sue esperienze di corrispondente estero che ha girato il mondo e raccolto in numerose pubblicazioni i racconti dei suoi viaggi e
la voce dei numerosi interlocutori
incontrati sulle strade del mondo.
Egli ci indica i problemi e le difficoltà di un reporter che incontra
persone di un paese diverso dal suo
e che deve quindi “sintonizzare” la
sua cultura con quella delle persone incontrate. Queste persone è come se fossero composte di due parti: “Una delle due è l’uomo uguale a
noi, con le sue gioie e i suoi dolori,
i suoi giorni fasti e nefasti, che teme la fame e il freddo, sente il dolore come una sventura e il successo come soddisfazione e appagamento. L’altra sua veste, sovrapposta e intrecciata alla prima, è quella di portatore di caratteristiche
razziali, culturali e religiose” 6.
Le difficoltà del reporter sono costituite dal fatto che questo duplice
aspetto è mobile e dinamico, soggetto ad alti e bassi di tensione a seconda del contesto esterno e delle
esigenze del momento. Soprattutto
oggi che la definizione dell’identità
si è, per vari motivi, complicata ed è
divenuta, in certi casi, quasi impossibile, come sostiene il Kapuściński,
a causa dell’indebolirsi dei legami
culturali tradizionali.
䡵
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