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Mobbing e licenziamento per giusta causa

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Mobbing e licenziamento per giusta causa
Mobbing e licenziamento per giusta causa
Le accuse da mobbing, non provate, giustificano il licenziamento per giusta causa? In che modo il lavoratore
può ottenere il risarcimento per danni?
Definizione
Nella formulazione attuale con la parola mobbing si indica una forma di terrore psicologico realizzato sul posto
di lavoro nei confronti di uno o più lavoratori ben determinati, da parte dei colleghi o della stessa azienda. In
sostanza il mobbing si concretizza attraverso una condotta sistematica impropria, espletata attraverso atti,
parole, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità ed all'integrità fisica del lavoratore
(Monasteri - Bona - Oliva, Mobbing vessazioni sul lavoro, 2000, 8).
A titolo esemplificativo, le condotte tipiche mobbizzanti consistono nell'emarginazione (ottenuta attraverso
la non comunicazione e/o palesi atteggiamenti di ostilità), nelle continue critiche sull'operato del lavoratore
preso di mira, nella richiesta nonché pretesa di risultati impossibili, nella diffusione di pettegolezzi e maldicenze,
nel progressivo svuotamento delle mansioni con relativa dequalificazione dello stesso lavoratore, oppure
attraverso vere e proprie molestie anche sessuali.
Il tutto realizzando una sorta di progressiva escalation persecutoria, che potrebbe condurre a sofferenze
mentali, psicosomatiche e sociali del lavoratore, a cui consegue normalmente l'allontanamento definitivo
dall'ambiente di lavoro.
Autori del mobbing possono essere uno o più colleghi di lavoro (c.d. mobber), oppure la stessa azienda ed in
questo caso si parla di bossing o mobbing verticale.
Responsabilità del datore di lavoro
In base agli artt. 2, 4 e 32 della Costituzione, nonché all'art. 2087 c.c., il quale dispone: "L'imprenditore è
tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro", ed infine agli artt. 1175, 1375 c.c., il datore di lavoro è garante della sicurezza sul luogo di lavoro. Tale
concetto è stato interpretato in via estensiva ricomprendendovi non solo la sicurezza fisica dei lavoratori, ma
anche quella psichica, cosicché grava sul datore di lavoro l'obbligo di adottare ogni misura, oltre a quelle
specificamente previste dalla legge, idonea a tutelare l'incolumità e l'integrità psico-fisica del lavoratore
(Caccamo - Mobiglia, op. cit., VI; Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307, in Giur. it., 2001, 485; Cass. 8 gennaio 2000,
n. 143, in Dir. lav., 2001, II, 3).
Il mobbing costituendo violazione dell'art. 2087 c.c. configura un'ipotesi di inadempimento contrattuale
in capo al datore di lavoro.
Qualora il dipendente subisca, a causa delle persecuzioni, un danno alla salute, o comunque una lesione della
sfera morale, il lavoratore potrà dunque pretendere il risarcimento del danno, secondo i canoni
tradizionali della materia, asserendo una responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod.
civ. (Monasteri - Bona - Oliva, op. cit., 21). Residua poi, a scelta del lavoratore, la responsabilità
extracontrattuale ex art. 2043 c. c.
Onere della prova, mancato raggiungimento di essa: conseguenze
Per fondare la domanda di risarcimento da mobbing, gli elementi necessari per la prova da fornire a cura del
lavoratore sono: il fatto lesivo, l'esistenza di un danno in concreto e il nesso di causalità tra l'inadempimento e
il danno. In sostanza il lavoratore deve provare la condotta persecutoria, le vessazioni subite e l'esecuzione di
atti perturbanti (Viascomi, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in LD, 2001, 45).
A tal proposito va evidenziato che gli ostacoli che possono incontrarsi in tale percorso probatorio sono
numerosi. Infatti, non solo spesso è difficile dare la prova della reale dimensione dei fatti, cioè di come
offese o molestie siano state percepite dal lavoratore, ma talvolta diventa anche difficile riuscire a
dimostrarli, essendovi una totale indisponibilità a testimoniare di molte persone.
Tale comportamento, normalmente, si verifica o per la paura di eventuali ritorsioni da parte del datore di
lavoro, o perché le condotte illegittime sono state poste in essere dalle stesse persone chiamate a testimoniare
(Amato - Casciano - Lazzeroni - Loffredo, Il mobbing, aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, 2002,
140).
Il lavoratore avrà l'onere di delineare ed evidenziare i fatti, in maniera tale che, anche quelli
apparentemente innocui, sommati e ricollegati tra loro assumono quella carica lesiva, quel la
violenza offensiva, che li renda parte dell'azione continuata , che si definisce, appunto, come mobbing: a
tal fine sarà necessario dare la prova della reiterazione delle condotte all'interno di un certo arco temporale, in
modo da rendere visibile quel filo che fa di tanti separati episodi un'unica vicenda, che potrà, quindi, essere
configurata come mobbing.
Provati gli atti, i tempi e la cornice entro cui interpretare i singoli episodi, il lavoratore avrà assolto al suo onere
della prova, e sarà poi il datore di lavoro, secondo i principi generali a dover provare che l'evento lesivo dipende
da fatti a lui non imputabili.
Premesso quanto detto, va sottolineato che, nel caso in cui venga intentato un procedimento avente ad oggetto
il mobbing, il lavoratore che non riesce a raggiungere la prova, potrebbe essere legittimamente
licenziato per giusta causa.
A questo proposito la Cassazione con sentenza dell'8 gennaio 2000, n. 143, si è espressa, precisando che
le accuse da mobbing, non provate, giustificano il licenziamento ex art. 2119 cod. civ., per il venir meno del
rapporto fiduciario tra le parti. (Cass., 8 gennaio 2000, n. 143 in Dir. lav., 2001, II, 10).
Nel caso di specie vi era stato un primo licenziamento, in quanto la lavoratrice aveva rivolto accuse
diffamatorie, divulgate a mezzo stampa, nei confronti del capo del personale. Tale licenziamento,
impugnato da quest'ultima, si era concluso con la condanna della società alla reintegrazione. La società aveva
poi intimato alla lavoratrice un nuovo licenziamento, nuovamente impugnato da quest'ultima, che si concludeva
con il rigetto del ricorso.
La Cassazione chiamata ad esprimersi su entrambe le sentenze emesse, si è pronunciata, come già accennato,
ritenendo che, nonostante il reperimento delle varie fonti di prova sia difficoltoso, (considerando, le eventuali
sacche di omertà e, quindi, la difficoltà a produrre prove testimoniali), ciò non toglie che tali prove vi debbano
essere.
Nel caso in questione i fatti addotti a sostegno delle pretese della ricorrente sono stati ritenuti troppo generici,
determinando, così, il rigetto del ricorso formulato dalla lavoratrice, non ritenendosi dimostrata, in base alle
prove dedotte, un'ipotesi di mobbing. La Corte, ha, quindi, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta
causa, in quanto, le accuse non provate da parte della lavoratrice nei confronti del datore di lavoro, avrebbero
fatto venir meno in modo irreparabile il rapporto di fiducia intercorrente tra i due.
Risposta a cura di Salvatore Trifirò, Giacinto Fava lli e Francesco Rotondi
Fonte: Diritto e Pratica del lavoro-On line, Ipsoa Editore
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