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24. Laboratorio
24. Rispondenze tra proemio e finale del libro VI: «La legge del due» Ivano Dionigi, ha individuato – in particolare nei proemi e nei finali, parti programmaticamente forti – corrispondenze, formali e semantiche, verticali (tra proemio e finale dello stesso libro), orizzontali (tra proemi e finali di libri diversi). Ecco le relazioni interne al VI libro, il cui finale è a p. 513 ss. «Nella parte morale del proemio l’elogio di Epicuro culmina in questo riconoscimento: et finem statuit cuppedinis atque timoris (v. 25); e le poche testimonianze superstiti non faranno che avallare questo impegno primario di Epicuro – e, come vedremo, anche di Lucrezio – nel mettere la parola fine al desiderio e al timore. Ebbene: nel finale della peste, in un contesto non più rasserenante come quello del proemio, la cupido e il timor ricompaiono come il narcotico che paralizza gli appestati, ormai impotenti sia ad assistere i propri cari sventurati sia ad evitare la propria morte schifosa: vitai nimium cupidos mortisque timentis (v. 1240). A confermare la rispondenza proemio / finale sta anche la menzione di Atene: la benemerita Atene, patria del divino salvatore Epicuro, apre luminosamente il VI proemio (vv. 1 s. Primae ... / ... praeclaro nomine Athenae); Atene, teatro della devastante peste – potente metafora della misera condizione dell’uomo orfano della recta ratio – chiude desolatamente il poema (vv. 1138 ss.). Ed ambedue le menzioni sono introdotte dalla determinazione temporale quondam nella medesima sede metrica (v. 2 e v. 1138). Ancora in questa prospettiva verticale. Gli anxia corda contrassegnano gli uomini nati prima di Epicuro (v. 14); parallelamente – e l’identità della sede metrica lo sottolinea – l’anxius angor (v. 1158) ossessiona gli appestati tristi e stravolti (vv. 1183 s.). La forte iunctura, che Virgilio e Ovidio sentiranno il bisogno di attenuare (Aen. IX 88 timor anxius angit; Her. 13, 147 s. ... anxius ... / ... timor), comparirà ancora alla fine di verso una sola altra volta per fissare l’angoscia straziante dell’innamorato nel finale del libro III: sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem / quem volucres lacerant atque exest anxius angor (vv. 992 s.). L’innamorato come l’appestato, sottoposti allo stesso strazio». Esistono poi collegamenti orizzontali dei proemi tra loro e dei finali tra loro. Così i proemi dei libri III e VI hanno in comune la menzione del divino Epicuro (III 15 divina mens; VI 7 divina reperta), l’individuazione dei mali morali (avarities, ambitio, timor in III 59 ss.; cupido e timor in VI 25), una medesima sezione di versi (III 87-93 = VI 35-41). «La totalità di queste relazioni verticali ed orizzontali – una vera e propria solidarietà e circolarità di concetti, immagini, parole – innesca un processo reattivo che interessa altre parti nevralgiche del poema [...]. Strutture che simmetricamente si chiudono e si riaprono; parole tematiche ripetute periodicamente ad omologare il diverso e a fissare il medesimo: sembra il tentativo iconico di voler chiudere il reale entro analisi univoche e indurre il lettore a soluzioni obbligate. Di fronte a questa imperiosa compattezza si ridimensionano i rilievi spesso paratestuali e pretestuali di chi lamenta incongruenze, contraddizioni, incompletezza del poema: soprattutto quando si constata che non solo i proemi e i finali, ma tutto il poema fin nelle sue microstrutture compositive e linguistiche è governato dall’unica legge testuale dell’organicità strutturale e solidarietà verbale. [...]. Emerge con progressiva evidenza che il linguaggio lucreziano obbedisce al principio del raddoppio sia delle strutture del significante sia di quelle del significato. È una vera e propria legge del due che attraversa l’intero testo, nelle diverse forme di strutture simmetriche e antitetiche, concettuali e verbali, foniche e semantiche. E la ragione del raddoppio è «funzionale ... al rafforzamento dell’idea – dell’unica da comunicare –, alla tensione dell’attenzione, alla rappresentazione dei concetti. Per questo Lucrezio ama allineare, addizionare, accumulare, ripetere, variare la medesima parola o il medesimo concetto disciplinandoli secondo le potenti costrizioni della retorica». (Lucrezio, Le parole le cose, Pàtron, Bologna 1992, pp. 94 ss.)